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Indice

Il Binda
L’agente scelto Simone Logiudice detto Simo
L’uomo nel buio
Il Michi
Ugo, Adriano
Achille
Lavinia, che era stata soubrette
Ladro in discoteca
Alla Squadra Mobile
L’inchiesta sommaria
La telefonata
Che anni brutti per l’Italia
Due
Tre
Quattro
Cinque
Sei
Sette
Otto
Nove
Dieci
Undici
Dodici
Lettera a Pietro Valpreda
Piero Colaprico
L’Estate del Mundial
(2003)
Mbooks 19
Comincia l'estate del 1982, l'estate del mundial, e Pietro Binda, che tra un
paio d'anni andrà in pensione per raggiunti limiti d'età, è un onesto e
coriaceo maresciallo alla squadra Omicidi. Ha due indagini di cui
occuparsi: una gli viene affidata dal suo superiore, il generale Casiraghi, ed
è legata alla misteriosa morte del banchiere Roberto Calvi, impiccato a
Londra sotto un ponte; inoltre, perché gliel'ha chiesto Loris, il suo amico
anarchico, s'impegna nel giallo che gli sta più a cuore: l'inspiegabile
omicidio di un'ex soubrette dell'avanspettacolo, Lavinia Marbella, uccisa
dopo aver passato la serata in una sala da ballo.
Piero Colaprico
L’Estate del Mundial
(2003)
Mbooks 19

Indice
Il Binda
L’agente scelto Simone Logiudice detto Simo
L’uomo nel buio
Il Michi
Ugo, Adriano
Achille
Lavinia, che era stata soubrette
Ladro in discoteca
Alla Squadra Mobile
L’inchiesta sommaria
La telefonata
Che anni brutti per l’Italia
Due
Tre
Quattro
Cinque
Sei
Sette
Otto
Nove
Dieci
Undici
Dodici
Lettera a Pietro Valpreda
Il Binda

Le sillabe gli rimbalzarono sulle palpebre chiuse e doloranti: «Sve-tì-vo-


dà-sco-và».
In quella mattina stracca, Pietro Binda non tollerava l’idea della luce
violenta del primo giorno d’estate e se ne stava immobile nella stanza da
letto, le persiane sprangate e le narici affondate nelle lenzuola. Il suo agitato
dormiveglia era già stato interrotto dal figlio Umberto, uscito di corsa per
un lavoretto da pasticciere che aveva trovato alla fine della scuola. Quèll li
da quànd el porta i cavei pettenàa a la moda di rasta l’è semper in ritard. Poi
ci si era messa anche Rachele, che come sempre trafficava in casa prima di
colazione. Lo squillo del telefono aveva avuto almeno il merito di zittire il
ronzio micidiale del Folletto aspiratutto.
«Sei sveglio? Ti vogliono da via Moscova, ma gli ho detto che stai male»
aveva gridato la moglie dal corridoio.
«Sve-tì-vo-dà-sco-và.» Ecco che cos’era quella raffica dolorosa di sillabe
spiaccicate sulla sua emicrania come moscerini sul parabrezza.
Via Moscova? Accese l’abat jour sul comodino. «Fatti dire chi l’è, che
poeu el ciami mi.»
Aveva parlato a voce talmente bassa che si meravigliò di essere stato
compreso.
«L’è el to amis negher, il Giambelli. Insiste per parlarti immediatamente.»
Binda scese dal letto, cercando le pantofole. «Sarà un omicidio.
Rispondigli che sono nell’Arma da molti più anni di lui che è vicebrigadiere
fresco di nomina» brontolò, con il piede destro calzato e il sinistro nudo. «I
morti non hanno fretta. Non ne ho mai visto uno alzarsi da terra e andà via.»
La ciabatta era finita sotto il letto. «Cià, che mi dia due minuti, due minuti
mi bastano, poi lo chiamo io» ripeté, risistemandosi il pigiama. Si sentiva
un cencio. Gli ultimi due colpi di tosse gli causarono una fitta al torace.
Non era mai stato allergico al polline. Ma adesso a qualcosa lo stava
diventando, forse a qualche seme. Appena pensò alla parola "seme", gli
venne in mente il titolo di un film americano in bianco e nero, ambientato in
una scuola, con Sidney Poitier e Glenn Ford. Sì, stava diventando allergico
ai "semi della violenza". Alla violenza che ormai aveva invaso Milano e
l’Italia, passando di casa in casa, di quartiere in quartiere, arrivando a
bussare anche alla sua porta.
Di certo le cose non andavano così quando aveva cominciato a fare il
carabiniere. I cadaveri allora si contavano sulle dita di due mani, e i papà
nascondevano i giornali che parlavano di donne eleganti trovate senza vita
sulla spiaggia, di ragazzini ammazzati in pineta, di coppie scandalose che si
univano anche nell’estrema emozione, quella di farsi fuori. Poi,
improvvisamente, dopo il boom economico e lo sboom, come l’avevano
chiamato, i morti avevano cominciato a far sentire le loro urla dai
telegiornali. Sempre più spesso.
Vittime della malavita organizzata e, più tardi, anche del terrorismo.
Il punto di vista di Binda non poteva essere quello del comune cittadino.
Da qualche anno una domanda, cui non aveva ancora trovato risposta, gli
ronzava nella testa: con quanti familiari di vittime puoi parlare senza sentirti
una vittima anche tu, una vittima viva, armata, potenzialmente pericolosa e
vendicativa? Quanti parenti si possono consolare senza cambiare per
sempre il ritmo del proprio respiro o il metro dei propri affetti? Oppure,
riesci a vedere mille vedove e diecimila orfani, ti imponi di restare
tranquillo per un po’, poi ti basta un solo corpo, ti basta il corpo di
un’anziana impiegata che s’è tolta la vita, per farti dire che per te è proprio
arrivata l’ora di andare in pensione... E che no, non vuoi più comunicare
alle famiglie che cosa è successo...
La pensione come un atto di disarmo unilaterale, così la vedeva Binda
quella mattina, faticando a lasciare il letto. Andò in bagno, si sciacquò
velocemente. Dalla porta socchiusa Rachele gli chiese: «Peder, cos’hai
deciso? Te restet ancamò in pigiama o te vestisset?».
Uffa, pensò, ma rispose: «Mi vesto. Sto meglio».
«Allora lascialo in bagno il pigiama, così faccio una lavatrice. Meno male
che ti sei ripreso, oggi ci sarebbe da fare la spesa al supermercato.»
«Va be’...» Chinò la testa, rassegnato.
Rachele era proprio cambiata. Da sei mesi gli sembrava non solo più
vecchia, ma trasformata, materna e premurosa come non mai. Lo martellava
di richieste e non gli lasciava cinque minuti liberi. Anche quando metteva
qualche disco di musica classica e seguiva il filo tenace dell’amato
Beethoven, dopo un po’ arrivava lei dicendo: «Non chiacchieriamo più
come quand serum giovin». Oppure: «Sai, sono preoccupata per l’Umberto.
Cosa pensi, el trovarà de lavorà?». Sì, forse avrebbe fatto meglio a
restarsene in pigiama, a sonnecchiare, anche per difendersi dall’attivismo
della moglie.
Invece compose il numero dell’ufficio.
«Terza sezione» rispose Giambelli, el Negher, o el Giamba, con il suo tono
di voce educato e l’accento brianzolo. A vederlo - scuro di pelle, i riccioli
neri, il naso e la bocca carnosi - non si sarebbe mai detto che aveva il
diploma di maturità classica e un padre ricco, mobiliere in Brianza. In
realtà, quasi venticinque anni prima, mamma Giambelli aveva finto in paese
di essere incinta, poi aveva denunciato all’anagrafe di aver partorito a Douz,
in Tunisia, dove in realtà un missionario maneggione aveva affidato il bel
neonato ai due coniugi brianzoli che non avevano potuto avere figli. E che
l’avevano chiamato Dante, come il nonno "paterno".
El Negher, come l’avevano soprannominato i colleghi, non aveva
telefonato a casa Binda per un omicidio, ma per fargli sapere che lo stavano
cercando «dall’altra parte del corridoio».
Veniva chiamata così la Prima sezione, dove lavoravano gli "invisibili" del
generale Dalla Chiesa. Ogni tanto toccava a loro, ai carabinieri delle sezioni
del Nucleo operativo, firmare alcuni atti giudiziari su fatti cui non avevano
né partecipato, né assistito. Una violazione necessaria per evitare che i
colleghi più esposti al terrorismo o alla criminalità organizzata
comparissero con i loro nomi e cognomi nelle aule dei tribunali. Chissà,
forse stavano per arrestare qualcuno degli ultimi irriducibili.
Giambelli gli passò un interno. Dopo qualche minuto d’attesa, venne
trasferito a un altro numero. Infine riconobbe una voce che non udiva da
anni.
«Maresciallone, come stai?»
«Generale Casiraghi... comandi» rispose senza entusiasmo. Roba grossa,
pensò subito con una certa apprensione.
«Ho saputo che sei stato poco bene, ma oggi vieni in caserma?» Era un
ordine, anche se formulato come una domanda.
«Certamente, generale.»
Tredici anni prima l’allora colonnello Ulisse Casiraghi l’aveva sbattuto a
San Vittore per indagare sull’omicidio di un faccendiere naturalizzato
svizzero, e lui aveva rischiato la pelle per risolvere il caso, anche se
l’avevano saputo in pochi. Molto pochi.
«Allora, alle cinque in punto... Sono qui, diciamo, in incognito. Appena
arrivi, uno dei miei ti preleva.»
Si ricomincia con i misteri, si disse Binda. Ma stavolta gli avrebbe risposto
no, non era più un giovane atletico e disposto a sacrificarsi. Era quasi in
pensione, era il "ras" della Sezione omicidi, aveva i capelli grigi, cribbio. Se
serviva uno da mandare in prima linea, largo alle nuove leve.
Andò a cercare conferme davanti allo specchio del bagno, passandosi un
dito sulle poche rughe. Si rasò con cura e pareggiò con le forbicine i baffetti
alla Amedeo Nazzari. «Vadano tutti sulle ortiche» borbottò, alla fine,
inghiottendo senz’acqua una pastiglia per il mal di testa, lui che evitava
qualsiasi medicina, come se invece di curare portassero malattie.
«Sve-tì-vo-dà-sco-và». Le sillabe gli rimbombavano ancora da qualche
parte dentro la scatola cranica.
L’agente scelto Simone Logiudice detto Simo

