Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
LA
PRATICA CHIARISCE LA TEORIA, PRECEDENDOLA NEL TEMPO" !!!
<<E qui [sulla respirazione diaframmatico-costale] sorge un altro contrasto: quello delle
opinioni, tra loro avverse, degli scienziati della voce. Ma il cantore deve prescindere da
elucubrazioni analitiche e applicare l'opinione che nasce dall'esperienza viva del canto e
dalle urgenze di problemi che talvolta si presentano improvvisi alla ribalta, nel pieno
svolgimento dell'azione scenica e del canto.>> (pagg. 77-78)
(Nella foto: Giacomo Lauri-Volpi e Claudia Muzio in "Turandot" a Buenos Aires nel
1926)
E mi dica un po', quegli "I" che sono tremendi come fa a farli uscire fuori così limpidi?
(da una intervista di Sergio Saraceni al tenore Giacomo Lauri-Volpi avvenuta a Roma nel
1962)
STILE DI VITA E DI CANTO
<<(...) l'idea e il gusto del bello precisano lo stile di ogni artefice dei suoni cantati
nell'arte di cogliere la realtà ideale.
Lo "spirito d'un'idea", d'una frase, d'una parola, d'un suono è tutto nel soffio, fatto in
"parte d'anima silenziosa e in parte di vibrazioni sensibili". Perché non sempre il suono
vibra: a volte è sussurro, modulazione impercettibile, un nulla indefinibile fra silenzi
musicali. Nessun autore, nessuna musica può suggerire e rendere questo mistero. Soltanto
la voce del cantore, in quanto "materia metafisica", è in grado di sfumarlo con aerea
inflessione e alato concetto. Né valgono didascalie e segni musicali. Talvolta nemmeno
l'autore li ha indicati perché non sentiti né presentiti. Il cantore flette la parola a suo
gusto, alla sua idea del bello, e si esprime al di sopra delle intenzioni del creatore
dell'opera. Il quale, in simile caso, sente la sua musica sublimata, trasfigurata in tal guisa,
che le sue note gli sembrano punti luminosi di un etereo tessuto.
(...) il cantore che si è costruita una coscienza vocale ascoltando la voce della sua
coscienza, concepisce il mondo e la propria vita come armonia: armonia di pensiero, di
sentimento e di volontà. Sicché, non esistono per lui gloria e vanità più nobili del proprio
culto per la libertà. Poiché non v'ha schiavitù tanto umiliante quanto quella che la gloria
infligge alle sue vittime. Di fronte ad essa crolla la struttura intera della personalità.
Questa si riduce a un fantasma, dietro il quale corre l'infelice cantore, fuori di sé per
l'alienata libertà di se medesimo. Squallido spettacolo di un'anima che non si sente più
pensare, cantare e volere; un'altra anima l'ha destituita e detronizzata: l'anima di quel
fantasma, di quell'ombra. Che sarà allora il canto di un essere caduto nell'errore? Egli
singhiozza, falseggia, sgambetta perché il pubblico riceva da lui tutte le sensazioni
fuorché quelle ispirate dalla presenza dell'intelletto universale che opera nel mistero dei
fenomeni e delle coscienze individuali.
Il falsificatore troverà in sé il castigo, presto o tardi, e nella sua stessa esistenza. (...) Le
note, anziché pullulare riversandosi dall'anima nella fluidità della voce, stentano a
staccarsi dalla laringe per dispersione di forze e mancato ricupero.>>
<<"Si dirà che il cantore interpreta idee d'altri". In realtà quelle idee deve farle sue e
viverle come se emergessero dalle profondità della sua intuizione, e rivestirle della sua
immaginazione, memoria e percezione, a ritroso, per renderle nella forma musicale della
propria voce, che trae la vita dalla vita del suo corpo e della sua anima. Gli stessi geni,
creatori d'armonie, ispirandosi e creando, altro non fanno se non ascoltare, in certi stati
d'animo propizi, la voce delle idee vaganti nell'universo. Il genio individuale interpreta il
genio universale nelle note musicali scritte; il cantore interpreta e riproduce entrambi con
la voce e con l'ispirazione. Il compositore sta come intermediario tra la Divinità e il
cantore, che pensa, sente e canta nel tessuto dei suoni, sempre docile e attento alle leggi
del numero. Assimilata la musica, il cantore volge la sua "vis" intenzionale e
rappresentativa verso il Divino, che ciascuna anima riflette in modi diversi.
Varie sono le forme d'interpretazione o comunione del cantore col divino musicale. Essa
può essere giudicata come un fatto mistico. Il cantore, letta e assorbita la musica, la
ripensa e la risente in carne viva, come se nessuna sensazione e rappresentazione esterna
gliel'avesse suggerita. Cantando, a lui pare di rivelarla a se stesso e agli altri, quasi per
subitanea evidenza o visione interna. Vale a dire che la musica s'identifica col suo canto
vivo e le note scritte con le note cantate.>>
Differenza tra regista cinematografico e regista d'opera lirica secondo il tenore Lauri-
Volpi!
Giacomo Lauri-Volpi: Cotogni diceva: "con la stessa emissione dell'acuto scendete giù
all'ottava bassa e voi troverete il punto d'appoggio" !!!
<<Cotogni mi diceva: Allerta, eh! non caricate i centri (...) il tenore deve cantare nel
centro, ma non può gonfiare il centro (...) innanzitutto il canto è alito vibrante, se questo
alito, se questo fiato noi non lo mandiamo alla cassa armonica, non lo mandiamo agli
armonici, e si canta di petto o si canta con l'addome, che succede? che la voce non trova
la via d'uscita, mentre la voce deve essere tutta passata fin dal registro basso (...) Cotogni
diceva: Attaccate gli acuti e poi scendete giù, con la stessa emissione dell'acuto scendete
giù all'ottava bassa e voi troverete il punto d'appoggio>>
Nella foto: Lauri-Volpi mentre canta ad 80 anni ancora in modo assolutamente eccelso la
romanza "Nessun dorma" dalla Turandot di Puccini al Gran Teatre del Liceu di
Barcellona nel 1972
<<il mio maestro Cotogni diceva: Figlio mio, canta nei centri, ma risolvi negli acuti,
perché il centro è proprio dei baritoni, il registro basso è dei bassi, ma non indugiate, non
ingrossate i centri perché aumentate il volume; IL VOLUME NELLE VOCI E' COME IL
GRASSO NEI CORPI, NON E' MUSCOLO. E questo dogma cotognano io l'ho avuto
sempre presente, e infatti non m'ha nociuto...e infatti forse sono una delle poche gole che
non ha avuto noduli alle corde vocali>>
Base fondamentale della pedagogia vocale è la ricerca delle risonanze e della "eco"
sonora: ricerca agevolata dall'inserimento simultaneo, all'atto della espirazione, del tubo
pneumatico sul tubo risonatore.
Il modo di respirare ha un'importanza non solo fondamentale, tecnicamente parlando, ma
addirittura vitale. Coloro che cantando inturgidano le vene del collo e diventano scarlatti
in viso, facendo continui sforzi nell'emissione di ogni nota, dimostrano che non sanno
respirare, dosare il fiato, né armonizzare le diverse parti dell'organismo, collaboranti nel
fenomeno della fonazione cantata. Non sanno cioè inserire, nel momento dell'emissione,
il tubo pneumatico sul tubo risonatore; questi, rimanendo disgiunti, impediscono al flusso
aereo e ai raggi sonori, prodotti dal corpo vibratore, di propagarsi ed arricchirsi di
armonici. Col dominio del velo pendolo, il cui opportuno abbassamento desta le
risonanze della maschera facciale nella regione di passaggio e acuta dei suoni, e permette
all'aria d'introdursi nelle fosse nasali e spandersi verso i seni mascellari e frontali, costoro
eviterebbero lo sforzo e la conseguente iperemia del collo e del viso.
La "respirazione clavicolare" è una specie d'impiccagione del cantante. La
"diaframmatico-costale" è la giusta respirazione, massime per la voce femminile. La più
complessa e completa è la respirazione cui cooperano torace, diaframma e addome
(l'addome partecipa alla respirazione come effetto, non come causa, comprimendosi per
l'abbassamento del diaframma), ma anche la più difficile e rischiosa, ove non si conosca
l'equilibrio del ritmo respiratorio.
[da: Giacomo Lauri-Volpi - "Voci parallele", capitolo intitolato "Metodi di canto" - pagg.
200-202 - Bongiovanni Editore, terza edizione, 1977]
Risonanze e bilanciamento tra Parola e Suono vocale secondo Giacomo Lauri-Volpi
[da: Giacomo Lauri-Volpi - "Voci parallele", capitolo intitolato "Breve storia del canto" -
pagg. 216-217 - Bongiovanni Editore, terza edizione, 1977]
[da: Giacomo Lauri-Volpi - "Voci parallele", capitolo intitolato "Breve storia del canto" -
pagg. 207, 219 - Bongiovanni Editore, terza edizione, 1977]
Chi, oggi, nel mondo dell'Opera, ricorda la voce del grande baritono piemontese che nulla
ebbe da invidiare alle più grandi voci di ogni tempo nel settore della stessa corda? (...) La
discografia non registra la straordinaria vitalità di quella voce che eseguì 70 opere di
repertorio. Le grandi voci si rifiutano all'incapsulamento della incisione. Il microfono dà
vibrazioni alle voci esigue, e le rifiuta alle insurrezionali. Quale aggeggio meccanico può
riprodurre fedelmente l'immensa risonanza della frase di "Amonasro": "Quest'assisa ch'io
vesto vi dica che il mio Re, la mia Patria ho difeso", con la quale Viglione, con somma
dignità e superba autorità, penetrava nelle orecchie e nel cuore degli spettatori? Frase
scolpita con vigoroso accento in ogni parola, che a Parma suscitò sbalordimento di cui i
vecchi melomani non hanno ancora perduto la rimembranza nostalgica.
Bergson, sommo filosofo, afferma recisamente: "E' l'accento a dare valore a ciò che
diciamo e a ciò che scriviamo. Ciò che stimo in un uomo è l'accento con il quale dice le
cose". Altrettanto va detto circa il canto melodrammatico, specialmente per il repertorio
verdiano. Una voce verdiana si distingue dalle altre appunto per l'accento, che mette in
risalto situazioni drammatiche, di violenza quasi selvaggia, quali si riscontrano nella
"Forza del destino", nel "Trovatore", nella "Luisa Miller". In quest'opera, ad esempio,
Rodolfo scatta come folgore nella tremenda esplosione tragica: "Maledetto il dì ch'io
nacqui, il mio sangue, il padre mio..." Senz'accento, senza dizione incisiva, tagliente,
rovente, quel brano non ha valore. Non significa nulla. Viglione Borghese aveva innato il
sapore, il gusto della parola cantata e declamata. Sempre, però, dentro della fonazione
tecnica, nella legatura dei suoni, nell'aderenza al testo.
[da: G. Lauri-Volpi - "La gioia di cantare" (Le grandi voci della lirica: Domenico
Viglione Borghese) - Musica e Dischi, agosto 1974]
(da: Incontri e scontri di Giacomo Lauri Volpi - "Cantare col cuore oppure con lo
stomaco?" - Momento-Sera, 4 giugno 1965 e Musica e Dischi "Si canta col cuore o con lo
stomaco?" - giugno 1965)
" (...) Il tenore dalla voce che scorre potente su una gamma inverosimile, il tenore dagli
acuti mirabolanti, il tenore, insomma, che si trova a suo agio quando sia richiesto di note
che superano la comune tessitura, e sono elettrizzanti per lo scoppio e il brillio del suono,
non si vale più unicamente di questi mezzi, ma ha aggiunto un'altra corda alla sua lira e
l'usa con giusto senso artistico. Lauri Volpi, ove occorra, smorza ora la voce, ne modera
la potenza, ne gradua il colore. Ha trovato la 'mezza voce', una sua 'mezza voce',
magnifica, non appannata, non di falsetto: la sua voce naturale dimezzata, appunto, ma
con gli stessi caratteri fonici che le sono propri. Così certi recitativi di media espressione
e le parti e le frasi liriche, le può colorire e le colorisce con più adeguatezza e con
maggiore efficacia artistica, e non deve attendere la grossa sparata per conquistare il
pubblico. Con questo non è da pensare che abbia evitato di salire sul suo cavallo di
battaglia e che non abbia stilato il suo repertorio di acuti e sopracuti abbaglianti da
mandare, come si diceva un tempo, in visibilio. Ancora una volta, dunque, egli è stato il
centro dello spettacolo [Il Trovatore] (...) "
"In tutta l'opera [Luisa Miller] si osservò come il colore della voce rispondesse allo
spirito della musicalità verdiana, e com'essa si flettesse alla disciplina di tanta effusione,
di tanta robustezza espressiva. Senza accennare ai primi quadri basterebbe aver colto
l'entusiasmo incontenibile con cui fu accolta la celebre romanza, cantata con lievità di
mezza voce e conclusa con ampio folgorio di note acute, e come animò con passionale
ardore la scena finale dell'opera, nella quale la voce di Lauri Volpi ebbe momenti di
commozione e di esaltazione drammatica, per intendere il significato delle acclamazioni
al suo indirizzo. Serata, per merito suo, di grandi emozioni!"
Non dimentichino i giovani un altro fatto sostanzialmente importante: lo studio della voce
implica l'esercizio respiratorio, cioè il rafforzamento dei polmoni e del diaframma e lo
sviluppo toracico. Ciò vuol dire combattere le tremende malattie dell'albero respiratorio e
assicurare al corpo un motivo di maggiore resistenza agli agenti esterni. (...)
Dopo tutto, studiando l'emissione vocale ed esercitando la voce, si giunge all'equilibrio
corporeo, all'armonia fisiologica allo sviluppo anatomico: alla salute insomma, con la
probabilità di scoprire nuovi orizzonti al nostro futuro, nell'affermazione della nostra
personalità.»
(da: "L'importanza del Melodramma e della Voce Italiana nella letteratura, nella vita e nel
costume del nostro Paese" - Uno studio redatto per "Musica e Dischi" da Giacomo Lauri
Volpi, in tre puntate - "Musica e Dischi", 1955)
(...) A questo punto s'inserisce nel discorso una regola particolare, che ho sentito sfruttare
fino alle estreme conseguenze soltanto da due cantanti: il Lauri-Volpi del periodo
migliore e Joan Sutherland. La facilità, la strepitosa bellezza di suono, la lucentezza, la
smaltatura, lo squillo trascendentale fino al re bemolle acutissimo di entrambi (re b. 4 per
Lauri-Volpi, re b. 5 per la Sutherland) certamente avevano alla base un'innata
predisposizione ad avvalersi del registro stratosferico. Ma questa inclinazione sarebbe
stata dilapidata in pochi anni o, comunque, non sarebbe stata messa in vetrina con tanta
suggestiva dovizia di suono, se nell'uno e nell'altro caso non fosse stata applicata la
regola alla quale accennavo. Questa: TANTO PIU' IL SUONO SALE, QUANTO PIU'
VA EMESSO CON MORBIDEZZA E DOLCEZZA. Forzarlo o soltanto cercare di
aumentare il volume, è nocivo. Sono l'altezza del suono e il completo sfruttamento delle
cavità facciali a determinare lo squillo degli acuti. Gli acuti e i primi sopracuti di Joan
Sutherland non sono dei "forti", ma dei "mezzoforti" ai quali la perfetta emissione
conferisce lo squillo dei "fortissimi". Il senso di purezza, di smaltatura sempre omogenea,
di facilità che dà l'ottava superiore della Sutherland, ha alla base questa particolarità
tecnica. Ma non è questione soltanto di suoni. E' che l'eleganza e la precisione delle
esecuzioni di Joan Sutherland sono direttamente legate all'assoluta assenza d'ogni sforzo
nel settore acuto; e così la prodigiosa limpidezza della coloratura e le magie d'una
vocalizzazione che a tutte le altezze incanta per il suo fluido nitore.
"Lauri Volpi sarebbe rimasto il suo unico esempio, modello e maestro, per questo aspetto
della sua formazione e periodo della sua evoluzione. E fu proprio a New York, credo, che
mi confidò di avere capito, soltanto dopo, interamente il significato e il valore della
lezione di Lauri Volpi."
Se Tito Schipa - "principe dello stile, maestro infallibile e sempre attuale di aristocratico
gusto interpretativo" - foggiò un Duca di Mantova di irresistibile eleganza salottiera,
perfettamente rispondente a una moderna concezione del 'tenore di grazia' (e al di là delle
Alpi gli diede la replica uno squisito Richard Tauber); e se Beniamino Gigli, a sua volta,
per circa tre lustri offrì al "Rigoletto" il prezioso contributo di una fluente e melodiosa
cantabilità - non c'è dubbio però che, Caruso a parte (e per qualcuno anche Caruso
compreso), se vogliamo individuare il Duca del secolo, costui non può essere che
Giacomo Lauri-Volpi, "il solo artista, per voce, qualità, volume, estensione, carattere,
temperamento", che seppe "darci un ritratto ideale di questo cinico eroe negativo".
Del resto, che Lauri-Volpi fosse un perfetto Duca di Mantova, se ne accorse l'arcigna
critica milanese fin dal dicembre 1920 allorché il ventottenne tenore presentò al Teatro
Dal Verme questo personaggio che, dopo il positivo esordio di Viterbo (sett. '19), nel
volgere di poco più di un anno aveva vittoriosamente interpretato al Verdi di Firenze (dic.
'19 e febbr. '20), al Municipal di Rio de Janeiro e al Coliseo di Buenos Aires (estate
1920), al Politeama Rossetti di Trieste (sett. '20) e al Politeama Genovese (ott. '20). "Un
Duca di Mantova quale da un pezzo non ne avevamo sentito", scriveva infatti il Ciampelli
all'indomani della trionfale 'prima' milanese; e aggiungeva: "Bisogna dir subito che ci
troviamo dinanzi ad un tenore di mezzi eccezionali: la sua voce è limpida, fresca,
flessibilissima, ed accanto al timbro robusto che può e sa assumere nelle note medie
possiede un tesoro di mezze voci nelle quali sfuma deliziosamente il suo canto. Ed è
anche intelligentissimo: ce ne dà la prova il senso d'arte col quale egli domina le sue
emissioni vocali, il buon gusto col quale compone il personaggio" ("La Sera", 24
dicembre 1920).
Logico il desiderio dei raffronti, sempre ardui, con un passato allora relativamente
prossimo: il Ciampelli scomodava addirittura Masini e Marconi, e nel ricordo di questi
due grandi predecessori non esitava a profetizzare a Lauri-Volpi "un grande avvenire".
Impegnativa anche se in fondo facile profezia, che vide il suo avverarsi già nel gennaio
1922 allorchè, a soli sedici mesi dall'esordio, Lauri-Volpi giunse a calcare vittoriosamente
le scene scaligere nella prima stagione del famoso settennio toscaniniano mettendo in
luce, ancora una volta quale Duca di Mantova, la sua voce "bella, limpida, dolcissima", e
confermandosi "tenore che ha mezzi eccezionali, e che una seria disciplina, quale si è
imposta, renderanno sicuramente un artista perfetto" ("La Sera", 16 gennaio 1922).
E le proporzioni del successo scaligero (poi ripetuto nel 1934 e 1943) si sarebbero ancora
ampliate nei decenni seguenti, che videro l'irresistibile Duca di Lauri-Volpi passare di
trionfo in trionfo nei principali teatri del mondo, dal Metropolitan al Colón, dal Covent
Garden all'Opéra, dal Real alla Städtische Oper di Berlino, dal Liceo all'Opéra di
Montecarlo, dall'Opera di San Francisco al San Carlo, dall'Arena di Verona all'Opera di
Roma, dove, nel maggio 1950, a trent'anni dall'esordio di Viterbo, cantò per l'ultima volta
"Rigoletto", "suscitando [. . .] l'entusiasmo nel pubblico per la generosità del suo canto e
per la precisa accentuazione conferita al personaggio".
Così Renzo Rossellini ne "Il Messaggero" del 20 maggio. - A Roma, del resto, il Duca di
Mantova di Lauri-Volpi ottenne sempre calorosissime accoglienze fin da quando, nel
marzo 1934, lo cantò per la prima volta al Teatro Reale dell'Opera. Scrisse per l'occasione
un critico anglosassone, James Robertson: "Of the singers [gli altri principali erano Toti
Dal Monte e Benvenuto Franci: G.G.], the first to be mentioned is Lauri-Volpi, assuredly
one of the most fulgent of Italy's glorious line of divos - a true descendent of Mario, of
Rubini, not since their time has there been a voice of such miraculous flexibility. The
sheer beauty of his mezza-voce, the thrill of his high notes - the most perfect in living
memory - secure for him a place at the head of present-day attractions. Nor is he only a
virtuoso as one might call Gigli. He is a consummate artist. Allied to his excellent stage
bearing, his lyric art presented to us a Duke of Mantua in whom we had no option but to
believe utterly. What girl, we asked, could have resisted the positively unhearthly beauty
of his tones as he murmured in her ear 'E' il sol dell'anima'? Here is a piece of singing that
will linger in my mind as long as I live [. . .] Lauri-Volpi's "Questa o quella" was nothing
to make a song about, but his singing in the second and last acts was a wonderful
privilege to hear (cfr. "The Record Collector", vol XI, n. 11-12, nov./dic. 1957, p. 250).
A sua volta Mario Rinaldi così riferiva di un altro famoso "Rigoletto" romano del maggio
1946 (famoso anche per gli accesi contrasti sorti fra il loggione e il direttore d'orchestra
americano, certo Lawrence, per il rifiuto di costui a concedere il 'bis' della "donna è
mobile" una volta tanto accordato dall'estroso tenore): "Giacomo Lauri-Volpi ha dato
magnifico rilievo al personaggio del Duca; nessuno, come lui, sa forse riprodurre la
spavalderia di questo poco simpatico libertino, senza contare che con i suoi eccezionali
mezzi vocali il Lauri-Volpi si è guadagnato subito il pieno favore degli ascoltatori [. . .]
Voce generosa, facile all'acuto ed alla mezzavoce, quella di Lauri-Volpi. Con mezzi simili
non si può non aver dalla propria parte il pubblico" (cfr. "Il Messaggero", 28 maggio
1946).
<<Dunque, abbiamo detto il 27 maggio, ma 27 maggio 1964, vale a dire il giorno prima
del "Corpus Domini" e due giorni prima che... che è nato il proprietario dell'apparecchio!
Ora, natura(lmente) come ripeto, quest'apparecchio... sono molto sensibili, ma arrivano
fino a un punto di vibrazioni registrabili, oltre una determinata vibrazione di armonici
non riproducono, allora la voce può subire dei cambiamenti, delle oscillazioni che nella
par(te)... nella voce naturale non esistono; è questa una delle ragioni per cui a me è
sempre dispiaciuto di registrare la mia voce.
Comunque, avrete sentito, quelli che vorranno sentirlo, che questa voce è sanissima a 72
anni di età ed è un fatto unico, dal punto di vista fisiologico, nella storia della voce
umana, perché nessuno a settantaduanni mantiene la respirazione e la voce fresca!
