Sei sulla pagina 1di 306

M a s s im o B o n t e m p e l l i

C o stan zo P r ev e

Uomo nella Storia


Dio nel Pensiero
L a crisalide
6
La Crisalide è una collana di testi che vorrebbe contribuire
a promuovere, con proprie domande, una libera ricerca teori­
ca, ed una comunità il cui legame sociale sia intessuto con il
filo a due colori della libertà e della verità.
Perché la comunità («la forma che i rapporti umani debbo­
no assumere perché la vita degli uomini abbia un valore») è
«l’utopia concreta» che fa muovere la storia: n uova com un ità
che sostituisca le vecchie comunità artificiali.
La crisalide, allora, in quanto luogo delle metamorfosi, ma­
trice delle trasformazioni. Infatti, più che un involucro protet­
tore, la “crisalide-comunità” di oggi (nel costruire e sperimen­
tare un cammino verso la ‘nuova’ comunità), rappresenta uno
stato eminentemente transitorio, in forte ‘tensione’ conosciti­
va fra due momenti del divenire.
È la rappresentazione simbolica di un periodo di matura­
zione: in essa si allude e si implica la rinunzia al passato e
l’accettazione di un nuovo stato, condizione della realizzazio­
ne, allora sì davvero comunitaria.
Fragile e misteriosa come una gioventù ricca di promesse,
ma dalla quale non si sa esattamente cosa scaturirà, la crisa­
lide vuole rispetto, cura e protezione: è l’avvenire che si forma.

In copertina:
H. Matisse, Icaro, 1943, tavola a pochoir per Jazz, pubblicato nel 1947.

Via S. Pietro 3 6 -5 1 1 0 0 Pistoia


Tel.: 0573/976124-F ax: 0573/366725-E-mail: crt.pt@zen.it
M assim o B o n tem pelli
C ostanzo P reve

G esù
U omo nella S toria
D io nel P ensiero
N o ta e d ito ria le

Chi ama vola, corre, giubila,


è libero e nulla può trattenerlo.

Questo libro trae le sue scaturigini da Nichilismo, Ve­


rità, Storia, il testo di Bontempelli/Preve pubblicato dal­
la nostra Editrice nell’aprile 1997.
Scriveva allora Preve, nel capitolo II miracolo di Gesù
di Nazaret: l’unità di ontologia e assiologia: «Il miracolo
consisteva nel conoscere prima di tutto la verità [...]. La
verità è unità di ontologia e di assiologia. I due termini si
identificano, e non fanno parte di mondi paralleli che non
si incontrano mai, come sostiene ciò che più tardi venne
denominata “fallacia naturalistica”» (p.115). E Bontem-
pelli, nel capitolo II concetto di libera individualità socia­
le, corroborava la precedente tesi e invitava a ricercare
più fecondi orizzonti di senso e di pensiero «in relazione a
cui poter progettare nuovi percorsi storici», collocando l’og­
getto teorico di modo di produzione certamente ad un li­
vello ontologico «sovraordinato a quello di storicità», ma
«ancora sottoordinato a quello dell’ontologia veritativa»,
perché, come scriveva, «l’analisi scientifica di un modo
di produzione non raggiunge la sua pienezza veritativa
se non è filosoficamente correlata ad una verità ontologi­
ca che ne illumini il senso umano» (p. 83): e ciò in quanto
il fondamento veritativo intrinseco alla nozione di libera
individualità sociale rende tale nozione oggetto teorico
di natura eminentemente antropologico-filosofica.
Gesù. Uomo nella Storia. Dio nel Pensiero muove da
queste premesse. Gli autori, avendo di mira principal­
mente la verità, e non solo la storia, nel prendere in esa­
me la figura di Gesù, non si sono fermati alla narrazione,
alla verità narrativa, ma ne hanno ricercato la verità fon­
dativa.

5
La realtà storica indagata è considerata dagli autori
infinitam ente più complessa dei modelli dello storico,
anche se in essi vuole essere compresa.
In questo passaggio d’epoca in cui tutto sembra dis­
solversi in un confuso processo produttivo, Bontempelli e
Preve hanno dissotterato una «mina culturale», cercan­
do di porsi ai confini del nostro orizzonte culturale, in­
contrando la figura di Gesù così come canta Puskin in
una delle sue più profonde poesie (Versi composti in una
notte insonne)'. «Io ti voglio comprendere, / Cerco il senso
che è in te».
Porsi ai confini può anche significare non aver ségui­
to, non essere compresi, vivere la solitudine della pro­
pria ricerca. Ma giova ricordare due versi di un altro poe­
ta russo, Tiutcev: «A noi non è dato predire, / l’eco delle
nostre parole».
Diremmo quasi che qui sia l’arte (“arte della filosofia”)
a fare irruzione nella storia (in quanto finestra sul pas­
sato), aprendo così una finestra sul futuro, nella consa­
pevolezza che “tra il presente e il futuro scorre l’impreve-
dibilità”.
«Ci vuole un immenso amore [...] per spendere una
vita intera a coltivare l’ideale di una società in cui ogni
essere umano sia libero di esprimere le sue potenzialità
umane. Gesù ha trovato in se stesso tutto questo amore,
e ne ha avuto compiuta consapevolezza, perché ha posto
l’amore al di sopra di ogni altra legge, prescrivendolo come
suo unico comandamento.
[...] L’amore, d’altra parte, essendo ontologicamente
radicato nel riconoscimento reciproco tra gli individui
umani necessario alla costituzione della loro identità sog­
gettiva, rappresenta una sorgente umanamente perenne
di comportamenti creativi. [...] Ma la forza creatrice del­
l’amore, il valore universale dell’individualità, la priori­

6
tà assiologica della giustizia, il principio della speranza,
sono, filosoficamente parlando, le dimensioni di esisten­
za della libertà, e le articolazioni concettuali della verità
logico-ontologica» (pp. 174 e ss.).
Sono questi contenuti che hanno ispirato anche la scel­
ta deirimmagine di copertina: Ylcaro di H. Matisse. Ica­
ro con le braccia aperte in volo, che «tende verso l’alto»,
verso la luce. La chiave per comprendere Tesplosione di
senso” di questa opera d’arte ce la fornisce lo stesso Ma­
tisse, che aspirava a realizzare una «pittura ariosa, addi­
rittu ra aerea» collocata in uno spazio senza frontiere.
Nella rivista d’arte da lui diretta, Jazz, Matisse collega il
volo, Icaro, «alla purezza e alla semplicità», come dati
caratteristici del suo futuro metodo artistico nonché del
comportamento morale che lo sottende. Non sorprende
allora di trovare in Jazz molte citazioni che Matisse trae
da Imitazione di Cristo, un’opera attribuita al fiammin­
go Tomaso Da Kempis (1380-1471) - altri la attribuisco­
no all’italiano Giovanni Gersenio (c. 1180-1240). L'Icaro
di Matisse, nei suoi stessi scritti, è la figurazione di colui
che ama, e l’artista sottolineava per la sua teoria soprat­
tutto questi passi di Imitazione di Cristo : «Chi am a vola,
co rre, g iubila, è lib ero e n u lla può tra tte n e rlo . Egli
dà tutto per tutti e tutto trova in tutte le cose. [...] Spesso
l’amore non conosce misura, ma divampa fuori misura.
L’amore non sente peso, non cura fatica, vorrebbe fare di
più di quel che può, non adduce a pretesto l’impossibili-
tà, perché si crede lecito e possibile tutto. L’amore si sen­
te capace di qualunque cosa, e molte ne compie e vi rie­
sce; mentre chi non ama, viene meno e si affloscia. [...]
Affaticato non è stanco; pressato, non opera per forza;
minacciato, non si turba».
C .F.

7
M a s s i m o B o n t e m p e l l i (1946) è nato e vissuto a Pisa, dove
insegna storia e filosofia in un liceo. Come studioso si è occupato so­
prattutto del pensiero dialettico, in alcuni interventi su qualche rivi­
sta italiana, e ultimamente in un libro scritto in collaborazione con
un altro studioso pisano, Fabio Bentivoglio, Percorsi di verità nella
dialettica antica (SPES Editrice, Milazzo 1996).
Ma il suo impegno maggiore è stato dedicato ad un tentativo con­
tro corrente di immettere cultura viva, spessore di significati teorici,
e strumenti di orientamento etico, nell’insegnamento della filosofia e
della storia nella scuola italiana, attraverso corsi ai docenti e pubbli­
cazione di manuali. Tra questi una storia del pensiero filosofico in tre
volumi, scritta in collaborazione con Fabio Bentivoglio, Il senso del­
l’essere nelle culture occidentali (Trevisini, Milano 1992), che si se­
gnala per la chiarezza con cui rende accessibili filosofie complesse,
quali ad esempio quella di Hegel e quella di Husserl.
Importante anche il suo testo in due volumi, Civiltà storiche e loro
documenti (Trevisini, Milano 1993), che offre un quadro complessivo
e coerente delle civiltà antico-orientale, greca, romana e alto-medioe-
vale, riconducendolo ai loro rispettivi modi di produzione, e presen­
tandolo attraverso una scelta calibrata dei loro documenti.
Nel 1996 ha pubblicato, sempre con Fabio Bentivoglio, Percorsi di
Verità della dialettica Antica. Eraclito - Platone - Plotino (Spes Editri­
ce, Milazzo).

C o s t a n z o P r e v e (1943) è nato a Valenza Po, in provincia di


Alessandria. Da giovane ha studiato scienze politiche, filosofia e gre­
co a Torino, Parigi ed Atene, ed è stato attivo nei movimenti politici e
culturali di ispirazione marxista degli anni Sessanta e Settanta.
Attualmente vive a Torino, dove insegna in un liceo. E autore di
numerosissimi saggi di cultura politica e filosofia marxista, pubblica­
ti su varie riviste italiane e straniere.
Numerosi sono anche i suoi libri. Tra questi, La passione durevole
(Vangelista, Milano 1989), in cui ha colto, prima ancora che si fosse
manifestato il crollo del comuniSmo novecentesco, l’esaurimento sto­
rico della tradizione marxista, ed ha proposto di ripartire da Marx
per ricostruire un paradigma di pensiero anticapitalistico, coniugan­
do comuniSmo e democrazia.
Per molti giovani il suo nome è legato soprattutto a II filo di Arianna
(Vangelista, Milano 1990), magistrale ricostruzione, in quindici lezio­
ni, degli aspetti più vitali e orientativi di un pensiero filosofico ispira­

8
to a Marx. Un’altra tappa fondamentale della produzione teorica di
Preve è stata segnata dalla pubblicazione de II convitato di pietra
(Vangelista, Milano 1991), in cui la dissoluzione nichilistica della si­
nistra politica e sociale è illuminata da una serrata analisi filosofica e
storica della natura del nichilismo.
La maturazione teorica di Preve è culminata ne II tempo della
ricerca (Vangelista, Milano 1993), in cui una approfondita riflessione
sulle nozioni di modernità, postmodernità e fine della storia, retroa­
gisce in una critica chiarificatrice delle dicotomie abituali del pensie­
ro marxista e di alcuni punti essenziali dello stesso paradigma origi­
nario di Marx. Su questa linea si è sviluppata la feconda collaborazio­
ne di Preve con Giancarlo La Grassa, acuto studioso del modo capita­
listico di produzione, da cui sono nati importanti saggi, tra i quali
ricordiamo La fine di una teoria (Edizioni Unicopli, Milano 1996),
magistrale resa dei conti teorica e storica con il collasso della tradi­
zione politica e culturale marxista.
Nati culturalmente da esperienze formative giovanili molto diver­
se, e passati attraverso diversi itinerari di ricerca, Bontempelli e Pre­
ve hanno verificato una sempre più accentuata convergenza del loro
pensiero su elementi teorici forti: l’inevitabilità storica di un congedo
dalla tradizione culturale e politica marxista, la necessità etica di
mantenere aperto un orizzonte concettuale anticapitalistico, l’impe­
gno filosofico nella costruzione di un paradigma di interpretazione
della realtà che superi i limiti di quello di Marx, mantenendone tutti
gli apporti conoscitivi e tutta la forza critica.
* * *

In questa stessa collana (La Crisalide 5), di Massimo Bontempelli


e Costanzo Preve abbiamo già pubblicato (nell’aprile 1997) N ichili­
smo, verità e storia. Sono le tre nozioni cruciali su cui negli ultimi
anni si è sviluppata la riflessione e la convergenza del pensiero di
Bontempelli e di Preve. Esse danno perciò non a caso il titolo a questo
libro, diviso in due parti: Verità e nichilismo, di Massimo Bontempel­
li; Verità e storicità nel Novecento, di Costanzo Preve.
Le due parti del libro sono composte da cinquanta tesi di Bontem­
pelli e cinquanta di Preve, ciascuna delle quali condensa in forma
lemmatica i risultati di studi approfonditi, e costituisce una proposta
di discussione a tutti coloro che sono sinceramente interessati ad uscire
dalla banalità delle idee oggi dominanti.

9
La Palestina al tempo di Gesù.
M assim o B o n tem pelli

U om o n e lla S to r ia
1. D a l Gesù d ella tradizion e c ristia n a
a l Gesù d e lla storia

Gesù di Nazareth non fu ai suoi tempi un personaggio


particolarmente famoso. La sua predicazione in Galilea
e in Giudea, e la sua condanna a morte per decisione del
prefetto della Giudea Ponzio Pilato, non ebbero alcuna
eco a Roma e nelle città latine e greche dell’Impero. Nelle
regioni ebraiche ebbero probabilmente una certa risonan­
za, di cui oggi è difficile valutare la portata, ma che fu in
ogni caso inferiore a quella delle gesta di taluni altri pre­
dicatori coevi. Giuseppe Flavio, lo scrittore ebreo roma­
nizzato che raccolse gran parte della tradizione culturale
e religiosa ebraica nei venti volumi delle sue Antichità
giudaiche, parlò di lui meno che di Giovanni B attista o di
Teuda.i
Furono i seguaci di Gesù delle generazioni successive
che, con la loro straordinaria capacità di diffondere la
sua parola in ogni ambiente geografico e sociale, lo pose­
ro in un ruolo assolutamente fondamentale nella storia
del genere umano, trasformando però il suo messaggio
nella fondazione di una religione istituzionalizzata, e la
sua figura in un’incarnazione divina. L’immagine di Gesù
che abbiamo ereditato dalla tradizione cristiana è stata
perciò un’immagine teologica, non storica, il cui peso ha
irrigidito in schemi storiograficamente sterili la lettura
dei libri del Nuovo Testamento. L’intento di riscoprire,
dietro al Cristo teologico senza tempo, la vicenda effetti­
va dell’uomo Gesù nella Palestina dell’epoca di Augusto
e di Tiberio, si è manifestato soltanto negli ultimi due
secoli, ed ha fatto scrivere numerose Vite di Gesù.
1 he A ntichità giudaiche dedicano a Gesù due brevissimi paragra­
fi, il 63 e il 64, del libro XVIII, nel contesto del racconto degli inci­
denti provocati in Giudea dal governo di Ponzio Pilato.

G esù 13 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Chi, tuttavia, legga queste Vite, può rimanere facil­


mente sconcertato dalla diversità delle conclusioni a cui
esse giungono, e, se vi presta attenzione, può notare come
ognuna delle immagini di Gesù che esse propongono sia
in realtà l’immagine degli ideali umani del suo autore.2
Da ciò, e dall’impianto sempre più demolitorio delle
tecniche di analisi dei testi, è derivata la convinzione,
oggi largamente diffusa, che non ci siano effettive infor­
mazioni storiche su Gesù. La sua figura è diventata allo­
ra, a seconda degli interpreti, o il punto di riferimento
della fede, o una costruzione mitologica, o un’elaborazio­
ne delle primitive comunità cristiane a partire da un ori­
ginario, vago ricordo storico, di cui sarebbe andata per­
duta ogni traccia.
Noi intendiamo mostrare che le cose non stanno in
questi termini, e che siamo in grado di conoscere, della
vicenda effettiva di Gesù, certamente non molto, ma nep­
pure tanto poco.
Tralasceremo di considerare, in questa sede, i pur in­
teressantissimi processi storici e culturali attraverso i
quali la fede di Gesù è diventata, dopo la sua morte, la
fede in Gesù dei suoi seguaci, che ha riplasmato la sua
immagine come figura divina, per meglio concentrare la
nostra attenzione sulla storia dello stesso Gesù. Cerche­
remo di incontrarlo nella realtà dei suoi tempi, dei suoi
luoghi, e dei suoi progetti, e di interrogare sul senso della
nostra umana condizione non la sua pretesa divinità, ma
la sua umanità storicamente determinata.
Un personaggio storico non può venire incontrato e
interrogato che attraverso le narrazioni con le quali ne è
stata tram andata la memoria. Per quanto concerne Gesù,
2 Cfr. R inaldo F abris , Gesù di Nazareth, Cittadella Editrice, 1983,
nel capitolo primo (Il dibattito storico su Gesù) e nel capitolo decimo
(Il dibattito continua).

Gesù 14 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

queste narrazioni sono i Vangeli,3e soltanto i Vangeli, in


quanto le poche altre fonti che menzionano il suo nome
non dicono quasi nulla di lui. Il breve brano che Giusep­
pe Flavio ha dedicato a Gesù nell e Antichità giudaiche, e
che avrebbe potuto costituire Tunica fonte non cristiana
sulla vicenda storica di Gesù, ci è giunto soltanto in una
versione pesantemente interpolata dai copisti cristiani.4

3 II termine Vangelo, o, più propriamente, Evangelo, è parola greca


che significa letteralmente “buona notizia”, notizia, cioè, dell’awenu-
ta salvazione del genere umano nella persona di Gesù, il Cristo. Nel I
secolo la parola era usata per designare l’annuncio di salvezza porta­
to da Gesù. Fu soltanto nel II secolo che essa passò a designare la
narrazione di questo annuncio, e qualsiasi libro la contenesse. Si par­
lò, allora, al plurale, di Vangeli, perché diversi furono i libri che nar­
ravano questo annuncio. Essi erano scritti anonimi, che circolarono
senza titolo alcuno fino alla seconda metà del II secolo, quando la
Chiesa ne scelse quattro come canonici, cioè come gli unici autorevoli
in quanto ritenuti una rivelazione divina. Gli altri furono definiti apo­
crifi, nel senso non di falsi, ma di non autorevoli. I Vangeli canonici
furono intitolati allora, non sappiamo sulla base di quale tradizione,
rispettivamente “secondo Matteo”, “secondo Marco”, “secondo Luca” e
“secondo Giovanni”. Non c’è però in realtà alcuna prova che quei per­
sonaggi siano stati gli autori effettivi dei Vangeli che sono stati a loro
collegati. Ci riferiamo ad ogni modo a questi Vangeli quando diciamo
che attraverso le loro narrazioni è possibile arrivare al Gesù della
storia. Nei Vangeli apocrifi c’è infatti ben poco che possa risalire al­
l’epoca di Gesù.
4 II brano, che segue alla trattazione di altri personaggi vissuti al­
l’epoca di Pilato (cfr., qui sopra, nota 1), introduce Gesù presentando­
lo come un uomo saggio, considerato un messia dai suoi seguaci, che il
governatore romano condannò a morire sulla croce su accusa dei capi
del popolo ebraico. Queste sono sicuramente frasi autentiche di Giu­
seppe Flavio, perché un cristiano non avrebbe definito Gesù uomo
saggio, avrebbe detto che era, e non era stato considerato, il messia, e
ne avrebbe parlato subito dopo la trattazione di Giovanni Battista,
che invece è collocata altrove. Il brano prosegue tuttavia dicendo che
Gesù fu operatore di miracoli, che fu maestro di coloro che cercavano
la verità, che tre giorni dopo la sua morte riapparve vivo a coloro che

Gesù 15 U omo n k u a stoma


M assimo B ontempelli

I Vangeli, tuttavia, sono i documenti stessi da cui ha


preso le mosse la costruzione del personaggio Gesù come
figura teologica. Essi sono testi religiosi, non storici, che
ci chiedono di credere che Gesù sia stato il Cristo predet­
to dalle Scritture, e che abbia adempiuto la sua missione
salvifica. Essi riportano le parole e le azioni di Gesù in
pericopi*5decontestualizzate, che riflettono le esigenze di
insegnamento e di predicazione delle prime comunità cri­
stiane. La loro lingua è il greco ellenistico, e non l’ara-
maico parlato da Gesù. I loro racconti sono sicuramente
intessuti di vari elementi leggendari. Per tutti questi
motivi è stata spesso negata loro ogni storicità. Ma que­
sta negazione non è sensata, perché, se dessimo credito
ai motivi per i quali viene sostenuta, ogni genere di atti­
vità storiografica diverrebbe impossibile.
La ricostruzione storiografica del passato si avvale
soltanto parzialmente di documenti essi stesi di natura
storiografica. La nostra conoscenza dell’Atene classica,
ad esempio, non dipende esclusivamente da fonti come
Erodoto, Tucidide e Senofonte. Un testo come l’Apologià
di Socrate è stato scritto da Platone con finalità etiche,
per tramandarci l’esemplarità imprescindibile della fi­
gura morale di Socrate, e non certo per darci informazio­

lo avevano amato, e che tutte le meraviglie da lui compiute erano


state predette dai profeti. E ovvio che Giuseppe Flavio, il quale non
credeva affatto alla messianicità di Gesù, ed era anzi avverso ad ogni
forma di messianismo ebraico, non può aver scritto quelle frasi. Esse
sono state certamente inserite da copisti cristiani, al posto di ciò che
Giuseppe Flavio aveva effettivamente scritto, e che non siamo ormai
più in grado di conoscere.
5 II termine pericope è parola greca che significa letteralmente “ta­
gliato intorno”. Si tratta di un termine tecnico per designare piccole
unità informative narrativamente autonome e concluse in se stesse,
al punto che la loro collocazione potrebbe essere spostata senza rom­
pere il filo di alcun racconto.

Gesù 16 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

ni sulle ultime fasi della guerra del Peloponneso e sul


regime dei Trenta Tiranni, eppure gli storici se ne avval­
gono senza alcun problema anche a quest’ultimo scopo.
La nostra conoscenza delle invasioni germaniche dell’Im-
pero Romano, per fare un altro esempio, non dipende sol­
tanto dalle cronache storiche come quella di Prospero
d’Aquitania.
Un testo particolarmente illuminante di quell’argo­
mento è considerato il De gubernatione Dei del prete Sal-
viano, benché sia stato scritto con intenti teologici. Un
testo religioso che si riferisca, pur senza fini storiografi­
ci, ad una determinata vicenda umana, può dunque co­
stituire una buona fonte storica di quella vicenda.
Ciò è possibile, naturalmente, soltanto se la sua uti­
lizzazione è guidata dalla capacità metodologica di sepa­
rare il piano storico che si riferisce alla vicenda da rico­
struire, da un altro piano storico, quello a cui apparten­
gono le idee entro le quali la fonte ha recepito il passato.
Senza questa capacità metodologica, sfuma la storicità
non soltanto dei documenti privi di fini storici, ma persi­
no delle migliori fonti di sicura natura storiografica.
Prendiamo ad esempio l’immagine che Tacito, univer­
salmente e giustamente considerato storico di grande
attendibilità, ci ha tramandato degli imperatori romani
succeduti ad Augusto. Senza una capacità di separare,
da quell’immagine, l’ideologia della classe senatoria a cui
Tacito appartiene, che attribuiva alla follia dispotica de­
gli imperatori la perdita del proprio ruolo dirigente poli­
tico, la stessa vicenda da lui narrata risulterebbe priva
di storicità.
Non ha storicità, infatti, l’immagine di un Impero ro­
mano governato per un intero secolo da scelte scaturite
esclusivamente dalle pazzie, dalle ossessioni, e dalle ge­
losie individuali e private dei suoi imperatori.

G esù 17 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

La ricostruzione storiografica del passato si avvale


normalmente anche di fonti che ce lo restituiscono sotto
forma di episodi isolati, non connessi tra loro in una se­
quenza cronologica, e non collocati nel loro originario con­
testo. Le biografie di Plutarco, ad esempio, sono per Jo
più costruite in tal maniera, eppure non c’è storico che
non le consideri fonti preziose. L’importante è utilizzarle
con le cautele metodologiche messe a punto per narrazio­
ni di questo tipo, con i possibili confronti critici tra i loro
diversi elementi interni, e con tutte le appropriate com­
parazioni con le nostre conoscenze di altre origine. Se si
applicano questi stessi criteri nello studio dei Vangeli,
non c’è ragione per escludere la possibilità di far emerge­
re un fondo di storicità dal loro contenuto narrativo.
Il fatto, poi, che la lingua in cui sono stati scritti i Van­
geli non sia la stessa lingua parlata da Gesù, è di ben
poca rilevanza. Siamo informati, infatti, che la traduzio­
ne di alcune importanti espressioni del messaggio origi­
nario di Gesù dall’aramaico in greco era stata compiuta,
ben prima che fossero redatti i Vangeli che conosciamo,
in funzione di esigenze di predicazione. Inoltre, quando
qualche esperto di lingue antiche si è impegnato a ritra ­
durre in aramaico il testo evangelico greco, ha trovato
interi brani disposti in versi, a riprova che la versione
greca ha conservato fedelmente un originale aramaico
predisposto per la trasmissione orale.6 Del resto, la di­
stanza temporale di Gesù dall’epoca di redazione dei Van­
geli è- di pochi decenni: una situazione molto migliore di

6 La forza della trasmissione orale della memoria storica nelle civil­


tà antiche, e in particolare tra i popoli dell’Antico Oriente, rischia
facilmente di venire sottovalutata. Il nostro tempo, che vive già oltre
l’età della scrittura, in un mondo televisivo e telematico, ha visto spa­
rire la capacità di custodire il ricordo delle vicende passate nella men­
te umana, e di trasmetterlo con la parola parlata. Ma nelle epoche in

Gesù 18 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

quella che lo storico trova, ad esempio, riguardo ad Ales­


sandro Magno, distante alcuni secoli dall’epoca di reda­
zione delle biografie che ci sono pervenute su di lui.
Rimangono da considerare, infine, i tratti sicuramen­
te leggendari delle narrazioni evangeliche. A tal proposi­
to si deve osservare che la loro presenza non è affatto di
per se stessa indice di una mancanza assoluta di storici­
tà. È certamente sensato non prestar fede a taluni aspet­
ti favolosi del racconto evangelico, come la nascita di Gesù
da una vergine, il suo miracoloso salvataggio infantile
dalla persecuzione di Erode, la sua capacità di far torna­
re in vita Lazzaro già morto. Ma prestiamo forse fede,
poniamo, a tutto ciò che ci è raccontato su Ciro di Persia
dal “padre della storia” Erodoto? Crediamo, ad esempio,
che Astiage avesse ordinato, sulla base soltanto di un
sogno, di ucciderlo non appena fosse nato? Crediamo che
fosse stato salvato e allevato, in circostanze stranissime,
da un bovaro? Non ci crediamo, eppure non ci viene nep­
pure in mente di inferirne l’assoluta non storicità di Ero­
doto riguardo a Ciro, o di considerare Ciro un personag­
gio storicamente inconoscibile per i panni favolosi di cui
la tradizione antica lo ha rivestito. Sappiamo, infatti, che
c’è una storicità sottostante anche a determinate leggen­
de, e che portarla alla luce è questione di metodo storico.
Non si vede perché tutto questo non debba valere anche
per i Vangeli.
Quel che intendiamo dire è che le narrazioni evangeli­
che, pur non essendo per nulla documenti storiografici,
posseggono tuttavia sicuramente la storicità minima ne-
cui la stessa scrittura era una tecnica d’avanguardia, e particolar­
mente tra i popoli dell’Antico Oriente, quelle capacità erano al massi­
mo livello, ed esistevano efficacissime tecniche di memorizzazione delle
parole trasmesse soltanto a viva voce, tra le quali l’espressione in
versi.

G esù 19 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

cessaria per consentirci di pervenire ad un’immagine sto­


rica di Gesù. Tale storicità può essere tuttavia effettiva­
mente colta solo a tre condizioni.
La prima condizione è che si abbia consapevolezza fi­
losofica del rapporto che l’uomo intrattiene con il suo
passato storico. Occorre cioè aver chiaro in quale manie­
ra, e con quale significato per il presente, una vicenda
che lo scorrere del tempo ha irrevocabilmente allontana­
to dal presente, e continua incessantemente ad allonta-
narvela sempre più, possa essere recuperata ad esso sot­
to la diversa forma di una ricostruzione storica. Senza
una forte consapevolezza di questo genere un personag­
gio così carico di valenze ideologiche precostituite, e di
così impegnativo accesso storiografico, come Gesù, non
può venire adeguatamente collocato nella storia reale.
La seconda condizione è che non si confonda la storici­
tà di una fonte né con la corrispondenza di ogni suo par­
ticolare narrativo ad accadimenti effettivi, né con un ri­
scontro fattuale degli scopi per i quali è stata redatta. La
discussione sulla storicità dei Vangeli è stata tradizio­
nalmente inquinata da questo equivoco, perché si è rite­
nuto che riconoscerla implicasse riconoscere che Gesù
avesse risuscitato i morti, e che fosse provato il fonda­
mento di verità della religione nata dalle testimonianze
evangeliche. Ciò non soltanto ha favorito l’assunzione di
schemi interpretativi precostituiti, portando a decidere
su un terreno extrastorico anche questioni di natura
schiettamente storica, ma ha anche fatto perdere di vi­
sta lo spessore complesso e polisenso della nozione di sto­
ricità.
La terza condizione necessaria per cogliere la storici­
tà delle narrazioni evangeliche è quella di assumere ri­
spetto ad esse un atteggiamento di ricerca non diverso
da quello normalmente adottato per tutte le altre fonti

Gesù 20 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

storiche. Si tratta di un criterio apparentemente banale,


sul quale però solitamente scivolano i tentativi di rico­
struzione della figura storica di Gesù.
Di fronte ai Vangeli, infatti, gli studiosi tendono, a se­
conda dei presupposti culturali da cui muovono, o ad una
presunzione di verità dei fatti narrati eccessiva rispetto
ni normali canoni storiografici, oppure, viceversa, ad un
vaglio ipercritico dalle maglie molto più strette di quanto
normalmente in uso per le fonti storiche, oppure, su un
altro piano, ad un uso del ragionamento inferenziale, per
colmare le lacune informative, al di fuori delle precauzio­
ni metodiche solitamente adottate nella ricerca storica.
Nel primo caso si apre la strada per contaminare in­
debitamente il Gesù della storia con il Cristo della teolo­
gia. Nel secondo caso si precostituiscono gli elementi per
porre il Gesù della storia al di fuori della conoscenza ra ­
zionale, abdicando alla responsabilità di confrontarsi con
il suo messaggio, e legittimando produzioni di analisi tan­
to dotte quanto vacue. Nel terzo caso si rende il Gesù
della storia ingiustificatamente abbastanza flessibile da
poterne disegnare la figura in modo da conformarla alle
speranze da cui si è sostenuti. In tutti e tre i casi si fanno
cadere le difese metodologiche, che pure esistono, contro
una interferenza incontrollabile delle ideologie e dei de­
sideri degli studiosi sul loro oggetto di studio.
Per noi non è affatto inevitabile che ogni ricostruzione
della figura di Gesù sia di fatto una proiezione di tali
ideologie e desideri. Al contrario, riteniamo di poter mo­
strare la possibilità di farla emergere con contorni effet­
tivamente storici, sulla base delle tre condizioni di cui
abbiamo detto.
La nostra stella polare sarà, in particolare, di non di­
menticare mai, di fronte ad ogni brano dei Vangeli di cui
ci serviremo per incontrare Gesù, di come ci regolerem­

Qksù 21 U omo att/.m siv iiia


M assimo B ontempelli

mo se il brano fosse di Erodoto o di Plutarco, e ci servisse


per arrivare a conoscere un qualsiasi altro personaggio
storico.
Si potrebbe tuttavia obiettare che un tale criterio è di
fatto inapplicabile, per l’assoluta specificità dei Vangeli
rispetto ad altre fonti. Le narrazioni evangeliche sono
infatti intimamente strutturate fin dall’inizio dalla loro
finale e decisiva testimonianza, quella che Gesù è risorto
dalla sua morte. Essa ci viene presentata non come una
enunciazione metafisica, e neppure come una notizia dai
contorni fattualmente indeterminati, bensì come un’in­
formazione storicamente ben circostanziata, e suffraga­
ta da ben definiti riscontri di taluni seguaci di Gesù. Po­
trebbe sembrare perciò ineludibile una scelta di lettura
preliminare e radicale, tale da rendere impensabile qual­
siasi analogia di metodo con l’analisi di documenti di al­
tro genere.
O, cioè, si sceglie di prestar fede alla testimonianza di
quello specialissimo evento che è la risurrezione, ma al­
lora introduciamo nella ricostruzione storica una m ani­
festazione soprannaturale, e adottiamo rispetto al pas­
sato storico la stessa chiave di interpretazione della fon­
te che ce lo ha trasmesso, cioè facciamo due cose che non
faremmo con alcuna altra fonte storica. Oppure respin­
giamo quella particolare testimonianza, ma allora taglia­
mo ogni credito ai Vangeli e alla tradizione alla quale i
Vangeli attingono. Quella particolare testimonianza, in­
fatti, non si basa su una tradizione impersonale, come
tutte le altre informazioni evangeliche, comprese le in­
formazioni storicamente circostanziate sull’ultima setti­
m ana di Gesù a Gerusalemme, ma trasm ette le osserva­
zioni personali di precisi individui della più ristretta cer­
chia di Gesù. Se dunque non la si ritiene credibile, sem­
bra che non si debba a maggior ragione ritenere credibile

G esù 22 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

alcuna altra informazione dei Vangeli, e che si debba con­


siderare falsa fin dalla sua origine la tradizione confluita
in quella fonte, a differenza di quanto supponiamo per le
tradizioni raccolte da altre fonti. Sembra quindi che la
scelta dell’interprete riguardo all’evento della risurrezio­
ne, qualunque essa sia, impedisca di regolarsi con i Van­
geli come con Erodoto o con Plutarco.
La questione è così decisiva riguardo al metodo di ri­
cerca da adottare, e perciò riguardo alla possibilità stes­
sa di incontrare il Gesù della storia, che richiede un chia­
rimento preliminare. Per questo motivo la nostra storia
di Gesù comincia dalla fine, cioè dalle testimonianze del­
la sua risurrezione prodotte dai suoi seguaci dopo la sua
morte.

Gesù 23 U omo nella storia


2. TJincontro con Gesù dopo la sua m orte

Il documento più antico che faccia menzione della ri­


surrezione di Gesù non è uno dei Vangeli, ma una lettera
di Paolo, nella quale sono elencate le apparizioni di Gesù
dopo la sua morte.
Gesù, dice Paolo, riferendo la tradizione giunta fino a
lui, dopo la sua morte apparve una prima volta a Cefa,
che è il nome di Pietro in lingua aramaica. La sua secon­
da apparizione fu al cospetto della cerchia ristretta dei
suoi apostoli, i cosiddetti Dodici. Poi, prosegue Paolo,
apparve a cinquecento discepoli riuniti, e successivamente
a Giacomo. Infine apparve al mittente della stessa lette­
ra.i
Questa testimonianza è considerevolmente diversa da
quella dei Vangeli, soprattutto perché non fa alcun riferi­
mento alla tomba trovata vuota da Maria Maddalena e
da altre donne, ed al ruolo da esse giuocato nei giorni
successivi alla morte di Gesù, che nei Vangeli rappresen­
tano invece l’origine della fede nella risurrezione.
Si può provare che il nucleo originario dell’intera te­
stimonianza cristiana della risurrezione di Gesù è den­
tro la tradizione confluita nei Vangeli, e che da tale nu­
cleo originario si è sviluppata in tempi brevi una pro­
gressiva amplificazione leggendaria, già a buon punto
quando Paolo scriveva le sue lettere. Vediamo.
La progressiva amplificazione leggendaria non può
essere seriamente negata da alcuno, perché risulta dal
confronto dei Vangeli stessi tra loro. Il secondo Vangelo,
che è in realtà cronologicamente il primo ad essere stato
redatto, e quello nel quale è confluita la tradizione più
antica, cioè il Vangelo di Marco, nella sua versione origi-

1 1 Corinzi 15 , 3-8 .

G esù 24 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

nana racconta una risurrezione non vista da alcuno.2Esso


narra, infatti, come il primo giorno della settim ana im­
mediatamente successiva a quella della morte di Gesù,
Maria Maddalena si fosse recata di buon mattino, insie­
me ad altre due donne, nel giardino dove aveva visto sep­
pellirlo, per prestargli le cure funebri allora in uso. Aven­
do trovata rimossa la pietra sepolcrale, si era introdotta
nel sepolcro scavato in una roccia di quel giardino. Den­
tro, il corpo di Gesù era scomparso, e c’era un giovinetto
seduto, il quale, rivolto alle donne, disse loro di non cer­
care più il morto, perché Gesù era ormai risorto. Con
questa notizia della risurrezione, data senza indicarne
né provenienza né fondamento, e con la fuga spaventata
delle donne dal sepolcro scoperchiato e vuoto, si chiude
l’annuncio evangelico originario.3
La narrazione del Vangelo di Luca diverge dal raccon­
to di Marco, perché attinge ad una tradizione successiva
i cui elementi sono parzialmente diversi: le donne che
accompagnano Maria Maddalena non sono le stesse, e
trovano non un giovinetto ma due uomini; questi uomini,
inoltre, non stanno seduti dentro il sepolcro, ma vengono
dall’esterno, e dicono cose diverse da quelle dette dal gio­
vinetto nel Vangelo di Marco.4 Quel che qui ci interessa,

2 II Vangelo di Marco (titolo che deve essere inteso, lo ricordiamo, e


l’avvertenza vale anche per la designazione che diamo di tutti gli altri
Vangeli di qui in poi, non già come Vangelo di cui sappiamo essere
stato autore Marco, ma come Vangelo ecclesiasticamente collegato a
Marco, secondo quanto spiegato in nota 3 del cap. 1), termina nel suo
testo originario, o almeno nel testo che troviamo nei codici più anti­
chi, al 16, 8. Il testo che segue nelle attuali edizioni (16, 9-20), e che
riporta un elenco riassuntivo dei riconoscimenti di Gesù risorto nar­
rati dagli altri Vangeli, è stato posteriormente inserito, alla fine del II
secolo, nel documento canonico, come è universalmente ammesso.
3 Marco 16,1-8.
4 Luca 24, 1-8.

(ÌKSÙ 25 U omo nella stokia


M assimo B ontempelli

tuttavia, non sono tanto queste differenze, quanto il fat­


to che la tradizione a cui appartengono è portatrice di
un’amplificazione considerevole della notizia della risur­
rezione: i due uomini che l’annunciano davanti al sepol­
cro vuoto hanno vesti abbaglianti come folgori, e riferi­
scono alle donne che Gesù aveva già predetto in vita il
modo in cui sarebbe morto, e come avrebbe vinto la mor­
te dopo tre giorni, assicurando che gli accadimenti si era­
no già svolti esattamente secondo le sue predizioni; le
donne, poi, diffondono tra gli apostoli l’annuncio loro co­
municato, dicendo di averlo ricevuto da una visione di
angeli, e gli apostoli, inizialmente diffidenti, ne trovano
successivamente conferma, perché fanno essi stessi alcu­
ni incontri con Gesù risorto.
La narrazione del Vangelo di Matteo riprende gli ele­
menti essenziali del racconto di Marco, dal quale eviden­
temente dipende, ma inserendoli in uno scenario di pro­
digi ben più eclatanti di quelli introdotti da Luca: il gio­
vinetto seduto nel sepolcro, ripreso da Marco, e al quale
vengono fatte dire le stesse cose che dice in Marco, è pre­
sentato come un angelo disceso dal cielo; la sua discesa
dal cielo è accompagnata da un terremoto che tram orti­
sce alcuni soldati messi a guardia del sepolcro; le donne
presenti hanno la visione non soltanto del giovane, di­
ventato angelo, ma anche, subito dopo, di Gesù tornato
vivo, che va loro incontro, senza che si dica da quale par­
te provenga, e come sia comparso.5
Abbiamo riassunto l’uno dopo l’altro questi brani dei
Vangeli, perché essi, se letti e confrontati con un minimo
di sincera volontà di conoscenza, parlano veramente da
soli di una leggenda che si forma e si amplifica man mano
che viene trasmessa la notizia della risurrezione di Gesù

5 Matteo 28 , 1- 10.

G esù 26 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

dalla morte. Non ha veramente senso ritenere religiosa-


mente che ogni cosa raccontata dai Vangeli corrisponda
ad un fatto effettivamente accaduto, perché ciò è contrad­
detto da una comparazione interna ai Vangeli stessi: se
fosse effettivamente accaduto, durante la visita delle don­
ne al sepolcro di Gesù, il prodigioso terremoto di cui par­
la Matteo, perché Marco e Luca, quando ci informano di
quella visita, non ne fanno alcuna menzione? Come può
essere accaduto che il giovane che annuncia la risurre­
zione di Gesù alle donne sia stato visto da loro seduto
dentro il sepolcro, quando vi sono entrate, e sia stato an­
che visto, invece, scendere dal cielo sopra il sepolcro, sen­
za che esse vi fossero entrate? E se ha ragione Matteo nel
dirci che le donne, appena avuta la visione, corsero con
gioia a riferirla agli apostoli, come può avere ragione an­
che Marco nel dirci che non si recarono a riferire ciò che
avevano visto agli apostoli, perché erano sconvolte dallo
spavento? D’altra parte, una volta provato che certe in­
formazioni dei Vangeli non corrispondono ad effettivi ac­
cadimenti, è razionale anche sospettare di tutte le altre
che siano contrarie all’ordine naturale delle cose, pur in
assenza di disconferme interne alle narrazioni stesse.
Ma cosa c’è di più contrario all’ordine naturale delle
cose di una risurrezione dalla morte? Se dunque nei Van­
geli c’è, come abbiamo osservato fin dall’inizio, una buo­
na dose di leggenda, e se sono in particolare intessuti di
leggende i racconti che hanno come tema la risurrezione
di Gesù, non se ne deve allora concludere che nessuna
delle informazioni evangeliche sulla risurrezione ha la
minima base reale? E da una simile conclusione non de­
riva forse che l’annuncio fondante e strutturante delle
narrazioni evangeliche è pura invenzione, e che tale in­
venzione, in quanto relativa a vicende molto circostan­
ziate, poco distanti nel tempo dalle narrazioni stesse, e

G esù 27 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

risalenti alle testimonianze di alcune persone ben defini­


te che ne furono protagoniste, suppone alla sua origine
una frode deliberata? Se così è, non è forse vero che i
Vangeli sono fonti storiche riguardo alla comunità cri­
stiana che ne promosse la redazione, ma non riguardo a
Gesù, come, ad esempio, la donazione di Costantino di­
m ostrata falsa dal Valla è per ciò stesso fonte riguardo
alla cultura medievale dalla quale è scaturita, ma non
certo riguardo all’imperatore Costantino? Non è forse
vero, allora, che il Gesù storico è inattingibile? Vediamo.
Ci siamo proposti di prendere in considerazione i Van­
geli con lo stesso metodo storico con cui si leggono storio­
graficamente, tanto per fare esempi, Erodoto e Plutarco.
Questo metodo annovera tra gli indizi certi di storicità
del contenuto narrativo di una fonte il fatto che ciò che è
narrato non corrisponda agli scopi propri della narrazio­
ne, sulla base degli intendimenti del narratore e dei cri­
teri di valutazione del suo ambiente. Se per esempio tro­
viamo nelle Storie di Erodoto, con le quali l’autore e la
comunità di Atene volevano celebrare la gloria della vit­
toriosa guerra ateniese contro i Persiani, l’accenno ad una
manovra politica filo-persiana, all’interno di Atene, alla
vigilia della battaglia di Maratona, questa notizia deve
essere ricondotta ad una base storica reale, in mancanza
della quale né Erodoto né gli Ateniesi l’avrebbero mai
diffusa, in quanto offuscava un po’ quella gloria della cit­
tà che era nei loro scopi celebrare. Con lo stesso criterio,
deve essere ricondotta ad una base storica reale la noti­
zia, riportata dalle narrazioni evangeliche, della scoper­
ta compiuta da Maria Maddalena e da altre donne, da­
vanti al sepolcro vuoto, della risurrezione di Gesù. Non
può trattarsi di un’invenzione, perché non corrisponde al
primo e fondamentale scopo per cui sono stati scritti i
Vangeli, quello di promuovere e diffondere la certezza che

Gesù 28 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Gesù, essendo il Cristo predetto dalle Scritture, era ri­


sorto dalla morte per instaurare il suo regno. Non giova­
va certo a questo scopo, infatti, dover dire che la prima e
fondamentale testimonianza della risurrezione era quel­
la di una donna accompagnata soltanto dalle sue ami­
che, cioè di una testimone ben poco autorevole in base ai
criteri di valutazione dell’ambiente ebraico dell’epoca, e
di una donna, per giunta, che aveva un fortissimo lega­
me emotivo con Gesù, e un passato di instabilità menta­
le. Nel Vangelo di Luca traspare addirittura esplicitamen­
te il disagio per il fatto che la notizia della risurrezione di
Gesù fosse venuta da un gruppo di donne.6 Se dunque i
Vangeli riferiscono come Maria Maddalena ed altre don­
ne avessero scoperto la risurrezione di Gesù, ciò non può
voler dire altro che si sentivano costretti a riferirlo dal
fatto che era giunta fino a loro una tradizione precisa, e
nata da accadimenti reali, in tal senso. La leggenda, si
deve concludere in base ad un sano criterio di metodo
Htorico, ha certamente arricchito questa tradizione con i
numerosi elementi favolistici, atti a rendere il più possi­
bile potente e meravigliosa la manifestazione di Gesù ri­
sorto, di cui si è detto, ma non ne ha di sicuro creato il
nucleo originario.
Ma cosa può significare che la scoperta compiuta da
Maria Maddalena e dalle altre donne della risurrezione
di Gesù ha una base storica reale? Non si cade, dicendo
questo, dalla padella dello scetticismo storico di chi con­
sidera leggendario l’intero racconto evangelico, nella brace
di una storia fatta di manifestazioni sovrannaturali, e
subordinata alle idee di coloro che ce l’hanno tram anda­
ta? Si può provare che non è questa l’alternativa in cui
siamo posti, analizzando un Vangelo che abbiamo finora

" Luca 24 , 22 -24 .

(Insti 29 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

lasciato da parte, e che fornisce invece gli elementi deci­


sivi per sciogliere la questione, quello cioè di Giovanni.
Il Vangelo di Giovanni ci mette dinanzi la scena di
Maria Maddalena seduta nel giardino dove era stato se­
polto Gesù, in lacrime presso il sepolcro scoperchiato e
ormai vuoto, che si dispera perché non sa dove sia stato
portato il corpo del suo amato signore. Volgendo la testa,
scorge al suo fianco un uomo in piedi. Ritenendolo il cu­
stode del giardino, e supponendolo quindi informato del­
la traslazione della salma di Gesù, gli chiede, con il volto
ancora rigato di pianto, di dirle dove sia stato portato il
corpo del morto, perché vuole andare a prenderlo, per
poterlo onorare. Non appena l’uomo comincia a rispon­
derle, ella intuisce che è Gesù in persona, e gli si rivolge
quindi con un affettuoso diminutivo con cui era solita
chiamare Gesù. Quello però rifiuta dolcemente le sue ef­
fusioni, e Maria corre allora dagli apostoli, riferendo loro
che ha visto Gesù vivo, e che Gesù le ha detto di annun­
ciare a tutti coloro che lo hanno seguito che è in procinto
di salire da Dio suo padre. Soltanto Pietro ed un altro
discepolo prendono in qualche modo sul serio le sue paro­
le, precipitandosi al sepolcro per vedere cosa fosse suc­
cesso. E soltanto l’altro discepolo, non Pietro, un discepo­
lo mai chiamato per nome, ma indicato sempre come il
discepolo che Gesù amava, entrato dentro il sepolcro, e
viste per terra le bende che erano servite per fasciare la
salma, senza più alcun cadavere, crede, come Maria Mad­
dalena, che Gesù sia risorto.7

7 Nella ricostruzione dell’episodio abbiamo posposto il racconto di


Giovanni 20, 2-10 a quello, che nel testo evangelico lo segue, di Gio­
vanni 20,11-18. Chi legge il cap. 20 dell’ultimo Vangelo può facilmen­
te constatare che solo in questo modo l’episodio acquista senso logico.
D’altra parte sappiamo che i redattori dei Vangeli non ne hanno crea­
to il testo, bensì hanno riorganizzato materiali letterari preesistenti,

G esù 30 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Cosa risulta da questo racconto ad un qualsiasi letto­


re che sia interessato soltanto a decifrarne il senso con il
normale metodo di analisi di una fonte storica, senza far­
si condizionare da sentimenti di adesione o di avversione
alla fede religiosa che sui Vangeli si è fondata? Risulta
forse che Maria Maddalena ha visto fisicamente Gesù
risorto? Ma via! Allora perché non credere che Bruto ha
visto fisicamente Cesare che dopo morto gli ha profetiz­
zato la futura sconfitta di Filippi, come narra Plutarco?
E perché non credere, quindi, che Cesare fosse una divi­
nità capace di interventi sovrannaturali, come credeva­
no i pagani? Oppure, al contrario, risulta che l’episodio è
un’invenzione, e che al massimo, se non lo è, narra pen­
sieri ed atti di una donna uscita fuori di senno? Ma via!
Solo uno sciocco positivismo può impedire di cogliere le
vibrazioni di profonda verità che l’episodio trasm ette,
soprattutto se lo si legge non nella lingua di oggi, ma
nell’originale greco.8

o sono stati proprio alcuni interpreti cattolici a notare come nel cap.
20 di Giovanni il v. 1 sia logicamente continuato dal v. 11.1 v. v. 2-10
costituiscono quindi, evidentemente, un blocco, proveniente da un’al­
tra tradizione, che il redattore ha maldestramente inserito.
8 Nell’analisi delle fonti sono solitamente ritenuti elementi indica­
tori di veridicità quei particolari molto dettagliati la cui menzione
non corrisponde ad alcuno scopo preciso della narrazione, e che si
spiegano perciò come relitti percettivi di autentiche testimonianze.
Particolari di tal genere sono abbondantissimi in questo episodio, a
partire dalla sua individuazione temporale, del tutto superflue nel­
l’economia del racconto, con l’avverbio npcut, “di buon mattino”, e l’ul­
teriore precisazione oKortag eri oùar|g, cioè che, pur essendo già mat­
tino, era ancora buio. Poi ci sono le notazioni relative alla corsa verso
il sepolcro di Pietro e del discepolo prediletto: quest’ultimo corre più
veloce, arriva per primo, ma si ferma, ed è Pietro, non lui, ad entrare
per primo nel sepolcro.

(insù 31 Uomo n eu ji htokm


M assimo B ontempelli

Cosa risulta, dunque? Risulta che qualcuno, estraneo


alla cerchia degli apostoli e a loro insaputa,9 qualcuno
sulla cui identità e i cui scopi si possono fare soltanto
esili congetture storicamente irrilevanti,10 aveva tolto le
bende al corpo di Gesù e lo aveva portato via dal giardino
in cui era stato inizialmente deposto, e che Maria Mad­
dalena, recatasi in quel giardino, vide fisicamente il giar­
diniere e incontrò spiritualmente Gesù.
Avvertiamo il lettore positivista che non stiamo allu­
dendo né ad un’autoillusione né a fenomeni miracolosi o
paranormali, ma stiamo parlando di una spiritualità in­
sita nella reale socialità umana. Maria Maddalena, che
fu con ogni verosimiglianza la donna di Gesù, se non ad­
dirittura la sua legittima sposa,11 aveva recepito l’inse-

9 Si tratta forse di Giuseppe d’Arimatea, un giudeo di elevatissimo


rango sociale, appartenente alla ristretta cerchia ebraica collocata al
vertice della gerarchia del potere di Gerusalemme, tanto che potè tran­
quillamente farsi ricevere da Pilato e chiedergli il corpo di Gesù. Di
Gesù, peraltro, egli era discepolo, ma in segreto, senza frequentarne i
più conosciuti seguaci, per non compromettere la sua posizione di
potere. Ciò è chiaramente detto in Giovanni 19, 38, ed anche in tutti
gli altri Vangeli.
10 Interessante, tra le varie ipotesi, quella di H ugh S chonfield, Cri­
sto non voleva morire, Tindalo, 1968, dove si suppone che il corpo di
Gesù sia stato levato dal sepolcro ancora vivo, perché Giuseppe d’Ari­
matea era riuscito a farlo togliere dalla croce prima che morisse, in
esecuzione di una disposizione datagli da Gesù stesso, il quale avreb­
be quindi sperato non già di risorgere dalla morte, ma di evitarla, con
l’aiuto di Dio, imponendosi così a tutti come il Messia liberatore. No­
nostante gli indizi di un certo peso che l’autore è in grado di portare a
sostegno della sua tesi, questa rimane pur sempre ima semplice con­
gettura.
11 Maria Maddalena, ovvero Maria la Pettinatrice (tale era il signifi­
cato della parola oggi resa con Maddalena), è un personaggio piutto­
sto misterioso e sfumato nelle narrazioni evangeliche, persino nelle
sue denominazioni. Il Vangelo più antico la chiama Maria Maddalena
(Marco 15,40). Un altro Vangelo la ricorda come «Maria, chiamata la

G esù 32 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

gnamento da lui trasmesso con più amore e profondità


dei suoi futuri eredi religiosi maschi. Per questo motivo
seppe riconoscere l’impronta vivida di Gesù, la sua im­
magine riflessa, nelle parole e negli atteggiamenti del
custode del giardino comparso presso di lei, che a Gesù

Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni» (Luca 8, 2): esso
sottolinea dunque come Maddalena non fosse il suo nome originario,
e come avesse avuto una infermità mentale. Il primo Vangelo, però, la
chiama Maria di Magdala (Matteo 28,1). Nel quarto Vangelo è egual­
mente menzionata come Maria di Magdala (Giovanni 20,1), ma an­
che come Maria sorella di Marta e di Lazzaro (Giovanni 11,1). L’iden­
tità di Maria Maddalena con Maria di Magdala e con Maria sorella di
Marta e di Lazzaro non appare immediatamente evidente nei testi
evangelici, ma risulta tuttavia con sicurezza dalla loro comparazione,
e dalla loro interpretazione antica. Basti pensare che l’antica liturgia
latina celebrava il 22 luglio la festività di Maria Maddalena, identifi­
candola sia con Maria di Magdala, sia con Maria sorella di Marta e di
Lazzaro, sia con la peccatrice del terzo Vangelo (Luca 7,37). La figura
di questa donna è stata brutalmente cancellata da Paolo, e pesante­
mente ridimensionata e contraffatta dai primi tre Vangeli, tanto che
non saremmo in grado di capire la sua importanza se nel Vangelo di
Giovanni, il cui redattore, pure, mira egualmente a tenerla in ombra,
non fosse confluita una tradizione che la ricordava. Ciò può essere
ragionevolmente spiegato soltanto con una volontà di esclusione de­
gli apostoli, che trova conferma nei testi apocrifi, dove è riferito, ad
esempio, il fortissimo disappunto di Pietro per il ruolo riconosciuto da
Gesù a questa donna (Vangelo apocrifo di Tommaso 114). La gelosia
degli apostoli è intuibile, se si pensa al maschilismo dell’ambiente
ebraico, e al posto che questa donna aveva nel cuore di Gesù. In un
testo apocrifo si legge che «Gesù amava Maria più di tutti i suoi disce­
poli, e spesso la baciava pubblicamente sulla bocca» (Vangelo apocrifo
di Filippo 55). Una traccia del rapporto speciale di Maria con Gesù è
rimasta del resto nello stesso Vangelo di Giovanni, specie nell’episo­
dio dell’incontro con il custode del giardino. Questi, allo slancio di
Maria verso di lui, nel quale ha riconosciuto Gesù, le risponde «pf|
pou cottou» (Giovanni 20,17), cioè «non mi abbracciare», pudicamen­
te tradotto «non trattenermi», come se il verbo fosse usato nella forma
attiva anziché media, come cioè se ci fosse scritto «pf| pou cotte». Ma­
ria, dunque, era solita abbracciare Gesù. Se si pensa che Gesù è spes-

G esù 33 U omo n e u a stoma


M assimo B ontempelli

era stato certamente legato. Costui, che la stava osser­


vando mentre ella stava raccolta presso il sepolcro, non
appena la vide voltarsi verso di lui con il volto in lacrime,
le parlò dicendole: «Donna, perche piangi?», che corrispon­
deva, ad una maniera di esprimersi di Gesù, e che dovet­
te, in quelle circostanze (Gesù morto da pochissimo in
m aniera orribile, il sepolcro misteriosamente vuoto, il
futuro incerto), fare una forte impressione su di lei. Subi­
to dopo, alla sua richiesta di chiarimenti sulla sorte della
salma, l’uomo rispose non dandole informazioni, ma pro­
nunciando il suo nome: «Maria!». La dolcezza e la peren­
torietà di questa esclamazione, di cui il testo scritto non
può restituirci peraltro l’intero contesto espressivo, né
dirci i sottintesi riferimenti, richiamò evidentemente alla
donna, con molta potenza emotiva, il modo in cui Gesù
era solito rivolgerle la parola, e indirizzarla alla consa­
pevolezza di qualche particolare situazione. Ella ebbe
perciò uno slancio d’affetto verso quell’uomo in cui aveva
riconosciuto Gesù, al quale egli rispose bensì frenandola,
ma con una dolcezza e un’autorevolezza che erano le stesse
che Gesù aveva in tante altre circostanze espresso nei
confronti di altri e di lei stessa.
Quel mattino, dunque, benché Gesù fosse morto, Ma­
ria Maddalena ne incontrò realmente, e non illusoriamen-
te, lo spirito. La connessione sociale nella quale soltanto
si esprime ogni esistenza umana comporta, infatti, an­
che la trasmissibilità da un individuo all’altro di atteg-

so chiamato nei Vangeli Rabbi, appellativo riservato per legge soltan­


to a uomini sposati, e che la tradizione gnostica conservava il ricordo
che Maria fosse il nome della madre, della sorella e della moglie di
Gesù, è facile inferirne che Gesù fosse sposato con Maria Maddalena.
Del resto i Vangeli dicono che, quando era a Gerusalemme, passava
la notte a Betania (Matteo 21, 17), e Betania era appunto il villaggio
dove abitava Maria.

G esù 34 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

gi amenti esistenziali, pensieri, inclinazioni, valori. È su


questo dato di realtà che è stata costruita la nozione filo­
sofica di spirito. È per questo dato di realtà che anche
l’uomo comune fa talvolta esperienza, benché di rado pie­
namente consapevole, di frammenti dell’individualità di
una persona operanti nel modo di essere di un’altra per­
sona. Gesù, d’altra parte, fu una persona straordinaria,
anche per la capacità di comunicare personalmente agli
altri i suoi valori di vita. Il suo spirito, quindi, più che
quello di ogni altra persona, aveva la forza di manife­
starsi in altre persone, anche dopo la sua morte. In que­
sto senso Maria Maddalena potè incontrarlo. In questo
senso potè acquisire la certezza che Gesù fosse sempre
vivo. E, prima in lei, poi in loro stessi, anche altri seguaci
di Gesù trovarono la stessa certezza, il cui senso era che
la splendida speranza diffusa da Gesù, la speranza del
prossimo avvento di un regno di Dio sulla Terra, non era
morta con la sua morte, ma era sempre attuale nella co­
munità dei credenti.
A una tale ricostruzione della base storica reale, de­
purata dalle amplificazioni leggendarie man mano sedi­
mentate dalla tradizione e poi confluite anch’esse nei rac­
conti evangelici, della testimonianza della risurrezione
trasmessa dai Vangeli, si potrebbe obiettare che essa tra ­
disce e impoverisce il contenuto di quella testimonianza.
Maria Maddalena prima, gli apostoli poi, e i redattori dei
Vangeli alla fine, si potrebbe sostenere, intesero testimo­
niare apparizioni di Gesù risorto in carne ed ossa, e non
manifestazioni del suo spirito in altre persone, tanto è
vero che al cospetto degli apostoli riuniti Gesù risorto
mostrò, nel racconto di Giovanni, le ferite ancora aperte
nelle sue mani e al suo fianco. Non sul piano di semplice
immanenza che abbiamo ricostruito, si potrebbe osser­
vare, ma sul piano religioso, e in una pienezza di fede,

Gesù 35 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Maria Maddalena, gli apostoli, i discepoli, fecero espe­


rienza di Gesù tornato vivo, ed è precisamente questa
esperienza che i Vangeli ci consegnano. La possibilità di
obiezioni di tal genere esige tre considerazioni chiarifica­
trici.
La prima considerazione da fare è che, se intendere le
informazioni fornite da una fonte storica in modo diverso
da quello implicato dalla forma culturale propria della
fonte, e delle testimonianze e tradizioni alle quali la fon­
te ha attinto, significasse tradirne il contenuto, allora il
normale lavoro dello storico sarebbe un continuo tradi­
mento delle fonti. Compito dello storico è infatti precisa-
mente quello di svincolare il passato dall’immagine im­
mediata che ne hanno avuto coloro che lo hanno vissuto,
perché questa è la condizione per connetterlo concettual­
mente agli sviluppi successivi ad esso, mediante i nuovi
elementi di conoscenza fomiti da tali sviluppi, in quel
percorso nel tempo che chiamiamo storia.
Così, ad esempio, lo storico deiringhilterra moderna
che legge nelle sue fonti come Cromwell, prima di pren­
dere le sue fondamentali decisioni militari e politiche, si
fosse sempre rinchiuso solo nella sua tenda per consulta­
re Dio, e ne fosse poi uscito con decisioni sempre vincen­
ti, perché espressive della volontà divina, non tradisce
certo tali fonti quando, sulla base degli altri riscontri che
possiede, intende il Dio incontrato da Cromwell nella sua
tenda come l’unità delle forze rivoluzionarie da conser­
vare ad ogni costo. Altrimenti, paradossalmente, per es­
sere fedele alle sue fonti lo storico dovrebbe essere libe­
rale con le fonti liberali, musulmano con quelle musul­
mane, fascista con quelle fasciste. D’altra parte, lo stori­
co che intende le consultazioni di Cromwell con Dio in
m aniera diversa da quella immediatamente percepita da
Cromwell stesso e dai suoi seguaci in base al loro schema

Gesù 36 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

teologico puritano, arricchisce le sue fonti di valenze in­


formative, e il suo personaggio di radici storiche.
Quest’ultima osservazione introduce direttamente alla
seconda considerazione da svolgere. Nella narrazione
dell’ultimo Vangelo Maria Maddalena, quando si trova
presso il sepolcro vuoto, scorge Gesù in piedi, suppone
dapprima che sia il custode del giardino, si rende conto
poi che è Gesù. Noi abbiamo tradotto: scorge il custode
del giardino in piedi, gli rivolge dapprima la parola per
quello che fisicamente egli è, incontra poi in lui spiritual-
mente Gesù. Questa traduzione impoverisce forse il con­
tenuto della testimonianza evangelica? Certamente no.
Al contrario, ne svela uno spessore spiritualmente più
autentico e più ricco. Immaginiamo infatti che Maria
Maddalena avesse davvero visto, quel mattino al giardi­
no del sepolcro, l’immagine fisica del corpo di Gesù. In
tal caso, il suo riconoscimento di Gesù avrebbe richiesto
non più che uno sforzo percettivo, senza alcuna media­
zione spirituale. Ed immaginiamo che gli apostoli ed i
discepoli abbiano alla fine creduto alla Maddalena per
aver avuto anch’essi vere e proprie apparizioni fisiche di
Gesù risorto. In tal caso, la loro fede nella risurrezione
non sarebbe stata una creazione storica, e neppure pro­
priamente una fede, ma non avrebbe rappresentato altro
che la presa d’atto di una serie di fatti accaduti sotto i
loro occhi. La ricostruzione della fede nella risurrezione
come prodottasi sul piano dell’immanenza storica chia­
ma in causa, invece, tutta l’intensità dell’amore di Maria
Maddalena per Gesù, tutta la profondità del modo in cui
ne aveva recepito l’insegnamento, tutto il suo disperato
bisogno di lui, e tu tta l’eccezionale capacità di Gesù di
lasciare indelebili tracce spirituali nelle menti, nei cuori
e negli atteggiamenti dei suoi seguaci, come condizioni
della possibilità di Maria Maddalena di incontrare Gesù

Gesù 37 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

dopo morto. Essa chiama in causa, inoltre, la grandezza


della speranza suscitata da Gesù, e la forza con cui le sue
parole, le sue scelte, il ricordo della sua personalità, con­
tinuarono ad alimentarla nei suoi seguaci dopo la sua
morte. L’esperienza della risurrezione di Gesù rivela al­
lora il suo valore di scoperta creativa della capacità dello
spirito di incontrare e riportare entro certi limiti in vita
ciò che il male ha distrutto. In definitiva, è proprio l’in­
terpretazione sovrannaturalistica della risurrezione,
come fenomeno da baraccone di un corpo morto che riap­
pare corpo vivente, ad impoverire spiritualmente il con­
tenuto della testimonianza evangelica. Da un punto di
vista filosofico dò è persino ovvio, perché trascendenti­
smo sovrannaturale ed empirismo fisico sono due facce
di una stessa incapacità a riconoscere l’immanenza onto­
logica dello spirito.
La nostra terza considerazione riguarda la forma cul­
turale entro la quale interpretarono la risurrezione di
Gesù coloro che vi credettero. Si tratta certamente di una
forma culturale che non poteva consentire una compren­
sione dell’idea di risurrezione sul piano dell’immanenza
spirituale. Ma si sbaglierebbe a pensare che i racconti
evangelici trasmettano un’idea fisicistica della risurre­
zione di Gesù, come nuova apparizione alla percezione
del suo corpo biologico. Proviamo a leggerli bene.
Gli episodi più antichi della tradizione evangelica sul­
la risurrezione narrano riconoscimenti di Gesù risorto che
non hanno alcuna base percettiva, per cui l’abitudine cri­
stiana di chiamarli apparizioni rappresenta una mistifi­
cazione linguistica. Ciò che manca in questi episodi è in­
fatti proprio l’apparizione fisica di Gesù, in quanto egli
viene incontrato in persone che non hanno i suoi tratti
somatici, né alcuna somiglianza esteriore con lui, e viene
riconosciuto esclusivamente dalle sue iniziative e dalle

G esù 38 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

sue parole. Il primo di questi episodi lo abbiamo già vi­


sto: Maria Maddalena riconosce Gesù, per il modo in cui
si rivolge a lei e per come la chiama per nome, in un uomo
che non sembra essere lui, e le cui fattezze fisiche sono
quelle del custode del giardino del sepolcro. Il secondo
episodio è persino più eloquente: due discepoli in cammi­
no incontrano un viandante, fanno due ore di strada con
lui senza sapere chi sia, e lo riconoscono come Gesù, quan­
do se n’è andato, ripensando al modo come ha spezzato e
ha dato loro del pane, e a quel che ha detto loro a propo­
sito delle Scritture.1213
Questi due elementi di riconoscimento sono molto si­
gnificativi. Cosa dice infatti il viandante ai discepoli men­
tre fa la strada con loro? Essi gli hanno confidato di aver
sperato che il loro maestro Gesù fosse in procinto di libe­
rare Israele, e di essere caduti nello sconforto con la sua
morte, e lui risponde loro citando tu tta una serie di brani
scritturali degli antichi profeti, e spiegandoli in modo da
far risultare come fosse stato preannunciato dalle Scrit­
ture che il liberatore di Israele avrebbe patito le soffe­
renze e le umiliazioni subite da Gesù. Dopo che se ne è
andato, i due discepoli si danno questa prova di aver in­
contrato in lui Gesù: «Non ci ardeva forse il cuore mentre
egli conversava con noi sulla strada, svelandoci il senso
delle Scritture?».12 Risulta qui evidente, ad ogni lettore
non prevenuto, come l’idea della risurrezione di Gesù sia
nata non da un’apparizione miracolistica del suo corpo
tornato in vita, ma dall’esperienza di una rinascita delle
speranze messianiche da lui suscitate, e da una nuova
coscienza della loro possibile giustificazione proprio con
la sua morte. La cultura religiosa dell’epoca esigeva però,

12 Luca 24, 13-35.


13 Luca 24, 32.

Gesù 39 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

perché il ravvivarsi di un’eredità spirituale potesse esse­


re inteso come risurrezione, anche una traccia specifica-
mente personale di quell’eredità. Ecco quindi il secondo
elemento che rende possibile riconoscere Gesù nel m iste­
rioso viandante: questi benedice, spezza e porge il pane
proprio come Gesù.
Un terzo episodio narra come un gruppo di seguaci di
Gesù, tornati dopo la sua morte a fare i pescatori sul lago
di Galilea, mentre cercano di procurarsi il cibo quotidia­
no pescando non lontano dalla riva, sentano dirsi da un
uomo a terra: «Figli, non avete da mangiare?».14 Essi gli
rispondono che per il momento sono effettivamente sen­
za cibo, e lui consiglia loro il luogo dove gettare le reti,
rendendo possibile una pesca abbondante. Da questo con­
siglio, e dal suo atteggiamento premuroso, essi si rendo­
no conto che è Gesù,15anche se non lo hanno fisicamente
riconosciuto.16
Si tra tta dunque di episodi che descrivono incontri con
la manifestazione dello spirito di Gesù nei pensieri e nel­
le azioni di persone fisiche diverse da lui, tali da non ri­
chiedere affatto un ritorno del suo corpo morto alla vita
biologica. Questa ricostruzione dell’esperienza dell’incon­
tro con Gesù dopo la sua morte, tram andata dai suoi se­
guaci, non è soltanto un’interpretazione delle testimonian­
ze evangeliche legittimata dal metodo storico, come ab­
biamo spiegato nella nostra prima considerazione, m a è
anche sorprendentemente vicina, come abbiamo fin qui
mostrato, al senso esplicitamente esibito da alcune di que­
ste testimonianze.

14 Giovanni 21, 5.
15 Giovanni 21, 6-7.
16 Giovanni 21, 4.

G esù 40 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

C’è però ancora di più. Persino negli episodi evangeli­


ci sulla risurrezione che sono frutto di una successiva ela­
borazione della tradizione, in funzione dell’esigenza di
predicare la risurrezione a quanti non avevano mai co­
nosciuto Gesù, e che presentano perciò 1’incontro con il
risorto come un riconoscimento percettivo della sua cor­
poreità, manca il verbo apparire, nel senso specifico di
un’esperienza fisica che si manifesta alla percezione.
Questo è uno di quei casi in cui è veramente di decisiva
importanza leggere i Vangeli nell’originale greco. Essi non
dicono, come invece dice Paolo quando riassume le diver­
se esperienze della risurrezione, che Gesù «apparve»,17
ma dicono invece - proprio, si badi bene, in quei pochi
episodi nei quali il risorto è presentato come percettiva-
mente riconoscibile nel suo corpo —che egli «si fece incon­
tro»,18 «si fece conoscere»,19 «stette presente».20Il vocabo­
lario stesso che è usato nelle narrazioni della comparsa
corporea di Gesù rivela dunque che il nucleo originario
della testimonianza della risurrezione si riferiva alla per­
sonalità spirituale di Gesù e non alla sua fisicità, in quan­
to costruisce un linguaggio dell’incontro, non dell’appari­
zione, ovvero della relazione, e non della percezione.
C’è infine un aspetto delle testimonianze evangeliche
sulla risurrezione che è di capitale importanza per la ri-
costruzione storica, e che non è stato tuttavia utilizzato a
questo scopo, non perché sia passato inosservato, ma in
un certo senso perché è stato considerato troppo, e da
sempre, però ad altri scopi, di ordine teologico, cosicché
sembra quasi naturale ritenerlo un elemento della cri­

17 Cioè rijcp0Tì, letteralmente «fu visto», formula usuale per indicare


l’apparizione alla percezione, che compare in Paolo, 1 Corinzi 15,6-8.
18 Tjnf)vrr|aEv, in Matteo 28, 9.
19 £(j>av£pcó0r|, in Marco 16,12.
20 è'otr), in Giovanni 20, 19.