Era stato trasferito a Milano da tre mesi e prima di quella notte non gli era
mai successo. L’ala scura di un brutto presentimento, o l’ondata d’ansia che
ti toglie il fiato, le aveva già conosciute da bambino, a Trani, il suo paese; e
da adolescente, a scuola; e da poliziotto, a Caserta. Ma lì, a Milano, era la
prima volta. Mentre si tormentava il bottone della divisa, l’agente scelto
Simone Logiudice era immerso in pensieri negativi. "Chissà perché il cuore
mi stantuffa così. Che cosa mi vuole comunicare? Che sta per succedere
qualcosa?"
«Simo, ascolta...»
La voce roca e biascicata dell’autista lo innervosì. «Piantala! E guida
diritto» ribatté Logiudice.
«No, Simo» intervenne dal sedile posteriore Oronzo, il capopattuglia,
calcando sull’accento pugliese «lascialo parlare. Più parla più possiamo
pretendere l’indennità speciale Ciccio Sarche, per aver sopportato
quest’animale allo sterzo...»
Oronzo era scuro e baffuto, magro e muscoloso, e dettava la legge
all’interno della "sua" volante. Lo rispettavano tutti, in via Fatebenefratelli:
per una decina d’anni era stato impeccabile, tre conflitti a fuoco, il
salvataggio di uno sbronzone caduto nel Naviglio, due encomi solenni e due
encomi semplici. Faceva sempre tanti straordinari, finché, un brutto giorno,
la figlia minore s’era ammalata. Da allora pensava solo a tornare a casa
presto.
«Volevo dire...» insistette Ciccio Sarche «quello nuovo, che hanno
mandato alla Omicidi, è vero che ti ha fregato la fidanzata giù al paese?...
Eh, Simone?».
L’agente Logiudice si voltò appena, fissando il sorrisetto del collega: i
denti ingialliti dal fumo si intravedevano fra le labbra sottili. I capelli erano
radi e incollati alla testa. La pancia da bevitore di birra sfiorava il volante.
Al mignolo sinistro, grasso e tozzo, faceva bella mostra di sé un anello con
brillante. Se Simone fosse stato il maresciallo del 113, uno così non
l’avrebbe mai mandato in giro di pattuglia, con la divisa della polizia. Ma
che figura ci faceva lo Stato?
No, si ripeté per l’ennesima volta nell’ultimo mese Simone detto Simo,
con questa chiavica non ci posso litigare, anche se sono l’ultimo arrivato.
«Non era la mia ragazza. Stavamo nella stessa comitiva» si limitò a
rispondere.
«Allora non è vero quello che si dice?»
La nottata di falsi allarmi si stava stemperando nella luce lattea di un’alba
umida, e Simo era allo stremo.
«Cioè?» chiese, incerto.
«Che avevi invitato a casa tua il Merza, un amico, un vero amico, ma la
sera che dovevate dire alle famiglie che tu e lei vi volevate bene, lei è uscita
con l’ospite ed è tornata a...»
Non ebbe il tempo di finire la frase. All’improvviso, una mano batté sul
parabrezza, e la frenata di Ciccio Sarche, nonostante la bassa andatura, fece
slittare le gomme. L’autista bestemmiò e cercò di impugnare la pistola,
fissando un uomo che si agitava alla luce dei fari.
«Statti calmo» ordinò Oronzo, bloccandogli una spalla con la mano.
«E qui, è qui, ferma!» gridava lo sconosciuto. «Qui cosa?»
L’uomo scoppiò a piangere. «L’hanno uccisa. L’hanno uccisa.» La bocca
era storta e piccola, come quella di un bambino capriccioso. «Ho telefonato
io.»
In quel momento la radio, che aveva gracchiato inutilmente per ore,
annunciò: «110. 110. Cadavere di donna sulle scale di via Lomazzo...».
Simone era tornato freddo ed efficiente: il sangue stava defluendo con
rapidità dal cuore che gli aveva lanciato un messaggio preciso. Afferrò il
microfono. «Volante Napoli a Centrale... siamo appena giunti sul posto,
passo.»
«Logiudice. Sei Logiudice?»
«Affermativo, ispettore Bagni.» L’aveva riconosciuto anche lui: era uno
dei migliori coordinatori del 113 e qualche volta avevano preso insieme il
caffè.
«Bene. Oronzo, non far toccare niente a nessuno, mi raccomando. Appena
dai la conferma del 110 vi mandiamo altre auto».
«D’accordo, chiudo» disse ancora Simone.
La scena dell’omicidio

Scesero dalla volante tutti e tre, seguendo lo sconosciuto. Era magro e


stempiato, sui quaranta, e sembrava impaurito. Continuava a piangere e si
passava il dorso dalla mano sul naso aquilino.
Ciccio si scostò e accese una sigaretta. «Io resto alla radio» disse,
fermandosi sulla porta del caseggiato e appoggiandosi al muro tinteggiato
di giallo. I due colleghi lo lasciarono lì e salirono la prima rampa di scale.
Oltre l’ultimo gradino, la donna. Morta. Morta male.
Un proiettile sulla sinistra della testa, esploso a distanza ravvicinata, le
aveva aperto una sorta di crisantemo rosso e l’aveva mandata a sbattere
contro la parete. Per il contraccolpo, la testa era reclinata, con il mento
all’insù, come in un invito a seguirla. Il braccio destro ad angolo retto, il
sinistro poggiato sullo stomaco. Dall’abito rosso fuoco spuntavano gambe
diritte e tornite, con le calze e le giarrettiere, come si usavano una volta.
Una scarpa, la borsa e un rossetto erano sull’altra rampa, verso il secondo
piano.
Oronzo, nei suoi anni sulle Volanti, aveva visto ventidue cadaveri. Alcuni
resi irriconoscibili dopo gravi incidenti stradali, nove suicidi, un marito che
aveva ammazzato la moglie e i suoi due husky, un marocchino sbudellato
dietro la Stazione Centrale. Simo ne aveva visti solo tre: una ragazza
annientata da una overdose di eroina, in via Odazio, e due anziani che
vivevano soli in una casa di ringhiera e soli se n’erano andati asfissiandosi
nel box. Ne avevano parlato giusto poche notti prima e Simo si era sentito
un pivellino. Eppure non fu lui a distogliere per primo lo sguardo da quello
scempio. In bocca, una bella bocca, le avevano infilato uno straccio che
pendeva fra i denti bianchi. Per impedirle di gridare. E le avevano legato le
mani, perché erano gonfie, qualche unghia laccata era rotta. Quanti anni
poteva avere? Sopra i cinquanta, probabilmente, ma ben portati.
«Non sembra un mignottone» constatò Oronzo, a bassissima voce.
«Dove abitava?» chiese Simo.
«Al piano sopra, ed era una soubrette famosa. Lavinia Marbella» rispose
l’uomo magro, sempre più agitato.
I due poliziotti non ne avevano mai sentito parlare. Alcuni inquilini si
erano radunati sul pianerottolo, altri si affacciavano alle porte, altri ancora
stavano scendendo. «Tornate in casa e non vi muovete» intimò Logiudice.
Non voleva che rovinassero qualche traccia. Fu attraversato da un pensiero:
l’assassino poteva essere ancora nel palazzo. «Oronzo» gridò «dì a Sarche
di non fare uscire né entrare nessuno.»
Milano che si coricava accanto ai suoi assassini perché aveva scelto lui per
mandare quei segnali? Che cosa gli voleva comunicare lo stantuffo nel
petto? Osservò il corpo senza vita. Anche adesso, in quello stato, dava
un’idea di elasticità, quasi di signorile e atletica superbia. «Era così
speciale, hanno voluto spegnere la sua luce» aveva sospirato l’uomo magro,
scendendo le scale con il capopattuglia, che gli teneva una mano sulla
spalla.
Quando Oronzo via radio avvisò il capoturno dell’omicidio di Marbella
Lavinia, di anni sessantuno, erano le 4.52 di sabato. Presto avrebbe fatto
molto caldo.
L’uomo nel buio

Aveva spento la sigaretta sotto l’acqua del rubinetto e, nell’appartamento


buio, beveva lunghi sorsi di vino rosso direttamente dalla bottiglia. Anche
se mancava una sola cartuccia, aveva ricaricato la pistola e ascoltava senza
scomporsi le sirene della polizia, i conciliaboli sulle scale, gli scatti di un
fotografo. Non poteva uscire da dove era entrato, non poteva mettere fuori
il naso, non poteva fare il minimo rumore. Ma era abituato a non potere.
Erano anni che aveva la vita scandita dagli orari, dai regolamenti, dai
"superiori", dall’ora d’aria, dalla doccia una volta la settimana, dalla branda
da sollevare e sistemare quotidianamente.
I muscoli gli guizzarono sotto la camicia quando sentì qualcuno spingere
la porta. L’aveva chiusa. Se fossero entrati, chiunque fosse entrato, lui
avrebbe sparato. Gli dispiaceva per il diamante e per tutto il resto, ma in
cella, da vivo, non ci sarebbe più tornato. Il cuore non accelerò i battiti
mentre prendeva la mira, sistemandosi dietro la sporgenza del muro.
La porta vibrò sui cardini, poi lui sentì una voce che borbottava qualcosa
tipo: «Qui non c’è nessuno». Non sempre afferrava i discorsi degli altri: un
po’ perché era sordo dall’orecchio destro, un po’ perché faticava a
concentrarsi. Solo una donna l’aveva incantato con le parole, e quella donna
non c’era più, e ancora gli mancava, dopo più di vent’anni, e lui era lì per
lei, per regolare tutti i conti lasciati in sospeso con la vita.
Gli era mancata - la donna, e anche la vita, e anche la libertà - così tanto
che gli pareva, ora, di essere sopravvissuto a una feroce malattia.
I rumori intorno scemarono. Lui aspettò che il sole diventasse alto
guardando la porta che non si era più aperta. Dodici ore dopo il suo arrivo,
dopo aver scolato la bottiglia di vino e fumato altre sigarette, si sgranchì
gambe e braccia. Si andò a lavare e, quando fu certo che nessuno l’avrebbe
fermato, uscì dalla casa, dal palazzo e, senza voltarsi, camminò per via
Paolo Sarpi, fino a un bar lungo e stretto dove ordinò una piadina. Aveva
fame, di tante cose. Nessuno lo cercava, nessuno sapeva che era a Milano.
Proprio nessuno no, a pensarci meglio. Ma tra quelli che lo sapevano, una
non contava più: valla a capire, Lavinia Marbella, soubrette di ‘sto piffero...
perché aveva tentato di scappare, se non c’entrava? Ordinò un caffè corretto
Braulio, sentendo il mirino della pistola pungergli la schiena umida di
sudore.
Il Michi

«Non ho più soldi, Dio mi è testimone.»