Oltre a ciò, io sto cantando seduto al pianoforte. Quando voi pensate che dei tenori
giovani di trent'anni devono, non solo devono stare in piedi, ma devono gesticolare,
portarsi su la pancia o appoggiarsi al pianoforte o a qualche co(sa)... mentre io, a
settanta(due anni) m'accompagno da me, non ho tempo neanche di pensare alle note
perché devo pensare a quelle del pianoforte, perché io non sono un pianista, non sono
Rubinstein. Tutto questo, dovete sapere, ad alcuni, questo, piacerà moltissimo, ad altri
dispiacerà, ma la verità non si può occultare!>>
[Segue la miracolosa esecuzione dal vivo del "Sogno" della Manon di Massenet, cantata,
seduto al pianoforte, da un Lauri-Volpi settantaduenne, ascoltabile al seguente link:
www.giuseppedeluca.it/Giacomo/il-grande-amico-alberto-borzi.html]
(Lauri-Volpi, in una registrazione audio di Alberto Borzi a casa del tenore di Lanuvio
quando egli aveva 72 anni d'età, parla delle limitate possibilità del registratore nel captare
la voce umana)
<<Iersera, mi perveniva, nitida all'orecchio sulle onde della Radio la voce di Caruso,
reincisa in microsolco. Non era la voce di un morto. Era la voce “ unica ”, la unica voce
sempre viva che sa, fuori del tempo, conciliare forza e carezza, umanità e divinità, densità
specifica e levità eterea, brunitura e lucentezza. La perennità di essa si attuava
perfettamente associata alla tecnica moderna della riproduzione fonografica.
Ed è che Caruso fu l'antesignano dell'incisione vocale, per la inaudita pienezza degli
armonici nel suo canto. Ho sempre amato quella voce, fin da quando la udii in un disco
cilindrico [l'Autore si riferisce alle prime incisioni acustiche fatte su cilindri di cartone
ricoperti di cera] su un curioso apparecchio a tromba, che moltiplicava le risonanze nasali
a detrimento delle sonorità superiori [chiaro riferimento ai limiti dell'incisione acustica],
poiché la voce di Caruso – se è lecita l'immagine- è un lingotto d'oro, tutto d'un pezzo,
che non consente interferenze o soluzioni di continuità. E resiste al tempo ed alle scorie.
Ma nell'ascoltare sulle radio-onde la inconfondibile voce, dalla fisionomia a me familiare,
riandavo con la mente al tristo destino che ne perseguitò, in vita e in morte, il portatore
quasi volesse punirlo del privilegio di aver sortito un'ugola e un cuore fatti apposta per
intendersi.
La voce che doveva conquistare al suo Paese l'amore ed il rispetto d'un'immensa nazione
straniera, e inaugurare l'era delle macchine fonografiche [e qui l'Autore conferma che fu
Caruso, con le sue incisioni, ad obbligare all'acquisto del fonografo o del grammofono
per poterlo ascoltare, e quindi contribuire a far, più velocemente, affermare l'industria
fono-grammofonica], era condannata a suscitare irriconoscenza e diffidenza nella terra
stessa che la generò e in cui fiorì. Sì, la storia insegna : Socrate, Scipione, Annibale ed
altri eccellentissimi personaggi non ebbero fortuna in patria.
La filosofia, la politica, la potenza militare suscitano ovunque forze contrarie. Ma gli “
Eroi del Canto ” dovrebbero trovare tutti consenzienti.
Con misteriosa ostinazione, una città, pur così piena di buon senso e ricca di sentimento,
nega tuttora l'omaggio postumo a colui che recò per il mondo il suo messaggio canoro
con tale rinomanza, da destare echi in ogni angolo della terra. Gli nega persino un'umile
targa marmorea sulla facciata dell'albergo dove morì.
E vi morì cantando. Così doveva essere. Il giorno avanti, aveva concesso audizione a un
giovane che voleva dar saggio delle sue capacità, eseguendo “ M'apparì tutt'amor ”.
Caruso ascolta assorto. D'un subito, vinto dall'emozione e, forse, colto dal presentimento
della fine imminente, scatta in piedi dicendo al giovanotto : “ Senti, figlio mio, così va
cantato questo pezzo ”.
E cantò accompagnato da Vincenzo Bellezza – il futuro direttore d'orchestra del
Metropolitan – l'intera melodia, quasi per risentirsi, ed assicurarsi di stare ancora
quaggiù, di aver ancora il conforto, la compagnia, il sostegno della sua voce. Il canto
profondo vola, per la finestra aperta, verso il mare, mentre lo sguardo del cantore
allucinato, spazia dalle pendici del Vesuvio alla verde Sorrento, all'irta pietrosa Capri.
“Marta! Marta! Tu sparisti. Di dolor io ne morrò”.
Da quella stanza d'albergo si era alzata la voce più dolorosa che possa scaturire da un
cuore in tumulto, alla vigilia della morte. Spettatori: il mare, l'aria, la luce. Gli stessi che
assistettero, agli estremi, il cantore infelicissimo della “Ginestra” [Giacomo Leopardi –
Recanati 1798 - Napoli 1837] e il dolcissimo poeta di “Didone” [Virgilio Marone Publio
– Andes 70 a.c. - Brindisi 19 a.c.]. Mai, forse, sentimento parola suono si erano così
intimamente adeguati per esprimere l'addio di un'anima alle cose di questo mondo.
Era destino che Caruso, per magica prerogativa dovesse preludere ai misteri dell'aldilà,
cantando. Poiché lui e la sua voce costituiscono l'unisono, essenzialmente connaturato,
senza possibilità di scissione. Nel suo isolamento, non poteva non afferrarsi a quelle
cartilagini, che, obbedienti a un cenno, affermavano la personalità del cantore nella sua
realtà. Amava perdutamente la sua città e ad essa voleva rivolgere il canto del cigno, pur
avendo giurato di non più metter piede al Teatro S. Carlo, per l'imprudenza critica di un
giornale che aveva affacciato riserve, alquanto acidule, intorno alla sua interpretazione
dell'”Elisir d'amore”.
Pedanteria e partigianeria – superflue in quel caso e rispetto ad una Voce di quella
categoria – avevano rasentato l'insolenza, per far piacere ad un antico e illustre rivale a un
ritirato dalle scene, che teneva cattedra di ortofonia [l'Autore allude ad un Celebre tenore
napoletano, predecessore di Caruso – Fernando De Lucia (Napoli 1860 – ivi 1925), è una
delle ipotesi]. In un accesso ed eccesso di amarezza, il vecchio “scugnizzo” si era lasciato
sfuggire la frase incriminata : “ U' presepio è bello, ma i pastori so' f …. assai ”. E i
partenopei – a quanto sembra – se la sono legata al dito.
Qualunque sia il motivo che, dopo oltre un quarto di secolo, non riconcilia ancora la città
giustamente famosa per il suo spirito profondamente generoso ed umanamente
comprensivo, resta il fatto sconcertante che Caruso non ha ricevuto dai suoi conterranei
gli onori che gli spettano mentre Forlì ha dato il nome di “ Angelo Masini ” al suo teatro
municipale; Cesena ha il suo politeama “ A.Bonci ” e.... un certo menestrello si vanta di
un'infinità di “ clubs ” intitolati al suo nome.
Perché, dunque, la salma di Caruso deve sentirsi straniera in casa propria? Non è ora che
in tanto dilagare di canzoni e voci eterogenee, nel tumulto di festivals e di concorsi, si
pensi alla “ Voce originaria ” delle più schiette e nitide melodie napoletane, e le si renda
onore come si conviene? Napoli e Caruso son due nomi inscindibili. Non è pensabile
l'anima canora partenopea senza evocare la voce di Enrico Caruso.
In varie occasioni, ebbi motivo di sottolineare l'iniquità della sorte toccata a questa Voce
che ebbe in sé la ragione della propria infelicità : “ il compito di render felici gli altri,
macerando se stesso. L'anima di un uomo, che non poteva sfogare la sua angoscia se non
sulla scena, distante dalla folla per l'interposta fossa divisoria orchestrale, si vide
inchiodata alla croce della sua voce. Caruso, appunto, odiava i concerti che lo
esponevano all'esame capzioso dei filistei.
Rifiutava le esibizioni fuori della ribalta, sentendosi personaggio, meglio che persona, del
suo dramma interiore. Il canto in lui nasceva da concentrazione, ansia, tormento :
supplizio della mente e flagello del corpo. Ove non giungesse ad accordare corpo e
mente, intorno alle sonorità musicali del suo essere, con la fiamma del sentimento e la
luce della fantasia, non avrebbe potuto attingere lo stato di grazia. Nel quale soltanto, era
Caruso.
Il che gli era impossibile nelle individuali esibizioni. Ed egli le rifiutava a costo di
rinunciare ad astronomiche retribuzioni. Questo pudore artistico, questa probità fece
grande e rispettato il suo canto. A lui la popolarità fu data per giunta. Non la cercò, non la
desiderò se non come premio legittimo a onesta fatica, in recite cariche di responsabilità e
di rischio [per dirla col Marafioti, alcuni decenni prima sul metodo di canto di Caruso : “
Così se la natura lo ha dotato della voce più bella, doveva a sé stesso e solo a sé stesso la
più gran parte del suo straordinario successo come cantante ed artista”]. Perciò la sua è
gloria permanente, nonostante la brevità della stagione terrena in cui la Voce operò
ardendo e rifulgendo sino in fondo. Voce invidiata e amata dai più. Avversata da molti, in
vita e dopo morte, quasi la sua fama fosse stata colpa o frode. Solitamente, si celebrano
mediocrità che non fanno ombra a nessuno.
E il teatro lirico è decaduto o deceduto appunto per sovrabbondanza di mediocrità, auree
soltanto per il prezzo che impongono. Nondimeno, ogni nuovo venuto si fa chiamare
disinvoltamente “ Caruso ”, quando non voglia esser proclamato, dai prezzolati accoliti,
superiore a Caruso. Insigne improntitudine, che trova sostenitori poiché la presunzione e
la malafede vanno sempre a braccetto. Ma la verità resiste alle più impensate ed abili
collusioni, e supera i limiti di tempo e di spazio: la “Voce dolente “ del Figlio di
Partenope resta, nonostante le manovre, il “miliarium aureum “, il punto di riferimento
per le voci di ogni tempo e luogo. Napoli se ne vanti, senza pentimenti e risentimenti.>>\l
"
4) "Voci parallele" - Garzanti, Milano, 1955 - Bongiovanni, Bologna, 1977 (3° ed.)
-------------------------------
- Pietro Caputo - "Cotogni, Lauri Volpi e... Breve Storia della Scuola vocale romana" -
Bongiovanni, Bologna, 1980
-------------------------------
Nella capitale dell'Uruguay, Lazaro e la Dalla Rizza cantarono l' "Iris", Fleta e la Dalla
Rizza la "Tosca", e la Besanzoni ed io la "Favorita". (...)
Mascagni non tralasciava occasione per manifestarmi giudizi apertamente favorevoli e
lieti pronostici sullo sviluppo giornaliero dei suoni, di cui facevo sfoggio nel'invettiva del
terzo atto e nella maledizione successiva.
"Caro Lauri-Volpi - diceva - Lei non si sente; ma io dal podio dell'orchestra sono
investito dalla pioggia di brillanti che l'impeto della sua voce lancia nello spazio con
generosità senza risparmio. Lei non è un lirico leggero. Vedrà, fra non molto, che Lei sarà
capace d'interpretare ruoli di maggior mole, che la sua voce splendente di giovinezza
potrà librarsi in più alti voli e attingere più arditi fastigi".»
[tratto da: Ricordo, scritto da GIACOMO LAURI-VOLPI, dei Dischi a 78 giri registrati
negli Stati Uniti (Filadelfia) nel periodo 1928-1929, e di come incise il 16 gennaio 1928
"A te o cara" (dei "Puritani" di Bellini) in tono con il do diesis sopracuto !!!]
--> https://www.youtube.com/watch?v=1amYn4TFlU8
--> https://www.youtube.com/watch?v=V5F8QmMPIAc
“Considerato come un caso eccezionale in tutta la storia del canto sia per le sue rare doti
naturali [pare che in sede di vocalizzazione arrivasse fino al la bemolle 4] che per la sua
longevità [ha cantato e registrato dischi in un arco di 56 anni] dovuta ad una tecnica di
emissione perfetta, unica nella sua epoca, che gli ha permesso di affrontare un repertorio
di eccezionale varietà (dalla Sonnambula a Otello). Padrone, al tempo stesso, di un legato
e di un controllo del fiato ereditati dalla scuola belcantista e di acuti di audacia
leggendaria, ispirati all’epoca romantica”(tradotto da: Guide de l’opéra, Fayard, 2001, pp.
439-440)
“Gli Ugonotti, eseguiti alla Radio italiana (…) mostrano un Lauri-Volpi che,
sessantaduenne, poteva ancora, a buon diritto, essere considerato, in queste tessiture di
stile antico, come IL MAGGIOR TENORE DELLA NOSTRA EPOCA”. (Rodolfo
Celletti, “Le grandi voci”, Roma 1964, p. 458)
“La vera statura di questo fenomenale tenore esigeva, come pietra di paragone, le
tessiture astrali, i fervori epicheggianti, gli amori, paradisiaci e disperati, insieme, delle
opere di Meyerbeer, di Bellini, di Donizetti, di Verdi. La sua maledizione, nella Lucia, era
qualcosa di indescrivibile, una specie di esplosione di pulviscolo d’argento; ma altrettanto
indescrivibile era la dolcezza con cui, nel duetto d’amore degli Ugonotti, saliva al do
bemolle usando il falsettone caro ai tenori di centocinquanta anni fa o giù di lì. Insomma,
Lauri-Volpi riscoprì, a suo tempo, le fonti più genuine del mito del tenore romantico e ce
lo ripropose. In questo fu -ed è tuttora- unico.” (Rodolfo Celletti, 1969, note di copertina
al microsolco RCA LM 20117 “La voce di Giacomo Lauri-Volpi 1928-1930”)
“Lauri-Volpi aveva una voce lunga come estensione, larga come poche e brillante nel
senso di unica. Non credo che sia mai esistita una voce più brillante di quella di Lauri-
Volpi. Aveva una voce squillantissima, fortissima (…) Era l’ unico cantante in grado di
far arrivare le vibrazioni della voce fino al loggione. Parlo di vibrazioni della voce, non di
voce” (Franco Corelli, intervista riportata nel documentario in VHS “Giacomo Lauri-
Volpi, una voce, un mito”, Editoriale Pantheon, 1993)
“Ha dato pagine di gloria alla storia della lirica. E’ stata una voce unica. Ha dimostrato
che con la tecnica si può cantare qualunque repertorio. La sua voce squillante, i suoi
famosissimi acuti, tutti li abbiamo ancora nelle orecchie”
“I suoi acuti erano fenomenali. I suoi incredibili acuti, che credo nessuno abbia mai
superato” (Rosa Ponselle, in: “Opera”, January 1977, p. 24)
“Era un fenomeno. Io non posso far altro che ricordare un fenomeno”. (Gianna Pederzini,
intervista pubblicata nel doppio LP TIMA 17 (Edizioni del Timaclub).
“Quando Lauri-Volpi svettava sugli acuti, non c’ era nessuno che potesse stargli dietro.
Anzi, dovrebbero imparare da lui come si fa a far gli acuti” (Giuseppe Taddei, intervista
pubblicata nel doppio TIMA 17, cit.)
La leggerezza e il "passaggio" alla zona acuta, spiegati da Giacomo Lauri-Volpi !
<<La nota di passaggio, il punto d'appoggio ch'è punto vitale della voce, è propiziato
dallo "spiritus levis", per cui il suono si redime d'ogni pastoia e vola alla regione eterea,
di cui partecipa nello splendore e nella penetrazione del timbro. (...)
Le voci razionali, superata la nota di saldatura che nella soprano e nel tenore corrisponde
al "Fa" e al "Fa diesis", non trovano difficoltà di ascendere sulla corrente fluida della
forma aerea dei suoni ed avranno la sensazione di sentirsi leggiere e brillanti come se
respirassero un'atmosfera superiore in alta montagna, e stessero a contatto dell'anima più
assai che del corpo.>>
Volpi al debutto, nel settembre 1919 - Il tenore di Lanuvio esordì in una delle opere più
impervie della letteratura tenorile !!!
Infatti Lauri-Volpi debuttò il 2 settembre 1919 nei "Puritani" di Bellini a Viterbo, con il
soprano Rosina Gronchi, il basso Paolo Argentini e il baritono Mario Gubiani.
Come poi confiderà nelle sue memorie: "Tornai al deposito di Macerata, in attesa del
congedo definitivo. Il Circolo Ufficiali possedeva, grazie al Cielo, un piano a coda
timidamente nascosto in una sala interna poco frequentata. Dedicavo gli afosi pomeriggi
estivi a studiare, accennando la tenera musica del Bellini, la cui tessitura arditissima
richiede uno stile di canto ed una estensione vocale... Di queste esigenze non mi rendevo
conto. Temevo solo che la memoria potesse tradirmi. M'ingannai. Ai primi di agosto già
cantavo sottovoce l'intera partitura e toccavo con facilità il FA naturale sopracuto scritto
nella frase 'Ell'è spirante, ell'è tremante, Anime perfide sorde a pietà'.
[da: "Una scuola romana di canto", conferenza del maestro Luigi Ricci - Accademia
Nazionale di Santa Cecilia - Sala dell'Accademia, 5 aprile 1957]
1922
Privo del corredo di studi e dell'esperienza scenica, che un faticoso tirocinio fornisce ai
neofiti del sacerdozio vocale, avevo afferrato nel primissimo esordio al Costanzi l'ala
della fortuna, arrestando l'attimo fuggente dell'opportunità. (...) Chi non profitta
dell'attimo è perduto. Io ne profittai con fermezza e ne trassi vantaggi che mi condussero
a definire le scritture della Scala e del Metropolitan in soli due anni di esercizio
professionale: caso unico, forse, negli annali del Teatro lirico. Reduce dalla ribalta del
Colon, mi accingevo a superare la prova Scaligera (...)
Più che il pubblico e la fama del massimo teatro milanese, temevo l'autorità di Arturo
Toscanini che doveva dirigermi nel "Rigoletto", l'opera che al Dal Verme fece parlare
ampiamente e favorevolmente della mia voce.
Per ingannare le apprensioni, accettai d'impiegare il tempo, che precedeva la data della
prima alla Scala, in alcune recite de "I Puritani" al teatro Malibran di Venezia. (...) Giunto
a Milano, non potei fare a meno di rivedere la Galleria rumorosa e gaia, il cuore pulsante
della Città ambrosiana, dove gli artisti tornavano sempre con gioia. Saluti, strette di
mano, abbracci s'incrociavano con esuberante vivacità. (...) Col decadere dell'Arte Lirica,
la Galleria di Milano finì col perdere l'incanto pittoresco e "boemio", di color locale, che
taluni, forse, evocano con desiderio sconsolato.
Il giorno della quinta recita mi ammalai di faringite, che si manifestò con un repentino
abbassamento di voce nelle ore pomeridiane. Avvertii sull'imbrunire il Direttore
Generale, l'ex baritono Scandiani, il quale, accompagnato da Lusardi, venne al mio
capezzale non per esprimere sentimenti amichevoli, ma per redarguire aspramente: "Con
quale criterio lei ha osato prevenire all'ultimo momento, a poche ore dallo spettacolo,
l'Impresa di un gran teatro, che avrebbe potuto in tempo utile provvedere per sostituirla
con uno dei tanti cantanti della sua categoria che sono a disposizione? Come si rimedia
ad ora così tarda? Questo è un tranello, un trucco, una rappresaglia. Per la soppressione di
una cadenza Lei ha voluto mettere in angustia l'Impresa con premeditata perfidia".
Mortificato dal male, irritato dalla ingiustizia dei sospetti, umiliato nella mia dignità di
gentiluomo, non potei tollerare oltre tanta violenza e scattai: "Esca immediatamente e non
mi costringa a mancarle di riguardo. Se ne vada; altrimenti le scaravento addosso ogni
cosa".
Il poveretto, che in fin dei conti compiangevo io stesso per il danno involontariamente da
me arrecatogli, non si fece ripetere due volte l'energico invito e partì furioso,
minacciando vertenze, processi e fulmini. Toscanini scagliò l'anatema: "Quel ragazzo non
canterà mai più sotto la mia direzione". Scandiani a sua volta, giurò: "Quel tenore non
metterà più piede alla Scala finchè io ne sarò Direttore Generale". Io rimasi in un fondo
di letto per quindici giorni con alta febbre. Quando, levatomi, esplorai la zona minata
della Galleria, dovetti cautamente arrestarmi alla periferia dove arrivava l'eco delle
detonazioni della maldicenza. Il giudice più benevolo stimava che il mio avvenire lirico
era compromesso irrimediabilmente.
Per molti anni, infatti, rimasi all' "indice" e fui classificato fra gli scomunicati reietti della
Scala. Si attribuì la interruzione delle recite non al male, ma ad un diverbio che avrei
avuto con Toscanini e all'ipotetica mia protesta per l'esclusione della cadenza. Le
invenzioni della fantasia collettiva fecero il resto e degenerarono in pettegolezzi degni di
isterismi ancillari. Così, una banalissima infreddatura mi creò una atmosfera irrespirabile
per circa otto anni nell'Italia Settentrionale e molta gente, coll'andar del tempo, credette e
fece credere alla menzogna (su cui gli astuti abilmente specularono giuocando
sull'equivoco) di una protesta in piena regola inviatami da Toscanini per motivi artistici,
come se alla quinta recita di un'opera alla Scala sia ammissibile un provvedimento
siffatto. Non sempre le rivalità adoperano le armi legittime del valore. La calunnia e
l'ipocrisia congiurarono attivamente contro l'oggetto della loro persecuzione, soprattutto
quando esso occultasi indifeso nella solitudine dell'orgoglio e dell'austerità.
-----------------------------------------
1929
(...) a Berlino l'attesa per l'arrivo della compagnia Scaligera aveva messo la febbre
addosso a milioni di Tedeschi. L'ingegnere Scandiani, il Direttore della Scala, che a
Milano aveva giurato ch'io non avrei più cantato alla Scala finché egli fosse rimasto a
capo della famosa istituzione, si era compiaciuto telegrafarmi testualmente: "Maestro
Toscanini comunicami lieta notizia sua accettazione cantare Rigoletto; Trovatore,
stagione Scala Berlino stop. Desidero esprimerle mia sincera soddisfazione Sua preziosa
collaborazione sia assicurata manifestazione di arte e italianità". Ed eccomi a Berlino!
Appena giunto fui chiamato alla prova. Il Maestro Toscanini mi attendeva, solo, in una
sala dell'Opera di Stato. Alla fine della canzone non eseguii, come alla Scala, la cadenza e
Toscanini si sorprese.
"Non fa la cadenza?" domandò.
"No, maestro. Mi piace renderle omaggio cantando quanto sta scritto secondo l'edizione
deputata che si fece a Milano" - riposi con sincera buona volontà.
"La ringrazio - replicò il Maestro - ma qui siamo a Berlino ed è necessario che la voce
trionfi".