Gesù 41 Uomo n e u a xtoku


M assimo B ontempelli

stologia religiosa, e non prenderlo in considerazione se­


condo il metodo storico. Si tratta delle osservazioni ripe­
tute, convergenti e mai contraddette, con le quali le nar­
razioni evangeliche indicano che Gesù risorto non è ac­
cessibile allo stesso modo e sullo stesso piano del Gesù
non ancora morto. Quando viene incontrato in un altro
individuo, si rivela impossibile rinnovare con quello i com­
portamenti precedentemente tenuti con lui, perché egli
vi si sottrae. La precedente comunanza di vita con lui
non può essere ripresa, perché il nuovo individuo, che si
sa essere Gesù, o non dice di esserlo, e non si osa chieder­
gli chi sia, oppure, là dove si racconta, ad uso della predi­
cazione, una sua manifestazione fisicamente riconoscibi­
le, si allontana subito. L’incontro con Gesù risorto, inol­
tre, non può essere ottenuto a piacere, andandolo a cer­
care in luoghi da lui abitualmente frequentati, ma biso­
gna attendere la sua manifestazione, per riconoscerla
come tale attraverso la fede in lui. Ciò spiega perché non
esista un solo episodio in cui la presenza di Gesù risorto
sia constatata da persone estranee alla cerchia dei suoi
seguaci. Da ciò è nato il discorso giovanneo dello Spirito
santo, e da ciò è derivata la cristologia paolina del corpo
glorioso. È rimasto invece in ombra cosa ciò significhi sul
piano storiografico, e cioè che le fonti evangeliche non
testimoniano affatto un ritorno di Gesù, tre giorni dopo
la sua morte, alla vita biologica.
Non dobbiamo dunque respingere la testimonianza
evangelica sulla risurrezione come fonte di informazio­
ne, e non siamo quindi costretti a togliere credito al con­
tenuto informativo dei Vangeli, precipitando così la vi­
cenda di Gesù nel buio deH’inconoscibilità. Né questa
accettazione della storicità dei Vangeli anche riguardo
alla risurrezione di Gesù ci obbliga ad interpretare i Van­
geli senza la mediazione critica normalmente adottata

Gusti 42 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

nell’utilizzazione delle fonti, e a lasciare spazio al sovran­


naturale. Al termine delle nostre considerazioni dispo­
niamo, al contrario, di una certa informazione sulla vi­
cenda della risurrezione, storica e non religiosa, e tu tta ­
via integralmente tratta da un testo religioso come quel­
lo dei Vangeli. Possiamo riassumerla.
Gesù fu condannato a morte, vedremo poi come, da
chi, e perché. I suoi più stretti seguaci non poterono di­
sporre del suo corpo, che venne dapprima deposto nel se­
polcro più vicino al luogo dell’esecuzione, in un piccolo
giardino, poi traslato altrove. Una volta morto, egli natu­
ralmente non tornò vivo, né apparve ad alcuno. La don­
na che più lo aveva amato, però, mossa dal suo disperato
bisogno di lui, eccitata dalla scomparsa del cadavere nel
sepolcro, condizionata da una cultura religiosa che cono­
sceva la risurrezione, e guidata da una profondissima
sensibilità, fece esperienza dello spirito del suo amato
maestro nel modo di atteggiarsi verso di lei di un’altra
persona, e si convinse che Gesù fosse risorto.
Non fu affatto un’allucinazione. La donna incontrò lo
spirito reale di Gesù, perché reali erano le tracce di sé
che Gesù aveva saputo imprimere nelle fibre più intime
dell’animo di altre persone. La donna non si illuse, se
non nello slancio iniziale della sua fede, di poter riab­
bracciare lo stesso Gesù, ma ebbe soltanto la certezza che
Gesù fosse di nuovo, benché in modo nuovo, presente tra
i suoi seguaci. Alcuni tra gli apostoli e i discepoli accolse­
ro da lei questa certezza, e proprio per questo poterono
fare anch’essi l’esperienza di un incontro con Gesù dopo
la sua morte.
Nacque così una tradizione di incontri con Gesù risor­
to che, sviluppandosi nel tempo, e diffondendosi in am­
bienti greci, dove la risurrezione non era intesa se non
come reincarnazione fisica, accolse via via anche elementi

G esù 43 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

di rappresentazione percettiva e vere e proprie integra­


zioni leggendarie, senza peraltro alterare sostanzialmente
le testimonianze originarie, per lo meno nel modo in cui
confluì nei Vangeli. In Paolo, infatti, benché le sue lette­
re siano cronologicamente anteriori ai Vangeli, la testi­
monianza più originaria della risurrezione, quella di
Maria Maddalena, è maschilisticamente cancellata, e la
risurrezione è raccontata non più nel linguaggio biblico
della presenza spirituale, ma in quello greco della riap­
parizione corporea.
Ad ogni modo, subito dopo la morte di Gesù, incon­
trarlo risorto significò, per i suoi seguaci più stretti, ri­
trovare il suo spirito ancora presente nella nuova situa­
zione determinata dalla sua assenza fisica. Nuove erano
le condizioni in cui la sua presenza si materializzava, e
nuovo il piano sul quale era possibile entrare in relazio­
ne con lui. Tutto ciò era risaputo, anche se nelle forme di
una cultura esclusivamente religiosa che ne appannava
la comprensione concettuale.
Ma, nella sostanza, credere che Gesù fosse risorto si­
gnificò, per i suoi seguaci, credere che ciò che egli aveva
spiritualmente donato loro fosse ancora operante in loro,
e che la missione da lui intrapresa non fosse stata inter­
rotta dalla sua morte, ma avesse avuto proprio nella sua
morte, prevista e provvidenziale, il momento decisivo per
il suo compimento.
Poiché a partire da ciò la parola di Gesù fu portata a
molti popoli, venne trascritta nei Vangeli, ed è giunta fino
a noi, che ora possiamo parlarne, la risurrezione di Gesù
è stata in un certo senso storicamente reale: anche noi
possiamo incontrare Gesù, venti secoli dopo la sua mor­
te.

Gesù 44 U omo nella stoeia


M assimo B ontempelli

3. Gli in izi d i Gesù con Giovanni B a ttista

Abbiamo cominciato la nostra storia di Gesù dalla fine,


cioè dal modo in cui si sono riallacciati ad essa i discepoli
di Gesù dopo la sua morte, creando la sua risurrezione
spirituale. Abbiamo così potuto constatare la profondità
e la forza delle tracce lasciate fin nei recessi più interni
degli animi dall’attività pubblica di Gesù. Si tra tta ora di
considerare storicamente questa attività, a partire dal
suo inizio. La tradizione evangelica è concorde nel riferi­
re come l’inizio dell’impegno religioso di Gesù sia stato
preceduto dalla sua sottoposizione al rito battesimale
praticato da Giovanni Battista. Prima del battesimo, egli
non è che un ignoto artigiano della Galilea. Dopo, si im­
pone all’attenzione come maestro e profeta religioso. Il
battesimo ricevuto da Giovanni nelle acque del Giordano
rappresenta dunque lo spartiacque tra la sua vita priva­
ta e la sua attività pubblica, ovvero l’inizio effettivo della
sua vicenda storica. Per questo la nostra ricostruzione
della storia di Gesù, cominciata dapprima, per esigenze
metodologiche, dalla sua fine, prenderà ora inizio dal suo
incontro con Giovanni Battista.
Tralasceremo quindi di parlare delle circostanze di
luogo e di tempo della nascita di Gesù, e delle contraddit­
torie informazioni che ne danno i Vangeli,1di facile repe-1
1 Nel VI secolo un monaco della Scizia residente a Roma, Dionigi il
Piccolo, elaborò un calendario liturgico che per la prima volta compu­
tava gli anni a partire dalla nascita di Gesù, fissata, in base a consi­
derazioni che oggi sappiamo essere state sbagliate, al 25 dicembre
dell’anno 753 dalla fondazione di Roma. In tal modo l’anno 754 diven­
tò l’I d. C. Il Vangelo di Luca colloca la data di nascita di Gesù al
tempo del censimento di Sulpicio Quirinio. Sappiamo però dalla sto­
ria che questo censimento venne tenuto nel 7 d. C .. Quindi, se Luca
avesse ragione, Gesù sarebbe nato sette anni dopo la data di nascita
posta a base del nostro computo degli anni, ovvero sette anni dopo la

G esù 45 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

ribilità su altri libri. Né diremo nulla della sua formazio­


ne spirituale dalla fanciullezza alla prima giovinezza, di
cui le fonti non ci consentono di conoscere alcunché. Sa­
rebbe invece importante chiarire il contesto sociale, eco­
nomico e politico dell’ambiente in cui Gesù nacque e creb­
be, ma per farlo ci occorrerebbe più spazio di quello pre­
visto per il presente lavoro. Elementi di chiarimento ver­
ranno comunque introdotti man mano che si renderanno
necessari per evitare che la vicenda di Gesù risulti in­
comprensibile. Per il momento basti ricordare che quan­
do Gesù nacque, al tempo dell’imperatore romano Otta­
viano Augusto, l’intera Palestina formava, insieme ad
alcune zone limitrofe della Siria e dell’Arabia, un unico
grande regno cliente di Roma, retto da Erode il Grande.
Questi, accettando di regnare all’interno dell’Impero Ro­

data calcolata da Dionigi il Piccolo. D’altra parte il Vangelo di Matteo


dice che Gesù nacque al tempo di re Erode. Sappiamo però dalla sto­
ria che Erode morì nel 4 a. C. . Gesù, in questo caso, sarebbe nato
diversi anni prima della data di nascita fissata da Dionigi il Piccolo e
posta alla base del nostro computo degli anni. È comunque impossibi­
le far concordare le informazioni di Luca con quelle di Matteo.
Stesse contraddizioni per quanto riguarda il luogo della nascita. Il
primo Vangelo fa abitare la famiglia di Gesù a Betlemme, in Giudea,
e la fa trasferire a Nazareth, in Galilea, solo diversi anni dopo la na­
scita di Gesù. Il secondo Vangelo pone la famiglia e la nascita di Gesù
a Nazareth, in Galilea. Il terzo Vangelo fa vivere la famiglia di Gesù a
Nazareth, la fa trasferire a Betlemme in occasione del censimento, e
fa quindi nascere Gesù, in tale occasione, a Betlemme. Anche per i
luoghi, come per i tempi, non c’è modo di far concordare le informazio­
ni dei diversi Vangeli.
Tutto ciò si spiega con il fatto che i redattori dei Vangeli non sape­
vano in realtà assolutamente nulla della vita di Gesù precedente alla
sua attività pubblica, e, quando ritenevano di dover dire qualcosa, lo
desumevano da quello che gli antichi profeti avevano scritto della fu­
tura figura messianica. Naturalmente pervenivano a conclusioni di­
verse in base ai diversi brani e aspetti delle Scritture profetiche che
prendevano in considerazione.

Gesù 46 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

mano, e di considerare quindi il suo potere come derivato


e subordinato rispetto a quello dell’imperatore, riuscì a
dare un nuovo prestigio alla Palestina ebraica, mante­
nendola unita, facendovi ricostruire un Tempio degno di
quello di Salomone, rendendola un punto di riferimento
per tutti gli Ebrei sparsi nell’Oriente ellenistico, edifi­
candovi numerosissime nuove città e fortezze secondo i
modelli della civiltà imperiale dell’epoca.
Gli enormi costi monetari derivanti dall’imponente
mole delle nuove costruzioni edilizie, dai molteplici ser­
vizi dovuti a Roma, e dal ruolo militare assunto dal re­
gno a presidio del confine orientale delllmpero, aumen­
tarono però a dismisura le richieste fiscali in denaro, pro­
vocando il forzato inserimento di molte attività produtti­
ve in piccoli circuiti mercantili fortemente tassati, e la
rovina di quanti non erano in grado di convertirsi in ven­
ditori di merci.
Gli strati inferiori della società furono in larga misura
espropriati per insolvenza dei loro piccoli possessi terrie­
ri e dei loro modesti mezzi di produzione artigiana, e so­
spinti nell’oppressione e nelTemarginazione della servi­
tù per debiti, della mendicità, e delle infermità da mise­
ria e disperazione (dalla lebbra alla perdita della vista).
Al vertice della società, per converso, funzionari di Erode
ed alti sacerdoti del Tempio si arricchirono enormemen­
te manovrando gli espropri, praticando l’usura, e facen­
do speculazioni commerciali.
La violenta ingiustizia dei mutamenti sociali provoca­
li dal regime erodiano e dall’inserimento della Palestina
nell’Impero Romano, percepita attraverso la lente della
cultura religiosa ebraica dell’epoca, apparve come pecca­
minosa disubbidienza a Dio, e fu attribuita all’idolatria
di Roma, al re non ebreo (Erode proveniva dalla regione
araba dellTdumea), al Tempio non amministrato dalla

fInsù 47 U omo nella stoma


M assimo B ontempelli

legittima dinastia dei sommi sacerdoti.2Così, tra i sacer­


doti di rango inferiore (i cosiddetti leviti) e i maestri delle
sinagoghe, si diffuse la setta religioso-politica dei Fari­
sei, che cercò di preservare la purezza rituale della reli­
gione dagli influssi innovatori degli erodiani e degli alti
sacerdoti, e che organizzò un’economia religiosa della
carità volta ad alleviare la povertà diffusa. Avversari dei
Farisei erano i Sadducei, espressione dell’aristocrazia
sacerdotale del Tempio, e partito religioso fautore di un
accordo tra cultura ebraica, regime erodiano e influssi
greco-romani. Rifiorirono anche antiche aspettative su
una prossima comparsa di un Messia, ovvero di un invia­
to di Dio capace di liberare gli Ebrei dal peccato e dalla
sottomissione agli adoratori dei falsi dei, e di restituire
ad Israele l’antica grandezza religiosa e politica.3

2 Al tempo del re Erode la dinastia legittima dei sommi sacerdoti si


era estinta ormai da più di un secolo.
3 II termine Messia traduce l’ebraico Mesiah, che vuol dire letteral­
mente Unto, e indica un personaggio capace di agire sotto l’ispirazio­
ne e con la forza dello Spirito di Dio per adempiere un compito specia­
le nei confronti del popolo di Israele. L’origine del nome sta nell’anti­
ca cerimonia ebraica della sacra unzione, destinata a re e sacerdoti,
con la quale si riteneva di poter trasmettere loro una speciale assi­
stenza spirituale divina cospargendo la loro fronte di un olio sacro.
Unto si dice in greco Christòs, da cui il nostro termine Cristo. Messia
e Cristo sono dunque sinonimi.
Nell’Antico Testamento è un Unto di Dio qualsiasi re e sommo
sacerdote legittimamente insediato nella sua carica, in quanto prima
di cominciare a svolgere le sue funzioni si è sottoposto alla cerimonia
della unzione sacra. Un Unto può tuttavia essere tale, anche se non è
titolare di una suprema carica in Israele, e se non appartiene neppu­
re ad Israele, in senso esclusivamente spirituale e derivato da Dio, in
quanto svolga un ruolo provvidenziale per la storia del popolo ebrai­
co. Così Ciro di Persia venne considerato un Messia. Non disponiamo
di fonti che ci consentano di capire quando, come e perché quest’ulti-
ma nozione di Messia venne modificata fino ad indicare un liberatore
di Israele scelto da Dio al di fuori delle autorità ufficiali del paese.

G esù 48 Uomo nella stojua


M assimo B ontempelli

Nel 4 a. C. la morte di Erode scatenò in Palestina al­


cuni focolai di rivolta armata, attorno ad alcuni perso­
naggi che si erano proclamati Messia. Forze arm ate ro­
mane, guidata dal legato imperiale di Siria Quintilio Varo,
operarono una repressione spaventosamente crudele.4 Il
regno di Erode il Grande venne smembrato da Augusto,
che ne assegnò metà, costituita da Samaria, Giudea e
Idumea, ad uno dei suoi figli, Erode Archelao, con il titolo
di etnarca,6e gli altri due quarti ad altri due figli, Erode
Antipa e Filippo, con il titolo di tetrarchi. La tetrarchia
di Erode Antipa, costituita da Galilea e Perea, fu quella
in cui visse Gesù, che era nato e abitava nella Galilea.
Nel 6 d. C. l’imperatore Augusto, scontento di Erode
Archelao, lo destituì esiliandolo in Gallia, trasferendo al
fisco imperiale tutto il suo patrimonio, e riducendo Sa-

Sappiamo solo, dai Vangeli, dai Manoscritti del Mar Morto, da Giu­
seppe Flavio e da Filone Alessandrino, che ai tempi di Gesù la figura
del Messia aveva ormai acquistato una valenza escatologica, e si era
identificata con quella di un liberatore chiamato ad instaurare il re­
gno di Dio sulla Terra. Basandoci in Giuseppe Flavio, dovremmo dire
che il Messia fosse un capo guerriero a cui Dio avrebbe fatto vincere le
battaglie decisive per la liberazione di Israele. I Vangeli ci offrono
una immagine più spirituale e pacificatrice del Messia. Nei Mano­
scritti del Mar Morto troviamo due figure messianiche, il messia di
Aronne, che avrebbe purificato il Tempio di Gerusalemme ricondu­
cendolo alla sua funzione di tramite tra Dio e gli uomini, e il Messia di
David, che avrebbe regnato su Israele liberata. Si ha la netta impres­
sione che ai tempi di Gesù la fortissima attesa messianica fosse con­
nessa ad una polivalenza non sempre conciliabile dei significati con
cui il Messia era inteso.
4 Queste vicende sono raccontate aH’inizio del II libro della Guerra
giudaica di Giuseppe Flavio, nei primi cinque capitoli.
5 Etnarca, termine greco che significa letteralmente capo del popolo,
è un sovrano, di rango inferiore al re, che non può trasmettere eredi­
tariamente il suo potere, e che non può esercitarlo indiscriminata­
mente sul suo territorio, dove può comandare soltanto su una deter­
minata stirpe della popolazione.

Gesù 49 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

maria, Giudea e Idumea a una prefettura annessa alla


provincia romana di Siria. Il legato imperiale di quella
provincia, Sulpicio Quirinio, dispose nella nuova prefet­
tura, come era necessario in ogni territorio annesso di­
rettam ente alllmpero Romano, l’effettuazione di un cen­
simento fiscale, da ripetersi come d’uso ogni quattordici
anni, e ne affidò l’esecuzione ad Aulo Coponio, scelto come
primo prefetto di Giudea. «Sotto di lui», scrive Giuseppe
Flavio, «un galileo di nome Giuda spinse gli abitanti del­
la Giudea alla rivolta, ingiuriando quelli che avrebbero
voluto pagare il tributo a Roma come peccatori disposti
ad essere sudditi non di Dio, ma di padroni mortali».6
Giuda il galileo, artefice e capo di questa rivolta contro il
censimento del 7 d. C., diede a molti ebrei l’impressione
di essere il Messia tanto atteso, ma fu sconfitto e ucciso
dai Romani. I suoi seguaci, chiamati zeloti, continuarono
però ad alimentare la lotta arm ata contro l’occupazione
militare romana, con l’ideale di ristabilire l’antico regno
ebraico di David, soggetto soltanto alla legge di Dio e ret­
to da un Messia erede di David.
Altri, invece, rinunciando ad ogni pratica violenta,
aspettavano il Messia esclusivamente da un intervento
straordinario di Dio nella storia, cercando nel frattempo
di rendersene degni con l’isolamento totale dalla società
peccaminosa. Erano chiamati esseni, e conducevano vita
ascetica lontano dalle città e dai borghi, in piccoli gruppi
insediati in zone desertiche. Coltivavano una raffinata
spiritualità, basata sulla conoscenza di numerosi testi
religiosi e sapienziali, sugli influssi della religione ave-
stica, sullo studio dell’astrologia e delle tecniche di gua­
rigione dalle malattie. Seguivano con estremo rigore la
legge mosaica, aggiungendovi severe pratiche di purifi­

6 G iuseppe F lavio, Guerra giudaica, II, 8 , 1.

Gesù 50 U omo nella stobia


M assimo B ontempelli

cazione con continui lavacri e digiuni. Erano molto selet­


tivi neH’aminissione dei nuovi adepti, che dovevano esse­
re puri, compiere un faticoso tirocinio di studio e di asce­
tismo, e partecipare alla fine ad una cerimonia di inizia­
zione consistente in una immersione purificatrice nell’ac­
qua. Non ammettevano proprietà privata, per cui nelle
loro comunità tu tti i beni erano in comune, e comuni era­
no i pasti. Alcuni di quei pasti in comune erano ritualiz­
zati come prefigurazioni dei banchetti collettivi del futu­
ro regno messianico.
Giovanni Battista era un asceta del deserto proprio
come lo erano gli esseni. Della sua figura abbiamo una
discreta conoscenza, potendo disporre come fonti sia dei
quattro Vangeli, sia delle Antichità giudaiche di Giusep­
pe Flavio, la cui testimonianza ci è pervenuta integra, e
non alterata come quella su Gesù.7La buona concordan­
za delle informazioni fornite dai Vangeli e da Giuseppe
Flavio, cioè da due fonti diversissime per natura e finali­
tà, è una conferma significativa della attendibilità di en­
trambe. Possiamo dunque usarle con tranquillità.
La figura di Giovanni Battista ha le sue radici nella
cultura religiosa essenica. Lo testimoniano i Vangeli, che
ci parlano della sua aspettativa pacifica di un intervento
straordinario di Dio nella storia. E lo testimonia Giusep­
pe Flavio, che ci parla della sua saggezza, della sua vir­
tù, e dei suoi lavacri di purificazione.
Giovanni B attista ci si presenta tuttavia con una sua
specifica individualità religiosa, e non come un adepto
della setta degli esseni. La sua aspettativa di un futuro
intervento di Dio si riferiva infatti ad un futuro prossi­

7 Le Antichità giudaiche menzionano Giovanni Battista nello stesso


XVIII libro in cui menzionano Gesù, ma parlandone dopo, e dedican­
dogli quattro paragrafi: il 116, il 117, il 118 e il 119.

Gesù 51 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

mo, e non indeterminato come quello atteso dagli esseni.


Egli era cioè persuaso di aver decifrato nel mondo i segni
deH’imminenza del regno di Dio, e il senso di questa im­
minenza pervadeva tutte le sue azioni, conferendogli un
ruolo di grandissimo spicco. Non voleva essere conside­
rato il Messia, perché anzi diceva di essere l’anticipatore
di un personaggio più forte di lui che sarebbe venuto dopo
di lui, e non aspirava ad alcun particolare titolo. Defini­
va però se stesso come il messaggero di Dio dinanzi al
mondo, colui che era chiamato, simbolicamente, a spia­
nare i sentieri e a preparare le strade del cammino pros­
simo venturo di Dio nel mondo. L’immagine che aveva di
sé non era dunque quella essenica di membro anonimo di
una comunità di santi, ma era quella di un personaggio
di assoluta unicità nella storia della salvezza. Come gli
esseni, anch’egli abbinava al rifiuto rigoroso di compiere
atti sanguinari e violenti una visione cruenta e stragista
dell’avvento del regno di Dio. L’intervento straordinario
e finale di Dio nel mondo sarebbe stato cioè in primo luo­
go un intervento vendicatore del peccato, attraverso una
spietata e irrimediabile punizione omicida dei peccatori.
Era rimasto ormai pochissimo tempo per scansare la ven­
detta di Dio, e Giovanni offriva la possibilità di farlo a
tutti i figli di Israele, invitandoli a fare penitenza per i
propri peccati, e a confessarli pubblicamente nel corso
del battesimo che egli avrebbe impartito a chiunque vo­
lesse purificarsi dal peccato.
Il rito battesimale essenico (cioè il rito di immersione
nell’acqua, perché la parola greca battezzare non signifi­
ca altro che immergere, tuffare) fu dunque adottato e nello
stesso tempo profondamente trasformato da Giovanni,
che proprio da esso prese l’appellativo di Battista, cioè
battezzatore, immergitore. Non si trattò più, infatti, di
un rito di iniziazione ad una cerchia elitaria di sapienti

Gesù 52 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

religiosi, ma si trattò di una celebrazione penitenziale


collettiva, guidata da un leader religioso carismatico, al
fine di coinvolgere un intero popolo nell’aspettativa mes­
sianica dell’imminenza del regno di Dio. Non a caso la
celebrazione veniva compiuta nelle acque del più grande
fiume di Israele, il Giordano.
Gesù fu uno di coloro che con più entusiasmo si reca­
rono ad immergersi nel Giordano sotto le mani di Gio­
vanni Battista, e con più profondità si lasciarono coinvol­
gere dall’idea dell’imminenza dell’avvento messianico. Le
narrazioni evangeliche del suo battesimo mostrano, esat­
tamente come quelle della scoperta della sua risurrezio­
ne, una progressiva amplificazione leggendaria. Il Van­
gelo più antico, quello cioè di Marco, racconta come Gesù,
emergendo dall’acqua battesimale del Giordano in cui
Giovanni lo aveva immerso, vide i cieli aprirsi e lo Spiri­
to di Dio discendere su di lui similmente al volo di una
colomba. Racconta cioè un’esperienza soggettiva di Gesù,
che diventa invece un accadimento fisico nel Vangelo di
Luca.8 Nel Vangelo di Matteo c’è l’accadimento fisico, e
c’è in più Giovanni Battista che inizialmente recalcitra
all’idea di battezzare Gesù, uomo senza peccato.9Nel quar­
to Vangelo è addirittura Giovanni Battista che vede lo
Spirito di Dio discendere su Gesù, rendendone testimo­
nianza.10
Naturalmente quando Gesù si è fatto battezzare non
è apparso fisicamente proprio nulla in cielo, né Giovanni

8 In Marco 1, 9 si dice che Gesù eI8 ev, cioè vide, seppe, che i cieli si
aprirono, e che lo Spirito discese cu? jispicrtEpàv, cioè similmente ad
una colomba. In Luca 3, 21 si dice che èyéveto, cioè accadde, che il
cielo si aprì, e che lo Spirito discese ocopaxiKw eìSei, cioè in forma
corporea.
9 Matteo 3,13-15.
10 Giovanni 1, 32.

Gesù 53 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

ha riconosciuto in Gesù il personaggio più forte di lui che


sarebbe venuto ad inaugurare il regno di Dio. Sono i Van­
geli stessi di Matteo e di Luca a darci, se ce ne fosse biso­
gno, la prova di questo, narrandoci come, molto tempo
dopo, Giovanni inviasse alcuni suoi discepoli da Gesù per
domandargli se davvero fosse lui l’uomo atteso alle so­
glie del regno di Dio.11 Ora è evidente che Giovanni non
avrebbe avuto bisogno di fargli una simile domanda se,
quando aveva battezzato Gesù, lo avesse già riconosciuto
come Messia, e avesse visto personalmente i cieli aprirsi
sopra di lui.
L’amplificazione leggendaria non toglie tuttavia, in
questo caso come in quello della scoperta della risurre­
zione, che il nucleo narrativo su cui sono state innestate
le leggende sia storicamente veritiero. Questo nucleo è
appunto il battesimo di Gesù da parte di Giovanni Batti­
sta, che, sulla base dei criteri metodologici normalmente
adottati nell’utilizzazione storica delle fonti, non può in
alcun modo essere ritenuto una pura invenzione.
Il fatto che Gesù abbia cominciato ad impegnarsi pub­
blicamente sul piano religioso andando a farsi battezza­
re da Giovanni, contraddice a tal punto lo scopo essen­
ziale dei Vangeli, quello cioè di presentarcelo come il Cri­
sto redentore senza peccato, che può essere stato riferito
solo perché ne era stata conservata una forte e precisa
memoria storica. Questo è tanto vero, che le amplifica­
zioni leggendarie di questo fatto servono tutte a neutra­
lizzare i diversi aspetti che lo rendevano inaccettabile, e
che non lo avrebbero quindi certo fatto inventare se non
fosse stato vero. Il battesimo di Gesù rivela senza ombra
di dubbio che Gesù agli inizi si ritenne un peccatore biso­
gnoso di una penitenza purificatrice? Ecco che il redatto- 1

11 Cfr. Matteo 11, 3 e Luca 7,19.

Gesù 54 U omo nella stokia


M assimo B ontempelli

re del Vangelo di Matteo rimedia facendo dire a Giovanni


che Gesù non dovrebbe venire battezzato. Il battesimo di
Gesù implica logicamente che Gesù non svolse fin dal­
l’inizio personalmente un ruolo messianico, che non nac­
que, insomma, Gesù Cristo? Ecco che gli evangelisti ri­
mediano con la rappresentazione dei cieli che si aprono e
di Dio che si mostra riconoscendolo come suo figlio. Il
battesimo di Gesù ci dice che agli inizi della sua vicenda
pubblica Gesù operò non come leader religioso (per non
dire fondatore di una nuova religione), ma come seguace
di Giovanni Battista? Ecco che alcuni Vangeli rimediano
facendo dire a Giovanni Battista parole che lo mostrano
consapevole della sua subordinazione a Gesù nel piano
divino della salvezza.
Troppi rimedi, per far supporre inventato il fatto di
cui debbono correggere il significato. No, quel fatto ac­
cadde veramente. E gli inizi di Gesù furono quelli di un
seguace religioso di Giovanni Battista.

Gesù 55 U omo nella storia


4. Gli anni oscuri di Gesù

Chi era Gesù quando si mise al seguito di Giovanni


Battista? A quale punto della sua vita si trovava? Quali
erano le sue aspirazioni?
Conosciamo la sua terra di provenienza: era la Gali­
lea, la fertile, popolosa, aspra regione settentrionale del­
la Palestina, abitata da un ceppo ebraico che aveva modi
di vita più semplici e rozzi di quelli dei Giudei, ma che
condivideva con essi l’osservanza del culto religioso del
Tempio di Gerusalemme. Egli nacque probabilmente a
Nazareth, o forse in uno dei laboriosi borghi di pescatori
e di artigiani che sorgevano sul lago di Galilea.1Quando

1 Gesù non nacque, come comunemente si crede, a Betlemme di Giu­


dea. Il primo e il terzo Vangelo indicano quel luogo soltanto perché si
trattava della città dell’antico re David, di cui Gesù, come Messia, si
riteneva dovesse essere il discendente. Altri brani evangelici mostra­
no però come alcuni facessero difficoltà a credere in Gesù come Mes­
sia proprio perché non era nato a Betlemme, la città della stirpe di
David, ma proveniva dalla Galilea (chiarissimo in proposito Giovanni
7,41-42). D’altra parte, la nascita a Betlemme in occasione del censi­
mento del 7 d. C. contraddice l’informazione, data da tutti i Vangeli,
che Gesù nacque al tempo di Erode (il re Erode morì infatti nel 4 a.
C.).
Una volta stabilito che Gesù nacque in Galilea, si può accettare
come sua città natale, per non cadere in uno sterile ipercriticismo,
Nazareth di Galilea, indicata come tale dal secondo e dal quarto Van­
gelo. Qualche dubbio è tuttavia legittimo. In Matteo 13, 1 si legge
infatti che Gesù, uscito da casa sua, si sedette sulla riva del mare (il
lago di Galilea è chiamato mare nelle narrazioni evangeliche). Naza­
reth, però, si trova all’altra estremità della Galilea rispetto al lago,
per cui uscendo di casa, non ci si può trovare sul “mare”. In Luca 4 ,2 9
si parla del ciglio di un monte su cui la città natale di Gesù era costru­
ita. Nazareth, però, si trova in un fondovalle. Né l’appellativo evange­
lico di Gesù nazareno indica Nazareth come città di origine di Gesù.
Nazareno è infatti una storpiatura, creata proprio dall’esistenza del­
la città di Nazareth, dal greco nazoraio, che indica l’appartenente alla

Gusti 56 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

nacque? Questo non lo sappiamo con precisione. Per non


sbagliare dobbiamo dire che la sua data di nascita si col­
loca tra il 12 a. C. e il 4 a. C.,2 cioè che egli è nato alcuni
anni prima della data attribuitagli dal nostro computo
degli anni. Ebbe quattro fratelli3 (Giacomo, Giuseppe,
Simone e Giuda), rimasti estranei quando non ostili al
suo impegno religioso,4 ma annoverati tra i suoi seguaci

setta religiosa nazorea o nazirea, cioè alla setta dei seguaci di Gio­
vanni Battista (esistente ancora oggi in Iraq).
Qualche studioso ha creduto di poter identificare la città natale di
Gesù in Gamala, situata sulle alture a oriente del lago di Galilea (oggi
alture del Golan, tristemente famose perché elemento di contesa tra
Israele e Siria). Gamala potrebbe essere stata la città natale di Gesù
per una sua triplice caratteristica: si trovava presso il lago di Galilea,
sorgeva su un monte, ed era il centro della setta messianica di indi­
rizzo zelotico dei galilei. Ma si tratta di nulla più che di una congettu­
ra.
2 La data del 4 a. C. è quella della morte di Erode il Grande. Gesù
non può essere nato dopo tale data, perché sono concordi le attesta­
zioni evangeliche che egli nacque al tempo del re Erode (del re Erode,
e non del tetrarca Erode o dell’etnarca Erode, per cui non può trattar­
si né di Erode Antipa né di Erode Archelao). La data del 12 a. C. è
quella della comparsa, nel cielo dell’Oriente, della cometa di Halley,
che rappresenta l’evento più antico collegabile con la nascita di Gesù.
I Vangeli dicono infatti che quando nacque Gesù comparve in cielo
una stella. Essi parlando di stella, non di cometa, per cui è probabile
che Gesù sia nato nel 7 a. C., quando si ebbe una luminosa congiun­
zione di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci.
3 Come è detto in maniera del tutto esplicita in Marco 6, 3 e in M at­
teo 13, 33. La supposizione che fossero cugini, perché in aramaico
esiste una sola parola (ach acha) per indicare sia il fratello che il cugi­
no, è ridicola. I Vangeli sono stati scritti infatti non in aramaico, ma
in greco, e il greco ha vocaboli distinti per indicare ogni grado di pa­
rentela. Se perciò i redattori dei Vangeli avessero inteso, anche tra­
ducendo un testo aramaico, parlare di cugini, avrebbero scritto àveipiOL
Essi hanno invece scritto à&Ekpoi, che non vuol dire altro che fratelli
carnali.
4 Cfr. Marco 3, 31-35.

Gesù 57 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

dopo la sua morte.5 La collocazione sociale della sua fa­


miglia è oggetto di vaghe congetture, basate su labili in­
dizi. La vita da lui condotta prima del battesimo imparti­
togli da Giovanni B attista è del tutto ignota.
Ci si può chiedere se tutte queste lacune informative
non collochino Gesù, anche una volta assodato che le fon­
ti su di lui sono storicamente utilizzabili, in una specie di
penombra storica, da cui non possa uscire un personag­
gio pienamente reale. Ma, se così fosse, non esisterebbe­
ro personaggi effettivamente storici nell’età antica. Di
quasi tu tti i grandi individui del mondo greco-romano,
per non parlare di quelli del mondo antico-orientale, igno­
riamo infatti completamente la vita anteriore alla loro
attività pubblica. Eppure non abbiamo alcuna difficoltà
a considerare pienamente storici personaggi come Mil­
ziade e Temistocle, ed anche come Assurbanipal e Na-
buccodonosor. Ciò è naturale, perché è quel che sappia­
mo della vicenda pubblica di un personaggio a costituire
la sua storicità, e ad illuminare, ancorché parzialmente
e genericamente, le sue origini. Questo vale per tutti i
personaggi storici, e deve quindi valere anche per Gesù.
Quanto all’incertezza sulla sua data di nascita, occorre
osservare che è il mondo moderno ad aver creato, con la
sua lunga pratica di archiviazione dei documenti e di uso
di calendari standardizzati, la precisione cronologica in
campo biografico. Così è ovvio che noi sappiamo con as­
soluta precisione la data di nascita, poniamo, di Mussoli­
ni, di Churchill e di Roosevelt. Diverso però è il discorso
per altre epoche, nelle quali i punti di riferimento crono­
logico sicuri sono costituiti da grandi eventi pubblici, non
da dati biografici. Così, ad esempio, di un grande perso­
naggio del Medioevo come Federico Barbarossa, sappia­

5 Cfr. E usebio di C esarea, Storia ecclesiastica, III, 20, 6 e IV 22, 4.

Gesù 58 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

mo con molta precisione quando fu incoronato imperato­


re, e quando fece le sue campagne militari in Italia, ma
ignoriamo l’anno di nascita, che possiamo collocare sol­
tanto entro un certo periodo di più anni, proprio come ci
accade per Gesù. E, proprio come ci accade per Gesù, igno­
riamo tutto, dalle inclinazioni mostrate all’educazione
ricevuta," della sua vita anteriore all’evento che lo proiet­
tò alla ribalta storica, cioè la morte di suo zio Corrado.
Eppure nessuno pensa che la sua figura non abbia spes­
sore storico. Perciò non dobbiamo pensare questo nean­
che di Gesù, anche se molti si sentono autorizzati a farlo
a causa della deformazione teologica operata sulla sua
figura dalla tradizione religiosa. Ma ogni ricostruzione
storica è tale proprio perché ha qualche tradizione defor­
mante da correggere.
Si potrebbe obiettare che non conosciamo bensì data e
luogo preciso di nascita di Federico Barbarossa, e non
conosciamo la sua vita privata anteriore all’evento che lo
portò sulla scena pubblica, ma sappiamo bene con quali
idee, passioni e progetti egli affrontò e visse quell’evento.
Ma, a ben guardare, lo sappiamo anche per Gesù, riguar­
do all’evento che portò lui sulla scena pubblica, cioè il
battesimo di Giovanni Battista, purché usiamo i normali
criteri del metodo storico, per i quali occorre avvalersi
non soltanto delle testimonianze dirette delle fonti, ma
anche delle indicazioni indirette di altri fatti precedenti
e successivi, e di altre nozioni collaterali. Nel caso del
battesimo impartito da Giovanni Battista a Gesù, pos­
siamo sapere, in maniera generica ma storicamente so­
stanziosa, le idee, le passioni e i progetti con cui Gesù lo
visse, se consideriamo non solo quel che i Vangeli ci dico­
no di quel battesimo, ma anche tutto quel che conoscia­
mo su Giovanni Battista, e sulla vicenda successiva di
Gesù, oltre che sul contesto storico del tempo.

Gesù 59 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Quando venne a sapere che dal deserto della Giudea,


punteggiato da comunità esseniche pronte a scorgere i
segni dell’intervento finale di Dio sulla Terra, era uscito
fuori un uomo, Giovanni, che annunciava la prossima
punizione dei peccatori, Gesù certamente pensò con en­
tusiasmo che il regno di Dio fosse ormai vicino. Che, cioè,
fosse vicina l’ora della redenzione dei poveri, dei malati e
degli oppressi, con il rovesciamento di tutti i poteri terre­
ni, e l’instaurazione del governo diretto di Dio su Israele
liberata. Non poteva non avere, infatti, queste attese
messianiche, se pensiamo alla sua vicenda successiva, e
anche alla terra da cui proveniva, la Galilea, a quei tem­
pi segnata da così spasmodiche attese messianiche che
l’aggettivo galileo era passato ad indicare il seguace del
messianismo zelotico. Che altri pensieri e sentimenti po­
teva avere un uomo che si recava dalla Galilea ad incon­
trare Giovanni Battista?
Il Battista rappresentò certamente, agli occhi di Gesù,
una conferma per così dire sperimentale delle sue attese
messianiche. Infatti, dopo che da secoli si era spenta la
voce dei profeti, e la dimensione religiosa delTebraismo
si era appiattita al culto del Tempio e all’osservanza del­
la Legge, era m aturata la convinzione, tra tutti coloro
che coltivavano l’ideale messianico sulla base di studi
biblici, che l’opera di un Messia non avrebbe neppure
potuto cominciare se non fosse comparso un ultimo pro­
fèta capace di richiamare l’attenzione sul destino escato­
logico di Israele. Molti pensavano che questo ultimo pro­
feta altri non sarebbe stato che il profeta Elia risuscita­
to, in quanto l’ultimo dei profeti antichi, Malachia, aveva
dichiarato che Elia sarebbe tornato prima del giorno del­
l’ira di Dio. Nessuno sapeva in che veste sarebbe venuto
e come si sarebbe fatto riconoscere dal suo popolo. Gio­
vanni, d’altra parte, era venuto ad annunciare l’immi­

G esù 60 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

nenza del giorno dell’ira di Dio, ed andava vestito, pro­


prio come Elia, con un indumento di peli di cammello
allacciato da una cinta di cuoio. Non poteva perciò non
rappresentare, agli occhi di Gesù, con la sua stessa com­
parsa, il segno che egli aveva avuto ragione a pensare
che i tempi fossero prossimi alla resa dei conti finale con
l’oppressivo sistema di potere che umiliava Israele.
Gesù si mise quindi in marcia verso il Giordano per
andare a farsi battezzare da Giovanni, con l’idea che l’av­
vento del regno di Dio fosse ormai prossimo, e con il pro­
getto di partecipare in prima persona alla vicenda della
sua instaurazione, dopo esseri liberato dai suoi peccati
con il battesimo. Abbiamo già visto come i Vangeli descri­
vano il suo battesimo. Il nucleo storico delle loro descri­
zioni è che l’immersione nelle acque del Giordano sotto le
mani di Giovanni fu per Gesù un’esperienza interiormente
sconvolgente: egli sentì lo Spirito di Dio discendere in
lui, ovvero si sentì chiamato da Dio ad un ruolo di prota­
gonista nell’instaurazione ormai prossima del regno di
Dio. È probabile che anche in questo caso si trattasse
della conferma di un’attesa. È cioè probabile che egli fos­
se effettivamente nato quando una stella insolita brilla­
va in cielo, e che per questo, nell’infanzia, tu tti gli aves­
sero detto che era destinato a partecipare alla liberazio­
ne di Israele, portandolo ad una immagine di sé confor­
me a tali aspettative. È probabile che nella fanciullezza
egli avesse ulteriormente elaborato questa immagine di
sé con un’educazione sapienziale di tipo essenico. È pos­
sibile che suo padre fosse caduto per la causa messiani­
ca,6 e che un atroce dolore per la sua perdita lo avesse
8 Giuseppe, padre di Gesù, era certamente morto quando Gesù di­
venne adulto, perché non compare mai tra i familiari che ogni tanto
vanno a cercarlo (e che sono sempre sua madre e i suoi fratelli), e non
è presente accanto a Maria nei drammatici momenti finali della sua

G esù 61 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

psicologicamente spinto a voler diventare protagonista


della liberazione messianica, a prezzo di qualsiasi sacri­
ficio personale, con l’inconscio bisogno di riscattare il sa­
crificio paterno, di dargli un senso. Sono cose probabili o
possibili, niente affatto certe. Quel che è certo, ed è stori­
camente importante, è che Gesù andò a farsi battezzare
perché condivideva l’idea di Giovanni Battista della pros­
simità dell’avvento del regno di Dio, e perché voleva libe­
rarsi dai suoi peccati per rendersi degno del regno di Dio.
Quel che è certo è che pensò, una volta battezzato, di es­
sere destinato ad un ruolo di primo piano nell’instaura­
zione del regno di Dio, a fianco di Giovanni Battista. Quel
che è certo è che il battesimo fece di lui un seguace di
Giovanni Battista.
Si tra tta ora di capire se è possibile apporre una data
certa a questo battesimo, determinando così anche l’età
che aveva Gesù allorché vi si sottopose, sia pure in modo
approssimativo, dato che conosciamo soltanto con una
certa approssimazione la sua data di nascita. Poniamo,
cioè, una questione cronologica, non perché sia impor­
tante in se stessa, ma perché, affrontandola in maniera
corretta, si aprono, come vedremo, nuovi orizzonti sulla
vicenda storica di Gesù.
Ci sono elementi che conducono ad una data precisa,
il 26 d. C., per il battesimo di Gesù. Il Vangelo di Giovan­
ni, infatti, narrandoci la prima pasqua dopo il battesimo,
racconta un episodio in cui alcuni giudei affermano che il
Tempio di Gerusalemme ha cominciato ad essere edifica­
to quarantasei anni prima. Si tratta di un’indicazione ben
determinata, che riflette certamente un ricordo storico
reale, perché il numero degli anni che viene menzionato
non segnala alcun arrotondamento per approssimazio­
ne, e non ha alcun valore simbolico. Abbiamo d’altra par­
te la fortuna di sapere in quale anno preciso ha avuto

Gesù 62 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

inizio l’edificazione del secondo Tempio: si tra tta del di­


ciottesimo anno di regno di Erode il Grande, ci dice Giu­
seppe Flavio, cioè, poiché Erode fu incoronato re nel 37 a.
C., dell’anno 20 a. C .. Orbene: se facciamo scorrere qua­
rantasei anni dal 20 a. C., arriviamo al 27 d. C. .7Dunque
la prima pasqua di cui parla il Vangelo di Giovanni, du­
rante la quale alcuni giudei fanno osservare a Gesù che
il Tempio è in costruzione da quarantasei anni, è la pa­
squa dell’anno 27 d. C .. Se Gesù a quella data è già stato
battezzato da qualche tempo, il suo battesimo non può
risalire che al 26 d. C .. Più indietro nel tempo non si può
andare, dato che sappiamo che Giovanni Battista comin­
ciò a predicare quando il prefetto della Giudea era Pon­
zio Pilato, e che sappiamo anche che Ponzio Pilato as­
sunse la sua carica nel 26 d. C. (prima di allora il prefetto
della Giudea era Valerio Grato). In conclusione, Giovan­
ni Battista comparve sulla scena pubblica nel 26 d. C., e
immediatamente, o quasi, dopo la sua comparsa, Gesù
andò a farsi battezzare da lui sulla rive del Giordano.
Questo almeno è quanto si deve inferire dalla indicazio­
ne precisa contenuta nel Vangelo di Giovanni.
Ad identica conclusione conduce un’indicazione ancor
più precisa contenuta nel Vangelo di Luca, che conviene
leggere per esteso: «Nell’anno decimoquinto del governo
di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore
della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, Filippo suo
vita. Poiché Gesù seguiva l’ideale messianico, e poiché allora l’adesio­
ne agli ideali religiosi e sociali si tramandava di padre in figlio, e più
che probabile che Giuseppe appartenesse a qualche movimento mes­
sianico. Tenendo conto del dato storico delle ripetute, spietate repres­
sioni dei movimenti messianici compiute dai Romani in Galilea e del
dato psicologico della identificazione di Gesù con il Messia sofferente,
appare ragionevole, anche se soltanto congetturale e niente affatto
provata, l’ipotesi che Giuseppe sia caduto per la causa messianica.
7 Non esiste infatti un anno zero, e dopo l’I a. C. viene l’I d. C ..

Gesù 63 UOMO NELLA STORIA


M assimo B ontempelli

fratello tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania


tetrarca dell’Abilene, sotto il pontificato di Anna e Caia-
fa, la parola di Dio fu rivolta a Giovanni, figlio di Zacca­
ria, nel deserto». L’anno della comparsa di Giovanni è
identificato dunque, alla maniera in uso tra gli antichi,
dal nome dei detentori del potere, la cui estesa menzione
rivela non un ricordo per sentito dire, ma una qualche
ricerca. Abbiamo cioè a che fare con un’indicazione che
va presa molto sul serio. Questa indicazione contiene un
riferimento cronologico che è per noi una chiave: Giovan­
ni comparve nell’anno quindicesimo dell’imperatore Ti­
berio. Noi sappiamo con precisione quando Tiberio as­
sunse la carica imperiale: non, come comunemente si dice,
nel 14 d. C., alla morte del suo predecessore Augusto, ma
nel 12 d. C., perché fu in quell’anno che Augusto gli fece
attribuire dal Senato la titolarità dei poteri imperiali, che
fecero di lui un imperatore a tutti gli effetti, sia pure, nei
primi due anni, come correggente di Augusto. Se Tiberio
cominciò a governare llm pero nel 12 d. C., il quindicesi­
mo anno del suo governo, l’anno della comparsa di Gio­
vanni Battista, va a cadere nel 26 d. C .. Gesù aveva allo­
ra poco più di trentanni.8
Tutto chiaro, dunque? Tutti i dati a nostra disposizio­
ne convergono nell’indicare nel 26 d. C. l’anno in cui Gio­
vanni cominciò a battezzare sulle rive del Giordano? Nien­
te affatto. Esistono taluni elementi che sembrano dare
un’indicazione diversa. Per esempio, il Vangelo di Gio­
vanni riporta un episodio in cui alcuni giudei si rivolgono
a Gesù dicendogli, per sottolineare come non sia molto

8 Se era nato sotto la stella del 7 a. C., aveva, quando andò a farsi
battezzare da Giovanni, trentadue anni (cfr. nota precedente). Ciò
concorda con un’altra attestazione di Luca (Luca 3, 23), secondo la
quale Gesù, quando iniziò il suo impegno religioso «aveva circa
trent’anni».

G esù 64 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

vecchio, che non ha ancora raggiunto i cinquantanni. Ora,


non si dice di una persona che non ha ancora raggiunto i
cinquantanni, se non ha passato almeno i quaranta (se
ha più di trentanni, gli si può dire che non ne ha ancora
compiuti quaranta, e non che non ne ha ancora compiuti
i cinquanta). D’altra parte la casualità del riferimento è
indizio di storicità. Ma se Gesù, intrapresa la sua missio­
ne, aveva superato i quarantanni, l’anno in cui prima
Giovanni e poi lui si trovarono sulla scena pubblica deve
ossere stato il 35 d. C., o almeno un anno vicinissimo al
35 d. C. (non si può spostare la data più avanti, perché si
cadrebbe fuori dal periodo di governo di Pilato, né più
indietro, perché se Gesù era nato, come nell’ipotesi più
probabile, attorno al 7 a. C., avrebbe avuto attorno ai
quarantanni nel 35 d. C.). L’anno 35 d. C., inoltre, fu un
anno censorio per la Giudea (gli abitanti della sua pre­
fettura erano censiti a scopi fiscali ogni quattordici anni
a partire dal 7 d. C.), e taluni aspetti della predicazione
di Gesù si spiegano nel contesto di un anno censorio.
Ma c’è di più. Possiamo essere sicuri che la morte di
Giovanni Battista, da cui prese avvio la predicazione
autonoma di Gesù, avvenne nel 35 d. C. . I Vangeli ci
dicono infatti che Giovanni era stato fatto uccidere dal
tetrarca della Galilea Erode Antipa, perché aveva con­
dannato il suo nuovo matrimonio con Erodiade, vedova
di suo fratello Filippo. Giuseppe Flavio ci narra come la
moglie ripudiata di Erode Antipa, che era la figlia di Are­
ta IV re dell’Arabia Petrea, «fuggì dalla Galilea e rag­
giunse la terra del padre, al quale disse quel che Erode
aveva fatto. Areta gli portò allora guerra nel distretto di
damala».s Aggiunge poi che l’esercito di Erode Antipa subì
una grave sconfitta militare, ed osserva, poco più avanti,

" G iuseppe F lavio, A ntichità giudaiche, XVIII, 126.

(IMO 65 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

che tale sconfitta fu considerata dagli ebrei una punizio­


ne inflittagli da Dio per aver fatto uccidere Giovanni. L’uc­
cisione di Giovanni Battista e la guerra arabo-galilea fu­
rono dunque due effetti concomitanti di uno stesso even­
to, cioè delle seconde nozze di Erode Antipa con Erodia-
de.
Abbiamo quindi tre eventi cronologicamente vicinissi­
mi, che sono, nell’ordine, le nuove nozze di Erode Antipa,
l’uccisione per sua opera di Giovanni Battista, la guerra
contro di lui di Areta IV. Trovando perciò il modo di data­
re uno di essi, ne consegue una datazione anche per gli
altri due. Ma noi abbiamo appunto un modo facile e sicu­
ro per datare la guerra arabo-galilea, e cioè la lettura
delle pagine di Giuseppe Flavio. Infatti, dopo aver rac­
contato la sconfitta militare di Erode Antipa, Giuseppe
Flavio prosegue dicendo come il tetrarca sconfitto avesse
chiesto aiuto contro Areta al legato imperiale di Siria Aulo
Vitellio, e come questi, ottenuta l’autorizzazione dell’Im­
peratore Tiberio, avesse cominciato a raccogliere le forze
per attaccare il re arabo.
A questo punto, però, ci narra Giuseppe Flavio, l’im­
provvisa notizia della morte di Tiberio indusse Vitellio a
sospendere ogni operazione bellica, in attesa delle dispo­
sizioni del nuovo imperatore Caligola. E proprio qui ab­
biamo l’indicazione che ci consente di inquadrare crono­
logicamente l’insieme degli eventi di cui si è detto. Sap­
piamo infatti dalla storia di Roma che Tiberio morì nel
marzo del 37 d. C .. Ciò significa che i preparativi bellici
di Vitellio si erano svolti nell’inverno del 36-37 d. C., an­
che perché all’epoca le guerre si combattevano tra la pri­
mavera e l’autunno, e si preparavano appunto in inver­
no.
Tali preparativi erano stati una conseguenza della
sconfitta militare di Erode Antipa, ma ovviamente solo

G esù 66 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

dopo che Erode Antipa aveva inoltrato la sua richiesta di


aiuto a Vitellio, che Vitellio aveva inviato un messaggio a
Roma, che a Roma l’imperatore aveva discusso la situa­
zione con i suoi consiglieri, che la deliberazione imperia­
le era giunta da Roma alla Siria. È perciò ragionevole
supporre che la sconfitta militare di Erode Antipa fosse
avvenuta non oltre la primavera del 36 d. C., forse nel­
l’autunno del 35 d. C. . Giovanni Battista, ucciso prima
che quella guerra fosse cominciata, ma dopo il fatto che
l’aveva suscitata, morì dunque probabilmente all’inizio
del 35 d. C., e certamente non prima del 34 d. C. .
Come sciogliere la contraddizione tra le indicazioni che
collocano Giovanni Battista nel 26 d. C. e quelle che lo
collocano nel 35 d. C.? Scegliendo di considerare giusta
una delle due serie di indicazioni, ed errata l’altra? O
collocando Giovanni in una data intermedia tra le due,
sulla base del giorno della settim ana in cui i Vangeli col­
locano la pasqua in cui Gesù morì? Queste sono le solu­
zioni che vengono date. E che sono a nostro avviso radi­
calmente sbagliate, perché cancellano arbitrariam ente la
ragionevole attendibilità di tutte le indicazioni che por­
tano a collocare Giovanni nel 26 d. C. e nel 35 d. C .. La
contraddizione si può perciò sciogliere in un modo solo, e
cioè collocando Giovanni sia nel 26 d. C. sia nel 35 d. C.,
ovvero prendendo atto che egli è comparso ed ha comin­
ciato a battezzare nel 26 d. C., e che è stato ucciso da
Erode Antipa nel 35 d. C. (o nel 34 d. C.).
Giovanni B attista ha quindi operato come leader reli­
gioso in Palestina lungo un arco di otto o nove anni. Ciò
non è mai stato immaginato semplicemente perché nei
Vangeli Giovanni compare come una meteora: ha appena
il tempo di battezzare Gesù, e subito viene arrestato, poi
fatto uccidere. Il suo messaggio, compendiato in poche
parole, non lascia minimamente intuire una lunga vicen­

Ge s O 67 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

da di predicazione. Dicemmo però che la via da seguire


nell’utilizzazione dei Vangeli come fonte storica doveva
essere quella di lavorare su di essi nella stessa maniera
con cui normalmente si lavora sulle usuali fonti storiche.
Ora, sappiamo che le narrazioni antiche, quando si collo­
cano ad una certa distanza temporale dai fatti narrati,
operano spesso processi di condensazione, che situano in
un unico scenario vicende avvenute in realtà in contesti
cronologici lontani tra loro.
Si sottraggono alla condensazione, tra le narrazioni
antiche, soltanto quelle poche che si basano su una gran­
de ricchezza di informazioni riguardo a ciò che narrano,
e che sono guidate da precisi intenti cronografici e storio­
grafici. Soltanto, cioè, narrazioni come quelle di Tucidi­
de, Polibio, Livio, Tacito, Appiano, Ammiano Marcellino.
Ma già, per esempio, nelle Vite di Svetonio o dello stesso
Plutarco, molteplici vicende biografiche, separate tra loro
da lunghi intervalli di tempo, sono narrativamente ap­
piattite in sequenze continue, che danno l’illusione di una
quasi contemporaneità dei fatti che si succedono. Persi­
no storici come Diodoro Siculo e Gregorio di Tours, quan­
do rievocano eventi molto lontani dai loro tempi, fanno
sparire le distanze cronologiche che li separano gli uni
dagli altri.
Si pensi anche ad Erodoto, non quando narra le guer­
re persiane, a lui vicinissime, e sulle quali dispone di in­
formazioni molto dettagliate, ma quando ricostruisce, ad
esempio, la civiltà egiziana: lì compaiono in un unico sce­
nario persino realtà storiche risalenti a millenni diversi.
Il lavoro dello storico su fonti di questo genere consi­
ste appunto nel ristabilire, usando tutti gli indizi che gli
sono stati lasciati, e tutte le risorse logiche di cui dispo­
ne, distanze e prospettive cronologiche annullate dalle
condensazioni operate dalla fonte.

G esù 68 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Un lavoro non diverso deve essere fatto sui Vangeli.


Facendo questo lavoro, diventa persino ovvio che Giovanni
Battista sia stato protagonista della storia religiosa ebrai­
ca per anni, e non per mesi. Altrimenti non avrebbe la­
sciato le tracce profonde che ha invece lasciato. E diven­
ta ovvia anche la condensazione della sua non breve sto­
ria in poche immagini della sua figura, e in poche frasi
da lui pronunciate, che danno l’impressione di una figu­
ra comparsa e scomparsa in un rapidissimo volgere di
tempo.
I redattori dei Vangeli, e lo stesso Giuseppe Flavio,
non disponevano infatti di alcuna misura cronologica della
vita di Giovanni Battista, non avevano alcun interesse a
costruirla, e non possedevano le informazioni minime
necessarie per poterla costruire. Essi avevano conserva­
to, oltre ad alcuni relitti di immagini e di parole di Gio­
vanni, la memoria del significato complessivo della sua
opera, che è poi l’elemento per noi più importante per
concepirlo come personaggio storicamente reale: Giovanni
fu l’uomo che condusse talune correnti, probabilmente
minoritarie, della cultura religiosa ebraica dell’epoca, alla
prospettiva dell’imminenza dell’avvento del regno di Dio
sulla Terra, e all’idea di doverlo preparare non con un’in­
surrezione militare, ma in maniera pacifica, attraverso
una penitenza collettiva.
Capire che questo è il significato storicamente reale
dell’opera di Giovanni Battista, m a che tale opera si è
svolta attraverso anni, drammi, itinerari e vicissitudini
che ignoriamo, è importante non per pura questione eru­
dita, ma perché apre una nuova prospettiva sulla storia
stessa di Gesù. Se infatti si ammette che Giovanni Batti­
sta abbia operato come leader religioso lungo un arco di
otto o nove anni, dal 26 d. C. al 34 o al 35 d. C., diventa
ragionevole supporre che anche la vicenda pubblica di

G esù 69 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Gesù si sia svolta in un simile arco di tempo, dato che i


Vangeli intrecciano l’impegno religioso di Gesù sia con
l’inizio che con la fine della missione del Battista. Ma se
Gesù è stato attivo in Palestina per diversi anni, allora i
Vangeli, che condensano le sue parole e i suoi atti in un
breve periodo a ridosso della sua morte, nascondono un
più lungo periodo formativo della sua personalità pub­
blica.
A questo punto dobbiamo tentare di dare una risposta
a due domande. La prima: ci sono veramente anni oscu­
ri, per noi, della predicazione di Gesù? Lunghi anni, cioè,
che possiamo immaginare densi di vicende drammatiche,
e di decisiva importanza per la percezione collettiva del­
la figura pubblica di Gesù, caduti fuori da quadro delle
narrazioni evangeliche, le quali saltano dal battesimo di
Gesù direttamente al periodo finale della sua predicazio­
ne, cancellando di lui un arco quasi decennale di impe­
gno religioso? La seconda: è possibile ricostruire una vaga
traccia e un significato generale dell’itinerario storico
percorso da Gesù in quegli anni oscuri saltati dai Vange­
li, naturalm ente se vi sono stati, comprendendo anche i
motivi della loro cancellazione?
La risposta alla prima domanda è facile, ed è una ri­
sposta positiva. Gesù cominciò il suo impegno religioso
pubblico recandosi dalla Galilea sulle rive del Giordano,
a farsi battezzare da Giovanni, nell’anno 26 d. C. . Da
allora in poi fu attivo per alcuni anni, attraverso vicende
che non conosciamo, fino alla fase finale della sua predi­
cazione, iniziata nel 35 d. C. (o al più presto nel 34 d. C.),
in coincidenza con l’arresto di Giovanni Battista, e rac­
contata dai Vangeli come diretta prosecuzione del suo
battesimo. Diversi sono gli elementi che portano a que­
sta risposta. Innanzi tutto, come abbiamo già visto a pro­
posito della cronologia di Giovanni, gli elementi che in­

Gesù 70 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

ducono a fissare al 26 d. C. il battesimo di Gesù, e al 35 d.


C .,o a poco prima, l’arresto di Giovanni, che coincide con
l’inizio della predicazione di Gesù n arrata dai Vangeli. È
dunque evidente che i Vangeli, facendo iniziare la predi­
cazione di Gesù con l’arresto di Giovanni, ma subito dopo
il suo battesimo, saltano quasi un decennio della sua vita.
C’è poi da considerare che non è storicamente ragionevo­
le supporre che la traccia profondissima lasciata da Gesù
sui suoi discepoli sia stata effetto soltanto di pochi mesi
di predicazione. Inoltre i Vangeli sinottici10 raccontano
che Gesù, dopo essere stato battezzato, e prima di inizia­
re la sua predicazione, rimase quaranta giorni nel deser­
to, per superare alcune tentazioni. Il simbolismo biblico
proprio della tentazione, del deserto, e del numero qua­
ranta, non lascia dubbi sul fatto che il racconto rappre-

10 Vangeli sinottici è il nome collettivo dato ai tre Vangeli di Matteo,


Marco e Luca, a partire dal XVIII secolo, quando gli studiosi si accor­
sero che, se li facevano stampare e impaginare in colonne parallele,
potevano seguire con uno stesso sguardo, in greco synopsis, il raccon­
to della vicenda di Gesù L’aggettivo di sinottici, attribuito ai primi tre
Vangeli, è dunque inteso a sottolineare il loro parallelismo narrativo.
Lo schema generale della narrazione è in effetti quasi identica in tut­
ti e tre i Vangeli, e quasi identiche sono anche molte unità narrative.
Caratteristica dei Vangeli sinottici è quella di operare una estrema
condensazione della vicenda pubblica di Gesù, che sembra al lettore
essersi svolta tutta quanta nel giro di pochi mesi. Essi, inoltre, pur
dando ampio spazio agli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme, ne
narrano il dramma in maniera spesso sfuocata, e dando talvolta l’im­
pressione di non comprendere la logica del suo svolgimento. Molto
più chiari sono invece sulla predicazione di Gesù in Galilea. Ciò non
può dipendere che dal fatto che la tradizione, orale e scritta, a cui i
loro redattori hanno attinto, risaliva ai più stetti discepoli galilei di
Gesù. Costoro, quando seguivano il maestro a Gerusalemme, veniva­
no a trovarsi in un contesto ambientale loro estraneo, che riduceva le
loro capacità di comprensione, specie quando entravano in giuoco isti­
tuzioni tipicamente giudee (come il Sinedrio), o quando erano esclusi
dalla partecipazione agli eventi (come nel processo a Gesù).

G esù 71 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

senti l’ultima, simbolica condensazione del ricordo di un


lungo itinerario formativo percorso da Gesù prima della
sua predicazione narrata dai Vangeli. La certezza che ci
siano stati anni oscuri, precedenti gli episodi di cui sia­
mo a conoscenza tram ite le narrazioni evangeliche, della
vicenda pubblica di Gesù, è confermata anche da altri
dati, di cui diremo tra poco, perché riguardano il succes­
sivo argomento.
La risposta alla seconda domanda è più complessa.
Gli anni oscuri di Gesù sono infatti tali appunto perché
non ci sono stati tram andati. Come ricostruire allora un
sia pur vago disegno, e un sia pur generico significato? E
se questa ricostruzione è assolutamente impossibile, la
sua impossibilità non infirma la stessa certezza dell’esi­
stenza di quegli anni? Come fare, allora, a trovare una
risposta accettabile? Consideriamo i dati, e riflettiamo.
Se le tentazioni di Gesù nel deserto sono, come si è
detto, una forma di condensazione estrema e simbolica
del suo itinerario spirituale di alcuni anni, dopo il suo
battesimo, allora il contenuto di quelle tentazioni deve
dirci qualcosa di tale itinerario. Come è noto, nelle nar­
razioni di Matteo e di Luca, Satana tenta Gesù chieden­
dogli di accettare il dominio dei regni della Terra, di get­
tarsi dal pinnacolo del Tempio confidando nella protezio­
ne di Dio, di mutare le pietre in pani. Se teniamo presen­
te che un Messia, per essere riconosciuto tale, doveva rin­
novare il miracolo mosaico della manna, facendo saltar
fuori pane in abbondanza per i suoi seguaci, e doveva
mostrare di avere una speciale protezione divina, e se
consideriamo che l’ideale del regno di Dio prevedeva il
governo della Terra da parte del Messia da lui scelto, non
tardiamo ad accorgerci che il contenuto delle tentazioni
rinvia univocamente alla liberazione messianica. Ma
Gesù non volle essere appunto il Messia liberatore di Isra-

G esù 72 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

eie? Perché dunque l’assunzione di quel ruolo finì per


condensarsi simbolicamente in tentazioni da respinge­
re? Evidentemente perché alla coscienza retrospettiva
dell’ultimo Gesù alcune maniere di interpretare il ruolo
messianico apparvero non conformi al disegno di Dio.
Quali furono queste maniere che Gesù fu indotto tal­
volta ad adottare, e che, dopo esperienze formative di al­
cuni anni, alla fine respinse come tentazioni di Satana?
Ce lo dice appunto il contenuto stesso, simbolicamente
condensato, della narrazione evangelica sulle tentazioni:
assumere iniziative di liberazione messianica particolar­
mente spericolate e praticamente votate alla rovina, con­
fidando sulla speciale protezione che Dio doveva al suo
Messia; raccogliere seguaci con distribuzione di cibo ot­
tenute svuotando a mano arm ata i granai, come aveva
fatto Giuda il Galileo di fronte ai Romani; ottenere il so­
stegno di alcuni dei poteri esistenti, e servirsene nell’in­
staurazione del regno messianico. Si potrebbe obiettare
che ricavare un contenuto storico da un racconto simbo­
lico, per via di puro ragionamento, costituisce un’opera­
zione interpretativa troppo congetturale. A ciò si deve ri­
spondere che questa operazione interpretativa ha anche
precisi riscontri testuali, di cui non potremmo assoluta-
mente disporre se avessimo i soli Vangeli sinottici,11 ma
che troviamo nel testo tanto più denso di storicità del
quarto Vangelo.112
Il Vangelo di Giovanni non contiene, come è noto, l’epi­
sodio delle tentazioni di Gesù. Contiene però lo scenario,
cancellato dagli altri Vangeli, di un Gesù che opera nel­
l’ambiente del Battista, ma in maniera autonoma, che
trae i suoi discepoli dai seguaci del Battista, che si fa

11 Cfr. nota 10.


12 Cfr. nota 13.

Gesù 73 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

addirittura lui stesso battezzatore. La prima parte del


Vangelo di Giovanni, insomma, narra vicende diverse da
quelle raccontate dai Vangeli sinottici, che si collocano
nel 26-28 d. C. anziché nel 34-36 d. C .. Se il nostro ragio­
namento di prima è giusto, quelle vicende appartengono
allora airitinerario formativo di Gesù che i Vangeli si­
nottici simbolizzano nell’episodio delle tentazioni. Dob­
biamo verificare questa nostra ipotesi.
Le vicende che sono raccontate nei primi capitoli del
quarto Vangelo sono per lo più del tutto nuove per il let­
tore dei Vangeli sinottici, per la ragione che abbiamo det­
to, cioè perché appartengono ai primi e non agli ultimi
anni della predicazione di Gesù. In altri termini, rincon­
tro di Gesù con Filippo di Betsaida, il suo riconoscimento
come Messia da parte di Natanaele, le sue nozze a Cana,
il suo dialogo notturno con Nicodemo, la sua attività bat­
tesimale, le parole rivolte alla donna sam aritana nella
località di Sichar, sono tutte vicende del 26-28 d. C., ap­
partengono cioè a quelli che abbiamo chiamato anni oscuri
di Gesù, che si stanno rivelando meno oscuri.
Tra le nozze di Cana e il dialogo con Nicodemo, il quarto
Vangelo inserisce tuttavia un episodio ben conosciuto dal
lettore dei Vangeli sinottici, la famosissima cacciata dei
mercanti dal Tempio. I Vangeli sinottici lo collocano però
appena quattro o cinque giorni prima della morte di Gesù,
cioè nella primavera del 36 d. C., mentre il Vangelo di
Giovanni lo colloca nella primavera del 27 d. C .. Si può
essere certi che quest’ultima è la collocazione giusta. In
primo luogo perché il Vangelo di Giovani è sempre più
attendibile degli altri riguardo alle vicende svoltesi a
Gerusalemme.13In secondo luogo perché è naturale che i

13 II Vangelo di Giovanni è centrato su un’elaborazione teologica del­


la figura di Gesù come il Logo di Dio fattosi carne, e venuto ad abitare

G esù 74 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Vangeli sinottici, saltando l’intero periodo 26-34 d. C. della


predicazione di Gesù, ne condensino alcuni indimentica­
bili episodi nella sua ultima fase, dato che è la sola fase
della sua predicazione che raccontano. In terzo luogo, e
si tra tta di un indizio decisivo, perché Gesù venne accu­
sato, durante l’interrogatorio davanti alle autorità ebrai­
che, anche della minaccia da lui rivolta al Tempio, ma le
accuse contro di lui si rivelarono contraddittorie, e non
furono esse a determinare il suo rinvio al giudizio di Pi­
lato per la condanna a morte. Ora ciò risulta comprensi­
bile solo se le accuse si riferivano ad una vicenda già lon­
tana nel tempo, e non ad un fatto di pochi giorni prima.
nel mondo in mezzo agli uomini. Parrebbe quindi che dovesse allonta­
narsi dal Gesù della storia ben più dei Vangeli sinottici, che non sono
interessati a costruzioni cristologiche ulteriori rispetto all’idea che
Gesù sia stato il Cristo predetto dai profeti, e sia risorto dalla morte.
Ma le cose non sono affatto valutabili in questo modo. Il Vangelo di
Giovanni è infatti costituito dalla evidente giustapposizione redazio­
nale di due narrazioni eterogenee, una narrazione teologica delle
manifestazioni cristologiche di Gesù, opera del redattore, e una nar­
razione storica dell’impegno religioso di Gesù. Questo secondo filone
narrativo ha una storicità maggiore di quella delle narrazioni sinotti­
che, come avremo modo di constatare molte volte più avanti, e dipen­
de chiaramente da una altolocata fonte giudea. Nel Vangelo di Gio­
vanni, infatti, risultano più nitide e logiche le vicende del processo e
della morte di Gesù a Gerusalemme, e compaiono fatti e personaggi
del tutto assenti nei sinottici. Basti pensare che, se avessimo solo i
sinottici, non conosceremmo neppure personaggi come Natanaele,
Lazzaro e il cosiddetto discepolo prediletto, che, per il fatto stesso di
essere sempre menzionato anonimo, è probabilmente, come la tradi­
zione vuole, l’autore della narrazione storica contenuta nel Vangelo.
La tradizione sbaglia però sicuramente neH’identificarlo con l’aposto­
lo Giovanni. Questi infatti era un povero pescatore galileo, e non può
quindi assolutamente coincidere con il discepolo prediletto che, quan­
do Gesù fu tradotto dal sommo sacerdote, potè entrare nell’atrio del
suo palazzo, perché da lui conosciuto, e potè farvi entrare anche Pie­
tro (Giovanni 18, 15-16). Quindi il cosiddetto Vangelo di Giovanni
non è affatto di Giovanni, almeno non del Giovanni apostolo di Gesù.