Non sapeva se mostrarsi seccata o tentare di essere persuasiva, ma la sua
risposta restava la stessa, totalmente negativa: «A g’ò pù de danee, Michi».
Lisa parlava fissandolo negli occhi, ma Michi non le restituiva lo sguardo.
Stava in piedi, accanto alla pentola dell’acqua fumante, una mano in tasca e
l’altra che stringeva la piccola zuccheriera di ceramica. Non si capiva se
volesse posarla sul tavolo, o sbatterla contro il muro.
«E cosa ne hai fatto dei soldi?» chiese brusco.
«Gli ultimi li ho dati a te, ieri» rispose la donna.
Si passò le mani sui capelli tinti biondo cenere e cercò di non lasciarsi
sopraffare. Era suo figlio, anche se lo stava perdendo. E un figlio deve
rispettare i genitori.
«Fino a lunedì non mi pagheranno, g’ò pù nagott» ripeté con il tono
rassegnato di chi sa già di non essere creduta.
«Non è vero, mi stai raccontando balle» urlò Michi e, per dare più forza
alle sue parole, sbatté la zuccheriera sul tavolo.
Nel silenzio che aveva invaso la cucina si percepiva il fruscio dello
zucchero che usciva da una crepa e formava un fiume bianco sulla fòrmica
gialla. Tirando fuori di tasca l’altra mano, il giovane avanzò.
«Ecco, varda chi, disgraziaa» gridò Lisa, ormai impaurita, afferrando la
borsetta appoggiata sulla credenza.
Il figlio scattò e le immobilizzò il braccio.
«Guarda tu stesso» insistette lei e agitò le mani imprigionate, mentre
tentava di aprire la fibbia di ottone.
Lo fece al suo posto Michi, che con una mano non mollava la madre e con
l’altra rovesciò il contenuto della borsetta, notando per la prima volta
quanto fosse screpolata la pelle intorno ai manici. Soldi non ce n’erano. Un
velo di sudore gli apparve sul viso scarno. «Ma come faccio, sempre a
dipendere dagli amici?» mormorò.
«Datti da fare» ribatté Lisa. Appena lo disse, la paura che l’aveva
paralizzata l’abbandonò. «Trovati un lavoro, fai qualcosa. Sino a quando ti
devo mantenere?» Per liberarsi dalla presa, mosse l’avambraccio.
Involontariamente, con le unghie graffiò il collo del figlio e se ne preoccupò
lei per prima: «Fà vedè, Michi».
Michi serrò le labbra, toccandosi dove bruciava. Ritrasse le dita sporche di
sangue e spalancò gli occhi sullo sfacelo che lo circondava. Anche sua
madre era entrata a far parte di quello sfacelo. Non ne poteva più,
poveraccia, di sopportare il lavoro come donna delle pulizie nelle banche e
il tran tran quotidiano della casa. Un tempo le pareti dell’appartamento
erano state bianche, ora erano grigie e sporche. Anche i mobili li avevano
comprati belli solidi, a Lissone, e ormai perdevano i pezzi ed erano
perennemente impolverati. Il degrado, che sembrava inarrestabile, era
cominciato sei anni prima, esattamente il pomeriggio in cui suo padre era
scivolato da un’impalcatura. Non aveva agganciato il moschettone di
sicurezza, era precipitato pochi metri più sotto, dentro una cabina elettrica
dell’impianto luci di San Siro. Un solo giornale aveva osato pubblicare la
foto dell’incidente, sotto il titolo: "Tragedia allo stadio. Cade e resta
folgorato", e così nei suoi ricordi una maschera gonfia e mostruosa si
sovrapponeva alla faccia quadrata e serena che tante volte aveva baciato.
Lavorava sempre tanto, suo padre, e quando Michi era piccolo gli aveva
raccontato che tutte le persone avevano una taschina segreta sul cuore, ma
bisognava saperla cercare. Lui, il papà, l’aveva trovata: in questa taschina,
quando andava via da casa, ci teneva Michi, e la mamma, e quando sentiva
la loro mancanza si metteva la mano sul petto e sapeva che tutto andava
bene, che la famiglia stava lì. «Anche tu, Michi, se ti tocchi il cuore, sai che
il papà è sempre insieme a te, anche quando lavora tanto e non riesce a darti
il bacio della buonanotte.» Papà non c’era più, invece, né nella taschina, né
altrove.
«L’è nient, Michi, mettegh sù un poo de alcol» disse la donna, tentando di
fargli una carezza, come per scusarsi del graffio.
Ugo, Adriano

La grande mole dell’Arco della Pace, con i vecchi alloggiamenti delle


guardie ai lati, era ricoperta da ponteggi metallici e protezioni di plastica:
un restauro infinito, degno della contesa sul significato da attribuire alle
statue equestri che duecento anni prima aveva fatto discutere francesi e
austriaci. Le mani infilate sino al polso nella tasca dei pantaloni chiari, Ugo
con un cenno della testa aveva indicato ad Adriano un punto in alto: «Hai
visto, su quella terrazza ci deve essere una festa».
«Uh.»
«La musica la sparano alta... è dei Duran Duran, roba da paninari. Da lassù
si deve vedere tutta Milano.»
«E a noi che ce ne frega? Tanto tra un po’ ripiove. E poi vorrei sapere
perché tocca sempre a noi andare a prendere la roba.»
Adriano era proprio giù. Ugo gli voleva bene, cercava da mesi di aiutarlo e
di non lasciarlo troppo solo, ma a volte era difficile convivere con il suo
cattivo umore, la scontentezza di fondo che gli calava sugli occhi un sipario
di nebbia. «Non te la prendere, sai benissimo che poi Achille paga, e pure
per tutti. Cià, andiamo a vedere se troviamo Lino Banfi» ridacchiò.
Rise anche Adriano. Avevano soprannominato così lo spacciatore, per una
vaga somiglianza con l’attore di varietà, e partirono per cercarlo dalle parti
dello IULM, l’università di lingue privata. I lampioni erano spenti, o forse
erano stati oscurati da qualche sasso. Poco oltre, dalla nicchia di un portone,
spuntò il giubbotto giallo di "Banfi", che in testa aveva anche un cappellino
dello stesso colore e fumava sigarette al mentolo, con il filtro dorato. Forse
gli piaceva splendere nel buio.
Tutti quelli che facevano il suo mestiere erano magri, emaciati, irascibili e
tesi, spesso erano anche loro drogati, e spacciavano per ritagliarsi un po’ di
dosi. Invece lui era placido e grassoccio, e andò incontro ai due clienti
camminando a passettini corti e rapidi, e con un bel sorriso stampato in
faccia. Più che un pusher, sembrava uno pazzo per i cioccolatini.
«Salve ragazzi, adèss sèmm in gir anca de venerdì?» «Già, stasera ci sono
quelli di Guadalupa. Hanno detto che sono dei ganzi.»
«Nottata mitica» li sfotté.
«Mai quanto te. Dacci un bel ventimila. Siamo sicuri, eh?»
«Tranquilli. Libanese. Una favola. Cià, datemi la lira. E poi andate in via
Bertani.»
Dopo dieci minuti lo scambio era stato fatto. «Le cartine le hai?» chiese
Ugo.
«No.»
«Neppure io. Andiamo di là, facciamo via Canonica, Paolo Sarpi, là c’è il
tabaccaio che chiude tardi, e chiamiamo Achille.»
«Io non ci vengo, basta. Sono mesi che attraverso tutta Milano per
consegnare pacchetti e buste, e la mia ambizione era sempre stata fare il
fotografo. Il pony con il motorino scassato va bene a vent’anni, noi li
abbiamo superati da un pezzo.»
Ugo rise. «Sei proprio sul depresso esistenziale. Saremo mica vecchi a
ventisei anni, no?»
«Quasi ventisette, e non siamo niente.»
«Se è per questo, anche la mia laurea in sociologia me la sto ficcando in
quel posto.»
«Uh.»
«Dai, Adriano, parla.»
«Sì, ho capito, mal comune eccetera... Ma i tuoi vecchi almeno non
scassano troppo, lavorano tutti e due, puoi aspettare con tranquillità la tua
occasione, ammesso che arrivi.»
«Ma che, vuoi portarmi jella? Cammina che ti offro una birretta e poi
telefoniamo al nostro mecenate.»
Achille

Sdraiato sul letto, si osservò la punta delle scarpe inglesi, un regalo della
madre, che ci teneva all’"eleganza cosmopolita", come la chiamava,
imbecille borghese che non era altro. A destra, un’ampia porta-finestra si
apriva sul balcone imponente che dominava via Senato. Amava quella
finestra. Da là aveva anche visto la prima donna nuda della sua vita. Era
una modella che, nella camera dell’albergo di fronte, teneva spesso le
finestre aperte e l’aveva fatto anche mentre si depilava le gambe. Achille
aveva preso il binocolo, per guardarla meglio, per studiare il corpo perfetto
e spiare la faccia dal profilo da bambola.
Mezz’ora di stupore e di turbamenti. Alcune delle scene che aveva
osservato prima che lei, ignara di essere stata spiata, chiudesse la finestra,
erano rimaste impresse nella sua immaginazione. Anche in quei giorni stava
pensando a quella giovane bionda, esile, nuda e sconosciuta, probabilmente
straniera. Monica l’aveva lasciato per la terza volta in un anno. Tanto
sarebbe tornata, come sempre. E lui l’avrebbe ripresa, come sempre. Per
essere un sentimento fiacco, come lo giudicava lei, era sin troppo tenace. O
forse resisteva perché era meglio un tozzo d’amore vigliacco del nulla della
solitudine?
Di fronte al letto, dalla libreria alta fino al soffitto, sporgeva il suo libro
preferito, Il maestro e Margherita, e sulla scrivania di noce, che era stata del
nonno ingegnere, i fogli bianchi dell’ultimo tentativo di scrivere un
racconto sui complessi di colpa del centurione che crocifisse Gesù. Sul
parquet, accanto alla stuoia color ruggine che aveva portato da una vacanza
in Marocco, aveva messo le casse di un piccolo stereo giapponese e sentiva
Radio Studio 105.
Con la penna stilografica della stessa marca di quella usata da Hemingway
vergò un breve appunto, utile a mettere in risalto la figura del centurione:
"Il rimorso aveva trovato casa nei suoi occhi". Gli pareva d’averla già
sentita, in ogni modo non era male, e per il grande romanzo aveva tempo
sino ai trent’anni.
Il telefono squillò. «Pronto, siete voi?» chiese portandosi all’orecchio la
cornetta.
«Sì, tutto a posto, se hai capito cosa voglio dire... Adesso andiamo verso la
discoteca. Meglio ancora, perché non ci raggiungi qui con la tua macchina e
ci porti allo Zimba?»
«Mi dispiace, niente macchina stasera. Mio padre questa volta ha fatto il
duro e non mi dà nemmeno la Peugeot.»
«Finirà per piovere.»
«Colpa vostra, così un’altra volta che venite a casa mia farete meno i
bastardi. Martedì, quando voi e gli altri siete passati, non solo sono sparite
un frego di bottiglie, ma qualcuno s’è infilato in tasca un portacenere
d’argento che si trovava su un tavolo in corridoio. Mio padre se l’è presa a
morte.»
«Va be’, noi non siamo stati... Non è che puoi fregare la macchina a uno
dei camerieri?»
«No, ci vediamo in piazza XXIV Maggio» disse, riabbassando la cornetta.
Poi chiamò un taxi.
Lavinia, che era stata soubrette