Con la sua grande conoscenza del pubblico aveva intuito esattamente quanto doveva
succedere. Alla prova generale si permise l'ingresso al Teatro di Charlottenburg a tutti gli
artisti dei teatri lirici berlinesi, i quali raccolti in religioso silenzio seguirono l'eccezionale
saggio dal fondo della platea. L'edizione dell'Opera era la stessa di molti anni prima alla
Scala: Toti Dal Monte, Bertana, Galeffi ed io esecutori; Toscanini direttore. Alla grande
recita era accorsa tutta Berlino elegante, politica, intellettuale e mondana. I miei
compagni non ebbero una giornata felice. Le romanze più famose passarono sotto
silenzio. Si applaudiva soltanto ai finali degli atti. Ma, quando all'ultimo atto si levarono
dall'orchestra gli accordi della canzone, l'aspettativa si manifestò spasmodica attraverso il
mormorio di tutta la sala. La cadenza tolse ogni ritegno all'etichetta e le mani ingemmate
applaudirono come le mani autorevoli di tutte le autorità presenti, mentre la Galleria
fiammeggiava e urlava simile ai più fantasmagorici castelli dei fuochi di artificio. La
stampa del giorno seguente cantò inni alla magia di Toscanini. Ma venne il "Trovatore", il
Cavaliere dell'eroica ventura sul destriero galoppante della fantasia. Il Teatro di Stato, era
sovraccarico di umanità in quel pomeriggio del maggio berlinese, afoso di tempesta.
Arangi-Lombardi, Elvira Casazza e Benvenuto Franci, tutti eminenti artisti, sembravano
legati da una forza misteriosa che vietava alle loro voci di sciogliersi, alla loro arte di
rivelarsi. Sembrava che uno spirito di sconfitta aleggiasse nell'aria carica di funesti
presagi. Persino i cori Scaligeri, abitualmente attenti, sensibilissimi alla disciplina e
magnifici, stentavano, in quel pomeriggio, a ubbidire al braccio imperioso del Maestro.
Era necessario che io mi salvassi e con me la dignità, la fama, l'onore della tradizione
lirica italiana. Quando l'orchestra iniziò la cabaletta col tempo tradizionale ed io
proseguii, accellerando il ritmo e scolpendo le frasi nella voce come lo scalpello la figura
nel marmo, e lanciai il "do naturale" acuto, che parve una chiara rutilante sfida allo spirito
sconvolto, il pubblico scattò, come un sol uomo. Con la mente tornai agli episodi di
Milano e di Bologna, ai commenti maligni, all'ostilità diffusa, alle minacce aperte della
Direzione della Scala, alle umiliazioni sofferte, alle invenzioni denigratrici dei piccoli
uomini e non potei fare a meno di meditare sulla profonda, miracolosa logica della
Nemesi morale. Ecco: là, a Berlino, il famoso complesso del più celebrato teatro del
mondo, diretto dal più grande Direttore d'orchestra del mondo, composto dei più noti
artisti del mondo; quel complesso che aveva tentato di tarpare le ali all'uccellino appena
volato dal suo nido, era stato salvato nella maniera più strana e miracolosa dall'uccellino
fattosi adulto ed esperto nei lunghi voli delle robuste ali! Molti dei giornalisti berlinesi,
che nel "Rigoletto" avevano intestato gli articoli al nome di Toscanini, nel "Trovatore"
cambiarono, dedicando il posto d'onore al protagonista dell'opera. Più che l'esito mi
rimarrà impresso nell'anima il ricordo delle varie contingenze, che il destino combinò in
maniera ch'io trionfassi con la generosità, col perdono, con la dedizione disinteressata
sopra tutti e tutto, e a Berlino di quel giro non rimanesse che la memoria di un artista, di
quello che non apparteneva all'Istituzione milanese e che da questa, in altri tempi, era
stato allontanato come un intruso. Quando la Compagnia tornò in Italia appena si parlò di
Giacomo Lauri-Volpi. Toscanini, ciò nondimeno, riportò profonda impressione dalla
facilità con cui avevo potuto passare con identico risultato dal Rigoletto al Trovatore.
"Ecco un Arnoldo! - mi disse. - L'anno venturo per il centenario di Rossini esumeremo il
Guglielmo Tell".
Da Berlino continuai da solo il mio giro. Anche a Vienna e a Budapest ebbi accoglienze
straordinarie. In nessun paese latino ho trovato il fanatismo che i Tedeschi, gli Austriaci e
gli Ungheresi manifestano nell'udire i cantori italiani. E, si badi bene, son tutti pubblici
colti, raffinati, sensibilissimi. Forse la dolcezza della lingua italiana eminentemente
vocale, la facilità e la libertà dei suoni e la luce splendente del timbro dànno a loro una
gioia fisica incontenibile più forte di qualunque ripiegamento di coscienza critica, di
abitudini sentimentali a peregrine allegorie di saghe nordiche.
“Purtroppo mi è stato possibile ascoltare Lauri Volpi [in teatro] solo poche volte. Me ne
ricordo una con particolare emozione. Nel ’58, mentre stavo studiando “Turandot”, una
sera mi recai a Caracalla per assistere a una recita dell’opera pucciniana interpretata da
lui. Ho avuto un vero choc: la parte di Calaf fatta di squilli, di incisività, di canto eroico e
di “bel canto” insieme, emergeva completa in tutto il suo fascino; e la prova di Lauri
Volpi mi pareva insuperabile. “Turandot” era un’opera scritta per lui e forse per nessun
altro. Per un anno chiusi lo spartito, convinto che non avrei mai potuto reggere al suo
confronto. Un anno più tardi, spinto dalle continue pressioni degli impresari, accettai di
portare in scena quest’opera. Ma l’interpretazione di Lauri Volpi mi è sempre rimasta
davanti agli occhi”.
Il tenore Giacomo Lauri Volpi indica l’esatto punto dove “appoggiare” la voce :
(da: G. Lauri Volpi - “A viso aperto”, Corbaccio, dall’Oglio editore, 1953, pagina 333 :
Diario, 11 aprile 1950)
Il segreto di Lauri Volpi, passato a Corelli, per non avere difficoltà negli acuti !
<<I visited Lauri-Volpi at his home at Burjasot, near Valencia, to ask him for advice
about my singing. He thought my voice was too heavy and that I compromised my ability
to have a good climax on high notes by singing my center too loudly. He wanted my
voice to float more. (...) Each year for thirteen years I spent a month in Valencia studying
with him. (...)
He would say, “Corelli, remember, the aria is three or four minutes long. In ninety-five
percent of the cases the high note is at the end. The more you push in the middle voice
the more difficulty you’ll have on the high note. When you do the high note well the
public applauds. When you don't it doesn't.”>>
<<Andai a trovare Lauri Volpi a casa sua a Burjasot, vicino a Valencia, per chiedergli dei
consigli sul mio canto. Riteneva che la mia voce fosse troppo pesante e che, cantando nel
centro troppo forte, io mi pregiudicassi la possibilità di raggiungere un autentico apice
negli acuti. Voleva che la mia voce galleggiasse maggiormente. (...) Ogni anno, per
tredici anni, ho passato un mese di tempo, a Valencia, studiando con lui. (...)
Egli mi diceva, “Corelli, ricorda, un'aria dura tre o quattro minuti. Nel novantacinque per
cento dei casi l'acuto è alla fine. Più spingi nella voce media più difficoltà avrai
sull'acuto. Quando fai bene l'acuto il pubblico applaude. Quando non lo fai bene non
applaude.”>>
(da un'intervista audio a Franco Corelli, nel programma radio newyorkese "Opera
Fanatic", condotto da Stefan Zucker, del 9 giugno 1990)
<<Un italiano d'America, il sig. Ignazio Cataudella - 4337 W. 159th Street - Lawndale,
California - mi scrive una lunga lettera, indirizzata a "Musica e dischi", in cui esprime la
sua indignazione per la campagna sferrata in America contro le voci liriche, vecchie e
nuove, fra le più insigni, del nostro Paese. Riferisce che, recentemente, il tenore R.
Tucker avrebbe detto ch'egli e il baritono Merril "possono benissimo star vicino a Caruso,
Titta Ruffo ecc." aggiungendo che, nella sua presentazione alla Scala egli ha fatto sentire
ai milanesi "come si canta" e dimostrato che oggi in Italia "non vengono fuori che
cantanti di secondo e terzo ordine".
Alla Radio, nella consueta trasmissione del sabato - asserisce il Cataudella - si è
trasmesso, tra l'altro il finale del primo atto della "Bohème" con tre diversi tenori:
Bjorling, Gigli, Di Stefano. La commissione di esperti di musica vocale lirica ha votato
unanime a favore dello svedese. "Vorrei che una voce della Sua autorità si levasse a
risarcire l'onore dei nostri artisti. Io non trovo parole per significare la mia esasperazione.
Leggo su 'Musica e Dischi' la pagina di L.V. e desidererei tanto che Ella dicesse una
parola in proposito. In attesa, la saluto distintamente".
Caro connazionale, cosa vuole che le dica? L'Italia ha dato al mondo l'esempio del
ripudio della musica operistica lanciando sul mercato milioni di dischi con voci
canzonettistiche in conserva. Sul Radiocorriere, qualche mese addietro, in una lettera al
direttore, un tale ha affermato che i più famosi nostri cantanti non meritano il benchè
minimo rispetto. Gli americani prendono la palla al balzo e tirano l'acqua al loro mulino.
Fanno bene. Tucker è un artista intelligente, musicalissimo, abilissimo. Canta con la
solidarietà dei suoi correligionari, che in America costituiscono una potenza formidabile,
tanto più che la stampa più diffusa e autorevole è in loro mani.
In questo modo non c'è da meravigliarsi più di nulla. Pensi che un illustre scrittore
francese definisce "La Divina Commedia": "una movimentata cronaca di Mercato
Vecchio". E' tutto dire. Per quanto riguarda la "Bohème", il premio, io presumo, sarà
assegnato allo stile più aderente alla musica pucciniana. E, per stile, non c'è dubbio, se
vogliamo mantenerci obiettivi, che Bjorling è superiore agli altri due tenori. La freddezza
di temperamento dello scandinavo dà alla sua interpretazione una linea di nobile
contenutezza e di raccolta intimità affettiva che si addice al "pretino" di Montmartre.
In disco va bene, ma in teatro? I nostri tenori si abbandonano all'afflato del sentimento e
indugiano sulla nota calda ma effettistica. L'americano giudica col cervello, non già con il
cuore. E la vera musica nasce dal cuore, altrimenti è scienza e non arte.
Ma che in Italia non ci siano altro che cantanti di secondo e terz'ordine, è un po'
esagerato. Basterebbero i nomi di Corelli, Bergonzi, Cappuccilli ed altri, per dimostrare
l'ingiustizia dell'asserto.
Però la critica musicale americana non da oggi soltanto manifesta pregiudizi sulle voci
italiane. Caruso, ad ogni prima recita al "Met" dava le dimissioni a Gatti Casazza, sotto
l'amara impressione degli strali lanciati dalla stampa contro la sua personalità. Di De
Luca, per esempio, era rituale ripetere che aveva cantato in "poor voice", e di Gigli i
critici non si stancavano di dire: "Gigli come sempre, ha voluto strafare". Cito soltanto
alcuni tra i numerosi esempi del genere, che abbondavano sui giornali dell'epoca.
Ma tali stonature non hanno impedito all'Italia di affermarsi come la terra feconda di voci
stupende e di dominare per secoli le corti d'Europa, quando era la schiava delle nazioni
vicine: un mosaico di razze eterogenee e di varie costituzioni politiche. Il bel canto è
gloria "tota nostra", come i latini dicevano della Satira. In ogni caso, se fra gli stranieri
esistono nobili voci di artisti, il merito va alla loro intelligenza cha ha saputo trarre
insegnamento e vantaggi dalla scuola dei nostri incliti campioni lirici, le cui voci fecero
la fortuna della industria discografica americana (Victor) e britannica (Voce del padrone).
E di ciò possiamo andare orgogliosi, e i colleghi stranieri ce ne debbono essere grati. Non
è vero, sig. Cataudella? Per la verità non pochi stranieri riconoscono di quanto il mondo
lirico va debitore all'Italia nostra.>>
All’Opera di Roma, dove chiuse nel 1959 la sua carriera nei panni di Manrico, campeggia
il suo busto marmoreo. Il nome di Giacomo Lauri Volpi è ben noto agli appassionati della
lirica. Si affianca a quello dei grandi tenori, da Caruso a Gigli, da Schipa a Corelli. Ma
Lauri Volpi non fu solo un cantante applaudito in tutto il mondo, ma anche uno storico
del belcanto, come attestano molti volumi ancora oggi di utile lettura. Basterebbe tra tutti
«Voci parallele» (Milano, 1955) in cui si mettono a confronto le migliori ugole del
passato e dei suoi tempi. Voce dalla straordinaria estensione di tre ottave, capace di
morbidi sovracuti senza deformazione del timbro, duttile e pastosa, Lauri Volpi aveva
nelle sue corde ruoli vocali di titoli molto diversi, come Gli Ugonotti di Meyerbeer e il
rossiniano Tell, le popolari Turandot, Rigoletto, Cavalleria, Otello e Bohème. Una
galleria impressionante di personaggi che ne costituì il prezioso lascito alla tradizione
lirica internazionale.
Dopo aver inserito nel suo repertorio una cinquantina di ruoli si ritirò dalle scene a 67
anni --> http://www.iltempo.it/cultura-spettacoli/2013/05/05/news/riflettori-puntati-sulla-
voce-del-tenore-lauri-volpi-887904/
Nel 1971 in un ultimo articolo corelliano scritto da G.Lauri-Volpi sulla rivista di Milano
“MUSICA E DISCHI”, intitolato “ Werther o le insidie del ‘salto di settima’ ”, nel
proseguire la testimonianza sulla relazione costante di studio e perfezionamento vocale
tra Lauri-Volpi e Corelli, ecco quanto ci viene raccontato nel dettaglio :
<<Una telefonata urgente da New York a Valencia. E’ Franco Corelli, il quale s’accingeva
a interpretare, per la prima volta nella sua carriera, il “Werther”, opera quanto mai
impegnativa per qualunque tenore lirico, e oltremodo rischiosa per un tenore di tipo
eroico, qual è il cantore anconetano, che mi onora della sua fiducia. Trovava difficoltà
nella romanza “Pourquoi me reveiller, o souffle du printemps”, che esige mezze voci
nella prima strofa, e slancio angoscioso, che rasenta la disperazione, nella seconda.
Momento culminante, in cui “Werther” declama i “versi d’Ossian”, allusivi al suo stato
d’animo.
I tenori lirici, eludendo l’intenzione dell’autore, eseguono allo stesso modo la prima e la
seconda parte del brano, smorzando quell’ “O soffio dell’april” anche nella risoluzione
che precede il finale dell’atto in cui “Werther” tenta di trascinare Carlotta all’amplesso
fatale.
Corelli, che possiede, ora, una voce elastica, capace di filature e di sfumature, non aveva
problemi da risolvere nell’eseguire fedelmente la partitura. Ma, ciò che lo rendeva
esitante era quel salto di “settima” sulla vocale “e” (reveiller). Per telefono, a cinquemila
chilometri di distanza, mi domandava quale fosse l’emissione più sicura di quella vocale,
la cui incertezza lo rendeva dubbioso se dovesse, o non, rinunciare alla recita.
Tutti i salti di “settima” sono pericolosi per qualunque gola, anche la più dotata e
privilegiata. Il segreto per superare l’ostacolo consiste nell’ “appoggiare” sul punto giusto
di risonanza la nota inferiore e non sorvolarla per precipitarsi sull’acuta. Assicurata la
prima, la seconda segue automaticamente per legatura. Nel telefono, ho fatto sentire a
Corelli quell’emissione, dopo averne verbalmente dimostrato il motivo, in base alla teoria
e alla pratica sulla quale, negli ultimi sette anni, abbiamo discusso applicandola con
risultati positivi e benefici, alla sua voce.
Teoria e pratica che Maria Ros m’insegnò, con il suo magistero prezioso, salvando da
fine prematura la mia voce. A riprova di tali mirabili e quasi prodigiosi risultati trascrivo
una lettera che, in data 7 aprile di quest’anno, m’invia uno sconosciuto:
“Io, francese, di Parigi, mi trasferii in Italia, abbandonando tutto: famiglia, amici, lavoro,
abitudini, per amore del canto. La vita non è stata facile, alla ricerca di una verità vocale
che nessun maestro sembrava conoscere. Perdetti così, in breve tempo, ogni illusione di
leggere il suo libro “A viso aperto” e successivamente “Misteri della voce umana”, “Voci
parallele”. Questi libri sono stati il mio “Vangelo”. Adesso compio 36 anni e dirigo una
scuola di canto dove cerco di mettere in pratica il Suo insegnamento, e posso dirle di
avere già conseguito ottimi risultati.
E’ una cosa meravigliosa! E questo lo devo a Lei, cher Monsieur Lauri-Volpi, e non posso
che gridarle la mia gratitudine: merci, merci. Ora la mia vita ha uno scopo, ed ho
coscienza di essere utile. La Sua vita, la Sua carriera sono esempio altissimo per i giovani
artisti di oggi, ed io intendo ad essi ricordarlo. Je vous souhaite toutes sortes de bonnes
choses. En toute gratitude, votre dovoué Claude Thiolas, viale Monfenera, 25/A, Treviso,
7 aprile 1971.”
Davvero consolanti queste testimonianze sull’efficacia di un criterio d’arte che, nato nella
mente di una cantatrice geniale, ha salvato numerose voci liriche dalla decadenza e
indicato il cammino giusto a cantori e maestri di canto, ignari della “verità vocale” cui
accenna il “francese di Parigi”.
Ma l’assiduo lettore di questa mia rubrica vorrà conoscere come ebbe a cavarsela l’amico
Corelli nel “Werther”. Ecco, telegrafa lui stesso: “Mille auguri di buona Pasqua in ottima
salute – seguirà mia lettera – Werther è stato grazie a lui uno splendido successo – io
resto ancora commosso per questo miracolo – sono vicino con tutto il cuore – Franco”.
Mia moglie, dal Cielo, sarà felice della luminosa affermazione della sua dottrina,
realizzata da una superba voce, che, al Metropolitan, continua a difendere la tradizione
del primato artistico del vero “bel canto” italiano.>>
<<Debbo parlare di me, perchè Corelli, nell’autunno del 1963 e nel successivo del 1964,
venne a farmi visita, con la consorte, qui, nel mio rifugio spagnolo. Si trovava in piena
angosciosa crisi di coscienza artistica circa la tecnica dell’emissione vocale e della
respirazione cantata. Crisi di coscienza, che si rifletteva sulla sua struttura fisica e il suo
stato psicologico, che lo induceva, nella pienezza della rinomanza e dei giovani anni, alla
delusione e al pessimismo. Imperversava la baraonda dei festival e delle voci strampalate
di esseri strani che gareggiavano nello strillo, nella sciatteria del suono e delle parole,
rispettando soltanto un ritmo incalzante: ritmo spietato come una maledizione. Nell’800
emersero i “poeti maudits”; ma tra essi svettavano geni luminosi, creatori di versi
fragranti di melodia verbale: un Baudelaire, un Verlaine, un Rimbaud: “fiori del male”,
ma carichi di effluvi inebrianti. In questo caotico ‘900, pullulano gli “chanteurs maudits”
che imprecano, protestano, si drogano, si suicidano e fanno scempio di corpi e di anime.
In tanto trambusto, anche il più accorto e affermato servitore del Melodramma avrebbe
subìto un opprimente sconcerto; una specie di “dubbio logico” ed anche “metafisico”.
Corelli temeva di smarrire la diritta via. Alcune note di famose romanze sfuggivano al
suo controllo. Ed era sul punto di non poter più contare su di sé e il suo avvenire. Decise
allora di recarsi a interrogare un veterano che conobbe l’epoca aurea del canto. E venne
qui con la sua Ferrari, immagine della fretta esistenziale. Anche Corelli aveva fretta:
fretta di scrutare, sapere, conoscere per decidere se dovesse continuare o smettere. Il caso
era pressante e, insieme, singolarmente patetico. Si trattava di distruggere un intimo
“complesso” a furia d’immediata reazione e con un bombardamento mattutino di prove e
riprove, imitazioni, discussioni, esempi. Per quindici giorni, tre ore al giorno, dalle undici
alle due, mi sottoposi, accompagnandomi al piano (la fotografia lo dimostra) all’improba
fatica di eseguire le più famose, ed aspre per tessiture, romanze del repertorio: dal
“Guglielmo Tell” ai “Puritani”, dalla “Gioconda” agli “Ugonotti”, dalla “Turandot” alla
“Manon” pucciniana. Sempre a voce spiegata, sempre seduto. Ed egli ripeteva, dapprima
timoroso e dubbioso, poi sempre più docile e franco, imitando alla perfezione, tanto che
alla fine, chi ascoltava dal di fuori, non distingueva più quale delle due voci appartenesse
all’uno o all’altro.
La teoria, i principi, le idee non bastavano. Soltanto l’esempio immediato poteva
condurre a rimorchio le note che, per oltre 15 anni, erano abituate a una respirazione e a
un attacco discutibili, per cui la colonna sonora subiva indecisioni e imprevedibili
sorprese. Il primo anno della nuova esperienza diede buoni frutti, ma tuttavia incerti.
Corelli aveva bisogno di sentire la voce dell’ultrasettantenne, capace in qualunque ora di
lanciare suoni nitidi e sicuri, che destavano in lui curiosità e incredulità, quasi che si
trattasse di un trucco o di un gioco di prestigio. Nel secondo autunno, l’esperienza fu
rinnovata. I dubbi si dissiparono. Corelli riuscì a maturare le idee basandole sulla
evidenza ormai riconfermata e assodata. Volle ascoltarmi anche nell’ “Ave Maria” di
Gounod e in “Mercè, cigno gentil”. Ripetè e imitò, non senza esitazioni, cantando sul
respiro.
Ma, tornato a New York, incise in dischi le varie romanze, eseguite secondo la nuova
emissione con risultati incontestabili. Karajan, a Vienna, gli disse: “Cosa ha fatto? Lei è
un altro Corelli. Magnifico”. Non è bello lettore, fare del bene spassionatamente,
disinteressatamente, svelando segreti, scoperti in 45 anni di carriera? Tutti insegnano ma
nessuno svela i propri misteri.>>
«Illustre Artista...
Di ritorno da Napoli ove si è dato il "Cyrano" al S.Carlo mi ero fermato a Roma. Le
avevo anche telefonato, ma lei era fuori casa. Ho dovuto perciò rinunciare a parlarle... ma
non posso - no - rinunciare a scriverle.
E a dirle che questo MIO "CYRANO" SCRITTO PENSANDO A LAURI VOLPI attende
che LAURI VOLPI LO RIVELI DEFINITIVAMENTE AL PUBBLICO poiché finora
non è stato che "ACCENNATO" malgrado la eccellente volontà degli interpreti, bravi
colleghi, diligenti, volenterosi, ai quali io sono grato. Vuole?...
Se i suoi colleghi minori hanno portato successi "personali" notevoli, pensi quali trionfi
l'attenderebbero!... Il povero librettista Henri Cain - mancato sei mesi fa - mi diceva, a
Parigi, che soltanto se interpretato da lei forse Rouché avrebbe ripreso l'opera all'
"Opéra".
Ma nel mondo intero il lavoro avrebbe degna accoglienza, se a capo degli interpreti ci
fosse lei! E la "tessitura" è assolutamente la SUA!... E i "pianissimi" suoi sarebbero
deliziosi; come i suoi scatti entusiasmerebbero tutti i pubblici. Voglia studiare il "Cyrano"
Illustre artista... io mi metto a sua completa disposizione per tutte quelle modifiche che
lei eventualmente richiedesse. Sebbene mi sembra che tutto sia a posto. Compia questa
bell'atto gradevole a me, e certamente più a lei. Il "ruolo" è il più completo che sia in
lirica. Lo riveli al pubblico: sarà un vero benemerito dell'Arte e del Canto e delle Scene...