Gesù 75 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

Gesù sferrò dunque il suo attacco alle attività econo­


miche del Tempio di Gerusalemme all’inizio della sua
attività pubblica, durante la festività pasquale del 27 d.
C .. Se quindi comprendiamo il senso di questo episodio,
precedente di otto anni le vicende evangeliche solitamente
ricordate, possiamo avere una traccia e un significato
dell’itinerario storico percorso da Gesù negli anni oscuri
che precedono la fase finale e conosciuta del suo impegno
religioso.
La prima cosa da osservare è che l’episodio si rivela,
se attentam ente analizzato, non una vera e propria vi­
cenda di cui Gesù fu protagonista, ma il frammento di
una vicenda per la sua maggior parte cancellata, ovvero
un ricordo molto parziale, passato attraverso un filtro
altam ente selettivo della memoria storica, che ha fatto
cadere nell’oblio l’intero contesto entro cui aveva un si­
gnificato. Esso è così narrato dai Vangeli:14
Gesù entra nel piazzale del Tempio, e con una frusta
di corde intrecciate ne scaccia coloro che vi svolgevano
per conto dei sacerdoti le usuali attività economiche; poi
rovescia le tavole dei cambiavalute, sparpagliando a ter­
ra le loro monete, e i banchi dei venditori di colombe, fa­
cendo fuggire i volatili; infine parla a coloro che hanno
assistito alla scena, dicendo che il Tempio doveva essere
casa di preghiera, ed è stato invece ridotto a spelonca di
briganti. Tutto questo passa, nei titoli solitamente appo­
sti al brano evangelico, come purificazione, o riforma, del
Tempio.
Ma tutto questo è inverosimile se è preso per l’episo­
dio reale, mentre diventa realistico se viene inteso come
un frammento dell’episodio rèale. Gesù, infatti, non può

14 Matteo 21, 12-13; Marco 11, 15-17; Luca 19, 45-46; Giovanni 2,
13-16.

Gesù 76 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

essere entrato da solo a prendere a frustate gli operatori


economici del Tempio: sarebbe stato immediatamente
immobilizzato e arrestato dalla forza arm ata che il som­
mo sacerdote aveva alle sue dirette dipendenze, come ci
informano diverse fonti antiche, appunto per mantenere
l’ordine pubblico dentro e attorno il Tempio.
Siamo perciò costretti a immaginare che Gesù sia en­
trato nel piazzale del Tempio attorniato da una turba
numerosa e ben arm ata di suoi seguaci, e che la guardia
del Tempio non sia intervenuta perché intimorita dallo
spiegamento di forze avverse. Il Vangelo di Marco atte­
sta che questo attacco al Tempio fu ritenuto talm ente
grave dai capi dei sacerdoti, che essi cercarono il modo di
uccidere Gesù.15Basta riflettere su questa testimonian­
za per rendersi conto che se Gesù fosse stato solo a pren­
dere a frustate gli operatori economici dei sacerdoti, non
sarebbe certo uscito indenne dal piazzale del Tempio.
Anche una successiva reazione sanguinosa contro Gesù
e i suoi seguaci venne scoraggiata evidentemente dalla
forza di costoro, oltre che dalla rinuncia di Gesù a fare
dell’attacco al Tempio la premessa di un’insurrezione
messianica. L’attacco fu invece localmente e temporal­
mente circoscritto, ed ebbe un valore simbolico.
Ma che cosa volle simboleggiare Gesù cacciando dal
Tempio i cambiavalute e i venditori di colombe? La ne­
cessaria purificazione del Tempio, si dice. Un obiettivo
simile significava poco meno che una rivoluzione sociale,
in una società di tipo antico-orientale, come quella ebrai­
ca dell’epoca, in cui il culto del Tempio drenava enormi
risorse economiche (oltre alla specifica tassa templare, le
decime agricole, le offerte pasquali, le offerte espiatorie,
i censi sui primogeniti), e in cui la direzione del Tempio

15 Marco 11, 18.

Gesù 77 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

coincideva con l’organizzazione di una parte notevole della


vita produttiva. L’azione di Gesù, tuttavia, mirava a un
risultato ancora più drastico della purificazione delle at­
tività templari da finalità mercantili e di arricchimento
privato. Se infatti il suo obiettivo fosse stato quello della
purificazione, avrebbe agito fuori dal Tempio, attaccan­
do gli amministratori agricoli dei sacerdoti, o incitando
la popolazione a non pagare la tassa templare, e non den­
tro il Tempio contro operatori che in definitiva si limita­
vano ad offrire un servizio per il culto dei pellegrini. I
cambiavalute permutavano le monete correnti con spe­
ciali monete prive di effìgi umane e segni pagani, le uni­
che ammesse nelle spese a scopi religiosi, e i venditori di
colombe fornivano volatili per i sacrifici che diffìcilmente
i pellegrini avrebbero potuto portarsi dietro dai paesi di
origine. I profitti sacerdotali su queste attività, se anche
c’erano (non abbiamo fonti che li segnalino), non poteva­
no essere neppure paragonabili a quelli tratti dall’esa­
zione della tassa templare e delle decime agricole.
Rovesciare le tavole dei cambiavalute e i banchi delle
colombaie aveva dunque un senso se si voleva non già
ricondurre le attività economiche del Tempio alla loro ori­
ginaria funzione religiosa, ma abolire ogni attività eco­
nomica connessa con il culto templare, ovvero se si vole­
va distruggere il Tempio nell’accezione antico-orientale
del termine. Che di questo si trattasse, è confermato da
un versetto del Vangelo di Marco, opportunamente con­
traffatto nelle traduzioni, nel cui testo originale si dice
che Gesù si mise anche ad impedire il trasporto degli ar­
redi religiosi attraverso l’area del Tempio,16e dalla espli­

16 Cfir. Marco 11,16 dove è scritto « o ù k riqpisv iva xig òievévKr) c n c e tio g
8ià T o t) lepaò», dove aKEùog, in connessione con L e p ó g , è l’arredo sacro.

G esù 78 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

cita affermazione di Gesù, riportata da tutti i sinottici,


che la casa di Dio debba essere una casa di preghiera.17
Si tratta di una citazione del profeta Isaia, che, riferita
ad un Tempio come quello ebraico di Gerusalemme, rap­
presenta un auspicio di distruzione, perchè una semplice
casa di preghiera non è più un Tempio antico-orientale.
L’idea della necessità morale e religiosa della distruzio­
ne di un Tempio ormai profanato si trova in alcuni testi
dei manoscritti del Mar Morto, che rifiutano ogni aspetto
della vita templare, dalle attività economiche al culto
religioso, dai riti purificatori alla stessa istituzione sa­
cerdotale. Il Messia figlio di David, secondo questi testi,
avrebbe determinato con la sua comparsa la distruzione
del Tempio, che sarebbe stato sostituito nelle sue funzio­
ni religiose dalla comunità dei credenti. Più volte viene
sottolineato, dai medesimi testi, che il vero Tempio è la
comunità, e che il vero culto è la vita santa della comuni­
tà.
A questo punto la fase iniziale dell’impegno pubblico
di Gesù comincia a prendere qualche forma. Fattosi bat­
tezzare da Giovanni nel 26 d. C., divenne seguace del
Battista quanto all’idea che il regno di Dio fosse immi­
nente, e che i veri credenti fossero chiamati per questo
all’espiazione dei peccati. Giuocò però un ruolo autono­
mo, rendendosi protagonista di azioni che miravano a
forzare i tempi dell’avvento del regno di Dio, e che gli
procurarono seguaci propri tra quanti avevano simpatie

17 Cfr. Marco 11, 17 dove è scritto «o i k ò s p o u 0 Ì K 0 5 j i p o o e u x f i S k X.t |0t ì -


oetcu J t à c r iv T o ò g e Ov e c h v » , che è una citazione da Isaia 56, 7. In quel
versetto di Isaia il Tempio è definito casa di preghiera aperta a tutti
coloro che, anche se originariamente stranieri al popolo di Israele,
hanno aderito al suo Dio. Per questo Marco parla di casa di preghiera
per tutte le genti, mentre nel corrispondente brano di Matteo si parla
soltanto di casa di preghiera CMatteo 21, 13).

Gesù 79 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

per lo zelotismo o comunque per le forme più radicali del


messianismo davidico. Queste azioni culminarono, nella
pasqua del successivo 27 d. C., in un attacco di massa,
incruento ma molto deciso, alle transazioni commerciali
che si svolgevano nel piazzale del Tempio di Gerusa­
lemme, come preannuncio della distruzione messianica
del Tempio stesso. Coloro che auspicavano la fine del Tem­
pio in una comunità religiosa rigenerata lo acclamarono
gridandogli «Gloria al figlio di David!».18 Gesù però non
portò la sua azione fino alle estreme conseguenze di un’in­
surrezione arm ata messianica, sul modello del messiani­
smo zelotico, e anni dopo reinterpretò il successo di mas­
sa avuto dal suo attacco al Tempio come una tentazione
satanica di forzare i voleri di Dio.
A tale ricostruzione si potrebbe obiettare che né i Van­
geli né gli Atti degli apostoli né le epistole di Paolo ripor­
tano una sola frase in cui Gesù auspichi la distruzione
del Tempio, che non esistono parabole o invettive evan­
geliche contro i sacerdoti e il loro culto, e che sono ricor­
dati anzi episodi in cui Gesù consiglia di compiere i riti
templari di purificazione, e persino, sia pure con qualche
riluttanza, di pagare la tassa al Tempio.19
Ma tutto questo dipende dal fatto appunto che i rac­
conti tram andati dai seguaci di Gesù riguardavano qua­
si esclusivamente la fase terminale della sua predicazio­
ne, lasciando nell’oscurità quello che Gesù aveva detto e
fatto prima del 34-36 d. C. . La tradizione, infatti, per
molteplici motivi di fede, di catechesi e di rapporto con le
comunità cristiane sorte nel mondo greco e latino, non
18 Di tutti i Vangeli, solo quello di Matteo ricorda un’acclamazione
messianica di Gesù, e la attribuisce ad una gruppo di bambini (M at­
teo 21,15-16). È però molto verosimile che un’acclamazione messiani­
ca ci sia stata.
19 Matteo 17, 24-27.

Gesù 80 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

voleva ricordare, se non sotto la veste simbolica di una


tentazione satanica respinta, gli anni in cui Gesù aveva
guidato i suoi seguaci in maniere e con finalità contigue
a quelle del movimento zelotico. Tanto più era necessario
o facile cancellare quegli anni oscuri, in quanto neanche
allora Gesù era mai diventato un capo zelotico, e, dopo di
allora, aveva considerevolmente mutato il suo atteggia­
mento.
D’altra parte, non si può neanche dire che nei Vangeli
non sia rim asta traccia del significato dell’azione di Gesù
della pasqua del 27 d. C. così come noi lo abbiamo fin qui
ricostruito. Tutti e tre i Vangeli sinottici ricordano infatti
una predizione di Gesù della distruzione del Tempio di
Gerusalemme, che si presenta confusa con elementi tra t­
ti dalla successiva, effettiva distruzione del Tempio com­
piuta dai Romani nel 70 d. C., e che appare del tutto se­
parata dall’azione pasquale contro il Tempio.20
Ma è fin troppo evidente che quella predizione e quel­
l’azione erano connesse, e che la predizione era una mi­
naccia. Era infatti nella tradizione biblica delle profezie
escatologiche lanciare minacce contro autorità, città o
istituzioni peccaminose predicendone la rovina. Gesù,
minacciando la distruzione del Tempio di Gerusalemme,
e manifestando la minaccia con la sua azione simbolica
contro i cambiavalute e i venditori di colombe, non pen­
sava certo di poterla portare personalmente a compimen­
to, distruggendo con le sue mani le m ura templari, ma
riteneva invece, da profeta ebreo, che Dio avrebbe guida­
to la storia a produrre la fine del Tempio, e che egli era
legittimato ad anticipare la volontà di Dio in una predi­
zione. La minacciosità di questa predizione rappresentò
un’offesa così pesante per la religione ufficiale, che ri­

20 Matteo 24; Marco 13; Luca 21.

Gesù 81 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

comparve nelle accuse rivolte a Gesù durante il suo in­


terrogatorio davanti alle autorità ebraiche. Il fatto che
tali accuse si rivelassero contraddittorie, e che non costi­
tuissero l’elemento decisivo del rinvio al giudizio di Pila­
to per la condanna a morte, non dipese, come vollero far
credere allora i redattori dei Vangeli, e come vogliono far
credere oggi i loro interpreti religiosi, dall’innocenza di
Gesù. Dipese, invece, dalla lontananza nel tempo della
minaccia di distruzione del Tempio, che Gesù aveva pro­
ferito quasi dieci anni prima dell’interrogatorio in cui gli
fu contestata, e dalla episodicità dell’azione in cui quella
minaccia si era manifestata. Ma l’eco di quella minaccia
raggiunse Gesù persino sulla croce, se sono vere le nar­
razioni evangeliche sui passanti che lo insultavano di­
cendogli «Tu che volevi distruggere il Tempio, salva te
stesso, se sei Figlio di Dio!».21
«Tu che volevi distruggere il Tempio»: questo molti
abitanti di Gerusalemme ricordavano di Gesù. Si tratta
di un ulteriore indizio che si aggiunge ad altri nel darci
la certezza che Gesù, nella pasqua del 27 d. C., volle dav­
vero manifestare la necessità morale e religiosa che il
Tempio fosse distrutto. Il collegamento tra l’azione esem­
plare con cui egli manifestò simbolicamente la sua volon­
tà di distruggere il Tempio, e la predizione di quella di­
struzione, può venire ricostruito leggendo il Vangelo di
Giovanni. Vi si narra, infatti, che dopo che Gesù ebbe
rovesciato le tavole dei cambiavalute e i banchi dei ven­
ditori di colombe nel Tempio, alcuni presenti gli chiesero
un segno che mostrasse la legittimità del suo atto. Egli
rispose loro: «Demolite questo Tempio, ed io lo farò risor­
gere in tre giorni».22 Il significato della risposta è chiaro:

21 Matteo 27, 40; Marco 15, 30.


22 Giovanni 2,19.

Gesù 82 Uomo nella stosia


M assimo B ontempelli

Gesù si sente legittimato a proporre la distruzione del


Tempio perchè si sente in grado, come inviato di Dio e
protagonista delTawento messianico, di ricostruire in
breve tempo un’organizzazione religiosa, morale e socia­
le della comunità, dopo lo scioglimento di quella templa­
re.23 In un simile contesto argomentativo si colloca facil­
mente la predizione minacciosa che, comunque, il Tem­
pio sarebbe stato distrutto da Dio.
Il Vangelo di Giovanni narra un altro episodio emble­
matico degli anni oscuri di Gesù: il miracolo dei pani.
Anche questo episodio, come quello dell’azione nel piaz­
zale del Tempio, è raccontato da tutti quanti i Vangeli,
ma collocato dai sinottici, con la loro abituale condensa­
zione, nell’ultimo anno della vita di Gesù. Il Vangelo di
Giovanni lo colloca invece in una pasqua antecedente a
quella della condanna a morte di Gesù, e successiva a
quella dell’azione nel Tempio. Quanto successiva? Que­
sto proprio non lo sappiamo. Un ragionamento del tutto
congetturale potrebbe portare alla pasqua del 28 d. C. .
Ma, mentre possiamo ritenere ragionevolmente certo che
l’azione nel piazzale del Tempio si sia svolta nella pa­
squa del 27 d. C., che il miracolo dei pani si sia svolto
durante la pasqua successiva, cioè nell’anno 28 d. C., è
davvero soltanto, e molto, congetturale.
L’episodio si svolge lungo i pendìi di un’altura sul lato
sudoccidentale del lago di Galilea, nei pressi del borgo di
Betsaida. La località è stata raggiunta da Gesù e dai suoi
discepoli in alcune barche venute dalla città di Cafarnao,
sul lato nordoccidentale del lago. Poiché a metà strada
tra Cafarnao e Betsaida il lago si allarga ad ovest, i due

23 In Giovanni 2,1 9 Gesù dice Xuckxte tòv vaòv tctutov: il verbo che
viene solitamente tradotto con “distruggete” è Xvoaxt, che alla lettera
vuol dire “sciogliete”.

G esù 83 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

centri, pur trovandosi sullo stesso lato del lago, sorgono


su rive poste approssimativamente l’una di fronte all’al­
tra, per cui il loro collegamento più breve è quello in bar­
ca. A Cafarnao Gesù si è affermato come leader religioso
ormai autonomo dal Battista, il quale nel frattempo con­
tinua a battezzare e a predicare il pentimento dai peccati
sulle sponde del Giordano. Quindi da Cafarnao sono in
molti a seguire le sue tracce, uscendo dalla città per ave­
re ancora modo di ascoltarlo.
A sera Gesù, che aveva pensato di intrattenere sull’al­
tura i suoi più stretti discepoli, vede invece un’intera fol­
la che si muove in salita verso di lui. Prima di comunica­
re ad essa un qualsiasi messaggio, si preoccupa di come
possa mangiare. Tutti, infatti, sono stanchi di una gior­
nata di cammino a digiuno, ma soltanto alcuni hanno
preso la precauzione di portarsi dietro una provvista di
cibo. La località, d’altra parte, è completamente disabi­
tata. Il borgo di Betsaida è vicino, ma nel senso di alcune
ore di cammino, che non sono proponibili ad una folla
affamata, quando già il sole è tramontato. E, poi, non
servirebbe raggiungerlo nel cuore della notte, oltretutto
con pochi denari da spendere. Gesù si preoccupa della
cena nel senso che se ne prende cura. A preoccuparsi nel
senso di provare ansia sono i suoi discepoli, che nel rac­
conto dei sinottici lo consigliano di prendere la parola per
indurre tutti a tornare alle loro case.24*Nel racconto di
Giovanni, invece, è Gesù stesso a suscitare la loro preoc­
cupazione, per metterli alla prova. Egli chiede infatti a
Filippo, che meglio conosce i luoghi essendo nato appun­
to a Betsaida, dove sia possibile trovare cibo per tutti.26
Naturalmente Filippo e gli altri discepoli ritengono im­

24 Matteo 14, 15; Marco 6, 35-36; Luca 9, 12.


26 Giovanni 6, 5.

Gesù 84 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

possibile risolvere il problema. Gesù, invece, lo risolve in


maniera tale da dare a tutti lorp un profondo insegna­
mento. Ordina alla moltitudine di alcune di migliaia di
persone di sedersi sul prato, non però tu tta ammassata,
ma sparpagliandosi a gruppi di cinquanta o al massimo
di cento persone ciascuno, in modo che in ogni gruppo ci
sia un certo numero di persone che hanno portato prov­
viste. Ordina poi ai suoi discepoli di dividersi nei vari
gruppi, e di operare in ogni gruppo la distribuzione dei
pani e dei pesci dalle poche ceste di provviste. Si scopre
così che c’è cibo sufficiente per un pacifico pasto colletti­
vo in allegra convivialità, e che residuano anzi degli avan­
zi. Questo è il miracolo, il miracolo della giustizia che,
non discriminando alcuni da altri, e non escludendo nes­
suno, è in grado di vincere la penuria.
Naturalmente non è esattamente questo che i Vangeli
intendono trasmetterci. I loro redattori vogliono farci cre­
dere che Gesù abbia taumaturgicamente materializzato
dal nulla pani e pesci. Noi ammettiamo senza difficoltà
che non crederemmo comunque ad un miracolo di tal ge­
nere, che, oltre al resto (perchè allora non credere a tutte
le meraviglie incredibili testimoniate da tutte le religio­
ni, e non solo dalle religioni?), ci sembra profondamente
irrispettoso della serietà e della grandezza della figura
di Gesù. Ciò significa che forziamo la narrazione evange­
lica a rivelarci qualcosa che non contiene? Per niente. Vi
sono, nei Vangeli, indizi che suffragano la nostra rico­
struzione (la notazione del Vangelo di Marco della suddi­
visione per gruppi,26 il simbolismo numerico dei pani e
dei canestri degli avanzi27), e vi è addirittura, in un Van­
26 Cfr. Marco 6, 39.
27 L’intero racconto evangelico della moltiplicazione dei pani e dei
pesci è intriso di simbolismo. Si parte da due pesci e cinque pani i cui
numeri, due e cinque, sono quelli delle lettere usate dai primi cristia-

Ge s (j 85 Uomo nella storia


Massimo B ontempelli

gelo stesso, quello di Giovanni, la prova, se ce ne fosse


bisogno, che Gesù non sognò neppure di materializzare
dal nulla pani e pesci. Seguiamo dunque il racconto di
Giovanni dopo il miracolo.
Fattosi buio, i discepoli di Gesù discendono dall’altu­
ra alla riva del lago, e tornano in barca a Cafarnao. Gesù,
invece, raggiunge da solo la città, costeggiando a piedi la
riva del lago. Il mattino successivo, molte persone che
avevano seguito Gesù la sera prima, e altre venute da
Tiberiade, vedendo la sua barca ancora a riva, e suppo­
nendo che non fosse ancora tornato a Cafarnao, vanno a
cercarlo sull’altura dove era avvenuta la cena con i pani
e i pesci. Non trovandolo, si affollano sulle barche, diri­
gendosi verso la riva opposta del lago, a Cafarnao. Qui si
raccolgono in una sinagoga dove Gesù predica. Egli chie­
de loro di credere in lui come inviato di Dio. Alcuni repli­
cano: «Quale segno puoi farci, tale che noi, vedendolo,
possiamo credere in te? Qual è la tua opera?».28Riflettia­
mo: le stesse persone che appena il giorno prima avevano
assistito alla distribuzione dei pani e dei pesci, avrebbe­
ro forse chiesto un segno miracoloso per credere in Gesù,
se quella distribuzione fosse avvenuta materializzando
dal nulla pani e pesci? Non lo avevano già avuto un se­
gno miracoloso? Certo, ma si trattava del miracolo della
giustizia e dell’amore, non di un miracolo come evento
sovrannaturale. Altrimenti la richiesta da loro fatta non

ni per identificare Gesù Cristo con le formule rispettivamente del suo


nome messianico (I. E.) e due suoi attributi soteriologici (I. S. ©. 2.). Le
dodici ceste dei pani che avanzano sono il simbolo del cibo spirituale
tratto da Gesù, di cui sono elargitori i dodici apostoli. La narrazione
del quarto Vangelo successiva al miracolo dei pani è infatti incentrata
sull’identificazione di Gesù con il pane offerto da Dio agli esseri uma­
ni.
28 Giovanni 6, 30.

G esù 86 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

avrebbe senso. Ed è interessante la risposta che dà loro


Gesù. Egli non dice: il segno che mi chiedete per credere
in me come inviato di Dio ve l’ho già dato ieri, moltipli­
cando per noi i pani e i pesci. Ma dice: fu Mosè a m ateria­
lizzare cibo per i vostri padri, che poterono mangiare la
manna nel deserto, ma il vero pane venuto dal cielo sono
io stesso, in quanto nutrimento spirituale che dà vita eter­
na.29
La distribuzione dei pani e dei pesci era comunque
così ben riuscita che alcuni la lessero come simbolo di
una capacità messianica di assicurare cibo al popolo, e
vollero incoronare seduta stante Gesù come re d’Israele,
per metterlo alla testa di un’insurrezione armata. Gesù
però respinse, per la seconda volta dopo l’azione del Tem­
pio, l’idea di essere alla testa di un’insurrezione arm ata
messianica, secondo il modello del messianismo zeloti-
c o .30
E, qualche anno dopo, reinterpretò anche la sua di­
stribuzione di pane come la tentazione satanica di un fa­
cile successo di massa. Una delle tentazioni narrate dai
Vangeli sinottici è infatti quella in cui Satana invita Gesù
a comandare alle pietre che diventino pane, e Gesù ri­
sponde, respingendo la tentazione, che l’uomo vive non
soltanto di pane, ma di ogni parola di Dio. È fin troppo
evidente che questa tentazione è connessa con il miraco­
lo dei pani, ovvero è una reinterpretazione simbolica re­
trospettiva del facile ma illusorio successo che si poteva
ottenere tra le masse distribuendo loro cibo. Gesù non
volle però assaltare granai, come Giuda il galileo, per di­
stribuire grano al popolo. Egli ebbe certamente, negli anni
per noi più oscuri della sua vita, non poche contiguità

29 Giovanni 6, 32-33.
30 Giovanni 6,15.

G esù 87 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

con il movimento armato zelotico, ma respingendo sem­


pre, alla fine, l’idea di prendere le armi e di diventare il
re d’Israele degli zeloti
Episodi come l’azione nel piazzale del Tempio, e come
il miracolo dei pani, e la conseguente acclamazione rega­
le, avevano certamente fatto proiettare su Gesù l’aspet­
tativa di un esito risolutivo delle iniziative messianiche
da lui assunte. Gesù fu probabilmente posto nell’alter­
nativa tra cadere nel discredito, o mettersi effettivamen­
te alla testa di una rivoluzione armata. Egli sfuggì a que­
sta alternativa indirizzando i suoi più fidati discepoli
verso una rinnovata attività battesimale.31
Il senso di questa attività era evidentemente che il
tempo della preparazione spirituale anteriore all’avven­
to del regno di Dio non era ancora compiuto, e che era
quindi ancora necessario un periodo di riflessione inte­
riore e di pentimento dei peccati. Spostando l’attenzione
sulla penitenza e sull’attesa, Gesù si sottraeva alla ri­
chiesta di azioni messianiche risolutive, che aveva comin­
ciato a giudicare premature, pericolose, e forse anche
peccaminose, perché orientate di fatto a forzare la volon­
tà divina. Inoltre, poiché l’attività battesimale si svolge­
va nel deserto della Perea, egli aveva modo di sfuggire
all’osservazione delle autorità erodiane della Galilea e di
quelle templari della Giudea, evitando pericoli troppo
gravi per la sua vita, e cercando di farsi in qualche m a­
niera dimenticare da suoi nemici. Ricordiamo che il de­
serto era in quella civiltà anche un luogo di isolamento
socialmente riconosciuto come tale.
Il ritiro di Gesù nel deserto poteva essere interpreta­
to, nell’ambiente di coloro che condividevano le speranze

31 Cfr. Giovanni 3, 22. In Giovanni, l’attività battesimale di Gesù


viene prima del miracolo dei pani. Ma è più logico posporla.

Gesù 88 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

messianiche, come una diserzione dalle attese che le sue


precedenti azioni avevano suscitato, e come una rinun­
cia a continuare ad operare come inviato di Dio. Abbiamo
infatti indizi precisi che Gesù perse alcuni discepoli, e
vide allontanarsi da lui l’intera cerchia dei suoi paren­
ti.32In realtà molto della grandezza di Gesù sta anche in
questa sua capacità di mantenere fermi i suoi ideali sen­
za insistere in azioni che gli procuravano facile consenso
ma non avevano futuro, ripiegando su posizioni più ri­
flessive. Egli aveva ormai capito di aver corso inutili pe­
ricoli di morte, e di aver rischiato di far precipitare le
speranze messianiche in un puro scontro di armi, non
soltanto perdente sul piano della forza, ma anche inca­
pace di far m aturare i cuori.
Tornò così a chiedere ai suoi discepoli un periodo di
preparazione intellettuale e morale al regno di Dio, sen­
za più azioni pubbliche, isolandosi nel deserto, e m ante­
nendosi in contatto soltanto con quanti erano disposti ad
andarlo a cercare in quell’isolamento. Si trattava, dal
punto di vista della esteriore vicenda sociale, di un arre­
tramento e di una pausa, che sapeva tali e giudicava ne­
cessari. Si trattava di un ritorno provvisorio alle posizio­
ni di Giovanni Battista, di cui del resto Gesù non aveva
mai cessato di considerasi seguace, anche nel periodo in
cui aveva assunto audaci posizioni sue proprie.
La situazione di cui stiamo parlando non è databile
con precisione assoluta. Non si sbaglia però certamente
collocandola attorno al 30 d. C., non più di uno o due anni
prima o dopo. Giovanni Battista non aveva mai smesso,
dal 26 d. C., di predicare l’imminenza del regno di Dio e
la necessità della penitenza, e di battezzare sulle rive del
Giordano. Anche Gesù si mise ora a predicare il penti­

32 Cfr. Giovanni 7 , 2-5.

G esù 89 Uomo nella stoma


M assimo B ontempelli

mento dei peccati e a battezzare, anche lui sulle rive del


Giordano. Ognuno dei due era attorniato da un gruppo
di discepoli. Si ebbero così, in due località peraltro piut­
tosto distanti del fiume, due gruppi distinti di battezza­
tori, senza rapporti reciproci, né di competizione né di
collaborazione, che convergevano comunque nel mante­
nere viva l’idea che l’ingiusto ordine dei rapporti sociali
fosse prossimo alla fine.
Quanto durò questa situazione? Mesi? Anni? Quanti
anni? Né i Vangeli né altre fonti ci rendono possibile ri­
spondere a questa domanda. Sappiamo solo che negli anni
oscuri di Gesù ci fu un periodo battesimale nel deserto, e
possiamo congetturare che questo periodo durò alcuni
anni.

Gesù 90 Uomo nella storia


5. L’anno lum inoso d i Gesù

A questo punto possiamo constatare che sappiamo,


sulla base di una semplice analisi delle fonti metodologi­
camente condotta nelle maniere d’uso per la ricostruzio­
ne di una figura storica, non poche cose addirittura sul
Gesù anteriore all’ultimo anno della sua vita, sul quale
si concentrano le narrazioni evangeliche. Possiamo ave­
re un profilo storicamente attendibile del suo personag­
gio, così riassumibile.
Gesù nacque in Galilea, probabilmente a Nazareth,
altrimenti in qualche borgo vicino, quando l’intera Pale­
stina formava un regno inserito nell’Impero Romano, sotto
il re Erode il Grande. Nacque con una certa probabilità
nel 7 a. C., ma forse nel 12 o nel 10 a. C., in ogni caso tra
il 12 e il 4 a. C ..
Adolescente, vide una nuova umiliazione di Israele,
con il passaggio della Giudea (insieme all’Idumea e alla
Samaria) sotto la diretta dominazione romana, e della
Galilea (insieme alla Perea) sotto il tetrarca Erode Anti-
pa, strettam ente subordinato ai Romani, e coltivò sem­
pre più intensamente l’ideale profetico del regno di Dio.
Vide probabilmente morire suo padre per questo idea­
le, e si convinse, forse anche perché nato quando in cielo
era comparsa una stella di grande splendore, di essere
destinato a svolgere un ruolo di protagonista nella sua
realizzazione.
Questa sua convinzione sembrò ai suoi occhi trovare
una decisiva conferma allorché nel 26 d. C., quando egli
aveva già passato i trent’anni, tornò a farsi sentire, dopo
secoli di silenzio, la voce di un profeta, di nome Giovanni.
Costui annunciava infatti che era ormai vicina l’ora in
cui Dio avrebbe punito i peccatori e instaurato il suo re­
gno, e praticava un rito di immersione purificatrice nelle

G esù 91 Uomo n e u a stoma


M assimo B ontempelli

acque del Giordano per coloro che intendevano, p e r e n ­


dosi dei loro peccati, sfuggire all’ira finale di Dio.
Gesù, accorso anch’egli a partecipare al grande rito
della immersione, si convinse in tale occasione che Dio lo
aveva scelto per portare a compimento ciò che le parole
di Giovanni preannunciavano. Rimase quindi nel deser­
to, tra i tanti seguaci di Giovanni dispersi tra le oasi e
lungo il Giordano, ma facendosi discepoli propri. Coloro
che lo seguivano, già allora vedevano in lui il liberatore
di Israele che avrebbe promosso l’instaurazione del re­
gno di Dio sulla Terra. Gesù guidò infatti, nella pasqua
del 27 d. C., una dimostrazione messianica di massa nel
piazzale del Tempio di Gerusalemme, per chiedere la fine
del dominio dell’aristocrazia sacerdotale sul Tempio, lo
scioglimento dell’organizzazione economica templare, la
restituzione alla comunità dei fedeli dei beni pubblici di
cui i sacerdoti si erano arricchiti. Gesù venne così a tro­
varsi al centro di grosse aspettative messianiche, senza
aver compiuto alcuna azione risolutiva, e senza voler spin­
gere alle estreme conseguenze la sua contrapposizione al
potere sacerdotale. Perciò abbandonò la Giudea, e tornò
in Galilea, dove si perdono le tracce del suo impegno reli­
gioso, a parte il fatto che cade forse in questo periodo il
cosiddetto miracolo dei pani. Scrive il Vangelo di Giovan­
ni: «In seguito Gesù continuò ad aggirarsi per la Galilea.
Non voleva andare in Giudea perché i giudei cercavano
di ucciderlo».1Tornò tuttavia a Gerusalemme nell’autun­
no del 28 d. C., in occasione di una festa religiosa, com­
portandosi però come un semplice maestro di sapienza,
al punto che potè parlare in pubblico, senza conseguen­
ze, in quello stesso Tempio che aveva invaso un anno e
mezzo prima con i suoi seguaci.2Non si presentava, allo-
1 Giovanni 7 ,1.
2 Giovanni 7,14-15 e 7, 25-26.

Gesù 92 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

ra, con una figura ben definita, né, tanto meno, chiariva
a coloro che se lo chiedevano se si considerasse il Messia
liberatore di Israele.3 Si limitava a dire che il suo tempo
non era ancora venuto.4
Poco dopo, attorno al 30 d. C., si fece promotore di un
proprio rito di immersione. Il redattore del quarto Van­
gelo, dopo aver riferito a quel periodo l’autoproclamazio-
ne di Gesù quale Messia,567si trova in imbarazzo a parlare
di Gesù battezzatore, al punto da farvi prima soltanto un
brevissimo cenno,® e poi a contraddirlo, sostenendo che
non era Gesù a praticare il rito dell’immersione, ma era­
no i suoi discepoli.?
Il rifiuto di Gesù di far precipitare lo scontro tra le
attese messianiche coagulatesi attorno alla sua figura e
l’aristocrazia sacerdotale sfociò insomma, ad un certo
momento, nella sua rinuncia ad ogni aspirazione imme­
diata di regalità messianica, e nel suo ritorno alla prepa­
razione battesimale dell’attesa del regno di Dio. Tale si­
tuazione durò per alcuni anni.
Questo è quanto sappiamo dell’itinerario storico per­
corso da Gesù negli anni meno conosciuti della sua vita,
quelli che abbiamo chiamato gli anni oscuri. E poco, ri­
spetto a quello che vorremmo sapere di un periodo che è
stato piuttosto lungo, e durante il quale si è formata, tra
dubbi e contrasti, la personalità di Gesù. Ma è molto ri­
spetto alla media di quel che sappiamo dei personaggi
dell’età antica della storia. Sappiamo, infatti, il senso
generale del suo percorso, e sappiamo la contraddizione
nella quale si dibatteva. Egli voleva intensamente giun­
3 Giovanni 7, 40-43.
4 Giovanni 7, 6.
6 Giovanni 4, 26.
6 Giovanni 3, 22.
7 Giovanni 4, 2.

G esù 93 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

gere all’instaurazione del regno di Dio sulla Terra, ma


voleva evitare che la partita del regno di Dio fosse giuo-
cata in uno sterile scontro militare. Benché il suo mes­
saggio avesse punti di contatto con quello zelotico, e coa­
gulasse speranze di liberazione m aturate negli ambienti
zelotici, egli non voleva essere Messia nell’accezione ze-
lotica del termine.
A fronte di questi oscuri anni preparatori, l’ultimo anno
della vita di Gesù è un anno luminoso, nel doppio senso
di illuminato maggiormente dalle fonti evangeliche, e di
spiritualmente alto, perché Gesù ha sciolto in se stesso
la contraddizione degli anni formativi, ed ha scelto con
sicurezza la sua strada, quella che ha fatto di lui una
delle più grandi e decisive figure della storia umana.
Quando e come Gesù ha scelto la sua strada finale?
Questo lo sappiamo. Gesù prese una decisione definitiva
riguardo alla sua missione religiosa allorché, nel 34 o nel
35 d. C., il tetrarca della Galilea Erode Antipa fece prima
arrestare Giovanni Battista, e poi, poco tempo dopo, lo
mandò a morte.
«Erode aveva fatto arrestare Giovanni a motivo di
Erodiade, moglie di suo fratello Filippo. Giovanni infatti
diceva che non gli fosse lecito tenerla come sposa».89Così
le narrazioni evangeliche, secondo le quali, poi, Erode
Antipa avrebbe fatto uccidere in prigione Giovanni, per
compiacere la figlia della sua nuova sposa Erodiade.»
«Erode Antipa, temendo che l’influenza di Giovanni po­
tesse provocare un’insurrezione contro i Romani, poiché
i suoi seguaci sembravano disposti a compiere qualsiasi
cosa per sua ispirazione, ritenne che fosse meglio, date le
circostanze, toglierlo dalla circolazione prima che succe­

8 Matteo 14, 3-4 e Marco 6, 17-18.


9 Matteo 14, 6-10 e Marco 6,19-28.

G esù 94 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

desse qualche incidente, e che egli dovesse poi pentirsi di


fronte a fatti irreparabili. Perciò, prima di iniziare la
guerra contro Areta,. Erode inviò Giovanni in catene nel­
la fortezza di Macheronte, e colà poi lo fece uccidere».1»
Così la narrazione di Giuseppe Flavio. I due racconti, a
prima vista contrastanti, possono essere entrambi veri.
È probabile, infatti, che quello evangelico colga un ele­
mento della predicazione di Giovanni Battista da cui Ero­
de Antipa fu personalmente irritato, e che quello di Giu­
seppe Flavio individui la preoccupazione politica che spin­
se Erode a tradurre la sua irritazione in una decisione di
morte. Giuseppe Flavio spiega anche come l’uccisione di
Giovanni Battista procurò ad Erode Antipa l’accusa, da
parte degli ebrei più religiosi, di aver assassinato un uomo
giusto, e come la sua successiva sconfitta militare contro
le forze armate arabe di Areta fu considerata una puni­
zione divina.
E facile immaginare quanto profondamente Gesù sia
rimasto turbato da questo evento. Giovanni, l’uomo al
cui seguito egli aveva iniziato la sua missione religiosa,
l’uomo dal quale era stato purificato dai peccati con il
rito dell’immersione, l’uomo che aveva costituito il suo
fondamentale punto di riferimento ideale anche durante
gli anni della sua predicazione autonoma, usciva improv­
visamente di scena, prima ancora che con la morte, con
la reclusione nella fortezza di Macheronte.
Ciò significava forse che il suo annuncio dell’imminen­
za del regno di Dio era stato falsificato dai fatti? Gesù,
come abbiamo già visto, aveva fatto alcuni anni prima
un netto passo indietro: aveva cessato di operare per por­
tare a compimento l’annuncio di Giovanni, e si era limi­
tato a battezzare e a predicare il pentimento, nel conte-10

10 G iuseppe F lavio, A ntichità giudaiche, XVIII, 119.

Gesù 95 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

sto di una fase ancora preparatoria al definitivo avvici­


namento del regno di Dio. Avrebbe potuto fare ora, con
l’arresto del suo maestro, un ulteriore passo indietro, ac­
quietandosi nella malinconica certezza che il regno di Dio
si fosse di nuovo allontanato.
La sua interpretazione di ciò che era accaduto fu inve­
ce di segno opposto: Giovanni era stato l’ultimo e il più
grande dei profeti, il messaggero di un Dio in procinto di
intervenire sulla Terra, e la sua uscita di scena era il se­
gno che il regno di Dio, lungi dall’essersi allontanato,
aveva compiuto il suo processo di avvicinamento, ed esi­
geva ormai soltanto la sua piena realizzazione.
Si trattava di una interpretazione molto creativa del­
la situazione esistente, con la quale Gesù tornava a ri­
proporre, in maniera nuova ed estrema, la questione del
governo divino della Terra, identificando con totale sicu­
rezza l’azione storica che egli personalmente era chia­
mato a intraprendere. E essenziale, per una corretta ri-
costruzione del Gesù della storia, comprendere con pre­
cisione quale progetto Gesù avesse elaborato, e quali basi
sociali e culturali esso avesse.
Quando Giovanni fu messo in prigione, Gesù lasciò il
deserto della Giudea, e venne a predicare in Galilea, nar­
rano i Vangeli di Matteo e di Marco. Fu, da parte sua, un
atto di grande coraggio e risolutezza: andò infatti a ri­
proporre, radicalizzandolo, il messaggio di Giovanni, pro­
prio nel cuore pulsante del dominio territoriale di quel
tetrarca Erode Antipa che teneva Giovanni in prigione,
giudicandone politicamente molto pericoloso il messag­
gio. Gesù non andò infatti a vivere dai suoi familiari a
Nazareth, ma scelse come sua base la popolosa città com­
merciale di Cafarnao, e di lì prese a spostarsi e a predica­
re attraverso tutti i fiorenti borghi rivieraschi del lago di
Galilea, facendo discepoli.

Gesù 96 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

«Si è compiuto il tempo ed è giunto il regno di Dio:


trasformatevi ed abbiate fiducia nel lieto annuncio».11 E
poi: «Dai giorni di Giovanni Battista fino ad oggi il regno
di Dio ha subito violenza, ed i violenti ce lo strappano».112
Queste due frasi di Gesù mettono particolarmente in evi­
denza il contenuto della sua fede all’inizio dell’ultimo e
decisivo anno della sua esistenza.13Occorre dunque ana­
lizzarle con la massima attenzione, pezzo per pezzo:
Si è compiuto il tempo:14è alfine arrivato il momento
giusto per porre fine al tempo storico umano segnato dal­
la corruzione del peccato, e dominato perciò dalla malva­
gità, dalla m alattia e dalla morte. È arrivato il momento,
in altri termini, in cui i giusti sono chiamati a superare
la rassegnazione nei confronti di tutto quanto l’ingiusto
ordine delle relazioni umane, e ad operare per la libera­
zione del genere umano da ogni potere ingiustamente
esercitato. Il momento in cui i poveri e i sofferenti posso­
no dirsi beati, perché possono sperare in una nuova con­
dizione di dignità e di gioia, e in cui invece devono aver
paura coloro che hanno tratto consolazione dalla ricchez­
za nel tempo della miseria, e che hanno riso nel tempo
del pianto. Un tal momento ha bisogno di quanti hanno
fame e sete di giustizia, perché ora essi possono venire
saziati, purché continuino ad essere il sale della Terra, e
non diventino insipidi. Gesù si mostra cioè convinto che
l’intera vicenda umana segnata dalla corruzione del pec-

11 Marco 1, 15.
12 Matteo 11,12.
13 Matteo 4, 17.
14 jteX.f| porcai ò Kaipóg. La forma verbale jteXf|parcai è il perfetto me­
dio di nX-ripóco, che significa “riempio”, “colmo”, e quindi “porto a com­
pimento”. Il soggetto a cui è riferito è Kcupóg, il tempo, inteso però non
come durata (altrimenti sarebbe stato usato il termine xpóvog), ma
come momento adatto per qualche realizzazione.

Gesù 97 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

cato originale si sia conclusa, e che di conseguenza si sia


aperto un nuovo orizzonte storico di straordinarie oppor­
tunità.
È giunto il regno di Dio:15il ritorno sulla Terra sotto la
sovranità di Dio non deve essere atteso in un futuro lon­
tano, dopo l’apparizione di inequivocabili segni miracolo­
si, secondo la convinzione diffusa tra i dotti dell’epoca, e
non deve neppure essere ritenuto soltanto vicino, secon­
do l’annuncio di Giovanni Battista, ma si deve capire che
ha già avuto inizio. Dio, cioè, ha già preso la decisione di
ricondurre il genere umano sotto la propria sovranità,
abolendo il diritto dei popoli a disporre a loro arbitrio
delle loro sorti. Tale decisione si è manifestata al mondo
con la comparsa dell’ultimo profeta. Giovanni ha quindi
segnato, nella concezione di Gesù, una irreversibile ce­
sura di natura religiosa, morale e politica (aspetti che
non si presentano tra loro distinti nella m entalità del­
l’epoca). Dopo la sua comparsa, infatti, tu tti i poteri esi­
stenti sono stati ripudiati da Dio, e non possono soprav­
vivere se non temporaneamente, e se non immergendosi
sempre di più nel peccato. Gesù vuol cioè dire che Dio è
già di diritto sovrano effettivo della Terra, e che questo
rende superate le preesistenti tradizioni religiose.

15 %yikev *1 paaiX-EÓa xaO 0 eoù, frase che viene solitamente tradotta


“è vicino il regno di Dio”. Si tratta però di una traduzione sbagliata.
La forma verbale tìyylkev è infatti al tempo perfetto, che indica l’azio­
ne compiuta, in questo caso il compimento del processo di avvicina­
mento. Senza contare che il verbo da cui viene la forma tfy-
Yikev, significa non soltanto avvicinarsi, ma anche raggiungere. Ap­
pare dunque evidente che quel che Gresù vuol dire è non già che il
regno di Dio è vicino, bensì che ha completato il processo di avvicina­
mento, che è arrivato a raggiungere gli uomini, ed è quindi presso di
loro. Ulteriore prova di questa traduzione è un altro brano evangeli­
co, in cui Gesù dichiara in maniera esplicita ai farisei che «il regno di
Dio è già in mezzo a voi» (Luca 17, 21).

G esù 98 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

Trasformatevi:16 se il regno di Dio è già effettivo in li­


nea di principio, ma non si è ancora concretamente rea­
lizzato nei fatti, ciò significa che occorre un nuovo impe­
gno religioso per promuoverne la realizzazione. Questo
nuovo impegno consiste, per Gesù, in una totale trasfor­
mazione interiore, che muti il modo di intendere i rap­
porti con le persone e con le cose, e si traduca in un volon­
tario abbandono delle ricchezze private. Nessuno può in­
fatti servire contemporaneamente due padroni nemici tra
loro, e nessuno, quindi che serva il denaro, padrone del
mondo corrotto dal peccato, può illudersi di servire an­
che Dio e il suo regno. Soltanto con una disposizione d’ani­
mo trasformata, che induca a disfarsi di tutti i beni pri­
vatamente posseduti, e che predisponga ad una vita co­
munitaria basata sul rispetto di ogni persona, e quindi
sull’eguaglianza di tutti gli individui, i giusti possono
rendere il regno di Dio concretamente operativo sul pia­
no storico.
Abbiate fiducia nel lieto annuncio:17la trasformazione
interiore che promuove la realizzazione concreta del re­
gno di Dio esige la fiducia che il regno di Dio sia l’orizzon­
te storico della nuova epoca, secondo l’annuncio allietan­
te prima di Giovanni e poi di Gesù. Senza una tale fìdu-

16 (xetcxvoieIte, esclamazione che ricorre più volte nei testi evangeli­


ci, e che viene tradizionalmente resa con “convertitevi”. Si tratta di
una traduzione esatta, in quanto il verbo viene da voùg, che è la men­
te, lo spirito, e da [xetó, che vuol dire dopo, oltre. Senonché la parola
conversione suggerisce talora l’idea di un cambiamento di convinci­
menti intellettuali o morali, mentre il verbo greco uETavoéco allude ad
una trasformazione di tutti gli aspetti, anche emotivi ed esistenziali,
della mente. Risulta dunque generalmente più chiaro rendere il (xe-
rctvoiEiTE di Gesù con “trasformatevi”.
17 jiloteuete év Tip EÙaYYE^ùb, dove il verbo juctteucd allude ad un cre­
dere per interiore fede religiosa, e xò tva ^tkv o v è il lieto annuncio,
cioè, italianizzato, il Vangelo.

Gesù 99 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

eia, infatti, non avrebbe senso l’abbandono delle ricchez­


ze private. Come vivrebbe il giusto che si fosse disfatto di
tu tti i suoi beni, se rimanesse vigente a tempo indeter­
minato il sistema sociale in cui ciascuno può trarre le
risorse di cui ha bisogno soltanto dai beni individualmente
posseduti? Gesù incita a non preoccuparsi del cibo, come
non se ne preoccupano gli uccelli, che non ammassano
raccolti nei granai, e a non preoccuparsi del vestiario,
come non se ne preoccupano i fiori nei campi, che non
tessono i loro petali. Tutto ciò presuppone però la fiducia
di essere in un’epoca in cui Dio interviene ormai a rego­
lare le cose degli uomini, la fiducia, cioè, che il lieto an­
nuncio di Gesù corrisponda a verità.
Dai giorni di Giovanni Battista fino ad oggi:18 Gesù
sente quindi di vivere in un’epoca diversa da quella se­
gnata dalla legge mosaica e dagli annunci profetici tradi­
zionali. Giovanni Battista ha instaurato una nuova epo­
ca, o, meglio, Dio ha instaurato una nuova epoca, mani­
festandone l’inizio con la comparsa di Giovanni. Questi,
perciò, non è un profeta come lo sono stati tutti gli altri,
quelli vissuti sotto la legge del peccato originale, ma è
l’ultimo profeta, il profeta dei tempi della fine. La sua
opera non ha senso compiuto in se stessa, ma esige la
comparsa di una figura ancora più forte e autorevole del­
la sua, che ne porti a compimento le istanze. Le azioni e
le parole di Giovanni hanno insomma fissato nuove coor­
dinate religiose e storiche, nelle quali soltanto si defini­
sce l’opera di Gesù.

18 curò 6è twv rpiepcòv Icoawou xoi3 (k u m c ra n i ecog apri: dunque i gior­


ni di Giovanni Battista segnano una cesura epocale. Ciò è provato
anche, sul piano lessicale, dal fatto che nelle narrazioni evangeliche
sovente Gesù qualifica il compimento del periodo aperto da Giovanni
come ouvtéteia toù aitòvo? (ad esempio in Matteo 13, 29). Ora aicóv

Gesù 100 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Il regno di Dio ha subito violenza:19Gesù intende quindi


il regno di Dio non come un miracolo puramente sovran­
naturale rispetto al quale non si dia che attesa passiva,
ma come un decreto sovrannaturale la cui realizzazione
terrena richiede l’attivo concorso storico dei credenti. Esso
quindi sul piano terreno può subire violenza, e l’ha effet­
tivamente subita, perché altrimenti il suo ordinamento
avrebbe già vita concreta. La decretazione sovrannatu­
rale del regno di Dio è paragonata, in un parabola ripor­
tata dal Vangelo di Matteo, alla semina di un campo, ed è
distinta dalla sua realizzazione terrena come il momento
della semina è distinto da quello del raccolto. Nella para­
bola, un nemico del padrone del campo, che rappresenta
Satana, nemico della sovranità di Dio sulla Terra, semi­
na nottetempo nel campo diverse erbacce, le quali quindi
crescono poi in mezzo alle spighe di grano. Esse rappre­
sentano i violenti in balla dei quali viene a trovarsi il

ha proprio il significato di un’epoca della storia, tanto è vero che le


traduzioni latine lo rendono con sevum o sseculum.
19 ii paaaX.eta tùv oùpavwv pia^etai, La prima cosa da osservare è
che l’espressione di Matteo significa letteralmente “il regno dei cieli
subisce violenza”, e non “il regno di Dio subisce violenza”. Ciò dipende
però dal fatto che la cultura ebraica che ispira, come è noto, il Vangelo
di Matteo, interdice al suo redattore un uso troppo frequente del ter­
mine Dio. Per questo motivo la sovranità di Dio sul mondo, in quanto
sovranità che si esercita sul mondo dalla celeste residenza divina,
viene definita regno dei cieli anziché regno di Dio. Ma le due espres­
sioni sono perfettamente equivalenti, come risulta, al di là di ogni
dubbio, dal confronto dei contesti in cui Matteo parla di regno dei
cicli, e Marco, Luca e Giovanni parlano di regno di Dio. L’altra cosa
da osservare è che fhà^ETcu può significare tanto “subisce violenza”
quanto “fa violenza a proprio vantaggio”, perché in greco, come è noto,
non c’è differenza né di tema né di desinenze tra il presente passivo e
il presente medio. Dunque neppure la traduzione degli interpreti che
vogliono attribuire a Gesù una concezione violenta della realizzazio­
ne del regno di Dio è grammaticalmente sbagliata.

( Iksù 101 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

regno di Dio dopo la sua instaurazione. La parabola pro­


segue con il divieto, dato dal padrone del campo ai suoi
contadini, di strappare sùbito le erbacce, per evitare che
le stesse buone spighe ne risultino danneggiate. Dio, cioè,
dopo aver già decretato l’instaurazione del suo regno sul­
la Terra, vieta ai suoi angeli di proteggerlo dalla violen­
za, perché solo confrontandosi con tale violenza, ed emar­
ginandola, i giusti potranno rendersi degni sudditi del
regno divino.
I violenti ce lo strappano:20Dio, con la sua decretazio­
ne sovrannaturale del suo regno sulla Terra, ha reso tu t­
ti i poteri terreni fino ad allora esistenti contrari alla sua
volontà ed alla sua legge. Gli uomini malvagi, tuttavia,
lasciati liberi di agire (le erbacce non strappate della pa­
rabola), hanno mantenuto in vigore tali poteri, e i corri­
spondenti rapporti sociali, mediante la violenza. I nuovi
rapporti sociali, egualitari e pacifici, prescritti dal regno
di Dio, non sono perciò entrati in vigore, anche se il re­
gno di Dio è già stato instaurato, cosicché gli uomini giu­
sti e pacifici si sono visti strappare il regno di Dio dagli
uomini malvagi e violenti. I violenti sono in grado, con le

20 Pletora! àpjià^ouaiv aimyv, dove il pronome aùrfiv sta per xfiv


PaoiX.e!av t o C B e o t j , il regno di Dio. Coloro che interpretano la figura
di Gesù come quella di un capo zelota, traducono “i violenti lo conqui­
stano”, nel senso che il regno di Dio spetterebbe a coloro che riescono
ad instaurarlo con la violenza. Ma si tratta di un’evidente forzatura
lessicale, perché il verbo àpitct^to non ha un significato positivo, ma
negativo, del tipo di rapinare e saccheggiare. Gesù quindi non vuol
dire che i violenti sono degni del regno di Dio, ma intende significare
che i violenti strappano illegittimamente la possibilità di realizzare il
regno di Dio ai giusti e ai pacifici. Questa indubbia valenza semantica
del verbo àprcà^co rende improponibile la traduzione della prima par­
te della frase, quella che dice fi Pacacela xwv oùpavwv Piatirai, come
“il regno di Dio si fa avanti con la violenza”, che pure sarebbe gram­
maticalmente corretta (cfr. n. 19).

Gesù 102 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

loro ingiustizie e sopraffazioni, di continuare a differire


la concreta attuazione del regno di Dio, finché possono
continuare a disporre illegittimamente dei poteri terre­
ni.

L’analisi di queste due decisive frasi di Gesù rivela, in


conclusione, che la fede alla quale egli è alfine approda­
to, e che ispira l’ultimo, luminoso anno della sua vita, si
fonda sulla distinzione del compimento storico del regno
di Dio dalla sua instaurazione sul piano sovrannaturale,
e sulla certezza che la sua instaurazione sia già avvenu­
ta. Distinguendo, sia sul piano logico che su quello tem ­
porale, il momento sovrannaturale dell’instaurazione del
regno di Dio dal momento storico del suo compimento ef­
fettivo, ed inscrivendo il suo impegno religioso nell’inter­
vallo epocale tra i due momenti, Gesù si fa portatore di
un progetto di trasformazione sociale agganciato alle con­
dizioni storiche del suo tempo. Il regno di Dio, infatti,
non è affatto, entro tali coordinate, l’evento supremo de­
stinato a sorprendere gli uomini in un ignoto futuro,21

21 È ben vero che esistono anche parabole di Gesù nelle quali il re­
gno di Dio viene inteso come un evento che sopravviene inaspettato.
Poiché però sono molto più numerose le parabole che presentano l’av­
vento del regno di Dio come un processo di maturazione storica, raffi­
gurandolo come lo sviluppo di un lievito o la germinazione di un seme,
le prime devono essere considerate sotto un aspetto diverso. La loro
più logica spiegazione è che siano il risultato di una sovrapposizione,
sulle parole originarie di Gesù, dell’attesa, da parte delle prime co­
munità cristiane, della seconda venuta del Cristo, assimilata all’av­
vento del regno di Dio. Una cosa tuttavia colpisce, e cioè che tutte le
parabole che presentano il regno di Dio come un evento che soprav­
viene inatteso nell’ignoto futuro, sono collocate nelle narrazioni evan­
geliche durante la predicazione di Gesù negli ultimi suoi giorni a Ge­
rusalemme. È quindi anche possibile che Gesù, prospettandosi la sua
morte, avesse mutato, in relazione ad essa, l’ottica con cui guardare
al regno di Dio.

Gesù 103 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

come sarebbe se il suo avvento storico coincidesse con la


sua instaurazione sovrannaturale, ma è un processo col­
lettivo di maturazione storica, il cui compimento esige
l’attività storica di credenti interiormente trasformati in
modo da poter superare difficili ostacoli storici. Far pas­
sare la fede richiesta da Gesù per la pia attesa di un de­
stino ultraterreno è dunque un doppio falso storico, per­
ché per Gesù il destino finale non si compie se è sempli­
cemente atteso, ma Dio lo realizza nella misura in cui i
giusti lo costruiscono,22 e perché si tratta di un destino
che non è ultraterreno, ma terreno.22Il regno di Dio deve
compiersi non nei cieli, ma sulla Terra, come nuovo ordi­
namento sociale della Terra. Questo è il contenuto della
fede di Gesù, che, se si vuol parlare del Gesù storico e

22 Questa concezione trova espressione in un paragone famoso, quel­


lo del regno di Dio con il chicco di senape, che si trova in tutte le
narrazioni sinottiche CMatteo 13,31-32; Marco 4,30-32; Luca 13,18-
19). Il chicco di senape ha questa particolarità, dice Gesù, che è il più
piccolo di tutti i semi, ma, se è seminato in un campo adatto, e ade­
guatamente coltivato, dà la più grande delle piante da orto. Così il
regno di Dio, quando si presenta come sollecitazione esterna, ha po­
chissima concretezza, ma se i giusti ne seminano l’idea nei loro animi,
e la coltivano con le loro azioni nella società, diventa la più grande
delle realizzazioni.
23 II regno di Dio è sicuramente un regno terreno, storico, perché
tale è generalmente considerato nell’epoca di Gesù, come risulta uni­
vocamente dai Manoscritti del Mar Morto. Se Gesù avesse voluto in­
tenderlo come regno ultraterreno, avrebbe dovuto specificarlo con
molta forza nella sua predicazione, per farsi capire dai suoi contem­
poranei. Ma egli nelle narrazioni evangeliche non fa mai questa spe­
cificazione. Là dove si parla di regno dei cieli, non si intende regno nei
cieli, ma regno sulla Terra la cui sovranità viene dal cielo (cfr. n. 19).
E là dove Gesù dice «Il mio regno non è di questo mondo» (Giovanni
18,36), l’espressione usata nel testo greco, che è ék toù KÓopou toùtov,
significa che la sovranità di tale regno non proviene dall’ordine socia­
le esistente, e non significa affatto che il regno non si eserciti sulla
Terra (altrimenti l’espressione usata sarebbe stata èra. tt]v yryv).

Gesù 104 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

non del Cristo teologico, deve essere accuratamente di­


stinta dalla fede in Gesù propria delle successive epoche
cristiane.
Fu, la fede di Gesù del suo anno ultimo e luminoso,
una fede di dirompente efficacia storica. Nel contesto cul­
turale e sociale dell’ebraismo palestinese dell’epoca, in­
fatti, credere che Dio avesse già cominciato a regnare sul
piano sovrannaturale, e che occorresse sconfiggere sul
piano storico i poteri dei ricchi e dei potenti, per rendere
effettivo l’avvento del suo regno nel mondo, non era af­
fatto innocuo come il credere che Dio avrebbe voluto il
suo regno in un futuro ancora indeterminato. Significa­
va, invece, credere niente meno che tutte le forme di go­
verno terrestre fossero diventate illegittime, ed implica­
va, quindi, che quanti volessero seguire la volontà di Dio
dovessero sciogliere tutti i loro legami con i poteri sociali
esistenti, e creare tra loro, già da sùbito, una nuova co­
munità sociale solidale.
Ma donde Gesù traeva la certezza che il regno di Dio
fosse già stato instaurato sul piano sovrannaturale? La
certezza, cioè, che costituiva la vera, grande novità idea­
le deH’ultimo anno della sua vita, e la guida sicura al suo
impegno finale? I suoi nemici lo sollecitavano spesso ad
esibire una dimostrazione divina di tale certezza, ed a
giustificare in tal modo il suo operato. Così nel Vangelo
più antico, quello di Marco: «Allora si fecero avanti i fari­
sei e incominciarono a discutere con lui chiedendogli un
segno del cielo, per metterlo alla prova. Ma egli sospiran­
do disse loro: quale segno chiede questa generazione? In
verità vi dico, nessun segno sarà dato a questa genera­
zione».24 E così il primo Vangelo, cronologicamente suc­
cessivo, però, a quello di Marco, quello cioè di Matteo:

24 Marco 8,11-12.

Gesù 105 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

«Allora si fecero avanti i farisei e i sadducei, e per met­


terlo alla prova gli chiesero di m ostrar loro un segno dal
cielo. Ma egli rispondendo disse loro: quando si fa sera,
voi dite che l’indomani farà bel tempo, perché il cielo ros­
seggia, e quando viene il mattino, e vedete il cielo cupo,
dite invece che il giorno sarà burrascoso. Sapete dunque
giudicare l’aspetto del cielo, e non siete in grado di giudi­
care i segni dei momenti propizi? Una generazione mal­
vagia e infedele cerca un segno, ma un segno non le sarà
dato, se non quello di Giona».25
Per Gesù, dunque, coloro che per credere all’instaura­
zione sovrannaturale del regno di Dio avrebbero bisogno
di una spettacolare girandola di miracoli sul piano natu­
rale, manifestano soltanto una pretesa arbitraria atta a
coprire la loro voluta cecità storica e umana. L’avvenuta
instaurazione del regno di Dio è per Gesù bensì un’evi­
denza, non però degli occhi, ma dell’anima. Essa è cioè
affidata a segni della storia che esigono un’interpretazio­
ne escatologica, peraltro più sicura di ogni interpretazio­
ne meteorologica dei segni visibili del cielo, alla quale
pure tu tti quanti normalmente si affidano. Quali sono
tali segni? La cultura escatologica ebraica dell’epoca, che
conosciamo attraverso i Manoscritti del Mar Morto, rite­
neva che quando gli esseri umani avessero portato a una
rovina per loro irrimediabile il loro mondo, per effetto dei
loro peccati, Dio avrebbe tolto loro il potere di governare

25 Matteo 1 6 ,1 -4 .1 v.v. 2 e 3, quelli cioè sul cielo rosseggiante la sera


e cupo al mattino, che ci appaiono così evocativi, sono tuttavia assenti
nei codici più antichi, cosicché molti studiosi, anche cattolici, li riten­
gono un’interpolazione. Pare però, dal confronto con Luca 12, 54-56,
che essi possano egualmente risalire ad una fonte originaria sulla
predicazione di Gesù. In ogni caso, il concetto che esprimono si colloca
nel contesto delle maniere in cui Gesù concepiva il fondamento del
regno di Dio.

Gesù 106 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

il loro destino, instaurando il suo regno. Un livello di pec­


caminosità sociale tale da stravolgere ogni minimo ordi­
ne di giustizia era dunque di per se stesso segno dell’im-
minenza del regno di Dio. Se, in una tale cornice di de­
grado morale, fosse comparso un messaggero del regno
di Dio, allora questo segno ulteriore avrebbe manifestato
che Dio aveva instaurato il suo regno.
Ma tutti questi segni si erano ormai accumulati nel­
l’epoca di Gesù. Israele era a tal punto precipitato nel
peccato da ubbidire ormai direttamente alle autorità pa­
gane di Roma, da avere un Tempio totalmente corrotto,
da tollerare che i suoi figli cadessero o nel più sfrenato
egoismo o nella più degradante miseria; dentro questo
mondo peccaminoso era tuttavia comparso il più puro dei
messaggeri di Dio, Giovanni Battista; c’era infine Gesù
stesso che avvertiva in se stesso il dono spirituale divino
necessario per impegnare tu tta la sua persona nella rea­
lizzazione del regno di Dio.
Si trattava, agli occhi di Gesù, di segni evidenti del-
l’aw enuta instaurazione del regno di Dio. Coloro che non
ne coglievano il senso erano colpevolmente ciechi, per cui
Dio non avrebbe dato loro alcun segno ulteriore, se non
quello di Giona, il segno, cioè, costituito dallo spengersi
della voce di Dio, con la morte di Giovanni Battista, e dal
ritorno immediato alla parola di quella voce, attraverso
Gesù.26Chi non avesse inteso neppure il segno di Giona,
26 Non è questa l’interpretazione del segno di Giona data dalla nar­
razione matteana, per la quale (cfr. Matteo 12, 39-40) tale segno rin­
vierebbe alla morte e alla risurrezione di Gesù. Un simile rinvio è
però scopertamente una interpretazione ex-post delle parabole di Gesù,
che hanno di certo acquistato nuovi riferimenti con il passare del tempo
(cfr. infatti Luca 11, 30-32). Originariamente segno di Giona signifi­
cava nessun segno (cfr. il Vangelo più antico, Marco 8,11-12). E nes­
sun segno significava verosimilmente che solo Giovanni e Gesù erano
segni.

Gesù 107 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

sarebbe stato inflessibilmente punito da Dio con l’esclu­


sione dal suo regno, al momento in cui l’instaurazione di
questo regno fosse stata portata al suo compimento sto­
rico. La parabola delle erbacce lo dice chiaramente: dopo
la semina del buon grano (cioè dopo l’instaurazione del
regno di Dio), nel campo rimarranno sia il buon grano
che le erbacce (cioè nella società saranno compresenti sia
i giusti che i malvagi ed i violenti), ma al momento della
m ietitura (cioè al compimento storico del regno di Dio),
le erbacce saranno separate dalle spighe di grano e date
alle fiamme (cioè malvagi e violenti saranno esclusi dal­
la società governata da Dio e condannati a morte eter­
na).27
Traendo la certezza che il regno di Dio fosse già stato
instaurato sul piano sovrannaturale, e dovesse essere
portato a compimento storico sul piano terreno, da ben
determinati segni storici, Gesù esprimeva la necessità
storica, per quell’epoca e per la terra in cui viveva, di una
rivoluzione sociale. La esprimeva, naturalmente, nella
forma religiosa entro cui soltanto era possibile concepi­
re, allora, mutamenti di relazioni fra gli esseri umani.
Ma la esprimeva nelle sue radici concrete, e niente affat­
to da fanatico sognatore. Ogni ebreo della Giudea e della
Galilea era tradizionalmente educato a pensare che non
vi fosse legittima sudditanza se non ai poteri connessi in
qualche modo al Dio di Israele, ed ora il popolo della Giu­
dea era suddito dei Romani, e quello della Galilea di un
tetrarca sottomesso a sua volta a Roma, e comunque non
ebreo.
Il Tempio di Gerusalemme era stato, nelle tradizioni
sociali e culturali di Israele, il centro organizzativo di una
economia pianificata senza appropriazione privata delle

27 Matteo 13, 30.

G esù 108 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

ricchezze, e con limitate diseguaglianze sociali, ed era


ora un centro di potere mercantile, fonte di crescenti di­
seguaglianze sociali, e di enormi privilegi economici per
una ristretta aristocrazia sacerdotale. Il popolo di Israe­
le aveva sempre tratto la sua identità sociale dalla Legge
di Mosé, ed era ora esposto a fattori disgregativi di origi­
ne pagana, dall’istituzione della schiavitù all’economia
monetaria, dall’usura al latifondismo.
La certezza di Gesù che il regno di Dio fosse già stato
instaurato faceva leva su queste profonde e laceranti con­
traddizioni sociali e culturali, e vi introduceva una fede
capace di mobilitare grandi energie collettive. Il regno di
Dio che Gesù prometteva non era quindi l’utopia di un
sognatore, perché erano storicamente dati sia i termini
religiosi per concepirlo, sia i materiali sociali e culturali
per far divampare la volontà di realizzarlo. «Sono venuto
per scagliare un fuoco sulla Terra»,28disse una volta Gesù,
e aggiunse: «Vi sembra che io sia venuto a portare la pace
in terra? No, vi dico, ma la divisione».29Aveva dunque la
consapevolezza di essere promotore di una rivoluzione
sociale, perché tale era ciò che egli pensava come il com­
pimento terreno del regno di Dio, tale il contenuto del
suo ideale religioso.
La forza storica dell’ideale di Gesù stava anche nel
fatto che esso era recepibile da quasi tutte le componenti
sociali e religiose della società ebraica dell’epoca. Si ha
infatti l’impressione che i seguaci di Gesù, anche se co­
stituivano una minoranza (se si fosse trattato di un vero
fenomeno di massa, come la successiva rivolta antiroma­
na del 66-70 d. C., avrebbe certamente avuto maggiore
eco nelle fonti antiche), erano tuttavia di provenienza

28 Luca 12,49.
29 Luca 12, 51.

Gesù 109 U omo nella stoma


M assimo B ontempelli

tanto essenica che zelotica, tanto popolana che levitica, e


persino farisaica. In pratica, tutti coloro nella cui cultura
era presente l’ideale del regno di Dio, erano spinti a di­
ventare seguaci di Gesù, nella misura in cui prendevano
sul serio quell’ideale, ed erano disposti a mettersi in giuoco
personalmente per renderlo storicamente attuale.
Tra i primi seguaci di Gesù ci furono Simone, che di­
venterà, con il nuovo nome di Pietro, il primo degli apo­
stoli, e suo fratello Andrea. Le narrazioni sinottiche del
modo in cui essi divennero seguaci di Gesù sono sorpren­
denti. Gesù, camminando un giorno lungo le rive del lago
di Galilea, vide Simone e Andrea che gettavano le reti in
acqua, perché erano pescatori di mestiere. Disse loro di
smettere di pescare e di seguirlo, perché egli li avrebbe
trasformati in pescatori di uomini. Ed essi, abbandonate
subito le reti, lo seguirono.30 Un simile episodio appare,
ad ogni lettura un po’ attenta e riflessiva, del tutto incre­
dibile. Non è infatti sensato pensare che due uomini, i
quali traevano dalla loro attività di pescatori il necessa­
rio per vivere, cessassero all’istante di praticarla,31 per
seguire uno sconosciuto che si era limitato a dir loro di
volerli fare pescatori di uomini. L’episodio diventa invece
credibile se si ammette che Simone e suo fratello Andrea
conoscessero benissimo Gesù, per essere già stati, alcuni
anni prima, suoi seguaci. Riceve così conferma una delle
tesi di fondo di questo saggio, che cioè l’impegno religioso
di Gesù si sia protratto per anni, attraverso un itinerario

30 Matteo 4, 18-20; Marco 1, 16-18.


31 eùOù? àcpévtE; t à Sù<xua, cioè “sùbito abbandonando le reti” nel
testo di Matteo e di Marco. Questa istantaneità apparve tanto poco
credibile al redattore del Vangelo di Luca, che immaginò Gesù avesse
fatto un miracolo per indurre Simone ad abbandonare tutto e a se­
guirlo (cfr. Luca 5, 1-11, brano che può essere preso ad esempio del­
l’origine redazionale di tutta una serie di cosiddetti miracoli di Gesù).