Terminò di sciacquare i due piatti adoperati per la cena. L’angolo cottura


era minuscolo e molto funzionale, e a Lavinia piaceva da matti il colore
verde smeraldo scelto per le piastrelle della cucina appena ristrutturata. Si
spostò nel salotto separato da un muretto e si sedette sul piccolo divano, di
fianco al tavolo rotondo. Dallo stereo, le note di Thelonious Monk. Prese in
mano un biglietto di auguri che aveva appoggiato su una pila di volumi
rilegati. Ne aveva così tanti che li teneva ammonticchiati in file ordinate sul
pavimento: si passava da una stanza all’altra attraverso sentieri di libri.
Lesse le poche righe che avevano accompagnato una cassetta di Paco de
Lucia: "Sei tutti i miei... battiti". Scosse la testa facendo volare il biglietto
nel salotto: "È veramente appiccicaticcio".
Non era assolutamente lusingata per la corte d: quel quarantenne magro,
con il petto incavato e il naso aquilino che stringeva in continuazione tra il
pollice e l’indice, quasi a controllare che fosse al posto giusto. Abitava da
meno di un anno nell’appartamento sotto al suo. Alcuni mesi prima l’aveva
fermata con una scusa, arrossendo, e si era presentato come Giovanni Maria
Zurlini, professore in pensione, figlio di Carlo Maria Zurlini, magistrato
della corte d’appello. Aveva sbandierato la parentela come se fosse una
medaglia al valore. Tutto piuttosto corretto, ma da mesi se lo trovava sulle
scale, sia che entrasse, sia che uscisse. Quando andava in autobus in centro,
era là alla fermata, allampanato. Le sue gentilezze, che le avevano ispirato
tenerezza, erano diventate come le spire di un serpente. «Quell magher cont
trii nomm» brontolò.
Ai suoi tempi aveva avuto ben altri corteggiatori di quel baby-pensionato
con qualche rotella fuori posto. Uno le aveva anche regalato
quell’appartamento, ma non voleva nemmeno ricordarlo. Con un altro
sarebbe andata ovunque, ma quel simpatico disgraziato forse amava
davvero la moglie e la tradiva solo per un eccesso di vitalità. Gli altri, mah!
Alla fine era rimasta sola. Senza un marito, senza un fidanzato vero. Una
volta, leggendo uno dei suoi libri preferiti, L’uomo senza qualità, aveva
sottolineato una frase che ormai sapeva a memoria: "I teneri sentimenti
della dedizione maschile sono simili al brontolio di un giaguaro che ha tra
le zampe un pezzo di carne e non tollera di essere disturbato". Gli uomini li
vedeva così e ammetterlo da giovane sarebbe stato controproducente,
soprattutto in teatro, quando una soubrettina come lei non aveva scelta:
ammiccare, mostrare, cercare di essere seducente e conquistabile, fingere di
apprezzare i famelici brontolii del pubblico giaguaro era basilare. E non
solo per lei, ma anche per le "simpatiche" alla Delia Scala, che, diceva
Lavinia con civetteria, le aveva copiato il taglio di capelli, il ciuffo corto e
sbarazzino. Si osservò allo specchio passando in anticamera, dove incassato
nel muro era stato ricavato un funzionale guardaroba: "Mi devo sbrigare, tra
poco arriva". Si raccolse i capelli, che adesso portava più lunghi di quando
era giovane, e scelse un abito rosso, che mai avrebbe indossato a vent’anni.
Stava dipingendosi le labbra quando squillò il telefono: «Se sei pronta, tra
dieci minuti esco e sono sotto casa tua».
«Va bene, Loris. Quando arrivi suona il clacson, che lo sento e scendo.»
Le metteva allegria uscire con lui, che conosceva un sacco di gente folle.
Una volta aveva salutato una signora ingioiellata e le aveva sussurrato
all’orecchio: «Sai chi è? Be’, è stata l’amante del re degli elicotteri... per
dieci anni lo vedeva ogni lunedì nel negozio di un barbiere davanti al
tribunale, poi lui ha sposato l’altra amante, più giovane e più presentabile, e
come buona uscita le ha lasciato un bel po’ di stazioni di rifornimento. Ora,
quando si presenta agli amici, dice: "Piacere, sono la regina delle pompe"».
«E tu come l’hai conosciuta?»
«Facendo benzina» aveva sghignazzato.
Anche lei ne aveva conosciuti di balordi, soprattutto nel baratto vicino allo
Smeraldo, quel vecchio trani con sala biliardo annessa, fumoso e ringhioso.
Tante volte toccava proprio alle ballerine andare a prendere i boys della
soubrette, o la spalla di un comico, che si giocavano la paga cont i "negher",
come si chiamavano nel gergo i professionisti della carambola. Era stato un
bar tosto: lo frequentavano gli ex spiombatori dei vagoni merci, alcuni che
in tempo di guerra avevano fatto la borsa nera, e un paio di rapinatori d’alto
bordo, che spendevano i soldi delle "dure" con le ballerine. Una, poveretta,
mezza sballata, c’era morta, per colpa di un amore balordo.
Altri tempi, altre vicende. Anni scivolati via. La sua vita era forse stata un
po’ troppo all’insegna del "non", forse una non-vita, si rimproverava, ma
così, tanto per lamentarsi di qualcosa. L’unica invidia vera l’aveva provata
per Lauretta Masiero, non solo perché era più bella, più brava e aveva
giustamente avuto più fortuna di tutte loro, ma perché era addirittura finita
in un libro serio, in un racconto di Giovanni Testori, intitolato proprio "Sì,
ma la Masiero...".
«Sì, ma la Masiero» si disse ad alta voce, guardandosi allo specchio, alta,
elastica, seducente nell’abito rosso, nonostante i sessanta anni suonati.
Ladro in discoteca

Loris parcheggiò di fronte alla casa dell’amica. Tre colpi di clacson e la


luce alla finestra del secondo piano si spense. Pochi istanti dopo, Lav, come
lui la chiamava, aprì la portiera, appoggiò sul sedile posteriore una grossa
borsa di tela di sacco che non abbandonava mai e lo baciò con slancio sulle
guance. Aveva gli zigomi molto pronunciati, da etiope, e dell’etiope aveva
anche gli occhi scuri e una massa di capelli che sarebbero stati grigi, ma che
lei colorava, perché li voleva neri come l’ebano. «Ti saluta Bada-Bada. Gli
ho detto che stasera uscivo a ballare con te.»
«Sta bene, quel magiaro che ha trovato l’America in Italia?» ribatté lui,
accendendo il motore. «Saluti anche da Sandra... la sua mamma si è ripresa,
e domani torna a casa. Notizie del tuo spasimante?»
«Mi sono trovata in portineria una cassetta con tanto di languida
schitarrata e un bigliettino. Capirai, sono la donna dei suoi sogni. La nonna,
avrà voluto dire...»
«La differenza d’età non c’entra. Tu sei sempre stata e sei una bella donna,
lui è un rospino. Probabilmente sa che, quando facevi la passerella
all’Alcione, accorrevano a decine a sbirciarti sotto le piume.»
Erano arrivati in fondo a via Ascanio Sforza: vecchie bettole dei
formaggiai e dei camionisti stavano diventando locali per giovani, musica
dal vivo e birre gelate a poco prezzo. Una ragazza bionda con una
canottiera stretta sul seno prosperoso attraversò la strada e a Loris ricordò
una loro comune amica, ex ballerina.
«Sai chi ho visto? La Renée.»
«Ah, è da un po’ che non ci sentiamo. Io, lei e l’Ettore siamo stati in
compagnia insieme per anni, dal ‘57. Madonna, Loris, quanto tempo...» E
poi, storcendo la bocca, attaccò: «Non so recitare, non so cantare, ma ho un
bellissimo sedere. Il problema è che devo essere nuda anche nella mia vita
privata: se non mi vedono nuda non ho ammiratori, e se non trovo
ammiratori chi mi sposa?».
Renée poteva dire cose così, e Lavinia, quando faceva il verso alle
persone, ne sapeva imitare anche la voce. Aveva uno spiccato senso
dell’umorismo e una naturale espressività. Da qualsiasi argomento, anche il
più banale, riusciva a improvvisare uno sketch.
Parcheggiarono l’auto e fecero cento metri di buon passo, sotto una
pioggerella sottile, per raggiungere lo Zimba. Mancava poco alla
mezzanotte, la pista era piena e c’era moltissima gente. Merito del
complesso di Guadalupa.
«Mi raccomando, Lav, non piantarmi in asso per il primo giovanotto che ti
si avvicina.»
«Tu balli da fenomeno, ma a volte...»
Trovarono un posticino accanto al divano dove sedevano quattro o cinque
signore ingioiellate. Una era una nana vestita di bianco, con un bellissimo
sorriso e una collana di perle vere splendenti. Ognuna aveva al fianco, o
nelle vicinanze, un ragazzo centroafricano, atletico, con scarpe da
ginnastica argentate.
"Qui quelli più morti di fame siamo noi" si disse Loris, che da qualche
tempo aveva smesso con le rapine e viveva per così dire di risparmi e
lavoretti.
I quattro percussionisti di Guadalupa presero posto sul palco. Due ragazze
in short gialli e reggiseni verdi, forse il residuo di una festa carioca, si
unirono a loro sul palco. Era un gruppo affiatato, allegro, frenetico. Sulla
pista, una coppia iniziò a ballare. Sicuramente due maestri, con una tecnica
molto europea, e man mano che si scatenavano, altri giovani cercavano di
imitarli nelle evoluzioni, e qualcuno se la cavava anche bene. Generalmente
erano le donne a saper ballare meglio, i maschi si dimenavano un po’.
Loris, dopo aver dato il suo contributo solitario e variegato di passi jazz,
andò nell’angolo dove avevano appoggiato la borsa.
Era preda di una specie di rimbambimento indotto dalla stanchezza e
pensava: "Le feste a tema sono il massimo, anche se ora non è più come un
tempo, quando arrivavano per la prima volta i gruppi dei paesi lontani,
quando erano un’espressione culturale autentica. Ora tutto è sofisticato, più
complicato, il multietnico è diventato un affare, come vendere le banane
Chiquita. Chi ci fa sopra soldi e tendenza lo propina in continuazione. Due
tamburi, una conchiglia, una penna tra le chiappe, ed è subito clima tribale".
Lavinia, sudata, gli si andò a stravaccare accanto, riscuotendolo dal suo
sociologico torpore.
«Beviamoci un ultimo gin tonic per rilassarci un po’. Sei d’accordo?» disse
lui.
«Certo, uomo saggio, ma solo se vai tu a prendere i beveraggi. E se pago
io.»
«Nel frattempo non sparire con un altro uomo nero... »
Lavinia frugò nella borsetta, poi sollevò il viso, interdetta. «Mi hanno
rubato il portafoglio.»
«Fai guardare.»
«Ti dico che non c’è più.»
«Non potevi darmelo, che lo mettevo in tasca... Avevi dentro tanti soldi?»
«No, meno di centomila lire. Ma c’era la patente. Che seccatura!»
Loris chiese ai vicini se qualcuno avesse visto qualcosa, ma certo era stata
un’imprudenza lasciare il denaro incustodito. La voglia di bere era passata a
tutt’e due.
Usciti dal locale, corsero fino alla macchina, sotto la pioggia che era
aumentata di intensità. Loris guidava con la lunga esperienza del
nottambulo, andava veloce sui rettilinei e rallentava attraversando gli
incroci, dove ubriachi o sbandati passavano senza tener conto di nulla.
«Domani vai a fare denuncia, per la patente» le disse. «Sì, sicuro.»
Il furto aveva cambiato l’umore di entrambi. Erano le tre passate quando
salutò Lav e, dopo aver aspettato che si richiudesse il portone, ripartì.
Alla Squadra Mobile