Appena si saprà che Lauri Volpi è pronto nel "Cyrano" quanti teatri la chiederanno!!... Ed
ho finito!... Non saprei trovare altri argomenti!... A lei di rendermi felice!...
Suo affezionatissimo ammiratore.
F.to FRANCO ALFANO»
<<Esistono al mondo creature che non dovrebbero mai scomparire, per la vivida luce che
spandono intorno a sè e il bene che operano tra i bisognosi, nonostante i crudeli egoismi e
le atroci iniquità di questo secolo, sconvolto dal tecnicismo scientifico. Una di quelle
leggiadre creature dalla vivida luce si è spenta da poco, lasciando al buio un'anima che da
essa luce traea la sua ragion d'essere. Maria Ros, consorte di chi traccia queste linee per i
lettori di questa benemerita rivista, fu colei di cui così si parla nel libro "Voci parallele":
"Provvidenziale apparve presto il suo magistero, volto a sorreggere l'incanto, giunto in
pochi mesi, per naturale impulso, in primissima linea nel torneo internazionale delle voci.
A lui insegnò che la spontaneità non è improvvisazione, il falsetto non è mezzavoce,
l'acuto non è fine a sé stesso, la facilità non è sciattezza, lo scatto non è violenza, il
patetico non è sentimentalismo e, infine, che la parola, non legata all'idea e al suono, si
riduce a sillabazione scialba e insipida".
Maestra d'arte fu, dunque, Maria Ros e alla sua scuola non solo si maturò la voce di Lauri
Volpi, ma da essa trassero gli auspici le voci di Lily Pons e di Franco Corelli, che fruirono
dei suoi consigli, indirizzi e insegnamenti, del tutto disinteressati.
Per seguire il marito, rinunciò, giovanissima, a un'attività che le aveva assicurato successi
clamorosi al Colon di Buenos Aires dove sotto la guida di Marinuzzi e Bellezza eseguì la
"Traviata", il "Cavaliere della Rosa" e "I Pagliacci". Quest'ultima opera, accanto a Caruso
e a Titta Ruffo. Al Teatro Reale di Madrid, partecipò a una edizione, rimasta famosa,
della "Carmen", nella parte di Micaela, protagonisti Gabriella Besanzoni, e Bernardo De
Muro. Al Municipale di Rio de Janeiro, sotto la direzione di Mascagni, fu protagonista
femminile del "Guarany" di Gomez, avendo a fianco Michele Fleta. Con suo marito, al
Reale di Madrid, si fece applaudire nel "Rigoletto" e nel "Faust". Sotto la direzione di
Gui, al San Carlo di Lisbona, trionfò nella "Manon" di Massenet. E con De Sabata,
all'Opera di Montecarlo, interpretò il personaggio di Mimì nella "Bohème", con sì
squisita delicatezza d'accenti e soavità di voce che, secondo il critico del "Figaro",
Eleonora Duse, se fosse stata cantante melodrammatica, non avrebbe potuto superarla.
Maestra d'arte, dunque, ma anche Maestra di vita per esemplare abnegazione nel culto
dell'Ideale umanitario, per munificenza, nel dare a piene mani ai sofferenti e agli
indigenti. Partecipando alla lotta contro la fame nel mondo, offrì recentemente un milione
di pesetas alla Croce Rossa, un milione di lire alla Casa di Riposo per artisti in Milano, in
omaggio alla memoria di G. Verdi; centinaia di volumi e l'enciclopedia Treccani al
reclusorio di Regina Coeli in Roma, indumenti, suppellettili e un piano a coda all'Istituto
di Carità "un boccone per i poveri", diretto da religiosi in Roma; mobili, cimeli, cristalli,
ceramiche, oggetti preziosi, quadri, statue, lampadari al Museo Nazionale "Gonzalez
Martì" della sua città natale, Valencia. Nessun'altra artista, in vita, si è mai privata di cose
così intimamente legate alla propria personalità: così vivificate sia da una presenza, che
intensamente si afferma, donandosi, prodigandosi per puro spirito umanistico e
godimento morale. Alla sua morte, i Principi di Spagna, il Cardinale Fernando Cento,
l'Ambasciatore Marchiori, da Madrid, l'Arcivescovo Olaechea di Valencia, il
Sovrintendente Ghiringhelli della Scala, e numerose personalità dell'arte e della scienza
hanno reso omaggio alla memoria della "gran Dama", che seppe dedicarsi alla grandezza
dell'idea e all'idea della grandezza con somma grazia e amabile eleganza di spirito.
L'atroce perdita ha sommerso nell'angoscia e nella desolazione il consorte, che in lei
concentrava ogni sua aspirazione alla vita, e da lei traeva motivi di puro pensiero e
d'immortale speranza. (...)
E' impossibile che un'anima di così straordinaria bellezza e vigore, creatrice di un nuovo
metodo di tecnica vocale, basata sul soffio, che preservò, per il suo contenuto metafisico,
voci condannate alla prematura decadenza fisica non esista oltre la barriera della realtà
esteriore, sempre mutevole e deludente. Non v'ha dubbio che "altra terra nei superni giri
tra mondi innumerevoli, l'accoglie - e più vaga del sol - prossima stella l'irraggia" (mi si
consenta la parafrasi) quest'anima che tanto rimpianto ha suscitato fra persone e
personalità di varia categoria, grazie alle sue virtù e ai suoi meriti incontestabili, effettivi,
concreti. (...)>>
Nell'articolo volpiano intitolato "Maria Ros, maestra d'arte e di vita", apparso su "Musica
e Dischi" dell'ottobre 1970, Lauri-Volpi sottolinea anche l'apporto della moglie, il
soprano Maria Ros, al perfezionamento della vocalità di Corelli, quando afferma:
"Maestra d'arte fu, dunque, Maria Ros e alla sua scuola non solo si maturò la voce di
Lauri Volpi, ma da essa trassero gli auspici le voci di Lily Pons e di Franco Corelli, che
fruirono dei suoi consigli, indirizzi e insegnamenti, del tutto disinteressati."
«Il vero capostipite della Scuola Romana è senza dubbio Antonio Cotogni, nato a Roma
l'1 agosto 1831, che fu artista di rara nobiltà e cantante forse mai più eguagliato. Baritono
di stampo schiettamente romantico, seppe dare un'impronta romantica anche alla sua vita
privata: dall'ardente partecipazione garibaldina alla difesa di Roma nel 1849 (e se ne
ricorderà l'Eroe dei Due Mondi quando, qualche anno più tardi, andrà ad abbracciarlo nel
suo camerino nel corso di alcune recite trionfali a Nizza) alla dedizione assoluta cui
impronterà la sua estrema attività didattica.
Fu proprio Cotogni, con la dolcezza e levità di suono di cui lui solo era capace, a dare
slancio all'emissione a fior di labbra. Il suo timbro vocale, nobile e vellutato, sapeva
piegarsi alle inflessioni più dolci come agli impeti eroici ed agli accenti imperiosamente
drammatici. Fu insomma il più compiuto tra i baritoni e fra le circa 160 opere da lui
eseguite - record forse mai più eguagliato - emerse certamente la sua interpretazione del
Marchese di Posa nel "Don Carlo" verdiano che entusiasmò e commosse lo stesso
incontentabile Giuseppe Verdi.
Ospite assiduo dei teatri spagnoli, presente per ben ventitre stagioni a Londra e per
ventisei a Mosca e Pietroburgo, Antonio Cotogni conobbe successi davvero leggendari.
La sua voce, che si estendeva dal "la" grave fino al "si" acuto, affascinava e commuoveva
per la capacità, che l'artista possedeva in somma misura, di nobilitare anche i personaggi
più biechi e cupi. Era famoso per i suoni "a campana" "per cui la sua maschera vibrava
simile a custodia di bronzo" (cfr. G.Lauri-Volpi - "Incontri e scontri" - Roma, 1971).
Personaggio assai popolare nella Roma della fine dell'Ottocento, "zi' Toto", come
familiarmente tutti lo chiamavano, accettò la cattedra di canto al Liceo Musicale di Santa
Cecilia nel 1902, dopo aver insegnato per ben quattro anni al Conservatorio di S.
Pietroburgo. La sua scuola, fiorentissima, diede fama e gloria ad artisti illustri, tra i quali
vanno ricordati Augusto Beuf, Enrico Nani, Luigi Rossi-Morelli, Umberto Di Lelio,
Salvatore Persichetti, Mario Basiola, Mariano Stabile, Giacomo Lauri-Volpi. E baritoni di
grande prestigio, come Carlo Galeffi e Benvenuto Franci, si valsero ampiamente dei suoi
consigli e degli insegnamenti di questo grande cantante. Il wuale come annota Lauri-
Volpi "ha creato, inconsciamente, la dottrina metafisica del canto, studiato come
ascoltazione e intenzione (...) se si vuole che il suono non cada nel gorgo delle mucosità
tracheali e faringee, o s'arresti tra il collo e il palato, o si introduca in seni dove la
risonanza esclude armonici fondamentali" (cfr. G.Lauri-Volpi - "Voci parallele" - terza ed.
Bologna, 1977).
Ebbene, questa grande gloria del teatro musicale italiano e internazionale, che a
settantatre anni, in un pubblico concerto, aveva esibito una vocalità ancora integra e
salda, morì povero e dimenticato il 15 ottobre 1918. Una affrettata colletta tra i pochi
amici ed ex-allievi dell'artista permise di dare degna sepoltura ad Antonio Cotogni, dato
che per lui, che aveva portato la gloria del canto italiano nel mondo, non si mossero né lo
stato italiano, né il Comune di Roma, né l'Accademia di Santa Cecilia, di cui egli era
membro.
Ma Cotogni aveva gettato un seme che non poteva non dare i suoi frutti, primo fra tutti
quel Mattia Battistini che, nato a Contigliano, in provincia di Rieti, il 27 febbraio 1857,
fu, dopo il Maestro, il massimo baritono dell'Ottocento. (...)
Giacomo Lauri-Volpi è nato a Lanuvio, sui Colli Albani, l'11 dicembre 1892. Avendo
perduto assai presto entrambi i genitori, fu dapprima ospite di alcuni parenti di Ariccia -
altro paese posto sui Colli presso Roma - e quindi, al compimento del decimo anno di età,
fu fatto entrare al Seminario di Albano. Compiuti gli studi classici si iscrisse
all'Università di Roma, nella Facoltà di Giurisprudenza, ove ebbe a docenti illustri
personalità quali Enrico Ferri e Vittorio Emanuele Orlando. Nel frattempo, vinto dalla
passione per l'arte lirica, frequentava la scuola di Antonio Cotogni presso il Liceo
Musicale di Santa Cecilia.
La guerra interruppe gli studi del giovane Giacomo che si ritrovò così in prima linea,
avendo modo di mettersi in luce e di meritare autorevoli riconoscimenti. La dura vita di
trincea si concludeva ai primi dell'agosto 1918 con l'ingresso delle truppe italiane in
Gorizia liberata. Per curiosa coincidenza, in tale occasione, Lauri-Volpi si trovò accanto il
giovane Giuseppe Conca che diverrà poi per lunghi anni l'autorevole guida del coro del
Teatro dell'Opera di Roma, del teatro cioè che ha visto, più di ogni altro, la costante
presenza del tenore lanuvino.
Il 24 maggio 1919, ancora in divisa grigio-verde, Lauri-Volpi poté far conoscere per la
prima volta i suoi mezzi vocali ad un personaggio di prima grandezza: infatti proprio in
quel giorno ebbe luogo la sua audizione al Teatro Costanzi alla presenza di Emma Carelli.
Nel settembre successivo l'artista esordiva al Teatro dell'unione di Viterbo nei "Puritani"
di Bellini con l'augurale pseudonimo di Giacomo Rubini. Sùbito dopo si presentava sullo
stesso palcoscenico nel "Rigoletto" assumendo per la prima volta il suo nome di battaglia,
Lauri-Volpi, che diventerà leggendario. (...)
Interessa soprattutto sottolineare come egli abbia saputo impadronirsi della tradizione
vocale romana e proiettarla, in maniera nuova ed originale, in una prospettiva
strettamente legata al gusto ed alle esigenze estetiche del nostro tempo.
E' stato già rilevato in maniera esauriente il fatto, davvero sorprendente, che Lauri-Volpi,
in un momento in cui il canto carusiano si espandeva con irresistibile invadenza, abbia
sbarrato ogni concessione allo stile ed alla tecnica vocale verista. Quindi, il primo dato
essenziale che caratterizza la vocalità volpiana è costituito da questa riproposta del più
autentico stile romantico:
- CANTO SUL FIATO;
- RICORSO ALLE RISONANZE IN MASCHERA IN MODO DA RENDERE
LEGGERI I CENTRI E SVETTANTI E SICURI GLI ACUTI;
- MORBIDEZZA DI EMISSIONE;
- DUTTILITA' DI FRASEGGIO;
- USO DELLA MEZZAVOCE.
Insomma, quello stile aulico, peraltro in lui non compassato né accademico, che
proveniva al cantore romano dalla sua consuetudine con la gloriosa scuola di Antonio
Cotogni. Si aggiungevano a ciò alcune doti naturali di assoluta eccezione: un timbro
penetrante e di rara nobiltà; una sbalorditiva estensione di oltre tre ottave; una dizione
nitidissima ed incisiva; un sapiente uso dei coloriti.
E' stato lo stesso Lauri-Volpi ad affermare: "...la spontaneità non è improvvisazione, il
falsetto non è mezzavoce, l'acuto non è fine a sé stesso, la facilità non è sciattezza, lo
scatto non è violenza, il patetico non è sentimentalismo, (...) la parola, non legata all'idea
e al suono, si riduce a sillabazione scialba e insipida" (cfr. G.Lauri-Volpi - "Voci
parallele" - terza ed. Bologna, 1977).
Proprio da questa precisa convinzione estetica e stilistica, così tenacemente e
coerentemente perseguita per tutta la sua carriera ed oltre, nasce la singolare originalità
del suo canto, del suo plastico fraseggio, di quelle sue solari accensioni, di quelle
improvvise mezzevoci di un'intensità e di una carica poetica che, a mio parere, non ha
possibilità di raffronto.»
(da: Pietro Caputo - Cotogni, Lauri Volpi e... Breve Storia della Scuola vocale romana,
Bongiovanni, 1980)
<< (...) Essa è la più alta, chiara e squillante delle voci virili, che comprendono anche
quella del baritono (voce grave) e del basso (voce profonda). Potremmo aggiungere che il
timbro tenorile è il punto di passaggio, o intermedio, tra voce femminile e voce maschile.
Infatti la prima ottava del soprano coincide, quanto a frequenza, con l'ottava centrale e
acuta del T., nel quale la bivalenza dovrebbe apparire in pienezza d'armonia. (...) Per la
sua stessa rarità e delicatezza, questa voce è soggetta a variazioni d'ordine fisico,
fisiologico e psicologico. La sua normale estensione va dal mi della regione bassa al si
bemolle della regione acuta. Ma le voci meglio dotate toccano il do basso e raggiungono
il re bemolle sopracuto. In casi del tutto singolari, toccano persino il mi bemolle
sopracuto con la stessa emissione del normale si bemolle acuto. Ma questa è una rarità
fisiologica individualissima giacché, secondo la comune fonetica biologica tenorile, ogni
nota oltre il si bemolle non risulta altro che un falsetto irrobustito o "rinforzato".
La voce del T. nel '600 (secolo in cui trionfano le voci femminili che interpretavano
indifferentemente parti da donna e da uomo) e nel '700 (il secolo dei sopranisti e degli
eunuchi) non era in grande onore e veniva impiegata per lo più soltanto nel complesso
corale polifonico.
All'inizio dell'800 si verificò una specie di rivoluzione nell'uso della voce umana cantata.
Ai sopranisti succedettero, sulla scena lirica, i T. per i quali i famosi compositori
cominciarono a scrivere parti impegnative e rischiose che non si limitavano al canto
spianato, ma esigevano vocalizzi, abbellimenti, cadenze, filature, falsetti inverosimili, per
i quali venne in voga il cosiddetto "belcanto", appunto per gli abbellimenti e per i
virtuosismi che comportava. Simile scuola esigeva l'educazione della laringe, educazione
che si protraeva per sei o sette anni di studi severi e faticosi. Rossini gettò le basi di
questa scuola, ma si preoccupò di non lasciare all'arbitrio dei cantanti le cadenze e di non
permettere ai tenori (Tamberlick e Duprez) di lanciare i do acuti (cosiddetti "di petto") a
squarciagola, senza cioè giovarsi delle risonanze superiori o cervicali (dette note "di
testa"), da non confondersi con il falsetto, l'uso del quale andò via via scemando fino a
scomparire con l'avvento della mezza voce tenorile. La quale costituì la letizia dei teatri
d'opera nella seconda metà dell'800.
Per avere chiara conoscenza della voce di T., si ponga mente all'emissione preferita nei
diversi periodi, entro i limiti di un secolo e mezzo di storia: agli esordi emissione "mista"
negli acuti e sopracuti (a imitazione dei detronizzati sopranisti); emissione "nasale", da
Rubini ai successori; emissione "ingolata", da Caruso agli epigoni. Va da sé che a ogni
emissione corrisponde un diverso metodo di respirazione tecnica. I falsettisti
prediligevano il tipo clavicolare; i nasaleggianti il diaframmatico costale; gli ingolati il
diaframmatico addominale. Si distinguono i T. leggeri (o "di grazia"), dai T. lirici e dai T.
di forza (o drammatici).
Il T. di grazia (ted "leichter Tenor") canta con tenue e svelta voce, educata allo stile
misurato e alle agilità nitide e sicure: Ernesto, nel "Don Pasquale" di Donizetti, è T.
leggero.
T. lirico (ted. "lyrischer Tenor") è Rodolfo nella "Bohème" di Puccini: il suo è un canto
morbido e romantico e richiede slancio di emissione e profondità di sentimento.
T. di forza (ted. "Heldentenor") è l' "Otello" di Giuseppe Verdi, o Canio nei "Pagliacci" di
Leoncavallo: due tipi di voci (ribelli alle eccessive sfumature) che interpretano la gelosia
con accenti talvolta disperati. Richiedono quindi timbro metallico e rovente negli acuti e
rotondità quasi baritonale nelle note centrali. E', s'intende, una classificazione astratta.
Voci tenorili polivalenti possono tuttavia affrontare l'intero repertorio, grazie a una
fonetica avveduta e a doti naturali fuori dell'ordinario. In genere l'aspetto fisico del T.
corrisponde ai caratteri dell'androgino vocale.
E' il più adatto a rappresentare la figura dell'adolescente innamorato, o dell'eroe epico e
mistico, o del poeta sognatore.
(...) Date le caratteristiche, la voce del T. è la più ricercata per essere la più rara e la più
difficile a preservarsi. Se non dispone di puro timbro e di armoniose risonanze, molto
spesso risulta arida e sgradevole all'udito. (...) Nell'800, tra i T. più celebrati si
segnalarono García, Nourrit, Duprez, Rubini, Mario de Candia, Tamberlick, Donzelli,
Baucardé, Masini, Gayarre, Marconi, Tamagno e altri. (...)
Circa i modi interpretativi giova rilevare che nell'800 romantico, i T. usavano eseguire la
musica a mezza voce o in falsetto, risparmiandosi per le corone (o note tenute) e le
cadenze. Il che sollevò le reazioni famose di Wagner e di Boito, quando ascoltarono, a
Parigi, Rubini (il primo) e Mario de Candia (il secondo). S'imponeva l'economia della
materia-suono a scapito, non di rado, della parola e della situazione scenica. Nel periodo
verista successivo i T. dovettero rinunciare all'economia sonora per dedicarsi, con seria
devozione, al testo e alla realtà drammatica. Il dibattito della preminenza da darsi alla
musica o al testo è ancora da risolvere. Il T. cha sa conciliarli nel suo canto è quegli che
più risponde alle esigenze della natura e dell'arte e afferma più schiettamente la sua
personalità. La voce di T., quando è bene formata, educata e ispirata, è quella che desta i
più alti diletti dello spirito e rivela, nei momenti assoluti (o "stati di grazia") del cantore,
l'esistenza e la visione di un mondo al disopra del contingente.
Voci ibride - tra quelle del T. e di baritono - sono oggi di moda col prevalere dei
canzonettisti e degli "urlatori".
Voci scialbe e impersonali, oppure isteriche e sguaiate, esse rivelano la decadenza sociale
e un periodo transitorio della storia umana. (...) >>
LETT. - R. Celletti, "Il T. nell'opera del Seicento e Settecento", M.d'o 1963, n.3. p.109-
115; Id., "Il T. nel melodramma romantico e nell'opera contemporanea", ivi 1963, n.4,
p.146-155
[dalla voce enciclopedica "TENORE" scritta dal tenore Giacomo Lauri-Volpi per
l'Enciclopedia della Musica, Ricordi 1964]
La fortuna e l'umiltà di Franco Corelli: "La mia strada sta in Spagna, Valencia, Giacomo
Lauri Volpi" !!!
Così si espresse Lauri-Volpi, con la sua 'voce enciclopedica' dedicata a Corelli, nella
"Enciclopedia della Musica" Ricordi del 1963, nei confronti del famoso tenore di Ancona
che fu suo allievo:
<<Ad onta della rapidità con cui era giunto ai grandi teatri, Corelli diede in quegli anni
l'impressione di dovere la propria fama più ad una eccezionale prestanza fisica che a
spiccate qualità di cantante. Prescindendo infatti dal colorito baritonaleggiante e dalle
caratteristiche del timbro - alquanto ruvido e nemmeno troppo lucente -, Corelli puntava
sull'ampiezza del suono, già allora notevole, gonfiando artificialmente il medium e la
zona di passaggio e forzando già sul la naturale acuto: il che rendeva il canto duro, poco
vario e fondamentalmente inespressivo. (...) è riuscito nell'intento di succedere, nel
repertorio, al cantante sul cui modello, dapprima attraverso i dischi, quindi dalla viva
voce, egli ha gradualmente modificato la propria emissione: e cioè al già citato Lauri-
Volpi. Questo non significa, tuttavia, che in Corelli debba scorgersi un "belcantista" o un
virtuoso, nel senso tradizionale del termine. (...) Vocalmente, Corelli sfoggiò un'ampiezza
e una vigoria di fraseggio impressionanti, ma, insieme, anche una fonazione accortamente
alleggerità nel medium ed in grado, perciò, di sfociare sia in suoni morbidi e modulati, sia
in estremi acuti sicuri, fermi e di grande espansione.
Data da allora la definitiva disponibilità di Corelli per le riesumazioni di opere come il
"Poliuto" (Scala, dic. 1960) o come gli "Ugonotti" (Scala, mag. 1962), entrambe eseguite
con esito largamente positivo (...)>>
E infine, ma non da ultimo, ecco la dichiarazione pubblica dello stesso Franco Corelli:
“La sera della mia prima Tosca è venuto ad intervistarmi un radiocronista della più
importante stazione radiofonica d’America e del Canadà in lingua italiana. La domanda
che mi ha posto è stata la seguente: “A che cosa deve Lei, Sig. Corelli, una carriera così
longeva?”.
Al “longeva”, caro Commendatore, mi sono messo a ridere ed ho risposto: “Che cosa
vuole che siano i miei quindici anni di carriera in confronto dei quaranta o più anni che
hanno avuto “i grandi” dell’epoca d’oro della lirica?”.