Gesù 110 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

personale fatto anche di svolte e ripensamenti. Dalle nar­


razioni sinottiche si trae l’impressione che Gesù, fattosi
battezzare da Giovanni, abbia trascorso quaranta giorni
nel deserto a subire le tentazioni di Satana, e, subito dopo,
ricevuta notizia dell’arresto del Battista, si sia trasferito
a Cafarnao, ed abbia iniziato là la sua predicazione.
Questa sequenza è in realtà un’illusione ottica dovuta
alla condensazione della cronologia e degli eventi opera­
ta dai Vangeli, in una maniera che, come abbiamo visto,
è piuttosto usuale nelle fonti antiche. Gesù, dopo il suo
battesimo, cominciò a predicare prima tra i discepoli di
Giovanni, e poi, per anni, in maniera autonoma, e con
qualche tentazione di rispondere, da Messia, almeno ad
alcune delle aspettative zelotiche.
Fu in questa fase iniziale della sua predicazione che si
misero al suo seguito alcuni uomini di provenienza zelo-
tica, che saranno in seguito tra i suoi apostoli: Taddeo,
soprannome, significante “coraggioso”, di un Giuda defi­
nito nei più antichi manoscritti evangelici lo zelota; Si-
mone detto lo zelota; Giacomo e Giovanni, figli di Zebe-
deo, il cui appellativo partigiano era “figli del tuono”; e
infine lo stesso Simone poi detto Pietro, a cui Gesù si
rivolge, in un passo del Vangelo di Matteo, chiamandolo
Simone il combattente. Quest’ultimo compare nel Van­
gelo di Giovanni tra gli originari seguaci di Giovanni
Battista, ed è in quell’ambiente che suo fratello Andrea
gli fa conoscere Gesù, da lui riconosciuto come Messia.32
Gesù verosimilmente perse questi seguaci, che torna­
rono ai loro usuali lavori civili, quando ridimensionò le
sue ambizioni a quelle di un secondo battezzatore dopo
Giovanni. Ma, dopo l’arresto di Giovanni, rilanciò la sua
predicazione, andando a sostenere che Dio aveva già in­

32 Giovanni 1, 38-42.

Gesù 111 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

staurato il suo regno. Fu in quest’occasione che ritrovò


Simone e suo fratello Andrea, come anche Giacomo e suo
fratello Giovanni, e li rese nuovamente suoi seguaci.
Quello che, insomma, appare nelle narrazioni sinotti­
che come l’inizio della predicazione di Gesù, e il suo pri­
mo incontro con Simone sulle rive del lago di Galilea, è,
in realtà, l’inizio dell’ultima e più definita fase del suo
impegno religioso, dopo anni di varie vicissitudini e di
forme diverse di predicazione, e 1’incontro con una sua
vecchia conoscenza. Solo così si spiega come Simone e
Andrea, e poi anche Giacomo e Giovanni, abbandonasse­
ro “all’istante” ogni altra attività, e si mettessero al se­
guito di Gesù, esclusivamente per poche parole che ven­
nero loro rivolte.
La certezza, diffusa da Gesù nell’ultima fase della sua
predicazione in Galilea, che il regno di Dio fosse già in­
staurato, mobilitò insomma diversi suoi vecchi seguaci, e
gliene procurò di nuovi, attorno a un progetto di vera e
propria rivoluzione sociale.
Ma come facciamo a sapere che di questo si trattava?
E quale era il contenuto concreto della rivoluzione socia­
le promossa da Gesù? Le narrazioni evangeliche ci han­
no tram andato il ricordo di un discorso tenuto da Gesù
riguardo alla sua missione nella città natale di Nazareth.
Egli era entrato un sabato nella sinagoga, e gli era
stato consentito di leggere e commentare un brano bibli­
co, cosa niente affatto inconsueta, perché le riunioni del
sabato erano quelle in cui anche coloro che non avevano
incarichi religiosi potevano liberamente promuovere una
discussione sulla parola di Dio.
Gesù si fece consegnare dall’inserviente della sinago­
ga il rotolo biblico del profeta Isaia, e, apertolo, vi trovò a
colpo sicuro il seguente brano profetico:

G esù 112 U omo nella stoeia


M assimo B ontempelli

«Lo Spirito del Signore è sopra di me,


e proprio per questo Dio mi ha unto,
inviandomi a portare il lieto annuncio ai poveri,
a proclamare la libertà dei prigionieri
e la restituzione della vista ai ciechi,
a promuovere la liberazione degli oppressi,
instaurando l’anno di grazia del Signore».33

Si tra tta di un brano profetico che preannuncia, da


parte di un uomo unto da Dio, cioè delegato a dare esecu­
zione alla volontà divina,' l’avvento in via straordinaria
di un cosiddetto anno di grazia del Signore.34 Per capire
di cosa si tratti, occorre tener presente che, nella più an­
tica storia del regno ebraico, l’organizzazione teocratica
dell’economia e della società, gestita dal Tempio di Geru­
salemme, aveva reso impossibile l’emergere della piena
proprietà privata di terre e di esseri umani. Nessuno,
infatti, poteva intendere il possesso terriero assegnatogli
dal Tempio come un assoluto diritto di proprietà, in quanto
tutta la terra coltivabile era, secondo la concezione giuri­
dica antico-orientale, proprietà del Dio protettore del
paese, di cui il Tempio curava l’amministrazione, in nome
e per conto del Dio. Nessuno, inoltre, poteva ridurre altri
uomini a meri oggetti di sua proprietà, in quanto ogni
membro della comunità soggetta al Tempio godeva di ina­
lienabili diritti personali. Questo modo di intendere l’or­
dinamento sociale trovava la sua massima espressione
nel cosiddetto anno giubilare, che veniva dopo sette anni
sabbatici, cioè ogni cinquanta anni, e che esigeva il ritor­

33 Luca 4,18-19 e Isaia 61,1-2.


34 Evictutòv Kupiou Sektóv, vale a dire letteralmente, anno del Si­
gnore gradito, cioè gradito al Signore (Dio), in quanto anno destinato
a ricondurre il popolo all’ordinamento sociale teocratico delle sue ori­
gini.

Gesù 113 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

no di terre, case e uomini alla condizione giuridica origi­


nariamente loro assegnata dal Tempio.35 La vendita di
un immobile, quindi, non aveva il significato di un pieno
trasferimento di proprietà, ma consisteva, in pratica, nella
cessione in uso della casa o del campo per il numero di
anni che restavano fino al giubileo, con il quale l’asse­
gnatario originario ne sarebbe tornato automaticamente
in possesso. Ugualmente, qualunque debitore insolvente
diventato servo del creditore, non era uno schiavo nel­
l’accezione greca e romana del termine, perché era desti­
nato a tornare in ogni caso in libertà, anche senza aver
ancora estinto il suo debito con il lavoro, con l’arrivo del­
l’anno giubilare.
Il giubileo tornava dunque periodicamente a sancire
che le terre e le persone di Israele appartenevano solo a
Dio, e che Dio aveva il potere di liberarle da ogni ingiusta
soggezione. Per questo l’anno giubilare era chiamato an­
che anno di grazia del Signore. Esso era tuttavia caduto
in disuso, man mano che l’economia del regno ebraico
aveva acquistato articolazioni più complesse, lasciando
spazio all’accumulazione privata di ricchezza e alla schia­
vitù per debiti. Allora alcuni profeti, per primo e soprat­
tutto Isaia, avevano invocato il ritorno straordinario di

35 L’anno giubilare era l’anno in cui cadeva il giubileo. La parola giu­


bileo viene dal termine ebraico yovèl, che significa corno di montone.
L’anno giubilare veniva infatti annunciato da un araldo che girava
per tutte le contrade di Israele suonando un corno di montone. Il suo­
no del corno di montone segnava il momento del riacquisto della li­
bertà dei debitori asserviti, e il ritorno delle terre agli assegnatari che
le avevano perdute. Tutto questo accadeva in epoche antichissime,
perché in età storica l’istituzione giubilare era caduta in disuso. Essa
si trova già descritta nel Levitico, uno dei più antichi libri della Bib­
bia. Originariamente la ricorrenza del giubileo, che era anche una
festa di liberazione, veniva calcolata computando gli anni di cinquan­
ta in cinquanta a partire dalla liberazione di Israele dall’Egitto.

Gesù 114 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

un anno di grazia del Signore come unico rimedio alla


crescente diseguaglianza sociale, a beneficio di una mas­
sa sempre più numerosa di poveri.
Gesù, letto il brano sopra riportato, in cui il profeta
Isaia assegna ad un uomo inviato e protetto da Dio il com­
pito di provvedere ad una proclamazione straordinaria
dell’anno di grazia del Signore, e riconsegnato il rotolo
all’inserviente, dichiara pubblicamente di essere lui l’uo­
mo predetto dal profeta.36
Ciò rivela il contenuto della rivoluzione sociale avvia­
ta dalla sua predicazione religiosa. Gesù non intende più,
ormai, come all’inizio del suo impegno religioso, distrug­
gere l’organizzazione templare, ed anzi fonda il suo idea­
le sulle leggi più antiche del Tempio di Gerusalemme. Il
suo ideale comporta però ancora lo smantellamento di
tutti i privilegi dell’aristocrazia sacerdotale, da ottener­
si, ora, attraverso un anno giubilare straordinario, tale
da segnare la fine di ogni appropriazione della ricchezza
sociale in forma privata.
Di fronte a questa dichiarazione di Gesù, due sole era­
no le reazioni possibili di coloro che la ascoltarono nella
sinagoga di Nazareth: o dare attuazione all’anno di gra­
zia del Signore, rinunciando ai loro diritti sulle loro ric­
chezze, per piccole che fossero, privatamente accumula­
te, o anteporre a tutto la conservazione dei loro patrimo­
ni, negando che le richieste di Gesù fossero ispirate da
Dio. Quest’ultima fu la scelta dei possidenti di Nazareth.
Ma un uomo che invocava in nome di Dio un radicale
mutamento sociale senza aver avuto un’investitura divi­
na, era, secondo la legge ebraica, un bestemmiatore che
doveva essere lapidato o precipitato in un burrone. Gli
abitanti di Nazareth convenuti alla sinagoga, che erano

36 Luca 4, 21.

Gesù 115 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

certamente modesti benestanti egoisticamente interes­


sati alla conservazione dei loro beni, cercarono quindi di
uccidere Gesù, non soltanto perché incolleriti dalla sua
pretesa di farli rinunciare a ricchezze e poteri, ma anche
perché non potevano negare validità a tale pretesa, fon­
data su basi scritturali, se non considerandolo reo di
morte, per essersi falsamente proclamato inviato di Dio.37
Nonostante lo scacco di Nazareth, Gesù continuò a
predicare, lungo le rive del lago di Galilea, che il regno di
Dio era stato instaurato, e che ognuno era chiamato a
porsi sotto la sovranità di Dio, abbandonando i propri
beni, la propria casa, il proprio mestiere, e a dedicarsi
esclusivamente alla diffusione del lieto annuncio di Gesù,
affidando la propria sopravvivenza quotidiana a ciò che
gli sarebbe giorno per giorno capitato di trovare.
La critica laicista, quando arriva a cogliere questo
punto centrale della fede di Gesù, ne rileva sprezzante­
mente la pretesa assurdità: come è possibile fondare un
ordine sociale, o anche soltanto una morale individuale,
sull’abbandono dei beni e sull’accattonaggio itinerante?
L’abbandono totale dei beni è in realtà predicato da
Gesù non già come regola sociale del futuro regno di Dio,
e come definitiva norma etica, ma come atto di fede nella
sovranità divina, e come morale preparatoria al suo com­
pimento storico del mondo. Ciò che Gesù voleva, era spin­
gere tu tti all’abbandono delle proprietà private come ri­
conoscimento di Dio quale loro unico proprietario, e come
condizione per una distribuzione dei beni in nome di Dio
e secondo i giusti bisogni di tutti. Ciascuno era quindi
chiamato alla rinuncia ai propri beni non per vivere per
sempre di accattonaggio, ma per mettere in moto la va­
langa che avrebbe dovuto travolgere, con la pacifica for­

37 Luca 4,28-30.

Gesù 116 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

za della conversione collettiva, tutti i poteri economici e


politici contrari alla volontà divina, ponendo fine all’ap­
propriazione della ricchezza in forma privata.
Questo progetto non può essere antistoricamente giu­
dicato secondo criteri moderni. Se è vero, infatti, che nel
mondo di oggi mancherebbe di ogni base concreta, nel
mondo in cui viveva Gesù poteva contare sulla sua forte
credibilità religiosa e su radicate tradizioni di organizza­
zione collettivistica della società.
Un altro aspetto essenziale della strada di liberazione
identificata da Gesù dopo l’arresto di Giovanni Battista
era l’assoluta centralità religiosa della sua figura, tale
che ogni trasformazione richiesta ai suoi seguaci si basa­
va su una richiesta di fede in lui come inviato di Dio. Si
trattava niente affatto di un narcisismo della sua perso­
nalità, ma di un radicamento profondo nella cultura reli­
giosa del suo ambiente, che, al di fuori della Legge mo-
saica, non riconosceva la parola di Dio se non in una voce
umana ispirata da Dio, né accettava di seguire la volontà
divina se non seguendo un uomo che ne fosse ritenuto
interprete.
Gesù, perciò, nel porsi in un rapporto individuale con
Dio, e nel chiedere che la volontà divina fosse realizzata
seguendo e amando la sua persona, non faceva che utiliz­
zare al meglio le risorse della cultura religiosa del suo
ambiente, al fine di mettere in movimento un processo di
rivoluzione sociale, ovvero non faceva che mettere in giuo­
co se stesso come unico catalizzatore possibile della ger­
minazione storica del regno di Dio. A Tommaso che gli
chiedeva di fargli conoscere la via da percorrere, Gesù
rispose: «Io sono la via, la verità, e la vita. Nessuno arri­
va a Dio se non per mezzo mio».38
118 Giovanni 14, 6, da leggere in collegamento con 8,32 «Conoscerete
In verità, e la verità vi farà liberi».

Osso 117 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

Un’altra volta paragonò Dio, lui e i suoi connazionali


rispettivamente al vignaiuolo, alla vite e ai tralci: «Io sono
la vite, e voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta
molto frutto, ma chi non rimane in me si dissecca come il
tralcio separato dalla vite, che il vignaiuolo getta nel fuo­
co».00 Gesù disse ancora: «Io sono la luce del mondo. Chi
segue me non camminerà nelle tenebre».3940E spiegò: «Chi
fa cose di cattiva qualità e poco valore odia la luce e non
si muove verso la luce, affinché non siano svelate le sue
opere».41
Queste frasi, tratte dal Vangelo di Giovanni, certamen­
te risentono della riflessione cristologica successiva a
Gesù, ma sono egualmente anche espressione del ruolo
che Gesù si attribuì durante l’ultima fase della sua pre­
dicazione. Il loro spirito si ritrova infatti negli episodi
iniziali della sua missione narrati dal Vangelo più anti­
co, quello di Marco. Quando ad esempio Gesù guarì, nel­
la sua casa a Cafarnao, il paralitico calatogli attraverso
il tetto, gli disse anche: «Figlio, i tuoi peccati ti sono per­
donati». Al che alcuni ribatterono: «Perché costui parla
così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati se non Dio
solo?».42
Successivamente i discepoli di Giovanni Battista, a cui
il loro maestro aveva insegnato a purificarsi con le peni­
tenze, andarono a chiedere ai discepoli di Gesù perché
essi non digiunavano mai, e Gesù rispose loro: «Forse gli
invitati alle nozze, possono digiunare quando lo sposo è

39 Giovanni 15, 5-6.


40 Giovanni 8,12. tpwg, la luce, è una parola chiave in tutto il Vangelo
di Giovanni, dove è costantemente intesa come emanazione divina,
probabilmente più per la cultura platonizzante del redattore che per
una tradizione effettivamente risalente al Gesù storico.
41 Giovanni 3, 20.
42 Marco 2, 5-7.

Gesù 118 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

con loro? Finche hanno lo sposo con loro, non possono


digiunare».4^Poi «Avvenne che Gesù si trovò a passare il
giorno di sabato tra i campi di grano, e i suoi discepoli,
strada facendo, cominciarono a raccogliere spighe. I fari­
sei gli dissero: perché fanno di sabato quello che è proibi­
to fare di sabato? [...] Gesù disse loro: il sabato è fatto per
l’uomo, e non l’uomo per il sabato, perciò il Figlio dell’uo-
mo è padrone anche del sabato».44
La strada scelta da Gesù era dunque quella di cataliz­
zare tutte le speranze messianiche sulla sua figura.

43 Marco 2,19.
44 Marco 2,23-28.

Gesù 119
U omo nella storia
6. Gesù n ell’orizzonte d i Gerusalemme

Tutte le narrazioni evangeliche presentano ad un cer­


to punto una svolta nella predicazione di Gesù, che divi­
de ciascun Vangelo in due blocchi distinti. Infatti, a par­
tire dal capitolo 16 (dei ventotto) di Matteo, dal capitolo 8
(dei sedici) di Marco, dal capitolo 9 (dei ventiquattro) di
Luca, e dal capitolo 11 (dei ventuno) di Giovanni, Gesù
mostra un nuovo orientamento, per il quale l’avvento del
regno di Dio è fatto dipendere non dalla conversione di
Israele, ma dal suo sacrificio personale; la ricerca di se­
guaci mira non più a trasformare intere comunità, ma a
formare un gruppo selezionato di discepoli; e l’orizzonte
del suo impegno religioso è costituito non più dalle citta­
dine sulle rive del lago di Galilea, ma da Gerusalemme.
Il secondo blocco di ciascun Vangelo inizia infatti con la
prospettiva del viaggio finale di Gesù, e della ristretta
cerchia dei suoi discepoli selezionati, verso il compimen­
to del suo destino a Gerusalemme.
Nelle narrazioni sinottiche c’è un episodio che fa da
cerniera tra i due blocchi dei Vangeli, il blocco cioè am­
bientato in Galilea, e quello il cui scenario è costituito da
Gerusalemme.
Tale episodio è il famoso riconoscimento di Gesù come
Messia da parte di Pietro. Leggiamolo nel testo di Mat­
teo:
«Giunto Gesù dalle parti di Cesarea di Filip­
po, interrogò i suoi discepoli dicendo: chi ritengo­
no gli uomini che sia il figlio dell’uomo? [vale a
dire lui stesso]. Quelli risposero: alcuni Giovanni
Battista, altri Elia, altri ancora Geremia o uno
dei profeti. Ed egli a loro: ma voi chi dite che io
sia? Rispose Simon Pietro: tu sei il Cristo, il fi­
glio del Dio vivente. E rispose a sua volta Gesù:

G esù 120 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

beato te, Simone il combattente, perché quel che


hai detto ti è stato rivelato non dalla carne e dal
sangue, ma dal Padre mio che sta nei cieli».1

Questo brano ci informa in primo luogo sul fatto che


Gesù era allora considerato, dall’opinione pubblica, sem­
plicemente un profeta. Ci dice poi che Simon Pietro qua­
lificò invece il suo maestro come il Messia liberatore di
Israele, benché egli non si fosse mai definito tale nell’ul­
tima fase, e la sola che rientra nelle narrazioni sinotti­
che, della sua predicazione. Evidentemente Simon Pie­
tro, l’agguerrito pescatore non del tutto estraneo agli ide­
ali del messianismo zelotico, era rimasto emotivamente
radicato nel ricordo della sua militanza al seguito di Gesù
di diversi anni prima, quando Gesù era apparso, in certi
ambienti, come il Messia. Poi Gesù aveva respinto come
tentazione satanica un suo esplicito consenso a questo
ruolo, e aveva sempre ingiunto a chiunque lo invocasse
come figlio di David di non diffondere assolutamente que­
sta voce.
1 Matteo 16,13-17. La Cesarea di cui qui si parla è la capitale della
Gaulanitide, regione siriaca a nordest della Galilea e del suo lago.
Filippo, tetrarca di Gaulanitide, Iturea, Traconitide e Batanea, che
fece costruire tale città, la volle chiamare, in onore dei Cesari romani,
Cesarea. Essa fu subito detta Cesarea di Filippo, per distinguerla
dall’altra e più importante Cesarea, quella in Samaria, denominata
Cesarea Marittima.
L’espressione “Simone il combattente” può destare stupore, per­
ché il lettore della Bibbia se la trova sempre tradotta con “Simone
figlio di Giona”. In realtà Sipcov pàp Iwva potrebbe significare “Simo­
ne figlio di Giona”, sia pure con la stranezza dell’uso della parola ara-
maica pàp al posto di quella greca mós per dire “figlio”. Senonché, nel
testo greco di Matteo non c’è scritto Eipwv pàp larva, ma c’è scritto
Hipcov pàpiravà, che non può certo voler dire “Simone figlio di Giona”,
ma richiama in tutta evidenza l’aramaico barjonà, che significa “com­
battente”.

Gesù 121 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Ora, invece, pur ordinando ai discepoli di non andare


a dire alla gente che egli era il Messia,2 dichiara esplici­
tamente di esserlo, ed elogia particolarmente Simone per
averlo riconosciuto tale.
Ci sono studiosi che, facendo leva sulla genericità e
sulla ambiguità della figura messianica, nonché su vari
rifiuti di Gesù di identificarvisi, ritengono che il ruolo
del Cristo-Messia sia stato costruito dopo la morte di
Gesù, allo scopo di conferirle un senso teologico, e che le
parole rivolte da Gesù a Simon Pietro nella regione di
Cesarea di Filippo siano una creazione teologica della
chiesa primitiva, interessata a definire una certa premi­
nenza di Pietro nella comunità cristiana.
Altri studiosi sostengono invece che Gesù abbia consi­
derato se stesso a tutti gli effetti il Messia liberatore di
Israele, e che proprio per questo abbia mirato alla lotta
arm ata contro la dominazione romana. Secondo costoro
il Cristo pacifico ed inerme delle narrazioni evangeliche
sarebbe una contraffazione dei redattori dei Vangeli, per
rendere accettabile la nuova religione negli ambienti gre­
co-romani.
Di fronte a tesi di questo genere, non possiamo fare
altro che richiamarci all’impostazione generale con cui
abbiamo condotto la nostra ricostruzione del Gesù stori­
co, quella cioè di regolarci con i Vangeli esattamente come
ci regoleremmo con qualsiasi altra fonte antica. Secondo
questo criterio, è lecito, ed anzi doveroso, un vaglio criti­
co delle informazioni fornite dalla fonte, ma è arbitrario
e poco sensato trarre dalla fonte una storia totalmente
altra da quella ad essa trasmessa.
È storiograficamente ingenuo, infatti, pensare che una
fonte inventi di sana pianta il suo racconto. Essa riflette

2 Per questo ordine, v. Matteo 16, 20 e Marco 8, 30.

Gesù 122 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

sempre una tradizione, nella quale si è sedimentata, pur


con tutte le possibili amplificazioni leggendarie prodotte
dal passare del tempo, una storia reale.
La tradizione riflessa dai Vangeli, riguardo al titolo
messianico, è che per un certo tempo Gesù non volle pub­
blicamente accettarlo, lo assunse però esplicitamente
quando decise di andare a compiere la sua missione a
Gerusalemme, e lo intese in maniera sostanzialmente
pacifica.
Il ragionamento rivela che questa tradizione ha solide
basi. Se infatti il ruolo messianico fosse stato creato per
Gesù dopo la sua morte, perché mai lo si sarebbe fatto
effettivamente giuocare soltanto nell’ultima fase della
missione di Gesù? E se Gesù avesse predisposto una lot­
ta arm ata, e fosse stato alla fine condannato per questo
motivo, perché mai l’autorità imperiale avrebbe m anda­
to a morte soltanto lui, senza arrestare alcuno dei suoi
collaboratori? Il vaglio critico delle informazioni fomite
al riguardo dai Vangeli deve dunque essere fatto m etten­
dole alla prova nelle loro conseguenze, e non già inven­
tando un’altra storia che nei Vangeli non c’è. Dobbiamo
cioè chiederci come si possa spiegare un cambiamento
netto di Gesù rispetto al suo ruolo messianico, e come vi
si connetta la sua successiva condanna a morte.
Il testo di Matteo, dopo aver narrato il riconoscimento
di Gesù come Messia da parte di Pietro, così prosegue il
suo racconto:
«Da allora Gesù cominciò a mostrare ai suoi
discepoli che doveva andarsene a Gerusalemme
a soffrire molti patimenti da parte degli anziani,
dei sommi sacerdoti e degli scribi, a morire ucci­
so, e a venire risuscitato il terzo giorno. Ma Pie­
tro, trattolo in disparte, cominciò a biasimarlo e
a dirgli: fortuna a te, Signore; questo non ti acca­

G esù 123 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

drà. Ma egli, voltatosi, disse a Pietro: vattene lon­


tano da me, Satana! Tu mi sei di scandalo, per­
ché pensi non la realtà di Dio, ma quella degli
uomini!».3
C’è dunque un collegamento, di cui lo storico deve pren­
dere atto, tra l’aperta conferma data da Gesù di essere il
Messia di Israele, e la sua scelta di un destino di soffe­
renza e di morte a Gerusalemme. Non inganni l’accenno
alla risurrezione, che è chiaramente redazionale. Se in­
fatti Gesù l’avesse davvero prospettata come soluzione,
a portata di mano nel giro di tre giorni, delle sue soffe­
renze e della sua morte, Pietro non lo avrebbe certamen­
te biasimato, come invece fa, perché si era augurato sfor­
tuna.
Quale base storica può avere la stretta connessione
tra il farsi riconoscere di Gesù come Messia e il suo desti­
no di dolore e di morte?
Una lettura attenta delle narrazioni evangeliche la
rivela abbastanza chiaramente, e ne mostra la plausibi­
lità. Dopo l’entusiastico annuncio inaugurale del regno
di Dio, il raduno dei primi gruppi di seguaci, e l’itinerario
di predicazione lungo le rive del lago di Galilea, Gesù,
passato appena qualche mese, è costretto da un lato a
rendersi conto del sostanziale fallimento del suo tentati­
vo di convertire in massa le comunità di Israele, e dall’al­
tro a confrontarsi realisticamente con le minacce di mor­
te da parte del tetrarca della Galilea.
Si noti l’amarezza delle seguenti considerazioni di
Gesù:

3 Matteo 16, 21-23. Gli anziani sono i capi dei più ricchi clan paren­
tali, ammessi di diritto al Sinedrio anche se privi del rango sacerdota­
le.

G esù 124 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

«Ma a chi paragonerò io questa generazione?


Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze
a cui i compagni si rivolgono dicendo: vi abbiamo
suonato il flauto e non avete ballato, vi abbiamo
intonato un canto funebre e non avete pianto. È
venuto Giovanni, digiunatore e astemio, e hanno
detto che ha un demonio. È venuto il figlio del­
l’uomo [Gesù] che mangia e beve, e hanno detto:
ecco un mangione e un beone, amico dei peccato­
ri».4

Un brano come questo testimonia come Gesù stesse


registrando una drammatica sconfìtta della sua predica­
zione religiosa. Egli aveva bensì schiere di seguaci entu­
siasti, che rappresentavano però nel loro insieme una ri­
dotta minoranza della popolazione ebraica. Lo si compren­
de con chiarezza dalle maledizioni scagliate da Gesù, nei
racconti di Matteo e di Luca, contro le città rivierasche
del lago di Galilea, che non si possono spiegare altrim en­
ti che non il rifiuto di queste città, intese come corpi col­
lettivi, di farsi coinvolgere nella prospettiva di liberazio­
ne da lui indicata.
Si intuisce che un ruolo decisivo dovevano averlo giuo-
cato i farisei, sulla cui astratta devozione al futuro regno
di Dio Gesù aveva probabilmente all’inizio contato, per
trarre dalla sua parte le masse popolari, nei confronti
delle quali essi esercitavano grande influenza, attraver­
so la rete delle sinagoghe, grazie alla loro fama di purez­
za e al sistema di elemosine da loro messo in piedi. Essi,
invece, rifiutarono nella loro maggior parte l’annuncio
del regno di Dio, sostenendo che Gesù non aveva nessun
titolo a farlo, e contribuirono ad isolare Gesù dalla mag­

4 Matteo 11,16-19.

Gesù 125 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

gioranza della popolazione ebraica. Senza un movimento


collettivo di trasformazione in direzione del regno di Dio,
il progetto con cui Gesù era rientrato in scena dopo l’ar­
resto del Battista era compromesso, ed egli era minac­
ciato dal tetrarca della Galilea Erode Antipa, che diceva
di lui con paura: «Questi è Giovanni Battista che io ho
fatto uccidere, e che è tornato dal mondo dei morti!».5
Gesù rischiava di essere arrestato e ucciso nello stesso
modo, e per le stesse ragioni, per cui era stato arrestato e
ucciso Giovanni.
In questa situazione un personaggio storicamente
meno grande di Gesù avrebbe oscillato tra un definitivo
passo indietro nel suo impegno religioso, e la scorciatoia
avventurosa e sterile di mettersi alla testa di un movi­
mento insurrezionale. Gesù, invece, proprio nel momen­
to in cui si accorse che non gli era riuscito di convertire
Israele al regno di Dio, e che per questo correva gravi
pericoli di vita, cominciò ad accettare di essere conside­
rato il Cristo Figlio di David, ribadendo così che il compi­
mento storico del regno di Dio era alle porte, e nello stes­
so tempo allontanando la possibilità che l’ideale messia­
nico fosse spento da un ciclo sanguinoso di insurrezione e
repressione.
Egli, infatti, elaborando in maniera creativa la nozio­
ne di Messia - e poteva farlo in maniera comprensibile
per il suo ambiente, dato che la tradizione religiosa la­
sciava a quella nozione contorni vaghi e valenze plurime
- si presentò bensì come il Messia liberatore di Israele,
ma non nel senso zelotico di restauratore della sua po­
tenza militare, né in quello essenico di Messia sacerdota­

5 Matteo 14,2. Altrove: «Erode diceva: Giovanni l’ho fatto decapita­


re io stesso: chi è dunque costui del quale sento dire tante cose?» (Luca
9, 9).

Gesù 126 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

le, bensì in quello, nuovo, di protagonista del riscatto dal


peccato di un popolo intero attraverso il sacrificio della
sua persona. Per farsi intendere, egli riconduceva questo
suo ruolo liberatorio ad un modello biblico, quello del Servo
Sofferente tematizzato dal profeta Isaia come una perso­
nificazione della collettività ebraica, che si liberava scon­
tando le conseguenze del peccato.6
Gesù si disse Servo Sofferente di Dio, ovvero l’uomo
che Dio aveva scelto per far convergere sulle sue carni,
sotto forma di inauditi patimenti, tutte le conseguenze
dell’infedeltà di Israele, e per introdurre così nel suo re­
gno un “resto di Israele” formato da coloro che alla fine si
fossero riconosciuti nel suo sacrificio.
In questo modo Gesù mise in moto un processo storico
capace di mantener viva la prospettiva del regno di Dio:
proclamandosi Messia liberatore di Israele, suscitava ti­
mori nei pubblici poteri, e attirava le loro persecuzioni;
esponendosi a tali persecuzioni nei modi e nei tempi da
lui scelti, era in grado di apparire davvero Messia al po­
polo; la trasformazione collettiva che non era riuscito a
provocare con la sua predicazione, poteva prodursi di fron­
te all’immagine, biblicamente significativa, del Cristo
sofferente.
Gesù, insomma, trovò ad un certo momento il corag­
gio di capire che la sua predicazione, pur con tutti i suoi
successi parziali, non aveva raggiunto lo scopo di creare
le condizioni per l’avvento effettivo del regno di Dio, e
trovò l’eroismo di tentare di raggiungere il medesimo sco­
po attraverso un inaudito sacrificio della sua persona.
6 Isaia 52,13-53. L’immagine, in realtà, è posteriore all’Isaia stori­
co, perché compare nella seconda parte del libro di Isaia, oggi ricono­
sciuto cronologicamente successiva alla prima. Senonché ai nostri fini
questo non ha importanza, perché importante è quel che credeva Gesù,
non quel che è stato filologicamente accertato oggi.

O sso 127 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

• Si tra tta di eroismo, non di follia, perché entro il con­


testo religioso e culturale di quell’ambiente e di quel tem­
po, impregnato di tradizioni bibliche e profetiche, il sa­
crificio di un Cristo, in una adeguata cornice simbolica,
era effettivamente in grado di evocare un riconoscimento
messianico, e di produrre quindi una trasformazione sto­
rica. Gesù poteva dunque realizzare il suo ideale, se il
suo sacrificio fosse avvenuto nella città santa di Gerusa­
lemme e in occasione della pasqua, in modo da inscrivere
i suoi atti nel tempo simbolico della liberazione e da ap­
parire come l’agnello pasquale che toglieva i peccati dal
mondo, e se fosse stato preceduto da adeguati segni di
identificazione messianica.
Ecco dunque rivelata, puramente e semplicemente
sulla base delle narrazioni evangeliche, una coerente spie­
gazione storica della connessione stretta, che i Vangeli
pongono, tra la scelta di Gesù di accettare il titolo mes­
sianico riconosciutogli da Pietro, il suo preannuncio del
destino di dolore e di morte che lo attendeva, e l’inizio del
suo cammino verso Gerusalemme, poche settimane pri­
ma della pasqua. Pasqua di quale anno? In coerenza con
leùndicazioni cronologiche precedentemente fomite, si può
dire che si tratti della pasqua del 36 d. C.,7 e che Gesù
avesse allora un’età compresa tra i quaranta e i cin­
quantanni.
7 La data del 36 d. C. è solitamente considerata troppo tarda per la
morte di Gesù, in quanto si ritiene che ogni data successiva al 33 d. C.
entri in contraddizione con la cronologia desumibile da Paolo. Questi,
infatti, ci dice che, tre anni dopo la sua conversione, si era recato a
Gerusalemme, e quattordici anni dopo vi era tornato per partecipare
al cosiddetto concilio degli apostoli (Lettera ai Galati 1, 18 - 2, 1). Gli
anni effettivamente trascorsi dalla conversione di Paolo al concilio di
Gerusalemme sono, si dice, in base al computo macedone in uso allo­
ra nelle regioni orientali dell’Impero, due più tredici, cioè quindici
(nel computo macedone conta infatti per un anno intero il periodo,

Gesù 128 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

Il cammino di Gesù in direzione di Gerusalemme si


presentava irto di difficoltà. Egli, infatti, doveva prepa­
rare i suoi più stretti discepoli a reagire in modo adegua­
to al nuovo ruolo da lui assunto di Cristo sofferente, e già
questo compito non era facile, a causa dei loro limiti cul­
turali, e del breve tempo a disposizione. Egli doveva inol­
tre mostrare non equivoci segni che lo qualificassero come
Cristo, perché altrim enti quel che sarebbe accaduto a
Gerusalemme non avrebbe avuto significato. Ma doveva
anche evitare che i suoi segni messianici arrivassero trop­
po presto ad allarm are le pubbliche autorità, perché
avrebbe allora rischiato di venire ucciso, o quanto meno
arrestato, prima ancora del suo ingresso a Gerusalemme.

uriche se brevissimo, che separa la data considerata dalla fine dell’an­


no civile). Poiché il concilio di Gerusalemme è solitamente datato, per
concordanza con il decreto dell’imperatore Claudio di espulsione de­
gli ebrei dalla civitas romana {Atti degli Apostoli 18, 2), al 49 d. C.,
detraendo quindici anni da questa data, si arriva, come data della
conversione di Paolo, al 34 d. C .. Poiché Paolo si è convertito dopo la
morte di Gesù, Gesù, si osserva, non può essere morto dopo il 33 d. C.
Questa linea di ragionamento contiene due errori. Il concilio di Geru­
salemme si è svolto non nel 49 d. C., ma nel 51 d. C., come è diventato
chiaro dopo la scoperta, a Delfi, di una epigrafe che data al 52 d. C. il
proconsolato di Gallione in Acaia. Paolo, infatti, fu arrestato a Corin­
to, l’anno dopo il concilio di Gerusalemme, proprio dal proconsole ro­
mano Gallione (Atti degli Apostoli 18, 12). La concordanza con il de­
creto di espulsione degli ebrei dall’Italia non è un problema, perché
l’importante è che Paolo abbia incontrato Aquila e Priscilla dopo, e
non prima, quel decreto (Atti degli Apostoli 18, 2). Il secondo errore è
che, se si legge con la dovuta attenzione la Lettera ai Galati, si può
constatare come Paolo dichiari in realtà di essersi recato al concilio di
Gerusalemme quattordici anni dopo (cioè tredici anni dopo, secondo il
computo macedone) la sua conversione, e non dopo la sua prima an­
data a Gerusalemme. Detraendo, perciò, tredici anni dal concilio di
Gerusalemme del 51 d. C., si arriva, come data della conversione di
Paolo, al 38 d. C., ad una data, cioè, in cui Gesù era già morto anche
se morto nel 36 d. C. .

Gesù 129 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Ciò spiega perché, quando Simon Pietro lo riconosce


come il Cristo liberatore, Gesù, pur accettando ormai tale
qualifica, gli ingiunga tuttavia di non farne parola a nes­
suno.
Nel racconto del quarto Vangelo, Tunico, come sappia­
mo, che attinga ad una tradizione giudea, e quindi il più
importante da questo momento in poi, Gesù, dopo esser­
si ritirato per un breve tempo in meditazione nel deserto
oltre il Giordano,8 decide di andare in direzione di Geru­
salemme allorché viene a sapere dell’infermità di Lazza­
ro di Betania.9 Betania era un villaggio a meno di tre
chilometri da Gerusalemme, sulla strada che conduceva
a Gerico.
Il racconto prosegue10dicendo che, quando Gesù arri­
va nei pressi del villaggio, Lazzaro è già da quattro gior­
ni nel sepolcro, e a casa sua le sue sorelle M arta e Maria
lo piangono morto, attorniate da molti giudei venuti a
partecipare al lutto. Gesù non si reca a casa loro, ma at­
tende, fuori del villaggio, che lo raggiunga prima Marta,
e poi, su suo ordine, Maria, dalla quale si fa condurre al
sepolcro. Qui, fatta togliere la pietra tombale, urla a Laz­
zaro di venir fuori. Subito l’uomo esce dalla tomba, con
braccia e gambe ancora legate dalle bende funebri, ma
ben vivo, tanto che, sciolto dalle bende, se ne torna a casa
sua. Alcuni giudei che hanno seguito Maria dalla casa al
sepolcro, e che hanno assistito alla scena, ne vanno subi­
to ad avvisare i capi dei farisei, i quali, d’intesa con i capi
dei sacerdoti, indicono una riunione straordinaria del

8 Secondo questo racconto, Gesù si ritira oltre il Giordano per sfug­


gire ad un tentativo di cattura effettuato in seguito alla sua procla­
mazione messianica (Giovanni 10, 39-42).
9 Giovanni 11, 2.
10 II racconto che facciamo è una parafrasi di quello contenuto nel
cap. 11 del quarto Vangelo.

G esù 130 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

Sinedrio per discutere l’episodio. Il Sinedrio era il supre­


mo consiglio deH’amministrazione templare e della ge­
stione degli affari religiosi e giudiziari della Giudea.
Dunque l’episodio di Lazzaro suscita una forte eco e
viene considerato della massima gravità. È perciò sor­
prendente che i Vangeli sinottici non lo conoscano. Ma c’è
di più. Nei Vangeli sinottici non viene neppure menzio­
nato il personaggio di Lazzaro, benché essi siano infor­
mati che Gesù, quando si trovava a Gerusalemme con i
suoi discepoli, trascorreva le notti da solo a Betania, evi­
dentemente nella casa di Lazzaro. Né vengono menzio­
nate le sorelle di Lazzaro, benché almeno in una circo­
stanza si parli di loro, come risulta dal confronto con il
racconto corrispondente di Giovanni. Tutti questi fatti
mostrano come le fonti alle quali hanno attinto i sinottici
siano guidate da una precisa volontà di cancellare la fa­
miglia di Betania dalla vita di Gesù. Noi partiremo pro­
prio da questo evidente intento censorio per cercare di
capire che cosa si nasconda sotto l’episodio di Lazzaro, e
che cosa esso significhi.
La famiglia di Betania era molto probabilmente la fa­
miglia acquisita di Gesù: Maria era Maria Maddalena,
la sua donna, e Lazzaro era suo cognato. Gli indizi in
proposito sono molteplici e convergenti. Un primo indi­
zio forte è che, nel racconto del quarto Vangelo, il mes­
saggio con cui Gesù viene chiamato a Betania dice te­
stualmente: «Guarda, colui che tu ami è infermo».11
La fonte da cui il quarto Vangelo attinge non nomina
quindi Lazzaro. La dizione «colui che tu ami» è evidente­
mente sufficiente a farlo identificare da Gesù. Ma ciò non
11 Giovanni 11, 3. L’espressione testuale è l6e òv epigei? àa0Eveì. Il
verbo (pirico indica l’amore, come si vede anche dai suoi derivati, ad
esempio <piX,ricns, l’amore coniugale, cpiXavòpict, l’amore della donna
per lo sposo, cpiÀoaocpia, l’amore per il sapere.

Gesù 131 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

si spiega se non trattandosi di un suo stretto e caro pa­


rente. Non è un caso che le Bibbie cattoliche traducono
spesso il messaggio ricevuto da Gesù con “il tuo amico è
infermo”. Senonché nel testo originale greco non c’è scritto
“il tuo amico”, bensì «colui che tu ami».
L’espressione appare imbarazzante ai traduttori cat­
tolici appunto perché evoca una stretta parentela, men­
tre il Cristo deH’immaginario teologico non ha famiglia
che non sia quella spirituale della Vergine e degli aposto­
li, e anche perché richiama «il discepolo che Gesù ama­
va» che compare nel quarto Vangelo.12Le due figure po­
trebbero in realtà essere la stessa persona, la persona da
cui ha tratto origine la tradizione giudea su Gesù, a cui il
redattore del quarto Vangelo ha attinto senza rendersi
conto dell’identità di Lazzaro con il discepolo prediletto,
oppure censurandola.
La pesante censura a cui la famiglia di Befania è sta­
ta sottoposta da tutte le fonti confluite nel Vangeli diver­
se da quella giudea confluita nel quarto, costituisce un
altro indizio che si tratti della famiglia acquisita di Gesù.
Per quale altro motivo, infatti, i Vangeli, soprattutto i
sinottici (ma anche il quarto, che ne parla senza far capi­
re il legame che ha con Gesù), avrebbero dovuto volerne
far perdere le tracce, se non perché le fonti apostoliche in
essi confluite riflettevano l’ostilità degli apostoli verso i
legami naturali di Gesù?
Abbiamo già avuto modo di vedere, a proposito della
risurrezione di Gesù, come il gruppo degli apostoli nu­
trisse gelosia nei confronti di Maria Maddalena. Un al­
tro indizio è costituito dal rapporto speciale di Maria so­
12 Maria, quando vedrà la pietra sepolcrale rimossa, si recherà da
Simon Pietro e dal «discepolo che Gesù amava» (Giovanni 20, 2).
L’espressione è «jtpò? tòv o.Kko\ pa0rirnv òv èepigei ó Ir]aoùg», perfetta­
mente analoga a quella usata nei confronti di Lazzaro.

Gesù 132 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

rella di Lazzaro con Gesù, che traspare chiaramente da


un’attenta lettura dei brani del quarto Vangelo che la ri­
guardano. È assai significativo che, laddove nei codici più
antichi del quarto Vangelo si trova scritto che «Gesù ama­
va Maria, e anche sua sorella M arta e suo fratello Lazza­
ro»,13nei codici più recenti appare la nuova forma «Gesù
amava Marta, Maria e Lazzaro», m irante ad eliminare,
come è evidente, la specificità dell’amore di Gesù per
Maria. E, nelle traduzioni nelle nostre lingue, il verbo
amore è spesso sostituito dal meno impegnativo voler
bene, mentre nel testo originale greco c’è un inequivoco
«amava».
La redazione originaria del quarto Vangelo, evidente­
mente, utilizzava, pur disperdendone il senso primario,
una fonte non apostolica sulla famiglia acquisita di Gesù,
che dipendeva da quel discepolo prediletto di Gesù che
era forse lo stesso Lazzaro. Un ulteriore indizio, infine,
che la famiglia di Befania era la famiglia stessa di Gesù,
lo abbiamo già indicato: secondo la testimonianza di tu t­
ti i Vangeli Gesù, quando si trovava a Gerusalemme, per­
nottava a Befania.
Le considerazioni fatte sulla famiglia di Befania con­
sentono una lettura diversa dall’usuale dell’episodio di
Lazzaro. Se infatti questi era il cognato, oltre che un se­
guace di Gesù, e se sua sorella Maria era la donna di
Gesù, allora Gesù ha potuto organizzare l’accaduto d’in­
tesa con la sua famiglia. Non mancano nel testo, d’altra
parte, piccoli indizi di una vicenda organizzata.
Torniamo allora al criterio che ha guidato tutto il no­
stro lavoro, e chiediamoci in qual modo analizzeremmo il
fatto se avessimo di fronte una fonte meno coinvolgenteI

II verbo usato in Giovanni 11, 5, iV/cuta, che viene da àycmàd), ed


indica un amore-preferenza.

Gesù 133 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

di quella evangelica. Escluderemmo, ovviamente, che un


cadavere possa essere tornato un uomo vivo, perché sap­
piamo che la morte è un limite irreversibile. Ed esclude­
remmo anche un trucco o una frode, avendo a che fare
con una grande figura morale, e non con un personaggio
volgare.
Non potremmo d’altra parte pensare ad un’invenzio­
ne redazionale, in presenza di tracce, individuabili con il
metodo storico, di una tradizione autentica. Una corret­
ta impostazione metodologica ci indurrebbe a cercare,
allora, la vicenda più simile possibile alla risurrezione di
un morto che potesse essere realisticamente accaduta nel
contesto sociale e culturale in cui fosse inserita.
Ebbene, dobbiamo avere lo stesso atteggiamento con
la fonte evangelica. Dobbiamo alla grandezza di Gesù un
rispetto sufficiente per non farcelo considerare né un
mostro dotato di poteri paranormali né un volgare truf­
fatore illusionista, e dobbiamo prendere atto della stori­
cità delle tradizioni confluite nei Vangeli. Dobbiamo allo­
ra chiederci che cosa può aver organizzato Gesù, che aves­
se un senso serio e profondo nella prospettiva del Cristo
sofferente a Gerusalemme, e che, confluito in una tradi­
zione e assunto da un redattore, potesse essere espresso
come risurrezione di un morto.
Nella cultura religiosa dell’Oriente mediterraneo di
quell’epoca esistevano, come sappiamo dalla ricostruzio­
ne della storia delle religioni di Mircea Eliade, pratiche
interpretabili come risurrezione dalla morte. Si trattava
di riti iniziatici con i quali alcune persone, dopo un digiu­
no penitenziale, erano sottoposte ad una specie di ipnosi,
e quindi deposte in un sarcofago dove venivano solita­
mente tumulati i defunti, e dove rimanevano per tre giorni
in un sonno profondo. Si credeva che durante questi tre
giorni entrassero nel regno della morte, e ne facessero

G esù 134 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

poi ritorno, al risveglio, interiormente trasformati. Il rito


era possibile soltanto sotto il patrocinio di un maestro di
verità direttamente protetto da Dio, che era l’unico auto­
rizzato a presiedere al risveglio della persona tumulata.
Se si ammette che Gesù si fosse accordato con la fami­
glia di Befania per sottoporre Lazzaro ad un rito iniziati­
co di simbolica risurrezione dalla morte, tutti gli elemen­
ti del racconto del quarto Vangelo vanno ad armonizzarsi
come le tessere di un mosaico. Si capisce come Gesù, avuta
la notizia che Lazzaro non era più in condizioni norma­
li,14 abbia indugiato ancora due giorni, secondo quanto
narra il quarto Vangelo, prima di mettersi in cammino
per Befania: si è trattato di un calcolo del tempo necessa­
rio per arrivare al villaggio nel momento previsto per il
risveglio di Lazzaro. E si capisce come l’episodio, filtrato
dalla tradizione, sia potuto apparire al redattore del quar­
to Vangelo come il ritorno in vita di un cadavere, e sia
stato quindi raccontato in questo modo. Si capisce, so­
prattutto, la convocazione straordinaria del Sinedrio per
discutere l’episodio: Gesù, in quanto promotore di un rito
iniziatico di risurrezione simbolica dalla morte, si propo­
ne come maestro di verità inviato da Dio, e manda quin­
di un preciso segnale messianico.
Si potrebbe obiettare che la convocazione straordina­
ria del Sinedrio era un fatto di grossa portata, tale da far
supporre come sua causa un evento speciale, quale avreb­
be potuto essere un miracolo di Gesù. In realtà lo stesso
racconto evangelico smentisce, senza rendersene conto,
che coloro che avevano assistito all’episodio di Lazzaro, e
lo avevano riferito ai capi dei farisei, avessero creduto di

14 tic; àcr0Evcòv Accapo?, dice il testo greco (Giovanni 11, 1), dove il
participio di ào0 evéco può voler dire malato, ma anche semplicemente
debole, spossato, fiacco.

Gesù 135 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

aver assistito al ritorno in vita di un cadavere. Uomini


convinti che Gesù avesse manifestato di possedere il più
divino dei poteri miracolosi, quello di restituire la vita ai
morti, non avrebbero certamente osato pensare allessas­
simo di Gesù, se non altro per paura, e il Sinedrio si sa­
rebbe riunito per discutere il riconoscimento di Gesù come
Messia. Il quarto Vangelo narra invece come fosse in di­
scussione tra i sinedriti l’uccisione di Gesù, e come la di­
scussione fosse risolta da una frase lapidaria del sommo
sacerdote Caiafa: «È meglio che un uomo muoia per il
bene del popolo piuttosto che perisca la nazione intera»,15
tanto che «da quel giorno decisero di ucciderlo».16Appare
chiaro dal brano in questione come nessuno pensasse che
Gesù avesse riportato in vita un morto, e che fosse quin­
di dotato di poteri divini. Tutti invece temevano i segni
messianici che egli aveva cominciato a lanciare, e che
potevano spingere molti a volere il regno di Dio, provo­
cando la reazione arm ata del potere imperiale: «Quest’uo­
mo compie molti segni. Se lo lasciamo agire così, tutti
crederanno in lui, e verranno i Romani e distruggeranno
la nostra patria e la nostra nazione».17Dunque l’episodio
di Lazzaro era stato non un evento sovrannaturale, ma
un segno del ruolo messianico di Gesù, del fatto che Gesù
si considerava Messia.
Gesù dà un altro segno del suo ruolo messianico qual­
che giorno dopo. Leggiamolo nel racconto del quarto Van­
gelo: «Gesù, sei giorni prima della pasqua, tornò a Beta-
nia, dove abitava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai

15 CTUjwpépEi iva elg avOpcoirog cmoOavr) iuièp toù >.aoù Koà [xp òX.ov tò
è'0vog àjióÀi'|tai (Giovanni 11, 50). La traduzione «un uomo al posto
del popolo», che a volte si trova, è chiaramente sbagliata, perché ùjtèp
con il genitivo indica il vantaggio.
16 Giovanni 11, 53.
17 Giovanni 11, 47-48.

G esù 136 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

morti. A casa di Lazzaro gli prepararono una cena, servi­


ta da Marta, in cui Lazzaro era uno dei commensali.
Maria, allora, presa una libbra di olio profumato di vero
nardo, assai prezioso, unse con essa i piedi di Gesù, asciu­
gandoli poi con i suoi capelli».1»
L’episodio è narrato anche dai sinottici,19che lo fanno
svolgere o qualche giorno dopo {Marco e Matteo) o molto
prima {Luca). Soprattutto, però, nelle narrazioni sinotti­
che viene menzionato bensì il luogo, Betania, in cui si
svolge* ma senza far parola né di Lazzaro né di Maria. La
casa in cui avviene la cena diventa quella di un fariseo,
Simone il lebbroso, e Lazzaro sparisce anche tra i com­
mensali. La persona che cosparge i piedi di Gesù di pre­
zioso olio profumato viene chiamata o «una donna» {Mar­
co e Matteo) o «una peccatrice di quella città» {Luca).
Quanto abbiamo già osservato riguardo all’intento cen­
sorio nei confronti della famiglia di Betania, da parte della
tradizione risalente agli apostoli, risulta ora più che evi­
dente. E risulta anche chiaro come, invece, Gesù si sia
servito proprio di quella famiglia, probabilmente la sua
famiglia (quale confidenza spirituale e fisica con lui rive­
la l’atto di Maria di asciugargli i piedi con i propri capel­
li!), per compiere i primi gesti pubblici da Messia. Dap­
prima la risurrezione simbolica di Lazzaro, che lo ha qua­
lificato come il Cristo liberatore dalla morte, e dopo la
sua sottoposizione all’unzione da parte di Maria, che lo
qualifica di fronte ai numerosi astanti, convenuti al ban­
chetto a casa di Lazzaro, come aspirante re d’Israele, ov­
viamente nella prospettiva dell’aw ento del regno di Dio.
Non si dimentichi, infatti, che l’unzione con un olio
prezioso è nella tradizione ebraica l’atto rituale dell’in­

18 Giovanni 1 2 ,1 - 3 .
• 19 Matteo 2 6 , 6-7; Marco 1 4 , 3; Luca 7 , 3 6 -3 8 .

G esù 137 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

vestitura regale, e che il termine Messia significa, come


il suo corrispondente greco Cristo, unto. Maria, compien­
do un atto d’unzione con una quantità spropositata (una
libbra) di olio particolarmente prezioso (quello di nardo),
ha dunque compiuto un atto di unzione, che ha qualifica­
to Gesù, di fronte a tutti i presenti, come dotato di digni­
tà regale messianica. Proprio quella dignità che lo porte­
rà di lì a poco sulla croce, sopra la quale starà scritto,
come ragione della condanna, non lo dimentichiamo, Gesù
Cristo (cioè Messia) Nazareno (cioè capo di una setta ri­
belle a Roma) Re dei Giudei.
Appare particolarmente significativo che egli abbia
voluto far compiere su di sé il rito dell’unzione regale
messianica non da un sacerdote, benché ne avesse avuto
qualcuno per amico, non da Lazzaro, che forse sacerdote
lo era, e neppure dal primo dei suoi apostoli, Simon Pie­
tro, ma da Maria. Era dunque a lei che si sentiva spiri­
tualmente più vicino nel momento in cui si prospettava il
compimento del suo destino messianico, ma come desti­
no di umiliazione e di dolore.
L’ultimo segnale messianico prima di trovarsi dentro
Gerusalemme e di fronte al suo destino Gesù lo lancia
attraverso il suo ingresso nella città santa.
Anche in questo caso il punto d’appoggio per la sua
azione è Betania. Egli invia dentro quel villaggio due di­
scepoli ignari di tutto, con l’incarico di sciogliere il pule­
dro di un’asina legata davanti ad una determinata casa,
e di portarglielo. Se qualcuno chiederà loro ragione di
quel che fanno, dice loro Gesù, essi dovranno rispondere
che il Signore ne ha bisogno, e saranno allora lasciati
agire indisturbati.20

20 Matteo 2 1 ,1 - 3 ; Marco 11, 1-3; Luca 1 9 , 2 9 -3 1 .

Gaso 138 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Risulta evidente dal racconto, comune a tutti e quat­


tro i Vangeli, che Gesù si è accordato in precedenza con il
padrone della casa di Betania, senza informarne i suoi
discepoli. Lo scopo di tutto ciò è quello di entrare a Geru­
salemme, i cui ingressi sono allora presidiati dai legiona­
ri romani, sul dorso di un asinelio. Perché?
Gesù, se voleva che la sua immagine a Gerusalemme
fosse quella di un Cristo regale, doveva riuscire a com­
piere un gesto messianico di maggiore risonanza pubbli­
ca di quelli già compiuti presso la tomba e dentro la casa
di Lazzaro. I gesti già compiuti, infatti, per quanto alta­
mente significativi, si erano svolti in luoghi privati, e la
loro risonanza pubblica era stata affidata alla loro divul­
gazione da parte di coloro che vi avevano assistito.
Ma Gesù aveva bisogno ora di qualificarsi come Mes­
sia in pubblico, e la sua qualificazione messianica sareb­
be apparsa tanto più rilevante quanto più avesse coinci­
so con il suo ingresso nella città santa. I legionari roma­
ni, però, presidiavano le porte della città, pronti ad arre­
stare immediatamente qualunque aspirante Messia, per
loro sinonimo di ribelle a Roma. Ebbene, Gesù aveva tro­
vato il modo di proclamarsi Messia proprio nell’atto di
entrare in Gerusalemme, senza che gli ufficiali romani
se ne rendessero conto. Si trattava di entrare in Gerusa­
lemme né a piedi, né a cavallo, né su un carro, ma a dorso
di un asinelio, evocando così negli ebrei dotati di cultura
biblica, e soltanto in loro, la profezia messianica dell’an­
tico profeta Zaccaria, riportata dal Vangelo di Matteo:
«Esulta, figlia di Sion,
giubila, Gerusalemme,
ecco viene a te il tuo re
che umile cavalca
un puledro d ’asina».21
21 Zaccaria 9, 9 e Matteo 2 1 , 5.

Gesù 139 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

Perché l’ingresso in Gerusalemme a dorso di un asi­


nelio non passasse inosservato nella sua natura di segno
messianico, venne preceduto da un’altra manifestazione
pubblica. Una folla che, narra il quarto Vangelo, aveva
assistito ai segni di Gesù a casa di Lazzaro, e che era al
corrente del significato che Gesù voleva dare al suo in­
gresso in città, gli andò incontro fuori dalle m ura di cinta
di Gerusalemme.22
Quel che allora successe è narrato anche dai sinottici:
«La folla numerosissima stese i suoi mantelli sulla stra­
da, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li sparge­
vano sulla strada. Gli uni e gli altri gridavano: Osanna
al Figlio di David! Benedetto colui che viene nel nome del
Signore! Osanna nel più alto dei cieli!».23
Nel quarto Vangelo il grido è: «Osanna! Benedetto co­
lui che viene nel nome del Signore! Benedetto il re di Isra­
ele!».24
Si trattava di un’acclamazione messianica in piena
regola, che venne bensì compiuta fuori di Gerusalemme,
lontano dagli sguardi, e quindi dalla repressione, dei le­
gionari romani, ma che riverberò intero il suo significato
nell’ingresso di Gesù in città a dorso di un asinelio.
Gesù, perciò, fece a tutti gli effetti un ingresso a Geru­
salemme da Cristo liberatore di Israele. Sapeva che ciò
gli avrebbe attirato terribili persecuzioni. Voleva che que­
ste persecuzioni avvenissero in modo tale da far risplen­
dere la sua immagine di Servo Sofferente.

22 Giovanni 12, 17-18.


23 Matteo 21, 9.
24 Giovanni 12,13.

Gusti 140 Uomo nella storia


7. L a tra g ica sco n fitta di Gesù a G erusalem m e

Siamo giunti al momento in cui Gesù, a Gerusalemme,


sta per spendersi integralmente al servizio del suo ideale
religioso. A questo punto sappiamo già molto di lui come
personaggio storico. Sappiamo che, a pochi giorni dalla
festività pasquale del 36 d. C., egli è un uomo tra i qua­
ranta e i cinquantanni, originario della Galilea, educato
fin dall’infanzia all’ideale ebraico di un regno di Dio de­
stinato a sostituire gli ingiusti e corrotti poteri umani.
Sappiamo che la svolta decisiva della sua vita era avve­
nuta dieci anni prima, nel 26 d. C., allorché era comparso
in Giudea un profeta, il primo dopo secoli, annunciatore
dell’imminenza del regno di Dio, e della conseguente ne­
cessità di purificazione dai peccati. Gesù era andato su­
bito a trovarlo sulle rive del Giordano, per farsi suo di­
scepolo e per farsi praticare da lui il rito penitenziale
dell’immersione.
Durante tale rito si era convinto di essere stato scelto
da Dio ad aver parte nell’instaurazione del suo regno. Se
Giovanni era il Messia sacerdotale atteso per purificare
la religione, egli poteva ben essere il Messia figlio di Da­
vid sotto la cui regalità sarebbe stato instaurato il regno
di Dio. Qualcuno, come Natanaele, gli obiettava che il
Messia figlio di David avrebbe dovuto venire da Betlemme
in Giudea, la città del casato di David, e non da Nazareth
in Galilea. Ma Gesù fece egualmente, tra i discepoli di
Giovanni, discepoli suoi propri, disposti a riconoscerlo
come Messia continuatore di Giovanni. Con costoro com­
pì nella pasqua del 27 d. C. una manifestazione messia­
nica nel piazzale del Tempio di Gerusalemme, che rivela
come già allora Gesù sapesse essere molto creativo nelle
sue azioni. La sua manifestazione non fu né moderata né
pacifica, perché egli chiese, con essa, niente di meno che

Gesù 141 U omo n m .ia siviiia


M assimo B ontempelli

10 scioglimento dell’organizzazione templare, e fece but­


tare aH’aria i banchi dove si svolgevano alcuni traffici
funzionali ai riti del Tempio. Si trattò di una grossa di­
mostrazione di forza, con la quale però Gesù non provocò
11 minimo spargimento di sangue, e della quale non si
servì per promuovere un’insurrezione. Ciò inibì una ri­
sposta repressiva e cruenta del Tempio, consentendo a
Gesù di lanciare un messaggio di forte valenza simboli­
ca, e di non spegnersi come una meteora, alla pari degli
aspiranti Messia che erano falliti.
Non conosciamo la vicenda di Gesù negli anni imme­
diatamente successivi al 27 d. C., che sono veramente
per noi gli anni oscuri di Gesù, e non sappiamo, quindi,
come gli si siano presentate occasioni di svolgere un ruo­
lo messianico in senso zelotico, e come le abbia respinte.
Sappiamo soltanto che negli ultimi anni attorno al 30 d.
C. Gesù non intendeva farsi riconoscere come Messia,
riteneva che l’instaurazione del regno di Dio esigesse
ancora una preliminare preparazione penitenziale, e si
era messo a fare il secondo battezzatore in parallelo a
Giovanni, che continuava nel frattempo a svolgere la sua
attività profetica e battesimale.
Poi, nel 34 o nel 35 d. C., Erode Antipa fece arrestare,
a causa della pericolosità sociale e politica per i poteri
costituiti del suo messianismo, Giovanni Battista, che
evidentemente aveva allora più séguito di Gesù. Alla
scomparsa di Giovanni Battista dalla scena, Gesù reagì
con la più originale delle mosse, destinata ad avere effet­
ti storici di grande portata. Proclamò che non c’era più
da attendere l’instaurazione del regno di Dio, perché esso
era già stato instaurato sul piano sovrannaturale da Dio,
allorché aveva inviato Giovanni corno suo profeta. I pote­
ri terreni erano dunque tutti ormai illegittimi, e poggia­
vano soltanto sulla violenza. Elia, il profeta che doveva

(1ES(I 142 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

tornare sulla Terra ad annunciare l’instaurazione del re­


gno di Dio, era già tornato, nelle vesti di Giovanni Batti­
sta.1La violenza contro Giovanni era perciò violenza con­
tro Elia redivivo, e archetipo di tutte le violenze che im­
pedivano alla Terra di sottomettersi a Dio, realizzando
sul piano naturale quel regno di Dio che era già stato
decretato su quello sovrannaturale.
Gesù chiamò dunque i giusti, in un memorabile di­
scorso tenuto nella sinagoga di Nazareth, a una comple­
ta diserzione dall’ordine sociale esistente, attraverso l’ab­
bandono in massa dei beni economici e dei ruoli produtti­
vi, in modo da creare le premesse per l’attuazione del
nuovo ordinamento voluto da Dio, in cui tu tta la ricchez­
za sarebbe stata di proprietà collettiva, e sarebbe stata
distribuita a tu tti sulla base delle necessità di ciascuno.
Gesù non ottenne però il seguito di massa indispensa­
bile per attuare il suo progetto, e si convinse allora, nei
mesi a cavallo tra il 35 e il 36 d. C., che il regno di Dio
poteva compiersi storicamente soltanto se lui fosse stato
riconosciuto come. Messia, e che lui poteva essere ricono­
sciuto come Messia ormai soltanto nel senso del Servo
Sofferente di Isaia, che si sottopone alla violenza dei po­
teri mondani proprio quando essa ha raggiunto il massi­
mo della peccaminosità, per rivelare l’orrore del peccato
contro i decreti di Dio, e liberarne gli uomini.
Questa è, in estrema sintesi, la storia che Gesù ha alle
spalle allorché, poco prima della pasqua del 36 d. C., ar­
riva a Gerusalemme.
Nella città santa tutti i suoi interventi ed i suoi di­
scorsi, di cui qui per brevità non ci occupiamo, sottoline­
ano il suo ruolo di Messia, che nel recente passato aveva
invece rifiutato, ma connettendolo ad un destino perso-

1 Matteo 1 7 ,1 2 - 1 3 .

Gesù 143 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

naie di sofferenza e di morte, e facendo scaturire soltanto


da questo destino la liberazione di Israele.
Emblematica della concezione storico-religiosa che
Gesù ha a questo punto elaborato è la parabola dei vi­
gnaiuoli omicidi, da lui raccontata a Gerusalemme pochi
giorni prima di morire, e riportata dai Vangeli sinottici.2
Essa paragona Dio al padrone di un campo; il mondo
da lui creato, e in particolare la terra di Israele, ad una
vigna da lui piantata; i poteri mondani, e in particolare
quelli esercitati sul popolo di Israele, ai vignaiuoli ai quali
è stata affittata la vigna; e i doveri morali di chi detiene
posizioni di potere alle quote di prodotti dovute dagli af­
fittuari della vigna al suo padrone.
Costui, essa narra, per avere la parte di raccolto che
gli spetta, invia a riscuoterla un servo, che però i vigna­
iuoli percuotono e rimandano via senza dargli alcunché.
Egli invia allora altri servi, via via più energici e autore­
voli, sperando che possano ottenere il dovuto, ma anch’essi
vengono m altrattati e in maniera sempre più dura.
Il padrone del campo, allora, in un ultimo tentativo di
riceverne i frutti, invia il suo stesso figlio, cioè la persona
più adatta ad incutere rispetto ai vignaiuoli. Ma costoro
non hanno più alcun rispetto di niente, per cui non solo
lo m altrattano, ma addirittura lo uccidono, con l’intento
di impadronirsi della vigna a scapito dell’erede. A questo
punto, però, il loro comportamento non ha più alcuna scu­
sante, ed il padrone può legittimamente ucciderli, dando
la vigna a nuovi affittuari.
Gesù esprime chiaramente, con questa allegoria, il
senso che attribuisce alla sua persona e alla sua missio­
ne.

2 Matteo 21, 33-46; Marco 12,1-12; Luca 20, 9-19.

G esù 144 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

Egli si ritiene figlio di Dio, e, quindi, l’inviato più im­


portante che Dio abbia mandato nel mondo.3
Il presupposto del suo invio nel mondo è che Dio abbia
cessato di tollerare l’ordine mondano con i suoi ingiusti
poteri, ovvero che abbia decretato l’instaurazione del suo
regno, così come, nella parabola, il padrone del campo
invia suo figlio nella vigna quando non tollera più di non
riceverne i frutti.
Lo scopo del suo invio nel mondo è di dare un’ultima
possibilità ad Israele ed alle sue autorità di farsi perdo­
nare, così come, nella parabola, i vignaiuoli, che pure
hanno m altrattato i servi del padrone (i profeti di Dio),
sarebbero perdonati se ne accogliessero il figlio e gli des­
sero il dovuto.
Il suo destino ad opera dei poteri mondani di Israele è
chiaramente espresso dal destino, nella parabola, del fi­
glio del padrone, morto ad opera del vignaiuoli omicidi.
Gesù è quindi consapevole che la sua autoproclamazione
messianica a Gerusalemme è destinata ad essere disco­
nosciuta e ad esporlo inerme alla violenza omicida.

3 Figlio di Dio non significava, infatti, nell’universo culturale di Gesù,


una persona divina umanamente incarnata, ma indicava semplice-
mente un uomo protetto da Dio per il compimento di speciali missioni
storiche. L’idea di Gesù come persona di una trinità divina è il prodot­
to di una posteriore elaborazione della cristologia costruita con le ca­
tegorie del pensiero greco. Essa è in qualche modo anticipata nella
parte teologica redazionale del Vangelo di Giovanni, per la quale Gesù
è il logo divinamente emanato (Giovanni 1,1-11), anteriore all’uma­
nità terrena (Giovanni 8,58), e tuttavia, ancora, inferiore a Dio (Gio­
vanni 14, 28). Ma per i Vangeli sinottici Gesù non è affatto un essere
divino. Se ne possono addurrehumerose prove. Infatti non può essere
detto buono come Dio (Marco 10,18); non può, come Dio, decidere a
chi assegnare le supreme cariche nel suo regno (Marco 10,40); e non
conosce la data precisa in cui l’ordine di questo mondo crollerà, per­
ché tale data è a conoscenza soltanto di Dio (Matteo 24, 36).