Loris bevve un paio di sorsi d’Armagnac direttamente dalla bottiglia e si


fece la doccia per togliersi di dosso l’odore di fumo e il sudore. In
accappatoio attraversò il corridoio sino in camera: sul comodino lo
aspettava un libro, ma lui era troppo stanco, e non ebbe nemmeno la forza
di accendersi un’ultima sigaretta. "Mi sveglierà Sandra con la sua
telefonata" pensò, prima di piombare in un sonno profondo.
Lo squillo del campanello della porta parve arrivare da un altro pianeta.
Loris accese la luce e guardò l’orologio. "Alle sei del mattino? Forse è già
arrivata. Ma non ha le chiavi?" si disse, staccandosi a forza dal letto.
Non era di Sandra, la voce che gli entrò nei timpani, ma di un uomo. Non
l’aveva mai sentita prima. «Civinini Loris, sappiamo che è in casa. Apra.»
«Chi è?»
«Loris Civinini?»
«Sì, sono io, ma lei chi è?» chiese dal corridoio, contrariato.
«Siamo della Squadra mobile, apra.»
Aprì e si trovò di fronte tre uomini, di età indefinibile, con l’aria provata di
chi non era ancora andato a dormire e gli occhi severi di chi ha una
missione da compiere.
«Dobbiamo accompagnarla in questura. Nel frattempo, se non le spiace,
diamo un’occhiata.»
«Sì che mi spiace.»
«Immagino, ma noi lo facciamo.»
Loris preferì tacere e li osservò in silenzio mentre aprivano cassetti,
armadi, giravano per la casa in disordine e raccattavano anche i vestiti che
si era tolto poche ore prima, mettendoli in un sacco.
«Oh, io non ho fatto nulla. Qualsiasi cosa state cercando io sono bravo e
buono da anni...»
«Lei non è nuovo dell’ambiente. Si prepari, tra cinque minuti scendiamo.»
Ebbe due sensazioni fastidiose. La prima: non erano lì per questioni
politiche. La seconda: si trovava nei guai, e non sapeva per cosa. Loris si
affacciò alla finestra. Una volante stazionava sotto casa. Ma che diavolo era
successo?
Si vestì e scese insieme agli investigatori. Gli fecero cenno di salire, si
trovò seduto a fianco di un uomo in divisa e l’auto partì sgommando verso
via Fatebenefratelli.
«Scusate, ma...?»
«Il motivo non lo sappiamo, glielo chiariranno.» «Siamo in Italia, giusto?»
brontolò.
Uno dei poliziotti lo guardò come se fosse matto, l’altro replicò: «Cosa
vuoi dire?».
«Niente, pensavo che anche in Cile uno non sa mai per cosa lo chiamano.»
«Lì sì che sono abituati a trattare con i rompiballe.»

Un agente in borghese, occhi azzurri e testa pelata, era vicino a uno


scaffale-libreria. Un altro poliziotto, molto giovane, con profondi occhi neri
e capelli lisci e lucidi, sedeva davanti a un tavolino completamente
occupato da una moderna macchina per scrivere. La luce nella stanza era
scarsa. E nell’angolo più buio un uomo in giacca e cravatta, probabilmente
il commissario, o il maresciallo, sorbiva lentamente un caffè e sfogliava
alcuni fascicoli.
«Lei è Civinini Loris?» gli chiese senza sollevare lo sguardo dalla tazzina.
«Lo sa benissimo chi sono.»
«Sì, sì, sappiamo. Si tolga per favore la giacca e la camicia. Ha capito? Si
metta a torso nudo.»
«E no, adesso chiamiamo l’avvocato. Io» Loris alzò le mani, scuotendo la
testa «non faccio un bel niente se non...»
L’agente in piedi si avvicinò tirando fuori le mani dalle tasche e facendo
ruotare sul polso destro un pesante bracciale d’argento: «Amico, fai come ti
ha chiesto il maresciallo» ordinò. «È questione di un attimo, l’avvocato fa
sempre in tempo ad arrivare.»
«È importante» disse l’altro con tranquillità, fissandolo per la prima volta
con interesse dal fondo della stanza.
Loris capì che non era il caso di fare altre storie e si mise a torace nudo. Il
maresciallo finalmente si alzò. Assomigliava a un uccellino caduto dal nido.
Era magro, di altezza media, i capelli pettinati all’indietro, con gli occhi
sporgenti e un gran naso adunco. Gli si avvicinò controllandogli il volto, il
collo e il petto. Lo scrutava da pochi centimetri, sembrava annusarlo, come
Loris aveva visto fare al nonno ai mercati del bestiame, a Crema.
Il giovane poliziotto seduto al tavolino non aveva dato il minimo cenno di
interesse. L’agente muscoloso aveva girato il cranio rasato dall’altra parte
quando Loris l’aveva fissato a sua volta.
«Si rivesta e si sieda» ordinò il maresciallo, con un tono deluso.
«Adesso mi dite cosa sta succedendo?»
La vocetta del poliziotto calvo si fece risentire. «Lavinia Marbella è stata
ammazzata brutalmente. Si è difesa, ma...»
Loris credette di non aver capito. Rimase imbambolato, come se gli si
fossero appannati i riflessi, quelli che un tempo, quando faceva il rapinatore
di banche per aiutare gli anarchici spagnoli, erano stati capaci di salvargli la
vita.
«Cosa sta dicendo?» chiese rivolto al funzionario. «Lavinia» ripeté
l’agente, e con due dita sotto il collo tracciò nell’aria un gesto spietato.
Loris avrebbe voluto prendergli quelle dita e spezzargliele, e rovinargli a
forza di pugni quella assurda testa pelata. Ma strinse i denti. «Guardi che
l’ho accompagnata io a casa.»
«Già.»
«E stava benissimo. Ma siete sicuri che...?»
«Lo sappiamo che era con lei. Ma che stesse bene dopo che vi siete
lasciati, lei è il solo a dichiararlo.» «Mi state accusando di aver ucciso la
mia amica?»
Poi, si rivolse direttamente al maresciallo: «E lei non dice niente?».
«Lasci stare il maresciallo Cocilovo e parli con me. Un vicino della
signora Marbella ha preso il suo numero di targa intorno alle undici, e
mentre la signora... una signora, no? la posso definire così?... si trovava già
all’obitorio, lei è tornato a casa e s’è fatto una doccia, tanto che è ancora
tutto bello profumato. Eh, s’è lavato ben bene dopo averla vista per ultimo.
Non ci faccia perdere tempo se è stato lei. Qui dentro prima o poi parlano
tutti.»
Ci sono frasi e notizie che hanno bisogno di un certo tempo per essere
metabolizzate. In quella stanza prese forma una presenza ostile, una specie
di mostro con tre teste, quelle dei tre agenti che avevano generato una
"cosa" per nulla amichevole. Schifosa come le accuse che gli muovevano.
Si sentiva sospettato di un delitto osceno. Lui, a Lav, non avrebbe mai fatto
del male. Mai e poi mai aveva fatto male a una donna.
Il maresciallo fece un cenno al poliziotto giovane. «Ora verbalizziamo.
Allora, cognome e nome?...» chiese, facendo risuonare la voce dal fondo
dell’ufficio.
«Voglio l’avvocato.»
«Se non ha nulla da temere, perché non collabora? Su, dove abita?»
domandò Cocilovo.
«Abito dove siete venuti a prendermi. Milano, via San Marco 16. Perché
mi avete fatto spogliare?»
Il maresciallo si fermò, soppesò la domanda e rispose: «La signorina
Marbella ha sicuramente graffiato il suo assalitore... aveva frammenti di
pelle sotto le unghie».
«Ma siamo pazzi, ma come potete pensare che io...» «L’ora esatta in cui
l’ha lasciata?»
«Mancavano pochi minuti alle tre e mezzo, direi.» «L’ha accompagnata
dentro l’appartamento?»
«No, piovigginava, e non sono sceso dall’auto... Lav mi ha salutato ed è
corsa con le chiavi in mano verso il portone e l’ha aperto. Ho atteso che
entrasse, e dovevamo sentirci oggi, perché allo Zimba le hanno rubato la
patente.»
Il pensiero che non l’avrebbe più vista viva prese possesso dell’intera
stanza. Lei non c’era più, e il mostro a tre teste imperversava.
«Sono rimasto alcuni secondi dopo che lei era sparita nel portone, per
accendermi una sigaretta, e sono tornato a casa. E là mi avete svegliato
voi...»
«In giro c’era qualcuno?»
«No, la strada era deserta. Lavinia era prudente. Mai sarebbe uscita da sola
di notte, non era una sprovveduta.»
Nell’ufficio calò il silenzio.
«Nel suo racconto qualcosa non quadra» riprese il maresciallo dopo
qualche momento. «Viene riaccompagnata a casa alle tre e mezzo, ma solo
alle quattro e mezzo, perché un vicino sente un rumore, è stata trovata
morta sulle scale. Dov’è stata per un’ora? A casa sua pare di no, la
Scientifica è al lavoro, ma...»
«Questo mente» intervenne il poliziotto calvo.
«Vi sto dicendo la verità. Lei era viva, ho aspettato che entrasse e sono
andato via. Non riesco quasi più a parlare. Potrei avere un caffè o un
bicchiere d’acqua?»
«Va bene, dieci minuti di pausa, poi ricominciamo dall’inizio. La sua
deposizione dev’essere più chiara. Merza, hai finito di battere a macchina?
Chiama il bar, facci portare quattro caffè e una minerale.»

Loris bevve il caffè, bevve l’acqua, poi si alzò. «Bene, signori, me ne torno
a casa.»
«Lei non può uscire.»
«No? Mi state fermando? Arrestando? O cosa?»
«Va bene, se vuole l’avvocato lo chiami. Chiami pure.»