- “No, Sig. Corelli, intendo dire che in questi ultimi anni, molti tenori, sono usciti e sono
balzati in poco tempo alla popolarità, però, nel giro di pochi anni, si sono trovati nella
parabola discendente, oppure, alcuni di questi, hanno già smesso di cantare. Quindi
quello che volevo sapere da Lei, è, come fa a ritornare qui in America ogni anno, non
solo in piena voce, ma direi, in forma sempre migliore?”.
“Caro Signore” ho risposto, “la Sua è una delle poche domande che mi piacciono e Le
risponderò molto semplicemente. Il canto è un sacrificio e bisogna sacrificarsi per durare
a lungo, ma la cosa più importante è trovare la strada e la mia strada sta in Spagna,
Valencia, Giacomo Lauri Volpi.
Lei conosce questo famoso tenore, è lui che indica il cammino da seguire, un vocalizzo
io, un vocalizzo lui, una frase io, una frase lui, e in questa maniera che si potrebbe
definire una gara vocale io cerco di imitarlo e di rubare quanto più posso dalla sua
splendida voce e dal suo ineguagliabile imposto”.
Questa in poche parole è stata la mia intervista sul palcoscenico del Met alla prima di
Tosca.”
(da Lettera di Corelli a Lauri-Volpi datata 6 nov. 1968)\l "
Nell'Enciclopedia della Musica Ricordi del 1964, il tenore Giacomo Lauri-Volpi descrisse
in breve la vocalità del collega Beniamino Gigli in questo modo :
<< (...) il falsetto di sopranista lo servì a meraviglia in tutta la carriera. Costituiva la sua
vera natura vocale, nella quale egli trovava un riposo prezioso, durante la recita, nei brani
più ardui che, se cantati a piena voce, lo avrebbero sfibrato innanzi tempo. Ed è che il
falsetto aveva acquistato robusta sonorità e giungeva gradevole e suadente all'orecchio
del pubblico.
Altra singolarità di questa voce dal colore prezioso, il singhiozzo": una specie di colpo di
glottide, usato negli attacchi dei suoni di passaggio. Il che dava al canto del tenore una
espressione dolente e lacrimosa (...)
Le opere in cui si fece meglio apprezzare, "Gioconda", "Marta" e "Andrea Chénier",
dimostrano la sua predilezione per le medie sonorità, alle quali indulgeva con evidente
trasporto. >>
Infine, parlando del registro tenorile nella storia del melodramma, Lauri-Volpi sottolinea
ancora questo particolare "tema" della vocalità lirica italiana:
<<Circa i modi interpretativi giova rilevare che nell'800 romantico, i Tenori usavano
eseguire la musica a mezza voce o in falsetto, risparmiandosi per le corone (o note tenute)
e le cadenze.>>
"Aida", iersera, al Teatro dell'Opera, ha riscaldato i Romani. Non cantavo questa musica,
così sanguigna e statica, dal 1928. Per molti ero una novità, dato che la consuetudine ha
imposto un tipo di tenore drammatico o - in mancanza d'altro - lirico, anziché eroico,
quale la parte esige. Un Radames dalla voce flaccida e tronfia, diventa comico. Radames
è caratterizzato da una voce squillante, da un sentimento puro, da una passione sublime,
E' l'eroe per antonomasia, che l'amore e la morte trasfigurano. Così ho compreso. E,
iersera, credo di averlo reso davanti a un pubblico incuriosito.
Bechi, Amonasro, si è presentato nudo, unto di bitume. Come una "celeste Aida" sia
potuta nascere da un selvaggio simile, non è facile capire. Senonché l'originalità è
piaciuta perché sorretta da una voce ampia e risonante nella regione media e acuta, e da
un'intelligenza artistica d'alta categoria. La protagonista si è tuffata a capofitto nella
corrente verdiana, senza saper nuotare abbastanza. Non si è affogata per puro miracolo,
questa giovine voce, meritevole di cure e diligenze che la fretta di taluni le nega. In tal
modo non si doterà il teatro italiano di nuove reclute, robuste e sicure. L'intelligenza
soltanto potrà salvare questa voce che è sana e facile, ma troppo tenera per sopportare
pesi superiori alle sue forze. Laddove la Simionato, tutta eleganza sobrietà e disciplina
interiore, ha 'fatto' una Amneris che nessuno si aspettava da lei, avvezza a parti
vocalmente meno gravose. Il Ramfis di Neri, pieno di maestosità, ha tuonato come
Giove, dall'Olimpo della sua alta statura.
Il Maestro saltellava sul podio ad ogni cambio di ritmo e comunicava il suo dinamismo
alle masse. A Firenze, si allargavano i ritmi; qui, a Roma, si accellerano. Quale la giusta
fra le due esecuzioni? Ma Verdi che ci sta a fare? Un "andante" non è un "largo" e un
"allegro" non è un "allegretto". Ne consegue che il cantante viene agitato, esautorato
senza che il pubblico lo esima dalla responsabilità diretta, che dovrebbe ricadere intera su
altre spalle. Ma il pubblico non capisce; unicamente sente. Non si va ripetendo che la
musica è irrazionale? Vince chi meno pensa... Ma, personalmente, posso dire di aver dato
l'idea di come va cantato Verdi in "Aida", e il critico Rossellini del "Messaggero" me ne
ha dato pubblico atto dicendo che ho "eseguito verdianamente la parte, cioè con
profondità di sentimento".
<<Un degno italiano, Mastino del Rio - deputato al Parlamento - mi scrive: "Ho assistito
ieri alla 'Cavalleria' e le esprimo la mia ammirazione per la magnifica interpretazione. La
freschezza veramente giovanile, il timbro di voce, congiunto a finissima arte ci hanno
dato ieri un 'Turiddu' ineguagliabile. Le scrivo (...) perché ho conosciuto la superiore
nobiltà del suo spirito con la lettura di alcuni libri che mi hanno rivelato la tempra
adamantina del suo carattere e il miracolo di volontà cui è legato il suo successo artistico.
Auguro al mio Paese di saper creare in ogni tempo generazioni di cittadini la cui vita sia
animata da una 'volontà' e da una 'fede' pari a quelle che illuminano la sua vita.">>
<<Mi si domanda spesso perché rifiuto le repliche. La ragione è semplice: non si ripete
uno stato d'animo, né si rinnova un sentimento convertito in fantasia, appena dopo una
esaltazione interpretativa, in cui l'esecutore s'identifica con l'autore. D'altro canto, il
pubblico ha la pretesa di risentire l'emozione provata soltanto per egoismo, che non tiene
conto della fatica e del massimo rendimento dell'interprete. Ricordo - a proposito di
egoismo - che un artista ebbe la disavventura di rompere una nota durante una replica.
Non solo il pubblico rimase contrariato, ma, al gesto di cortesia, corrispose con una salve
di sibili all'infortunato.
Pre tre motivi, dunque, non si devono concedere repliche: uno di carattere "artistico",
essendo veramente assurdo che il personaggio torni sui propri passi nello svolgimento del
dramma; il secondo, di carattere "psicologico", data l'irripetibilità immediata d'uno stato
d'animo; il terzo, di valore "morale", ammessa la disposizione all'esigenza egoistica del
pubblico, che nessuna riconoscenza porta a non ferire la personalità dell'interprete
eccessivamente liberale con lui.
Aggiungerò una ragione d'economia vocale: l'energia di ogni nota emessa in teatro
equivale a molte volte quella impiegata nello studio privato e nell'intimità della casa. A
Rio Janeiro ho conosciuto un baritono che non lesinava i "tris" nel "Trovatore", con
l'evidente scopo di sopraffare i compagni. Ancora giovanissimo dovette assistere al crollo
della sua voce e della sua prodigalità.
Il pubblico ama la sensazione e vuol rinnovarla a qualunque costo. Non bisogna viziarlo,
quand'anche si debba rinunciare al clamore del transitorio trionfo. Salvare la voce: in ciò
consistono la scienza e la saggezza d'un cantore. Uscire dal mondo con la mia voce intatta
è il sogno ch'io vagheggio con l'anelito di educarla, perfezionarla, per poter dire a Colui
che me la diede: "Ecco, restituisco il dono, l'ho curato, ne ho moltiplicato i valori, me ne
son servito per il Bene e il Bello".>>
(dal Diario di Lauri-Volpi, 3 maggio 1950 - in: G. Lauri-Volpi - "A viso aperto" -
Corbaccio, 1953)
<<O LAURI-VOLPI, che trasportasti col tuo canto sublime le genti convenute nell'Arena
Romana di Verona - dove par che risuoni ancora l'elegiaco canto di CATULLO - Questa
Arena ha avuto in Te, novello figlio di Roma, col tuo trionfale e amoroso canto - in
"Rigoletto" e "Turandot" - il nuovo interprete e ideatore di questa consacrazione lirica -
offre con affetto GIOVANNI ZENATELLO>> !!!
(dal Diario di Lauri-Volpi, 16 settembre 1950 - in: G. Lauri-Volpi - "A viso aperto" -
Corbaccio, 1953)
Scrive, Bruno Spoleti : Ho scelto questa bella foto per un pensiero molto interessante che
- GIACOMO LAURI VOLPI - scrisse su - ALFREDO KRAUS - considerando che Lui
sui colleghi non era mai tenero e tantomeno generoso. Così si espresse : - " KRAUS ? IL
PRIMO TENORE LIRICO DEL MONDO : VOCE, INTELLIGENZA,
CONSAPEVOLEZZA, NOBILTA' LO RENDONO SENZA RIVALI " !!!
"My last teacher was Maestro Ricci, Luigi Ricci. And from him I learned le piccole,
grandi cose
[the “little, big things”]. It seems impossible that a little thing could be big, but that's how
it was.
He was with Cotogni until the latter's death, and he took away much from him. Cotogni
always said
to his students, “Ragazzi, saper respirare e sapere sostenere, si sa cantare.” [“Ragazzi, if
you know how to
breath and you know how to sustain, you know how to sing.”]
(da un'intervista a Magda Olivero di Leonardo Ciampa, aprile 2006, riportata a pagina
179 del libro: Leonardo Ciampa - "GIGLI" - Natick, MA, Arts Metrowest, 2014. 242
pages)
Questa targa, situata in Via dei Genovesi, nel Rione Trastevere, ricorda il baritono
Antonio Cotogni (Roma 1831-1918) ed è situata presso la casa in cui nacque. La targa,
decorata con un bassorilievo, è stata posta da "i concittadini, gli amici, gli ammiratori",
come leggiamo dalla lapide, cui si legge anche "auspice l'Unione Costituzionale di
Trastevere". Non è però scritto l'anno in cui la lapide è stata posta.]
Lauri Volpi ammonisce i giovani a "non rinnegare il passato ed a conoscerlo per amarlo"
- "E la stampa stessa conferma oggi l'eccellenza del vecchio stile, che mi permette di
restare 'l'unico tenore che canti Verdi verdianamente' " !
<<E' morto, stanotte, Aureliano Pertile. (...) Con lui scompare un artista serio,
coscienzioso, musicalissimo. Il timbro della sua voce non era dei più gradevoli ma
l'abilità dell'artista nel renderlo ad ogni costo accetto fu enorme: abilità unica nella storia
del canto. (...) Si può imitare il difetto, non il valore certo. E la gente non sa distinguere
questo da quello. Preferisce, abitualmente, il difetto. Né la voce di Caruso né quella di
Pertile sono modelli esemplari. Hanno una loro propria individualità sentimentale,
affettiva. Ma la scienza vocale dei due cantori, pur così diversi, non risponde alle norme
universali della fonetica biologica, tanto esemplare nel canto bonciano. Il che nulla toglie
all'eccellenza di quegli artisti e all'autenticità dei loro successi.
Pertile (...) nella conversazione sapeva rendersi piacevole ed ameno. Non era colto, ma si
giovava di una straordinaria intuizione. Fu magnifico nei due "Nerone": di Boito e di
Mascagni. Il mio "Nerone", al confronto, mi parve ridicolo. Tanto che lo cantai
unicamente a Roma per apertura e inaugurazione del Teatro Reale dell'Opera, nel 1928. A
Mascagni, che mi desiderava protagonista del suo "Nerone", suggerii Pertile, quando, una
notte, all'Hotel Plaza di Roma, mi chiamò a sentire l'opera non ancora terminata. Alla
memoria di Pertile m'inchino con lealtà ed ammirazione.
Quando apparvi nel 1919, sulla ribalta esistevano Caruso, famoso in "Pagliacci", Bonci in
"Ballo in maschera", Anselmi nella "Manon", Zenatello in "Aida", Paoli in "Sansone", De
Muro in "Isabeau", Lazaro in "Gioconda", Fleta in "Carmen", Schipa in "Don Pasquale",
Gigli in "Gioconda"; e, accanto a questi, Grassi, Bassi, Maestri, Merli, Pertile, Martinelli,
ecc. (menziono a caso) e una pleiade di artisti di seconda categoria, fra i quali due o tre
basterebbero oggi a far risuscitare la fortuna del melodramma. Laddove, tranne qualcuno
dotato di reali meriti, i cantanti che ora vanno per la maggiore non sarebbero stati
accettati dagli impresari famosi e dai non meno famosi direttori d'orchestra - quali
Mugnone, Mancinelli ed altri - se non come artisti di complesso.
L'esperienza vissuta mi autorizza a parlare con obbiettiva sincerità. Conobbi quelli e
conosco da vicino questi; e il favore costante del pubblico riconosce a me il diritto di
ammonire i giovani a non rinnegare il passato ed a conoscerlo per amarlo.>>
(da: G. Lauri Volpi - “A viso aperto”, Corbaccio, dall’Oglio editore, 1953)\l "
"Figlio mio (...) ti dico che morrai prima tu che la tua voce" !!!
<<Antonio Cotogni, mio Maestro, che nel canto seppe essere "Spirito" come nessun altro,
a me che lo visitai durante una licenza invernale e gli espressi il timore di perdere la pelle
e la voce nei disagi e nei pericoli della trincea, disse con chiaroveggenza propria di un
saggio, prossimo al gran volo :
"Figlio mio, non solo non morrai in trincea, non solo salverai la voce, ma ti dico che
morrai prima tu che la tua voce".
Mi tornarono sempre alla mente quelle parole che da tanti anni mi sussurrano una
certezza che va realizzandosi. In Cotogni morì prima la sua voce che il suo corpo. Io
sento che morrò vecchio con una voce giovine, piena di volontà, impregnata di spirito.
Per molti il cantare è divertirsi, passare il tempo più allegramente possibile. Cantano gli
ubriachi, gli uccelli in gabbia e i pazzi al manicomio. Invece il canto è libertà: uscire dalla
gabbia, salire in alto per educare, edificare gli animi e scoprire se stesso in quanto "essere
estetico" che, spiegando la mente, si riconosce e ripensa.
Io entrai in teatro e non vidi nessuna traccia di quella missione. Che dovevo fare? Si può
cadere per una scivolata; ma rimanere nella pozzanghera senza rialzarsi e innalzarsi è, più
che viltà, stupidità. Mi distaccai da tutto, e seguitai col mio ideale in cuore, quando
m'accorsi che il melodramma crollava e molti contribuivano in qualche modo a
demolirlo. Non mi volli far complice e pagai il mio atteggiamento con amarezze
frequenti. Ma l'anima di Antonio Cotogni sa che ho mantenuto fede al patto e ho creduto
a lui. Oggi, me ne trovo contento, perché ho fatto di tutto per diffondere il mio fuoco
sacro, propagandolo con l'esempio, le parole e la sofferenza. Non sono stato seguìto. Però
ho salvato anima e voce.>>
(dal Diario di Lauri Volpi, 31 dicembre 1951 - in: G. Lauri Volpi - “A viso aperto”,
Corbaccio, dall’Oglio editore, 1953)
Giacomo Lauri-Volpi indica come affrontare con saggezza vocale il ruolo di Arturo ne "I
Puritani" di Bellini !
<<Per me il canto è stato esclusivamente una realizzazione dell'ideale del BEL CANTO,
il BEL CANTO dell'Ottocento. Oggi cantano col "verismo", tutti strillano, tutti urlano!
Non hanno una "mezza voce", la voce dev'essere completa! La voce dev'essere
l'espressione dell'anima, altrimenti è espressione di un corpo.>>
--> https://www.youtube.com/watch?v=nRJ69u9zSV0
(Lauri Volpi 85enne parla di "belcanto" e della sua voce. L'intervista è stata realizzata
nella sua villa di Burjasot in Spagna)
<< (...) Quando la Ragione tutto critica, l'ispirazione e l'emozione muoiono. Guai se il
cantore, nel momento in cui canta di fronte a un pubblico esigente, si fa sopraffare dalla
mente critica. E' perduto. Bisogna che Ragione ed emozione, mente e cuore, si
trasmettano, in indissolubile circuito, i propri elementi razionali ed emotivi. Soltanto
allora l'artista trionfa su se stesso, sul pubblico, sullo spazio. "Mente, sentimento,
energia" collaborano su un piano superiore, dal quale la natura e la vita si dominano in
vista dell'assoluto. >>
(da: G. Lauri Volpi - “A viso aperto”, Corbaccio, dall’Oglio editore, 1953)
<< "Le Matin" di Anversa dice: "Lauri-Volpi conserve tout son prestige vocale et
scenique. Chose rare, ce chanteur d'élite se double d'un acteur... Sa voix, qui suscite le
paroxisme d'enthousiasme, a une souplesse dans le nuances, une pureté dans son style, et
une façon magistrale de doser le souffle, une virtuosité, qu'aucun autre ténor jamais n'a pu
égaler". E aggiunge, per finire: "Mais, malgré le succès étourdissant qu'on réserva au
célèbre ténor, il n'y eut pas moyen de lui arracher" le "bis" d'usage. Un bon point de plus
à son actif" (G. DAVENEL).
E' chiaro, mi sembra. Dunque, il più illustre critico fiammingo mi riconosce molte e belle
cose: non solo una voce capace di suscitare entusiasmi, ma purezza di stile, dolcezza di
sfumature, virtù sceniche e magistero nel dosare il fiato e, infine, quella dignità
disinteressata dell'artista che non ha bisogno di ripetere uno stato d'animo concedendo
un'assurda replica, per misurare un risultato, realmente ottenuto con i mezzi legittimi.
Quando mai, in Italia, la critica si è fatta eco di questa così complessa realtà? Mi è stata
sempre riconosciuta una voce fuori dell'ordinario, ma niente di più.
Nella conferenza della stampa qualcuno ha domandato: "Chi è, dopo lei, il più grande
tenore? Qual'è l'opera ch'Ella predilige?">>
Domande, una subdola, l'altra ingenua. E ho risposto: "Non esiste il tenore più grande,
ma, sì, il tenore, che gode maggior fama commerciale. Quando trionfava Caruso - che la
stampa e la pubblicità proclamava il più grande - in Italia gli si preferiva Bonci, e, prima,
De Lucia. Peraltro, è questione di gusti. (...) Le opinioni si dividono, i gusti si
contrastano. Il cavallo di battaglia? Non c'è cavallo di battaglia. Il nostro umore, i nostri
stati d'animo fluiscono nell'incalzante divenire. Esiste un'evoluzione spirituale, come
un'evoluzione biologica. Oggi mi sento in vena d'euforia e di benessere e canto Radames;
domani la tristezza mi opprime e provo l'urgenza di un canto molle, lacrimoso: mi sento
Werther, insomma."
Un giornalista ha espresso la sua sorpresa nel vedermi e sentirmi parlare con gesti sobri e
idee chiare. (...) >>
<< (...) a Bruxelles i giornalisti mi hanno rivolto la stessa domanda dei loro colleghi
d'Anversa. E' evidente che son tutti d'accordo nell'opinione che i tenori costituiscano, fra
gli uomini, una speciale categoria di animali di cui l'odiosità della superbia si fa
singolarmente visibile. E ho risposto: Ad Anversa mi è stata chiesta la stessa cosa. Non
mi si farebbe questa domanda se si pensasse ch'io sono un uomo almeno mediocremente
ragionevole. Dunque vi dico che se voi domandate a Schipa chi è il più grande tenore del
mondo, non esiterà a rispondervi ch'è lui. Gigli, similmente si dirà il primo di tutti. Ed io,
per non essere da meno, vi dico che sono io. Ma, come animale ragionevole, ho il dovere
d'affermare che il più "grande" dovrebbe avere la grazia del primo, l'espansione del
secondo, l'estensione e la versatilità del terzo.
Come vedete, una piccola trinità canora in una sola persona. Non è facile trovarla né
concepirla. La pubblicità, la longevità, la popolarità sono altre cose. Concorre a formare
quest'ultima anche la politica, oltre la commercialità e la frequenza di apparizioni in
pubblico. Il cinema non è estraneo a formare rinomanze iperboliche. Ma qui l'arte non
c'entra. (...) >>
Lauri Volpi: "...supplire al volume inesistente delle regioni centrali e gravi, l'accento, la
dizione che risparmia fiato e mantiene e sviluppa le articolazioni orali e proietta il suono
nello spazio" !!!
"A Lauri-Volpi, gloria del canto italiano nel mondo, a ricordo del suo battesimo d'arte in
questo teatro, Manon: 1920-1947"
"M. Lauri-Volpi incarne-t-il le ténor à la voix la plus naturellement belle que l'on ait pu
entendre au cours de ces 20 récentes années" !!!
<<Questa sera, "Rigoletto" all'Opéra. Il 20 ho cantato "Aida" (...) Non ho mai sostenuto il
terzo atto con tanto equilibrio. (...) il pubblico non potrebbe mostrarsi più effusivo e
fedele, fino a sfidare lo sciopero degli "autos" e del "métro". Taluni hanno percorso, sotto
l'acqua, decine di chilometri per venire a sentirmi. Il giornale "Opéra" ha scritto: "Le
miracle de sa voix, l'envoutement qu'elle exerce, le frisson qu'elle comunique, l'enivrante
chaleur qu'elle repand, l'irresistible attrait physique qui s'en dégage, tour à tour impérieux
ou caressant, insinuant ou tyrannique, aucun chanteur ne les aura dispensés avec une
pareille générosité. Sans doute M. Lauri-Volpi incarne-t-il le ténor à la voix la plus
naturellement belle que l'on ait pu entendre au cours de ces 20 récentes années, plus belle
que les voix de Schipa, Gigli, Pertile".
Mi sento confuso, il commento è superfluo. Che diranno le oche del Campidoglio
teatrale? Ma v'ha di più: "Les très grand chanteur qui est M. Volpi on le sent animé d'une
passion éclairée, en dépit de sa glorieuse fortune, à un art où tant d'autres ne voient qu'un
sordide métier". (Louis Beydts, Hebdomadaire "Opéra" del 22-X-47).
Apriti cielo! Non vi suicidate per questo, o emeriti amanuensi, o illustri redie della lirica.
Ma è ora che le Ninfe Egerie del "bell'italo canto" si ritirino in ordine e in pantofole.
Dovrei, dunque, imitare ancora le ideali forme che mi suggeriste a modello? Recatevi
all'estero a vedere come mi si rispetta. (...)>>
Diario, 4 giugno 1948: <<Umberto Giordano ha letto "Cristalli viventi" e mi scrive: "E' la
più bella pubblicazione scientifica, filosofica, critica e insieme poetica dei nostri tempi".
Sì, è una grossa esagerazione, ma suona, nei miei orecchi, a gloria; è il compenso più
insospettato ed insospettabile della dura fatica sostenuta in tanti mesi di studio di ricerche
e di concentrazione interna.>>
Lauri Volpi: "La scoperta della bellezza è un dono che fa chi canta a chi l'ascolta"!