Gesù 145 Uomo nella stoma


M assimo B ontempelli

Egli ritiene che soltanto scegliendo per sé questo de­


stino possa svolgere autenticamente il ruolo di Messia,
che è, a questo punto, quello di smascherare l’infedeltà
di Israele, provocare la giusta punizione divina contro gli
ingiusti detentori dei poteri mondani, e rendere possibile
il compimento storico del regno di Dio, che è rappresen­
tato nella parabola dalla sostituzione dei vignaiuoli. Gesù
è ispirato da queste idee mentre va incontro, a Gerusa­
lemme, al suo destino di patimenti.
Le narrazioni evangeliche della passione e della mor­
te di Gesù, comunemente denominate Vangelo della pas­
sione, rappresentano la sezione più unitaria ed arcaica
dei Vangeli. Per questo motivo costituiscono a nostro av­
viso un’ottima fonte storica.
Gli studiosi che ne svalutano la storicità facendo leva
sulle varie incongruenze che vi rilevano, non tengono con­
to che si tratta non di un testo scritto con l’intento di
lasciare ai posteri una cronaca esatta degli ultimi avve­
nimenti della vita di Gesù, ma di un documento di cate­
chesi religiosa per la comunità cristiana primitiva. Se si
utilizza il Vangelo della passione con i criteri adatti per
questo tipo di fonti, diventa relativamente facile trovarvi
il nucleo di verità storica sulla fine di Gesù a Gerusa­
lemme. Le amplificazioni leggendarie sono qui, a diffe­
renza che in altri luoghi delle narrazioni evangeliche, una
scorza esteriore che si presenta, ad una semplice lettura
intelligente del testo, visibilmente separata dal nocciolo
veritativo.
C’è poi da tener conto di una differenza fondamentale
tra il Vangelo della passione dei sinottici e quello di Gio­
vanni. Il primo, che è opportuno prendere in considera­
zione nella versione di Marco, la più arcaica e sobria,
narra eventi raccolti da una tradizione attendibile, ma
che spesso non sono compresi nella loro dinamica e nel

G esù 146 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

loro significato. La tradizione raccolta dai Vangeli sinot­


tici proviene infatti dalle testimonianze dei discepoli ga-
lilei di Gesù, che non conoscevano le istituzioni politiche
e giudiziarie della Giudea intervenute nell’arresto e nel­
la condanna di Gesù, e non erano quindi in grado di in­
tenderne i fini. Il Vangelo della passióne di Giovanni, in­
vece, pur essendo cronologicamente successivo nella sua
redazione, raccoglie tuttavia una tradizione giudea mol­
to a dentro nei meccanismi del potere di Gerusalemme.
Quando perciò cerchiamo le spiegazioni di certi eventi, è
al Vangelo di Giovanni, e non ai sinottici, che dobbiamo
rivolgerci. .
Per brevità, non analizzeremo tutti gli eventi della
passione, ma ci concentreremo sulla risposta da dare a
tre domande storiograficamente cruciali: chi volle l’arre­
sto di Gesù, e perché lo volle? Da chi, e in che modo, Gesù
fu processato? Che effetto ebbe la sua morte?
Tutti e quattro i Vangeli sono concordi nel far risalire
l’iniziativa dell’arresto di Gesù ai capi dei sacerdoti e dei
farisei, vale a dire al Sinedrio, e in particolare al sommo
sacerdote, che era allora Caiafa. Non abbiamo alcun mo­
tivo di dubitare di questa informazione, tanto più che
sappiamo, da Giuseppe Flavio, come le autorità del Tem­
pio avessero a loro disposizione un corpo di polizia for­
mata da guardie armate giudee. Il Vangelo di Giovanni,
tuttavia, menziona esplicitamente la partecipazione al­
l’arresto di Gesù di un reparto delle forze armate impe­
riali romane.4

4 H oùv cniEÌpa kcù ó xiW ctpx°S Ka*-OL óiiripéTcu tù v Iouòcucov auvé-


XafSovxòv Ir|aoùv (Giovanni 18,12). Un brano simile è assolutamente
inequivoco: gli armati giudei che partecipano alla cattura di Gesù sono
semplici dipendenti (ol ùjCTipéxca). La schiera principale è la coorte
romana (f| cmEìpa), un reparto corrispondente alla decima parte della
legione (seicento uomini dei seimila della legione). A togliere ogni

Gesù 147 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Che per l’arresto di una sola e pacifica persona sia stato


impiegato un piccolo esercito appare strano, e anche con­
traddittorio con il successivo atteggiamento di Pilato, che
mostra di non conoscere i motivi dell’arresto di Gesù,
mentre dovrebbe essere partita da lui l’autorizzazione
all’impiego della forza arm ata imperiale, di cui come pre­
fetto della Giudea aveva il supremo comando. Per que­
sto, molte imbarazzate traduzioni del Vangelo di Giovan­
ni sostituiscono arbitrariamente, al reparto della guar­
nigione imperiale, un generico “soldati”, che annulla la
distinzione, del tutto esplicita nel testo originale greco di
Giovanni, tra soldati romani e guardie giudee, entrambi
partecipi dell’arresto di Gesù. Una corretta metodologia
storica impone invece di prendere sul serio l’informazio­
ne di Giovanni riguardo alla partecipazione romana al­
l’arresto di Gesù, e di affrontare con il ragionamento le
contraddizioni che paiono derivarne.
Per entrare in questo ragionamento, dobbiamo chie­
derci perché fu ordinato l’arresto di Gesù. Ci sono a que­
sto proposito due spiegazioni assai diffuse che debbono
essere a nostro avviso risolutamente respinte. La prima,
che vuol essere a tutti i costi fedele all’immagine del Cri­
sto data dalla tradizione, riconduce l’arresto di Gesù ai
motivi di ordine religioso che erano stati da lui dibattuti,
in aspro contrasto con i farisei, durante la sua perma­
nenza a Gerusalemme (perdono dei peccati, titolo mes­
sianico, autorità della sua persona, comandamento del­
l’amore ecc.). Contro una tale spiegazione valgono due
obiezioni decisive. La prima è che quanto sappiamo sulla
storia di quel tempo rivela che le dispute religiose avute
da Gesù con i farisei rientravano nei parametri del nor-
dubbio viene menzionato il tribuno militare (ó xùlapypt;), che è in
effetti, nella gerarchia militare romana, il comandante o della legione
o della coorte.

Gesù 148 U omo nella stoxm


M assimo B ontempelli

male dibattito culturale allora interno all’ambiente ebrai­


co. Farisei e sadducei, ad esempio, avevano una disputa,
all’epoca sentita molto drammatica, sulla verità o meno
della risurrezione finale degli esseri umani, disputa per
la quale però nessuno si sognava di ricorrere all’uso della
forza armata. La seconda obiezione è fornita proprio dal­
la testimonianza di Giovanni sulla partecipazione mili­
tare romana all’arresto di Gesù, impensabile se in giuoco
fosse stata una disputa religiosa tra ebrei. Da questo dato
prendono le mosse coloro che, invece, pensano che l’arre­
sto di Gesù sia stato volto a prevenire una insurrezione
arm ata contro la dominazione romana.
I sostenitori di un Gesù guerriero zelota portano i se­
guenti argomenti: quando Gesù e gli apostoli, term inata
la loro ultima cena, si recano sul Monte degli ulivi, han­
no armi, secondo le stesse testimonianze evangeliche; il
Monte degli ulivi era tradizionalmente il luogo di raduno
di gruppi che insorgevano in armi contro i poteri di Geru­
salemme; le armi furono effettivamente usate, al momen­
to dell’arresto di Gesù, da alcuni suoi seguaci, per lo meno
da Simon Pietro; se era stato mobilitato contro Gesù addi­
rittura un reparto dell’esercito imperiale, dò vuol dire
che si trattava non già di procedere all’arresto di un sin­
golo individuo inerme, ma di prevenire una rivolta ar­
mata; se infine Gesù fu condannato alla crocifissione, ciò
vuol dire che era stato ribelle in armi a Roma, perché
tale era il reato punito con la crocifissione. Alcuni di que­
sti argomenti provano che le pubbliche autorità di Geru­
salemme temevano che la predicazione di Gesù potesse
suscitare una rivolta arm ata, e non che Gesù la volesse
suscitare o la stesse preparando.
C’è poi un elemento decisivo per invalidare la tesi in
questione, e cioè che nessuno dei seguad di Gesù fu arre­
stato insieme a lui. Risulta sùbito evidente come questo

G esù 149 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

elemento concordi con la dedizione spontanea di Gesù a


coloro che erano venuti ad arrestarlo, quale è raccontata
dai Vangeli, e non con la scoperta di un gruppo armato di
congiurati.s
Ciò induce a prendere in considerazione un altro arte­
fice, oltre al sommo sacerdote, al Sinedrio e al coman­
dante del reparto armato imperiale, deirarresto di Gesù,
vale a dire lo stesso Gesù. Fu lui, infatti, che consentì a
Giuda di informare le autorità su dove potessero trovar­
lo, lontano dalla folla e di notte;56 fu lui ad andare volon-

5 Nel racconto di Giovanni, Gesù va incontro ai soldati e chiede loro


chi cerchino, e, avuta la risposta che cercano Gesù, dice loro: sono io
(Giovanni 18, 4-5). Aggiungendo: se cercate me, lasciate che i miei
accompagnatori se ne vadano (Giovanni 18, 8). Nel racconto dei si­
nottici c’è l’amplificazione leggendaria del bacio di Giuda che identifi­
ca Gesù, ma anche lì Gesù si consegna e quelli che sono con lui scap­
pano.
6 II cosiddetto tradimento di Giuda è in realtà l’incarico, dato da
Gesù stesso a Giuda, di consegnarlo alle autorità, che da tempo cerca­
vano di catturarlo, in un preciso momento da lui scelto, alla vigilia del
ciclo festivo pasquale. Il senso originario di quel che Gesù disse di
Giuda all’ultima cena non è l’espressione di rimprovero «uno di voi mi
tradirà», ma l’espressione informativa «uno di voi mi consegnerà».
Tutti e quattro i Vangeli (Matteo 26, 21; Marco 14, 18; Luca 22, 21;
Giovanni 13,21) usano il verbo itapaòiScofii, che in qualunque vocabo­
lario ha come primo significato quello di “consegnare”, e come signifi­
cato subordinato quello di “tradire”. I redattori dei Vangeli lo intendo­
no probabilmente come tradire, raccogliendo la nascente leggenda su
Giuda il traditore, ma all’origine della tradizione poi confluita nei
Vangeli si trattava certamente di un consegnare, non di un tradire.
Lo prova il seguito dell’episodio dell’ultima cena. Il discepolo predilet­
to di Gesù, chinandosi sul suo petto, gli chiese di chi parlava, e Gesù,
dicendo che era colui al quale avrebbe dato pane inzuppato, prese un
boccone di pane, lo intinse e lo porse a Giuda (Giovanni 13, 23-26). A
questa esplicita identificazione non seguì la minima reazione dei pre­
senti, cosa impensabile se quel boccone intinto avesse avuto l’enorme
e drammatico significato della denuncia di un tradimento. Non solo,
ma poco dopo lo stesso Gesù sollecitò Giuda a agire: «Ciò che devi

Gesù 150 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

tardamente nel luogo dove sapeva lo sarebbero venuti a


prendere; e fu lui, infine, a ordinare ai pochi che lo ave­
vano seguito quella notte di non opporre alcuna resisten­
za, e a consegnarsi inerme all’arresto.7
In tal modo il perché dell’arresto di Gesù diventa del
tutto chiaro. Gesù vi si era fino a quel momento sottrat­
to, facendosi scudo, di giorno, della folla che lo attornia­
va sempre numerosa, ed uscendo, ogni notte, fuori da
Gerusalemme. Il sommo sacerdote ed il Sinedrio voleva­
no arrestarlo dal momento in cui aveva allestito la scena
messianica del suo ingresso a Gerusalemme, ed aveva
compiuto il rito iniziatico della simbolica risurrezione di
Lazzaro, perché questi suoi modi di presentarsi come
Cristo re lasciavano presagire una sommossa popolare
in nome del regno di Dio.
Noi sappiamo dagli scritti di Giuseppe Flavio che, nel­
la Giudea prefettura romana, era preciso compito del som­
mo sacerdote e del Sinedrio prevenire le sommosse, e trar­
re in arresto gli agitatori capaci di suscitarle, utilizzando
guardie arm ate giudee al loro servizio, e sollecitando,
quando esse non fossero sufficienti, la collaborazione delle
guarnigioni romane. Nel caso in cui il sommo sacerdote e

fare, fallo presto» (Giovanni 13, 27). Si trattava dunque di un incari­


co, che Gesù, come al solito, aveva dato ad un discepolo all’insaputa
degli altri (anche, ad esempio, quando aveva avuto bisogno di un asi­
nelio per l’ingresso messianico a Gerusalemme, aveva mandato a pren­
derlo due discepoli, senza dire nulla agli altri, e senza informare ne­
anche loro dello scopo ultimo dell’azione).
7 Prima di recarsi all’orto del Getsemani, Gesù aveva consigliato ai
suoi discepoli di procurarsi armi (Luca 22, 36), evidentemente per
difendersi se le guardie avessero voluto arrestare anche loro, oltre a
Gesù. Quando però Simon Pietro usò la spada per difendere Gesù,
mozzando un orecchio ad un servo del sommo sacerdote di nome Mal-
co, Gesù gli ingiunse di rimettere la spada nel fodero (Giovanni 18,
10), ed i discepoli di Gesù non furono arrestati.

Gesù 151 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

il Sinedrio avessero mancato al compito di garantire l’or­


dine tra gli ebrei, sarebbe intervenuto a ristabilirlo il pre­
fetto romano, usando liberamente qualsiasi mezzo di re­
pressione, con la conseguenza che sarebbe automatica-
mente caduto l’altro compito proprio del sommo sacerdo­
te del Sinedrio, quello di assicurare che i dominatori ro­
mani rispettassero le tradizioni e le autonomie ebraiche.
Il racconto del Vangelo di Giovanni, di cui abbiamo
già detto, secondo cui il sommo sacerdote Caiafa convin­
se il Sinedrio ad agire contro Gesù per evitare che inter­
venissero i Romani e distruggessero la nazione ebraica,
concorda dunque perfettamente con quanto sappiamo da
Giuseppe Flavio, e ciò fa ritenere che possiamo fare affi­
damento sul Vangelo della passione.
Caiafa, ordinando l’arresto di Gesù, e chiamando an­
che un reparto dell’esercito imperiale ad eseguirlo, agiva
quindi, lo sappiamo, nell’esercizio delle sue precise fun­
zioni istituzionali, mosso dalla paura che Gesù, ormai
considerato Messia dai suoi seguaci, potesse suscitare una
sommossa messianica.
Egli, d’altra parte, non aveva potuto far eseguire il
suo ordine finché Gesù si era fatto vedere soltanto in
mezzo a molta gente, perché una sua cattura in tali con­
dizioni avrebbe rischiato di provocare quei disordini per
evitare i quali si era deciso di catturarlo. Il sommo sacer­
dote, perciò, inviò i soldati ad arrestare Gesù soltanto
allorché, pochi giorni dopo, gli si presentò l’occasione di
catturarlo lontano dalla folla, e di notte.
Ma quell’occasione l’aveva creata Gesù stesso, che in
tal modo pilotò, per così dire, il suo arresto, facendolo
avvenire alla vigilia del ciclo di festività pasquale.
I suoi patimenti si verificarono, dunque, proprio quan­
do secondo il rituale ebraico si immolavano gli agnelli
pasquali, ed egli potè di conseguenza apparire come

Gesù 152 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

l’agnello sacrificale di Dio preannunciato dal profeta


Isaia.8
Il secondo problema, quello del processo intentato a
Gesù dopo il suo arresto, sembra a prima vista maggior­
mente complesso. Nel racconto di Matteo e di Marco, Gesù,
appena arrestato, venne condotto nella residenza priva­
ta del sommo sacerdote Caiafa, dove convennero anche
gli altri membri del Sinedrio, e dove si svolse il suo inter­
rogatorio notturno. Furono ascoltate alcune testimonianze
che lo accusavano di volere la distruzione del Tempio, ma
che non poterono essere prese in considerazione, perché
si rivelarono contraddittorie. Alle domande che gli furo­
no rivolte Gesù oppose un totale silenzio. Soltanto quan­
do gli venne chiesto se era il Cristo figlio di Dio rispose di
esserlo, provocando l’ira del sommo sacerdote, insulti e
percosse da parte delle guardie, e la decisione unanime
di considerarlo degno dell’accusa capitale. Nel racconto
di Luca, Gesù venne bensì condotto nella residenza del

8 II ciclo della festività pasquale ebraica durava otto giorni. Il primo


di questi giorni, corrispondente al quattordicesimo giorno del mese
ebraico di Nisan, era la Pasqua in senso proprio, che doveva essere
iniziata con la cena degli agnelli (l’uso ebraico faceva iniziare ogni
nuovo giorno non all’alba, come altri popoli antichi, e neppure alla
mezzanotte, come noi, ma al tramontare del sole, per cui era la cena
dopo il tramonto a dare inizio al nuovo giorno). I successivi sette gior­
ni, dal quindicesimo al ventunesimo di Nisan, costituivano la festa
degli Azzimi, cioè dei pani non lievitati, così detta perché doveva esse­
re celebrata mangiando appunto pane soltanto non lievitato. Ai fini
pratici, si trattava di un’unica lunga festa di otto giorni, chiamata nel
suo insieme indifferentemente Azzimi o Pasqua. All’ora di mezzogior­
no della giornata immediatamente precedente la Pasqua e il ciclo
pasquale, era uso sgozzare e preparare gli agnelli che avrebbero do­
vuto essere consumati per la cena, che era la cena di Pasqua, in quan­
to dopo il tramonto iniziava, come si è detto, un nuovo giorno. Nel
racconto di Giovanni la passione di Gesù cade in una vigilia di Pa­
squa.

Ge s O 153 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

sommo sacerdote Caiafa, dove però fu soltanto trattenu­


to in arresto, senza alcun interrogatorio notturno. Egli
venne tradotto davanti al Sinedrio soltanto di primo
mattino, e soltanto allora fu sottoposto all’interrogato-
rio, che si risolse però in una sola domanda, se davvero si
ritenesse il Cristo figlio di Dio, alla quale egli rispose af­
fermativamente. Nel racconto di Giovanni, Gesù, appe­
na arrestato, venne condotto nella residenza privata del
suocero di Caiafa, Anna, e fu da Anna, non da Caiafa, che
si svolse il suo interrogatorio notturno, nel quale non in­
tervennero testimoni a suo carico, e non gli fu chiesto se
fosse Cristo figlio di Dio.
A prima vista siamo di fronte ad un groviglio inestri­
cabile di contraddizioni, che ha portato quasi tutti gli stu­
diosi non cristiani a negare ogni attendibilità alle narra­
zioni evangeliche sull’argomento. Questi studiosi hanno
anche fatto osservare come il processo ebraico a Gesù sia
in palese contraddizione con tutte le norme procedurali
che allora venivano osservate. Uno di loro ha puntiglio­
samente elencato ben nove di queste contraddizioni.9Tra
le più importanti, il fatto che i processi non potessero
svolgersi di notte, non potessero avvenire fuori dal Tem­
pio, non potessero essere tenuti in giorni festivi o prefe­
stivi, non potessero dar luogo ad una sentenza se non in
giorni successivi a quelli degli interrogatori.
Uno studioso cattolico ha replicato che noi in realtà
non conosciamo la procedura penale ebraica dei tempi di
Gesù, in quanto i testi che abbiamo a disposizione ci dan­
no in realtà norme codificate nei tempi della diaspora.10
Così per gli studiosi credenti è veritiero il racconto evan­
gelico di un processo ebraico a Gesù prima di quello ro­

9 W. F ricke, Il caso Gesù, Mondadori, 1987.


10 V. M essori, Pati sotto Ponzio Pilato, S.E.I. Editrice, 1991.

G esù 154 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

mano presso Pilato, mentre per gli studiosi non credenti,


in genere, questo processo è un’invenzione cristiana vol­
ta a far ricadere la colpa della condanna di Gesù sul po­
polo ebraico anziché sulle autorità imperiali romane.
Un simile contraddittorio è a nostro avviso viziato in
radice. Se si legge infatti il testo originale greco dei Van­
geli, risulta evidente che non vi fu alcun processo ebraico
a Gesù, e che le autorità ebraiche si limitarono a proce­
dere al suo arresto, ed a compiere un’istruttoria informa­
le per deferirlo al suo unico giudice, il prefetto della Giu­
dea, che era allora Ponzio Pilato.
Il racconto evangelico non è cioè affatto il racconto di
un processo ebraico da accettare come verosimile o da
respingere come inventato, ma è il racconto di una prima
custodia di Gesù, e di un primo tentativo di raccogliere
prove a suo carico, in funzione del processo di Pilato. Non
ha dunque senso alcuno attendersi il rispetto delle nor­
me della procedura penale ebraica, conosciute o meno che
siano, perché non c’è alcun processo ebraico.
Quel che si svolge nel racconto evangelico è perfetta­
mente verosimile, perché Caiafa e gli altri membri del
Sinedrio agiscono non nel loro ruolo di giudici, ma nelle
loro funzioni di mantenimento dell’ordine pubblico. Che
essi custodiscano Gesù in una delle loro case, che non lo
portino al Tempio, che gli rivolgano domande per valuta­
re la sua pericolosità, tutto ciò fa parte di una normale
(per l’epoca) attività di polizia e di investigazione, spet­
tante, come sappiamo da Giuseppe Flavio, alle autorità
templari ebraiche. La decisione giudiziaria su Gesù spetta
invece a Pilato. Non perché, come solitamente si dice, le
autorità ebraiche non potessero comminare condanne
capitali, che sono invece ampiamente testimoniate, ma
perché esse non potevano processare, e quindi neanche
condannare a morte, gli imputati di sedizione contro il

Gesù 155 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

potere imperiale, quale era Gesù. In questo senso va in­


teso il brano evangelico che sembra limitare al solo pre­
fetto romano la possibilità di condannare a morte.
Rimangono le contraddizioni tra i diversi racconti evan­
gelici. Ma esse si sciolgono non appena si tiene conto che
verosimilmente la diversità dei racconti dipende dalle
diverse fonti alle quali hanno attinto, e che ogni raccon­
to, quindi, focalizza l’attenzione sul particolare aspetto
della vicenda che gli è stato tramandato. Sarebbe del re­
sto difficile pensare, anche in astratto, una situazione
diversa.
Possiamo certo pensare a discepoli di Gesù (soprat­
tutto ai pochi sacerdoti e farisei altolocati che, come sap­
piamo dai Vangeli, gli erano fedeli in segreto) in grado di
ottenere informazioni importanti su ciò che gli stava ac­
cadendo, e di tram andarle poi nella comunità cristiana.
Ma nessun discepolo avrebbe potuto ottenere informa­
zioni simultaneamente su tutte le varie fasi dell’inchie­
sta su Gesù dopo il suo arresto.
In una situazione del genere, cosa faremmo con nor­
mali fonti storiche? Cercheremmo di integrare le diverse
testimonianze, anziché di accettarne alcune e respinger­
ne altre. Di fronte a due racconti contraddittori di una
vicenda storica, proveremmo a verificare la possibilità di
fare scomparire la contraddizione riferendo i due raccon­
ti, ove ve ne fossero gli elementi, a momenti diversi di
quella vicenda. Ebbene: precisamente questo dobbiamo
fare con le narrazioni evangeliche sulla passione di Gesù.
Vediamo quale ricostruzione storica, non più contraddit­
toria, emerge da tale metodologia.
Gesù, appena arrestato, di notte, venne condotto a casa
di Anna.11Lo testimonia il solo Vangelo di Giovanni, ma

11 Giovanni 18,13.

Gesù 156 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

dobbiamo crederlo, perché non ci sarebbe stata altra ra ­


gione per inserire questo particolare, se non fosse stato
tramandato; perché il redattore poteva attingere ad una
fonte sacerdotale, quella del discepolo prediletto di Gesù,
in grado di esserne informata; e perché, infine, si tratta
di un particolare molto verosimile.
Sappiamo infatti da Giuseppe Flavio che Anna era il
“gran vecchio” del consesso sacerdotale ebraico, dotato di
prestigio e influenza superiori a quelli dei sommi sacer­
doti ufficialmente in carica, tratti peraltro sempre dal
suo gruppo parentale. L’azione che Anna condusse a casa
sua nei confronti di Gesù non si configura in alcun suo
particolare, nel racconto di Giovanni, come un processo,
per cui è veramente assurdo pensare ad un processo ebrai­
co contro Gesù inventato per attenuare le responsabilità
romane.
Il quarto Vangelo è in proposito chiarissimo: Anna fece
a Gesù una serie di domande riguardanti i suoi discepoli
e la sua dottrina. Gesù rispose rinviando a quel che ave­
va sempre pubblicamente detto nelle sinagoghe e nel Tèm­
pio. Anna, convintosi evidentemente della pericolosità del
personaggio, lo fece trasferire legato alla casa di Caiafa,
dove convennero anche gli altri membri del Sinedrio.12*18

12 Giovanni 18, 19-24. Nei versetti precedenti (Giovanni 18, 15-18)


si racconta come Simon Pietro sia fatto entrare nell’atrio della casa
dove è custodito Gesù dal discepolo prediletto, che, conosciuto dal som­
mo sacerdote, può intercedere per lui presso la portinaia. Poiché nei
sinottici Simon Pietro entra nelFatrio della casa di Caiafa, può gene­
rarsi la sensazione di un ulteriore groviglio di contraddizioni. Pietro
entra sia nell’atrio di Anna che in quello di Caiafa? O entra nell’atrio
di Caiafa mentre Gesù è interrogato da Anna? In realtà non c’è con­
traddizione, perché i Vangeli sono opera redazionale anche di assem­
blaggio di piccoli racconti raccolti dalla tradizione. I v.v. 15-18 del cap.
18 di Giovanni sono quindi semplicemente una pericope dell’ingresso

Gesù 157 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Fu là che, come testimoniano i Vangeli di Matteo e di


Marco, sulla base di ciò che era stato tramandato da qual­
che fariseo sinedrita amico di Gesù, venne condotta un’in­
vestigazione volta a raccogliere prove da sottoporre a Pi­
lato. I Vangeli di Giovanni e di Luca ignorano questa in­
vestigazione, ma dicono che Gesù fu custodito a casa di
Caiafa.13
Non esiste dunque contraddizione. Semplicemente
Giovanni e Luca non hanno fonti su ciò che accadde a
casa di Caiafa, così come Matteo e Marco, oltre allo stes­
so Luca, non hanno fonti sul passaggio a casa di Anna.
Davanti ai sinedriti convenuti nella residenza di Caiafa
Gesù rimase chiuso in un completo mutismo. Eppure si
ha l’impressione che la situazione non gli fosse del tutto
sfavorevole. Alcuni presenti testimoniarono bensì di aver­
lo udito minacciare di distruzione il Tempio, ma questa
gravissima accusa di sedizione non potè venire assunta
come prova da portare a Pilato, in quanto coloro che la
formularono caddero in contraddizioni, come è naturale
che fosse, se si pensa che erano passati molti anni dal­
l’episodio, e che Gesù era stato allora assai ambiguo.
Si h a insomma l’impressione che se egli avesse assi­
curato che nessuna sommossa era in programma per quel­
la festività pasquale, e se avesse promesso di tornarsene
in Galilea con i suoi apostoli, sarebbe stato lasciato libe­
ro.
Ma Gesù voleva essere inviato al supplizio, per cui non
soltanto non disse nulla di tutto questo, ma, quando gli
venne chiesto se era il Cristo figlio di Dio, rispose in m a­
niera orgogliosamente affermativa, senza chiarire che ciò

di Pietro nell’atrio di Caiafa, redazionalmente inserita al posto sba­


gliato.
13 Giovanni 18, 24 e 18, 28; e Luca 22, 54.

G esù 158 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

non significava che volesse suscitare un’insurrezione ar­


m ata contro i poteri costituiti. Gesù insomma pilotò il
suo interrogatorio in modo da apparire più pericoloso di
quanto in realtà non fosse, per evitare di essere prosciol­
to. Perciò, tutti i convenuti in casa di Caiafa (i sinedriti,
le guardie e lo stesso Gesù), dopo un breve riposo duran­
te quel che era restato della notte, si ritrovarono di nuo­
vo al primo mattino successivo. Si trattò, questa volta,
non di una riunione informale di sinedriti, ma di una se­
duta formale del Sinedrio, in quanto però organo di poli­
zia, non organo giudicante (in quest’ultimo caso avrebbe
dovuto essere convocato nel Tempio).
Il solo Vangelo di Luca racconta questa seduta m attu­
tina.14 I Vangeli di Matteo e di Marco vi accennano sol­
tanto,15 e il Vangelo di Giovanni la salta del tutto, dicen­
do semplicemente che al mattino Gesù fu condotto dalla
casa di Caiafa al pretorio di Pilato.16
È tuttavia evidente come anche in questo caso non
esista contraddizione. I Vangeli si limitano a raccontare
ciascuno un momento dell’azione ebraica contro Gesù:
Giovanni l’inchiesta di Anna, Matteo e Marco l’interro­
gatorio da Caiafa, Luca la seduta m attutina del Sinedrio
a casa di Caiafa. I tre episodi non si sovrappongono, e
ognuno rivela la specificità che lo rese necessario, tanto è
vero che sono narrati, dai diversi Vangeli, in maniera di­
versa l’uno dall’altro. La seduta m attutina servì a forma­
lizzare l’accusa con la quale Gesù doveva essere portato
al cospetto di Pilato. Per questo fu molto breve, risolven­
dosi in una sola domanda formalmente rivolta a Gesù: se
tu sei il Cristo, diccelo. Si trattava di chiedere a Gesù la

14 Luca 22,66-71.
15 Matteo 27, 1; Marco 15, 1.
16 Giovanni 18, 28.

G esù 159 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

conferma ufficiale di quanto era emerso nell’interrogato­


rio notturno, e che lo aveva fatto ritenere un pericoloso
sovvertitore dell’ordine imperiale romano. Gesù rispose
a coloro che lo interrogarono che essi non lo credevano in
realtà il Cristo, ma che in seguito lo avrebbero visto se­
dere alla destra di Dio. Era la prova attesa, e Gesù venne
consegnato a Pilato per essere processato. Non certo per
un dissenso teologico sul titolo messianico che si attribu­
iva, ma perché, ritenendosi il Cristo liberatore, riteneva
che Israele dovesse cercare la sua liberazione, e delegit­
timava quindi ogni potere costituito.
In realtà, poi, la stessa autoproclamazione di Gesù di
essere il Messia venne pretestuosamente assunta come
elemento d’accusa, perché l’unico motivo per cui il som­
mo sacerdote e il Sinedrio volevano eliminarlo al più pre­
sto era che lo ritenevano pericoloso per l’ordine pubblico,
anche perché Gesù stesso aveva voluto che lo credessero.
Ma la pericolosità per l’ordine pubblico era allora consi­
derata, in tutto l’Impero, un reato contro Roma, perché il
potere imperiale di Roma era diventato il fondamento
stesso dell’ordine pubblico di qualsiasi paese. Perciò chi
doveva processare Gesù era il prefetto romano.
Il vero processo a Gesù fu dunque quello che si svolse
davanti a Ponzio Pilato. I Vangeli ce lo raccontano in
maniera così breve e generica, che il lettore moderno po­
trebbe tram e l’impressione che non si sia trattato di un
processo, ma di una semplice ratifica, da parte di Pilato,
delle decisioni prese dal Sinedrio. In realtà Pilato, du­
rante alcune ore del mattino, impostò un rapido (come
del resto allora si usava), ma autonomo e serrato dibatti­
to processuale, con interrogatorio degli accusatori e del­
l’imputato, che si concluse con una sentenza di condanna
a morte sulla croce. I redattori dei Vangeli, però, non ave­
vano fonti adeguate di conoscenza, e neppure alcun inte­

Ge s O 160 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

resse ad approfondire il momento processuale della vi­


cenda. Soltanto il Vangelo di Luca riporta in maniera
esplicita, dandoci un’informazione preziosa, i capi di ac­
cusa formulati dalle massime autorità giudaiche contro
Gesù davanti a Pilato: «Lo abbiamo sorpreso a corrompe­
re il nostro popolo, a distoglierlo dal pagare i tributi a
Cesare, e a dire di se stesso di essere il Cristo re».17

17 Luca 23,2. Si tratta di un versetto di importanza veramente stra­


ordinaria. Esso rivela infatti che l’accusa in base alla quale Gesù fu
condannato a morte era quella di essere un agitatore politico. Ciò non
significa che ne mancassero i risvolti religiosi, se non altro perché a
quell’epoca non esisteva la moderna separazione tra sfere diverse
dell’esistenza umana. Significa certamente, però, che egli venne ac­
cusato non di sostenere dottrine religiose eterodosse, e neppure di
proporre un suo rapporto con Dio privo di legittimazione od offensivo
per la divinità (in tal caso, del resto, sarebbe stato processato dalle
autorità ebraiche, non dal prefetto romano, e, secondo la legge, sareb­
be stato condannato alla lapidazione, non alla crocifissione), bensì di
attentare all’ordine instaurato dall’Impero romano. La prima accusa
riportata da questo versetto di Luca è di corruzione del popolo. Si
tratta di una corruzione intesa nel senso di sobillazione politica e stra­
volgimento dell’ordine, come mostra il verbo greco usato (òiaoxpécpco,
e non il òtacpSeipa) usato da Platone per indicare la corruzione morale
dei giovani di cui venne accusato Socrate). La seconda accusa è quella
di distogliere il popolo dal compiere il primo atto di sudditanza dovu­
to a Roma, quello del pagamento del tributo. Una simile accusa deve
spingere ad una lettura meno piatta dell’usuale del famoso episodio
in cui Gesù si pronuncia sul tributo a Cesare CMatteo 22,15-22; M ar­
co 12,13-17; Luca 20,20-26). Il «rendete a Cesare ciò che è di Cesare»
fu in realtà una sprezzante identificazione dell’Impero con il denaro.
La terza accusa, che sta a fondamento delle altre due, è di volersi re
di Israele, e di misconoscere con ciò la sovranità dell’Impero romano.
Questo versetto, che i cristiani tendono a voler dimenticare, è invece
al centro dell’attenzione di quegli studiosi che pensano a Gesù come a
un capo zelota. Contro costoro va osservato che il fatto —indubbio -
che Gesù sia stato condannato come nemico dell’Impero, non è logica­
mente la stessa cosa che Gesù abbia patrocinato una rivolta armata
contro le autorità romane.

G esù 161 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

Gli altri Vangeli lasciano soltanto intuire l’accusa fon­


damentale rivolta a Gesù presso il prefetto romano, dal­
la prima domanda che questi, secondo tutti i loro raccon­
ti, gli rivolge: tu sei il re dei Giudei? Nella narrazione di
tu tti e quattro i Vangeli Gesù non risponde nulla alle pro­
ve che le autorità giudaiche portano alla loro accusa di
essere, in quanto Cristo re, un pericoloso sovvertitore del­
l’ordine pubblico, tanto che Pilato si meraviglia che un
imputato su cui grava la minaccia di una morte atroce
non faccia nulla per difendersi. Quali siano le prove d’ac­
cusa a cui Gesù non risponde, non ci viene detto, cosicché
ci manca ogni effettiva conoscenza dello svolgimento del
processo che portò alla condanna a morte di Gesù.
I racconti sinottici non ci raccontano in effetti nulla
del processo, se non alcuni particolari chiaramente leg­
gendari,18e non ci fanno capire, essenzialmente perché i
loro stessi redattori non lo hanno capito, il motivo per cui
Pilato condannò Gesù. Il racconto del quarto Vangelo dà
invece un notevole contributo alla comprensione dei fat­
ti. In primo luogo, ricostruisce in maniera verosimile il
18 Ad esempio la moglie di Pilato che intercede presso il marito a
favore di Gesù, o Pilato che si lava le mani davanti alla folla. Ma,
come abbiamo fatto osservare nel testo, nel Vangelo della passione gli
aspetti leggendari della vicenda si rivelano facilmente per tali. Per
questo motivo non va annoverato tra i particolari leggendari il tenta­
tivo, fatto da Pilato, di scambiare la vita di Gesù con quella di Barab­
ba. C’è infatti un indizio preciso che Barabba sia un personaggio sto­
rico. In alcuni dei codici più antichi del Vangelo di Matteo il suo nome
completo risulta essere Gesù Barabba. Ebbene: se la sua figura fosse
stata inventata dai cristiani, il suo nome avrebbe potuto essere quello
stesso del Cristo, che per i cristiani ha una sacra unicità? Nel Vangelo
si trova scritto f)v Sè ò Bapafìflàg X^arrig (Giovanni 18, 40). Il termine
X.r|crtr)5 , che letteralmente vuol dire ‘brigante”, era l’appellativo co­
munemente dato all’epoca ai guerrieri zeloti. Barabba, il cui nome
significa in aramaico Figlio di Dio (bar Abbàs: figlio del Padre, cioè
Dio), era dunque probabilmente un Messia zelota.

Gesù 162 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

dialogo iniziale tra Pilato e Gesù. Quando Pilato gli chie­


de se è re dei Giudei, Gesù gli risponde con una controdo­
manda, chiedendogli come sia stato informato di ciò che
dice. Pilato dice allora stizzito che, non essendo giudeo, è
ovvio che si basi sulle accuse portategli dalle autorità
ebraiche, dalle quali lo invita a difendersi, se vuol avere
salva la vita. Gesù replica che il suo regno non appartie­
ne all’ordine esistente del mondo,19 perché altrim enti
avrebbe avuto guardie pronte a difenderlo, e, alla doman­
da di Pilato se dunque si ritiene re, risponde di esserlo,
in quanto venuto al mondo per testimoniare la verità. Al
che Pilato osserva sprezzante: che cosa è mai la verità?
Quindi passa a prendere in considerazione le varie prove
d’accusa.
Nessuno dei Vangeli parla di una sentenza di Pilato.
Si limitano a dire che egli consegnò Gesù alle autorità
giudaiche perché fosse crocifisso, alimentando così l’equi­
voco per cui si ritiene che il processo a Gesù sia stato
quello ebraico, e che Pilato sia intervenuto con un sem­
plice atto di ratifica, necessario, si dice, per una condan­
na a morte. Abbiamo già spiegato come le cose non possa­
no essere state così, e come quello romano di Pilato sia
stato l’unico vero processo a Gesù. Esso dovette quindi
necessariamente chiudersi con una formale sentenza.
Perché la sentenza fu di condanna a morte mediante
crocifissione? Perché Gesù era stato accusato dai capi
ebraici di essersi proclamato re dei Giudei in quanto fi­

19 paoiXeia f| è|xr| otite eotlv èk toO tcóanou xotrrou (Giovanni 18,


36). Basta consultare un qualsiasi dizionario di greco per constatare
che ó KÓopos è l’ordine delle cose, l’organizzazione sociale, o la costi­
tuzione dello Stato, e solo in subordine il nostro universo. Far dire a
Gesù, in questo versetto, che il suo regno non è di questo mondo per­
ché è trascendente, destinato a realizzarsi soltanto nell’aldilà, è vera­
mente tradire lo spirito profondo del suo ideale.

G esù 163 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

glio di Dio, ed una simile proclamazione implicava una


minaccia all’ordine imperiale romano, punibile, per i non
cittadini romani, appunto con il supplizio mortale della
crocifissione. Perché i capi ebraici furono evidentemente
in grado di addurre qualche prova alle loro accuse, tra
cui soprattutto la confessione stessa di Gesù. Perché, infi­
ne, Gesù rimase silenzioso di fronte a tali prove, rinun­
ciando a controbatterle o a sminuirne la portata. «Perché
non parli?», gli chiese ad un certo punto stupito Pilato,
«non sai che ho l’autorità di liberarti e l’autorità d im an ­
darti sulla croce?».20 Gesù non disse di fronte a Pilato,
come non aveva detto dinanzi al Sinedrio, l’unica cosa
che lo avrebbe salvato, che cioè la sua proclamazione di
essere re dei Giudei era disgiunta da qualsiasi intenzio­
ne di rivolta arm ata contro l’ordine imperiale romano.
Sarebbe stato in tal caso considerato con innocuo folle, e
sarebbe stato liberato.
Pilato cercò davvero di mandar libero Gesù? O questa
è un’invenzione dei Vangeli per attribuire agli ebrei tu t­
te le colpe della sua morte? Se avessimo soltanto i Vange­
li sinottici, potremmo anche pensare ad un’invenzione.
Ma se ragioniamo sul Vangelo di Giovanni, sulla base
delle informazioni su Pilato che possiamo trarre da Giu­
seppe Flavio, ci rendiamo conto che non si tratta affatto
di un’invenzione dei Vangeli.
Pilato, sappiamo da Giuseppe Flavio, fu un uomo ar­
rogante e crudele, che offese in molte occasioni le consue­
tudini ebraiche, suscitando sommosse. I capi ebraici ave­
vano più volte inviato a Roma ambascerie di protesta con­
tro i suoi metodi, che mettevano a repentaglio l’ordine
pubblico, e a Roma c’erano alcuni che premevano per la
sua destituzione, convinti che la sua permanenza in Giu­

20 Giovanni 19, 10.

Gesù 164 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

dea avrebbe compromesso la fedeltà dei capi locali del­


l’Impero. Di fronte a Gesù, sedicente re senza esercito e
senza seguaci pronti ad insorgere, un uomo nella sua
posizione non poteva non sospettare una trappola tesagli
dalle autorità locali per fargli condannare un innocente,
e accusarlo poi a Roma di inutile spargimento di sangue.
Pilato considerò Gesù uno strano pazzo, religiosamente
fanatico ma innocuo. Lo si capisce da un’attenta lettura
del Vangelo di Giovanni, ma anche a fil di pura logica. Se
non fece alcun tentativo di catturare almeno qualche suo
seguace e di mandarlo a morte, vuol dire che non consi­
derava Gesù un pericoloso capo ribelle. Perciò cercò di
mandarlo libero, non certo per timore di uccidere un in­
nocente (non era uomo da avere questi scrupoli), ma per
evitare un possibile danno alla sua carriera.
Ad un certo punto, nella narrazione di Giovanni, egli
disse ai capi ebraici: «Prendetevelo e crocifiggetelo; io in­
fatti non trovo in lui colpa».21Destoricizzata, questa fra­
se è una contraddizione. Inserita nel suo contesto stori­
co, che possiamo ricostruire dagli scritti di Giuseppe Fla­
vio, appare un’espressione paradossale di furbizia e di
disprezzo. Dice in sostanza Pilato ai capi ebrei: ho capito
che mi volete forzare ad una condanna, anche se io non
trovo vera colpa; se volete prescindere da me, allora cro­
cifiggetelo da voi, tanto del potere romano non v’importa.
Perché dunque Pilato rinunciò, alla fine, ad una sen­
tenza assolutoria? La chiave sta in un versetto del Van­
gelo di Giovanni: «Da quel momento Pilato cercava di li­
berarlo, ma i Giudei gridarono: se liberi costui, non sei
amico di Cesare! Chiunque infatti si fa re si mette contro
Cesare».22

21 Giovanni 19, 6.
22 Giovanni 19,12.

Gesù 165 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

A sentirsi dire ciò, Pilato capì che l’assoluzione di Gesù


poteva rivelarsi per lui una trappola ben più insidiosa
della sua condanna. Gesù si era dichiarato infatti pub­
blicamente, anche al cospetto dello stesso Pilato, re dei
Giudei, negando in tal modo implicitamente il diritto
esclusivo del Cesare romano di disporre di ogni corona e
di ogni potere. Pilato certamente considerò per niente
pericolosa e molto ridicola la rivendicazione regale di
Gesù, ma se non l’avesse punita, di fronte ad una precisa
richiesta in tal senso delle autorità locali, avrebbe potuto
davvero essere accusato, a Roma, di non essere amico di
Cesare. Egli non poteva illudersi che tale accusa non gli
sarebbe stata mossa, perché sapeva che i capi ebraici lo
odiavano, a causa della sua scarsa considerazione dei loro
costumi religiosi, e già avevano inviato in passato amba­
scerie a Roma contro di lui. Pilato, in definitiva, concluse
il suo processo a Gesù con una sentenza di condanna a
morte essenzialmente per salvaguardare la sua carriera.
Gesù andò a morire, in quella vigilia della festività
pasquale del 36 d. C. ,23A mezzogiorno, all’ora in cui a

23 Secondo tutti e quattro i Vangeli Gesù morì una vigilia del sabato,
cioè un venerdì. Per i Vangeli sinottici quel venerdì era il giorno di
Pasqua (il quattordicesimo del mese di Nisan). Per il Vangelo di Gio­
vanni quel venerdì era invece la vigilia della Pasqua (cioè il tredicesi­
mo giorno del mese di Nisan). Sembra più attendibile l’indicazione di
Giovanni, perché un’esecuzione capitale nel giorno di Pasqua sarebbe
stata offensiva per i costumi ebraici. Secondo tale indicazione, tutta­
via, la Pasqua dell’anno in cui morì Gesù sarebbe caduta di sabato, e
ciò sembrerebbe in contraddizione con la cronologia da noi adottata.
Nel decennio del governo di Pilato, infatti, la Pasqua (il quattordici
Nisan) cadde di sabato due sole volte: l’8 aprile del 30 d. C. e il 4 aprile
del 33 d. C .. Non dovrebbe quindi Gesù essere morto nel 30 o nel 33,
e non nel 36 d. C.? Abbiamo visto a suo tempo le concordanze cronolo­
giche che impongono di fissare la morte di Gesù al 36 d. C. . Questa
data non è contraddetta dal fatto che allora la Pasqua sia caduta di
sabato. Il calendario ebraico fissava infatti la Pasqua al quattordice-

G esù 166 Uomo nella storu


M assimo B ontempelli

Gerusalemme si immolavano gli agnelli per il banchetto


pasquale della sera, venne innalzato il macabro palo sul
quale il suo corpo era stato inchiodato, per il più disuma­
no dei supplizi. Era il destino che si era scelto. Subito
dopo il suo ingresso messianico a Gerusalemme aveva
detto: «In questo ordine di cose, chi ama la sua vita la
perde, e chi invece odia la sua vita, le conserva vitalità
imperitura».24 Ed aveva anche detto: «Quando sarò in­
nalzato da terra, attrarrò tutti a me».25
La realtà fu diversa. Gerusalemme non si fece a ttrar­
re da lui, non lo riconobbe come Servo Sofferente messia­
nico, ma rimase lontana, e indifferente al suo spietato
supplizio. Peggio ancora, tutti i suoi apostoli, nessuno
escluso, neppure Simon Pietro, ebbero paura delle possi­
bili conseguenze penali, anche per loro, della condanna
del loro maestro, e lo lasciarono solo con i suoi patimenti.
Non si ricorderà mai abbastanza come una prova irrefu­
tabile della storicità dei Vangeli stia proprio nell’averci
tramandato anche questo lato agghiacciante della pas­
sione di Gesù, che squalifica i fondatori della Chiesa edi­
ficata sul suo nome.
Alcune donne soltanto, ben più coraggiose dei disce­
poli maschi di Gesù, gli rimasero amorevolmente accan­
to fino alla fine. I Vangeli non sono concordi nella loro
identificazione. Persino sua madre Maria risulta assente
nel racconto di Matteo e di Marco.
simo giorno di Nisan, e il Nisan, come ogni altro mese, cominciava
con la luna nuova, per definizione non visibile. Poiché l’evento inizia­
le del mese, di per sé di difficile rilevazione, era fissato sulla base di
osservazioni empiriche e non di calcoli astronomici, non è affatto det­
to che il giorno settimanale di una Pasqua lontana, calcolato oggi per
via astronomica, coincida con il giorno settimanale stabilito dai sa­
cerdoti ebrei dell’epoca.
24 Giovanni 12, 25.
25 Giovanni 12, 32.

Gesù 167 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Una sola donna è menzionata sempre presente da tu t­


ti i quattro Vangeli: Maria Maddalena, detta anche di
Magdala. La sua fedeltà a Gesù non ebbe alcuna eclisse:
dobbiamo quindi credere che più di tutti soffrì la sua
morte, e non dobbiamo stupirci che fu poi colei che per
prima lo volle risorto. Fu lei, la donna di Gesù, a credere
in lui forse più di quanto egli riuscì a credere in se stesso.
Gesù, infatti, quando si sentì morire, urlò, sono i Vangeli
a testimoniarlo, di sentirsi abbandonato da Dio.
Allorché, poco meno di venti ore prima, aveva bevuto
con i suoi apostoli l’ultimo calice di vino, aveva prean­
nunciato che sarebbe tornato nuovamente a bere il frut­
to della vite, così disse, nel regno di Dio . Si aspettava
dunque che Dio lo avrebbe salvato proprio sul ciglio della
morte. Non lo aveva forse profetizzato Isaia per il Servo
Sofferente? Dio doveva ben mantenere le sue promesse!
Invece le cose non andarono così.
Il levarsi della croce sul Golgota non fu l’inizio del com­
pimento storico del regno di Dio. La croce di Gesù non
scosse Gerusalemme più di quelle dei due partigiani ze-
loti levate a fianco della sua.
Egli dovette accorgersi che, innalzato, non attraeva a
sé tutti, secondo quanto aveva incautamente profetizza­
to, ma attraeva soltanto la sua donna, e qualche altra
donna con lei. Man mano che le forze gli mancavano, capì
che non ne avrebbe più avute.
Era salito sulla croce in odio a una vita vissuta entro
un ingiusto ordine della società, secondo quanto aveva
esplicitamente detto, ma non ne avrebbe avuto in cambio
una vitalità imperitura.
Con la sua morte, la straordinaria partita da lui in­
gaggiata a Gerusalemme e, condotta con tanto estremo
rigore morale, e persino tanta ammirevole astuzia prati­
ca, andò incontro ad una sconfitta.

Gesù 168 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Fu, per Gesù e per Maria Maddalena, una tragedia


inaudita ed irredimibile, come lo è per ciascuno di noi
nella misura in cui si sente coinvolto nella loro straordi­
naria esistenza.
Questa, non altra, è la storia di Gesù.

Gesù 169 Uomo n k ija stoma


8. Gesù nella storia e oltre la storia

Tre questioni ancora. La prima: Gesù è stato un eroe


tragico o un povero illuso? La seconda: la storia di Gesù
continua in tu tti coloro che lo vogliono risorto, o è stata
definitivamente conclusa dalla sua sconfitta a Gerusa­
lemme? La terza: Gesù esiste soltanto come figura del
nostro passato storico, oppure è anche la figurazione di
una realtà metastorica?
La prima questione non può essere seriamente affron­
tata se non collocando la vicenda di Gesù nel contesto
culturale entro cui effettivamente si svolse. Certo che se.
l’uomo di una metropoli contemporanea pensasse di po­
ter far crollare 1’economia globale inchiodandosi ad un
computer attraverso il quale passano importanti transa­
zioni finanziarie, sarebbe un pazzo.
Ma Gesù, pensando di poter far crollare tutti gli in­
giusti poteri mondani facendosi innalzare su una croce,
a Gerusalemme e alla vigilia di pasqua, pazzo non era
affatto. Quella croce, infatti, in quella situazione di tem ­
po e di luogo, trasmetteva a tutti i conoscitori del profeti­
smo biblico un significato di altissima intensità: l’uomo
che vi era appeso era un inviato di Dio che stava scontan­
do nelle sue carni i peccati imperdonabili degli altri uo­
mini. Ma il popolo nel quale Gesù era nato, e per il quale
si era fatto mettere su quella croce, era il popolo stesso
della Bibbia. Esso era inoltre attraversato da profonde
correnti di messianismo militante. Allora, infine, i mes­
saggi lanciati dagli individui alla società non si estingue­
vano, come oggi, nel deserto spirituale del viavai produt­
tivo e dell’indifferenza di massa, ma erano sempre in
qualche modo raccolti, e, se erano messaggi dotati di un
significato biblico, avevano una forte eco nel mondo ebrai­
co.

‘ G esù 170 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

In quel contesto storico, dunque, non era affatto una


speranza del tutto irrealistica quella, che Gesù aveva
coltivato, di suscitare, mediante la croce, il suo riconosci­
mento quale Messia liberatore, e il conseguente rifiuto
della sottomissione a tutti i poteri contrari alla volontà
di Dio come egli l’aveva espressa.
Forse, fidando nella protezione divina, si era anche
preparato a guidare personalmente la transizione alla
società di uomini dotati tutti di pari dignità, che la sua
cultura gli faceva pensare come il regno di Dio. Altrimen­
ti mal si spiegherebbe l’entrata in scena, dopo poco tem­
po che era sulla croce, di colui che i Vangeli ci presentano
come un suo amico segreto e molto influente, Giuseppe
d’Arimatea, il quale, approfittando del divieto religioso
ebraico di tenere appesi cadaveri durante la festa, va a
chiedere a Pilato il permesso di prendersi il suo corpo,
togliendolo dalla croce.1
Il Vangelo di Marco ci racconta lo stupore di Pilato
alla richiesta di Giuseppe, che faceva supporre l’aw enu-
ta morte del condannato al supplizio.12 Sappiamo infatti,
dalla testimonianza di Giuseppe Flavio, ma anche dalle
atroci esperienze dei campi di sterminio nazisti, come la
crocifissione sia una tortura che può durare due o persi­
no tre giorni prima che sopravvenga la morte. Pare dun­
que verosimile che Giuseppe d’Arimatea, come suppose
a suo tempo lo studioso inglese Hugh Schonfield, m iras­
se in realtà ad avvalersi della sua insospettabilità di in­
fluente membro del Sinedrio per tirar giù dalla croce Gesù
ancora vivo, e agisse in questo modo per realizzare un’idea
dello stesso Gesù.3

1 Matteo 27, 57-58; Marco 15, 43; Luca 23, 50; Giovanni 19, 38.
2 Marco 15, 44.
3 H ugh S chonfield , Cristo non voleva morire, Tinaldo Editore, 1968.

G esù 171 Uomo nella storia


Massimo B ontempelli

Gesù fu insomma il nascosto ed intelligentissimo regi­


sta della sua passione, con l’obiettivo, nel suo contesto
storico abbastanza realistico, di essere finalmente rico­
nosciuto Messia, e di promuovere per questa via la rea­
lizzazione di una nuova società, chiamata regno di Dio.
Tutto ciò fu espressione di un coraggio eroico. Il coraggio
intellettuale di capire che la via del semplice appello pre­
dicatorio alla trasformazione non mutava le cose.4 Il co­
raggio morale di rimanere tuttavia fedele al suo ideale,
in una situazione in cui chiunque altro sarebbe arretrato
su posizioni conformistiche rispetto alle aspettative del­
l’ambiente. E, soprattutto, il coraggio spirituale e fisico
di intuire e di volere il suo supplizio come unica maniera
rimastagli di essere fedele a se stesso, e di poter ancora
lottare per il regno di Dio.5
La seconda questione fa correre il rischio, a chi se ne
fa carico, di un’autoillusione consolatoria sulla vittoria
postuma di Gesù. La verità esige invece una riflessione
rigorosa e senza illusioni. Non si può dimenticare, allora,
che lo spirito di Gesù è bensì inizialmente risorto a ttra ­
verso Maria Maddalena, ma la sua memoria e poi stata
gestita non da costei, ma dalla Chiesa apostolica e da
Paolo, il vero fondatore della religione cristiana. Questa
gestione ha determinato una frattura storica tra la fede
per cui Gesù era morto e la fede successiva nel Cristo
risorto.
La fede per cui Gesù era morto era la fede che il regno
di Dio fosse già stato instaurato sovrannaturalmente, e
che fosse quindi un orizzonte storico idealmente del tu t­
to attuale, da tradurre in comportamenti concreti a ttra ­
verso azioni conseguenti. La più conseguente di queste

4 Cfr. Giovanni 12, 37-40.


5 Cfr. Giovanni 12, 27 e 14, 31.

Gesù 172 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

azioni fu la scelta stessa di Gesù di salire sulla croce. La


fede nel Cristo risorto perse invece del tutto la distinzio­
ne gesuana tra l’avvento concreto del regno di Dio, anco­
ra futuro, e la sua instaurazione sovrannaturale, già av­
venuta. In tal modo il regno di Dio cessò di essere pensa­
to come un’attualità storica, da portare a compimento con
un’azione storica, e diventò l’oggetto di un’attesa miraco­
listica, l’attesa della cosiddetta seconda venuta del Cri­
sto.
Lo spirito religioso cominciò di conseguenza a sepa­
rarsi dalla volontà di trasformazione politico-sociale,
mentre in Gesù i due momenti avevano mantenuto una
stretta unità. Per Gesù credere nel regno di Dio era vole­
re il crollo dei poteri mondani e la redistribuzione delle
ricchezze, l’anno di grazia del Signore. Per Paolo è invece
dovuta ubbidienza ai poteri terreni, e l’impegno religioso
si riduce alla predicazione del Cristo risorto. Non che il
mondo non debba essere profondamente trasformato, ma
questa trasformazione è pensata passivamente come frut­
to esclusivo di un futuro intervento divino, quando il Cri­
sto tornerà sulla Terra. Prima di allora, i poteri terreni
sono ancora voluti da Dio, ed il cristiano deve quindi loro
ubbidienza, almeno finché non gli è impedita la manife­
stazione della fede.
I Vangeli sono stati redatti a partire da questa nuova
fede della comunità cristiana primitiva. Essi, quindi, pur
essendo basati sulla storicità di una tradizione di testi­
monianze su Gesù, ne reinterpretano la figura in chiave
miracolistica. Per questo devono essere a loro volta in­
terpretati, e la loro storicità deve essere enucleata da un
involucro leggendario che talvolta porta fuori strada.
Col trascorrere dei secoli, e il passaggio della Chiesa
cristiana dalle catacombe al potere, la religione basata
sulla figura teologica del Cristo diventò sideralmente lon­

Gesù 173 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

tana dalla fede proposta dal Gesù storico. All’impegno di


trasformazione personale e collettiva necessario alla re­
alizzazione delle profezie bibliche subentrò l’adesione fine
a se stessa a Chiese istituzionalizzate. Al posto del regno
di Dio di cui promuovere l’avvento storico sulla Terra ven­
ne messo il Paradiso ultraterreno. Tanto che oggi, quan­
do i cristiani recitano il Padre nostro, e pronunciano la
frase «venga il tuo regno», non sanno letteralmente cosa
stanno dicendo, perché ignorano che il significato origi­
nario di quell’espressione era un auspicio di rovina per
tutti i governi e i poteri economici della Terra.
Nulla del progetto storico di Gesù ha quindi continua­
to a vivere nel cristianesimo storico bimillenario, che nel
suo complesso, con l’eccezione di alcune sue esperienze
minoritarie di trascurabile peso storico, rappresenta anzi
l’ultimo e più grosso chiodo che l’ha fissato alla croce,
l’estremo oblio della sua memoria. Diciamo allora la ve­
rità, una verità per noi tragica, quasi insopportabile: l’ab­
bandono dei suoi seguaci e la vittoria dei suoi nemici han­
no sconfitto Gesù non soltanto a Gerusalemme nel 36 d.
C., ma anche, ed ancor più, nella storia successiva fino
ad oggi. Gesù è, allora, soltanto uno dei vinti della storia,
oppure la storia non esaurisce il significato e la portata
della sua figura?
La sconfitta subita da Gesù a Gerusalemme è stata il
dramma del suo amore. Ci vuole un immenso amore, per
se stessi,6 per i propri amici, e per tu tti coloro che amici

6 Giovanni 16, 22-25. La scienza psicologica insegna a distinguere


l’amore di se stessi dall’egoismo. Mentre infatti l’egoismo nasce da un
disprezzo inconscio di se stessi, che porta a disprezzare gli altri e a
trattarli strumentalmente per puntellare un’immagine di se stessi
compensatoria delle proprie insicurezze, l’amore per se stessi è l’amo­
re della comune radice umana avvertita, oltre che negli altri, anche e
soprattutto in se stessi

G esù 174 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

potrebbero esserlo,7per spendere una vita intera a colti­


vare l’ideale di una società in cui ogni essere umano sia
libero di esprimere le sue potenzialità umane.
E ci vuole una immensa potenza di questo immenso
amore per andare volontariamente incontro ad un sup­
plizio atroce, quando le circostanze non lascino altra pos­
sibilità di non indebolire la testimonianza di quell’idea­
le.
Gesù ha trovato in se stesso tutto questo amore, e ne
ha avuto compiuta consapevolezza, perché ha posto l’amo­
re al di sopra di ogni altra legge, prescrivendolo come suo
unico comandamento:

«Questo è il mio comandamento, che vi amiate


gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha
un amore maggiore di chi dà la vita per i suoi
amici, e voi siete miei amici. Non vi dico servi
perché il servo non sa cosa fa il suo signore. Vi ho
invece unito come amici perché vi ho fatto cono­
scere tutto ciò che ho ascoltato dal Padre mio».8

L’amore, d’altra parte, essendo ontologicamente radi­


cato nel riconoscimento reciproco tra gli individui umani
necessario alla costituzione della loro identità soggetti­
va, rappresenta una sorgente umanamente perenne di
comportamenti creativi.

7 L’amore più grande è dare la vita per i propri amici, dice Gesù in
Giovanni 12,13. Anche per lui, quindi, come per molti filosofi greci la
<piXia è l’architrave di ima vita sensata. Alla base stessa dell’amore,
quindi, c’è la «piXXa, intesa come condivisione di intenti spirituali, de­
clinata da Gesù come condizione della speranza nell’avvento storico
del regno di Dio.
8 Giovanni 12,12-15.

Gesù 175 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

Gesù, perciò, disegnando con i suoi atti, con il suo sa­


crificio finale, e con la consapevolezza del loro senso, la
figura stessa dell’amore, si è collocato su un piano che è
oltre la storia.
Gesù, poi, si è proposto come oggetto d’amore soltanto
proponendo la sua identificazione con ogni individuo
umano bisognoso d’amore. Nella narrazione evangelica,
egli immagina di spiegare in questi termini ai suoi pre­
scelti la ricompensa del regno di Dio:

«Sono stato affamato e mi avete dato da man­


giare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, se­
devo straniero alla vostra porta e mi avete accol­
to, ero nudo e mi avete coperto, ero debole e mi
avete soccorso, stavo in carcere e siete venuti da
me. Allora costoro gli diranno: Signore, ma quan­
do ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato
da mangiare, o che avevi sete e ti abbiamo dato
da bere, o straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e
ti abbiamo coperto, o debole e ti abbiamo soccor­
so, o in carcere e siamo venuti da te? E il re ri­
sponderà loro: ogni volta che lo avete fatto a uno
qualsiasi dei miei fratelli, lo avete fatto a me».9

Attraverso questa identificazione, manifestata da tutti


i suoi atti, Gesù si è identificato con un principio assiolo-
gico che trascende, in quanto fonte inesauribile di nuova
storia, ogni storicità empirica: l’intrinseco valore etico del­
l’individualità umana, indipendentemente dalle circostan­
ze fattuali e dai ruoli sociali in cui si presenta.
Dare a ciascuno ciò che gli spetta in nome del valore
universale della sua individualità, ed eliminare gli osta­

9 Matteo 25,35-40.

G esù 176 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

coli che impediscono il pratico riconoscimento di questo


valore, è sempre e dovunque, anche se diversamente de­
clinato e variamente sminuito nei differenti tempi e luo­
ghi della storia, il significato della giustizia.
Tale giustizia è, nelle narrazioni evangeliche, la forza
motivazionale di tutti gli atti di Gesù, e il contenuto rea­
le del suo ideale supremo, per il quale è morto. Avendo
spazio, si potrebbe infatti mostrare, storicamente e filo­
logicamente, come l’ideale del regno di Dio altro non sia
che l’ideale della giustizia sulla Terra.
E si potrebbe mostrare, filosoficamente, come la giu­
stizia, in quanto potenzialità m etastorica dell’essere
umano, abbia la medesima radice ontologica dell’amore.
Non è un caso, dunque, che Gesù ci abbia dato, nella
sua vicenda storica, la simultanea figurazione metasto­
rica dell’amore e della giustizia, e che, avendo raggiunto
piena consapevolezza intuitiva dell’amore, sia stato com­
piutamente consapevole anche della giustizia.
Egli ha sicuramente saputo, infatti, che la giustizia
non consiste nel trattare tutti, potenti e deboli, oppresso­
ri ed oppressi, con lo stesso metro e la stessa considera­
zione. Ha saputo, cioè, che la violenza dell’oppressione
deve essere riequilibrata da un’attenzione e da un impe­
gno molto maggiore a favore degli oppressi, per poter eli­
minare gli ostacoli al pratico riconoscimento dell’univer­
sale valore di ogni individualità, di cui la giustizia consi­
ste. Si noti infatti come l’attività guaritrice e consolatri­
ce di Gesù sia stata svolta a favore degli oppressi e degli
ùmili, mai dei potenti della Terra.
Egli ha saputo, inoltre, che la giustizia viene per sua
natura lesa non soltanto da coloro che la offendono diret­
tamente ed esplicitamente con i loro atti, m a anche da
coloro che si limitano alla fruizione soddisfatta e senza
problemi dei loro privilegi. Al punto da maledirli, prean­

Gesù 177 Uomo nella storia


1
M assimo B ontempelli

nunciando la fame a coloro che sono sazi nel privilegio, i I


lutto e il pianto a coloro che irresponsabilmente se la ri
dono in un mondo ingiusto.101La semplice, sia pur fattiva,
carità verso i miserabili, alla Maria Teresa di Calcutta, ò
molto lontana dall’esempio dato dal Gesù storico, che non
disgiunge mai la pietà verso i deboli da una volontà in­
crollabile di giustizia, che comporta anche l’ira verso gli
oppressori.11Gesù ha compreso che non si può essere giu­
sti se non si sceglie la giustizia, quando è necessario, an­
che contro la pace.12 Il regno di Dio, nell’accezione origi­
naria di Gesù, porta la distruzione, non la pace, ai reggi­
tori e ai beneficiari di un ordine ingiusto.13
Seguire Gesù nel suo senso inflessibile della giustizia
potrebbe però portare alla disperazione, in un mondo in
cui l’ingiustizia abbia sempre dalla sua parte la forza e
l’apparenza della necessità. Gesù, nel suo chiamare l’uma­
nità alla giustizia, ha posto la sua persona come realtà
della speranza. Se lui non è un uomo qualsiasi, ma porta
il segno di Dio, allora acquistano un preciso significato di
speranza le famose beatitudini del cosiddetto discorso
della montagna :
10 Luca 6, 25.
11 La giustizia è, nel pensiero di Gesù, simultaneamente la volontà
di Dio e il primo dovere degli uomini, come risulta ad esempio da
Matteo 6, 33. L’equivalenza tra volontà di Dio e giustizia porta molte
traduzioni cattoliche a rendere l’inequivocabile termine 6ixcuocruvr|
con “volontà di Dio” (ad esempio in Matteo 5,20 o persino in Matteo 6,
33). Non è sbagliato, appunto perché per Gesù la volontà di Dio è la
giustizia, ma inganna il lettore che non sa il greco. È uno dei modi
cattolici di censurare Gesù.
12 Matteo 10, 34; Luca 12, 51.
13 Svuotata della giustizia così intesa, e ridotta a culto, predicazione
e soccorso ai bisognosi, la religione stessa è per Gesù causa di perdi­
zione. «Non chi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma
chi fa la volontà del Padre mio [cioè la giustizia]. Molti diranno in
quel giorno: Signore, Signore! Abbiamo predicato in tuo nome, nel tuo

Gesù 178 Uomo nella storia


M assimo B ontempelli

«Beati coloro che sono senza potere,14


perché è per essi il regno dei cieli.
Beati coloro che sono neH’afflizione,
perché è ad essi che sarà dato conforto.
Beati coloro che sono capaci di amare,15
perché saranno gli eredi della Terra.
Beati coloro che hanno fame e sete
di giustizia, perché saranno saziati».16

A questo punto la risposta all’ultima questione che ci


eravamo proposti è venuta praticamente da sola: Gesù,
pur tragicamente sconfitto a Gerusalemme nel 36 d. C., e
pur tragicamente obliato persino, e talora soprattutto,
da coloro che hanno fondato su di lui la loro religione,
non è soltanto uno dei sia pur grandi vinti della storia,
perché non esiste soltanto come figura del nostro passa­
to, storicamente omogenea ad altre precedenti e succes­
sive, ma è la figurazione metastorica della forza creatrice
nome abbiamo scacciato i demoni, in tuo nome abbiamo compiuto opere
dello spirito! Ma io ripeterò loro: non vi ho conosciuto come i miei
fedeli! Allontanatevi perciò da me!» (Matteo 7, 21-25).
14 L’espressione greca «oi jtooxoI tw jiveupaxi.» suona, letteralmente
intesa, «i poveri quanto allo spirito». E però indisponente tradurre il
versetto come «beati i poveri di spirito», che nel comune sentire fini­
sce per significare “beati gli sciocchi”. Il termine greco Jtveópa indica,
tra l’altro, un’energia proiettata all’esterno e produttrice di risultati
pratici, una potenza. Chi non ne dispone, quindi, è anche l’uomo privo
di potere nella società.
15 II termine greco qui usato è «oi lipasi;», plurale sostantivato del­
l’aggettivo jtpào;, solitamente tradotto con “i miti”. Jipào;, in realtà,
indica la mansuetudine se è riferito agli animali, ma, riguardo ai com­
portamenti e ai sentimenti umani, designa benignità e amorevole in­
teressamento.
16 II brano è in Matteo 5, 3-6.

Gesù 179 U omo nella storia


M assimo B ontempelli

dell’amore, del valore universale dell’individualità, della


priorità assiologica della giustizia, del principio della spe­
ranza.
Ma la forza creatrice dell’amore, il valore universale
dell’individualità, la priorità assiologica della giustizia,
il principio della speranza, sono, filosoficamente parlan­
do, le dimensioni di esistenza della libertà, e le articola­
zioni concettuali della verità logico-ontologica.

Se non impropriamente chiamiamo Dio la natura tra ­


scendentale della verità perennemente umana, Gesù ap­
pare come una singolarità irripetibile segnata da Dio. Giu­
stamente, quindi, egli ha detto ai suoi discepoli: «Se ri­
m arrete nel mio logo conoscerete la verità, e la verità vi
farà liberi».17
Non si tratta, invero, di una conoscenza razionale del­
la verità, perché Gesù non è stato un filosofo. Egli ha
piuttosto seguito, con irripetibile coerenza, una sua in­
tuizione essenziale, anche se naturalm ente concretizza­
ta nelle forme culturali del suo tempo e del suo ambien­
te, della legge divina universale, che ha tradotto in tutti
i suoi atti, nella vita e nella morte.
In maniera più aderente al suo genio, egli ha parlato
di un «fare la verità»18mediante cui si va nella direzione
della luce divina.
Gesù è quindi stato un uomo nella storia, ma lo è stato
in modo da collocare la sua figura oltre la storia, alle sor­
genti di quella libertà morale da cui perennemente sgor­
ga storia, e da porsi quindi come fonte di luce per ogni
epoca.

17 Giovanni 8, 32.
18 Nel testo evangelico c’è un pregnante «ó jtoiròv xr)v ctX.r|0ewxv», che
vuol dire alla lettera “colui che fa la verità”.

G esù 180 Uomo nella storia


C ostanzo P reve

D io n el P e n sie ro
Ringrazio l’amico fraterno Marino Badiale, ordinario di Matema­
tica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, per la feconda collabora­
zione nella stesura del testo finale di questo saggio.
Costanzo Preve
1. Prologo

Questo scritto propone al lettore una riflessione sui


rapporti che intercorrono fra i due poli dell’esperienza
religiosa e del pensiero filosofico neH’anibito unitario della
costituzione del legame sociale capitalistico. La sua let­
tura richiederà probabilmente uno sforzo maggiore, ri­
spetto alla lettura di una “Vita di Gesù”, anche da parte
di chi dispone di una preparazione di base nella storia
delle idee filosofiche. Tuttavia, si tra tta di uno sforzo cui
invitiamo il lettore. Le ragioni di questo invito sonò mol­
te, ma in questo breve prologo le compendieremo in tre
ordini distinti di motivazioni.