Michele De Marchis stava ancora dormendo. Era tornato a casa alle


quattro dopo la festa di laurea di una compagna di studi della sorella e non
sarebbe arrivato in questura prima di un paio d’ore. Nel frattempo, «parla,
innervosirli non serve, ma non firmare nulla finché non sono lì io» gli
consigliò con voce impastata.
Loris non riuscì a tenere il conto di quante volte lo interruppero, chiedendo
dettagli sempre più precisi e assurdi. Speravano che si contraddicesse,
aveva la sensazione di risultare sempre più antipatico al mostro tricefalo,
poi, all’improvviso, la porta venne aperta bruscamente da un agente in
divisa.
Era un ragazzo bruno, dall’aria perbene, con strani occhi magnetici.
Appena scorse il giovane poliziotto alla macchina per scrivere, il nuovo
arrivato arrossì violentemente. Lo conosceva, era evidente, ma si comportò
come se non l’avesse mai visto. Si avvicinò al più alto in grado e a bassa
voce gli disse qualcosa.
Cocilovo s’entusiasmò. «Bravo, bravissimi. Come ti chiami?»
«Logiudice, della volante Napoli.»
«Tu vieni con noi» ordinò al calvo, lasciando solo Loris insieme al
giovane agente, che finì di battere alcune parole sui tasti e, dopo aver
guardato l’orologio, si attaccò al telefono. «Ho visto Simo poco fa... non mi
ha nemmeno salutato. Mi sa che non ci perdonerà mai.» Era una
constatazione di fatto, la voce non mostrava la minima partecipazione.
«Cosa dicono, al paese, da quando hanno saputo?... No, Cinzia, comincia
dall’inizio, tanto sono solo.»
Loris, seduto sulla scomoda sedia, non veniva nemmeno calcolato come
un essere umano. Riuscì a fumare in santa pace diverse sigarette e a pensare
a Lav, alla loro serata, al dolore assurdo che lo assediava. Arrivò anche
l’avvocato, e per una decina di minuti sembrò più triste lui di Loris, poi
cambiò discorso e si mise a chiacchierare, una sorta di monologo contro
Bearzot che non convocava l’interista Beccalossi ai Mondiali di Spagna.
Era mezzogiorno quando Cocilovo rientrò e lo guardò, stupito che fosse
ancora lì, e insieme al legale.
«Credo che la deposizione del suo cliente per ora possa bastare» disse.
L’avvocato si schiarì la voce e non ebbe nemmeno bisogno di protestare,
perché il maresciallo alzò le mani. «Sono stati fermati alcuni giovani. Erano
vicini al velodromo Vigorelli, tutti fumati, e uno di loro è graffiato sul collo
e ha in tasca la patente della donna uccisa.»
«Le è stata rubata allo Zimba, ve l’ho detto prima» protestò Loris.
«E che cambia? Hanno ammesso di essere stati nella stessa discoteca della
vittima. Ed erano su un’auto rubata. Piangono e giurano che si tratta di
coincidenze, che non c’entrano, ma i colpevoli parlano. Lei, Loris, non
sparisca... lunedì sarà interrogato dal giudice. Merza, fagli firmare la
deposizione.»

Erano le due del pomeriggio quando riuscì a tornare a casa. Appena entrò,
il telefono prese a squillare. Lui sollevò la cornetta e sentì la voce di
Sandra.
«Loris, ma dov’eri? È tutta la mattina che ti cerco. Ho chiamato anche
Lavinia...»
Non riuscì a rispondere alla sua donna: un groppo gli bloccava la gola.
«Allora ti decidi a dire qualcosa?»
Singhiozzò senza lacrime. « È successa una cosa tremenda. Lav è stata
uccisa, e io sono stato sotto interrogatorio in questura.»
«Aspetta, aspetta, perché proprio te? E quando è morta?»
«Stanotte, poco dopo che l’ho accompagnata... era con me sino a poco
prima di essere uccisa, ma fallo capire alla polizia.»
Sandra continuò a chiedere, lui si sentì sollevato.
«Va bene, amore... se sei a casa, vuol dire che ti hanno creduto. Ora
sospettano di quei ragazzi. Senti, io parto stanotte e domani mattina sono a
Milano. Vieni a prendermi alla Centrale.»
Il tg diede la notizia dell’omicidio. Una panoramica esterna della casa
dove abitava la morta, la serata in discoteca con un amico, il fermo di
quattro giovani trovati su un’auto rubata, la droga che fumavano. Lui seguì
anche le altre notizie attraverso il velo di stanchezza che gli offuscava gli
occhi.
L’inchiesta sommaria

Il maresciallo Cocilovo bussò a una delle porte di legno chiaro al quarto


piano del palazzo di Giustizia ed entrò. Il sostituto procuratore Catanoso
aveva una voce dal tono accomodante, mentre il viso conservava
un’espressione severa, e quasi funerea. Il mento era reso più aguzzo da una
barbetta caprina, gli occhi due fessure che faticavano a illuminare le
palpebre cadenti. L’orecchio sinistro era privo di lobo. Dietro la sua sedia
erano appesi di sghimbescio i calendari delle varie forze di polizia, e anche
il cancelliere, che sedeva tutto storto sulla sedia, sembrava più in linea con i
calendari che con il pavimento della stanza. Catanoso diceva agli amici che
in quella stanza gli veniva lo sconforto, perciò se poteva lavorava a casa, di
pomeriggio. Ma non sempre poteva. L’investigatore venne accolto con
gentilezza, ma subito messo a disagio da una domanda: «Dei ragazzi
fermati che cosa pensa?».
Già, cosa pensava? Che stavano prendendo un granchio, questo pensava,
ma poteva dirlo? Usò un giro di parole. «Non me la sentirei di dare un
giudizio definitivo sulla loro colpevolezza. C’è una possibilità che siano
coinvolti, tenuto conto anche di alcuni fattori scatenanti. L’alcol, la droga,
le pastiglie, un simile miscuglio può diventare micidiale in una psiche
alterata. Non sarebbe la prima volta che mi capita una situazione del genere,
comprende dottore ciò che intendo dire. Noi possiamo vedere solo una parte
della realtà, ma non l’altra, quella nascosta. Forse ci vuole uno psichiatra.»
«Ragazzi normali, giusto?»
«Se si eccettua un fermo allo stadio per rissa e un tentato furto, i ragazzi
sono incensurati. L’amico della vittima, Civinini Loris, ha invece una lista
di precedenti lunghissima, è un soggetto pericoloso, se n’è interessato anche
l’ufficio Affari riservati del Viminale. Per la verità ha alle spalle un altro
tipo di reati. Vero è che se uno non rispetta la legge...»
«Rimane un altro particolare utile alle indagini. I quattro si trovavano nella
stessa discoteca dov’erano andati Loris e la Marbella... è o non è decisiva
per lei una circostanza del genere?»
«Potrebbe essere davvero una coincidenza. Tenga conto che erano senza
macchina, non potevano rincorrere i due sotto la pioggia fino in corso
Sempione. L’auto su cui sono stati trovati risulta rubata in via Chiesa
Rossa.»
«Un po’ mi scoccia tenerli dentro con l’accusa di omicidio, se sono
responsabili di reati minori. Soprattutto l’Achille Minutri... il suo avvocato
mi sta asfissiando e la famiglia ha amici influenti ovunque.»
«Certo non sono stinchi di santo, e per ora non sono emerse altre piste. La
morta era una a postissimo, una vita normale. Non ci viene fuori nemmeno
un amante, a parte il Loris, che però dice che erano amici e basta.»
«Va be’, per i quaranta giorni che spettano alla mia istruzione sommaria
posso anche tenerceli, in carcere. Poi quando la pratica passerà al giudice
istruttore, deciderà lui. Intanto, ha preso informazioni sugli abitanti del
palazzo in cui viveva la vittima? Non possiamo tralasciare nulla. Non so,
quel vicino di casa...»
«Abbiamo la lista degli inquilini. Buona parte delle notizie le abbiamo
ottenute interrogando i custodi, una coppia di cileni. Il piano terra è
occupato da uno studio di artisti associati. Al primo un gabinetto dentistico,
l’abitazione di un vecchio professore in pensione e il figlio del procuratore
generale, il nostro testimone, ma questo lo sa già...»
«Il padre mi è sembrato in ansia... quello non ci sta con la testa.»
«Sì, in questura prima di verbalizzare ho dovuto dargli due calmanti. Ma è
innocuo, direi. Dunque, continuiamo con gli inquilini. Al secondo piano,
l’appartamento della donna uccisa è al centro. Quello di sinistra è sfitto, e
non ci va nessuno da mesi, l’altro è occupato da una giovane coppia,
proprietari di un negozio di calzature nella zona. Al terzo abitano uno
scultore omosessuale, due sorelle in età e un esperto di mercati finanziari, in
viaggio a Hong Kong da due settimane. Nessuno ha notato movimenti che
potessero dare adito a sospetti.»
Catanoso apri la cartellina. «Ha guardato nell’alloggio sfitto?» chiese.
«No, era chiuso a chiave.»
«Cocilovo, lei di solito fa Buoncostume, non è vero?» «Sì.»
«Bravo. Organizzi immediatamente un sopralluogo della Scientifica
nell’appartamento sfitto. Ha provveduto alle comparazioni dei proiettili?»
«Non ancora.»
Il dottor Catanoso sollevò gli occhi al cielo.
La telefonata

I giovani arrestati attendevano dietro le sbarre di San Vittore che le


valutazioni degli inquirenti e gli esiti delle perizie decidessero del loro
destino. Le foto erano state pubblicate su tutti i giornali: un quotidiano
prospettava un visitatore notturno, un innamorato respinto, ma l’ipotesi
principale restava quella del branco selvaggio.
«Mi capissi no, le cose non possono essere andate come dicono» protestò
Loris con la sua donna, spegnendo il televisore. «Io prima di andarmene ho
aspettato che lei fosse dentro casa... le bufale dell’amante segreto,
dell’innamorato respinto non stanno in piedi, tutto buono per fare
sensazione. Non riesco a immaginare quei quattro, che avrei dovuto notare
allo Zimba, aggredire, uccidere e poi starsene seduti in macchina, a
spinellarsi e dormicchiare in attesa che la pula gli piombi addosso. È un
comportamento che non mi convince, e poi sono così "vincenzi" da andare
al Vigorelli, praticamente a un chilometro dal luogo dove hanno ucciso, e
non muoversi più. Insomma, non ci credo: bisogna agire, fare qualcosa.
Anzi, m’è venuta un’idea. Chiamo Binda.»
«Ma l’è un carabiner.»
«Ma è anche un amico, almeno credo.»
«Sperem, mi me fidi minga» disse Sandra. Aveva appena finito di
riordinare ed era più furibonda che stanca al pensiero delle mani estranee
infilate a perquisire i suoi cassetti profumati.
Che anni brutti per l’Italia

Binda andò sotto la doccia e, nonostante l’acqua bollente, rabbrividì.