Ricordo d'aver letto non so dove che nell'opera d'arte o in qualunque fatto artistico -
spaziale (scultura, pittura), o temporale (musica, canto, poesia) - il valore formale (forma
è l'inscindibile unità fisica e metafisica, di materia e spirito, di ciò che è e diviene, di atto
e fatto, di soggetto e oggetto) consiste in ciò che d'infinito è contenuto nell'esteriorità
della forma.
Il canto, dunque, come tempo o silenzio convertito in suono, è la materia. Per trarne quel
frammento d'infinito, bisogna convertirla in pura sensibilità. S'io canto tecnicamente,
meccanicamente, un brano musicale, non faccio che interrompere il silenzio fisico che mi
circonda e dare ritmo al tempo. Ma se nelle note infondo l'afflato spirituale, nell'atto
stesso immediato la materia-suono diventa alito d'infinito ed esprime l'indicibile a chi
l'ascolta, trasportandolo dal mondo della materia a quello delle forme. La bellezza non sta
nelle cose ma in chi le contempla. Tant'è vero che una stessa melodia acquista maggiore o
minore spiritualità secondo la pura sensibilità di chi le presta voce e interpretazione. La
scoperta della bellezza è un dono che fa chi canta a chi l'ascolta. Talvolta l'egoismo
dell'ascoltatore assume atteggiamento d'indifferenza di fronte a chi gli procura emozione,
e appena si degna di manifestare un lieve consenso. Per contro, la generosità dello spirito,
educato ai valori dell'arte, sperimenta urgenza di gratitudine verso chi gli ha rivelato un
mondo superiore e al rivelatore tributa riconoscenza e ammirazione. Il vero artista sente
appunto la necessità d'espandersi e di comunicarsi ai suoi simili quando siano ben
disposti, preparati a sacrificare la propria invidia e a umiliarsi nella contemplazione della
cosa rivelata. La bellezza è un tale fenomeno meraviglioso, che affratella tanto chi lo
manifesta quanto chi ne partecipa, per lo spirito di solidarietà universale verso quel
mondo magico in cui vivono gli artisti.
Diario 16 novembre 1950 (in: G.Lauri Volpi - "A viso aperto", 1953)
Profilo vocale:
Una voce di risorse eccezionali e un temperamento adatto alla scena lirica. La sua voce si
distingue per lo più tra i fan del "bel canto" e lo stile verista: la chiarezza, la luminosità e
la potenza negli acuti. Il dominio del registro vocale brillante è stato il principale delle
loro armi, ma non l'unica. Con il suo temperamento espansivo, la sua dizione
appassionata e la sua fraseggio emotiva e colorista accese l'entusiasmo di tutti i pubblici,
creando l'immagine del tenore autentico, sia lirico che drammatico, fedele alla più
ortodossa scuola italiana di canto. (...) voce schiacciante, di, splendidamente equilibrata,
con un superbo legato e luminosità nelle note alte, ciò che ha fatto di lui uno dei più
grandi tenori di tutti i tempi, che ha riguardato il repertorio completo: leggero , lirico-
spinto, eroico e drammatico. Caso veramente straordinario di longevità vocale, egli stesso
ci assicurava che il segreto di quella perenne corpo fosse " nella gioia, nella gioia, nel
cantare per la propria felicità conquistata dalla visione di un altro nell'esercizio del
canto." E a tal fine bisognava liberare la voce, non rinchiuderla nella cassa toracica, di
alle involuciones della respirazione artificiosamente sacrificata. In definitiva, liberare il
cuore e il cervello. La libertà, la fermezza, la naturalezza, l'estensione della voce di Lauri-
Volpi, furono una conseguenza dell'entusiasmo e della nobiltà del suo spirito. Lo studioso
lirico gruppo Francisco Ferrer dice: " la voce di Lauri-Volpi era un brillante, non ha nota
sorda ". in somma, mangia afferma Rodolfo Celletti, la voce di Lauri-Volpi " era una
tromba d'argento puro ".
LAURI VOLPI : "IL DISCO DA' VOCE A CHI NON L'HA, DEFORMA CHI L'HA" !!!
(...) - E' vero, secondo lei, che l'Italia ha perso il primato del "bel canto" nel mondo? Se
sì, quali sono le ragioni di questo decadimento?
G. Lauri Volpi: <<Sì! La causa: il canzonettismo, iniziato a S. Remo.>> (...)
[da: Intervista a G. Lauri Volpi, "Il Principe Ignoto sono io!" - Busseto (Parma), 1976 -
in: Bruno Baudissone, "Un nido di memorie", interviste a 40 cantanti lirici, Scomegna,
1983]
<<Lo scienziato della musica, geloso dei suoi pensierini imbalsamati, è spesso un essere
che non eccelle per fantasia e sentimento. Non crede nella melodia che è percezione
sovrannaturale. Quindi, ora si sommerge nell'alchimia dei suoni - nel suo laboratorio
d'armonie combinate - ora tuona contro i seguaci che, ispirandosi a Verdi o a Puccini,
osano combinare un paio di idee melodiche. Sicché una generazione d'invasati va
crescendo sulle rovine del melodramma, mentre il mondo si volge allibito verso
quell'Italia che, disertando il teatro lirico, balbetta musichette stereotipe e miagola ariette
popolari, a suon di mandolini e di chitarre.
Ma Verdi e Puccini conoscevano la scienza dei suoni e le capacità e i limiti della glòttide
umana. Ed è ragionevole che una voce creata da natura come dono e privilegio
individuale - che nessuna collettività, nessuna industria riesce a produrre in serie per
livellamento idiota dei valori - si rifiuti di eseguire opere nuove, di lacerarsi dentro il
ginepraio degli spinosi pentagrammi, reticolati eretti dall'opera dei così detti musicisti
d'avanguardia.
La melodia vera è di tutti i tempi, di tutti i luoghi e di tutti i gusti. Ogni nuova
generazione ha diritto di conoscerla, e per farla conoscere è di necessità educare le voci
che debbono interpretarla con dignità e fervore. Assassinare le voci perché la melodia
muoia e le armonie cervellotiche trionfino, è azione sovvertitrice del secolo atomico.
Perché non vanno confuse l'armonia connaturata, aderente alla melodia, e l'armonia
destituita di valore ideale, nata al piano in seguito a infiniti tentativi. Il genio musicale
implica melodia e armonia, contenuto e forma, grazie all'evoluzione creatrice di valori
perenni.
L'iconoclasta impreca contro le voci elette, perché, animate dal Genio del compositore e
dalla loro ispirazione intima, diventano personalità individualissime nell'interpretare, con
figure e accenti appropriati, la creatura musicale. Le voci del buon Dio fioriscono quando
la melodia fiorisce. Se questa muore, muoiono le voci degne di cantarla. E con le voci,
vanno perdute le nozioni tecniche che le fecero gagliarde e sonore. Per di più, la melodia
e le voci interpretano l'essenza della razza. "Ex ore tuo te iudico": ogni razza si fa
giudicare dal modo con cui parla e canta. Pensiero, glòttide, bocca sono strumenti
dell'Intelligenza. In essi, mente ed energia si identificano per una specie di mirifica
integrazione di sostanze che attestano l'unità e la continuità dell'individuo nel contenuto e
nella forma. Una musica sapiente nella forma ma vuota di sentimento e d'immagini, è un
assurdo in termini. La scienza ignora il mistero della vita. La scienza musicale, priva
della Sintesi dell'Arte, produce i feti che da decenni vanno ammorbando l'atmosfera
lirica. Gli autori degli aborti sono anche rei della progressiva disintegrazione delle ultime
voci che ancora affiorano, qua e là, dal generale naufragio. Bel guadagno ha fatto l'Italia,
che tutte le nazioni ammirano e invidiano quale madre del canto! E siamo proprio noi -
italiani - a dire al mondo che tale ammirazione, tale invidia sono infondate o
malfondate.>>
(da: G. Lauri Volpi - “A viso aperto”, Corbaccio, dall’Oglio editore, 1953 - pagg. 87-88)
E’ evidente che le cose nel teatro lirico vanno di male in peggio, a tal punto che la
protesta contro la perplessità dei maestri di canto, l’ostilità dei compositori, le gelosie dei
direttori d’orchestra e l’incompetenza dei direttori di teatro – per usare le parole inserite
nell’ordine del giorno – doveva trovare forma e autorità in un congresso internazionale e
risuonare, nientemeno, negli anfiteatri della Sorbona.
Bisogna, però, mostrarsi oggettivi ed esaminare le circostanze con vigile cautela. Si tratta
di attentati consapevoli o inconsapevoli contro l’integrità delle voci canore?
<<Ieri mi sentii davvero male: temevo di non poter partecipare alla vespertina di Aida.
Per contro, nessun cenno di pericolo o di sbandamento: una recita perfetta, oltre ogni
speranza.
Bechi e Neri ne rimasero entusiasti. Il primo, con edificante umiltà, mi disse: “Scusi,
Lauri-Volpi, cantando con lei. Cerco d’imitarla, di articolare, di dire e riesco ad ottenere
sonorità nuove ed efficacissime. Ricorda il nostro Rigoletto del 1942 a Genova? Lei mi
disse che rubavo le sue emissioni. Proprio così. Ma quando canto con altri, me ne scordo
e ricado nel mugolìo dei suoni. Dovrei sempre cantare con lei.” Ho ringraziato il
simpatico compagno della fiducia e gli ho ricordato che la monumentale gloriosa voce di
Titta Ruffo durò in forma non più di 14 anni, a causa di quella fonazione che rilascia i
muscoli facciali e orali ma appesantisce il fiato e stronca il diaframma, costretto a
sopportare tutto lo sforzo del canto, essendo privo del sussidio verbale. La parola umana
va espressa con chiara, articolata dizione, essenziale nella fonazione scenica del
melodramma. Titta Ruffo nel 1922, cantando con me Il barbiere al Metropolitan, confessò
che stentava a reggere la tessitura non già per decadenza vocale ma per deficienza di
fiato. Per sorreggere l’enorme colonna sonora non valeva più la resistenza d’un
diaframma duramente provato. Anche la voce più ricca di timbro, deve cedere di fronte
ad un diaframma ribelle. La stessa disavventura toccò a Bernardo De Muro e a Fleta.
Il Neri, intimidito dal “fa” acuto della frase “folgore, morte”, mi domandò ieri consiglio.
Quel “mo” di “morte” lo impensieriva. Gli suggerii il modo di proiettarlo e il “mo” scattò
possente e sicuro. Neri me n’è grato. Dunque: i miei principii incominciano a illuminare
queste voci meravigliose, queste menti cercatrici di verità. Esse meritano di conoscerla;
ed io ho l’obbligo di svelare quello che so, non per scienza infusa, ma per dura
esperienza.>>
(da: G. Lauri Volpi - “A viso aperto”, Corbaccio, dall’Oglio editore, 1953, pag. 434 -
Diario, 14 gennaio 1952)
"Gratia artis naturam perficit", ovvero il tenore francese Vergnes salvato da Giacomo
Lauri Volpi !
<<Ho cenato con Vergnes, il tenore dell’Opéra Comique. Voleva conoscere il segreto di
certi suoni. Teoria e pratica lo hanno scosso con l’evidenza. “Gratia artis naturam
perficit”, è il mio motto, gli ho detto. La natura, priva della grazia dell’arte, non resiste da
sola e si associa volentieri al caso. Finché va, va. Poi vacilla, declina, dilegua. Suono e
parola vivono paralleli e simultanei nel canto. Un suono in gola e la parola smorta sulla
bocca inarticolata, fanno un rumore; la parola, fuori dalla sfera sonora, è un’ombra
insignificante. Trovare il punto esatto di risonanza è indispensabile. Il resto viene da sé. E
gli ho fatto sentire le varie emissioni; boccale, gutturale, nasale, ventriloqua e infine la
vera, la spontanea e sicura, che sulla continuità della colonna d’aria, sospinta e sorretta
dal diaframma verso la volta palatale, modula suoni e articola parole in perfetta libertà,
dentro il giuoco aereo della cavità di risonanza: parallelismo della parola e del suono.
Vergnes che canta da vent’anni s’è accorto dell’erroneo cammino percorso. Nuove idee
gli hanno svelato la ridicola tirannia delle vecchie, da lui seguite con pertinacia esiziale
che l’obbligavano a una perpetua ricerca, visibile agli spettatori, e ne facevano un tristo
fantoccione in cerca di suoni. Un Diogene armato di lanterna alla ricerca dell’uomo. “Hai
dato – mi grida – un tenore alla Francia. Sono salvo. Mi hai salvato tu. C’est épatant!
unique!”>>
(da: G. Lauri Volpi - “A viso aperto”, Corbaccio, dall’Oglio editore, 1953, pag. 172 -
Diario, 14 novembre 1947)
<<Arte e bontà, quando sono veri, s'identificano. E il canto ha la missione di far buoni gli
artisti e migliori i pubblici. In ciò sta il fine supremo, l'ultimo scopo dell'arte. La creatura
nasce dalle mani del Creatore che è il Sommo Bene, e muore per tornare al bene
supremo. Il circolo nasce da un punto e torna a coincidere con lo stesso punto. Il ciclo
magico dei suoni vien descritto dalla voce umana movendo dalle Idee esemplari e ad esse
tornando, dopo averle modulate nei suoni.>>
<<È grave errore non "cantare sul soffio" e non dirigere la corrente sonora ai seni
frontali.>>
Il Celletti desidera - da uomo di spirito e di acuta intelligenza - che gli si dia, sulla sua
ponderosa e poderosa opera, un'opinione assolutamente schietta, in sede critica, "senza
obbligo, da parte del critico, di essere dolce di sale", giacché, a somiglianza di Aristotele,
preferisce essere "amico più della verità che non dello stesso Platone".
Per fortuna, il Celletti non si fida sempre dei suoi orecchi e del suo gusto personale. Con
frequenza cita, a conforto della sua tesi, i testi di studiosi dell'arte vocale e le opinioni di
coloro che udirono direttamente le voci trapassate alle quali i dischi non rendono
giustizia. Tra coloro si è compiaciuto annoverare lo scrivente, il quale nelle "Voci
Parallele" esprime giudizi di prima mano, derivati dalla cooperazione scenica con le Voci
registrate. Però alcuni fra i suoi collaboratori, pur attingendo alla stessa fonte, non fanno
altrettanto, a voler giudicare, ad esempio, quanto ha fatto colui che, pur servendosi, senza
citarle, delle "Voci Parallele" nella parte critica, ne trascura poi la parte biografica,
commentando la voce di Lily Pons. La quale, sì, ebbe per agente Maria Gay-Zenatello,
ma soltanto da Maria Ros ricevette la spinta iniziale per decidersi ad andare a New York.
"Io mantengo - ella scrive - sempre un grato ricordo di Maria Ros, che fu per me la
chiave che mi aprì la porta del Metropolitan".
La singolarità di quella voce infatti consisteva nella capacità di attaccare il "fa" naturale
sopracuto a bocca chiusa, e arrotondare i suoni. Ond'è che la riproduzione discografica dà
a ntendere che la Pons dominasse una gamma sonora quasi oscura e voluminosa. Il
microfono fa di questi regali e non gli si può sempre riconoscere la fama di "alta fedeltà".
Ora, se il collaboratore del Celletti fosse stato più scrupoloso, gli amatori e i cultori del
canto avrebbero conosciuto un esempio eloquente di una Voce, che, respinta in patria,
poté per la sua capacità e il buon gusto, trionfare dalla notte alla mattina persino sulla
ribalta di una massima scena.
Tutto ciò accade quando ci si arrischia a giudicare una voce soltanto sulla base della così
detta documentazione discografica. Ed allora persino la Pareto, voce calma e pallida,
viene presentata come aspra: "a volte, gli acuti suonano un po' striduli".
Ma andiamo avanti. Il critico, riferendosi al tenore francese Georges Thill, assicura che la
maschia voce del parigino, eccellente esecutore della "Carmen" e dei "Pagliacci", "col
metodo di colorire la parola richiama un poco quello di Schipa (a volte si coglie anche
qualche affinità di inflessione tra i due tenori)". Non so se il nostro critico abbia mai udito
G. Thill, in persona, sul palcoscenico. Posso assicurarlo che il francese somiglia a Schipa
come, ad es., chi scrive a Tagliavini. Il fatto è che i dischi ingannano assai spesso e
imbrogliano le carte assai volentieri. Abbiamo il caso di Mario Lanza, di cui,
giustamente, il Dizionario non fa cenno. la voce dell'italo-americano sfida, in disco,
quella di Caruso.
Tutto ciò non vuol dire che il Dizionario de "Le grandi voci" sia opera vana. In genere, le
voci grasse e voluminose hanno tutto da guadagnare nella registrazione. Le voci dal
timbro luminoso vengono spolpate dalla macchina, ridotte a mal partito. Il cantante lo sa.
Se appartiene alla prima categoria, va lieto e fiducioso a incidere dischi; se alla seconda,
ci va nervoso e diffidente, sapendo che il tecnico del suono gliene farà di tutti i colori. E,
allora, addio interpretazione, ispirazione, estasi, stato di grazia.
La documentazione fonografica, a sussidio del giudizio critico, risulta aleatoria, per chi,
in anticipo, non conosca la voce registrata. E' valida invece, utile e necessaria quando chi
consulta la compilazione discografica, già conosce le note caratteristiche di quella ed è in
grado di riconoscerla o no ascoltando l'incisione.
Si dice, ad esempio, che la voce di Battistini avesse colore tenorile. Per forza. Il disco fa
sentire trasportati di un tono sopra i brani eseguiti dal sommo baritono sabino. Ma
Battistini otteneva dal suo strumento duttilissimo tutti i colori che convenivano
all'interpretazione musicale. Come Cialiapin. La macchina "parlante" - come fu chiamata
- è un congegno che va usato con discrezione e intelligenza. Soltanto gli esperti e i
provveduti possono trarne informazioni giuste. Altrimenti succedono guai. Una
sopranino, di cui recentemente la Scala ha fatto giustizia sommaria, osò affermare in una
sua sciagurata intervista che gli autentici cantanti "facevano morir dal ridere". La
poverina aveva ricevuto... informazioni, non propriamente attendibili, dalla
documentazione fonografica...
Quanto alle informazioni biografiche sul mio conto, il Dizionario notifica: "Si vuole che
nello scrivere la parte di Calaf Puccini si sia ispirato alla voce di Lauri-Volpi". Orbene,
martedì 7 ottobre 1941 sulla "Stampa Sera", di Torino, Giuseppe Adami nella rubrica
"Variazioni scaligere" scriveva: "... desiderato e sognato da Puccini vivente come creatore
del Principe Calaf, fu Lauri-Volpi". Il librettista della "Turandot" non avrebbe fatto sì
perentorie affermazioni, se non avesse voluto smentire i "si vuole" e i "si dice", a favore
di altri tenori che furono interpellati dopo che Lauri - Volpi non si era accordato con i
dirigenti scaligeri. Ma creò lui la parte al Metropolitan, e al Colon, appunto perché ai
direttori di quei teatri era nota la volontà del Maestro di Lucca.
Maria divenne la mia collaboratrice assidua, la mia guida, la mia consigliera. Senza di lei
le disavventure future nel "Re di Lahore", nel "Guglielmo Tell" e nel "Trovatore", di cui
farò menzione a suo tempo, si sarebbero mutate in catastrofe definitiva e della mia voce
non rimarrebbe, ora, neppure il ricordo. Quando ripenso alla fine immatura di gloriose
voci, che la natura e Dio offrirono in dono a creature privilegiate, comprendo in tutto il
significato la fortuna di possedere l'anima della mia Donna, che salvò l'inesperta,
mutevole, variabile, stravagante laringe, affidatami dal capriccio della sorte.
L'insegnamento di Maria impedì ch'io perdessi la fiducia nei miei mezzi e lasciassi a
metà la carriera (...)
A Ravinia Park, oltre il consueto repertorio, cantai le opere da poco studiate. Nemorino,
Fra Diavolo e Radames dimostrarono i risultati tangibili della disciplina vocale, che mi
ero imposta. Mi stupivo come avessi potuto cantare, per quattro anni, senza pensare al
suono prima di emetterlo, senza distribuire i fiati, senza coltivare le risonanze, senza
legare le frasi, senza uniformarmi al complesso delle armoniosità orchestrali.
Naturalmente l'attenzione molteplice e simultanea mi costava gran fatica. Non potevo in
così breve tempo rimediare a tutte le deficienze, naturali o acquisite per falsi supposti,
che avevano messo in serio pericolo la salute della mia voce.
Lauri Volpi mentre si esibisce ad 85 anni, in una serata in suo onore a Madrid, cantando
"E' sempre misero chi a lei s'affida" dal Rigoletto di Verdi.
Una delle sue ultime affermazioni fu: “Il mio corpo alla Spagna, la mia anima a Dio e il
mio cuore a Roma ” !!!
--> http://grandivoci.jimdo.com/2012/01/08/giacomo-lauri-volpi/
“La sera della mia prima Tosca è venuto ad intervistarmi un radiocronista della più
importante stazione radiofonica d’America e del Canadà in lingua italiana. La domanda
che mi ha posto è stata la seguente: “A che cosa deve Lei, Sig. Corelli, una carriera così
longeva?”.
Al “longeva”, caro Commendatore, mi sono messo a ridere ed ho risposto: “Che cosa
vuole che siano i miei quindici anni di carriera in confronto dei quaranta o più anni che
hanno avuto “i grandi” dell’epoca d’oro della lirica?”.
- “No, Sig. Corelli, intendo dire che in questi ultimi anni, molti tenori, sono usciti e sono
balzati in poco tempo alla popolarità, però, nel giro di pochi anni, si sono trovati nella
parabola discendente, oppure, alcuni di questi, hanno già smesso di cantare. Quindi
quello che volevo sapere da Lei, è, come fa a ritornare qui in America ogni anno, non
solo in piena voce, ma direi, in forma sempre migliore?”.
“Caro Signore” ho risposto, “la Sua è una delle poche domande che mi piacciono e Le
risponderò molto semplicemente. Il canto è un sacrificio e bisogna sacrificarsi per durare
a lungo, ma la cosa più importante è trovare la strada e la mia strada sta in Spagna,
Valencia, Giacomo Lauri Volpi.
Lei conosce questo famoso tenore, è lui che indica il cammino da seguire, un vocalizzo
io, un vocalizzo lui, una frase io, una frase lui, e in questa maniera che si potrebbe
definire una gara vocale io cerco di imitarlo e di rubare quanto più posso dalla sua
splendida voce e dal suo ineguagliabile imposto”.
Questa in poche parole è stata la mia intervista sul palcoscenico del Met alla prima di
Tosca.”