In primo luogo, è evidente che il rapporto che intercor­


re fra il Gesù della storia ed il Cristo della fede non può
essere compreso al di fuori del concetto filosofico e reli­
gioso che ci facciamo di Dio e della divinità. Si tra tta di
una vera e propria ovvietà, e proprio per questo, come
spesso avviene nel caso delle ovvietà, non ci riflettiamo
sopra in modo adeguato. Al primo sguardo, le cose posso­
no sembrare molto semplici, e le alternative rigide e ben
fissate. Da un lato, Dio esiste (e ci si può arrivare per
fede, rivelazione, ragione, eccetera), oppure Dio non esi­
ste (e ci si può credere per ignoranza, superstizione, de­
bolezza, illusione, eccetera). Dall’altro, Gesù non era al­
tro che un uomo come noi (anche se eccezionalmente buo­
no, intelligente, dotato di poteri taumaturgici, eccetera,
che non potevano però ragionevolmente giungere anche
al miracolo della resurrezione dopo la morte), oppure, al
contrario, era il Figlio di Dio inteso come l’incarnazione
della divinità stessa (e per questa ragione ha potuto ri­
sorgere, e con la sua resurrezione garantire anche la pro­
messa della nostra personale resurrezione).

Gesù 183 Dio n el pensiero


C ostanzo P reve

La semplicità di questa coppia di alternative è però


solo apparente. Questa coppia di alternative (Dio esiste,
oppure Dio non esiste; Gesù era un uomo che fu poi cre­
duto Dio, oppure Gesù era in realtà un Dio) non permet­
te alcun dialogo filosofico, ma consente soltanto l’espan­
sione di una serie di argomentazioni contrapposte, che
possono essere ascoltate con maggiore o minore cortesia
ed attenzione, senza che questo tolga a questa esposizio­
ne il carattere di un monologo a due. Occorre dunque cer­
care di uscire dal terreno scivoloso di questo interm ina­
bile monologo a due, che negli ultimi duemila anni è già
stato rappresentato milioni di volte, al punto che gli in­
terlocutori di questo monologo a due sono ormai condan­
nati a ripetere argomentazioni già perfettamente elabo­
rate e conosciute. Anziché discutere, gli interlocutori di
questo monologo a due potrebbero lim itarsi a sollevare
cartelli con numeri, ognuno dei quali si riferisce ad un
libro o ad un capitolo di libro in cui la rispettiva argo­
mentazione (atea oppure “credente”) è già perfettamente
svolta ed elaborata in forma retoricamente insuperabile.
È ovvio che in questo modo non si potrebbe attivare un
vero dialogo filosofico. Proprio del dialogo filosofico è in­
fatti l’apertura a possibilità di sviluppo nuove e non pre­
viste all’inizio. A coloro che pensano di riproporre la sem­
plicità di questa coppia di alternative da monologo a due
non bisogna però obbiettare che le cose sono “complesse”,
rifugiandosi così in una vaga ed ingannevole “complessi­
tà”; bisogna anzi rivendicare con orgoglio la semplicità:
ciò che può essere detto può essere detto in modo sempli­
ce. Si tra tta però di un’altra semplicità, di una semplici­
tà diversa ed incompatibile con la fuorviante semplicità
della coppia di alternative che abbiamo ricordato sopra.
Questo saggio vuole dunque essere l’introduzione, e nel­
lo stesso tempo l’invito, ad un altro tipo di semplicità,

Gesù 184 D io NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

che si tratta di ricercare assieme con un attraversam en­


to della filosofia della religione moderna e contempora­
nea. Non garantiamo di riuscire a giungere realmente a
questa nuova semplicità alternativa al monologo a due.
Forse non ci riusciremo per nulla. Ma è comunque certo
che abbandonando le coppie opposizionali del monologo
a due non perderemo nulla di prezioso, e possiamo dun­
que correre il rischio con libera coscienza.

In secondo luogo, il ripercorrere in modo ragionato al­


cuni momenti della storia della filosofia della religione
occidentale da Hobbes a Heidegger (passando per Spino­
za, Hegel e Marx, ed evidenziando soprattutto la diffe­
renza radicale fra l’approccio di Marx e l’approccio del
marxismo storico successivo) è assolutamente necessa­
rio, per almeno due ordini di ragioni. Da un lato, occorre
ricordare la specificità e l’originalità di alcune posizioni
teoriche, che sono spesso fraintese e banalizzate. Dall’al­
tro (e questo secondo aspetto è molto più importante del
primo), ritengo necessario un approccio nuovo al proble­
ma dei rapporti fra religione, filosofìa, scienza e legame
sociale capitalistico. L’approccio che propongo si basa sulla
negazione di alcune opinioni abbastanza diffuse a propo­
sito della nascita e del consolidamento della società capi­
talistica e delle classi sociali che sono state finora tipiche
di essa: borghesia e proletariato. Secondo tali opinioni
correnti, la borghesia è concepita come qualcuno che vuole
costruire coscientemente il capitalismo, mentre il prole­
tariato è concepito come un soggetto capace di edificare
una società socialista e comunista. Vi sarebbe dunque la
volontà di un soggetto denominato borghesia di costruire
il capitalismo, mentre vi sarebbe dall’altra parte la capa­
cità di un soggetto denominato proletariato di costruire
il comuniSmo.

G esù 185 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

Io non credo assolutamente a questa doppia supersti­


zione, storiografica la prima e filosofica la seconda. Nel
caso del capitalismo, esso non è stato voluto, progettato
ed eseguito da un soggetto collettivo, ma è emerso stori­
camente attraverso congiunture largamente casuali e con­
tingenti, che si tratta di riconoscere e di ricostruire al di
fuori di ogni determinismo.
Nel caso del comuniSmo, ritengo che l’intera storia del
comuniSmo del 900 dimostri l’incapacità, da parte del
proletariato, di indurre e gestire il passaggio dal capita­
lismo ad una società socialista. In ogni caso, l’esplicita
negazione del doppio nesso genetico della volontà nel rap­
porto fra borghesia e capitalismo e della capacità nel rap­
porto fra proletariato e comuniSmo permette a mio avvi­
so di pensare in modo nuovo i legami fra esperienza reli­
giosa, riflessione filosofica e sviluppo della società mo­
derna.

In terzo luogo, infine, la riflessione che proponiamo al


lettore può servire da orientamento per la comprensione
del legame sociale in questa fine del XX secolo. Le tesi
che espongo in questo scritto sono fortemente collegate
ad una mia convinzione profonda, che non discuterò nel
seguito ma che ritengo giusto il lettore conosca: oggi la
menzogna sulla natura complessiva del legame sociale
capitalistico ormai “globalizzato” e mondializzato (che
configura in effetti un vero e proprio “capitalismo totali­
tario”) non è più costruita sulla modalità dell’occultamen­
to della verità oppure sull’impedimento politico, giuridi­
co o religioso alla sua ricerca e alla sua diffusione pubbli­
ca, ma è ricavata, in modo assai più raffinato ed efficien­
te, dalla banalizzazione della stessa nozione di verità. La
verità non è più un valore primario che organizza, gerar-
chizza ed orienta tutti gli altri valori di cui è ad un tempo

Gesù 186 DlO NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

l’origine e la fondazione, ma diventa un’opzione possibile


fra le altre, ed in più un’opzione delegittim ata e svaloriz­
zata
In questa situazione nuova ed inedita, sostanzialmente
non ancora compresa dalle principali correnti del pensie­
ro contemporaneo, si colloca oggi il problema di cui ci oc­
cupiamo. Prima infatti che inizi la discussione sulla cor­
retta definizione scientifica e filosofica di verità, e di con­
seguenza sulla sua eventuale conoscibilità e trasm issibi­
lità dialogica e/o sperimentale, bisogna concordare sul
fatto che la verità è un valore fondante, e non soltanto
un’opzione facoltativa sprovvista di rilievo pratico per la
nostra vita. La mancanza di una idea “forte” di verità è,
a mio avviso, uno dei “segreti” del crollo del comuniSmo
storico novecentesco.
Torneremo più avanti su alcuni di questi problemi. Per
ora basti rilevare che il suicidio del materialismo storico
e dialettico, l’ideologia di riferimento e di legittimazione
del comuniSmo storico novecentesco (sia ortodosso che
eretico, non facciamo qui volutamente alcuna differen­
za), ha comportato una rilegittimazione del discorso reli­
gioso come unica forma verbalmente consentita di conte-
stazione morale al pensiero unico capitalistico. Sul di­
scorso religioso sono ripiegati in particolare i burocrati
culturali del defunto comuniSmo storico novecentesco, in
una vorticosa moltiplicazione di “tavole rotonde” e di
ambigue convergenze con “credenti” di ogni ordine e gra­
do (quasi sempre scelti fra gli ecclesiastici a denomina­
zione controllata). In apparenza, si tratta di una positiva
“apertura” e di un rifiuto del dogmatismo professato in
precedenza, quando i comunisti pensavano di navigare a
gonfie vele sospinti dal vento della storia. In realtà si
tratta dell’ennesimo tentativo (ormai non più tragico, ma
solo grottesco) di evitare la resa dei conti con la propria

G esù 187 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

fallimentare coscienza filosofica nichilistica precedente,


attraverso la facile ricerca di un “minimo comun denomi­
natore” assistenzialistico basato sulla cosiddetta “scelta
preferenziale per i poveri”. Di fronte a questo fatto, sgra­
devole per tutti coloro che a suo tempo hanno preso sul
serio sia il marxismo sia la fede religiosa, non avrebbe
nessun senso riproporre in segno di presunta radicalità e
serietà intellettuale il vecchio ateismo comunista. Si trat­
ta di una via sbarrata ed ingannevole che tutto questo
saggio sconsiglia vivamente e con forza. Alcuni paragrafi
sono dedicati proprio a mostrare il carattere prettamen­
te ideologico (e pertanto né filosofico né scientifico in sen­
so serio) di questo ateismo, religione tribale di apparte­
nenza dei sacerdoti e dei fedeli del comuniSmo storico
novecentesco ormai definitivamente archiviato.
È questo terzo ordine di considerazioni cui vorremmo
che il lettore desse particolarmente importanza. Solo
questo terzo ordine di considerazioni infatti permette a
nostro avviso di inquadrare in modo filosoficamente fe­
condo la riproposizione di una lettura della vita di Gesù,
che resta primaria e fondativa nell’economia generale
della struttura di questo libro.

Gesù 188 D io nel pensiero


2. In cosa credono i credenti
ed in cosa non credono i non creden ti?

'N ella generale atmosfera avvelenata deirirrilevanza


sostanziale dell’esistenza della verità, sostituita dall’ac-
cordo pratico sulle cose da fare, fioriscono innumerevoli
tavole rotonde, in cui credenti e non credenti, accurata­
mente scelti nel grande gruppo delle “persone ragionevo­
li” (e la ragione consiste appunto, come già al tempo di
Locke, nel non mettere in dubbio i presupposti comuni
tacitamente dati per scontati), scambiano cortesemente
le loro opinioni. Quando il “credente” si dichiara tale, un
soffio di pia compunzione percorre l’uditorio: come è bel­
lo che in questo periodo di crisi dei valori ci sia ancora
qualcuno che crede in qualcosa! Quando il “non creden­
te” si dichiara tale, un brivido di innocua trasgressione
percorre lo stesso uditorio: come è bello che in questo pe­
riodo di pentimento e di rinnegamento delle proprie pre­
cedenti convinzioni laiche e non religiose ci sia ancora
qualcuno che rivendica coraggiosamente i propri convin­
cimenti! È proprio vero che viviamo nel migliore dei mondi
possibili, il mondo che all’intolleranza ha sostituito il plu­
ralismo, alla ragione totalitaria la ragionevolezza relati­
vistica, al pensiero forte il pensiero debole, alla scortesia
la cortesia, eccetera!
Già, ma in che cosa mai crederà il credente ed in che
cosa mai non crederà il non credente? A questo punto,
sull’oggetto della credenza e della non credenza scende
un velo di nebbia che sembra scortese voler diradare. In
prima approssimazione, sembra che il credente creda in
Qualcosa che esiste nell’universo al di là di ciò che le va­
rie scienze della natura possono accertare, verificare o
falsificare, ed in più creda all’immortalità dell’anima, ri­
tenuta il pilastro della fede cristiana. Vi è qui un curioso

Gesù 189 D io n e l pensiero


C ostanzo P reve

equivoco. Il cristianesimo originario crede nella resurre­


zione dei corpi, non nell’immortalità dell’anima, che è
invece un presupposto della filosofia di Platone (si legga
per questo il noto dialogo il Fedone)-, l’immortalità del­
l’anima viene acquisita al cristianesimo quasi due secoli
dopo Gesù di Nazareth, ad opera soprattutto di Origene
e della patristica di lingua greca influenzata dal neopla­
tonismo. Inoltre, la credenza in Qualcosa di inconoscibile
secondo i parametri delle scienze della natura (e della
storia), e che richiede pertanto un approccio alternativo
a quello che definiremo sbrigativamente qui “scientifi­
co”, è una problematica non certamente “religiosa”, ma
integralmente filosofica. Come si vede, al primo tentati­
vo di approfondimento appare subito poco chiaro in cosa
creda il credente.
Cerchiamo di affrontare il problema da un altro punto
di vista. Penso che tutti saranno d’accordo nel risalire al
contenuto originale della proclamazione (kerygma) di S.
Paolo, cioè di Paolo di Tarso, in quanto si tratta di una
professione di fede più originaria del Concilio di Nicea
oppure del Catechismo tridentino della Controriforma.
Bene, se risaliamo al kerygma di S. Paolo vediamo che
esso comprende indissolubilmente tre momenti. Primo,
la resurrezione di Gesù dopo la morte, testimoniata dalle
apparizioni miracolose ai discepoli, è la prova della sua
divinità (ossia Gesù = Cristo). Secondo, tutti quelli che
credono in lui e nel valore redentivo del suo sacrificio non
moriranno, ma otterranno la vita eterna. Terzo, occorre
pentirsi dei propri peccati e fare penitenza, perché è im­
minente il ritorno di Gesù (parusia), che giudicherà i vivi
ed i morti (i quali risorgeranno anch’essi) e instaurerà il
suo regno messianico, regno di pace e di giustizia.
Il lettore rifletta sul fatto che il kerygma di Paolo, uffi­
cializzato nella sua integrale incorporazione nel Nuovo

Gesù 190 DlO NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

Testamento, che lo distingue dalle successive opinioni “au­


torevoli” di Padri della Chiesa come Origene o Agostino,
consta indissolubilmente di questi tre momenti fondativi
della verità cristiana. Ebbene, il “credente” di oggi, che
con pia compunzione dichiara la sua “credenza” di fronte
ad uditori distratti, non crede generalmente in almeno
due punti fondanti della credenza cristiana formulata da
S. Paolo: la resurrezione dei corpi e l’imminente ritorno
di Gesù che deve instaurare il suo regno messianico di
pace e di giustizia. Per giustificare la sua non credenza
in questi due punti essenziali, il “credente” passerà ge­
neralmente alla pratica filosofica della demitizzazione e
della contestualizzazione storica di credenze che oggi l’uo­
mo moderno, a differenza di quello antico, non può asso­
lutamente più credere e deve “interpretare” alla luce del­
la filosofia. Vi sono qui però almeno due grandi equivoci.
In primo luogo, si presuppone che gli antichi, a differen­
za dei moderni colti e sofisticati, fossero degli inguaribili
creduloni, cui chiunque poteva dare a bere qualsiasi cosa.
Questo è uno sciocco errore. Non esiste un solo argomen­
to contro la resurrezione dei corpi (perché, ripetiamolo,
questa è T originaria credenza cristiana, non l’immortali­
tà dell’anima) e contro l’imminente ritorno messianico
del Cristo che non sia già stato perfettamente elaborato
ed esposto con chiarezza ed eleganza dimostrativa da
epicurei, stoici, scettici e neoplatonici del tempo. Solo una
notevole ignoranza sul grado di raffinatezza cui erano
giunte scienza e filosofia antiche può indurre nell’opinio­
ne che gli antichi fossero più “creduloni” dei moderni. In
secondo luogo, non ci si rende conto con queste “scappa­
toie demitizzanti” che la credenza diventa simile ad un
pranzo alla carta in un buon ristorante, in cui il cliente
decide con sovrano arbitrio quali piatti vuole ordinare e
quali no. In questo modo il “credente” nella coppia esi-

G esù 191 D io n el pensiero


C ostanzo P reve

sterna di Dio ! immortalità dell’anima non si rende nep­


pure più conto, invischiato com’è nella triade della chiac­
chiera-curiosità-equivoco, di stare credendo in una sorta
di sintesi eclettica delle filosofie di Platone e di Aristote­
le, sintesi eclettica che non ha assolutamente nulla a che
vedere con il messaggio evangelico, sia pure addomesti­
cato, demitizzato e razionalizzato.
Questo è il credente. Ed invece, in che cosa non crede­
rà il non credente? In proposito, le cose sono generalmente
più facili. Il non credente non crederà generalmente nel­
la diade immortalità dell’anima Iesistenza di Dio, men­
tre si profonderà in elogi sui contenuti morali e solidari­
stici della religione cristiana, recitando con pia compun­
zione tu tti i brani dei Vangeli sui poveri, sui derelitti, sui
disgraziati, eccetera, perché naturalm ente di essi è il Re­
gno dei Cieli. In questo modo, ogni differenza fra creden­
ti e non credenti viene effettivamente cancellata. Messa
fra parentesi ogni verità indimostrabile (e che la verità
dei credenti sia indimostrabile viene ormai dopo Kant
ammesso anche dai credenti stessi, almeno da quelli non
ignari-di storia della filosofia), resta il terreno comune
delle “cose da fare insieme” (dalla carità al salvataggio
dello stato keynesiano, dall’assistenza pubblica scambiata
per “eguaglianza” bobbianamente definita al finanzia­
mento di corsi di formazione lavoro per giovani disoccu­
pati, eccetera). Chi si accontenta di questo livello di dia­
logo può cessare già qui la faticosa lettura di questo sag­
gio. Ma chi avverte il carattere falso e mistico di tutto
questo farà bene a proseguire nella lettura, perché qual­
cosa di interessante potrebbe alla fine venire fuori.

Gesù 192 D io nei, pensiero


3. Il problem a storico e filosofico
d ella secolarizzazione

Prima di iniziare il nostro breve percorso nel pensiero


moderno da Hobbes a Heidegger (passando per Hegel,
Marx e Nietzsche) è necessario chiarire subito al lettore
il criterio metodologico ed interpretativo che verrà usa­
to. È impossibile fare a meno di questo chiarimento, an­
che se vi sono alcune difficoltà teoriche da superare, per­
ché in caso contrario gli autori che si cominceranno a tra t­
tare dal prossimo paragrafo potrebbero apparire sempli­
ci “medaglioni” citati per erudizione. Ma così non è. Un
filo conduttore segreto li lega tutti, e si tratta del filo tes­
suto sulla tram a dei rapporti fra la filosofia medioevale e
la filosofia moderna, la concezione del mondo religiosa e
la concezione del mondo laica, l’immagine del mondo pre­
capitalistica e l’immagine del mondo capitalistica. In una
parola, si tratta del problema"della secolarizzazione.
Il termine ha molti significati e qui non potremo certo
elencarli tutti, anche perché sarebbe una deviazione eru­
dita inutilmente fuorviante. In prima approssimazione,
secolarizzazione significa il trasferimento (quasi sempre
inconsapevole in coloro che lo attuano) di contenuti schiet­
tam ente religiosi in forme apparentemente “laiche” e
moderne, cioè prive ormai di ogni fondazione e riferimento
religioso. Mentre nel Medioevo il dualismo fra millennio
(localizzato in una Gerusalemme celeste) e secolo (sem­
pre minacciato dall’influenza di una Babilonia infernale)
era apertamente professato, e forniva anzi la base per
ogni interpretazione della storia umana concepita come
storia di caduta, redenzione e salvezza, nell’età moderna
il millennio viene progressivamente riassorbito nel seco­
lo, al punto che il secolo, cioè la concreta storia umana e
terrena, è visto come l’unico luogo di caduta, redenzione

Gesù 193 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

e salvezza possibile. Secondo questo approccio interpre­


tativo la categoria filosofica fondamentale per interpre­
tare storicamente la modernità degli ultimi quattro seco­
li diventa appunto il progressivo riassorbimento del mil­
lennio nel secolo, e quindi la secolarizzazione, nelle varie
forme ovviamente che essa ha potuto assumere.
Non è però affatto ovvio che sia andata cosi. È possibi­
le infatti anche rifiutare questo modello interpretativo, e
sostenere invece che la modernità trova la sua legittimi­
tà (utilizziamo qui l’espressione di Hans Blumenberg, il
filosofo tedesco contemporaneo che ha sostenuto questa
tesi con maggiore coerenza) non certo nell’occulto rias­
sorbimento del millennio cristiano nel secolo laico, ma
invece nell’integrale autoaffermazione dell’uomo, contro
le pretese teologiche di assolutezza. Secondo questo ap­
proccio, l’autonomia dell’uomo moderno non trarrebbe la
sua legittimità autentica da un’opera di secolarizzazione
di contenuti della fede cristiana, ma da una faticosa lotta
contro la fede stessa. È evidente che si configurano qui
due letture filosofiche alternative e sostanzialmente in­
conciliabili della storia della modernità. Nel primo caso
ogni opposizione rigida fra fede religiosa e pensiero laico
(comprendendo in esso ovviamente sia la scienza moder­
na sia il marxismo, e dunque anche il comuniSmo storico
novecentesco) diventa insostenibile, perché si tratta di
rintracciare di volta in volta i contenuti religiosi secola­
rizzati nelle forme apparentemente non religiose del pen­
siero moderno e contemporaneo. Nel secondo caso la se­
colarizzazione viene degradata da categoria interpreta­
tiva primaria a pura “metafora”, e la modernità può sol­
tanto essere descritta come progressiva emancipazione
dalla religione e dalle forme di pensiero “non scientifi­
che” su cui la religione si fonda.

Gesù 194 DlO NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

La discussione filosofia sulla secolarizzazione si é svol­


ta soprattutto in Germania, e questo per ragioni storiche
molto precise. Da un lato, la coesistenza conflittuale fra
cattolici e protestanti ha prodotto in Germania una teo­
logia estremamente ricca e sofisticata, assente in culture
monoreligiose, in cui l’assenza dell’avversario rende pi­
gri i teologi ed i filosofi. Dall’altro, la presenza storica del
nichilismo nazista e dell’utopismo comunista ha costret­
to la cultura tedesca a porsi domande radicali e non com­
promissorie sulla natura della modernità. Pensiamo a
Lowith, per cui il marxismo nell’essenziale non è che la
secolarizzazione dell’escatologia salvifica giudaico-cristia-
na nel linguaggio moderno dell’economia politica. Pen­
siamo a Schmitt, secondo il quale tutti i concetti pregnanti
della moderna teoria dello stato non sono che concetti
teologici secolarizzati. Pensiamo a Voegelin, per cui la
teoria politica da Rousseau in poi, cioè l’ideologia rivolu­
zionaria della modernità, non è che una ripresa della gnosi
tardo antica che opera catastroficamente negli stati tota­
litari del Ventesimo Secolo. Pensiamo infine al marxista
Bloch, per il quale il marxismo, se vuole evitare di “raf­
freddarsi” e di perdere il suo calore utopico e rivoluziona­
rio nel “gelo” del culto dello sviluppo automatico delle forze
produttive, deve rivendicare apertamente la sua filiazio­
ne o almeno la sua affinità con le correnti messianiche
della tradizione biblica.
Non vi è qui purtroppo lo spazio per discutere gli argo­
menti dei fautori e degli avversari della teoria della seco­
larizzazione. In breve, chi scrive sostiene in proposito due
tesi fondamentali. In primo luogo, riteniamo che nell’es­
senziale i sostenitori della pertinenza della categoria di
secolarizzazione nell’interpretazione della modernità e
della contemporaneità abbiamo ragione. Lo dimostra a
nostro avviso il fatto che persino il migliore sostenitore

Gesù 195 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

della tesi dell1'autoaffermazione umana in rottura con ogni


fondazione religiosa, esplicita o nascosta che sia, Hans
Blumenberg, h a dovuto ricercare l’origine di questa au­
toaffermazione (che potrebbe essere meglio definita for­
se come “autoposizione”) in una vicenda interna alla sto­
ria della teologia cristiana, la sostituzione cioè di una
teologia neoagostiniana nominalistica e volontaristica
(Guglielmo di Occam) alla precedente teologia aristoteli­
ca (Tommaso di Aquino). Questa teologia distrugge la cre­
denza nel fatto che le cose posseggono una essentia in sé
stesse ed un telos trascendente al di fuori di sé (cioè una
sostanza ed una finalità che trovano il loro fondamento
in un Dio identificato con l’Essere della metafisica). In
questo modo è la stessa teologia cristiana che si suicida e
decreta la propria “scomparsa dell’ordine”.
In questo buco creato dal suicidio filosofico del cristia­
nesimo la modernità è stata costretta ad autoaffermarsi
su basi completamente nuove, rompendo con la religio­
ne. Ebbene, qui lo stesso Blumenberg è costretto a nega­
re l’ipotesi della secolarizzazione con un argomento che
in realtà implicitamente la convalida, il fatto cioè che sia
stato un episodio interno alla storia della teologia occi­
dentale a provocare appunto la secolarizzazione, che non
cambia di natura per il fatto di essere definita semplice-
mente in modo diverso, autoaffermazione umana oppure
“ingiunzione di contingenza”.1

1 II tema della secolarizzazione è connesso al modo nuovo in cui l’età


moderna legge la Bibbia, rispetto al Medioevo. Con il Cinquecento la
Bibbia cessa in un certo senso di essere una storia per diventare un
testo. Questo è probabilmente dovuto anche all’invenzione della stam­
pa, che favorisce il passaggio di massa da una Bibbia raccontata ad
una Bibbia letta individualmente (e per di più con una lettura silen­
ziosa). Sarebbe però un errore ridurre tutto a questa interpretazione
“tecnologica”, e bisogna invece usare un’interpretazione filosofica. Nel

Gesù 196 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

In secondo luogo, tuttavia, anche se la prospettiva della


secolarizzazione resta nel complesso migliore della pro­
spettiva del “nuovo inizio” del pensiero moderno e della
sua legittimità antireligiosa, vi è comunque un aspetto
cruciale in cui la teoria della secolarizzazione è fuorvian-
te. Vi è in realtà una rottura qualitativa che instaura la
modernità, ed in questo senso la teoria della secolarizza­
zione è eccessivamente “continuistica” ed omogeneizza-
trice.
La rottura non interviene però (come affermano Blu-
menberg e Habermas, ed anche la stragrande maggio­
ranza dei positivisti e dei marxisti vecchi e nuovi) in una
razionalistica autoaffermazione della modernità scienti­
fica, ma in una diversa natura (largamente inconsapevo­
le) della fondazione del legame sociale complessivo. Nel­
le società capitalistiche questo legame sociale complessi­
vo non è più lo stesso di prima, cioè delle società precapi­
talistiche. Mentre nelle società precapitalistiche il lega­
me sociale è legittimato nella forma della esteriorità, con

Medioevo la Bibbia non raccontava una vera storia di eventi umani,


ma una storia sacra, intessuta di simboli e di allegorie, di un ciclo di
Cadute e di Redenzioni. Si trattava di una storia apparente, di una
storia senza storicità, di una storia assai più cosmica che storica (ed
infatti l’interesse per il Gesù storico era ridotto al minimo, non certo
perché persone come Dante Alighieri fossero ignoranti o superstizio­
se, ma perché la storicità di Gesù in senso moderno era del tutto al di
fuori dei loro interessi e della loro prospettiva). E proprio il fatto che
con il Rinascimento ed il Cinquecento la Bibbia diventa un testo fina­
lizzato a produrre ed a realizzare una nuova storicità. Non più la pre­
cedente storia allegorica senza storicità reale, ma una nuova storia
attenta ormai alla centralità dell’evento. Non vi è più ormai avvento
senza evento, e l’evento tom a ad essere storico proprio perché la cen­
tralità del testo ha congedato la vecchia storia allegorica senza stori­
cità. Mi sembra però che —a differenza di come sostiene Blumenberg
—si sia sempre ben dentro la storia dialettica di una secolarizzazione,
e non invece all’origine di un nuovo inizio laico e scientifico.

Ge sO 197 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

l’avvento del capitalismo l’esteriorità si tram uta in este­


riorizzazione delle potenze autonome ed anonime dell’eco­
nomia e della tecnica. Si tratta di una differenza crucia­
le, su cui vale la pena di soffermarsi.
Nel contesto del nostro discorso esteriorità ed esterio­
rizzazione sono due distinte modalità che caratterizzano
la forma del legame sociale complessivo, ed in particola­
re il tessuto connettivo “simbolico” che tiene insieme, in
una delicata tram a di attrazione e repulsione, gruppi so­
ciali diversi e spesso antagonistici sul piano economico,
politico e culturale.
La forma dell’esteriorità caratterizza soprattutto (an­
che se non esclusivamente) le società tradizionali e pre­
moderne. In esse vi sono quasi sempre caste e gruppi
chiusi, e non classi aperte e flessibili. Di conseguenza il
legame religioso è trasportato simbolicamente “fuori” dal
legame sociale (e gli è dunque “esteriore”), nella forma di
divinità che sono insieme principio di spiegazione cosmo­
logica e principio di legittimazione sociale. Questo prin­
cipio è “esterno” anche e soprattutto perché le modalità
dello sfruttamento e dell’estorsione sociale del pluslavo-
ro sono esterne al processo di lavoro, nel suo doppio aspet­
to di divisione sociale e di divisione tecnica. L’esternità
simbolica è dunque in una certa misura un raddoppia­
mento teorico di un’esternità produttiva reale.
La forma dell’esteriorizzazione caratterizza invece la
modernità della produzione capitalistica, in particolare
di quella globalizzata e mondializzata di oggi. Il legame
sociale non ha più bisogno di essere “tenuto insieme” da
una duplicazione simbolica, dal momento che il lavoro
collettivo è già stato astrattizzato ed “eguagliato” formal­
mente dall’affermazione del modo di produzione capita­
listico. Non è dunque più necessaria una “esteriorità espli­
cita” della religione, e la religione oggi ha perduto sia il

Gesù 198 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

momento della spiegazione cosmologica (assunto dalla


scienza moderna: teoria dell’evoluzione, astrofìsica ecce­
tera) sia il monopolio della legittimazione sociale (assun­
to dagli automatismi produttivi disegualitari della ripro­
duzione economica).
La scienza e l’economia hanno dunque svuotato e rim ­
piazzato la religione dell’esteriorità. Esse hanno sempre
però bisogno di “esteriorizzarsi” in una duplicazione ed
in un raddoppiamento simbolici, assumendo forme va­
riamente ideologico-religiose. Questa esteriorizzazione è
stata studiata per la prima volta in modo sistematico dalla
scuola filosofica del situazionismo francese (Debord, Va-
neigem, eccetera). Il moderno “clero” non è più composto
(come nelle società precapitalistiche) da sacerdoti, mo­
naci e frati, ma da giornalisti e operatori dei media, che
duplicano incessantemente la riproduzione sociale com­
plessiva investendola di potere simbolico e di legittima­
zione sociale.
Questa incessante ed ossessiva “esteriorizzazione” è
appunto la forma di religiosità dominante in questa epo­
ca postmoderna. E questo il segreto di fenomeni mediati­
ci drogati come il lutto planetario per Lady Diana nel
1997, erroneamente scambiato per domanda dal basso di
masse nostalgiche delle favole, laddove si tratta di ope­
razioni di affermazione politico-sociale degli apparati dei
media, titolari monopolistici delle funzioni di “esterioriz­
zazione del potere”.
Per tornare al problema della secolarizzazione, la no­
stra tesi fondamentale consiste nel sostenere che la mo­
dernità non nasce da una autoaffermazione del pensiero
razionale contro la religione, ma da un mutamento di na­
tura del carattere del legame sociale dalla esteriorità alla
esteriorizzazione. Questo mutamento di natura non è
certo prodotto da una (inesistente) volontà della borghe­

Gesù 199 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

sia di progettare il capitalismo, e non può certo essere


superato da una (inesistente) capacità del proletariato di
progettare il comuniSmo. E necessario invece un m uta­
mento di prospettiva radicale.

Gesù 200 D io nel pensiero


4. I l Dio d i Hobbes

Nel paragrafo precedente abbiamo anticipato, senza


poterle ancora dimostrare e neppure argomentare decen­
temente, due tesi che ci accompagneranno lungo tutto
questo saggio, e che ne sono anzi l’asse teoretico portan­
te. In primo luogo, se la borghesia viene concepita come
un soggetto culturale collettivo unificato (sia pure artico­
lato e differenziato pluralisticamente al suo interno), al­
lora è opportuno dire che essa non si autoafferma nella
modernità rompendo con la visione medioevale del mon­
do, ma piuttosto secolarizza in varie forme un preceden­
te contenuto religioso che viene “tradotto” quasi integral­
mente. Il passaggio dalla premodernità alla modernità è
quindi un oggetto possibile di traduzione integrale, e la
secolarizzazione costituisce la grammatica ed il diziona­
rio di questa traduzione. In secondo luogo, dal momento
che il modo di produzione capitalistico non è un soggetto,
e non si sviluppa secondo la logica di un soggetto (nel
senso che non si tra tta di una “individualità” titolare di
una “volontà” e di un “progetto”), il passaggio dalle socie­
tà precapitalistiche al capitalismo non deve essere inda­
gato sulla base della categoria della secolarizzazione o
su quella contrapposta dell’autoaffermazione antireligiosa
(che sono categorie utili per la comprensione di un sog­
getto storico come la borghesia), ma sulla base imperso­
nale e non antropomorfica del passaggio del legame so­
ciale da una condizione di esteriorità (religiosa) ad una
condizione di esteriorizzazione (economica e tecnica).
Abbiamo ricordato ancora queste due premesse, per­
ché la loro presa in considerazione è già utile nell’analisi
del primo dei grandi pensatori che ora ricorderemo, Tho­
mas Hobbes. Egli è generalmente considerato un filosofo
politico, ed in effetti lo è, purché si aggiunga subito che

Gesù 201 D io NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

l’oggetto della sua riflessione non ha nulla a che fare con


la disciplina universitaria definita oggi “politologia” o
scienza della politica. Si tratta in realtà di un pensatore
che attua una riflessione sulla natura umana, con il ri­
corso massiccio e documentabile all’analisi del testo del­
la Bibbia. Non appena si legge Hobbes, e non ci si limita
a ripetere le abituali sintesi scolastiche dei manuali di
storia della filosofia, si fanno scoperte molto interessan­
ti. Ci limiteremo qui per brevità a segnalarne alcune, sot­
tolineando peraltro il punto essenziale, che consiste nel
rifiuto assoluto del profetismo politico-religioso, basato
non sulla delegittimazione del testo biblico (come ci si
potrebbe aspettare da un m aterialista moderno estima­
tore della nuova scienza della natura galileiana), ma pro­
prio sulla sua lettura normativa rigorosa.
È noto che per Hobbes tutto l’Essere è riducibile a tem­
po, spazio, corpo e movimento, e pertanto essendo tutto
ciò che esiste “corpo”, anche Dio è un corpo. Questa affer­
mazione è generalmente intesa come una proclamazione
materialistica implicitamente anche atea. Il dire infatti
che Dio non è che un corpo, in un momento storico in cui
non si poteva ancora legalmente dire e scrivere che Dio
non esiste, equivale per molti a sostenere implicitamen­
te che Dio non esiste. Non ne siamo così sicuri, ed anzi
non lo crediamo per nulla. La descrizione di Dio in term i­
ni di “corpo” sarebbe certamente stata approvata da Gesù
di Nazareth, da Paolo di Tarso e da Tertulliano, mentre
sarebbe stata respinta dai neoplatonici loro contempora­
nei. Inoltre, ciò che è corpo è anche corpo leggero, infini­
tamente leggero, e questa corporeità energetica della di­
vinità sta alla base delle concezioni deistiche di Newton
e di Leibniz, ed è assolutamente compatibile con le mo­
derne concezioni teistiche le quali, in piena società del
cosiddetto “immateriale” (che è poi soltanto un materiale

Gesù 202 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

“leggero”), possono certam ente trovare più utile per


l’odierna apologetica religiosa Hobbes del neoplatonismo.
Proseguiamo con la nostra lettura di Hobbes al di là
della tradizione manualistica. Siamo abituati a ripetere
che i settari rivoluzionari del tempo di Hobbes e della
rivoluzione inglese del 1640-1660 si legittimavano con
un riferimento testuale alla Bibbia, mentre Hobbes, che
voleva delegittimare questo riferimento rivoluzionario per
sostenere l’ordine sociale e politico assolutistico, contrap­
poneva a questa legittimazione biblica la ragione natu­
rale (nella forma del meccanicismo materialistico).
Ebbene, non è così, ed è anzi il contrario. Ad esempio ,
Winstanley, dirigente degli Zappatori, il movimento ra ­
dicale più “comunista” della rivoluzione inglese, parte
proprio dall’impossibilità di accertamento di un’interpre­
tazione univocamente normativa dei testi biblici per so­
stenere la superiorità dello spirito interiore degli uomi­
ni, dell’ispirazione che in quanto tale è al di sopra dei
Vangeli. Winstanley procede come i moderni teologi del­
la demitizzazione, ed afferma il primato dell’ispirazione
personale sul testo proprio partendo dall’impossibilità di
ricavare dal testo evangelico un’interpretazione norma­
tiva univoca. Al contrario, Hobbes in alcuni cruciali capi­
toli del Leviatano propone un’interpretazione filologica­
mente normativa univoca della Bibbia per legittimare la
sua conclusione politica ispirata al giusnaturalismo as­
solutistico. Il capitolo 32 del Leviatano è dedicato appun­
to allo “smascheramento” dei falsi profeti, cioè coloro che
pretendono che noi obbediamo a Dio attraverso di loro,
anche se noi non abbiamo nessuna prova che Dio gli ab­
bia veramente parlato (Hobbes sostiene, in modo appa­
rentemente accidentale, che ormai non si fanno più i mi­
racoli). Sono due gli argomenti fondamentali che Hobbes
utilizza per delegittimare ogni riproposizione del compor­

G esù 203 Dio nei. «mimi


C ostanzo P reve

tamento profetico-rivoluzionario, e sono entrambi argo­


menti religiosi. In primo luogo, egli afferma che Cristo è
stato il sigillo dei profeti, e dopo di lui nessuno più è le­
gittimato a profetizzare. In secondo luogo (e si veda il
capitolo 34 del Leviatano) egli analizza filologicamente il
significato del termine “spirito” nel testo biblico, e finisce
per concludere che esso non significa fondamentalmente
soffio, saggezza o vita, ma subordinazione airautorità.
Purtroppo ragioni di spazio impediscono di esporre l’in­
teressantissima argomentazione. La conclusione però (che
è tratta nel capitolo 36 del Leviatano) è che la “parola di
Dio” coincide con l’autorità del sovrano. Il sigillo dei pro­
feti è il potere dello stato, e la legge del sovrano definisce
lo spazio ed i limiti dell’ispirazione soggettiva. Come si
vede, la delegittimazione del profetismo rivoluzionario
viene svolta sulla base di una secolarizzazione, e non cer­
to di una autoaffermazione laico-razionalistica.
La critica alla rivoluzione è dunque svolta sulla base
della legittimazione biblica, ma si tratta di una critica
già pienamente moderna, contro tutti i superficiali stori­
ci della filosofia che pensano che la borghesia critichi i
rapporti di produzione feudali delegittimando la religio­
ne vista come sostrato e sostanza delle comunità organi­
che precapitalistiche.
Naturalmente in parte è proprio così, come sosterre­
mo a proposito della concezione della religione in Locke.
Nel caso di Hobbes siamo già in pieno individualismo, e
si tratta di un individualismo che non è in contrapposi­
zione alla religione cristiana ma secolarizza il preceden­
te individualismo del nominalismo medioevale di Gugliel­
mo di Occam, rompendo però con i caratteri profetici e
messianici di questo individualismo nominalistico (pau­
perismo francescano, chiesa invisibile, attesa di un pros­
simo avvento di un Regno di Dio, eccetera). '

Gesù 204 DlO NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

In proposito, vale la pena ricordare ancora una que­


stione molto importante, che non vorremmo sfuggisse al
lettore.
E noto che il detto hegeliano sulla razionalità del rea­
le e sulla realtà del razionale viene generalmente inteso
(contro ogni lettera e spirito dello stesso Hegel) come l’af­
fermazione del primato ontologico del “realismo effettua­
le” sui sogni, sui progetti e su ogni forma di dissenso in
qualche modo minoritario. La razionalità starebbe sem­
pre con chi vince, mentre chi perde per definizione non
ha “ragione”, ed ha dunque torto. E bene allora ripetere
che chi vuole sostenere questa tesi può farlo, ma deve
lasciare in pace Hegel che non c’entra nulla, e riferirsi
piuttosto all’interpretazione data da Hobbes nei capitoli
32, 34 e 36 del Leviatano sull’identità “fra spirito e so­
vranità”. Questa interpretazione delegittima ogni prete­
sa profetico-rivoluzionaria con un riferimento integrale
alla Bibbia come testo, così come per decenni i marxisti
ortodossi e conformisti del Novecento delegittimarono i
pensatori comunisti critici e minoritari in nome di un ri­
ferimento ai classici del marxismo come sostenitori del
primato della positività sovrana contro ogni arbitrio pro­
fetico minoritario. Hobbes non ha scritto una vita di Gesù,
ma certamente ci ha dato un’interpretazione del Cristo,
in termini di sigillo di ogni possibile profezia e di fonte
spirituale di ogni autorità realmente stabilita in grado di
garantire la legge, l’ordine e la proprietà.

Gesù 205 D io nel pensiero


5. Il D io d i P a scal

Come è noto, il Dio di Pascal non è l’oggetto di una


possibile dimostrazione razionale (le “prove” della ragio­
ne sono impotenti!), ma è l’oggetto di una scommessa, di
un pari che non è però per nulla “irrazionale”, ma rap­
presenta il massimo di razionalità accessibile allo spirito
di un uomo consapevole della nuova condizione della
modernità. In breve, questo è ciò che i non specialisti “ri­
cordano” del Pascal dei loro anni liceali. Per molti, que­
sta non è che la formulazione rigorosa e sofisticata di una
posizione molto diffusa nel senso comune non filosofico: è
impossibile essere sicuri se Dio esiste o no, ma comun­
que credendoci non ci perdiamo nulla, perché magari po­
trebbe anche esistere, m entre se non ci crediamo non
guadagnamo nulla (se non esiste) e rischiamo la danna­
zione eterna (se esiste).
Diciamo subito che questa “formulazione popolare” non
può essere attribuita a Pascal, per il semplice fatto che
in lui la “credenza” si risolve in un insieme di comporta­
menti quotidiani faticosissimi, e dal punto di vista della
vita di tutti i giorni non è dunque la stessa cosa credere
oppure no.
Nella nostra discussione non faremo riferimento a que­
ste “idee diffuse”, ma piuttosto all’interpretazione data
da Lucien Goldmann al Dio di Pascal in termini di Dio
nascosto.
Secondo Goldmann, il movimento del pensiero moder­
no può essere articolato in tre stadi. In primo luogo, si
avrebbe un pensiero empiristico e razionalistico, espres­
sione ideologica di una borghesia prima mercantile e poi
manifatturiera, che vede con un certo ottimismo le sue
prospettive storiche e politiche, sentendosi in sintonia con
il “progresso”, cioè con il cammino della storia. In secon­

G esù 206 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

do luogo, come sua negazione, si avrebbe un pensiero tra ­


gico, espresso soprattutto dalla nobiltà di toga francese,
dal giansenismo ed in particolare da Pascal, che è già
precocemente in grado di mettere a nudo le illusioni di
. questo superficiale ottimismo razionalistico svelandone
le contraddizioni,2 ma è però bloccato da una generale
impotenza sociale sublimata dalla metafora di un Dio
nascosto che non rivelando la propria esistenza non rive­
la neppure un’univoca legge di comportamento sociale in
qualche modo normativa. In terzo luogo, si avrebbe una
negazione della negazione dialettica (Hegel, M arx e
Lukàcs, ed in particolare la sintesi filosofica del giovane
Lukàcs lettore di Hegel e di Marx), che si incarnerebbe
storicamente nel proletariato rivoluzionario, questo sog­
getto-oggetto della storia universale capace di superare
produttivamente le contraddizioni della società borghe­
se-capitalistica nell’edificazione liberatoria di una socie­
tà comunista.
Sulla base di questa ipotesi di filosofìa della storia (la
cui natura di secolarizzazione religiosa messianica non è
neppure nascosta, ma è orgogliosamente rivendicata)
Goldmann ci offre una stimolante interpretazione del Dio
di Pascal. Questo Dio blocca in effetti la situazione del­
l’uomo in un’antinomia insolubile ed intrascendibile.
Da un lato, lo richiama incessantemente come oggetto
di aspirazione e di scommessa. Dall’altro, non si rivele­
rebbe mai, e si porrebbe come un’assenza permanente
che richiede un’impossibile presenza. Goldmann non vede
alcuna soluzione (mentre nel prossimo paragrafo vedre­
mo che una soluzione in realtà Pascal la dà, ed è il Cri­
2 Come più tardi farà su altre basi Giacomo Leopardi, che non rap­
presenta più una nobiltà di toga frustrata dall’assolutismo che non
ne consente l’affermazione, ma incarna pur sempre un gruppo sociale
privo di prospettive, la piccola nobiltà umanistica italiana.

G esù 207 Dio n el pensieho


C ostanzo P reve

sto), ed interpreta questa situazione bloccata in termini


di blocco politico e sociale, cioè di tragicità effettiva. Al di
là del carattere plausibile di questo suggerimento storio­
grafico (che accettiamo con ammirazione verso questa fi­
nezza di lettura “sintomale”) ci sembra debba essere su­
bito rifiutata con nettezza la conclusione edificante ed
ottimistica di Goldmann, per cui la dialettica è interpre­
tata in chiave di superamento della tragicità della situa­
zione umana. Ma questo è stato il dramma di tutto il
marxismo occidentale critico e minoritario del Novecen­
to, frutto di una cattiva secolarizzazione della peggiore
teologia. Si è creduto infatti di poter criticare l’ottimismo
positivistico dell’aberrante marxismo monopolistico di
stato dei partiti del comuniSmo storico novecentesco, ba­
sato sulla fede nell’ingenua automaticità della coincidenza
fra progresso tecnologico e progresso sociale con un altro
ottimismo, forse ancora più ridicolo del precedente, ba­
sato sull’identificazione aprioristica fra proletariato e sto­
ria universale. Il Dio di Pascal resta allora incondiziona­
tamente superiore alla Storia di Goldmann. Esso almeno
non nasconde il fatto che resta nascosto, e che il tragico
non può essere esorcizzato con la sociologia, sia pure in
versione rivoluzionaria. Anche la paradossale riduzione
pascaliana della scienza a “tempo libero” degli scienziati,
che sembra a prima vista una forma di irrazionalismo
provocatorio, ci illumina a posteriori su buona parte del
marxismo storico del Novecento, “tempo libero” di intel­
lettuali spesso impotenti e sradicati. Il Dio nascosto ci
dice spesso molto di più di divinità che urlano la loro ine­
sistente presenza.

G esù 208 D io nel pensiero


6. I l C risto d i P ascal

Un Dio che si nasconde può mostrarsi soltanto a ttra ­


verso Gesù Cristo. Vi sono molti frammenti di Pascal che
dimostrano questa tesi in modo evidente, e ne citeremo
per brevità soltanto tre.
Afferma Pascal: «Non cercherò qui di dimostrare at­
traverso ragioni naturali né 1’esistenza di Dio, né le Tri­
nità, né l’immortalità dell’anima, né nessuna cosa di que­
sta natura; non soltanto perché non mi sentirei abbastan­
za forte per trovare nella natura di che convincere degli
atei induriti, ma perché questa conoscenza senza Gesù
Cristo è inutile e sterile». Mi sembra che questa afférma­
zione si spieghi da sé.
E ancora Pascal: «Gesù Cristo è l’oggetto di tutto e il
centro dove tutto tende. Chi lo conosce, conosce la ragio­
ne di ogni cosa» (e qui è bene dire che il termine conosce­
re non allude alla rappresentazione concettuale di un
oggetto determinato, ma è da prendere nel senso classico
del termine, per cui “conoscere una persona” significa
stabilire con essa la relazione più opportuna).
Ed infine, scrive ancora Pascal: «Mistero del Redento­
re che unendo in lui le due nature, umana e divina, ha
sottratto gli uomini dalla corruzione del peccato per ri­
conciliarli con Dio nella sua divina potenza».
Citeremo qui un intelligente filosofo francese, Alain
Badiou:
«Pascal ha illuminato il paradosso per cui nel momen­
to stesso in cui la scienza legiferava dimostrativamente
sulla natura, il Dio cristiano non poteva restare al centro
dell’esperienza soggettiva che in riferimento ad una logi­
ca completamente diversa, abbandonando le “prove del­
l’esistenza di Dio” e restituendo integralmente la pura
forza événementielle della fede».

Gesù 209 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

Qui l’aggettivo événementielle deve essere inteso a


nostro avviso nel triplice senso di avvento, evento ed av­
venimento, cioè di irruzione della prassi su quello che
prima appariva il terreno recintato della semplice teoria.
In questo senso (e solo in questo senso) Pascal può essere
legittimamente interpretato come il fondatore moderno
della filosofia della prassi. Con questo non intendiamo
certo affermare che vi sia in Pascal una anticipazione di
quelle correnti del marxismo del Novecento definite come
“filosofia della prassi” (come quella di Antonio Gramsci).
Intendiamo dire che in Pascal l’agire, il fare, il testimo­
niare (in una parola, imitare il Cristo), diventano elementi
fondatori della stessa religione cristiana, in presenza di
una situazione di incertezza e di indimostrabilità dell’esi­
stenza di Dio.
È la prassi dunque che fonda la teoria, non la teoria
che fonda la prassi. E non si tratta, come troppo spesso si
è superficialmente etichettato, di una “prassi” irraziona­
listica, ma di una “prassi” senza la quale la stessa teoria
non può essere concepita, legittimata e fondata. L’unità
fra teoria e prassi non può essere ricercata nel semplice
attivismo, ma deve essere connessa alla direzione della
scommessa “razionale” compiuta proprio nel suo momento
filosoficamente fondativo, che è quello in cui si rinuncia
solennemente al perseguimento di una teoria “pura” pro­
grammaticamente slegata da ogni prassi possibile. Gesù
di Nazareth è dunque il luogo storico in cui la teoria e la
prassi si sono unite, e per questa ragione il Cristo è il
luogo in cui si incontrano i due infiniti, quello infinita­
mente piccolo e quello infinitamente grande, ed è pertan­
to il solo luogo in cui si può conoscere Dio, nel senso pri­
ma ricordato di una conoscenza non concettuale (che Pa­
scal esclude espressamente) ma semplicemente relazio­
nale.

Gesù 210 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

Pascal non scrive una vita di Gesù, ma è possibile so­


stenere con tranquillità che il suo Gesù non è mitico ma è
integralmente storico, perché senza la sua storicità la
stessa interpretazione filosofico-religiosa del Cristo ap­
parirebbe impossibile.

Gesù 211 D io nel pensiero


7. Il D io d i Spinoza

Come sanno tutti i lettori di manuali di storia della


filosofia, Spinoza è il geniale ebreo olandese di origine
portoghese che nel Seicento ha proposto l’equazione tra
Dio e Natura, equazione filosofico-religiosa che può esse­
re letta sia come ateismo cauto ed implicito, sia come pan­
teismo esplicito e dichiarato. L’interesse di Spinoza non
sta però a nostro avviso in questa equazione pura e sem­
plice, ma nelle conseguenze teoriche e pratiche che Spi­
noza ne trae, e sono queste conseguenze che vorremmo
subito ricordare con forza al lettore. Dio non è in Spinoza
un oggetto di cui interessa proclamare 1’esistenza o la
non esistenza, ma un oggetto di conoscenza razionale che
è a sua volta la premessa di qualsiasi liberazione umana.
In Spinoza il problema tradizionale della “esistenza” di
Dio è superato in un senso ben preciso. Esistere deriva
da ex-istere, che significa essere prodotti, venire fuori,
uscire da sé stessi per diventare altro.
In Spinoza la divinità si manifesta nei suoi attributi e
nei suoi modi, non con una produzione dal nulla, un atto
di creazione. Ciò vale ovviamente anche per il processo
inverso, la separazione fra gli enti creati e il Dio che li
avrebbe creati. Non ha allora senso discutere, all’ inter­
no del pensiero di Spinoza, se Dio esiste o no, per il fatto
che solo di qualcosa che ex-iste possiamo chiederci se esi­
ste oppure no.
Vi è qui un elemento che connette inscindibilmente il
pensiero di Spinoza a quello di Heidegger. In entrambi i
casi vi è un rifiuto dell’equazione scorretta fra Essere ed
Esistere, equazione in cui cadono tutte le forme di atei­
smo (compreso ovviamente 1’ ateismo marxista), impe­
gnate a “dimostrare” che un Essere chiamato Dio non
Esiste. Filosoficamente parlando, l’ateismo è sempre iden­

Gesù 212 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

tico al deismo e al teismo, che semplicemente rovescia.»


Per il deismo e il teismo un Essere chiamato Dio Esiste,
mentre per l’ateismo un Essere chiamato Dio non Esiste.
In realtà gli Esseri non esistono mai, ma semplicemente
sono. E qui comincia la filosofìa, cioè il problema della
verità. Qui Spinoza, Hegel e Heidegger possono almeno
accompagnarci per un tratto, mentre atei e deisti ci indi­
rizzano fin dall’inizio per una strada sbagliata. E non è
un caso. Il deismo è stato fondamentalmente un’ideolo­
gia di legittimazione borghese, mentre l’ateismo è stato
una ideologia di legittimazione proletaria. Con il tramonto
epocale di queste due classi sociali, che si stanno consu­
mando culturalmente sotto i nostri occhi, tramontano
anche queste due povere costellazioni ideologiche.
Nel pensiero di Spinoza, ogni dicotomia teismo/atei-
smo è dunque messa da parte e svuotata di significato
razionale. Si tra tta di proporre una via verso l’oggetto
assoluto di conoscenza, identificata con un processo di
liberazione della mente. L’equazione Dio = Natura deve
dunque essere trasform ata nell’equazione Conoscenza=
Liberazione, che è la vera equazione fondante dello spi-
nozismo. La forma in cui Spinoza pone questa equazione
è indubbiamente nuova (con la sua esclusione della Cau­
sa Finale nella concezione della divinità), ma il contenu-3

3 Sia il deismo sia il teismo sono concezioni soggettivistiche dell’esi­


stenza di Dio. La distinzione, che oggi non ha molto significato, era
invece ancora netta nel Settecento. Si definisce Teismo la tesi filoso­
fica che afferma l’esistenza di un Dio che è persona e che si è rivelato
agli uomini. Si definisce Deismo la posizione filosofica di chi sostiene
l’esistenza di Dio ma nega che si tratti di una persona, e a maggior
ragione nega che egli si sia rivelato agli uomini. Il Teismo è identifica­
to con il monoteismo tradizionale (cristiano, ebraico o islamico). Il
Deismo è collegato con il culto di un Essere Supremo conoscibile per
via razionale, ed è dunque, per esempio, anche una religione masso­
nica.

Gesù 213 DlO NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

to si limita a “secolarizzare” elementi portanti delle reli­


gioni tradizionali, ad esempio la successione di cogitatio,
meditatio e contemplatio nella scientia di Dio cui si giun­
ge con un’ascesi razionale.
Ciò che importa di Dio non è affermarne astrattam en­
te o negarne recisamente 1’esistenza, ma indicare la via
verso la sua conoscenza adeguata, che è anche la sola via
verso la liberazione. Su questo terreno Spinoza non è solo
il primo critico delle ideologie e del pensiero ideologico,
ma è un critico dell’illusione ideologica filosoficamente
molto superiore allo stesso Marx. La triplice radice del­
l’illusione ideologica è indicata da Spinoza in quelle tesi
che, con linguaggio moderno, potremmo indicare come
antropomorfismo religioso, finalismo della natura, uma­
nesimo antropocentrico. Parlando di “antropomorfismo
della natura” intendiamo dire che Spinoza critica la con­
cezione creazionistica della natura, concezione per la
quale la natura è stata “fatta” a misura umana da un
creatore concepito come un divino artigiano (demiurgo
platonico, motore immobile aristotelico, vasaio biblico che
modella dal fango il primo Adamo). Con il termine “fina­
lismo religioso” intendiamo riferirci alla critica di Spino­
za alla concezione per cui il corso del mondo possiede un
fine prefissato da un progettista intelligente, concezione
cui Spinoza contrappone il suo determinismo meccanici­
stico. Con il termine “umanesimo antropocentrico” in­
tendiamo la concezione, tipica soprattutto del monotei­
smo cristiano, per cui l’Uomo è visto come il punto di par­
tenza da cui dedurre ogni forma di rappresentazione re­
ligiosa e filosofica. Spinoza rifiuta questa concezione, ed
infatti parte dalla Sostanza e non certo dall’Uomo.4

4 Nello stesso tempo, il fatto che nel quinto libro AeWEtìca Spinoza
tematizzi la saggezza umana in modo indubbiamente “soggettivisti-

G esù 214 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

Questi aspetti del pensiero ideologico sono scandagliati


da Spinoza con una chiarezza insuperabile. Crediamo
importante sottolineare come il teismo popolare ed il dei­
smo razionale del suo tempo (entrambi assolutamente
incapaci di attingere una concezione adeguata, e pertan­
to liberatrice, dell’assoluto) si siano poi riprodotti in for­
ma appunto “secolarizzata” nel comuniSmo storico nove­
centesco: i nuovi “teisti popolari” (i militanti) hanno cre­
ato una “grande narrazione” in cui un soggetto pieno (il
proletariato, il partito) garantiva con la permanenza del­
la sua identità iniziale rivoluzionaria la realizzazione fi­
nale del suo progetto originario comunista, mentre i nuo­
vi “deisti razionali” (i dirigenti) hanno elaborato un’illu­
sione finalistica che attribuiva la finalità comunista au­
tomatica e garantita allo sviluppo delle forze produttive
e della tecnologia capitalistica. La superiorità filosofica
di Spinoza su questo sgradevole pasticcio nichilistico è
tale da non poter essere mai sufficientemente ripropo­
sta.
Si è detto che la conoscenza adeguata di Dio, cioè del­
l’Assoluto, è anche la premessa pratica per ogni libera­
zione. In proposito, il libro quinto dell’Elica, con cui que­
sta grande opera si conclude, è forse ancora più impor­
ta n te del prim o, in cui viene p o sta l ’equazione
Dio=Natura. Non a caso, vi sono state tendenze storio­
grafiche (da Antonio Negri allo spinozismo francese di
origine althusseriana) che hanno cercato di ridimensio­
nare l’importanza di questo quinto libro, ritenuto non
abbastanza deterministico e materialistico. La nostra
valutazione critica è esattamente opposta. Il quinto libro
co” impedisce a nostro modesto avviso di interpretare Spinoza in ter­
mini di “antiumanesimo teorico” (sulla scia delle posizioni di pensato­
ri del Novecento come Althusser e Foucault). Spinoza è un critico
dell’umanesimo antropocentrico, ma non è un antiumanista teorico.

Gesù 215 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

è assolutamente coerente con i primi quattro, in quanto


solo l’esperienza della libertà dell’individuo umano può
dare un senso allo stesso percorso sulle strade della “ne­
cessità” che caratterizza i primi quattro libri. Si ha qui
anzi il punto di congiunzione fra YEtica ed il Trattato te­
ologico-politico, in cui la radicale negazione di ogni stato
ideologico è fondata proprio sulla negazione di ogni cau­
sa finale, il supporto teoretico di ogni antropomorfismo
religioso e di ogni finalismo della natura, da cui deriva
appunto quell’umanesimo antropocentrico che ha sem­
pre bisogno di uno stato (e modernamente di un partito)
che deve “interpretarlo” e realizzarlo.
Aveva proprio ragione Hegel. Chi nega il Dio di Spino­
za nega anche, lo voglia o no, il «principio essenziale di
ogni filosofare” moderno e contemporaneo. Il Novecento
è stato pieno di pretesi “m aterialisti” che sotto la bandie­
ra di un ateismo di stato e di partito hanno in realtà re­
staurato il dualismo di teismo popolare (la fede antropo­
morfica dei militanti) e di deismo razionale (il finalismo
sociologico pseudoscientifico dei dirigenti). E interessante
che questi sciagurati si sono anche sempre scagliati con­
tro una presunta “ideologia borghese” (sommariamente
identificata con la legittimazione del capitalismo), senza
rendersi conto che la loro stessa ideologia riproduceva gli
aspetti più mistificanti dell’ideologia borghese stessa,
togliendone però l’aspetto potenzialmente universalisti­
co e liberatorio, la coscienza infelice dialetticamente ela­
borata. È questa la ragione per cui senza passare per l’ade­
guata comprensione del Dio di Spinoza non esiste oggi
nessuna possibilità filosofica di conoscenza e di libera­
zione.

Gesù 216 D io nel pensiero


8. Il Cristo d i Spinoza

Il Dio di Spinoza sembrerebbe apparentemente non


lasciare nessuno spazio al Cristo. Ma non è così. In Spi­
noza c’è anzi un originale tentativo di concettualizzare
una sorta di “terza via” fra il Gesù storico ed il Cristo
della fede, in direzione del riconoscimento della singola­
rità irripetibile di colui che, a differenza dei profeti ebraici,
ha ricevuto una rivelazione immediata ed intuitiva, sen­
za bisogno di parole o di visioni, «delle decisioni di Dio
che conducono gli uomini alla Salvezza».
Si è trattato, nelle parole di Spinoza, di un passaggio
diretto «da mente a mente», che ha permesso la comuni­
cazione intuitiva ed immediata di quella «legge divina
universale», base «[...] della religione universale o catto­
lica, comune a tutto il genere umano, dove è insegnata la
vera maniera di vivere che non consiste in cerimonie, ma
nella carità e nella sincerità» .
Un simile Cristo non può certo soddisfare né il creden­
te, che vuole ben di più, né il filosofo “laico” moderno, che
non è generalmente disposto a riconoscere nel Cristo-Gesù
una singolarità eccezionale. Eppure questa curiosa “ter­
za via” di Spinoza m erita una riflessione particolare.
Essendo ebreo, Spinoza conosceva certamente l’inter­
pretazione filosofica data da Maimonide a Mosè, per cui
Mosè realizza nella sua corporeità storica la “voce divi­
na”. Eppure, curiosamente, l’ebreo Spinoza, che pure non
diventerà mai cristiano né esplicitamente né implicita­
mente, concede a Gesù persino quello che non è disposto
a concedere a Mosè, per il fatto che quest’ultimo è un
profeta, e parla sulla base di visioni e di immaginazioni,
mentre Gesù non è un profeta, in quanto intuisce diret­
tam ente ed immediatamente la necessità di sostituire le
cerimonie con la carità e con la sincerità.

Gesù 217 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

Come interpretare questa scelta curiosa?


È chiaro che per Spinoza il Cristo-Gesù (invertiamo
qui l’ordine abituale della diade) è il solo uomo che ha
comunicato con Dio non faccia a faccia (come hanno fatto
i profeti), ma da mente a mente. Egli ha intuito, con una
classica forma di “amore intellettuale di Dio”, la legge
divina universale che consiste nella sincerità (cioè nella
verità ) e nella carità (cioè nella bontà). Questa è l’incar­
nazione, non però nel senso teologico tradizionale, ma nel
senso “universalistico” per cui tutti gli esseri umani sono
potenziali portatori di incarnazione, purché sappiano an­
dare oltre le immaginazioni che li offuscano.
Il Cristo-Gesù è evidentemente una figura talmente
“universalistica” da risaltare in mezzo a tutti gli altri
saggi, filosofi, profeti, eccetera, e da distaccarsi da loro
nella sua irripetibile singolarità. Ancora una volta, ripe­
tiamo che questo Cristo-Gesù non è né un profeta né un
filosofo. Non è un profeta, perché non ha visioni o imma­
ginazioni (potenzialmente “ideologiche”, e ci si scusi il lin­
guaggio “moderno”). Ma non è neppure un filosofo del tipo
di Socrate, perché la conoscenza intuitiva che ha di Dio
(cioè della Natura, cioè dell’Assoluto) non ha bisogno di
percorrere faticosamente, come fanno tutti i filosofi ordi­
nari, i vari gradi della conoscenza.
Riteniamo la soluzione spinoziana estremamente in­
teressante. Essa non ci restituisce né il Gesù storico né il
Cristo della fede, ma ci tiene lontani anche dalle banali­
tà opposte e solidali dell’essere soprannaturale, da un lato,
e dell 'uomo come tutti gli altri, dall’altro.

Gesù 218 D io nel pensiero


9. Il Dio ragionevole d i Locke

La concezione della religione di Locke è estremamen­


te importante, perché non si tra tta certamente della pri­
ma concezione “borghese”, mentre si tratta della prima
concezione compiutamente “capitalistica”.
Abbiamo proposto al lettore questa cruciale distinzio­
ne parlando di Hobbes, e continueremo ad usarla e ad
approfondirla. Ricordiamo che Hobbes intendeva delegit­
timare ogni pretesa politico-messianica rivoluzionaria con
un riferimento testuale ad un Vangelo in cui lo “spirito”
era equiparato ad un potere assolutistico, mentre Pascal
traeva dalfimpossibilità di conoscibilità e di dimostrabi­
lità di una divinità non più “normativa” nel campo dei
comportamenti sociali la conclusione di una nuova cen­
tralità del Cristo, ed infine Spinoza spostava il terreno
della religione dal campo della legittimazione del potere
al campo della conoscenza liberatoria, di cui il Cristo-Gesù
aveva già dato un esempio singolare ed irripetibile di at­
tuazione. Tutti e tre questi pensatori possono già in qual­
che modo essere connotati come “borghesi”, mentre nes­
suno dei tre può essere seriamente definito come “orga­
nico” ai nuovi rapporti di produzione capitalistici.
Nel caso di Locke invece siamo già su questo terreno.
In proposito, crediamo fermamente che la cosiddetta cri­
tica di Locke all’idea di “sostanza” non sia assolutamen­
te un episodio della storia della teoria della conoscenza e
tanto meno dell’epistemologia scientifica, ma sia a tutti
gli effetti un episodio della storia del pensiero politico ed
economico. Karl Polanyi ha a suo tempo dimostrato che
solo con il capitalismo l’economia non è più “incorporata”
(embedded) in un tessuto sociale organico e sostanziale
che la contiene e la fonda, ma è autonomizzata e diventa
un complesso di rapporti dotata di proprie leggi di auto­

Gesù 219 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

riproduzione. La critica lockiana all’idea di “sostanza” non


è per noi che una metafora del fatto che l’economia capi­
talistica non è appunto più “sostanziale”, non è più incor­
porata in un legame sociale che ha bisogno di una fonda­
zione “esteriore”, di tipo appunto religioso.
È noto che Locke non sostiene affatto che l’idea di so­
stanza non esiste. Al contrario, nella sua distinzione fra
idee semplici e idee complesse, e nella sua classificazione
delle idee complesse, Locke si sofferma a lungo sull’idea
di sostanza, distinguendola dai modi e dalle relazioni.
Tuttavia, nella nostra personale interpretazione sul per­
ché vi sia in Locke tanta insistenza sull’inconoscibilità
della sostanza, sosteniamo che vi è in questa operazione
teorica un’estensione allegorica della negazione di una
sostanzialità non economica (e cioè non capitalistica) del
legame sociale. Il legame sociale capitalistico è infatti, in
termini kantiani, sempre una funzione e mai una sostan­
za, per il fatto che esso non si “fonda” su di un terreno
extraeconomico, ma risulta dall’interazione concorrenzia­
le ed antagonistica di “centri energetici” capitalistici ri­
vali.5
Locke è il primo filosofo della religione capitalistico
appunto perché è il primo filosofo della religione in cui si
inverte la situazione precedentemente descritta, tipica
delle società precapitalistiche: il legame sociale si auto-
nomizza da ogni fondazione esteriore interiorizzando la
“religiosità” della propria autoriproduzione. Tutto ciò è
definito in termini di ragionevolezza, e non a caso l’opera

5 1 due pensatori essenziali per comprendere questo fatto sono Karl


Polanyi, di cui abbiamo parlato sopra, e Gianfranco La Grassa. Le
elaborazioni teoriche di quest’ultimo ci spiegano come l’unica possibi­
le definizione di capitalismo sia quella di una rete funzionale di inces­
sante divaricazione di ruoli di potere “comandata” da processi di divi­
sione del lavoro sociale.

G esù 220 Dio n el pensiero


C ostanzo P reve

filosofico-religiosa principale di Locke si intitola La ra­


gionevolezza del cristianesimo. Tutto ciò è spesso impro­
priamente definito in termini di deismo o anche di reli­
gione naturale, ma a nostro avviso entrambe queste qua­
lificazioni sono improprie e fuorvianti.
La ragionevolezza infatti non è per nulla identica alla
ragione (o alla ragione naturale), ma è la ragione resa
compatibile con la legittimazione integrale della ripro­
duzione capitalistica. La religione di Locke è ragionevole
non soltanto perché si limita ragionevolmente a due soli
articoli (Dio esiste e Gesù Cristo è il Messia), ma perché
insiste sulla promessa di ricompensa divina dopo la mor­
te per le azioni meritevoli e di punizione divina per quel­
le immeritevoli. Si tra tta di una sorta di utilitarismo te­
ologico che rompe integralmente con la posizione di Spi­
noza per cui la virtù è ricompensa a se stessa ed il vizio è
punizione a se stesso.
Il principio dello scambio, ed anzi dello scambio di equi­
valenti fra azione terrena e ricompensa ultraterrena è
qui integralm ente “secolarizzato” rispetto al pensiero
medioevale, in cui questo stesso principio della scambio
(pensiamo ad esempio a Dante Alighieri) era subordina­
to ed incorporato in una storia generale della caduta e
della salvezza.
Nel prossimo paragrafo dedicato a Kant faremo in pro­
posito notare che il formalismo morale kantiano, che ri­
nuncia alla dialettica del premio e della pena eterni per
fondare l’azione in modo autonomo solo su se stessa, rap­
presenta rispetto a Locke un passo in avanti da un punto
di vista “borghese”, ma un passo indietro da un punto di
vista “capitalistico”, proprio perché quest’ultimo secola­
rizza molto volentieri il principio medioevale del rappor­
to fra terra e cielo in termini di scambio di equivalenti
(morali). In proposito la stessa teoria di Locke della tolle­

Gesù 221 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

ranza religiosa, spesso definita “incoerente” perché com­


porta almeno quattro eccezioni al riconoscimento della
tolleranza stessa (i dogmi radicalmente opposti ai fonda­
menti ed ai fini della società civile; i privilegi ecclesiasti­
ci contrari al diritto civile; le chiese che implicano l’obbe­
dienza ad un principe straniero, come il papa e la chiesa
cattolica romana; gli atei in quanto incapaci di dare al
giuramento, e dunque al contratto, un valore sacro ed
inviolabile), è invece estremamente coerente con l’impo­
stazione generale di legittimazione capitalistica. Sono così
esclusi dalla tolleranza sia gli irlandesi, che in quanto
cattolici possono essere liberamente espropriati e rapi­
nati, sia i primitivi ed i selvaggi che con il loro comunita­
rismo tribale comunistico non conoscono il contratto di
proprietà che istituisce la società civile capitalistica.
A distanza di quasi trecento anni le esclusioni e le ec­
cezioni lockiane alla tolleranza si riproducono in modo
solo formalmente cambiato nei confronti dei comuniSmi
rivoluzionari e dei fondamentalismi religiosi variamente
ostili al pensiero unico delle oligarchie finanziarie tran ­
snazionali.
Il Dio di Locke è esattamente il Dio coniato sulle mo­
nete del dollaro americano: In God we trust. E bene allo­
ra ribadire che nel primo filosofo capitalistico della reli­
gione i tre elementi teorici sopra indicati (negazione del­
l’idea di sostanza come negazione metaforica dell’incor­
porazione dell’economia in un fondamento sociale extra­
economico; insistenza sulla punizione o sulla ricompensa
divina dopo la morte come principio di scambio di equi­
valenti in cui l’economico è sublimato nel morale; teoria
limitativa della tolleranza che è in realtà un’apologià ipo­
crita dell’intolleranza) formano un tutto armonioso e co­
erente, un vero e proprio sistema filosofico ammirabil­
mente coeso.