Qualche giorno prima, di nascosto da tutti, aveva pianto. Gli dava persino
fastidio ripensarci. Eppure...
Eppure poteva ricostruire minuto per minuto quella giornata, il 17 giugno,
e a lui il numero 17 non era mai andato a genio, anche se non si considerava
superstizioso.
Era in caserma, a sistemare un po’ meglio di quanto avessero fatto il
brigadiere Aloisi detto Kalì e il giovane vicebrigadiere Dante Giambelli i
fascicoli degli omicidi insoluti, quando una notizia, una brutta notizia era
corsa da un ufficio all’altro...
«Un agguato di mafia a Palermo.»
«Ci sono colleghi morti ammazzati come cani.» «Un boss, scortavano un
cazzo di boss.»
Informarsi meglio era stato facile e doloroso. Binda aveva saputo che
anche un suo amico, un carabiniere di Rovigo, era stato ammazzato insieme
a tre commilitoni. Silvano Franzolin, il Silvano che...
«Tecnica da terroristi, hanno sparato a tutti.» «Scortavano un boss che
veniva trasferito da un carcere all’altro.»
«Si chiamava Alfio Ferlito. Hanno avuto la soffiata, i mafiosi, con i soliti
amici nei posti giusti.»
«Hanno aspettato l’auto in viale Regione Siciliana. Auto non blindata.»
«No?»
«No.»
«Le canne di due mitragliette sono spuntate da una Bmw.»
«Una strage. Una bastardata. Vigliacchi maiali. Non guardano in faccia a
nessuno.»
Silvano, che aveva quarantun anni e un figlio. Ne aveva parlato a Binda
quando s’erano trovati insieme durante un lungo servizio di appostamento
per prendere un rapinatore veneziano, famoso perché era uno dei rarissimi
criminali nati, cresciuti e attivi nella città dei turisti. I due sottufficiali erano
stati di guardia davanti a un bar di Abbiategrasso, nascosti in un’auto o nel
retro del furgone con i vetri oscurati, a chiacchierare, a parlare di carriere, di
figli, di amici comuni. L’avevano catturato dopo sei giorni, e adesso Silvano
era morto a Palermo. Il suo amico non gli avrebbe parlato più del figlio, e il
figlio non avrebbe mai più potuto scordarlo, come altri figli di vittime.
Erano stati tanti i morti in divisa, in quegli anni.
Mentre gli altri colleghi parlavano, Binda si era chiuso alle spalle la porta
della Omicidi e gli erano sgorgate, inarrestabili, le lacrime. "Se entra
qualcuno?" si chiedeva, asciugandosi gli occhi con il polsino della camicia.
Lacrime di dolore e di rabbia, di impotenza e di odio.
Non era finita, in quel 17 giugno. Poche ore dopo il pianto per il collega
morto ammazzato, Binda, in un pomeriggio cupo e afoso, era uscito dalla
caserma per andare nel cortile del Banco Ambrosiano, lato via Paolo
Ferrari. Là c’era, schiantato al suolo, il corpo di una donna non giovane,
non bella, non potente. Si chiamava Graziella Teresa Corrocher. Era la
segretaria di Roberto Calvi, che una parte della stampa chiamava "il
banchiere di Dio".
Non c’erano dubbi sulla sua decisione di uccidersi, non era un omicidio
mascherato da suicidio: la banca, il lavoro, rappresentavano l’unico amore.
Aveva cinquantacinque anni ed era signorina. Con quei capelli cotonati e
freschi di parrucchiere si era ammazzata agghindandosi come se andasse a
una festa e, invece di prendere il taxi, aveva aperto la finestra dell’ufficio,
buttandosi giù. S’era sentita vittima di una specie di tradimento progressivo.
Iniziato quando il suo ultimo capo era finito nei guai con la legge.
Proseguito quando erano via via emersi i suoi tanti "magheggi" contabili.
Esploso scandalosamente quando, da un paio di giorni, Calvi era
scomparso. Graziella aveva lasciato un biglietto d’addio:
Chiedo scusa per il disturbo che do. Informate con tutte le cautele e
indirettamente mia sorella che ha disturbi di cuore. Quanto infelice è stato il
mio passaggio in eredità all’ultimo presidente, quanta freddezza e quanta
insoddisfazione. Sia stramaledetto Calvi per tutto il male che fa a noi del
Banco e del Gruppo della cui immagine eravamo a suo tempo così
orgogliosi.

Appena tornato in caserma dal sopralluogo all’Ambrosiano, il maresciallo


s’era accasciato sulla scrivania. Un eccesso di tosse, il primo di una lunga
serie, gli aveva troncato a metà la stesura del verbale, e il brigadiere Kalì
l’aveva accompagnato a casa.
Aveva dormito male, s’era svegliato tutto indolenzito, un martello che gli
batteva sul cervelletto. E la mattina dopo s’era sentito ancora peggio,
quando la radio aveva annunciato che il famoso ragionier Calvi era stato
«rinvenuto morto a Londra». Trovato penzoloni sotto il ponte dei Frati Neri,
con una corda al collo.
Propendevano per il suicidio, gli inquirenti inglesi, e Binda aveva scosso la
testa. No, non era stata la "stramaledizione" della Corrocher a colpirlo. Nel
frattempo dovevano essere scese in campo altre forze occulte. Altrettanto
inafferrabili di un cattivo augurio, ma decisamente più concrete e
pericolose. "Mah" si ripeteva. E così, restarsene al buio, con la finestra
chiusa e le lenzuola sino al naso, era stata una conseguenza legittima, un
atto di risarcimento dovuto alle emozioni e ai pensieri del 17 giugno, e del
giorno dopo il 17. Nemmeno il letto era bastato a scacciare i brutti pensieri
su quel 1982: era proprio un anno faticoso e terribile, ma forse l’intero
decennio rappresentava uno dei peggiori della storia recente d’Italia. «A
conoscerla, la storia d’Italia, c’è da avere paura a essere italiano...» gli
diceva sempre il suo amico anarchico, il Loris, un simpatico pessimista.
Uscì dalla doccia e, asciugandosi i capelli grigi e guardandosi di nuovo
allo specchio, si trovò più accettabile. Si accarezzò la cicatrice sul fianco,
ricordo di una pallottola di tanti anni prima, durante un posto di blocco.
Ciabattò fino in cucina, dove la moglie gli sorrise e gli sfiorò la guancia con
un bacio.
«Non ci sarebbe un bel caffè?» le chiese.
«Te lo preparo subito. Intanto ti bevi il latte, che ti tira su, crapa dura:
perché hai fatto la doccia, se ti sei appena alzato dal letto? Non uscirai
adesso, vero?»
«Adesso no, ma...»
«Ma alura, non mi vai a fare la spesa?»
«Mi hanno chiamato dal lavoro.»
«Chi?»
«Casiraghi.»
«Ohmadonnasignùr, accident d’on omm.»
Due

Incoeu, al paes

Nel locale Al Vecchio Borgo il forno è acceso e i ciocchi di legno


crepitano. Fuori, i rami degli alberi ornati di bianco ricordano a Binda i
lavori all’uncinetto che faceva la moglie Rachele. È il classico sabato, le
famiglie fanno la spesa al mercato, e i veggiuni li guardano passare. Sono
riuniti in sei intorno al tavolo, davanti ciascuno un bicchiere di grappa
chiara, per scaldas i oss.
Massimo, il medico condotto, è come in trance. Si vede che si è dovuto
alzare presto, per andare in qualche casolare nella valle, ad assistere un
ammalato, se non qualche animale, perché a volte gli capita anche di fare il
veterinario. Fisic, il fantino, regge benissimo, anzi sembra iperagitato,
continua a mescolare un mazzo di carte come fanno i bari. S’è aperto un
piccolo maneggio, e le levatacce necessarie per accudire i cavalli durante il
giorno non gli fanno né caldo né freddo, però ai noeùv ora de sera l’è giamò
cott. Rolando, il bassista siciliano che s’era trasferito davanti alle Grigne,
sarebbe partito verso le sette per Bellagio: ha il contratto con un ristorante
prenotato dai dipendenti di una banca di Dresda, deve suonare la sera e
l’indomani, insieme a un’orchestra di jazzisti vicentini. Fabrizio, il vigile,
discute con Francesco, l’ex dipendente comunale che s’è unito al gruppo da
quando s’è candidato alle elezioni amministrative e ha perso. Un primo
pomeriggio con fuori la neve e dentro le chiacchiere. Ed è Francesco,
l’ultimo aggregato, a chiedere spiegazioni al Binda.
«Va ben, Peder, ma noi ti abbiamo chiesto la storia del diamante... Perché
ce la meni con il maresciallo Cocilovo e il magistrato Catanoso?»
Pietro Binda ha atteso per mesi una domanda come quella, più che
ragionevole, per poter dare una risposta a tono: «Siccome mi prendete
sempre in giro e dite che non ci vorrebbe molto a fare le indagini, ecco,
voglio farvi vedere un po’ meglio come funziona davvero la faccenda, con
annessi e connessi. E allora, in un giorno in cui mi sveglio con il mal di
testa e sono triste perché un collega a cui volevo bene è stato ammazzato
dalla mafia, vengo a sapere che una soubrette, Lavinia Marbella, è stata
uccisa sulle scale di casa e i poliziotti, dopo aver torchiato il suo ultimo
accompagnatore, il mio amico Loris, hanno sbattuto in galera alcuni ragazzi
beccati a fumarsi uno spinello. Questi erano i fatti, all’inizio, così come mi
si sono presentati. E io faticavo a entrare in partita, come l’Italia ai
Mondiali in Spagna».
«E poi hai vinto anche tu il Mundial?»
«Meno prese in giro, ragazzi invecchiati. Voi da dove sareste partiti? Da
dove avreste cominciato?»
A nessuno degli amici va di fare qualche brutta figura. «Vedete che non è
facile, nemmeno standosene seduti qui» riprende Binda.
«Vuoi l’applauso?» chiede Fisic.
«No, voglio un altro giro di grappa a tue spese, che ti da quand te ghe det
la biada ai cavai te paghet pù ai amis.»
«Va bene, pago, pago, mi sembra di stare con gli esattori delle tasse.... Ma
adesso tagliala corta e parla del diamante di via Montenapo, che io vado
pazzo per i colpi perfetti, come la rapina di via Osoppo, o l’assalto al treno
Glasgow-Londra.»
«Sentite, io potrei andare subito al dunque, ma voi vi perdereste qualcosa.
Vi ho mai deluso? La storia è mia e lasciatemela raccontare a modo mio,
partendo da dove sono partito io, tanti anni fa. Gradino dopo gradino, vi
faccio arrivare sino in cima alla verità. E al famoso diamante. Tanto,
cos’abbiamo da fare di urgente oggi?»
«La tua miee ti lascia in pace? Non dovevi fare le...» Binda l’interrompe:
«Scherzi?».
Massimo socchiude gli occhi, come per dire: "Va’ avanti, Peder, se no
m’indormenti".
«L’altro giro di grappa vuoi ordinarlo o no, se no ghe n’è minga» ribatte
Binda a Fisic.
È un sabato di chiacchiere e neve, e il sottufficiale in pensione aspetta che
arrivi Elsa, la figlia dell’Andrein, con il vassoio e i bicchierini. È di nuovo
incinta: il primo figlioletto, un biondino esile e sorridente, con un nasone da
grande, gattona tra i tavoli e sembra più a suo agio nel fumo dei giocatori di
briscola che all’asilo nido. Binda manda giù un buon sorso di grappa e
riprende il racconto dove l’ha interrotto.
Tre