Quantità giusta d'aria necessariamente maggiore per il canto lirico rispetto al parlato (II) :
Quantità giusta d'aria necessariamente maggiore per il canto lirico rispetto al parlato (I) :
L' "aria" respirabile ordinaria per respiro automatico, nello stato di quiete, è valutata dai
fisiologi a "cinquecento cmc.". La capacità massima di inspirazione, nell'atto volitivo, è
misurata da un'inspirazione di "tremilacinquecento cmc." d'aria. La differenza tra le due
cifre stabilisce la quantità d'aria "complementare" e di "riserva" che si può inspirare. È
noto che tra respiro e respiro, nello stato di riposo, v'è una "pausa" ristoratrice che
risponde al ritmo respiratorio. L'aria di riserva, così importante nel canto, non viene
espulsa nella respirazione automatica. Nella respirazione cantata la pausa di riposo è
minima e l'espirazione è composta d'aria "complementare", "ordinaria" e di "riserva", a
differenza della respirazione parlata che è di solito formata da poca aria "ordinaria" e di
"riserva". Quest'ultima, nella respirazione cantata, deve sostenere, in certi casi, quasi tutto
il peso respiratorio. Talché, ancor più che nel parlare, va utilizzato nel canto il massimo
d'aria di riserva, a condizione, però, che alla fine della frase musicale e al termine
dell'espirazione rimanga tesaurizzata nel mantice tanta riserva di quell'aria quanta sarebbe
necessaria per trattenere il respiro ancora per un certo tempo. (pag. 78)
<< (…) le giornate valenciane degli amici Corelli non sono tutte trascorse in svaghi e
curiosità turistiche. Si è pure studiato sodo, quasi con accanimento. (…) Egli [Corelli] è
venuto a discutere problemi d’arte e di fonazione in piena sincerità e libertà: problemi
che, non risolti nelle scuole, hanno portato alla paralisi del teatro lirico e alla perdita di
voci bellissime dopo soltanto una decina d’anni di carriera. Corelli ha una voce che
merita di durare a lungo, se non altro per rinverdire una tradizione che è stata
abbandonata con la conseguente decadenza del melodramma.
In dieci giorni, noi due ci siamo dati, anima e voce, a risolvere quei problemi seduta
stante, durante circa due ore diarie (…) Vedevo la consorte del mio collega assiduamente
attenta, sempre indaffarata a prendere appunti, a porre ogni tanto quesiti, a controllare
quale delle soluzioni prospettate e dimostrate fosse la più convincente e evidente secondo
le risonanze percepite. Ella ha approvato il modo di superare una difficoltà nella romanza
della “Manon Lescaut” di Puccini che Corelli non ha ancora osato affrontare in pubblico,
per timore di una sola frase: “A nuova vita l’alma mia si desta”. Il salto di “quinta” gli
sembrava un ostacolo insormontabile, tra l’A e Nuo. (…) Nella Luisa Miller nella
Turandot nel G. Tell nell’Aida nel Trovatore nella Bohème, la casa ha rintronato al
bombardamento delle due voci. E la gente sostava sotto le finestre a sentirle. A poco a
poco, negli ultimi giorni, sembravano una sola voce. E’ bello, stupendamente bello e
onesto vedere due anime e sentire due voci che si fondono. Ma Corelli contesta: “E’ vero,
adesso la mia voce si mimetizza con la sua, per suggestione e imitazione. Ma, lei assente,
non ricadrò io nelle vecchie abitudini? Dovrei portare lei via con me, in una valigetta”.
Scoppiamo tutti in una risata omerica.
L’importante è che Corelli abbia capito. Quando potrà studiare, da capo a fondo, un’opera
mai prima cantata, egli saprà, alla luce della nuova esperienza, sottrarsi all’abitudine di
una fatica eccessiva nell’emissione vocale. Del resto, ha avuto davanti a sé la viva voce
di un uomo che durò a lungo sulla scena lirica e serba intatte le proprie capacità. >>
Non confondiamo i diversi stili con la tecnica. Questa è una e vale per tutti i tempi ed è
basata su leggi fisiologiche e acustiche inalienabili intese a stabilire una economia vocale
che preservi la fonazione dal decadimento prematuro. Il Rinaldi, dopo la "prima"
d'Otello, recentemente rappresentato all'Opera, aveva notato "la voce oscura e un po'
dura" del protagonista, aggiungendo subito che oscurità e durezza si addicevano a quel
personaggio. Faceva, insomma, intuire che la durezza, cioè il "cantar grave e oscuro",
non potrebbe convenire ad altri "personaggi". (...)
Ciò premesso, debbo gradire a Del Monaco la constatazione con la quale mi ha
cortesemente chiamato in causa. Sì, a 40 anni di carriera, la voce mi è rimasta intatta
nella gola e sul fiato. Sarebbe interessante dimostrarlo come feci un anno fa col Trovatore
nel primo teatro di Roma. E' un'opera che riassume tutte le difficoltà che si oppongono a
una voce, nella prima e nella seconda ottava, esigendo suoni gravi, centrali, acuti in
perfetta omogeneità. Guai se l'artista non possiede la MEZZA VOCE, da non confondere
con il FALSETTO, a cui si riferisce Del Monaco accennando al "canto leggero" ch'egli
ripudia. Il falsetto, infatti è la tisi della voce. Ma la MEZZA-VOCE è voce vera, naturale.
Con essa, Schipa, e Gigli con il suo "misto" famoso, hanno fatto la grande carriera. Ma
Gigli, interrogato non può rispondere. E Schipa è a Budapest. Che direbbero circa il
ripudio perentorio del "cantar leggero"? Avendo io cantato i tre repertori: del tenore
leggero (con il Barbiere), del lirico (con il Rigoletto e i Puritani), e del drammatico (con il
G. Tell, il Trovatore, il Poliuto, gli Ugonotti e l'Otello) potrei assumere una posizione
intermedia, al di sopra della mischia. Sarebbe di certo sommamente interessante poter
praticamente dimostrare la mia tesi. Immaginate un gran concerto in cui cantassero pezzi
di vario genere e stile, Del Monaco, Di Stefano, Corelli e il veterano che scrive. I risultati
darebbero un'idea esatta della realtà tecnica ed estetica del canto teatrale. (...) Direzione
dello Spettacolo, Sovrintendenza, Radio, giornali, hanno voluto seppellirmi innanzi
tempo. Tuttavia sono pronto al "gran cimento", ed il pubblico sentirebbe che il veterano
saprebbe sfoderare una voce e sperimentare un metodo che non falliscono.
E QUAL è questo metodo? Quello dell'armonia dei contrari. Niente falsetti sfoggiati,
senza un minimo di sostegno diaframmatico in concorso con la continuità della colonna
di fiato, tramutato in suono. E niente gravità eccessive, che esigono un esagerato
sfruttamento della capacità polmonare. Sfruttamento che verso i 50 anni determina
enfisemi, debolezza e stanchezza del mantice, esaurimento nervoso. "Abbassamento
muscolare e fisiologico" sì, ma senza esagerare. Si possono avere, anche nell'atletismo
sportivo, muscoli sviluppatissimi, ma nervi deboli. Giova dunque tener presente
l'immagine della corda e dell'arco. Tensione sì, ma con elasticità tale, che consenta di
lanciare lo strale a lunga distanza. Altrimenti: "corda che troppo è tesa, spezza se stessa e
l'arco". E ciò, di solito, avviene a cavallo dei 50 anni - ho detto - e in corrispondenza del
climaterio, età critica che mette la rivoluzione nell'organismo umano.
Tamagno cantava di fibra. A 46 anni, smise di cantare per il sopravvenuto enfisema
polmonare. Caruso, che prediligeva negli ultimi anni le sonorità gravi ed ampie fino a
sembrare un baritono, se ne andò all'altro mondo a soli 51 anni, per una semplice
bronchite che, a cagione della sopravvenuta debolezza del tessuto polmonare - che è
delicatissimo - degenerò in polmonite purulenta. E qui viene a capello il mio incontro con
Giovanni Zenatello, che per anni si era sfogato in Carmen e in Otello.
Nel 1928 mi scritturò alla Arena di Verona per eseguire il Rigoletto, che mi diede
l'occasione preziosa di conoscere Gabriele D'Annunzio. Il quale, dopo il secondo atto,
viene sul palcoscenico: e il pubblico, riconosciuto, gli decretò un'ovazione trionfale.
In quel periodo, io ero ospite di casa Zenatello; una casa stile palladiano, in mezzo a ville,
vigne ed orti fiorenti nella turgida estate veronese. Una mattina, Zenatello mi chiamò nel
suo salotto. Volle ch'io l'udissi cantare "Celeste Aida". Una meraviglia! Rimasi
trasecolato: "E perchè ha smesso di cantare, con questa voce stupenda?".
"Caro amico, vedi? Con questa voce io canto in casa. Ma dimmi: - Vieni stasera a cantare
l'Otello in Arena. - Al solo pensiero, incominciò a tremare. All'ora di pranzo, non
mangerò. Nel pomeriggio non riposerò. All'ora della recita vedrò rosso. E quando uscirò
a cantare l' "Esultate", avrò il fiatone, e alla fine della bravata mi porteranno a braccio in
camerino. Hai capito? Non mi manca la voce. L'ho tutta qui. Mi manca il fiato. Ho
cantato troppo sotto lo sforzo muscolare. Finché ero giovane, l'impulso mi aiutava. Ma
adesso, a 50 anni suonati, capisco che ho fatto una corbelleria nell'adottare un metodo che
spossa l'organismo e squassa la voce."
(da: CANTO LEGGERO E "MEZZA VOCE" - Incontri e scontri di Giacomo Lauri Volpi
- Articolo apparso su "Momento-sera" del 13 gennaio 1961)\l "
Lauri-Volpi: <<Occorre mettere il canto sul piano nazionale, creare una coscienza vocale
degli Italiani, in quanto il canto non è solo arte, ma anche scienza, necessità educativa,
sportiva, commerciale. Si crei dunque il tipo dell'artista nuovo, uno stile di artista sano di
mente e di corpo, colto, disciplinato, ben costrutto: un tipo, insomma, che desti
l'ammirazione di tutte le genti sulle ribalte più famose, un simbolo, messaggero
d'italianità, un ambasciatore che conquisti ogni cuore col linguaggio, che tutti
comprendono. Anche volendo studiare il canto solamente come necessità igienica,
sportiva ed educativa, si comprenderebbero gli insospettati vantaggi, che la gioventù ne
trarrebbe. Gli organi respiratori dei bambini e degli adolescenti, educati alla scuola della
voce, sarebbero meno esposti al tremendo morbo che fa strage e il cui triste contagio si
diffonde con paurosa facilità. I muscoli del diaframma, del torace e del collo, mercé gli
esercizi metodici della respirazione applicata al canto, si sviluppano
progressivamente e acquistano la resistenza ad altre fatiche che l'esercizio dei vari sport
esige. Vedremmo allora fiorire generazioni meravigliose di fanciulli e di fanciulle, che
costituirebbero il "serbatoio delle voci". Ogni borgata d'Italia, ogni
villaggio, ogni paese avrebbe il suo coro, costituito per eliminazione e selezione.
Questi cori acquisterebbero uno "spirito di corpo" nelle rivalità e nelle competizioni dei
concorsi dapprima mandamentali, poi circondariali, provinciali, regionali, nazionali.
I concorsi nazionali darebbero le reclute maschili e femminili ai grandi teatri Italiani, che
da circa trent'anni offrono lo stesso materiale vocale e umano sempre più lacrimevole alla
vista delle esigenti platee, avvezze ad ammirare le avvenenti schiere femminili dello
schermo. Tra quelle reclute sorgerebbero i futuri artisti, i futuri divi, che dovrebbero
specializzarsi nello studio della voce in UNIVERSITA' POPOLARI LIRICHE in cui,
oltre all'insegnamento della materia principale del canto, s'impartirebbero lezioni di
cultura musicale e generale, di storia della musica, di recitazione, di storia dei costumi
teatrali, di letteratura, di storia universale, di fisiologia, di fisica e di lingue. Si creerebbe
un organismo, che vivrebbe di vita propria attraverso le CASE PROVINCIALI
DELL'ARTISTA LIRICO. Basterebbe che recite e concerti di beneficenza, che tutti gli
artisti generosamente dedicano ad altre istituzioni in ogni parte del mondo, e una minima
percentuale degli onorari, che gli artisti percepiscono, concorressero a formare i fondi
necessari, per veder sorgere nelle principali città d'Italia la CASA DELL'ARTISTA
LIRICO con la sua Università popolare lirica. Il cantante si sentirebbe protetto dal giorno
in cui mette piede in teatro sino alla fine non della sua voce ma dei suoi giorni. Non si
vedrebbe allora un Cotogni morire in necessità, una Muzio morire di pena, un Antonio
Scotti bisognoso della carità degli Americani, un Pasquale Amato insegnare canto in
scuole americane, dopo aver invano implorato di impartire lezioni nei nostri conservatòri,
né grandi artisti, trascurati dalle direzioni teatrali, finire tristemente i loro giorni, anche in
agiatezza, lontani dalle tavole della ribalta che adorarono. I Grandi Artisti canterebbero
per i giovani delle Università popolari liriche, nei Teatri sperimentali che si
trasformerebbero in cattedre di bel canto. Le voci dei Divi, a cui il tempo tolse
freschezza, hanno sempre la virtù di educare, istruire, insegnare. Gemma Bellincioni, la
Darclée, Giuseppe De Luca, Riccardo Stracciari non sarebbero professori teorici e pratici,
degni di allevare le voci dei futuri divi? Dalle Università liriche uscirebbero quei Divi che
negli ultimi cinquant'anni inviarono all'Italia milioni e milioni di lire costituenti una parte
non trascurabile delle famose "rimesse degli emigranti", su cui l'economia nazionale
contava. Sarebbe bastata una decima parte di quei guadagni degli artisti in terra straniera,
perché fossero già in piena attività quelle "Case dell'artista lirico" e quell' "Università
dell'artista lirico", promoventi la composizione di forze spirituali e vocali, che nessuna
crisi avrebbe intaccata. I nostri campi sportivi, le nostre Terme, le nostre Arene non
risuonerebbero soltanto degli urli di "tifose" folle sportive ma di ovazioni frenetiche di
turbe esultanti ai cori vincitori dell'agone lirico, o ai campioni di bel canto nelle "Sagre
Liriche" indette nei mesi estivi, sotto il firmamento azzurro disseminato di stelle. L'Italia
sarebbe tutta pervasa di passione lirica in cui la nobiltà di un culto divino di Bellezza
s'unirebbe alla sanità dello spirito e della carne. Il nuovo stile creerebbe l'etica e la
mistica dell'artista lirico del domani, ben diverso da quello censurato oggi dalle classi
intellettuali. Le quali deplorano, non a torto, l'analfabetismo, il gigionismo istrionico, la
presunzione, la vacuità mentale e morale del cantante in genere. Il sindacalismo, che
impera su tutte le forme di attività umana, non stenterebbe a riconoscere le virtù creative
del divo e non gli negherebbe - e ne avrebbe ben donde - la dignità di artista e
professionista.>>
Lauri Volpi sulla necessità di fissare leggi generali fisiche e fisiologiche certe per una
scienza del canto sottratta all'arbitrio dei singoli !
<<...è necessario che la scienza del canto venga sottratta all'arbitrio dei singoli, venga
fissata con leggi certe ed opportunamente codificata. Nelle scuole di canto v'è
disorientamento, causa non ultima della perdita di preziose voci e di dolci speranze. E',
senza dubbio, esatto che un simile insegnamento ha basi d'ordine psicologico e
sperimentale. Ma esistono, tuttavia, leggi fisiche e fisiologiche generali, la cui
applicazione è subordinata al caso singolo, che i discepoli non dovrebbero ignorare. La
conoscenza del funzionamento degli organi umani destinati alla fonazione, alla
produzione delle sonorità musicali, alla formazione di vocali, sillabe e parole, su cui le
sonorità si poggiano per il fenomeno della articolazione, dovrebbe costituire il substrato
della cultura specifica dell'artista di canto. La perfetta dizione non sarebbe, allora, una
virtù rara, privilegio di artisti eccezionali, già che la parola diverrebbe la fisionomia del
suono, una sembianza ideale, che tutti ammirerebbero come bellezza visiva.
I colpi di glottide esagerati, le respirazioni affannose, i cambiamenti di colore nei
passaggi, suoni gutturali, nasali e falsi, non deturperebbero le linee melodiche del canto.
L'igiene della voce starebbe a fondamentale base dell'etica del cantore dell'avvenire, del
mistico dei suoni, del missionario di un ideale fino ad oggi incompreso. Virtù di sobrietà,
cultura, compostezza, raccoglimento, tenace volontà di superamento, amore della
solitudine operosa, fiducia esclusiva nelle proprie forze, disprezzo della volgarità,
giocondità di spirito, illuminerebbero la nuova figura morale del cantante di luce nuova,
che ispirerebbe devozione, ammirazione e rispetto nel pubblico, troppo abituato a
considerare l'artista lirico alla stregua delle persone inferiori. Sui giornali non soltanto al
cinema e allo sport si vedrebbero dedicate intere pagine informative. Anche il movimento
lirico avrebbe l'onore di essere seguito con attenzione, nella forma più esauriente, ampia,
completa. Il critico di teatro si abituerebbe ad esaminare il processo esattamente creativo,
strutturale, architettonico delle interpretazioni elaborate dalla individualità del grande
cantore, cessando di limitarsi alla terminologia encomiastica od ostile, o apatica, usata
nelle note recensioni amorfe: artista e critico collaborerebbero a servizio dell'Arte.>>
Bibliografia degli scritti sul Bel Canto italiano (in varie lingue), consigliata dal tenore G.
Lauri Volpi:
(da: “Belcanto” - voce compilata dal tenore Giacomo Lauri-Volpi, inserita nella
“Enciclopedia della musica”, ed. Ricordi, Milano 1963)
Proprio in questi giorni, e precisamente (...) l'11 dicembre, ho superato il traguardo dei
sonanti, squillanti e... promettenti 70 anni. (...) Adesso dà sui nervi a molti che "D.
Chisciotte" scriva, su queste colonne, e altrove, in libertà di spirito, intorno ai più
disparati argomenti.
Da cinque anni, compiuti l'ottobre ultimo, collabora al Momento-sera. (...) Ma ciò non è
niente. Da oltre 25 anni scrive libri: l'Equivoco, Prode Terra, Cristalli viventi, A viso
aperto, Misteri della Voce Umana, Voci Parallele.
Scrive non per capriccio ed ambizione ma per adempiere a un preciso dovere: quello
indicato da un grande scrittore, da me altra volta citato: "L'uomo evoluto ha il compito di
correggere le deformazioni che osserva, dire e scrivere, se può, quello che pensa e quello
in cui crede; denunciare coloro la cui condotta gli sembri ipocrita e malvagia".>>
(dall'articolo "La vergogna dei 70 anni" - incluso in: G. Lauri Volpi - "Incontri e scontri",
1971)
G. Lauri Volpi : Emma Carelli, l’indimenticabile - fu lei che “m’insegnò la parte: le note,
i fiati, i gesti” !
Il 17 agosto del 1928, correva all’impazzata, a bordo della sua modesta Lambda, la
estrosa artista napoletana (…) La macchina compiva il “fattaccio”, già iniziato dal teatro.
Fatta la consegna del Costanzi, la Carelli esclama: “Consummatum est! E’ il fatto
compiuto che mi costerà forse la vita, certo la salute. Io non so che cosa farò: certamente,
l’oziare no. Sarebbe morire prima del tempo.” E prima del tempo, si vide morire. Ma il
tempo dette ragione all’Artista, che sacrificò 15 anni della sua attività mentale al Costanzi
di Roma, da lei trasformato in un vivaio di voci ancora ben note.
Perché lei, Emma Carelli, le andava a cercare. E trovatele le nutriva della sua esperienza
e le consacrava sulla ribalta del suo teatro. Il mio caso ne dava prova lampante. Lascio la
parola ad Augusto Carelli, eccellente pittore, che nella biografia dedicata alla sventurata
Sorella, racconta:
“Per completare l’evocazione dei grandi spettacoli allestiti da Emma, voglio parlare di G.
Lauri-Volpi, da lei scovato nel piccolo teatro dell’Unione, a Viterbo. Egli aveva fatto la
guerra e l’aveva fatta per davvero. Si trovava nel 1919 al Deposito di Macerata, capitano
del 12. Fanteria non ancora smobilitato Ettore Storti, rappresentante di Sonzogno, lo
aveva scritturato per 5 recite dei Puritani, con l’onorario di complessive 700 lire.
Dopo il successo, l’esordiente venne confermato per recite di Rigoletto. Per la «prima»
era annunciato l’arrivo della Signora Carelli. La quale avanti la recita, si recò nel
camerino del giovane ufficiale, ancora in divisa, e volle truccarlo essa stessa, con fraterna
familiarità. Dopo tre mesi dall’esordio, Lauri-Volpi canterà la Manon al Costanzi. Il
lavoro di preparazione durò un mese e mezzo. Emma gli insegnò la parte le note i fiati i
gesti. Nella serata indimenticabile del suo inizio al Costanzi, accanto alla Storchio, il
nuovo Des Grieux, fin dalle prime battute, fu salutato e accompagnato dal successo più
frenetico.”
E’ tutto vero. Sì, m’insegnò la parte: le note i fiati i gesti, con pazienza (lei, così nervosa)
davvero certosina, e con un sorriso in quel volto, avvezzo all’autorità e alla severità, così
necessarie per dominare le masse, che nessuno le conosceva, tranne le persone più a lei
vicine e familiari.
Chi, oggi, farebbe tanto per un debuttante? E con occhio tanto previdente e presciente da
presagire il risultato desiderato? Si dirà che Emma Carelli, così facendo obbediva ai suoi
preordinati disegni e al suo egoismo: lanciare nell’agone lirico nuove voci, di basso
costo, per sostituirle ad altre già rinomate e troppo pesanti sull’economia aziendale. Ma
anche oggi, gli enti municipali fanno lo stesso, con la differenza che nessun direttore di
teatro, nessun sovrintendente scenderebbe dal suo scanno burocratico per girare l’Italia in
cerca di nuovi elementi.
Ora, Rossellini rivolge “una fervida preghiera” agli artisti perché “impongano l’opera di
R. Zandonai”. In che modo? Gli artisti non hanno voce in capitolo. Non fanno parte
nemmeno delle commissioni che danno pareri, negli Enti autonomi, ai sovrintendenti e ai
direttori di teatro. E’ più facile che sia chiamato un salumaio, un beccaio, uno
strimpellatore, un giureconsulto, un politicante; chiunque, fuorché: un artista.
E un grande artista e audace e sicura direttrice di teatro doveva essere colei che valorizzò
lo Zandonai, rappresentando le sue mirabili opere, chiamando a interpretarle voci
incomparabili, vanamente rimpiante o sepolte nel più fitto silenzio.
E la Carelli doveva finire nel silenzio più ingrato. Forse, neppure un segno
testimonierebbe oggi alla sua memoria, se un gruppo di devoti non avessero fatto sorgere
a Campoverano un ricordo marmoreo – opera d’arte di Antonio Muñoz – con la scritta:
«A Emma Carelli – che diede all’Arte lirica ammaestramenti di vita – e alla Roma
moderna l’inizio di un grande teatro.»
Ma Emma Carelli, avrà di certo, fremuto d’orgoglio nel vedere, quattro mesi avanti la
tragica dipartita quell’ufficialetto, da lei truccato a Viterbo per impersonare il “Duca di
Mantova”, trasfigurarsi in “Nerone” e inaugurare il nuovissimo teatro, il Teatro
dell’Opera di Roma, l’ex Teatro Costanzi da lei gestito per 15 anni. Il suo discepolo, il
suo “Des Grieux”, doveva essere il primo a mettere piede sul palcoscenico nuovo e
fiammante.
Quella sera di febbraio del 1928, io rivolsi il pensiero sempre memore, a colei che mi
aveva tratto dall’oscurità. Oggi mi è parso obbedire a un imperativo categorico nel fare
conoscere ai Romani di oggi la grande figura di Emma Carelli.
(da "Incontri e scontri", 1971)
G. Lauri Volpi : La guerra dei tenori, ossia canto “baritonale” o vero canto tenorile per il
Rodolfo della “Bohème” di Puccini?