Gesù 222 Dio n el pensiero


C ostanzo P reve

Ammettiamo volentieri che si tratta di un innegabile


progresso rispetto ai roghi dell’Inquisizione ancora pre­
senti sul continente europeo, contro i quali Voltaire lottò
in modo instancabile per tutta la vita. Ma questo ovvio
riconoscimento non cambia nulla, a nostro avviso, alla
pertinenza storica e filosofica della tesi che abbiamo so­
stenuto in questo paragrafo.

G esù 223 Dio nel pensiero


10. L a religione scettica d i Hume

Dopo Locke, Hume è un altro filosofo “capitalistico”


della religione che ha saputo proporre soluzioni non solo
coerenti, ma anche francamente geniali. L’etichetta di
“scettico” che gli viene appiccicata, pur non essendo sba­
gliata, non rende il merito dovuto alla ricchezza di arti-
colazioni del suo pensiero. Lo scetticismo di Hume è una
macchina da guerra contro le posizioni che egli voleva
distruggere, laddove le sue concezioni “positive” erano
tu tt’altro che scettiche, trattandosi di convincimenti ben
precisi e solidi. In proposito, si tende talvolta a sottoline­
are lo “scetticismo” di Hume sulla base della sua teoria
della “credenza” (belief), per cui sia l’identità dell’io sia il
nesso di causalità dovevano essere considerate semplici
credenze.
Ma in tutto questo non c’è proprio nulla di scettico. Da
un lato, l’identità psicologica dell’io era integralmente
desostanzializzata non certo per impoverirla, ma per ar­
ricchirla con tutte le nuove esperienze di socializzazione
e di individualizzazione permesse dalla nuova società
capitalistica, in cui le “associazioni” psicologiche diven­
tavano immensamente più ricche di prima perché l’indi­
viduo era strappato alla fissità sociologica dei ruoli feu­
dali precedenti. Dall’altro lato, la critica alla categoria di
causalità (indipendentemente dal fatto di essere svolta
con l’argomento della imprevedibilità di movimento del­
la palla di biliardo) non era che la metafora gnoseologica
dell’abbandono della teoria contrattualistica e dell’ado­
zione della nuova teoria utilitaristica del legame sociale.
Non è più infatti un contratto sociale a causare l’instau­
razione della società civile, ma quest’ultima si instaura
armonicamente per un libero gioco di aspettative indivi­
duali radicate nel funzionamento della natura umana (che

Gesù 224 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

è eguale in tutti gli uomini). Abbiamo qui una corretta


universalizzazione non della borghesia, ma del capitali­
smo. In più, la sostituzione della fondazione contrattua­
listica con la fondazione utilitaristica permette la nasci­
ta autonoma dell’economia politica, che non può essere
teoricamente fondata in modo contrattualistico, ma ha
bisogno di un presupposto filosofico utilitaristico (ed il
debito di Adam Smith verso Hume è esplicito e dichiara­
to).
La genialità di Hume si manifesta pertanto anche nei
suoi due scritti di filosofia della religione (la Storia natu­
rale della religione ed i Dialoghi sulla religione natura­
le). Si tra tta di due opere di una freschezza stupefacente,
di cui vorremmo soltanto sottolineare pochissimi punti
utili alla logica del nostro ragionamento. Egli sviluppa
una vera e propria “analitica della credenza”, in cui la
credenza non è considerata dal punto di vista del suo og­
getto e del suo grado di verità e di probabilità (cioè Dio e
la sua eventuale esistenza), ma da quello delle passioni
che ne stanno all’origine, dei loro effetti attesi sia indivi­
duali che sociali; in breve, la credenza è studiata a parti­
re dal bisogno di credere. In questo approccio, ovviamen­
te, non c’è proprio nulla di scettico, e si tra tta anzi di un
approccio analogo a quello del “razionalista” Spinoza, in
cui l’analogia sta proprio nel comune terreno di critica
dell’ideologia. La religione infatti non è presentata come
una pura illusione, ma come una risposta determinata,
diversificata a seconda delle differenze dei temperamen­
ti e delle situazioni, ad un problema fondamentale comu­
ne: come dominare il disordine, e particolarmente l’in­
certezza del futuro, ed instaurare l’ordine? Come si vede,
si tra tta di una tesi fortissima, in cui non c’è una sola
ombra di scetticismo. L’incertezza del futuro di cui parla
Hume non è più la vecchia incertezza precapitalistica,

Gesù 225 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

ma è la nuova incertezza legata alle aspettative dello


scambio capitalistico sempre minacciato dal fallimento e
dalla crisi. In queste condizioni, Hume capisce perfetta­
mente che la stragrande maggioranza della gente non
potrà mai fare a meno della religione. Si tratta allora di
quale tipo di religione sia la più appropriata alla nuova
società. E qui Hume rivela di avere idee chiare e sorpren­
dentemente attuali. Infatti, all’interno di una teoria sta­
diale delle forme storiche successive di coscienza religio­
sa (politeismo primitivo, teismo popolare, ed infine tei­
smo speculativo della religione naturale, cioè deismo ra ­
zionale), Hume afferma apertamente la superiorità del
politeismo sul teismo popolare, cioè sul monoteismo in­
tollerante.
Non si tratta però di una tesi alla Nietzsche, in cui il
politeismo è preferito al monoteismo sulla base della ri­
vendicazione della sua tragicità dionisiaca originaria, ma
di una tesi simile a quella dell’odierno “pensiero debole”,
per cui il pluralismo politeistico è strutturalm ente meno
pericoloso ed intollerante del monoteismo, spezzettando
la pericolosa pretesa dell’esclusività della verità in molti
frammenti, anziché concentrarla in un punto solo. Si tra t­
ta di un’anticipazione genialissima del funzionamento del
bisogno religioso nel moderno capitalismo, cui è molto
più affine la frammentazione delle sette e la diversifica­
zione dell’offerta sul mercato del bisogno religioso piut­
tosto della riproposizione dei grandi monoteismi organiz­
zati.
Infine, Hume è uno dei pochi filosofi dell’epoca a rifiu­
tare di riconoscere la superiorità del deismo razionale sul
teismo popolare, cioè della religione intellettuale dell’es­
sere supremo sulla superstizione antropomorfica del con­
tinuo intervento divino miracoloso. Ciò è particolarmen­
te evidente nei dialoghi fra i personaggi di Demea, Cle­

G es O 226 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

ante e Filone. Hume capisce benissimo che il deismo ra ­


zionale è in realtà una religione per intellettuali e scien­
ziati, che proiettano la loro personale istanza di raziona­
lità coltivata nella pratica delle loro scienze specifiche
nella superrazionalità progettuale della divinità. L’an­
tropomorfismo non è dunque un difetto solo dei semplici,
ma anche dei dotti e degli intellettuali. Secondo Hume
infatti ha carattere “antropomorfizzante” anche l’ipotesi,
tipica del deismo razionalistico, di una intelligibilità in­
tegrale del reale basata sulla dipendenza da un’intelli­
genza superiore ma analoga all’intelligenza umana, il che
garantisce a quest’ultima la capacità di capire il mondo.
La profondità di questa osservazione di Hume è, a
nostro avviso, persino superiore alla teoria dell’aliena­
zione di Feuerbach. Anche in questo caso, però, si è di
fronte ad una determinazione sociale: il capitalismo è in­
compatibile con il sogno borghese del primato degli intel­
lettuali, perché il suo concreto funzionamento è incom­
patibile con ogni tipo di progettualità razionale. Hume
dimostra anche in questo caso una grande lungimiranza
non tanto nello svelamento dell’illusione religiosa in ge­
nerale, quanto nello smontaggio dell’intellettualismo ar­
bitrario dell’illusione religiosa sofisticata. La borghesia
era forse in cerca di una forma razionale di religione na­
turale, ma il capitalismo richiedeva la compresenza plu­
ralistica di politeismo, teismo popolare e deismo raziona­
le (come avverrà più tardi anche per il comuniSmo stori­
co novecentesco).

G esù 227 D io nel pensiero


11. L’ateism o e d il m aterialism o francese
d e l Settecento

Nel Settecento illuministico francese l’ateismo ed il


materialismo moderno assumono per la prima volta una
fisionomia filosofica esplicita, che è necessario però esa­
minare con cura per non cadere nella ripetizione di pre­
giudizi interpretativi che non resistono ad un’analisi più
ravvicinata. In proposito è consigliabile studiare special-
mente Diderot e d’Holbach, in particolare a proposito delle
posizioni teoriche che li separarono da d’Alembert e da
Voltaire. Questa analisi porta a risultati molto interes­
santi.
In primo luogo, si tende ad attribuire ai materialisti
francesi del Settecento la tesi della religione come impo­
stura, cioè come trucco dei sacerdoti. Non è esatto. La
tesi della natura della religione come inganno dei preti è
piuttosto tipica dei “libertini” francesi del Seicento, cui
gli atei ed i materialisti francesi del Settecento si con­
trappongono esplicitamente individuando l’origine della
religione nella doppia radice della paura e dell’ignoran­
za; l’impostura organizzata si sovrappone solo in un se­
condo momento.
Questa precisazione è importante, perché in questo
modo la religione viene in un certo senso non solo spiega­
ta nella sua genesi, ma anche “legittimata”, dal momen­
to che soltanto togliendo concretamente le radici politi­
che e sociali della paura e dell’ignoranza sarà possibile
opporsi alle pretese conoscitive e morali della religione.
È questa la posizione “ottocentesca” generalmente attri­
buita ai filosofi posthegeliani come Feuerbach e Marx,
ed è dunque giusto ed opportuno “retrodatarla” al Sette­
cento. Questa retrodatazione non è soltanto un prodotto
di onestà storiografica, ma è anche un’esigenza di chia­

Gesù 228 DlO NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

rezza filosofica. La retrodatazione al Settecento dell’esi­


genza “disalienante” di eliminare le radici della paura e
dell’ignoranza è importante perché ad esempio in d’Hol-
bach sia la paura che l’ignoranza vengono indagate espli­
citamente nella loro genesi storica, politica e sociale, e
non vengono affatto semplicemente legate alla fragilità
della corporeità umana (anche se in d’Holbach questo ele­
mento alla Leopardi è già presente, come Sebastiano Tim­
panaro ha fatto acutamente notare in un suo mirabile
commento a d’Holbach).
La specificità della critica marxiana alla religione, che
non è in alcun modo semplicemente “atea” (come faremo
notare nei paragrafi dedicati a Marx ed al marxismo),
può essere sottolineata soltanto se essa non viene sovrac­
caricata con elementi già perfettamente chiariti ed espli­
citati un secolo prima.
In secondo luogo, si tende a definire l’ateismo come
una forma di puro e semplice anti-teismo. Questo non è
esatto. La critica alle pretese normative del teismo, che
si basa su di una concezione personalistica, antropomor­
fica e dunque finalistica della divinità, è ad esempio al
centro della filosofia di Spinoza, e questo non dà luogo
affatto all’ateismo, ma ad una concezione alternativa del­
l’Assoluto.
La pretesa del teismo di presentare la propria conce­
zione della divinità come l’unica possibile è una pretesa
superstiziosa e filosoficamente infondata. Il legame fra
ateismo e materialismo è indubbiamente più stretto (come
appare evidente leggendo Diderot e d’Holbach), ma in
questo caso è opportuno aggiungere che con il termine
“materialismo” ci si riferisce non soltanto all’attribuzio­
ne alla “m ateria” delle proprietà autopoietiche di movi­
mento ed organizzazione coerente al di fuori di ogni in­
tervento esterno, ma anche al costante riferimento ai

Gesù 229 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

progressi della fisica, della chimica e della biologia nel­


l’argomentazione che intende dimostrare l’inesistenza
della divinità. Questa argomentazione è però sempre ac­
cettata esplicitamente come terreno legittimo di confron­
to anche dai sostenitori del deismo razionale, cioè del­
l’esistenza di una divinità monoteistica “purificata” dal­
la superstizione (e vi è qui una lunga tradizione scientifi-
co-religiosa che nasce dalla teologia newtoniana in parti­
colare da Clarke in poi).
Non si può allora dire che il riferimento alla legitti­
mazione “scientifica” dell’argomentazione razionale sia
specifico e caratterizzante dell’ateismo materialistico. Non
è così, ed è bene esserne ben consapevoli, perché la “fede”
nella decisività del riferimento scientifico dell’argomen­
tazione atea e materialistica ha caratterizzato in modo
particolarmente grottesco il sistema scolastico e cultura­
le del materialismo dialettico e del marxismo-leninismo,
la concezione del mondo nichilistica del comuniSmo sto­
rico novecentesco. Il punto essenziale dunque sta altro­
ve. Dove trovarlo?
È difficile trovarlo, ma è possibile cercarlo. Occorre a
nostro avviso cercarlo nel fatto che Yavversario filosofico
principale dell’ateismo materialistico francese del Sette­
cento non è affatto il teismo popolare, cioè l’insieme delle
superstizioni antropomorfiche delle religioni positive, ma
è proprio il deismo razionale, con la sua pretesa (eviden­
te ad esempio in Voltaire) di separare l’attacco alla Chie­
sa (individuata come la sola avversaria da schiacciare)
dal consenso al dispotismo assolutistico, magari superfi­
cialmente “illuminato” (dove l’attributo dell’illuminazio-
ne veniva conferito autoreferenzialmente dal potere stesso
e dai suoi intellettuali cortigiani). Si ha qui una contigui­
tà apparente con il pensiero di Hume, che è però appunto
solo apparente. Hume voleva fare notare che il deismo

Gesù 230 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

razionale non era affatto superiore al teismo popolare


come credeva, ma era solo un’elaborata superstizione
razionalistica tipica del ceto degli scienziati e degli intel­
lettuali, e che la generale esigenza di consenso al funzio­
namento utilitaristico a posteriori (e dunque senza con­
tratto politico fondante a priori) del sistema economico
capitalistico era incompatibile con una fondazione “reli­
giosa” basata sul ristretto snobismo elitario degli intel­
lettuali. In proposito, la critica di Hume appare sorpren­
dentemente attuale, se pensiamo che oggi piccoli gruppi
elitari di intellettuali “laici” (oggi in Italia viene definito
“laicismo” ciò che duecento anni fa era più correttamente
definito “deismo razionale”) vorrebbero ancora che la le­
gittimazione liberal del sistema capitalistico avvenisse
senza fare alcuna concessione alle religioni “popolari”,
trascendenti o immanenti che siano, tacciate di “populi­
smo”.
I m aterialisti francesi del Settecento, e d’Holbach in
particolare, sono contigui a Hume nel rifiuto di differen­
ziare teismo popolare e deismo razionale, ma se ne di­
staccano nel fatto che vedono con maggiore chiarezza come
il deismo razionale alla Voltaire non sia soltanto una pro­
iezione ideologica di intellettuali in cerca di una spiega­
zione sistematicamente razionale del mondo, ma sia so­
prattutto un’ideologia apologetica di legittimazione del
potere e del dispotismo. Questo è il punto essenziale. Il
deismo razionale è una teodicea (cioè una giustificazione
provvidenzialistica del potere divinizzato) esattamente
come il teismo popolare, ed è anzi una teodicea estrema-
mente più robusta e sofisticata, perché più “flessibile” e
più compatibile con il pensiero scientifico moderno.
Ricapitoliamo. L’ateismo materialistico francese del
Settecento non è una semplice denuncia dell’impostura
delle religioni basata sull’inganno di astuti e corrotti sa­

Gesù 231 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

cerdoti, ma è già a tutti gli effetti una teoria dialettica


delle determinazioni sociali dell’origine della religione
nella paura e nell’ignoranza (termini cui viene accurata­
mente tolta ogni aura di colpevolezza e dunque di negati­
vità naturale).
Occorre dunque retrodatare ad un secolo prima ciò che
la manualistica corrente attribuisce come “novità” asso­
luta a Feuerbach ed al giovane Marx. L’ateismo non è
neppure un semplice anti-teismo, perché quest’ultimo (e
si veda il pensiero di Spinoza) non è di per sé una forma
di ateismo. L’ateismo è nella sua più profonda essenza
un attacco ai tiranni (e dunque il suo poeta latino di rife­
rimento non è tanto Lucrezio quanto Lucano).
Il legame fra ateismo e materialismo non sta soltanto
(e prevalentemente) nella legittimazione scientifica del­
l’argomentazione (comune anche al deismo razionale alla
Voltaire), ma soprattutto nella rivendicazione edonistica
nel diritto di tutti alla felicità, o quanto meno alla mag­
giore riduzione possibile dell’infelicità. Ci scusiamo con
il lettore per questa ennesima ricapitolazione, ma cre­
diamo che senza questo primo bilancio sarebbe impossi­
bile proseguire nella comprensione della nostra argomen­
tazione.

G esù 232 DIO NBL PENSIERO


12. Il Dio ed il C risto d i K a n t

La grandezza filosofica di Kant è tale, che nel suo pen­


siero si concentrano in forma esplicita tutte le contraddi­
zioni della modernità, sia nel suo aspetto borghese che
nel suo aspetto capitalistico.
Da un lato, l’utopia borghese moderna della comunità
razionale unita dalla ragione e dal dovere si manifesta
nella forma dell’auspicio di una sorta di chiesa invisibile,
universale perché ignora la divisione in sette ed in di­
stinte confessioni, pura perché esclude superstizioni ed
entusiasmi (“entusiasmo” è l’espressione del tempo per
indicare ciò che oggi viene definito “fanatismo”), eguali­
taria e libera in quanto ignora “l’umiliante distinzione
fra laici e sacerdoti” [sic!], simile assai più ad una comu­
nità domestica che ad una comunità politica.
Dall’altro lato, il realismo dell’annunciatore di una
società capitalistica si manifesta altrettanto nettamente
nel pessimismo antropologico, nella secolarizzazione ra ­
zionalistica del peccato originale di Adamo, e nella con­
notazione della natura umana come di un “legno storto”,
impossibile da raddrizzare perché frutto di un vero e pro­
prio “male radicale”.
Certo, un pensiero complesso come quello di Kant non
può e non deve essere semplificato oltre un certo punto.
Non crediamo però che si tratti di una semplificazione
indebita se insistiamo sul fatto che Kant, che è ad un
tempo il coronamento della tradizione della religione
naturale e del deismo razionale ed il definitivo congedo
da questa tradizione, è il luogo filosofico privilegiato per
studiare il conflitto insieme tragico e dialettico fra l’uto-
pismo borghese ed il realismo capitalistico. Kant si con­
geda dalla tradizione del deismo razionale non tanto per­
ché delegittima filosoficamente l’esercizio delle famose

Gesù 233 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

“prove” dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’ani­


ma (è questa una versione corretta ma riduttiva popola-
rizzata dalla tradizione manualistica), quanto perché
parte di qui per delegittimare esplicitamente ogni tenta­
tivo di fondare razionalmente una teodicea. Per Kant l’ar­
monia eventuale del mondo non è mai un oggetto di cono­
scenza, ma sempre e solo di fede e di speranza. L’utopia
borghese si legittima dunque come docta spes, speranza
razionale, e questa a nostro avviso è una delle innumere­
voli prove che il moderno si costituisce secolarizzando un
precedente contenuto religioso, e non autoaffermandosi
rompendo con esso.
In prima approssimazione, la concezione kantiana di
Dio presenta tre dimensioni fondamentali: Dio come og­
getto di esistenza e di possibile conoscibilità (e Kant dà
una risposta agnostica); Dio come postulato della ragion
pratica (e Kant dà una risposta affermativa); infine, l’idea
di Dio come ideale trascendentale ad uso regolativo, con
la connessa tematica della speranza. Questa terza dimen­
sione è la più trascurata, laddove essa a nostro avviso è
la più significativa e comunque la più originale. Kant
articola la sua concezione del progresso come dialettica a
zigzag di avanzate e di regressi in una formulazione estre­
mamente realistica.
A nostro avviso l’immagine dell’interminabile avvici­
namento asintotico ad una situazione di impossibile per­
fezione, che viene argomentata con l’inconciliabilità ra ­
dicale di felicità e di virtù e con la conseguenza della riam­
missione dell’idea di immortalità dell’anima come luogo
di realizzazione di questo interminabile avvicinamento
asintotico, metaforizza nella purezza dell’astrazione filo­
sofica l’impossibilità della sintesi fra utopia borghese e
realismo capitalistico.

Gesù 234 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

La conseguenza di questa impasse teorica e di questo


incontro impossibile dà luogo non ad una nuova storicità
ma ad una singolare destoricizzazione, e questa destori-
cizzazione è sintomaticamente espressa dal fatto che
Kant, a proposito di Gesù Cristo, regredisce ad una posi­
zione precedente a quella di Spinoza. Si ricorderà che
Spinoza aveva sostenuto che Gesù non era un uomo come
tu tti gli altri, ma si distingueva da tutti gli altri per il
fatto di essere stato capace di un rapporto peculiare «da
mente a mente» (di un’intuizione senza il tram ite del­
l’immaginazione) con Dio, e si ricorderà che abbiamo in­
terpretato questo singolare riconoscimento spinoziano
come la percezione dell’eccezionaiità dell’unione di since­
rità e di carità (in linguaggio moderno, della verità come
unione di teoria e di prassi).
Con Kant Gesù Cristo torna ad essere un uomo in via
di principio eguale a tutti gli altri. Citiamo dall’opera La
religione entro i limiti della sola ragione: «Se dunque, in
una certa epoca, fosse quasi disceso dal cielo sulla terra
un tale uomo davvero divinamente ispirato, il quale aves­
se in sé offerto, con la sua dottrina, la sua vita e le sue
sofferenze, l’esempio di un uomo gradevole a Dio [...] se
egli avesse, con tutto ciò, apportato nel mondo un infini­
to bene morale, mediante una rivoluzione nel genere
umano, noi non avremmo tuttavia alcun motivo di vede­
re in lui altra cosa che un uomo generato naturalmente
[...] pur non intendendo con ciò di negare assolutamente
che quest’uomo possa certo essere stato generato in ma­
niera soprannaturale. Infatti al fine pratico, l’ultima ipo­
tesi non è per noi di alcun vantaggio; perché bisogna pur
sempre ricercare in noi stessi (quantunque uomini natu­
rali) il modello che noi poniamo a base di questa appari­
zione, e l’esistenza di questo modello dell’anima umana
è, già in se stessa, abbastanza incomprensibile, perché

Gesù 235 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

non sia necessario ammettere, oltre la sua origine sopran­


naturale, anche la sua ipostatizzazione in un uomo par­
ticolare».
La citazione era lunga, ma ne valeva la pena. Kant
infatti attua qui una duplice negazione, nel linguaggio
un po’ contorto tipico dell’epoca e della sua natura di
“benpensante”. Da una parte è negata l’origine sopran­
naturale del Cristo, dall’altra è negata la “ipostatizzazio­
ne” di Gesù di Nazareth, cioè la pretesa che in questo
particolare e determinato individuo si sia concretizzato
in modo perfetto il lato spirituale e “divino” dell’essere
umano. Vedremo nei prossimi due paragrafi che Hegel
rifiuterà invece (a nostro avviso correttamente) questa
conclusione genericamente “umanistica” e di senso comu­
ne. Questa conclusione caratterizzerà invece sia le vite
di Gesù ottocentesche “borghesi” basate su di un Gesù
“storico” maestro di moralità e di giustizia di tipo socra­
tico e kantiano, sia le vite di Gesù novecentesche “prole­
tarie”, basate su di un Gesù “storico” guerrigliero, parti­
giano, sindacalista, militante ed assistente sociale.
In questo senso l’affermazione “umanistica” di Kant
da noi riportata è a tutti gli effetti la genesi filosofica
della stragrande maggioranza delle vite di Gesù borghe­
si e proletarie. Facciamo questa affermazione senza ov­
viamente la minima ombra di disapprovazione, dileggio
o disprezzo. Al contrario, è evidente che l’umanizzazione
integrale di Gesù è una figura essenziale ed insopprimi­
bile del pensiero occidentale moderno e contemporaneo.
Ma il segreto di Gesù non consiste nella dialettica fra
umanizzazione e soprannaturalità, ma nel mistero della
singolarità e dell’eccezionaiità della sua esperienza in­
sieme materiale e spirituale. Kant (a differenza di Spino­
za e di Hegel), non può riconoscere questa singolarità per­
ché è irresistibilmente portato ad una universalizzazio-

Gesù 236 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

ne senza mediazione singolarizzante, che è l’universaliz-


zazione astratta della morale insieme borghese e capita­
listica, di cui egli è il fondatore.
È necessario comprendere bene il problema dell’uni-
versalizzazione astratta, presupposto teorico implicito
(anche se quasi sempre inconsapevole) della negazione
delfeccezionalità di Gesù Cristo. L’umanesimo illumini­
stico, di cui Kant è esponente consapevole e profondo, si
fonda su una universalizzazione astratta della natura
sociale dell’uomo, una universalizzazione formalmente
egualizzante che si contrappone alle differenze partico­
laristiche del pensiero signorile e feudale.
Anche la verità, di conseguenza, viene pensata sotto
la modalità dell’astrattezza generica di una formula for­
malistica (pensiamo all’imperativo categorico kantiano),
cui vengono di volta in volta riportati i casi particolari da
sussumere sotto la generalità aprioristica astratta. In
questo modo, però, la verità specifica di Gesù Cristo non
potrà mai essere colta. Gesù non può infatti essere “inca­
sellato” come caso particolare dell’astrazione “uomo”.
Chi compie questa operazione (giustamente sconsiglia­
ta anche da Kierkegaard) girerà sempre in tondo intorno
ad una’ astrazione umanistica vuota. Ma, appunto, que­
sto avviene perché l’umanesimo borghese-capitalistico
non può essere reso compatibile con il Gesù storico reale;
anche qui, ovviamente, Kierkegaard coglie il punto es­
senziale della questione.
Questo umanesimo non può arrivare che alla scissio­
ne fra il Cristo della fede, indimostrabile, e il Gesù stori­
co, semplice esempio di uomo gradevole a Dio, come ce ne
sono stati molti altri, anche se forse ad essi “gerarchica­
mente” superiore. In questo modo si chiude a nostro av­
viso la possibilità di una migliore comprensione del pro­
blema.

Gesù 237 D io nel pensiero


13. Il C risto d i Hegel

Nell’esame sommario dedicato a Pascal, Spinoza e


Kant abbiamo parlato prima del loro Dio, e soltanto dopo
della loro concezione di Gesù Cristo, o del Cristo-Gesù.
Con Hegel bisogna invece percorrere un cammino inver­
so, in quanto a nostro avviso vi è una precedenza logico­
ontologica di Gesù Cristo su Dio che occorre spiegare.
Con questa affermazione non alludiamo soltanto al
fatto biografico per cui il giovane Hegel iniziò la sua bril­
lante carriera filosofica studiando teologia e riflettendo
sulla figura di Gesù, e soltanto dopo scrisse la Fenome­
nologia dello Spirito e la Scienza della Logica, in cui la
sua concezione dell’Assoluto è espressa in forma filosofi­
camente sistematica. Certo, alludiamo ovviamente an­
che a questo fatto biografico. Ma il punto fondamentale
non sta qui.
Il punto fondamentale sta nel fatto che il giovane He­
gel consuma la prima rottura con Kant non sul problema
della separazione fra fenomeni e noumeni e fra intelletto
e ragione, ma sul fatto che non è disposto ad accettare la
coesistenza fra umanizzazione di Gesù Cristo ed esisten­
za del male radicale. Se infatti Gesù Cristo è un uomo,
avrà anche lui in sé il male radicale. Ma questo Hegel
non è disposto ad accettarlo, e si ha qui a nostro avviso
l’inizio (psicologico e teoretico) del cosiddetto sistema
hegeliano. È questo uno dei punti filosofici più importan­
ti di questo nostro saggio. Apparentemente tutto il pen­
siero cristiano concorda sul fatto che l’uomo soffre del male
radicale a causa del peccato originale di Adamo, mentre
Gesù di Nazareth, essendo il Cristo, ha una natura uma­
na libera dal male radicale. Sembrerebbe dunque che
Hegel non scopra nulla di nuovo, ma semplicemente ri­
porti ciò che conosce qualunque studente del catechismo.

Gesù 238 Dio n el pensiero


C ostanzo P reve

Eppure non è così. In realtà Hegel coglie acutamente una


contraddizione presente nella cristologia tradizionale, e
ne sviluppa la logica di svolgimento dialettico. La verità
del messaggio di Gesù può essere colta soltanto sulla base
del presupposto dell’inesistenza del male radicale negli
uomini. Questo aspetto antiluterano dell’altrimenti pro­
testante Hegel è stato a nostro avviso messo sotto troppo
silenzio dalla critica filosofica.
È noto che il giovane Hegel oscillò a lungo prima di
chiarire a se stesso la ragione fondamentale della sua
critica alle religioni “positive”, che nel suo linguaggio si­
gnifica “negative”, in quanto fondate su riti istituziona­
lizzati e costrittivi. In un primo momento contrappose la
religione greca al cristianesimo. In un secondo momento
preferì contrapporre il cristianesimo rigenerato come re­
ligione dell’amore e dello Spirito all’ebraismo concepito
come religione della legge, del formalismo e della separa­
tezza della divinità dal mondo.
L’elemento di continuità fra i due momenti sta nel fat­
to che la comune verità di questa critica sta in un punto
solo: la necessità di respingere radicalmente un elemen­
to presupposto di separatezza dal mondo, sia esso il Bene
Assoluto di una Legge imposta agli uomini, sia esso il
Male Radicale dovuto al fatto che la natura umana è un
“legno storto”. La critica al cristianesimo prima (contrap­
posto alla grecità) ed all’ebraismo poi (contrapposto al
cristianesimo di Gesù rigenerato dall’amore) è in realtà
una sola critica al kantismo. Secondo la nostra interpre­
tazione, sviluppata nei paragrafi precedenti, si tra tta di
una critica a quell’elemento del kantismo che, non suffi­
cientemente analizzato, impedisce poi di separare dia­
letticamente l’utopismo borghese ed il realismo capitali­
stico. Non è dunque esatto parlare di un “giovane Hegel”
kantiano, come spesso fa imprudentemente la critica e la

Gesù 239 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

manualistica. No, fin dall’inizio Hegel si contrappone alla


metafisica pessimistica del “male radicale” e del “legno
storto”, e si contrappone anche ad ogni interpretazione
di Gesù come il Cristo che viene a salvarci dal peccato
originale.6
Per il giovane Hegel il peccato originale è un mito ebrai­
co privo di fondamento e la ricerca della verità deve ini­
ziare con una mossa obbligata, che è il rifiuto dei presup­
posti dogmatici del “male radicale” e del “legno storto”.
Non crediamo nel potere taumaturgico delle citazioni, per
il semplice fatto che con esse si può sempre dimostrare
qualunque cosa, non appena le si astrae dal loro conte­
sto. In questo caso faremo però un’eccezione, e riportere­
mo qui due citazioni di Hegel su Gesù Cristo, l’una tratta
dal giovane Hegel e l’altra dall’Hegel maturo, separate
perciò da più di vent’anni l’una dall’altra.
Dice la prima: «Ma la cosa principale non è vedere se
si possano scoprire nell’insegnamento di Gesù le propo­
sizioni di una morale pura, che possono essere egualmente
trovate negli scritti di un Platone, di un Senofonte, di un
Rousseau, né è da prendere in considerazione il fatto che
i principi pratici non sono ordinati in sistemi o per lo meno
che non sono specificati tutti i doveri e tutti i loro moven­

6 È chiaro che in questo modo Hegel ritorna necessariamente all’im­


postazione dialettica di Rousseau. Come è noto, nella forma più tardi
compendiata da Engels (a nostro avviso del tutto correttamente) la
dialettica in Rousseau si esplicita attraverso questi tre momenti: egua­
glianza naturale; progresso della diseguaglianza come risultato del­
l’uscita dell’uomo dallo stato di natura; capovolgimento del rapporto
oppressori-oppressi e ristabilimento dell’eguaglianza ad un livello più
elevato rispetto a quello naturale. Naturalmente sarebbe errato trar­
ne la conseguenza che il giovane Hegel è un rùssoviano. Non è così,
perché a differenza del giovane Marx (che su questo punto è sempre
stato assai più rùssoviano di lui) fin da giovane Hegel ebbe una chia­
ra nozione della differenza radicale fra naturale e sociale.

Gesù 240 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

ti: il punto principale è invece vedere sotto quale luce, in


quali legami, con quale rango essi sono presentati». Qui
Hegel intende dire che la verità di Gesù Cristo ha una
sua specifica singolarità irripetibile, ed essa sta nel fatto
che si riporta alla soggettività amorosa consapevole ciò
che prima era separato ed astratto da essa; è questo il
“rango” dei principi pratici.
Dice la seconda citazione: «Se si vuole che Cristo sia
stato solo un individuo eccellente, magari addirittura
senza peccato, e non altro che questo, si nega la rappre­
sentazione dell’idea speculativa della verità assoluta. Di
questo invece si tratta, e da questo bisogna muovere. Fate
di Cristo ciò che volete, esegeticamente, criticamente,
storicamente: mostrate pure a volontà come le dottrine
della Chiesa nei concili siano nate da questo o da quel­
l’interesse o passione dei vescovi, o abbiano avuto questa
o quella provenienza. Tutte queste cose possono stare in'
qualsivoglia modo. La questione è solo di sapere ciò che
sia l’idea o la verità in sé e per sé».
Ci rendiamo conto che una simile citazione appare oggi
di difficile lettura. Quel che Hegel intende dire è a nostro
avviso significativo, ed è in netto contrasto con gli ap­
procci riduttivi e semplificativi alla figura di Gesù che si
affermeranno nell’Ottocento e al cui esame sono dedicati
alcuni dei paragrafi successivi. Hegel afferma qui che la
verità di Gesù Cristo non è riducibile alle determinazio­
ni e alle caratteristiche di un particolare individuo chia­
mato Gesù di Nazareth; tantomeno tale verità è riducibi­
le alle successive interpretazioni ecclesiastiche, determi­
nate anch’esse da situazioni storiche particolari.
Facendo riferimento alla globalità del suo pensiero,
possiamo in estrema sintesi affermare che in Hegel la
verità irripetibile e singolare del Gesù Cristo sta nel fat­
to che non solo l’Assoluto è pensabile soltanto se contem­

Gesù 241 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

poraneamente si coglie la necessità della sua scissione,


ma anche che la storicità reale è la condizione di esisten­
za della stessa verità. Ed è questo il punto che ci interes­
sa ribadire in questo saggio.

Gesù 242 Dio nel pensiero


14. Il Dio d i Hegel

Apparentemente, il Dio di Hegel, l’assoluto nella for­


ma della sua rappresentazione che deve essere ancora
elevata a concetto, si identifica con l’esposizione dialetti­
ca della sua logica-metafisica. In fondo, è lo stesso Hegel
ad aver scritto nella sua Scienza della Logica che «[...] ci
si può quindi esprimere così, che questo contenuto [cioè
il regno del puro pensiero] è la esposizione di Dio, co­
m’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione
della natura e di uno spirito finito».
Ma, appunto, questa stessa celebre citazione deve es­
sere letta e compresa integralmente: essa implica anche
che non esiste Dio se non nel suo necessario processo di
creazione di uno spirito finito. Naturalmente, la finitudi­
ne di Hegel non è quella di Kant, perché non si tratta di
una contrapposizione del finito all’infinito, ma di una
determinazione dell’infinito nella finitezza come sua for­
ma necessaria di esistenza.
Ci rendiamo conto che si tratta di un linguaggio di
difficile traduzione “analitica”, in un momento storico in
cui persino ciò che è definito “filosofia continentale” (cioè
il 100% di tu tta la grande tradizione filosofica da Platone
a Heidegger) è oggi legittimato soltanto se è integralmente
traducibile nel linguaggio della filosofia analitica anglo­
sassone, e più esattamente americana. Tuttavia, occorre
rivendicare la comprensibilità di questo linguaggio, pri­
ma ancora di porsi il problema della sua traducibilità
analitica, che a nostro avviso non -è che la metafora cul­
turale della libidine di servilismo della cultura europea
contemporanea verso l’unico modello dominante ameri­
canocentrico.
Il linguaggio di Hegel infatti restaura ed innova si­
multaneamente. Restaura, perché viene restaurata la

Gesù 243 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

nozione che idèntifica la divinità con la verità, secondo


una tradizione che va da Platone a Spinoza. Innova, per­
ché la necessità di contrapporsi alla corrente principale
della filosofia post-spinoziana, culminata infine con Kant,
spinge Hegel ad esplicitare il fatto che la verità non ha
soltanto una forma di esposizione, ma ha anche una na­
tura logica ed ontologica di cui la dialettica è soltanto
l’esplicitazione “finita”.
Il punto fondamentale, in estrema sintesi, sta nel fat­
to che Hegel rifiuta di contrapporre Assoluto e realtà,
infinito e finito, Dio e mondo. Una nota sentenza hegelia­
na afferma che “l’infinito è il ritorno in sé del finito dal
suo essere altro”: cioè il finito è infinito in quanto riesce a
mantenere identità e individualità attraverso una serie
di esperienze nell’altro da sé. In definitiva, ciò che Hegel
chiama Dio o Assoluto è l’oggetto di una costante tensio­
ne, la tensione del mondo umano a comprendere se stes­
so attraverso la sua dispersione nella molteplicità.
Se la nostra ricostruzione è anche solo in parte perti­
nente, ne consegue che in termini hegeliani l’ateismo si
identifica con la perdita di interesse verso la verità, cioè
con il fatto che il mondo della finitudine cessa di auto-
rappresentarsi come una determinazione dialettico-veri­
tativa dell’Assoluto. Hegel non ha dunque soltanto anti­
cipato di più di mezzo secolo Nietzsche sul tema della
“morte di Dio”, ma ne avrebbe anche dato un’interpreta­
zione cristologica molto più convincente.
Il noto teologo Moltmann si esprime ad esempio in
questo modo: «Sulla morte di Dio come sentire fondamen­
tale della religione nell’epoca moderna, Hegel intendeva
dire che l’ateismo ed il nichilismo moderni che provoca la
sparizione di tutte le filosofìe dogmatiche e di tutte le
religioni della natura, può essere compreso come una
universalizzazione del Venerdì Santo storico in cui Gesù

Gesù 244 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

fu abbandonato da Dio, divenendo un Venerdì santo spe­


culativo in cui tutto ciò che è, è abbandonato da Dio».
Una simile interpretazione, a nostro avviso assolutamente
plausibile, avvicina considerevolmente Hegel ad Heideg­
ger, mentre stacca Heidegger da Nietzsche (come del re­
sto lo stesso Heidegger si è premurato ampiamente di
chiarire nel suo libro dedicato a Nietzsche). L’ateismo è
la perdita di ogni verità, una perdita che si “incarna” in
una storicità irripetibile. Questa perdita della verità non
ha come causa il male radicale (l’essere umano come “le­
gno storto”), ma l’assolutizzazione della separazione fra
logica e storia, fra idee e mondo, fra verità e menzogna.
Con Hegel, per la prima volta nella storia della filosofia
occidentale moderna, l’ateismo cessa esplicitamente di
essere una negazione per diventare una situazione. Si
tra tta di una rivoluzione teorica di portata gigantesca,
che a distanza di un. secolo e mezzo non è ancora stata
compiutamente compresa neppure nei suoi termini più
generali.

Gesù 245 Dio nel pensiero


15. L a V it a di G esù d i Strauss

La prima edizione della famosa Vita di Gesù di David


Friedrich Strauss risale al biennio 1835-36. In essa ap­
pare evidente l’integrale trasformazione del concetto he­
geliano di rappresentazione ('Vorstellung) in quello di mito.
Ma la nozione di rappresentazione non ricopre lo stesso
spazio teorico di quella di mito. Mentre la “rappresenta­
zione”, in particolare la rappresentazione religiosa, è una
forma legittima di raffigurazione dell’Assoluto, e viene
conservata-superata e non abolita nel concetto, il mito
invece appare come qualcosa di infantile, che dovrà esse­
re sostituito dalla scienza. Mentre per Hegel i contenuti
essenziali del cristianesimo sono conservati nella verità
filosofica, in Strauss essi sono sostituiti dalla verità scien­
tifica. Alla Aufhebung hegeliana, che è un superamento-
conservazione, succede la sostituzione. Al mito succede la
scienza. In questo modo la sinistra hegeliana si sposa con
il positivismo, che si stava affermando in quegli stessi
anni, e a cui il maturo Strauss aderirà esplicitamente.
Nello stesso tempo, Strauss attuava il passaggio dal
concetto hegeliano di Spirito (Geist) in quello più marca­
tam ente naturalistico di Genere (Gattung). Questo pas­
saggio rappresenta ovviamente una formuletta sintetica
che deve essere riempita in modo adeguato. Nella conce­
zione originale hegeliana di Spirito occorre distinguere
fra spirito soggettivo, oggettivo, assoluto. Questa distin­
zione rende impossibile ogni riduzione storicistica e so­
ciologistica dello Spirito Assoluto (arte, religione e filoso­
fia) alle manifestazioni politiche contingenti dello Spiri­
to Oggettivo (in particolare della società civile e dello sta­
to). Come è noto, questa riduzione ha caratterizzato qua­
si tutte le forme del marxismo ottocentesco e novecente­
sco, che non è pertanto mai stato hegeliano nel senso pro­

Ge s O 246 D io n el pensiero
C ostanzo P reve

prio del termine, se le parole hanno ancora un senso. Nel


concetto di Genere della sinistra hegeliana vi sono pur­
troppo già tutte le premesse per lo scioglimento della ve­
rità, implicita nel concetto hegeliano di Spirito, nel mu­
tevole relativismo delle forze politiche e sociali.
È vero che in Strauss e Feuerbach il Genere è ancora
naturalistico e non sociologistico, ma ben presto ciò ver­
rà percepito come un ritardo e un errore da correggere
(anziché come la forma inadeguata di un nucleo veritati­
vo da salvaguardare), e si andrà allora senza freni verso
il relativismo sociologistico che celebrerà i suoi effimeri
trionfi nelle varie forme dei marxismi novecenteschi.
In Strauss le conseguenze del passaggio dallo Spirito
al Genere sono la trasformazione diretta della cristolo­
gia in antropologia, e il ritorno alla posizione della so­
stanziale irrilevanza dell’eccezionaiità dell’esperienza sto­
rica di Gesù (in accordo con Kant e in contrasto con Spi­
noza e Hegel ).
A Spinoza ed a Hegel interessava la verità contenuta
nella specificità e nella singolarità del Gesù storico (an­
che se ne davano due diverse versioni), mentre a Kant ed
a Strauss interessa invece non più il particolare, ma il
“generale” contenuto nel mito di Gesù Cristo (anche se
danno due versioni diverse di questo generale).
Del resto questo è detto in modo esplicito dallo stesso
Strauss alla fine della sua opera:
«[...] quest’idea, dell’unità del divino e dell’umano, non
è forse un’idea reale se io concepisco l’intero genere uma­
no come sua realizzazione, in un senso infinitamente più
alto che non se si limitasse ad un solo individuo? Una
incarnazione eterna di Dio non è forse più vera di un’in­
carnazione lim itata ad un punto del tempo?».
In Strauss c’è già gran parte di ciò che emergerà più
tardi nel marxismo, sia in quello classico che in quello

Gesù 247 Dio NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

degenerato del comuniSmo storico novecentesco: lo scien­


tismo ed il sociologismo, più in dettaglio il superamento-
sostituzione del mito nella scienza (scientismo), ed il su­
peramento-sostituzione dello spirito nel genere (sociolo­
gismo). Questa doppia operazione è attu ata prim a in
ambito cristologia) (ennesima prova di come la categoria
di secolarizzazione sia più pertinente di quella di autoaf­
fermazione per comprendere il pensiero moderno) e poi
in ambito filosofico e politico (Feuerbach e Marx).
Ma il superamento-conservazione hegeliano non è il
superamento-sostituzione positivistico. In Strauss il ge­
nere è ancora un concetto integralmente naturalistico,
ma è evidente che questa naturalizzazione infinitamen­
te prolungata nel tempo è già l’anticamera della riduzio­
ne della natura a società ed a politica. La verità della
natura dovrà essere trovata nella società e nella politica,
e dovrà anzi essere ridotta integralmente ad esse.

G esù 248 D io nel pensiero


16. Il Dio d i Feuerbach

Da un punto di vista strettam ente filosofico, Feuerba­


ch non fa che esplicitare ciò che era già stato sostenuto
da Strauss. Se però in Strauss solo la cristologia diventa
antropologia, qui l’intera religione diventa apertamente
antropologia. Il progresso è notevole, ma lo è soltanto se
l’antropologia è legata alla rivendicazione dell’intera cor­
poreità umana in una prospettiva materialistica ed edo­
nistica (in cui Feuerbach non solo anticipa Nietzsche, ma
è anche più coerente e convincente, anche se purtroppo
la storiografia filosofica corrente non glielo riconosce come
dovrebbe, dovendogli “far pagare” la colpa di essere stato
uno degli ispiratori di Marx).
Dio diventa Uomo, perché la natura divina non è che
la proiezione alienata della stessa natura umana. L’an­
nuncio dell’alienazione è allora ovviamente inseparabile
dall’annuncio di una lotta contro di essa, per una com­
piuta disalienazione. Ancora più esplicitamente che in
Strauss, lo spirito diventa genere umano, e quando si
parla di genere (Gattung) è inevitabile che si parli di es­
senza del genere (Gattungswesen), fino ad individuare
marxianamente l’essenza del genere nella dialettica di
alienazione economica capitalistica e di emancipazione
politica comunista.
L’ateismo umanistico di Feuerbach è divenuto così il
paradigma filosofico esemplare di ogni possibile ateismo
moderno. Venendo dopo la grande stagione del criticismo
e dell’idealismo tedesco, l’ateismo umanistico di Feuer­
bach può tener conto sia delle obiezioni di Kant al dei­
smo razionale settecentesco sia del concetto di Spirito di
Hegel, ed in questo modo può superare i limiti e le unila­
teralità dell’ateismo settecentesco, basato sulla teoria
della religione come impostura derivata dallo sfruttamen­

Gesù 249 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

to organizzato dell’ignoranza e della paura. Il carattere


specificatamente moderno dell’ateismo umanistico di
Feuerbach sta proprio nel fatto che esso si fonda esclusi­
vamente sul genere umano come fonte unica della pro­
duzione alienante della religione, e si ha in questo modo,
da parte di un m aterialista esplicito, una rigorosa espli-
citazione di quella scissione fra l’Io ed il Non-Io che era
già stata proposta più di quarant’anni prima da un idea­
lista come Fichte.’
A distanza di più di un secolo, le attuali forme di reli­
giosità postmoderne sembrano curiosamente verificare
in modo paradossalmente invertito il rovesciamento di
Feuerbach della teologia in antropologia.
Mai come oggi la divinità postmoderna sembra tanto
antropologizzata, non però nella forma dell’ateismo uma­
nistico, quanto nella forma del vecchio teismo popolare
superstizioso contro cui era sceso in campo l’intero illu­
minismo settecentesco.7

7 È questa un’interessante prova di come ogni ricostruzione della


storia della filosofia in termini di dicotomia permanente e di lotta
continua fra materialismo ed idealismo è una vera sciocchezza storio­
grafica oltreché un’aberrazione teorica, dal momento che non vi sa­
rebbe stata certamente la teoria materialistica dell’alienazione reli­
giosa in Feuerbach senza la precedente teoria idealistica della dialet­
tica della autoproduzione dell’Io in Fichte. La derivazione della se­
conda dalla prima permette anzi di interpretare legittimamente il
cosiddetto “rovesciamento” dell’idealismo in materialismo (con cui nella
corrente manualistica si connota il “passaggio” da Hegel a Marx) come
un episodio interno alla storia dell’idealismo moderno, nella misura
in cui il Genere (Gattung) diventa appunto un’Idea, e l’essenza del
genere (Gattungswesen) diventa il nuovo fondamento metafisico su
cui costruire un modello di comprensione globale della realtà (come
chiariremo più avanti nel ventesimo paragrafo).

Gesù 250 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

È noto che oggi le chiese sono in profonda crisi di re­


clutamento e di pratica religiosa, mentre la religione si è
particolarizzata ed “individualizzata” come richiesta di
senso del Singolo suddito del capitalismo totalitario mon­
dializzato, che si rivolge ormai solo più privatamente alla
divinità risoggettivizzata come interlocutore premuroso
e protettivo, al di fuori di ogni “mediazione” ecclesiasti­
ca, percepita come insieme inutile ed autoritaria. La ri­
socializzazione collettiva di gruppo avviene egualmente,
ma avviene nella modalità dei concerti rock della cultura
giovanile dell’individualismo di massa. È questo un cu­
rioso esito della centralità antropologica, certo non pre­
vedibile un secolo fa, ma nello stesso tempo ben compren­
sibile.
Quella di Feuerbach era stata una grande utopia filo­
sofica borghese, nella misura in cui l’autosufficienza sto­
rica del genere umano era teoricamente esplicitata in
term ini rigorosamente “idealistici” (il Genere Umano
come ultima e definitiva forma dell’Idea Assoluta), in una
apparente autoaffermazione integrale che in realtà seco­
larizzava la dialettica trinitaria del cristianesimo: l’età
dello Spirito succede alle due precedenti età del Padre e
del Figlio come avvento messianico del nuovo regno in
cui vivere nella pienezza dei tempi.
Ma la grande utopia filosofica borghese, basata sulla
centralità antropologica autosufficiente del Genere Uma­
no e dell’infinità potenziale del suo sviluppo deve fare i
conti con il fatto che il capitalismo (che non è un prodotto
cosciente della borghesia) ha una sua peculiare strategia
di soggettivizzazione e di individualizzazione del “consu­
matore” che non prevede assolutamente la disantropo-
morfizzazione illuministica della divinità, ma anzi la ri­
conferma incessantemente come esigenza dialogico-fan-
tasmatica della personalità, costituita dentro ed insieme

G esù 251 DIO NBL PENSIERO


C ostanzo P reve

al feticismo delle merci, questa “divinizzazione” perma­


nente del legame sociale.8 Come nel caso della tela di
Penelope, ciò che l’utopia borghese fa durante il giorno
(della ragione) il realismo capitalista disfa durante la
notte (della merce). Si tratta di una dialettica che Marx
aiuta ancora a capire, purché ovviamente si tenga conto
del fatto che questo Marx non ha nessun rapporto con
quella forma degradata di nichilismo che nel Novecento
è stata battezzata “marxismo”.

8 Questo aspetto del mondo moderno si collega strettamente a quel­


lo della cosiddetta “sopravvivenza” di forme religiose precapitalisti­
che nel capitalismo, che nel nostro lessico può essere riformulato in
termini di sopravvivenza dell’esteriorità in un’epoca di esteriorizza­
zione. Si tende in genere a dire che la permanenza dei sempre eguali
problemi dell’uomo (dolore, sconfitta, malattia, morte) è la ragione
ultima della permanenza delle forme religiose tradizionali. Questo è
certamente in parte vero, ma non è a nostro avviso l’aspetto essenzia­
le della questione. L’offerta capitalistica di merci “chiama” (cioè pro­
voca, in senso letterale) ogni singolo cliente con una strategia perso­
nalizzata di chiamata. Analogamente, la religiosità delle sette (una
forma di religione particolarmente adatta al capitalismo, come gli USA
mostrano ogni giorno) “chiama” ogni individuo in modo personalizza­
to, con una continua riantropomorfizzazione del Signore, ed il lessico
dei predicatori televisivi americani è in questo caso'particolarmente
rivelatore. In proposito, l’aspetto forse più paradossale e angoscioso
delle oceaniche adunate giovanili propiziate da papa Wojtyla sta nel
fatto che questo vecchio e valoroso credente nell’esistenza della verità
si rivolge carismaticamente a masse giovanili quotidianamente abi­
tuate al più totale relativismo dei valori, in un inevitabile reciproco
fraintendimento.

G esù 252 D io n el pensiero


17. Tre sign ificati
d ella c ritica d ella religione in M arx

In una ricostruzione biografica fedele della vita di Marx


è a nostro avviso impossibile negare che egli sia stato un
ateo dichiarato, in una accezione che mescolava teorica­
mente e psicologicamente la tesi di Feuerbach della reli­
gione come alienazione dell’essenza umana e la tesi illu­
ministica della religione come impostura costruita sulla
base dell’ignoranza e della paura.
Da un punto di vista strettam ente filosofico, il fatto
che Marx rifiutasse di analizzare la storia del genere
umano astraendo dalla divisione in classi e dalla dialet­
tica fra forze produttive e rapporti sociali di produzione
non è particolarmente rilevante, perché questo riguarda
piuttosto il suo modello epistemologico di comprensione
storica, che ha però come fondamento filosofico la stessa
base teoretica di Strauss e di Feuerbach, la trasforma­
zione dello Spirito in Genere.
E qui vale la pena di ripetere una volta per tutte che
ciò che viene chiamato rovesciamento dell’idealismo in
materialismo non è che la rigorosa metamorfosi della no­
zione di Spirito (considerata “idealistica”, se non altro per­
ché così l’aveva comunque battezzata Hegel) nella nozio­
ne di Genere (considerata “materialistica”, perché comun­
que Feuerbach aveva denominato il suo naturalismo an­
tropocentrico “materialismo”).
In ogni caso, ciò che Marx pensava di essere è certa­
mente importante, ma non è decisivo nel problema della
ricostruzione dell’insieme del suo pensiero, considerato
nel suo triplice aspetto metafisico, epistemologico ed ide­
ologico.
È dunque legittimo che il pensiero marxiano venga
interrogato indipendentemente dall’autoconsapevolezza

Gesù 253 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

soggettiva che ne aveva Marx, secondo un approccio che


non deve stupire, perché si tratta dell’approccio che si
usa abitualmente per tutti i filosofi, da Platone a Heideg­
ger.
Ci sembra dunque che si possano distinguere tre in­
terpretazioni nel rapporto fra Marx e la religione. In una
prima interpretazione il marxismo è un ateismo. In una
seconda interpretazione il marxismo è un agnosticismo.
In una terza interpretazione, cui aderiamo esplicitamen­
te e che proponiamo al lettore come la più plausibile, il
marxismo non è né un ateismo né un agnosticismo, ma
un episodio storico concluso, la cui verità deve essere cer­
cata proprio nel segreto di questa conclusione. Cerchia­
mo di chiarire questo punto essenziale in questo e nei
prossimi tre paragrafi.
In una prima interpretazione, il marxismo è certamen­
te un ateismo, ed in particolare un episodio della storia
dell’ateismo moderno. L’origine di questa interpretazio­
ne si trova in decine di esplicite dichiarazioni “atee” di
Marx, ma soprattutto nella grande sistematizzazione te­
orica fatta da Engels (in particolare neìYAnti-Dùhring).
Questa interpretazione è stata poi adottata da Lenin, ed
è diventata un’ideologia ufficiale obbligatoria di stato e
di partito nel comuniSmo storico novecentesco, in presso­
ché tutte le sue varianti geografiche e politiche.
La filosofia del cosiddetto materialismo dialettico esclu­
de per principio la verità delle proposizioni religiose, cui
si può attribuire al massimo un carattere “mitico”, desti­
nato ad essere superato e sostituito con lo sviluppo della
scienza. Il cosiddetto ateismo scientifico è fondamental­
mente una forma di divulgazione scientifica delle scien­
ze naturali (evoluzione del cosmo senza alcuna causalità
divina) e delle scienze sociali (origine storica delle reli­
gioni nel feticismo). È interessante che sulla natura “atea”

Gesù 254 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

del marxismo concordino (o abbiano concordato, perché


ormai è storia passata) sia i teorici del materialismo dia­
lettico sia gli apologisti religiosi, particolarmente orto­
dossi o cattolici (in Italia Del Noce, Fabro, eccetera). Chi
scrive respinge apertamente questa interpretazione.
In una seconda interpretazione, il marxismo non è in­
vece una forma di ateismo, perché si tra tta di una sem­
plice scienza della società, assimilabile alla teoria del­
l’evoluzione di Darwin, alla teoria della relatività di Ein­
stein ed alla teoria della psiche di Freud, sulla base di
una sostanziale identità (o di una plausibile analogia)
fra scienze della società e scienze della natura. Trattan­
dosi di una scienza della società, che deve essere adotta­
ta (in tutto o in parte) o respinta (in tutto o in parte), per
ragioni del tutto estranee a considerazioni morali e reli­
giose, non è opportuno connotarla in termini di ateismo,
indipendentemente dalla coscienza soggettiva che ne po­
tevano avere Marx, Engels, eccetera. Si tratta allora di
una forma di agnosticismo, paragonabile a quello di Kant,
che non era certo né ateo né materialista. Chi scrive re­
spinge apertamente questa interpretazione, anche se è
disposto a concederle maggior credito di quanto sia di­
sposto a concedere alla precedente.
In una terza interpretazione, che invece facciamo no­
stra, il marxismo non deve essere connotato né come atei­
smo né come agnosticismo, perché esso è fondato su di
un nucleo metafisico che non può essere autosufficiente
e perfetto né nel suo aspetto ideologico (che a nostro av­
viso è una religione al 100%, nel senso negativo del ter­
mine, una religione analoga a quella cui a suo tempo sto­
ricamente si oppose Gesù di Nazareth), né nel suo aspet­
to epistemologico (che non può essere ricostruito in modo
“puro” ed indipendente da ogni determinazione storica,
come a suo tempo Husserl dimostrò molto bene a propo­

Gesù 255 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

sito della scienza occidentale moderna). Esso deve quin­


di essere interrogato in termini di storia della metafisi­
ca, secondo il corretto approccio proposto da Heidegger,
senza che questo riconoscimento metodologico comporti
affatto la condivisione nel merito delle opinioni di Hei­
degger sul marxismo stesso (che chi scrive non condivide
per nulla). Questa interrogazione esclude ogni fuorvien­
te connotazione in termini di ateismo o di agnosticismo,
ed appunto per questo essa può aprire uno spazio di mag­
giore comprensione alle letture delle vicende del Gesù
storico, come quella proposta da Massimo Bontempelli
in questo stesso volume.

Gesù 256 D io nel pensiero


18. Il m arxism o come ateismo.
D a Lenin a l m aterialism o
d ia lettico sovietico

Sostenere che il marxismo non deve primariamente


essere connotato come ateismo va certamente contro cor­
rente.
È infatti biograficamente innegabile che il giovane
Marx aderì con entusiasmo all’umanesimo ateo di Feuer­
bach, e restò tu tta la vita fedele a questa scelta. Nello
stesso tempo, è innegabile che il marxismo storico con­
cretamente esistito si è sempre riconosciuto nell’ateismo
(dalle forme militanti ed esplicite alle forme tacite ed
implicite), e che gli stessi avversari del marxismo lo han­
no sempre connotato come una forma di ateismo.
Eppure, bisogna sapere a volte andare contro corren­
te. Per cominciare, bisogna anticipare due ordini di con­
siderazioni teoriche preliminari. In primo luogo, è evi­
dente che il marxismo ha voluto essere una analisi scien­
tifica del modo di produzione capitalistico, e quindi (an­
che se le due cose assolutamente non coincidono) della
società capitalistica e delle sue complesse modalità di le­
gittimazione ideologica (cioè, per usare un termine clas­
sico, della sua sovrastruttura). A sua volta, la critica ide­
ologica rivoluzionaria alle modalità di legittimazione cul­
turale della società capitalistica, basata su di una corret­
ta concettualizzazione preliminare del modo di produzio­
ne capitalistico, aveva come scopo immanente la prospet­
tiva di una transizione comunista.
Ebbene, è evidente che la divinità e la religione non
sono assolutamente modalità di legittimazione ideologi­
ca del modo di produzione capitalistico, e neppure delle
società di capitalismo maturo (come quelle di fine Nove­
cento in cui stiamo ora vivendo).

G esù 257 Dio NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

La divinità e la religione sono effettivamente modali­


tà prevalenti (non uniche) di legittimazione ideologica
nelle società feudali ed in altre società precapitalistiche
(non in tutte), e lo sono anche nei primi stadi del passag­
gio delle società precapitalistiche al capitalismo, nella
misura in cui la docilità e la subordinazione dei contadi­
ni e degli artigiani alla nuova disciplina capitalistica di
fabbrica sono ottenute anche sfruttando la sottomissione
tradizionale delle classi subalterne ai padroni, ereditata
dalle precedenti condizioni sociali precapitalistiche.
Ma questo non è più vero nelle società del capitalismo
avanzato: le ideologie di legittimazione sociale del capi­
talismo maturo non sono affatto di tipo religioso, ed è
dunque del tutto inutile e grottesco pensare che si fa del-
l’anticapitalismo negando 1’esistenza di Dio e divulgando
fra le masse i risultati delle scienze naturali e sociali fi­
nalizzati a negare questa esistenza.
Il capitalismo maturo sviluppa forme inedite di reli­
giosità immanente alla sua riproduzione sociale in cui
alla vecchia fondazione simbolica dell’esteriorità del le­
game sociale concentrata in una divinità onnipotente
succede una nuova fondazione simbolica basata sull’este-
riorizzazione dell’onnipotenza dell’economia e della tec­
nica, entrambe direttamente religiosizzate.
La religione capitalistica è già dunque una forma di
ateismo religioso, “ateismo” perché la teologia è trasfor­
m ata in economia ed in tecnica, “religioso” perché questa
trasformazione sancisce e consacra l’intrasformabilità del
legame sociale, nelle nuove forme ideologiche flessibili
del post-moderno, della fine della storia, eccetera.
Chi crede di lottare contro il capitalismo sostenendo
l’ateismo ricorda quei personaggi patetici e ridicoli che
vanno ad una nuova guerra con i piani di battaglia della
guerra precedente. In questo caso, la cosa è doppiamente

Gesù 258 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

ridicola, perché si tra tta anche di una guerra perduta,


come mostra il bilancio fallimentare del comuniSmo sto­
rico novecentesco in tutte le sue varianti.
In secondo luogo, e di conseguenza, non è esatto soste­
nere che la critica della religione è la premessa della cri­
tica dell’economia politica, se non in un senso molto par­
ticolare, in cui deve essere chiaro che la critica della reli­
gione non coincide con l’ateismo tradizionale nelle due
versioni ricordate in precedenza nei paragrafi 11 e 16.
La critica marxiana della religione è in realtà una cri­
tica logica ai processi di ipostatizzazione, a tutti i proces­
si di ipostatizzazione, in particolare ai processi di iposta­
tizzazione compiuti dall’economia politica.
In breve, la cosiddetta “inesistenza di Dio” non è affat­
to l’oggetto della critica della religione. Gesù di Nazareth
fu al 100% un critico della religione, anche se ciò non
aveva come premessa l’inesistenza di Dio. Nel capitali­
smo, la visione religiosa del mondo coincide direttam en­
te e senza mediazioni con l’economia politica, senza biso­
gno di presupporre una “duplicazione” soprannaturale e
paranormale di questa economia politica stessa e della
sua complessa ed articolata nervatura ideologica.
Cercheremo adesso di esaminare il caso di Lenin, che
ci sembra il più significativo, per ovvie ragioni, nell’esa­
me del rapporto fra marxismo e ateismo nel comuniSmo
storico del 900.
Prima di farlo, però, occorre ricordare che l’ateismo di
cui qui si parla è un terzo tipo di ateismo rispetto ai due
prima ricordati. Si tratta infatti di una forma di ateismo
positivistico, in cui la “scienza” è concepita in modo sta­
diale come la terza forma compiuta di conoscenza rispet­
to alla teologia (cioè alla religione) ed alla metafisica (cioè
alla filosofia). Questo terzo tipo di ateismo moderno è in
realtà il primo ed unico ateismo noto al movimento ope-

Ge s O 259 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

raio e socialista. Questo ateism o positivistico, a nostro


avviso, non ered ita neppure le componenti “em ancipati-
ve” delle prim e due forme di ateism o (quella illum inisti­
ca di Holbach e quella natu ralistica di Feuerbach), m a
consacra sem plicem ente il principio capitalistico della
“scienza” come ideologia di legittim azione del potere di
classe alfin tern o della divisione sociale e tecnica del la­
voro di volta in volta data. Non abbiamo dunque a che
fare in nessun modo con una forma di “ateismo emanci-
pativo”, ed è bene riconferm are questa posizione senza
p au ra dell’accusa di “irrazionalism o”.
La principale e più pericolosa forma di irrazionalism o
che conosciamo è l’identificazione rigida di tu tte le forme
della “ragione” con le forme di razionalità specifica delle
scienze particolari naturali e sociali. Rifiutiamo questa
identificazione, senza negare, ovviamente, la specifica ra ­
zionalità del metodo scientifico.
E passiamo ora all’ateismo di Lenin. Il marxismo di
Lenin è indiscutibilmente e provocatoriamente ateo. Il
disprezzo di Lenin per tu tte le forme dell’idea di Dio è
conclamato. Conclamato è anche il suo fastidio (si veda
in proposito una sua esemplare lettera a Gorkij del no­
vembre 1913) nei confronti di ogni “compromesso” gnose­
ologico con l’idea di Dio. A nostro avviso, bisogna critica­
re apertam ente e senza compromessi l’ateismo filosofico
di Lenin, senza paura di svelarne l’aspetto nichilistico.
Lo faremo qui brevemente sulla base di tre ordini di con­
siderazioni, distinte ma convergenti.
In primo luogo, è evidente che l’ateismo m ilitante di
Lenin è fortemente legato all’arretratezza russa del tem ­
po. Da un lato, Lenin insiste sul fatto che dalla fine del­
l’Ottocento in poi in Russia c’è già il capitalismo, ed ap­
punto per questo è giunta l’ora di fondare un partito ope­
raio socialdemocratico indipendente.
C ostanzo P reve

Dall’altro, è però chiaro che questo capitalismo non è


ancora “compiuto” in senso occidentale, a causa dei resi­
dui feudali zaristi, ed appunto per questo occorre pro­
muovere una tattica di alleanza “democratica” fra operai
e contadini. In questa contraddizione si inserisce la sua
filosofia della religione caratterizzata dall’ateismo mili­
tante, un ateismo cioè che deve essere “professato” come
una religione laica e materialistica. La religione è conce­
pita sotto il doppio aspetto di manifestazione di arretra­
tezza e di ideologia di legittimazione del potere zarista, e
dunque anche capitalista, nella misura in cui lo zarismo
favoriva uno sviluppo capitalistico, sia pure deformato e
dipendente.
Occorre dire chiaramente che vi è qui un errore da
parte di Lenin, che finisce per assolutizzare e “ipostatiz­
zare” alcune particolarità contingenti della realtà russa
dell’epoca, facendone caratteristiche universali del capi­
talismo. Il fatto che Dio non giochi tendenzialmente al­
cun ruolo nella legittimazione ideologica di un capitali­
smo maturo e sviluppato è cosa in Lenin quasi del tutto
assente ed incomprensibile, appunto perché egli è inseri­
to storicamente in una precocissima fase di passaggio al
capitalismo in un paese in buona parte ancora precapita­
listico. In tu tta questa storia l’elemento tragico sta in ciò,
che la debolezza ed il dilettantismo dell’ateismo filosofi-
co di Lenin sono stati trasferiti nell’ideologia corrente del
comuniSmo storico novecentesco mondiale. Per quasi un
secolo il marxismo è stato così declinato filosoficamente
come ateismo, proprio quando lo sviluppo capitalistico si
lasciava alle spalle la legittimazione religiosa per una
ben più robusta e flessibile esteriorizzazione economica
e tecnica.
In secondo luogo, l’ateismo militante di Lenin è inse­
parabile dalla sua lotta filosofica contro l’empiriocritici-

Gesù 261 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

smo, a sua volta inscindibile dalla sua difesa del caratte­


re necessario e deterministico del passaggio dal capitali­
smo al socialismo. L’empiriocriticismo sosteneva che la
verità non è mai il riflesso (sia pure approssimato) di
un’oggettiva m aterialità esterna, ma è sempre una co­
struzione sociale. Lenin non poteva consentire a questa
impostazione, perché in questo caso anche la transizione
al socialismo sarebbe dipesa esclusivamente da una “co­
struzione sociale”, cessando di essere una necessità sto­
rica determinata dalle leggi scientifiche di sviluppo del
capitalismo. In questo modo, la stessa idea di Dio sareb­
be divenuta “vera”, in quanto “costruzione sociale” capa­
ce di promuovere effetti pratici positivi,» e questo Lenin
non poteva sopportarlo. Facciamo qui un semplice esem­
pio. Per gli antichi egizi il Nilo era una divinità a tutti gli
effetti. Ma era “vero” che il Nilo era veramente un Dio?
Lenin risponderebbe naturalm ente che non era affatto
un Dio, ma soltanto un fiume, e che la credenza nella sua
divinità è solo uno “stadio” mitico che deve essere supe­
rato e sostituito dalla scienza, che accerta come il Nilo
non è che un fiume. Sta di fatto però che la credenza egi­
zia nella divinità del Nilo era una “costruzione sociale”
che faceva da presupposto pratico ai giganteschi lavori
collettivi di irrigazione e di terrazzamento, senza i quali
l’antico Egitto non sarebbe neppure esistito, e dunque
non sarebbe neppure stato “vero”. La verità di Lenin sa­
rebbe stata incomprensibile agli antichi egizi, del tutto
inaccessibili alle superstizioni del positivismo, e se per
ipotesi essi l’avessero compresa ciò avrebbe comportato
la fine della loro civiltà. È chiaro che qui ci si muove sullo9
9 In proposito, è evidente che l’empiriocriticismo è la variante sofi­
sticata ed europea del pragmatismo americano, che in modo molto
più semplice e diretto aveva già sostenuto che la verità di un enuncia­
to coincide con il suo successo pratico.