Di recente, alla Scala, è scoppiata quella che la stampa si è divertita a chiamare “La
guerra dei tenori” forse ricordando quella guerra artistica che due secoli addietro scoppiò
a Parigi dopo la morte del Re Sole, colui che nominò sovrintendente della “Musica
Reale” G. B. Lulli (…)
I tenori odierni, indulgendo al canto spianato, rifiutano disinvoltamente la tonalità scritta
e prescritta dai Compositori d’opera, al fine di liberare la voce da qualunque impaccio di
tessitura ardita e dare sfogo ai suoni centrali, carnosi e appariscenti. Se altri tenori, che
dispongono delle due ottave, intendono rispettare la musica qual è concepita nel ritmo e
nel colore delle note e dimostrano di poter salire con spontaneità e sicurezza all’alta
regione dei suoni acuti con voce raccolta nobile e omogenea in tutta la gamma, si vedono
avversati o disanimati o esautorati dai baldanzosi sostenitori di quelli.
I fieri “fans” non si accorgono, o fingono di non accorgersi, che quel modo di cantare, a
sfascio e a vanvera, porta i loro protetti a sospendere assai spesso le recite per mancanza
di fiato o a spezzar le note nel momento culminante di una romanza, benché abbassata di
tono. Non si rendono conto che incoraggiando un simile metodo di canto che, per
l’evidenza degli infortuni frequenti, va perentoriamente ripudiato, si fanno complici di
una decadenza prematura e incoraggiano imitazioni deleterie. I giovani aspiranti alla
carriera lirica si sentono istintivamente propensi ad appropriarsi meno dei pregi che delle
deficienze degli artisti “arrivati”. E’ un contagio che ha fatto vittime famose e che, qui,
non è il caso di ricordare.
Or è accaduto che per avere, lo scrivente, plaudito alla scelta di Karajan (che designò per
la parte di Rodolfo nella Bohème un tenore rispettoso delle tonalità e devoto alla scuola
classica del canto, sfidando le minacce dei “fans” dell’altro tenore), si è visto arrivare una
lettera anonima di protesta. L’anonimo – o gli anonimi – si sente in dovere di
raccomandare “vegliardo” che cura questa rubrica, di lasciare che gli altri cantino come
loro pare e piace, di “calmarsi”, di non intervenire in assunti che, ormai “non lo
riguardano”.
Già, certi scandali riguardano i buffoncelli che li organizzano a tutto danno dei nostri
teatri, dell’Arte, di una tradizione rispettabile, non di certo il “vegliardo” che si batte per
salvare il salvabile, indicando a chi glielo richiede, il modo di preservare da cadute
irreparabili quanti esordiscono in una carriera rischiosa, spesso angosciosa, se non
illusoria, votata, in ogni caso, a sacrifici e ad eroiche rinunce.
Non riguardano chi ha consumato decine d’anni di vita nel culto di un ideale d’arte che
nobilita ed eleva lo spirito, nello studio di una tecnica rivelatasi ineccepibile. Non
riguardano chi ha pure il dovere di chiarire le idee dei profani in materia, e far conoscere
dove si trovi la ragione e il torto a quanti hanno domandato un parere spassionato rispetto
alla polemica scaligera. Alla quale, del resto, tutti i giornali hanno fatto eco rumorosa e
spesso stonata. Il Maestro Karajan, nonostante gli impegni assunti dalla Scala con la
“voce ripudiata” ha tenuto duro. E ha fatto il suo dovere. Il “vegliardo” può portare
addosso gli anni Matusalemme e nessuno potrà vietargli di esprimere un giudizio
schietto, assolutamente immune da prevenzioni e partito preso. Egli ammira ed elogia la
“voce ripudiata” in opere che le si addicano e le giovino, ma non certo in quelle in cui
essa non riesce ad accostarsi allo spirito e alla natura vocale del personaggio – come
quello di Rodolfo – che esige snellezza, eleganza, sveltezza nell’emissione del suono,
senza mai calcare la nota passionale e abbandonarsi ad un verismo eccessivo che
l’abbassamento della tonalità favorisce con l’aumento di volume a scapito del timbro.
E così è scoppiata la “guerra dei tenori” che ho detto, ricorda, in certo modo la guerra dei
buffoni di due secoli addietro. Per la “Scuola francese”, allora, si schierarono persino il
Re e, nientemeno, Voltaire; per la “Scuola italiana”, la Regina e Rousseau: razionalismo
contro naturalismo; la declamazione “criarde”, o urlatrice, francese contro il virtuosismo
vocale italiano. Per l’attuale “guerra dei tenori”, sono scesi in armi critici, cantanti,
giornalisti, direttori d’orchestra, maestri di canto etc. Il critico di un rotocalco
diffusissimo ha rimproverato alla “voce ripudiata”, ch’era puramente “lirica”, di essersi
guastata nel repertorio lirico spinto” rinunciando alla correttezza e alla sicurezza della
fonazione. Perché allora non avrebbe dovuto dire la sua chi, fra tutti coloro, è l’unico che
abbia cantato l’intero repertorio operistico e ha sbattuto il naso contro difficoltà tecniche
che sembravano invalicabili? Sì, proprio io, pagai di persona quando per le faticose recite
di G. Tell, eseguite in tono – dico in tono – rischiai di perdere la voce e rimasi rauco e
sfiancato per più giorni.
Fu la mia Maestra – dico mia Moglie – a fornirmi le grucce per muovere, dopo un
silenzio prolungato, i primi passi sul pentagramma dapprima vocalizzando sul soffio,
successivamente, studiando la soavissima Sonnambula. A poco a poco, la voce guarì,
riacquistò la padronanza delle due ottave, fu pronta a ripresentarsi al pubblico del
“Metropolitan di New York”. La voce di “Manrico” riappariva in veste dimessa: quella di
“Elvino”. Incredulità dei più, al primo annuncio. Ma la realtà fu rivelatrice. Quella recita,
diretta dal M.o Serafin, è rimasta impressa nella memoria di molti abbonati, alcuni dei
quali me ne scrivono ancora oggi. Dunque, la “guerra dei tenori” potrebbe sortire un
magico risultato: riportare all’innocenza iniziale la voce smarrita; il figliol prodigo, alla
casa del padre. La “guerra dei buffoni” portò alla riforma del canto, iniziata dal Gluck,
con l’adeguare la sensazione all’idea, il suono al concetto, la declamazione alla
modulazione del suono nel sentimento. Nelle opere di Bellini, il connubio parola-suono
raggiunse, specie nei recitativi, altissimo valore musicale, con eloquente risalto nella
“parola scenica”.
Qualcuno ha tirato in ballo Caruso, al quale Puccini consentì l’abbassamento di tono nella
Bohème. Ma Caruso era Caruso. In quel momento spadroneggiava nella casa discografica
più potente e la sua volontà era legge. Nessun tenore ha mai raggiunto la sua quotazione
commerciale. Puccini avrebbe fatto qualunque concessione al trionfante tenore. Basta
leggere il carteggio pucciniano per convincersi che Puccini, umile e remissivo,
ostinatamente avversato dalla critica ufficiale, faceva di tutto per giovarsi anche della
collaborazione di cantanti assai meno redditizi e rinomati del cantore napoletano.
“Sic rebus stantibus”, sarebbe ora che i fans non si affannino a spedire lettere anonime. Si
convincano che il fanatismo inconsulto non giova punto ai loro idoli. Anzi nuoce a questi
l’incoraggiamento a percorrere una via sbagliata. E chi dice che è sbagliata è uno del
mestiere, il quale si rifà alla ciceroniana riflessione: “In generale la maggior parte degli
uomini non può capire che cosa occorre alla perfezione. Così avviene anche nelle arti, in
cui i profani ammirano e lodano ciò che colpisce gli ignoranti, che non sanno scoprire i
difetti. Ma quando sono illuminati dagli esperti cambiano facilmente parere.”
G. Lauri Volpi : In che consiste l’interpretazione vocale e stilistica del Duca di Mantova
nel “Rigoletto” verdiano?
Dalla scuola d’avviamento lirico, presso il Teatro Massimo di Palermo, un allievo scrive:
<<Gino Bechi, maestro di scena e di recitazione, parlando di tenori e dell’esecuzione del
Rigoletto, ricorda in lei il “Duca di Mantova” più completo e aderente al personaggio
verdiano, fra i tanti uditi nella sua carriera. Mi vuol dire, essendo io un tenore lirico, che
sta studiando il Rigoletto, in che consiste la sua interpretazione vocale e stilistica? Il
Maestro elogia la longevità vocale dovuta a un metodo infallibile che le ha permesso di
cantare, nello scorso luglio in un concerto all’aperto nella piazza di Ariccia. Data la sua
età, come ha superato scogli quali le romanze della “Turandot”, “Luisa Miller”, “Tosca”,
“Rigoletto”? Sono un giovane di 27 anni, venuto dal Venezuela a studiare in Italia. Ho
una buona voce, un po’ pesante e ingolata. Aspetto con ansia una Sua risposta che mi dia
un’orientazione e mi confidi il segreto del suo costante successo.>> (…)
Ho visto famosi artisti, dalle voci colossali, diventar paonazzi in viso, a soli cinquanta
anni di età, dopo “Celeste Aida”. Non potevano, insomma, recuperare la respirazione
normale. Nel duetto successivo, era evidente quel che in gergo teatrale si dice “fare il
fiatone”. Tale disavventura diventerebbe catastrofe in un artista che osasse eseguire
quella romanza dopo i 50 anni. Che mai succederebbe a chi ne ha moltissimi di più?
Ebbene, costui esiste e nulla gli succede. Perché? Ma perché non ha mai tralasciato di
esercitarsi, di usare un metodo sicuro, di vivere, pensare, scrivere senza ricorrere a
bevande e droghe, a sigarette e alle brutture che disperdono le energie corporee e mentali.
Il principio della “mente sana in corpo sano” non è un’astruseria di filosofanti.
Corrisponde a un dovere che le persone dedite alla conquista della “coscienza superiore”
(il destino dell’uomo, vincitore nella lotta contro la bestialità) compiono in letizia. (…)
Ora, il canto è uno degli itinerari che conducono verso l’ideale riscatto dell’essere umano.
E’ un’esperienza che, se si prolunga durante tutta la vita, può rallentare il progredire della
decadenza organica, specialmente se si accompagna alla fede nelle idee astratte e
all’intuizione di una suprema realtà creatrice.
In che consiste l’interpretazione vocale e stilistica del “Rigoletto”? La parte del “Duca di
Mantova”, nonostante la sua apparente spontaneità e disinvoltura, è tra le più spinose e
pericolose. Esige appunto la difficilissima facilità della respirazione, dell’emissione, della
dizione in una tessitura impervia, per rendere quel personaggio capriccioso e sfacciato,
ma pure nobilissimo nel portamento e nel gesto. Il canto dovrà seguire una linea pura ed
elegante; la voce, duttile e lucente, non potrà rinunciare a una consistenza virile,
altrimenti cadrebbe nel mellifluo e nel querulo, che non si addice all’impeto dello
scapigliato superuomo della Rinascenza. In definitiva, nel complesso personaggio
verdiano pugnano elementi contraddittori che vanno superati in una meditata armonia di
pensiero e di sentimento estetico. Fin dalle primissime recite, mi resi conto di cotali
esigenze e, a poco a poco, pervenni a conciliarle, a fonderle in una interpretazione che
parve appropriata. Così l’accettò il pubblico. E dal consenso trassi l’iniziale fortuna che
agevolò l’ascesa alle alte remunerazioni.
G. Lauri Volpi : La “mezza-voce” di seta pura di Bonci, l’ultimo dei belcantisti, che
“salva bronchi e polmoni” !
La sua statura era da annoverarsi tra le minime. (…) Nel 1896 esordendo al Regio di
Parma col “Falstaff”, i terribili e faziosi conterranei di Verdi non si scandalizzarono. E
quando il “miniaturista” ebbe eseguito “Bocca baciata non perde ventura, ma si rinnova
come fa la luna”, con la “u” di luna, presa a mezza voce, rinforzata e poi ridotta a puro,
lucente filo di suono fino all’ultimo soffio, i parmigiani decretarono al nuovo abitatore
d’Olimpo gli onori del trionfo.
E’ evidente che a Bonci quella sua statura al di sotto della media, impediva di rendere
vivo un personaggio come il “Faust” o come il puritano “Arturo”, armati di spada e
cappa. Ma l’arma del sorriso e la sapienza tecnica facevano di “Salve dimora” e del “A te,
o cara” un ricamo di melodia in cui non si sapeva se più ammirare la bellezza della
composizione o la delicatezza e la giustezza dei suoni emessi dall’esecutore.
Negli ultimi tempi, Bonci, per adattarsi al nuovo repertorio, volle cimentarsi nella
“Tosca”. Il rivoluzionario “Cavaradossi” che “muore disperato”, non guadagnò granché
dall’esibizione del nuovo interprete. L’esito della prova lo indusse a tornare all’ovile. E
tentò l’avventura di un “Ballo in maschera”. (…)
Verdi, di certo, non avrebbe supposto che un giorno, il Fenton del “Falstaff”, da lui udito
al Regio di Parma, si sarebbe armato di spada e di autorità per divenire nientemeno che il
Conte Riccardo, governatore di Boston. Andò a sentirlo il 21 maggio 1898, e scrisse “al
bravo tenore Bonci” esprimendo “graditissima sorpresa” per la risatina inserita nella
pausa del brano: “E’ scherzo od è follia?”, e ne riconosceva all’artista “la unica privativa
e specialità”. A nessun altro esecutore prima di Bonci, era venuto in mente
quell’intercalare della brillante cascatina di note, onde il “cesellatore” aveva infiorato il
suo pezzo per fare “sensazione”.
I successivi esecutori, compreso chi scrive, non riuscirono a far dimenticare il delizioso
“usignolo” di Cesena. La loro risatina rivelava l’intenzione degli imitatori e rinsaldava il
ricordo di chi deteneva la “privativa e la specialità” delle notine scintillanti. Infatti, mai
più del concertato fu richiesta la replica che il pubblico esigeva dalla voce di A. Bonci. E
Verdi se la godeva, compiaciuto.
Con ciò il lettore può farsi un’idea di questo nostro artista che baldamente teneva testa al
coetaneo napoletano, ovunque trionfante con la passionalità del canto e il denso, sensuale
colorito della voce. Due cantanti affatto opposti, inconciliabili. (…)
Bonci e Caruso, proprio perché opposti, destavano curiosità e facevano interesse. Il
pubblico accorreva ad ascoltarli, a cogliere le differenze di due epoche nel loro canto. Poi
venne la fila incolore delle voci fabbricate a serie, a immagine di un tipo unico. Donde la
decadenza del canto che oggi tutti si danno a lamentare, senza correre ai ripari, a stabilire
idee chiare per un ritorno alla sana fonazione, di cui A. Bonci fu coraggioso campione in
scena e maestro nella scuola.
Egli stesso, in seguito al mio esordio, mi avvertì di star lontano dai mali passi, un giorno
che mi presentai a lui sotto gli archi dell’Esedra, in Roma. Elogiò il mio materiale vocale
ma non approvò in tutto la mia tecnica. Quale tecnica? Io venivo dalla trincea e cantavo
con l’innocenza dell’ignoranza. Egli propugnava vivacemente la necessità di attenersi
alla “mezza voce” e non imitare coloro che abusavano dei suoni falsi. “Il falso” – diceva
– “è cotone. La mezza-voce, è seta pura, e salva bronchi e polmoni.”
Lo ascoltai con emozione e convinzione. Di lì a pochi anni, ci rivedemmo al “Central
Park” di New York, davanti all’ “Hotel Majestic”, dov’egli aveva il suo studio ed
insegnava. Io stavo al Metropolitan già da sei anni, e il mio repertorio si era esteso dal
Rigoletto al Trovatore. Gli dissi che avevo fatto tesoro dei suoi ammonimenti. Mi
ringraziò, confuso. Ancora lo vedo il “piccolo” grande artefice dei suoni. Aveva sempre il
bel sorriso sulle labbra argute, ormai sbiadite. La temperatura di New York non era
propizia alla sua salute. Ma, la necessità!... Ecco un principe del canto, l’ultimo rampollo
di una dinastia, affermatasi gloriosamente in uno dei più bei secoli della storia, aggirarsi
come uno qualunque nel tumultuante caos della metropoli tentacolare.
Giacomo Lauri Volpi, un artista che secondo le parole di Mascagni stesso "ha riaffermato
la supremazia del BEL CANTO ITALIANO" !!!
"Non starò qui a rievocare le fortunate circostanze che mi portarono a cantare per la
prima volta la Cavalleria di Mascagni sotto la direzione dell'Autore. Basta ch'io riporti,
perché non ci siano dubbi sull'interpretazione dei fatti, da dedica che sotto la sua
sorridente effigie il Maestro volle apporre con la espansiva cordialità di sempre: <<A L.
V. con ammirazione e gratitudine per la superba interpretazione di "Turiddu" con la quale
ha riaffermato la supremazia del bel canto italiano - S. Paulo: 24-X-1922 - Pietro
Mascagni>>.
Passarono sei anni, e al Teatro dell'Opera di Roma mi ritrovai per interpretare ancora una
volta, sotto la sua bacchetta, la Cavalleria. Mi aveva sentito poche sere avanti nel
Trovatore. Appena mi vide alla prova in sala, la prima cosa che mi disse, fu: <<Hai visto?
Avevo ragione io, a Rio de Janeiro che la "Cavalleria" non avrebbe nuociuto alla tua
voce. Ecco qui, ora canti il "Trovatore". E un giorno canterai "Otello". E alla Tamagno,
con squillo e nitidezza di suoni e di accenti>>.
Mascagni fu profeta indicando le tappe della mia carriera con occhio infallibile. Al pari di
Puccini, s'interessava alle voci. Sapeva che in gran parte si devono ad esse il successo
delle opere e il concorso di pubblico."
G. Lauri Volpi: <<L'artista, non di rado, dovrebbe avere il coraggio di opporsi al gusto
della maggioranza e divezzarla da male abitudini per fare ritorno all'antico.>>
(da G. Lauri Volpi - "L'EQUIVOCO. Così è e non vi pare" - Edizioni Corbaccio, 1938 -
pagine 441)
<< A Trieste, nell'autunno 1920 - avevo un anno solo di carriera - dovevo presentarmi nel
Rigoletto al pubblico del "Politeama Triestino", misurarmi col gigante, che riempiva del
suo nome il continente, e del quale, fino da ragazzo avevo sentito dire mirabilia anche dai
profani. (...) avrei avuto il coraggio di accostarmi a un uomo che la fama rendeva
leggendario? Di avvicinare la mia, inesperta, alla sua voce sapiente?
Mi sentivo come il classico pulcino nella stoppa. Quando entrai in sala, lui già stava
provando il primo duetto con "Gilda". Mi misi in disparte, in attesa che qualcuno si
accorgesse del Duchino di Mantova. E intanto osservavo la prestanza e l'eleganza
dell'uomo, venuto in "redingote", come un diplomatico, tra noi piccola gente. Mi vien da
ridere se penso ai cafoncelli di oggi, che dispongono di automobili longilinee, di
grossolana boria, di tasche sovrabbondanti; e si presentano alle prove generali in
maglione sportivo. Battistini era là con la sua bella persona, chiusa in quel soprabito, con
l'aria di un pastore protestante, e cantava: "Deh! non parlare al misero del suo perduto
bene!", con voce piana, sorretta da continua, dosata pressione di fiato, che gli consentiva
di modulare "a fior di labbra" le lievi tenere parole del rimpianto. Ecco - pensai - la
scuola di Cotogni. Infatti, Battistini fu discepolo del Grande, e lo sostituì nel Don
Pasquale, al teatro di Mosca, quando il maestro non potè più resistere all'inclemenza del
clima e alla lunghezza di quella stagione lirica, dopo 25 anni di ritorni.
"Cantare a fior di labbra" è giudicato un'eresia dai vociferatori. Soltanto i canterini ne
hanno capito il valore e si sono fatte statue d'oro, suscitando isterismi nel bel Paese
telecanzonato. Ma il loro "fior di labbra" è solo apparente, non comporta la tensione
interiore, la densità e intensità di suono, che consente alla voce di arrivare ad ogni
orecchio. E', piuttosto, un "soffiare" che dà mirabili risultati per grazia e virtù di congegni
trasmittenti. Tagliate il filo e vedrete boccheggiare l'infortunato, come un ranocchio fuori
d'acqua.
Battistini cantava e mi rapiva. Toccava a me d'intervenire nel successivo duetto del
"Duca" con "Gilda". E fu tale il mio stordimento che quel ""T'amo, ripetilo", detto a
bruciapelo, poco mancò non si spezzasse in gola. Battistini mi sogguardò, curioso. Ma, al
finale, si avvicinò lui al Duchino che si appartava, confuso e rosso in viso come un
papavero, per rincuorarlo. "Siamo ambedue allievi dello stesso maestro, disse
affabilmente, domani sera dobbiamo trionfare in nome di lui". >>
<< Ho molti anni sulle spalle e 45 anni di attività vocale. E cerco di persuadere gli altri e
me stesso di questa realtà che consiglierebbe chiunque di starsene a vegetare in casa, ad
aspettare la grande ora. Senonchè, ogni mattina esercitando, per abitudine e per necessità
spirituale la laringe, ascolto suoni levigati, sostenuti da un diaframma agile e pronto agli
sbalzi di tessitura così frequenti nelle partiture del grande repertorio romantico. Gli amici
non nascondono sorpresa e vivo stupore, e mi esortano a dimostrare pubblicamente, in
recite e concerti a giovani e vecchi, le possibilità di una voce che si preserva e conserva
oltre i limiti assegnati dalla Natura a una gola umana. (...) L'artista evoluto potrà durare a
lungo, perfezionando con il quotidiano esercizio, il suo strumento vocale e i suoi mezzi
espressivi, non soltanto per sè e per il pubblico ma per la futura generazione di cantori
ch'egli ha l'obbligo di aiutare, con l'esempio e i suggerimenti, nello sviluppo delle loro
capacità. Deplorevole l'egoismo di chi, assicuratasi una posizione economica e una vita
comoda, tra dovizie e svaghi, dissipazione e capricci, rinuncia ad estrarre sempre maggior
luce dalla intelligenza e maggior profondità di sentimento dal cuore, nascondendo il
segreto della sua abilità e del suo successo. Chi ha ricevuto il privilegio di una voce e di
una intelligenza artistica, ha il compito di svelare il metodo e il segreto delle sue
affermazioni ai giovani iniziati. Dire: "Io ho trovato da me la mia strada, gli altri la
trovino da sè, come ho fatto io", è un'offesa ai più nobili sentimenti di solidarietà, una
negazione dei più alti principi che vedono nell'umanità un tutto, che avanza faticosamente
verso un destino di perfezione unico. (...) Proprio l'artista lirico dovrebbe venir meno a
questo compito? Il destino di colui che ha avuto successo va misurato in rapporto al
contributo da lui dato alla formazione degli altri. (...) E' un fatto che l'essenza del canto
lirico è intensamente compenetrata di concetti morali e metafisici. Privo dei quali, il
cantore presto degenera. E la sua voce denunzierà, per prima, l'assenza di tali concetti.
(...) Se vuole riuscire dunque, l'artista dovrà pagare un prezzo altissimo. Per il bene
proprio e l'altrui. Riuscire ripeto, significa contribuire alla conquista della dignità umana,
aiutare i propri simili a conquistarla, grazie al sublime fascino del canto, cosciente d'una
Presente sovrannaturale. >>