Gesù 262 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

scivoloso terreno dell’analogia, e che Lenin rifiutava l’ipo­


tesi che la rivoluzione comunista fosse una “costruzione
sociale”, dovendo invece riaffermarne la natura di esito
necessario delle contraddizioni capitalistiche. Ma para­
dossalmente questo esito necessario non è affatto vero, è
una semplice costruzione sociale arbitraria, che ha avuto
l’effetto pratico di consentire il tentativo fallito di costru­
zione del comuniSmo storico novecentesco. Nella misura
in cui il leninismo ha avuto successo, lo ha avuto come
“costruzione sociale” arbitraria, e non certo come rispec­
chiamento di una verità oggettiva scientificamente ‘Ve­
rificabile”.
Si è dunque di fronte al paradosso per cui la concezio­
ne della verità di Lenin, integralmente pragm atista ed
empiriocriticista (il comuniSmo è stato in effetti una “co­
struzione sociale” che ha avuto la sanzione a posteriori
del successo per un certo numero di decenni, e poi è stato
“falsificato” dalla sanzione sempre a posteriori, del suo
fallimento), si è presentata e legittimata in modo mistifi­
cato e rovesciato, esattamente come avviene in tutte le
religioni, che trasformano la loro natura di “costruzioni
sociali” in una natura di creazioni soprannaturali.
Ma vi è però un terzo ordine di ragioni che consiglia di
mettere in archivio l’ateismo militante di Lenin. Questo
terzo ordine di ragioni è il più importante dei tre, e non
vorremmo sfuggisse all’attenzione del lettore. Lenin si
rifiutò sempre in modo esplicito di contestare l’universa­
lità della scienza e della letteratura, e per questa ragione
rifiutò sempre di legittimare la dicotomia fra scienza bor­
ghese e scienza proletaria, e fra letteratura borghese e
letteratura proletaria. Ma egli rifiutò in modo altrettan­
to energico di estendere alla filosofia il carattere di uni­
versalità che concedeva alla scienza ed alla letteratura,
in cui invece correttamente distingueva fra genesi socia­

Ge s V 263 Dio n el pensiero


C ostanzo P reve

le classista particolare e validità universale. In questo


modo la filosofia diventava filosofia proletaria e filosofia
di partito, ed in questo modo lo statuto della filosofia ve­
niva di fatto a coincidere con quello della ideologia.
Alla filosofia veniva tolto così ogni carattere veritati­
vo, dal momento che il carattere veritativo è incompati­
bile con la sua riduzione ideologica. Si trattava di una
scelta sciagurata e suicida, dal momento che in questo
modo al marxismo stesso era implicitamente tolto ogni
carattere veritativo universalistico, e si finiva con il se­
gare lo stesso ramo su cui si era seduti. Se infatti la filo­
sofia m arxista (a differenza della scienza e della lettera­
tura) era ideologia di classe (proletaria) e di partito (co­
munista), ne consegue necessariamente che la sua even­
tuale verità era consegnata ad una dialettica positivisti­
ca di verificazione (dei suoi successi) e di falsificazione
(dei suoi insuccessi). In questo modo, essa sarebbe stata
integralmente falsificata nel caso che il proletariato come
classe sociale avesse mostrato nei fatti la sua radicale
incapacità di transizione intermodale dal capitalismo al
comuniSmo, ed anche nel caso che il partito comunista
avesse mostrato la sua irresistibile tendenza a trasfor­
marsi nel luogo sociale di addensamento di una nuova
classe sfruttatrice selezionata attraverso i meccanismi
del partito-Stato.
Come è noto, entrambe queste eventualità si sono ve­
rificate, ed il marxismo, ridotto ad ideologia di classe e di
partito si è grottescamente suicidato. Il suicidio del marxi­
smo storico ha così come principale causa interna (non
discutiamo qui delle ben più rilevanti cause esterne) la
sua stessa sciagurata autoriduzione ad ideologia non ve­
ritativa, attuata stupidamente di propria volontà. Si tra t­
ta di un episodio della storia del nichilismo, ed anche di
uno degli episodi più stupidi e grotteschi: l’elemento co-

G esù 264 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

mico sta nel fatto che l’imbecille sega il ramo su cui era
seduto, l’elemento tragico sta nel fatto che lo sventurato
si sfracella orribilmente al suolo, l’elemento dialettico sta
nel fatto che l’imbecille e lo sventurato sono la stessa per­
sona.
La storia del materialismo dialettico, la “filosofia ide­
ologica” di legittimazione del comuniSmo storico novecen­
tesco, è dunque un episodio della storia del nichilismo, e
di essa fa parte integrante anche l’ateismo militante che
ne è una componente subordinata. Altrove chi scrive ne
ha seguito in dettaglio le vicende tragicomiche. In questa
sede basterà però averne mostrato il meccanismo per­
verso di riproduzione.

Gesù 265 D io nel pensiero


19. Il m arxism o come agnosticism o.
L’esem pio d i A lthusser

Abbiamo segnalato nei paragrafi precedenti che l’atei­


smo moderno si è presentato in tre forme distinte (illu­
ministico, naturalistico, positivistico), e che l’interpreta­
zione ateistica del marxismo le fonde tutte e tre in una
quarta forma nichilistica, che non sconsiglieremo mai
abbastanza a chi persegue una nozione filosofica di veri­
tà. Il nichilismo risiede, in questo caso particolare, in una
riduzione ideologica della verità filosofica, che ne com­
porta non soltanto la relativizzazione, ma anche la su­
bordinazione sistematica alla copertura di interessi di
gruppo e di partito. Questa forma di nichilismo, ad un
tempo scientistica e sociologistica, ha incorporato dentro
un congegno di autodistruzione, e dunque possiede la tra ­
gicomica caratteristica di implodere da sola.
In una seconda nozione, tuttavia, il marxismo può es­
sere teoricamente interpretato non come ateismo, ma
come agnosticismo, cioè come teoria economica e sociale
indipendente da ogni premessa filosofica o religiosa. In
fondo, M arx può essere concepito come un grande
scienziato sociale, il Newton ed il Galilei delle scienze
sociali. Anche ammesso che una determinata “metafisica
influente” abbia favorito la produzione concettuale della
sua teoria sociale, questa teoria sociale, una volta pro­
dotta, si stacca dai presupposti filosofici che ne hanno
favorito la genesi, così come si stacca il primo stadio di
un razzo interplanetario. La teoria dei modi di produzio­
ne sociali e la teoria del valore di Marx possono quindi
essere accettate così come si accetta la termodinamica o
la penicillina, e se esse spiegano la “povertà delle nazio­
ni” meglio di altre teorie economiche rivali non vi sono
ostacoli alla loro accettazione ed alla loro applicazione.

Gesù 266 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

Una simile concezione è agnostica rispetto ad ogni tipo di


fede religiosa, e quindi non è un ateismo. Questa conce­
zione è stata espressa in molti modi, ma qui ci limitere­
mo a riportare la breve formulazione che ne ha dato Louis
Althusser in una lettera a M. dell’agosto 1966. Scrive Al­
thusser: «[...] l’ateismo è un’ideologia religiosa (l’ateismo
come sistema teorico) ed in rapporto ad esso il marxismo
non è un ateismo (in questo senso preciso). Non è un caso
che i teologi di avanguardia del Concilio siano pieni di
attenzioni per l’ateismo, dal momento che hanno capito
bene che non c’è conflitto di principio fra la religione e
l’ateismo (l’ateismo come sistema teorico è sempre un
umanesimo ed ogni umanesimo è un’ideologia di essenza
religiosa) [...] il marxismo non è un ateismo nello stesso
modo in cui la fisica moderna non è una fisica antiaristo­
telica. Ad essa importa poco di Aristotele, del mondo lu­
nare e di quello sublunare. Le categorie della fisica non
si definiscono contro, cioè a partire dalle categorie della
fìsica aristotelica [...]».
Questa impostazione agnostica di Althusser è certa­
mente molto interessante. Per poterla comprendere bene
è utile sapere che per Althusser lo stesso stalinismo, cioè
la forma ideologica fondamentale del comuniSmo storico
novecentesco si è teoricamente fondato su di una ideolo­
gia di tipo umanistico. Una simile interpretazione può
sembrare provocatoriamente paradossale, dal momento
che Stalin si è sporcato le mani con il sangue di milioni di
persone, e ciò appare a prima vista molto poco “umani­
stico” in ogni senso. Ma Althusser intende qui dire che
l’umanesimo, cioè la concezione che fonda l’intero mondo,
teorico e pratico sull’autosufficienza del genere umano
concepito come soggetto collettivo unificato, è il presup­
posto sia dello storicismo (cioè della concezione del corso
storico inteso come lo spazio di un progresso cumulativo

Gesù 267 DlO NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

illimitato in cui il genere umano realizza la sua infinità),


sia dell’economicismo (cioè di quella concezione del pro­
gresso cumulativo illimitato che lo vede come lo spazio
dello sviluppo delle forze produttive). L’ateismo militan­
te è dunque un’ideologia religiosa, perché la sua religio­
ne è quella della perversa trinità di umanesimo, storici­
smo ed economicismo. Il marxismo deve dunque rigua­
dagnare uno statuto di agnosticismo, e questo non può
fargli che bene, perché si tratta della premessa al riac­
quisto della sua autonomia teorica e scientifica.
Nella sua pars destruens, rivolta a smantellare que­
sta perversa trinità ideologica, Althusser ha a nostro av­
viso completamente ragione. Nella sua pars costruens,
invece, egli non ha ragione per nulla, perché sostituisce
alla precedente ideologia ateistica una nuova ideologia
epistemologica di tipo scientistico, come se il marxismo
potesse essere ridotto ad una sorta di canone epistemolo­
gico delle scienze sociali moderne (secondo una imposta­
zione che a suo tempo Benedetto Croce seguì con grande
rigore teorico). In ogni caso si tratta di un errore meno
grave del precedente, per ragioni che ora cercheremo di
esplicitare.
In questa sede, non c’è ovviamente lo spazio per ana­
lizzare le tre successive concezioni della filosofia profes­
sate da Althusser nel corso della sua vita (filosofia come
teoria delle pratiche teoriche, filosofia come lotta di clas­
se nella teoria, filosofia come materialismo aleatorio). In­
cidentalmente, notiamo come questa successione mani­
festa internamente la tragica serietà personale di Althus­
ser ed il coraggio della sua inquietudine, e riflette ester­
namente la tragedia sociale dell’ultima generazione di
marxisti europei del periodo 1956-1989, nel loro impo­
tente tentativo di “ringiovanire” la carcassa putrefatta
del comuniSmo storico novecentesco.

Gesù 268 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

La prima concezione (filosofia marxista come teoria


delle pratiche teoriche rivolta a fondare in modo episte-
mologicamente corretto il m aterialism o storico come
scienza unitaria della società) era chiaramente rivolta a
legittimare l’integrale autonomia teorica degli intellet­
tuali marxisti di fronte al ceto dei burocrati professionali
di partito, sacerdoti del marxismo come ideologia, e di
riflesso dunque anche dell’ateismo m ilitante come dele­
gittimazione implicita di ogni fondamento spirituale ester­
no alla sovranità integrale dell’ideologia di partito.
La seconda concezione (filosofia marxista come teoria
della lotta di classe nella teoria) era chiaramente rivolta
a legittimare il diritto non solo all’autonomia interpreta­
tiva ma anche alla direzione politica della nuova genera­
zione militante del 1968-1969, in un momento storico
brevissimo (dal 1971 al 1974 circa) in cui questo sembra­
va ancora possibile.
La terza concezione (filosofia marxista come m ateria­
lismo aleatorio), che è a nostro avviso l’unica valida e fi­
losoficamente sensata (anche se non la condividiamo
egualmente), rappresenta invece il riflesso del cosciente
ripiegamento e dell’onesta ammissione del fatto che ci
può essere certo una “ideologia militante”, ma non ci può
essere per principio nessuna “filosofia militante”, in quan­
to la natura veritativa ed universalistica della filosofia
non può per sua essenza trovare spazio in quel gioco fra
appartenenza e rappresentanza, fra bisogno di rassicu­
razione del militante e richiesta di legittimazione del di­
rigente, tipico e consustanziale ad ogni ideologia di par­
tito. Il materialismo aleatorio è quindi a nostro avviso la
sacrosanta sanzione teorica del congedo della parte più
onesta della generazione dei marxisti del periodo 1956-
1989 da ogni inane illusione di riformabilità del baracco­
ne putrefatto del comuniSmo di partito. In ogni caso, ci

Gesù 269 D io NBL PENSIERO


C ostanzo P reve

interessa qui ribadire che il marxismo come ateismo è


piuttosto l’ideologia spontanea del ceto politico burocra­
tico di partito (il Burocrate è ateo nel senso di Nichilista,
è la caricatura del borghese senza coscienza infelice, ed è
pertanto una figura antropologica molto peggiore di quella
del borghese), mentre il marxismo come agnosticismo è
piuttosto l’ideologia spontanea del ceto intellettuale pro­
fessionale, in particolare universitario. Il secondo è ov­
viamente meno pericoloso del primo, perché il primo uc­
cide, massacra ed imprigiona, mentre il secondo si limita
innocuamente a concepire la storia come se essa fosse
una successione di sedute universitarie in cui modelli
sempre più perfezionati di paradigmi di scienze sociali
vengono presentati a benevole e dotte commissioni di
esperti.
La riduzione dello statuto filosofico del marxismo ad
epistemologia (cui è correlato il marxismo come agnosti­
cismo) è certamente meno bestiale della sua riduzione
ad ideologia (cui è correlato il marxismo come ateismo),
ma è però anch’essa sbagliata, oltre che assolutamente
non conforme alle intenzioni originarie di Marx, che sono
peraltro filologicamente documentabili in modo chiaris­
simo.
Il fondamento veritativo della teoria di Marx non è
infatti la sua teoria del valore e del plusvalore e la sua
teoria dei modi di produzione, e del modo di produzione
capitalistico in particolare. Il fondamento veritativo del­
la teoria di Marx è la sua concezione della libera indivi­
dualità sociale come produzione storica resa possibile da
una transizione modale fra capitalismo e comuniSmo.
L’epistemologia di Marx è al servizio della sua concezio­
ne filosofica veritativa. Scambiare la struttura epistemo­
logica di una teoria con il suo fondamento filosofico veri­
tativo equivale a ritenere che il fondamento estetico di

Ge s O 270 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

un’opera letteraria sia la correttezza grammaticale e sin­


tattica della lingua usata dall’autore.
Il lettore vede dunque che qui siamo riportati, volenti
o nolenti, al problema della verità. Ma si tratta appunto
dello stesso problema filosofico che interessava anche a
Spinoza e ad Hegel, a partire dal quale ad essi interessa­
va sottolineare la specificità e la singolarità del Gesù sto­
rico di fronte al Cristo della fede. Stiamo dunque avvici­
nandoci (anche se ne siamo sempre lontani) al problema
che vogliamo faticosamente mettere a fuoco.

Gesù 271 D io nel pensiero


20. Il m arxism o come m etafisica.
Un chiarim ento indispensabile

Nei due paragrafi precedenti abbiamo sostenuto due


tesi che fanno da architrave critica e negativa a questo
intero saggio. In primo luogo, che il marxismo come atei­
smo si basa sulla riduzione dello statuto della filosofia ad
ideologia di classe e di partito, che questa ideologia è una
religione burocratica e che infine l’ateismo programma­
tico che essa incorpora è una forma di nichilismo la cui
funzione è quella di escludere ogni riferimento morale o
politico esterno alla centralità del partito comunista e
dei suoi burocrati. In secondo luogo, che il marxismo come
agnosticismo si basa sulla riduzione dello statuto della
filosofia ad epistemologia delle scienze sociali, che que­
sta epistemologia è una ideologia di riferimento per gruppi
intellettuali in legittima rivolta contro la tirannia buro­
cratica, e che infine l’agnosticismo programmatico che
essa incorpora è una forma sofisticata e novecentesca di
positivismo, che esclude la verità dal campo della cono­
scenza sostituendola con la “certezza” ricavata dalle pro­
cedure costruttivistiche di accertamento tipiche delle
scienze moderne, naturali e sociali. In entrambi i casi il
carattere veritativo della filosofia è negato, ed in entrambi
i casi si è di fronte ad una interpretazione nichilistica di
Marx (anche se la prima versione può legittimare l’op­
pressione e l’assassinio, mentre la seconda può legitti­
mare soltanto la separatezza sociale del ceto non univer­
salistico degli intellettuali di professione). E chiaro che
bisogna cambiare risolutamente di terreno.
E quanto faremo in questo paragrafo. In Marx, suc­
cessore di Spinoza e di Hegel, è ben fermo l’impulso al
carattere veritativo ed emancipativo della filosofia, an­
che se la sua relativa incoerenza filosofica lo porta a con­

Gesù 272 D io nel pensiero


C ostanzo P keve

tinue oscillazioni. La verità della sua filosofia nasce da


un’intelligentissima e profondissima elaborazione dialet­
tica della filosofia dello Spirito di Hegel e da una esten­
sione della categoria fenomenologica di “coscienza infeli­
ce” dal mondo cristiano medioevale al mondo moderno
borghese-capitalistico. È molto importante comprendere
bene la centralità della categoria di coscienza infelice. È
forse la più importante categoria della filosofia della reli­
gione di Hegel. Se infatti tipico della religione è il fatto
che l’Assoluto venga rappresentato (e non ancora concet-
tualizzato), ne consegue che la dinamica immanente del­
la rappresentazione porta alla tensione verso 1’ appro­
priazione, e la tensione verso l’ appropriazione è nutrita
dalla nostalgia verso una precedente perdita.10
L’infelicità di cui parla Hegel nasce su questo terreno,
che è lo stesso terreno dello Streben e della Sensucht ro­
mantiche, dell’infinita tensione e dello struggimento. Nel
momento in cui si ha il passaggio dallo Spirito al Genere
lo struggimento passa dalla rappresentazione religiosa
alla tensione verso l’autenticità della vita sociale, e la
totalità capitalistica è investita direttamente dalla “infe­
licità” del borghese che non può essere cittadino, del cit­
tadino che non può essere borghese, del proletario che
non può essere né l’uno né 1’ altro. La dialettica fra rap ­
presentazione ('Vorstellung) e concetto (Begriff) è così tra ­
sferita dalla religione alla politica, senza che questo im­
plichi nessun presunto “rovesciamento” marxiano, bastan­
do per questo (e avanzando) un rigoroso svolgimento del­
la dialettica hegeliana.
In Marx la verità della società borghese-capitalistica
moderna sta nel comuniSmo inteso aristotelicamente
come sua causa finale. Certo, la causa finale della produ­

10 È questo un tema su cui Ernst Bloch ha scritto pagine convincenti.

Gesù 273 D io NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

zione capitalistica è il plusvalore (e non il comuniSmo),


ma se si intende la produzione capitalistica in senso al­
largato come manifestazione storicamente transeunte del
legame sociale umano che caratterizza il genere (Gat-
tung), si può allora concludere che storicamente il capi­
talismo è il mezzo per raggiungere il comuniSmo.
La nozione marxiana di comuniSmo è inscindibilmen­
te universalistica ed individualistica: è universalistica,
perché si pone concettualmente solo a livello mondiale, e
solo il modo di produzione capitalistico è in grado di mon­
dializzare la produzione universalizzando la produzione,
gli scambi, i bisogni e le capacità; è individualistica, per­
ché solo la generalizzazione della produzione capitalisti­
ca permette il passaggio dall’indipendenza personale (bor­
ghese) alla libera individualità (comunista).
La verità della teoria di Marx non sta dunque nel suo
apparato categoriale epistemologico con cui costruisce la
nozione di modo di produzione, ma sta nella nozione co­
munista di libera individualità sociale. Questa concezio­
ne non ha in sé nulla di “proletario”. Il proletariato non è
la verità filosofica del marxismo, ma è lo strumento poli­
tico-sociologico per mettere in moto produttivamente la
dialettica di particolarità (in quanto classe oppressa e
sfruttata) e di generalità (in quanto classe universale
emancipativa).
Questa verità filosofica si costruisce logicamente ed
ontologicamente secondo i criteri della scienza della logi­
ca di Hegel, ed in questo modo la libera individualità è il
concetto, nel senso hegeliano, della società moderna. Essa
non è falsificata dalla rilevazione di errori nella concet­
tualizzazione epistemologica fatta dallo stesso Marx sul
modo di produzione capitalistico. In effetti questa con­
cettualizzazione è parzialmente errata, nella misura in
cui Marx, per ragioni la cui analisi richiederebbe troppo

Gesù 274 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

spazio,11attribuisce erroneamente alla logica di sviluppo


della produzione capitalistica la tendenza alla fusione fra
potenze mentali della produzione (da Marx connotate con
il termine inglese di generai intellect) e lavoro collettivo e
cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo
manovale. Questo errore di Marx, perché di un errore
scientifico si tratta, non tocca però il piano distinto della
verità filosofica della sua concezione della libera indivi­
dualità intesa come verità della società moderna. Questo
piano distinto infatti non è né ideologico né epistemologi­
co, ed il suo livello veritativo è inscindibilmente logico ed
ontologico. A volte sembra che lo stesso Marx non appaia
pienamente consapevole della distinzione logica ed onto­
logica dei livelli in cui egli stesso si muove, ma questo
avviene perché lo scopritore è troppo impegnato nella sua
grande scoperta, per essere pienamente consapevole di
tutte le conseguenze della stessa, ed anche per la sua
inferiorità filosofica rispetto a Spinoza ed a Hegel. In pro­
posito, faremo ancora in questo paragrafo soltanto due
ordini di rilievi.
In primo luogo, ci appare chiaro che l’intera storia del
marxismo (prima marxiano e poi marxista) è un episodio
della più generale storia della metafìsica occidentale (in
un senso che verrà meglio chiarito in un paragrafo suc­
cessivo dedicato a Heidegger), e lo è in almeno due signi­
ficati convergenti. Da un lato, il pensiero marxiano è
un’interpretazione veritativa del destino della libera in­
dividualità, costituita contraddittoriamente attraverso le
vicende del lavoro umano come luogo storico di formazio­
ne dell’autocoscienza. Come è noto, le radici di questa
interpretazione veritativa stanno nel filosofo veritativo

11 Rimandiamo il lettore interessato ai lavori recenti di G. La Gras­


sa.

Gesù 275 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

per eccellenza della modernità, l’Hegel della Fenomeno­


logia dello Spirito, in cui i rapporti fra il lavoro e l’auto­
coscienza non erano ancora calati nello “stampo” della
categoria di modo di produzione. È altresì noto che quel­
lo che resta forse il più dotato filosofo marxista del Nove­
cento, Gyòrgy Lukàcs, ha ripreso consapevolmente l’im­
postazione hegeliana con una ontologia sociale basata sul
lavoro come forma originaria (Urform) e modello (Vorbi-
Id) della prassi, anche se il suo progetto è rimasto incerto
e contraddittorio, perché ha perseguito un’impossibile e
suicida continuità con il precedente marxismo nichilisti-
co del Novecento. Non ci sembra dunque seriamente ne­
gabile che un’interpretazione filosofica veritativa della
libera individualità sociale moderna, che utilizza come
suo apparato conoscitivo subordinato la categoria di modo
di produzione, sia un episodio della storia della metafisi­
ca, cioè, in linguaggio heideggeriano, dell’orizzonte del­
l’Essere.
Dall’altro lato, il successivo pensiero marxista, costi­
tuitosi dopo la morte di Marx, è anch’esso un episodio
della più generale storia della metafisica occidentale, in
un senso però leggermente diverso dal precedente. In ter­
mini heideggeriani, diremo che il pensiero marxiano è
un episodio della storia della metafisica strettam ente in­
tesa, mentre il successivo pensiero marxista è un episo­
dio della storia della tecnica, cioè della fase tecnica della
metafisica, quando cioè il soggetto della proposta metafi­
sica perde integralmente il controllo sul suo stesso pro­
getto originario.
L’emancipazione attraverso il riconoscimento del la­
voro (già presente nel pensiero di Hegel e pienamente
esplicitata in Marx) diventa organizzazione sindacale,
politica e statuale del lavoro salariato, ed infine utopia
della salarializzazione universale egualitaria scambiata

Gesù 276 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

per emancipazione del lavoro ed anticamera della libera


individualità comunista. Il fine è integralmente riassor­
bito nel mezzo, il mezzo è ideologicamente trasfigurato
in fine, i critici di questa trasfigurazione ideologica ven­
gono uccisi finché è possibile (stalinismo), e poi persegui­
tati ed emarginati (poststalinismo), ed infine il mezzo
viene riassorbito in un’altra sequenza di mezzi molto più
efficiente (implosione tragicomica del comuniSmo storico
novecentesco nel capitalismo finanziario transnazionale
di oggi). Questo avviene, in termini biblici, quando si ro­
vescia il rapporto fra Dio ed il Sabato.
In secondo luogo, e di conseguenza, vogliamo far nota­
re come l’orientare l’attenzione e la riflessione sul Gesù
storico porti a investire direttamente i due difetti filoso­
fici principali del marxismo, l’economicismo ed il relati­
vismo. Analizziamoli separatamente.
Con il termine “economicismo” si intende propriamente
la riduzione della dialettica sociale del materialismo sto­
rico alla sola dimensione feticizzata dello sviluppo delle
forze produttive, a sua volta identificato con gli aumenti
della produttività resi possibili dai “balzi in avanti” della
tecnologia.12In un secondo significato, più propriamente
filosofico, “economicismo” significa ossessiva riduzione e
“deduzione” di tutte le forme simboliche e culturali alla
semplice dimensione della produzione materiale.
Si ha in questo modo una vera e propria caricatura del
legame sociale complessivo, particolarmente visibile nei
due estremi convergenti della polarità sociale novencen-
tesca, il mercato capitalistico degli scambi finanziari e il
partito staliniano di militanti, accomunati ed uniti da una
identica cecità verso tutti gli aspetti non economici della
vita sociale.

12 Rinvio in proposito agli scritti di L. Althusser e di G. La Grassa.

Gesù 277 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

Il “relativismo” della verità è la conseguenza inevita­


bile del sociologismo marxista, cioè della riduzione del­
l’elemento veritativo ad interesse delle differenti classi
sociali.
La storia della filosofia è così ridotta ad una pazzesca
e improbabile lotta continua fra materialismo e ideali­
smo, mentre la storia “storica” è ridotta ad una ferrovia
con un solo binario, che passa attraverso le cinque sta­
zioni costituite dal comuniSmo primitivo, dallo schiavi­
smo, dal feudalesimo, dal capitalismo e dal comuniSmo,
rappresentato in termini staliniani come un totalitari­
smo del partito-stato da cui dovrebbe magicamente sor­
gere l’anarchismo perfetto.
Queste mostruosità non sono mai stati realmente toc­
cate dal marxismo “critico” novecentesco. E ciò non è un
caso, perché ogni seria interrogazione della filosofia e della
storia avrebbe inevitabilmente sollevato il problema del­
la verità, e il porre seriamente questo problema è incom­
patibile con il relativismo sociologistico, tessuto teorico
di quella forma specifica di nichilismo costituita dal co­
muniSmo storico novecentesco.
Il problema del Gesù storico riacquista una sua speci­
fica visibilità alla luce di queste considerazioni. E noto
che il problema del rapporto fra il Gesù storico ed il Cri­
sto della fede può essere discusso (non diciamo risolto, ci
basti dire “discusso”) soltanto se si ricerca la verità su
entrambi i piani.
Il fatto che la storicità di Gesù possa essere ricostrui­
ta soltanto attraverso il filtro categoriale del modo di pro­
duzione templare antico-orientale e dell’insieme finito di
pratiche che esso consentiva non significa che la sua ve­
rità sia la categoria di modo di produzione antico-orien­
tale, ma non significa neppure che si possa evitare di
passare per questo filtro categoriale.

Gesù 278 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

Questo filtro è l’anticamera per passare alla verità del


Gesù storico, che sta nell’afFermazione di una Nuova Leg­
ge contro la vecchia.

Gesù 279 D io nel pensiero


21. A ncora su l marxismo.
Una conclusione in com pendio

A questo punto, ci si può chiedere se è opportuno per­


seguire la ripresa, il rilancio, la ricostruzione, la restau­
razione del marxismo dopo il suo rovinoso crollo epocale.
A nostro avviso non è opportuno perseguire questa ripre­
sa, questo rilancio, questa ricostruzione, questa restau­
razione, eccetera, ma bisogna considerare il marxismo
come un episodio concluso e terminato della storia della
metafìsica occidentale mondializzata dal capitalismo.
Questo ovviamente non significa che il marxismo sia
“morto” (espressione di un’insuperabile stupidità mortua­
ria, da lasciare agli amministratori dei cimiteri) , così
come non sono “morte” le correnti storiche e filosofiche
del passato. In linguaggio hegeliano, la “morte” appar­
tiene alla filosofia della natura, non alla filosofia dello
spirito.
La considerazione del marxismo come un episodio sto­
rico concluso e terminato significa che in esso c’è certa­
mente molto da riprendere (dalla filosofia veritativa del­
la libera individualità alla sua epistemologia subordina­
ta del modo di produzione capitalistico), ma che il com­
plesso coerente della sua struttura teorica e pratica è ir­
rimediabilmente tramontato.
Per essere più precisi, il marxismo potrebbe forse es­
sere astrattamente ricostruito a tavolino, ma concreta­
mente nei fatti certamente no. Spieghiamoci meglio, per
non lasciare equivoci nella testa del lettore.
Astrattamente parlando, il marxismo potrebbe forse
essere teoricamente ricostruito con un rovesciamento in­
tegrale ed esplicito del rapporto che esso ha storicamen­
te instaurato per più di un secolo fra il livello filosofico
veritativo ed il livello scientifico conoscitivo. È inutile in

Gesù 280 D io NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

proposito rivolgersi ai cosiddetti “marxisti critici” (da


Gramsci ad Althusser, da Lukàcs a Korsch, da Sartre a
Bloch). Essi si sono fermati a metà strada, limitandosi
ad insufficienti correzioni di dettaglio del tutto incapaci
di arrestare la deriva nichilistica che investiva il marxi­
smo storico in tutte le sue manifestazioni, ortodosse o
eretiche, maggioritarie o minoritarie.
Per esprimerci in modo radicale, il marxismo si è m a­
nifestato in una forma di idealismo (storico) e di m ateria­
lismo (filosofico), laddove il minimo che gli si potrebbe
chiedere per un suo raddrizzamento sarebbe un radicale
rovesciamento in un materialismo (storico) e in un idea­
lismo (filosofico). Ci spiegheremo meglio, perché così il
lettore si renderà conto che è inutile cercare di cavare
sangue da una rapa o tentare di raddrizzare le gambe ai
cani.
Anziché mettere la teoria scientifica dei modi di pro­
duzione sociali al servizio del livello filosofico veritativo
della libera individualità, il marxismo storicamente co­
stituito dopo il 1880 ha messo la teoria scientifica dei modi
di produzione sociali al servizio di una ideologia di tipo
“grande-narrativo” (usiamo qui la terminologia di un acu­
to critico “post-moderno” delle “grandi narrazioni” m eta­
fisiche, Lyotard). In questa ideologia si narrava la storia
infinita di un soggetto pieno (il proletariato con alla sua
testa l’avanguardia della classe operaia organizzata), che
garantiva con la permanenza della sua identità iniziale
(la permanenza del proletariato nelle varie metamorfosi
sociali delle classi salariate nelle diverse fasi del capita­
lismo) la realizzazione finale del suo progetto originario
(il comuniSmo come ricomposizione fra natura e società).
Questa ideologia di tipo grande-narrativo è integral­
mente falsa e fasulla, si basa su di una concezione orga­
nicistica e totalitaria e non emancipativa ed individuali­

Gesò 281 D io nel pensieeo


C ostanzo P reve

stica della soggettività moderna e non può che essere


messa al servizio di mezzi manipolativi in vista di un
fine impossibile ontologicamente e non auspicabile as-
siologicamente (il presunto “riassorbimento” dell’indivi­
dualità moderna nella collettività organica del popolo-
classe).
Deve essere chiaro che battezzandola idealismo (sto­
rico) facciamo un indebito insulto al vero idealismo (da
Platone a Hegel), che resta ben superiore a questo pa­
sticcio nichilista, e lo facciamo soltanto per sottolineare
provocatoriamente che in questa grande-narrazione non
c’è niente di “materialistico” (nel senso di scientifico).
Questa grande-narrazione, essendo una forma di ni­
chilismo, ha poi una ricaduta filosofica anch’essa nichili­
stica, cioè strutturalm ente non veritativa, in quanto cer­
ca la verità in una specie di substrato “materiale” delle
scienze naturali e sociali che è ovviamente una specie di
Dio che non esiste, e che dovrebbe appunto fare da sub­
strato e sostanza portante, e cioè da fondamento solido
di scorrimento temporale a questa grande-narrazione. Ed
è appunto perché questa grande-narrazione non ha al­
cun fondamento veritativo che essa è costretta a fondarsi
su di una menzogna ideologica, lo scorrimento del tempo
storico su di un substrato materiale sostanziale. Il letto­
re vede bene che su questo terreno non si può edificare
nessuna casa.
Certo, astrattam ente si potrebbe restaurare l’origina­
ria intenzione veritativa marxiana sepolta sotto le con­
fusioni filosofiche del suo stesso fondatore. In questo
modo, il materialismo (storico) potrebbe essere restaura­
to come livello scientifico-epistemologico della conoscen­
za e dell’analisi delle formazioni sociali, e l’idealismo (fi­
losofico) potrebbe essere restaurato come il livello filoso-
fico-veritativo della libera individualità sociale come ve­

G esù 282 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

rità accessibile nell’orizzonte storico della modernità. Con­


cretamente, però, non crediamo che questo possa avveni­
re, e riteniamo dunque illusoria ogni prospettiva di “rico­
struzione”.
Non crediamo in questa possibilità per almeno due or­
dini di ragioni. In primo luogo, conosciamo molto bene
ciò che resta della comunità dei marxisti. Con alcune ri­
levanti ma marginali eccezioni, si tratta di una comunità
che ha profondamente interiorizzato il nichilismo nelle
sue due varianti scientistica e sociologistica, a volte uni­
ficate nella stessa persona, a volte distinte in persone
diverse.
Il nichilismo scientistico crede che il livello veritativo
risieda esclusivamente nell’apparato categoriale delle
scienze, naturali e sociali, mentre il nichilismo sociologi­
stico (a nostro avviso ancora più grottesco) crede che il
livello veritativo coincida con il resoconto delle turbolen­
ze dei gruppi sociali in conflitto economico, prevalente­
mente distributivo. In proposito, solo un inguaribile in­
genuo può pensare che questa comunità nel suo comples­
so possa effettuare su se stessa un radicale mutamento
di prospettiva, che sarebbe maggiore di quello che si ve­
rificò nel passaggio dal paganesimo al cristianesimo, ed
incomparabilmente maggiore di quello che si verificò da
Platone ad Aristotele e da Kant a Hegel.
Inoltre, questa comunità ha sempre accettato la pro­
pria nichilistica subordinazione al ceto politico professio­
nale dei burocrati di partito, che si sta oggi riciclando in
due tendenze principali. Da un lato, quella che si collega
ai rappresentanti politici diretti del grande capitale fi­
nanziario transnazionale, cui offre le proprie capacità am­
ministrative di mediazione e di manipolazione sociale.
Dall’altro, i rappresentanti politici delle sacche di emar­
ginazione e di povertà crescenti in questo modello di svi-

Gssù 283 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

luppo economico. Queste due tendenze possono a volte


entrare in conflitto tattico, ma sono in piena sintonia e
convergenza strategica. E dunque prevedibile che nei
prossimi anni verrà ribattezzato “marxismo” un insieme
di ideologie miserabilistiche, pauperistiche e sindacali­
stiche del tutto prive di capacità emancipativa globale e
di natura veritativa.
In secondo luogo, per concludere, non è concretamen­
te possibile rilanciare e ricostruire una teoria che non
solo rifiuta di riconoscere il solo livello veritativo in cui
sarebbe accettabile, ma anche rifiuta di sottoporre ad au­
tocritica radicale il proprio modello epistemologico, con il
pretesto che l’ammissione della complessiva incapacità
delle classi salariate a superare il capitalismo (almeno
nell’attuale fase storica)13potrebbe compromettere i pos­
sibili residui di mobilitazione ideologica. In altri termini,
non solo il livello veritativo filosofico è subordinato al li­
vello conoscitivo epistemologico, ma anche il livello cono­
scitivo epistemologico è subordinato al livello manipola­
tivo ideologico. Questo nichilismo è incurabile, e si tra tta
solo di capire come sarà possibile uscirne.-

13 Per indicare la nostra tesi che classe operaia, proletariato, partiti


comunisti, non sono realmente in grado di costruire una società basa­
ta su un modo di produzione diverso da quello capitalistico, parliamo
di “non-intermodalità della classe operaia (del proletariato, dei parti­
ti comunisti)”.

Gesù 284 D io nel pensiero


22. Il Dio ed il Cristo di Nietzsche

La distinzione metodologica fra borghesia e capitali­


smo è a nostro avviso la chiave interpretativa fondamen­
tale per intendere la funzione storica del pensiero di Nietz­
sche. Il problema primario sta nel capire non tanto per­
ché l’annuncio della morte di Dio fatto dall’uomo folle della
Gaia Scienza di Nietzsche sia diventato il sigillo e lo stem­
ma nobiliare della filosofia contemporanea, quanto per­
ché fra le migliaia di annunci della morte di Dio fatti pri­
ma e dopo Nietzsche solo quello di Nietzsche sia giunto a
tanta indiscussa notorietà.
In proposito, è bene ricordare che l’annuncio nicciano
della morte di Dio era un annuncio di tipo messianico, e
lo stesso Nietzsche, in buona sintonia con molti positivi­
sti del suo tempo, era soggettivamente convinto che a Dio
restassero solo alcuni anni, al massimo alcuni decenni, e
pertanto vi era qui un imbarazzante elemento comune
con l’odiatissimo Paolo di Tarso, che anche lui predicava
una parusia temporalmente prossima. Tuttavia, il Re­
gno di Dio non venne, ed al suo posto venne la Chiesa
(come scrisse acutamente il Loisy), e nello stesso modo la
morte di Dio non venne, e si tratta di vedere che cosa
venne al suo posto.
Si tra tta di un enigma di difficile soluzione. Nella pro­
spettiva di Nietzsche, l’annuncio della morte di Dio avreb­
be aperto un periodo di nichilismo dichiarato, e lo scon­
tro aperto ed agonale fra le forze attive e le forze reattive
ingenerato da questo nichilismo avrebbe infine permes­
so l’avvento dello Ubermensch, il Superuomo-Oltreuomo.
Questa gigantesca rivoluzione avrebbe comportato una
parallela restaurazione, quella di Dioniso contro il Cro­
cefisso, dell’eterno ritorno del sempre eguale e della vo­
lontà di potenza. Ci sembra difficile negare che in Nietz-

Gesù 285 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

sche Dio sia altro che un sinonimo per indicare la metafi­


sica occidentale nella sua storia da Platone a Hegel, ed
appare pertanto chiaro che la morte di Dio coincide con
la fine della storia della metafisica occidentale.
Questa storia della metafisica occidentale è squalifi­
cata da Nietzsche attribuendole una genealogia basata
sull’invidia, il rancore ed il risentimento, ed in questo
modo l’intera utopia emancipativa borghese, pre e post­
illuministica, è squalificata come episodio regressivo della
storia dell’invidia, del rancore e del risentimento. Ciò
permette a Nietzsche di squalificare anche il socialismo,
che Nietzsche individua correttamente e genialmente
come un momento terminale dell’utopia borghese stessa,
come infatti appunto è. Una volta eliminata l’utopia bor­
ghese, però, ciò che resta nei fatti è comunque sempre il
capitalismo.
Nietzsche non è dunque a nostro avviso un pensatore
della decadenza borghese che proclama la lotta a morte
contro il socialismo, ma piuttosto un pensatore del mo­
mento culminante dell’epoca borghese che proclama la
necessità di concettualizzare l’antropologia filosofica di
un capitalismo ormai post-borghese, ed anche post-pro-
letario, dal momento che non c’è borghesia senza prole­
tariato e viceversa. Il Dio la cui morte Nietzsche procla­
ma è l’orizzonte dialettico fra utopia borghese e realismo
capitalistico, un orizzonte dialettico tenuto aperto da
Spinoza, Kant e Hegel ed illusoriamente “risolto” da Marx
nella sua fuga in avanti comunista.
Questa interpretazione può forse sembrare al lettore
un po’ folle. Se è cosi, siamo in buona compagnia, perché
anche la nicciana morte di Dio è proclamata da un folle.
Ma il lettore rifletta sul fatto che questa interpretazione
un po’ “folle” permette di impostare (e parzialmente di
risolvere) l’annoso problema se Nietzsche sia un pensa-

OksO 286 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

tore di “destra” o viceversa di “sinistra”, e se il nicciano


Ubermensch debba essere tradotto, a “destra” con Supe­
ruomo ed a “sinistra” con Oltreuomo. Il segreto dialettico
sta nel fatto che la borghesia può essere di destra o di
sinistra, ma il capitalismo di per sé non è né di destra né
di sinistra, e conosce soltanto momenti ricorsivi in cui i
“contrari” sono di volta in volta compatibili con i nuovi
scenari economici e sociali che emergono.
Nel passaggio fra la prima e la seconda rivoluzione
industriale (1870-1910 circa) il nicciano Ubermensch è
un Superuomo di “destra”, perché questo è lo scenario
deirimperialismo, dello scontro aperto fra capitalisti ed
operai organizzati in sindacati e partiti socialdemocrati­
ci, del razzismo e dell’antisemitismo (nel suo doppio aspet­
to di ideologia dei capitalisti ariani e di socialismo degli
imbecilli, secondo la stupenda definizione di Bebel), del­
l’estetismo come ideologia di identità culturale della pic­
cola borghesia europea, eccetera.
Nel passaggio fra la seconda e la terza rivoluzione in­
dustriale (a partire dal 1960 circa) il nicciano Ubermen­
sch è un Oltreuomo di “sinistra”, perché questo è lo sce­
nario della produzione flessibile, della liquidazione dal­
l’alto degli ultimi resti di morale e di costume borghese,
dell’allargamento universale del consumo capitalistico
all’insieme della società in direzione di una classe media
globalizzata che non è più né borghese né proletaria, né
reazionaria né rivoluzionaria.
E dunque ingenuo pensare che l’interpretazione del-
YUbermensch come Superuomo si opponga all’interpre­
tazione dell’Ubermensch come Oltreuomo, e che Nietzsche
venga così disputato come pensatore di riferimento fra
Adolf Hitler e Tony Blair, Benito Mussolini e Massimo
D’Alema, eccetera. Questa ingenuità è un innocuo deli­
rio di onnipotenza dell’ermeneutica.

G esù 287 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

Dal momento che il capitalismo non è né di destra né


di sinistra, il suo concreto eterno ritorno del sempre egua­
le, che è poi la ricorsività (eterno ritorno) della sua per­
manenza (sempre eguale), comporta la successione di
Superuomini prepotenti e gerarchici e di Oltreuomini tol­
leranti ed egualitari. La volontà di potenza è in proposito
una forma destinata ad essere riempita da contenuti sem­
pre diversi. La nostra impostazione non permette certo
di risolvere l’enigma di Nietzsche (e sarebbe ridicolo por­
si in poche righe questo obbiettivo), ma permette di com­
prendere le ragioni del successo apparentemente inespli­
cabile del niccianesimo colto, del niccianesimo popolare e
del niccianesimo universitario.
Nietzsche annuncia dunque insieme la morte di Dio e
la morte dell’utopia emancipativa borghese-rivoluziona­
ria, nella misura in cui questa utopia emancipativa era
effettivamente radicata in una secolarizzazione della me­
tafisica occidentale.14 Questo non significa, ovviamente,
che Nietzsche sia stato soggettivamente un cosciente apo­
logeta ideologico del capitalismo. Egli era un intellettua­
le imbevuto di filologia classica e di sogni filosofici di ri­
stabilimento dell’autenticità perduta, e dunque quanto
di più lontano si possa immaginare dalla consapevolezza
dei reali problemi economico-sociali del capitalismo.

14 In questo senso, è parzialmente corretta l’interpretazione marxi­


sta di Nietzsche proposta da Lukàcs nella Distruzione della Ragione,
in chiave di apologetica indiretta del capitalismo e di abbandono del­
l’eredità illuministica. Ma questa interpretazione resta fuorviante
nell’essenziale e penosamente inferiore a quella di Heidegger, per al­
meno due ragioni fondamentali. In primo luogo, essa non si basa su di
una concezione adeguata di modo di produzione capitalistico, che in­
terpreta erroneamente come un processo teleologico destinato a sfo­
ciare necessitaristicamente nel socialismo. In questo modo sfugge a
Lukàcs che la dialettica di ricorsività (eterno ritorno) e di permanen­
za (sempre eguale) rende flessibile lo stesso pensiero di Nietzsche,

Gesù 288 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

Quella che abbiamo cercato di abbozzare è la logica


profonda di un pensiero e dei collegamenti indiretti di
tale pensiero con la realtà storica.
Vediamo ora come Nietzsche discute il problema del
Gesù storico. Nietzsche rifiuta di annullare Gesù nella
sua dialettica fra Dioniso (positivo) ed il Crocifisso (ne-

come del resto era già chiaro negli anni Sessanta quando era ancora
in vita. La concezione erronea del modo di produzione capitalistico
che Lukàcs si portava dietro fino dagli anni Venti presupponeva in­
fatti il postulato della capacità storica intermodale del proletariato
come classe generale, e pertanto della riformabilità del suo partito
politico. Si tratta di due postulati tolemaici che non permettono nes­
suna rivoluzione scientifica copernicana, ed è chiaro che non esiste
soluzione intermedia fra il loro mantenimento ed il loro abbandono
conclamato. E così Lukàcs si attarda penosamente a polemizzare con
l'ateismo religioso di Schopenhauer o di Heidegger, senza capire che
l’ateismo religioso è direttamente e senza mediazioni l’economia capi­
talistica, esteriorizzata nella forma della tecnica. Lukàcs, che resta
comunque il più grande filosofo marxista del Novecento (certo, molto
superiore allo stesso Althusser), è evidentemente convinto che vi sia
sempre una borghesia progressista (sostenitrice di Hegel e di Hus­
serl) con la quale il proletariato marxista deve allearsi, contro la bor­
ghesia reazionaria (sostenitrice di Nietzsche e di Heidegger). In que­
sto modo l’epoca dei fronti popolari della metà degli anni Trenta è
trasfigurata in periodo storico epocale, e ci si preclude ogni possibilità
di comprensione delle novità storiche presenti.
In secondo luogo, Lukàcs cerca effettivamente di ristabilire l’ordine
veritativo che mette in successione dal basso in alto prima l’ideologia
(come forma di coscienza primaria da superare), poi l’epistemologia
(come correzione scientifica delle illusioni ideologiche e modellizza-
zione di una forma adeguata di certezza conoscitiva) ed infine la filo­
sofia (come luogo della verità logica ed ontologica). E per questo, e
solo per questo, che gli concediamo volentieri il titolo di maggiore filo­
sofo marxista del Novecento. Ma questo suo tentativo è talmente in­
certo, contraddittorio e compromissorio, a causa della sua ripetuta
proclamazione di intemità al comuniSmo storico novecentesco, stali­
nismo compreso, da vanificare nei fatti questa intenzione soggettiva.
Ed è per questo doppio ordine di ragioni che la sua interpretazione di
Nietzsche ha oggi esclusivamente un valore storico.

Gesù 289 DlO NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

gativo). Attribuendo a Paolo di Tarso l’invenzione del


Crocifisso, egli salva in questo modo il Gesù storico origi­
nale.
A nostro avviso, questo è un sintomo indiscutibile del­
la fondamentale onestà filosofica di Nietzsche, ed anche
della buona qualità del suo intuito conoscitivo. Il Gesù di
Nietzsche presenta anzi aspetti curiosamente simili a
quelli già notati, in un paragrafo precedente, nel Gesù di
Hegel. Gesù non annuncia una nuova fede, ma soltanto
una nuova regola di vita. Gesù viene esaltato, i cristiani
vengono condannati, e l’intero cristianesimo è interpre­
tato come un capovolgimento storico non tanto dell’an­
nuncio di Gesù, quanto della sua pratica di vita. Secondo
Nietzsche, nell’insegnamento originale di Gesù mancano
completamente le tre dimensioni di colpa, di castigo e di
pentimento.
E un’interpretazione filologicamente discutibile, per­
ché è incompatibile con alcune affermazioni letterali dei
Vangeli. E interessante, però, che qui si sia lontani dal
“male radicale” e dal “legno storto” di Kant. In questa
interpretazione, non c’è evidentemente posto per alcuna
nozione di “ricompensa”, che diventa anzi del tutto im­
pensabile. Questo diventa però, secondo la nostra stessa
interpretazione avanzata nei paragrafi precedenti, incom­
patibile con l’ideologia capitalistica, basata sul valore di
scambio e dunque sulla ricompensa giusta dovuta per lo
scambio effettuato.
Il pensiero di Nietzsche è allora luogo di una contrad­
dizione, che non saremmo mai riusciti a scoprire se non
avessimo tematizzato la distinzione fra il Dio di Nietz­
sche (la cui morte è identificata con la consumazione del­
la storia della metafisica occidentale e del suo ultimo epi­
sodio, l’utopia emancipativa borghese ed il marxismo come
sua variante interna) ed il Gesù di Nietzsche. Da un lato,

Gesù 290 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

Nietzsche toglie ogni fondamento veritativo al mondo al


di fuori della volontà di potenza che si esplica nell’accet­
tazione dell’eterno ritorno del sempre eguale, che a no­
stro avviso è soltanto una metafora inconsapevole della
temporalità implicita nell’andamento ciclico della produ­
zione capitalistica. In questo modo il niccianesimo diven­
ta un’ideologia organica postborghese del capitalismo stes­
so, ciclicamente di destra (il Superuomo) e di sinistra
(l’Oltreuomo). Dall’altro lato, Nietzsche vede la verità del
Gesù storico, sia pure all’interno della sua riduzione del­
la verità a funzione energetica della volontà di potenza,
come rifiuto integrale della dialettica di colpa e di espia­
zione, di peccato e di pentimento, di azione e di ricom­
pensa. E questo un Gesù radicalmente spinoziano ed he­
geliano, ed altrettanto radicalmente non pascaliano e non
kantiano.
Ci siamo volutamente soffermati abbastanza a lungo
su questa contraddizione per segnalare la distanza fra
Nietzsche ed il niccianesimo, che a nostro avviso segue la
stessa dinamica della distanza fra Marx ed il marxismo.
Marx e Nietzsche sono il luogo filosofico di una contrad­
dizione veritativa, e la loro grandezza sta nel segnalarla.
Il marxismo ed il niccianesimo (indifferentemente di de­
stra o di sinistra) sono due manifestazioni parallele del
nichilismo contemporaneo, ed è dunque del tutto fuor-
viante sia proporsi di “ricostruire” il marxismo sia pro­
porsi di “accettare” il niccianesimo. Occorre riportarsi sul
terreno veritativo della filosofia, ed il lettore non potrà
negare che fin qui la semplice esistenza del problema del
Gesù storico ci ha aiutati.

Gesù 291 D io nel pensiero


23. L’in terpretazion e v erita tiva d ella storia
n ella m etafisica d i H eidegger

Ci permettiamo di richiamare al lettore l’importanza


di questo paragrafo, perché in esso in un certo senso “strin­
giamo” la logica di sviluppo dei paragrafi precedenti. In
questo paragrafo infatti accogliamo il senso generale del­
l’interpretazione veritativa della storia della metafisica
proposta da Martin Heidegger.
Solo l’incurabile “chiacchiera”, che ha sostituito il con­
fronto filosofico nei fatui circoli intellettuali, potrebbe
scambiare questo accoglimento per adesione allo heideg-
gerismo, oppure per una “presa di partito” per Heidegger
contro Hegel o Marx, eccetera. Si tratta soltanto di rico­
noscere la pertinenza storica dell’impostazione heideg­
geriana del problema della verità, senza che questi im­
plichi la condivisione delle opinioni sociopolitiche o sto­
riografiche di Heidegger.
Daremo infatti, a partire dall’impostazione veritativa
di Heidegger, un’interpretazione delle sue stesse parole
che egli non avrebbe certo assolutamente condiviso. Il
lettore non deve dimenticare mai che il compito di queste
note non è la ricostruzione complessiva del problema della
verità nella storia della filosofia occidentale, ma la collo­
cazione del problema della ricostruzione adeguata del
Gesù storico nel più generale problema filosofico della
verità. Se poi, come effetto secondario, si ottengono an­
che alcuni modesti risultati sul terreno filosofico, allora
tanto meglio e ringraziamo la circostanza.
Per ragioni di spazio ci limiteremo ad interpretare una
sola citazione di Heidegger, tratta dalla Lettera sulVUma-
nesimo del 1946. Questa citazione è utile perché ci per­
m ette di discutere “in un solo colpo” almeno cinque di­
stinti problemi (nell’ordine: la natura del dibattito filoso­

Gesù 292 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

fico veritativo; la natura del sistema di Hegel; il proble­


ma di Marx; il problema di Nietzsche; la prospettiva del­
la proposta veritativa heideggeriana). Questi cinque pro­
blemi verranno discussi separatamente in successione, e
la responsabilità dell’interpretazione sarà esclusivamente
di chi scrive. Ed ora la citazione:
«Eppure, la determinazione hegeliana della storia come
svolgimento dello Spirito non è falsa, e neppure in parte
giusta ed in parte falsa. Essa è vera nel senso in cui è
vera la metafisica, che porta ad espressione nel sistema,
per la prima volta, per mezzo di Hegel, la sua essenza
pensata assolutamente. La metafisica assoluta appartie­
ne, con i suoi rivolgimenti per mezzo di Marx e di Nietz­
sche, alla storia della verità dell’Essere. Quel che da que­
sta storia viene fuori, non è cosa che si possa confutare o
addirittura mettere da parte. Essa si può accogliere in
tanto, in quanto la sua verità viene più originariamente
ricondotta e messa in salvo nell’Essere stesso, e sottratta
al circolo del mero opinare umano. Ogni confutazione nel
campo del pensiero essenziale è pazzesca. La lotta fra i
pensatori è “lotta amichevole” della stessa cosa, la quale
lotta è ad essi di aiuto reciproco a trovare la semplice
appartenenza alla stessa cosa: essi, infatti, trovano la
ragione interna dell’Essere, propria della sua destinazio­
ne».
Cerchiamo di commentare brevemente questa citazio­
ne in cinque punti successivi, che culmineranno con la
nostra interpretazione del problema filosofico-veritativo
del problema del Gesù storico.
In primo luogo, si ribadisce che la lotta filosofica fra
posizioni diverse è solo un aiuto reciproco per manifesta­
re la comune appartenenza alla verità. Dal momento che
l’unica appartenenza vera è la messa in comune della
verità, ne consegue che ogni appartenenza non veritati­

G esù 293 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

va, di tipo sociologico e/o ideologico, è il primo passo ver­


so la menzogna. Ed infatti cosi è. È pazzesco pensare che
il signor Costanzo Preve possa pretendere di “confutare”
in poche righe sintetiche i signori Pascal, Hegel, Marx e
Nietzsche. D’altra parte, questa pretesa pazzesca è nor­
male non appena il dibattito filosofico non è più concepi­
to in modo veritativo.
Se la verità è messa da parte come illusione autorita­
ria, in primo piano necessariamente balza il virtuosismo
argomentativo, la battuta spiritosa, la verosimiglianza
retorica. Ma qui si va ben oltre la questione della tolle­
ranza dialogica fra posizioni diverse, tutte legittime ap­
punto perché tutte relativisticamente infondate. Questa
logica è segretamente intollerante, perché si finirà con il
non tollerare tutte le posizioni veritative che potrebbero
m ettere in dubbio il solo Assoluto presupposto dal relati­
vismo programmatico, la Relatività incondizionata del
tutto. La lotta è amichevole solo quando mira alla stessa
cosa, la natura veritativa dell’Essere, laddove diventa
ostile proprio quando scendono in campo cose diverse,
cioè pretese ideologiche unilaterali di volontà di potenza.
In secondo luogo, Heidegger, che pure ha personalmen­
te un approccio metodologico al problema della verità dia­
metralmente opposto a quello di Hegel, riconosce l’inte­
grale verità del sistema hegeliano. E noto che Hegel è
colui che ha spinto più avanti la sistematica onticizzazio-
ne dell’Essere, concependo l’Assoluto come il sistema con­
cettuale di tutte le determinazioni ontiche, cioè come la
ragione che si incarna in ogni aspetto della realtà, il che
è identico alla possibilità necessaria di riportare ogni
aspetto della realtà alla ragione.
A questo punto ci permettiamo di inserire la nostra
interpretazione. Sì, in effetti Hegel fa esattamente ciò
che Heidegger gli attribuisce, ma ciò avviene appunto

Gesù 294 Dio nel pensiero


C ostanzo P reve

perché l’utopia borghese dell’emancipazione (che trova il


suo coronamento nell’idealismo tedesco) comporta il pre­
supposto della padronanza integrale dello Spirito sul
mondo degli enti finiti. L’Assoluto diventa il sistema con­
cettuale di tutte le determinazioni ontiche, dialetticamen­
te concatenate insieme nell’identità essenziale fra logica
ed ontologia, appunto perché la verità dell’Essere si ma­
nifesta come tensione alla padronanza integrale del mon­
do degli enti, nessuno dei quali sfugge alla sua deduzio­
ne razionale.
E in proposito “pazzesco” concluderne presuntuosa­
mente che Hegel “sbaglia”. È invece più sensato ipotizza­
re che questa pretesa di padronanza è il punto più alto
dell’illusione (necessaria) della padronanza della borghe­
sia sul capitalismo, e della ragione umana sull’insensa­
tezza. La cosiddetta “dissoluzione” del sistema di Hegel,
su cui da un secolo e mezzo si esercita la storiografia filo­
sofica, è allora essenzialmente la trasfigurazione teorica
della dissoluzione di questa pretesa di padronanza, una
dissoluzione che è in una certa misura la verità della sto­
ria di questo secolo e mezzo. Ma questa “dissoluzione”
non coincide affatto con la “falsificazione” del sistema
hegeliano, la cui verità non è ricavata dalla generalizza­
zione empirica di tutti i “fatti” avvenuti dal 1831 in poi.
In linguaggio heideggeriano, «questa verità [...] è messa
in salvo nell’Essere stesso, e sottratta al circolo del mero
opinare umano». L’illusione di padronanza dell’utopia ra ­
zionalistica borghese sul caotico divenire capitalistico è
un momento di verità della manifestazione storica del­
l’Essere.
In terzo luogo, Heidegger mostra di possedere a pro­
posito di Marx e del marxismo una capacità di orienta­
mento molto superiore a quella di quasi tutti i “marxisti
ufficiali”. Fuori dai denti, consideriamo l’interpretazione

Gesù 295 D io NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

heideggeriana di Marx la più intelligente e veritativa di­


sponibile sul mercato filosofico novecentesco. Essa si di­
spiega concettualmente in due momenti. Primo, Heideg­
ger coglie acutamente il fatto che «[...] l’essenza del m a­
terialismo non sta nell’affermazione che tutto è pura
materia, ma piuttosto in una determinazione metafìsica,
secondo cui tutto Tessente appare come materiale del la­
voro».
Si ha in questo riconoscimento non solo la corretta ri­
conduzione di Marx a Hegel ed alla Fenomenologia dello
Spirito sul tema originario del rapporto fra lavoro, rico­
noscimento ed emancipazione, ma anche l’implicita dire­
zione della critica filosofica al marxismo non certo alle
sue manifestazioni più volgari, rozze e degradate (come
il materialismo dialettico sovietico, che è appunto una
metafisica della materia), ma alle sue manifestazioni più
alte e migliori (come l’ontologia dell’essere sociale di
Lukàcs fondata proprio sul lavoro come determinazione
ontologica primaria nella comprensione concettuale del­
la totalità del mondo degli enti).
La verità filosofica del marxismo è riconosciuta, nella
centralità data al lavoro, da non confondere comunque
con la centralità epistemologica delle categorie di modo
di produzione e di valore-lavoro e tantomeno con l’illu­
sione ideologica sulla capacità intermodale dei lavorato­
ri organizzati in sindacati ed in partiti politici “proleta­
ri”. La centralità data al lavoro resta in Marx un momen­
to della rivelazione della storia della verità, con cui ogni
lotta non può che essere “amichevole”, perché ha in co­
mune l’appartenenza alla cosa stessa.
Secondo, la determinazione metafisica che individua
le totalità degli enti come prodotto del lavoro comporta
per Heidegger l’integrale riduzione del naturale al socia­
le, una riduzione in cui però al sociale è tolta ogni tra ­

Gesìi 296 D io NBL PENSIERO


C ostanzo P reve

scendentalità veritativa (presente ancora in Hegel), per


divenire integralmente l’essenza sociologica di determi­
nati rapporti sociali di produzione. La tecnica del lavoro
diventa così tecnica dell’organizzazione dispotica della
produttività del lavoro sociale. In un paragrafo preceden­
te, abbiamo già rilevato che in questo modo il marxismo
si suicida, nella figura fenomenologica dell’imbecille che
sega il ramo su cui è seduto, trasformandosi dialettica-
mente nello sventurato che si sfracella al suolo. Non ab­
biamo qui nulla da aggiungere a questa diagnosi impec­
cabile, dal momento che non ne conosciamo una miglio­
re.
In quarto luogo, Heidegger mostra di saper impostare
l’enigma filosofico di Nietzsche meglio di tutti gli altri
critici. In proposito non ci soffermeremo troppo, perché
l’interpretazione heideggeriana di Nietzsche è ampiamen­
te nota. Assai correttamente, la volontà di potenza nic-
ciana è individuata come una forma di inveramento e di
coronamento della lunga storia della metafisica occiden­
tale, e per nulla affatto come una forma di congedo e di
negazione.
A nostro avviso, è esattamente così, ed a questo punto
ci permetteremo di inserire la nostra interpretazione.
Hegel ha espresso filosoficamente l’illusione della padro­
nanza assoluta dell’utopia emancipativa borghese sul
decorso economico del capitalismo, ma questa illusione è
essa stessa un momento veritativo della storia dell’Esse­
re, e lascia come eccedenza l’insuperabile concezione ve­
ritativa dell’identità dialettica fra logica ed ontologia.
Marx ha espresso filosoficamente l’illusione della capaci­
tà di transizione intermodale della classe degli operai e
dei proletari, ma questa illusione è essa stessa un mo­
mento veritativo della storia dell’Essere, e lascia come
eccedenza il nesso fra categoria epistemologica dei modi

Gesù 297 D io n el pensiero


C ostanzo P reve

di produzione e fondamento filosofico della libera indivi­


dualità sociale. Nietzsche ha trasfigurato filosoficamen­
te Fawenuto congedo del capitalismo reale dall’utopia
borghese che pure ne aveva accompagnato la nascita, non
comprendendo che la proposta di restaurazione stoica del
punto di vista cosmico dell’eterno ritorno del sempre egua­
le non poteva che avere come destinazione, nel modo di
produzione capitalistico, l’accettazione della sua perma­
nente ciclicità. Questo congedo è però esso stessa un mo­
mento veritativo della storia dell’Essere, e lascia come
eccedenza il problema reale della forma antropologica,
adeguata a comprendere ed a muoversi in un capitali­
smo globale che è ormai senza borghesia e senza proleta­
riato (nel senso di classi filosofiche e non di meri aggre­
gati sociologici). Da Hegel a Heidegger vi è dunque a no­
stro avviso la corretta metabolizzazione storica, trasfi­
gurata in concetti, dei due fenomeni veritativi del marxi­
smo e del niccianesimo.
In quinto luogo, per concludere, la situazione attuale
viene correttamente denominata da Heidegger in term i­
ni non di visioni del mondo (Weltanschaaungen), dal mo­
mento che le visioni del mondo sono tipiche di soggetti
sociali tram ontati còme la borghesia e/o il proletariato,
ma di immagine del mondo (Weltbild), cioè di esterioriz­
zazione visibile del capitalismo. Essa comporta, all’inter­
no di una integrale utilizzazione tecnica della scienza mo­
derna, una sdivinizzazione, cioè una situazione di gene­
rale indecisione rispetto a Dio ed agli dei. In modo molto
acuto Heidegger rileva che «[...] la sdivinizzazione esclu­
de così poco la religiosità, che è proprio attraverso la sdi­
vinizzazione che il rapporto con gli dei si trasforma in
esperienza vissuta religiosa. A questo punto gli dei se ne
sono andati. Il vuoto che lasciano è riempito dalla ricerca
storiografica e psicologica sul mito». Ed in effetti l’espe­

Gesù 298 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

rienza religiosa moderna è caratterizzata dal riempimento


psicologico di un vuoto esistenziale che si ritiene di col­
mare con la “volontà di credere”, una volontà di credere
che caratterizza epistemologicamente ed ideologicamen­
te tutte le forme contemporanee di coscienza scientifica e
politica. La morte di Dio crea un vuoto, subito riempito
dall’esperienza religiosa moderna fondata nichilistica-
mente sulla volontà di credere. Ma non si tratta purtrop­
po della ripresa della scommessa di Pascal.
La scommessa di Pascal si basava su di un preventivo
riconoscimento dell’esistenza della verità, laddove oggi
si parte da una preventiva accettazione dell’inesistenza
della verità, inesistenza che legittima il pullulare plura­
listico di verità plurali, tutte egualmente false, la cui ve­
rità viene cercata nel soddisfacimento psicologico e nel
sollievo che possono fornire. Si tra tta di una inedita con­
cezione farmacologica della verità. Ad essa si accompa­
gna, come Heidegger acutamente rileva, la trasformazio­
ne dell’arte in estetica e la degradazione della cultura in
politica ed in promozione culturale.
A questo punto, stiamo arrivando proprio dove il let­
tore stava forse disperando di arrivare: l’inquadramento
veritativo del problema del Gesù storico. Ci si permetta
di riscrivere due frasi tratte dalla citazione di Heidegger
con cui abbiamo aperto questo paragrafo. In breve: «[...]
Quel che dalla storia della verità dell’Essere vien fuori,
non è cosa che si possa confutare o addirittura mettere
da parte. Essa si può accogliere in tanto, in quanto la sua
verità viene più originariamente ricondotta e messa in
salvo nell’Essere stesso, e sottratta al circolo del mero
opinare umano».
Inseriamo a questo punto la nostra interpretazione a
proposito del Gesù storico. In primo luogo, è impossibile
“confutare e mettere da parte” la ricostruzione storica

G esù 299 D io nel pensiero


C ostanzo P reve

del Gesù storico, e l’utilizzo storiografico della categoria


di modo di produzione non è certamente la verità del Gesù
storico stesso, ma neppure potrà essere “confutato e messo
da parte” come irrilevante.
Al contrario, non c’è altro modo di accostarsi alla veri­
tà dell’Essere se non attraverso l’apertura in cui questa
verità dell’Essere si rivela, che è sempre la storicità es­
senziale della sua apparizione. In secondo luogo, questa
storicità si può accogliere tanto più volentieri e senza
paura di riduzionismo quanto più la verità che essa con­
tiene non è ricavata sociologicamente della sommatoria
empirica delle sue componenti storiche-determinate dal
loro inquadramento nel modo di produzione, ma è «mes­
sa in salvo nell’Essere stesso, e sottratta al circolo del
mei;o opinare umano».
Riteniamo che il lettore possa, a questo punto, essere
moderatamente soddisfatto: la ricostruzione storica del
Gesù storico non è l’integralità della sua verità, ma nep­
pure un dettaglio irrilevante che deve essere immediata­
mente trasfigurato nell’interpretazione mitico-religiosa;
nello stesso tempo, solo la trascendentalità della sua ve­
rità la m ette in salvo dal pullulare delle sue interpreta­
zioni soggettive. Pensiamo dunque che Heidegger abbia
espresso in termini contemporanei la stessa concezione
della verità (e dunque anche la stessa concezione del Gesù
storico) già espressa a suo tempo da Spinoza e da Hegel.
L’innegabile diversità nella strumentazione concettua­
le sta nel fatto che in Heidegger si insiste sul carattere
epocale della verità (ma già Hegel si era messo su questo
terreno, come risulta chiaro se appena decidiamo di leg­
gere la Fenomenologia dello Spirito non prima, ma dopo
la Scienza della Logica, in cui è evidente che Dio può
apparire soltanto dopo la creazione del mondo, e solo dopo
è concreto, mentre prima è soltanto astratto).

Gesù 300 DlO NEL PENSIERO


C ostanzo P reve

È in ogni caso questo, e solo questo, il terreno in cui si


sono messi sia l’autore di queste note filosofiche sia l’au­
tore della precedente vita di Gesù, un terreno veritativo
che passa attraverso la storicità ma che non si esaurisce
storicisticamente in essa.

Gesù 301 Dio nel pensiero


Sommario
N o ta e d ito r ia le ......................................................................................5

M a s s im o B ontem pelli

Uomo nella Storia

1. D al G e s ù d ella tradizione cristia n a

al G esù d ella s t o r ia .............................................................................. 13

2. L ’in con tro con G esù d o po la su a m o r t e ........................................ 24

3. G li in iz i d i G esù co n G iovanni B a t t is t a ........................................45


4. G li a n n i o sc u ri di G e s ù ......................................................................... 56
5. L ’anno l u m in o so d i G e s ù ..................................................................... 91
6. G e s ù n e l l ’orizzo nte d i G e r u s a l e m m e .......................................... 120
7. L a tragica sco n fitta d i G esù a G e r u s a l e m m e ......................... 141
8. G e s ù n e l l a sto ria e oltre la s t o r ia ............................................. 170

C o st a n z o P reve

Dio nel Pensiero

1. P r o l o g o ....................................................................................................... 183
2. I n cosa cred o n o i c red en ti

ED IN COSA NON CREDONO I NON CREDENTI? ................................. 189


3. I l pro blem a sto rico

E FILOSOFICO DELLA SECOLARIZZAZIONE ........................................ 193

303
4. I l D io d i H o b b e s ............................................................................. 2 0 1
5 . I l D io di P a s c a l .................................................................................... 2 0 6
6 . I l C r ist o di P a s c a l ..............................................................................2 0 9
7. I l D io di S p in o z a ................................................................................... 2 1 2
8. I l C r ist o di S p in o z a .................... ........................................................2 1 7
9. I l D io r a g io nevole di L o c k e ............. ............................................. 2 1 9
10. L a r e l ig io n e scettica d i H u m e .................................................... 2 2 4
11. L ’a t e is m o
ED IL MATERIALISMO FRANCESE DEL SETTECENTO ..................... 2 2 8
1 2 . I l D io e d il C r isto di K a n t ........................................................... 2 3 3
1 3 . I l C r ist o di H e g e l ............................................................................ 2 3 8
1 4 . I l D io di H e g e l ..................................................................................2 4 3
15. L a Vita di Gesù d i S t r a u s s ..........................................................2 4 6
1 6. I l D io d i F e u e r b a c h ....................................................................2 4 9
1 7. T r e sig n ifica ti

d ella critica della r e l ig io n e in M a r x ................................... 2 5 3


1 8. I l m a r xism o co m e a t e is m o .
D a L e n in al m aterialism o d ialettico s o v ie t ic o ................. 2 5 7

1 9. I l m a r xism o co m e a g n o s t ic is m o .
L ’e s e m p io d i A l t h u s s e r ....................................................................2 6 6
20. Il marxismo com e m eta fisic a .

U n c h ia r im e n t o in d is p e n s a b il e ..................................................... 2 7 2
2 1 . Ancora su l m arxism o .

U na c o n clu sio n e in c o m p e n d io ....................................................2 8 0

2 2 . I l D io ed il C r isto di N ie t z s c h e ................................................. 2 8 5
2 3 . L’in terpr eta zio n e veritativa della storia

NELLA METAFISICA DI H EID EG G ER ................................................... 2 9 2

304
Finito di stampare
nel mese di novembre 1997
presso la Tipografìa C .R .T ,
Cooperativa sociale di Pistoia.

Potrebbero piacerti anche