Sull’autobus che portava Binda in via Moscova i finestrini erano tutti


bloccati dalla ruggine, salvo uno in fondo. Un passeggero si passava le
mani sudate sulla faccia paonazza, preludio di una sincope; altri si
sventolavano con giornali e depliant. La cappa d’afa asfissiava la città. In
metropolitana era stato anche peggio. Sottoterra il passaggio della folla
sudata lasciava una sorta di appiccicosa impronta corporea. Anche nelle
carrozze deserte pareva esserci qualcuno. Si avvertiva, nel vuoto illuminato
dal neon, una presenza che si deodorava e puzzava, sudava e si ventilava:
ma, girandosi di scatto, non c’era anima viva. La camicia, più che incollata
alla schiena, gli sembrava fusa in più parti.
Anche al suo paesino davanti alle Grigne a volte saliva, lenta e maestosa
come una vecchia Rolls, l’aria calda del lago, e tutti, al suo arrivo,
s’affannavano. Ma c’erano i boschi, le correnti delle valli. Si respirava,
anche se un po’ a bocca aperta. Solo nei bar poteva mancare il fiato, ma il
proprietario degli odori meno gradevoli era facilmente individuabile:
«Gianun, lavett stasira».
Al milanese cielo di piombo si era suo malgrado abituato, e anzi certe
giornate uggiose, come aveva cantato il Battisti un paio d’anni prima, non
gli dispiacevano. L’aria della sua montagna era ciò che gli mancava di più.
Scese dal bus e senza passare dal bar per il caffè andò al Nucleo. Si diresse
alla Omicidi, la sua sezione, e si sedette alla scrivania, ringraziando i muri
spessi dell’edificio: pessimi in inverno, quando facevano filtrare il gelo, in
quel giorno d’estate davano conforto alla sua debolezza da convalescente.
Scorse, sotto il telefono nero, alcuni foglietti di carta. Lui e il brigadiere
Aloisi, detto Kalì per i suoi trascorsi all’Antidroga, usavano la base
dell’apparecchio come cassetta delle lettere, ed erano soliti scambiarsi così i
messaggi quando non riuscivano a vedersi e non volevano parlare per
telefono.
L’aveva cercato un vecchio ricettatore che qualche volta li informava sulle
bande dei pendolari del crimine. E anche il fratello di un ragazzo morto per
overdose al parco Lambro, dove ormai lo spaccio di eroina dilagava.
L’ultimo appunto del collega era sottolineato in rosso: "Loris urgente. È
quel Loris? Dice che è importante". Alla fine del numero di telefono, una
serie di punti esclamativi. Provò subito.
«Bar Picchio» rispose una voce con accento meridionale.
«C’è il Loris?»
«Chi è?»
Non voleva dire il suo nome a uno sconosciuto. «Un amico» borbottò, e
sottolineò la sua discrezione con un colpetto di tosse.
«Ah.»
Poi sentì la voce urlare: «Loris, dev’essere il tuo carabiniere».
Poco dopo dalla cornetta: «Binda?».
«E, adesso dì anche grado e numero di matricola e semm a post.»
«Scusa, ma qui sono tutti amici, gente perbene e» continuò abbassando la
voce e mangiandosi le parole «di me non sanno nulla. Senti, scusa se ti
disturbo, ma devo chiederti un grande, grandissimo aiuto.»
«Se posso...» Era davvero stupito, e un po’ allarmato. Il coriaceo,
individualista, colto ex rapinatore proletario chiedeva il suo aiuto così
apertamente. Come mai?
«Hanno ucciso una mia amica» disse Loris, abbassando la voce. Il tono era
affranto: «Quasi quasi ci andavo di mezzo io. Le indagini che stanno
facendo non mi piacciono».
«Chi indaga?»
«Si chiama Cocilovo.»
«Eh, ho capito, uno piccolino, della Buoncostume.» «Infatti, vàrda,
Peder...»
«Però, te lo dico subito, non è che possiamo sovrapporre le nostre indagini
a quelle della Mobile.» «Vediamoci stasera. Qui hanno un buon marsalino.»
«Non so se posso.»
«Ti conosco. Se vuoi, puoi. T’aspetto lo stesso, tanto sono in strada con il
mio magone» insistette Loris.
Binda trovò la conferma a una legge che aveva scoperto da giovane
carabiniere: il carico di lavoro aumenta soprattutto nei giorni in cui uno ha
già moltissimo da fare.
«Buon pomeriggio, capo» lo salutò allegramente Giambelli. Di solito era
un tipo riservato e taciturno, ma il "vecchio maestro", come lo chiamava, gli
stava proprio simpatico.
«Giusto te, Giamba. Portami qui il tuo "libro dei morti".»
Era così che avevano ribattezzato in ufficio un brogliaccio di gran formato,
con la copertina di cartone rigido, dove - pagina dopo pagina, lasciando
molto spazio in bianco per gli appunti - venivano "annotati in breve tutti i
riferimenti, anche quelli non scritti nei rapporti, delle persone scomparse
per morte violenta". Era stato Giambelli a inventare quel nuovo sistema
d’archivio, copiando e condensando anni di fascicoli. Era proprio un bravo
carabiniere e, anche se era alle prime armi, Binda ci teneva ad averlo in
squadra. Lesse:
Marbella Lavinia, via Lomazzo, ferita d’arma da fuoco...
Doveva essere lei l’amica del Loris. Passato da soubrette, vita
irreprensibile, casa dignitosa, non povera e non ricca.

Il generale Casiraghi lo stupì: volle abbracciarlo, come se fossero vecchi


compagni d’arme e non esistesse differenza tra un altissimo ufficiale, noto
in Italia e all’estero per le sue missioni, e un sottufficiale che fuori della
provincia di Milano aveva lavorato sette o otto volte. Era scomparso il
ciuffo che gli cascava abbondante sulla fronte quando era ancora
colonnello. Forse era stato lo stress a renderlo quasi completamente calvo.
Intorno agli occhi furbi si era formato un reticolo di rughe sottilissime, che
esprimevano rancore nei confronti di un mondo irrecuperabile e disonesto.
«Non invecchi mai» si complimentò con Binda e subito dopo, senza mezzi
termini, iniziò a parlargli dell’aiuto che si attendeva e di quanto fosse
importante: in poche parole voleva maggiori informazioni intorno
all’«omicidio del ragionier Calvi», come lo definì. E voleva un servizio
particolare, per il quale gli aveva indicato una serie di fonti alle quali si
sarebbe dovuto presentare a suo nome. Da sempre Casiraghi era fissato
sulla necessità di decifrare quello che accadeva nel paese, e Calvi, così
spiegò al suo vecchio collaboratore, rappresentava l’apice di un
regolamento di conti tra gruppi di potere. Non era «la semplice
eliminazione di un prestatore d’opera».
In coscienza, Binda non poteva dire di no al generale che gli affidava
quella missione delicata. E che l’aveva stimolato a raccontargli le sue
impressioni. Premettendo che non sapeva nulla di quanto era successo a
Londra, Binda considerò che solo ascoltando le parole del giornale radio gli
era venuto da riflettere su due circostanze per lui inesplicabili. Calvi aveva
affittato una camera in un residence. Dunque, ammesso e non concesso che
volesse ammazzarsi, perché mai lo avrebbe fatto sotto un ponte, come
l’ultimo dei disgraziati? Perché non farla finita nella sua suite, per quanto
misera potesse essere? Non esisteva una risposta logica, e Binda sapeva che
gli aspiranti suicidi, anche quando non lasciano biglietti, eseguono
comunemente azioni logiche, azioni che a posteriori si comprendono alla
perfezione. Quando manca una logica, bisogna stare attenti alla possibilità
di un omicidio mascherato.
Il generale Casiraghi si disse del tutto d’accordo.
Seconda domanda: uno, per compiere l’ultimo gesto della sua vita, si
arrampica sull’impalcatura di un ponte scomodo e che si chiama dei Frati
Neri? Così domandò provocatoriamente Binda, sostenendo che gli pareva
una rivendicazione: un messaggio internazionale per le orecchie di adepti
segreti, che avrebbero riso per la macabra ironia. Solo un anno prima, due
magistrati milanesi, Giuliano Turone e Gherardo Colombo, avevano
scoperto gli elenchi di una loggia massonica, la P2, che raggruppava
personaggi di medio e alto livello. Compreso il generale Carlo Alberto
Dalla Chiesa appena mandato a Palermo.
L’altro generale annuì gravemente, ma non volle commentare quell’ultima
frase. Ricevette una telefonata e congedò il sottufficiale invitandolo a fare
«presto e bene», e così Binda fece ritorno alla Sezione omicidi con la
schiena a pezzi per la stanchezza e con una lunga lista di nomi in tasca.

Quando la sera raggiunse il bar dell’appuntamento con Loris, si sentiva


colmo solo della voglia di ronfare nel suo letto. Qualche residuo
d’emicrania lo costringeva a serrare le palpebre. L’ex rapinatore anarchico
era pure in ritardo. Aspettandolo, Binda ordinò un marsalino, e il premuroso
barista pugliese gli chiese se volesse del ghiaccio, uno stuzzichino, un
panzerottino fatto in casa dalla moglie. Stava per andarsene quando vide
arrivare Loris stretto nella sua giacca a un bottone, chiusa sul ventre piatto,
e camminare con la caratteristica andatura del ballerino. O di quello che si
chiamava il "banconista", il rapinatore abituato a saltare sul bancone,
davanti al cassiere, con la pistola in pugno e l’occhio di chi non perderà un
movimento sospetto.
«Per fortuna mi dovevi aspettare tu...»
«Ne ho colpa io se sei per tre quarti svizzero?»
Non era il solito Loris, faceto e ilare. Ingoiando l’emozione e il dolore per
l’omicidio della sua amica, raccontò dell’interrogatorio subìto in via
Fatebenefratelli e del quartetto di ragazzi arrestati. Non riusciva a crederci.
«Chi l’ha uccisa, l’ha aspettata e l’ha» a questo punto bestemmiò
«praticamente torturata. Botte, cose brutali. Alla fine, l’ha ammazzata. Non
chiedermi anche tu perché il bastardo le ha sparato sulle scale, con il
silenziatore.»
«Se aveva il silenziatore è uno organizzato, uno che sapeva cosa andava a
fare.»
«Damm atrà, è l’opera di uno che sa tenere la testa fredda. Non è un lavoro
da maniaco sessuale.»
«L’ho capito... Questo assassino è un professionista, vuoi dire.»
«Perciò devi indagare tu. Insieme con me, se vuoi. Mi usi come un
fattorino, un agente, un custode. Decidi tu, io eseguo, ma dobbiamo trovare
quel cane che ha ucciso Lav.»
«Ma figurati se possiamo ficcanasare insieme. Mi vuoi rovinare la
pensione?»
«E allora?»
«Non so, Loris. Oggi mi hanno affidato una rogna tale che non avrò il
tempo nemmeno di lavarmi le mani. Dimmi solo una cosa: eravate amici o
l’era la tua schiscia?»
«No, Peder, amici e basta, non ho fidanzate nascoste. E lei, anche se è stata
un’artista del varietà, era una per niente facile.»
I due si guardarono. Cosa fare?, si stavano chiedendo, muti. Il marsala era
buono, e non c’era un alito di vento per la strada. Loris ruppe il ghiaccio.
«Domani c’è il funerale di Lavinia. Vieni, ti presento qualche amico
comune. Almeno ascoltali.»
Binda chinò la testa. Ma sì, poteva farlo. Forse doveva. Non solo perché
glielo chiedeva un amico. Ma anche perché, tra le ragioni che lo avevano
indirizzato nella scelta della professione, c’era un suo modo di essere.
Pensava che trascurare i vivi fosse una brutta cosa, e trascurare chi non
poteva più difendersi, come i morti, era molto peggio. «Non telo prometto,
ma farò il possibile. In che chiesa vi trovate?»
«Lavinia era atea. La ricordiamo al Narvalo d’Oro, domani pomeriggio
alle tre.»
«In un teatrino?» si stupì Binda.
«Vann no tucc in gesa. Ci sei mai stato, a un funerale laico?»

«Corri a casa in tutta fretta, c’è un biscione che ti aspetta» si scoprì a


canticchiare il maresciallo, mentre s’infilava sotto le lenzuola. Quella
musica entrava nella testa della gente, anche di chi, come lui, non amava la
tv. Loris una volta gli aveva portato da leggere un articolo di Pier Paolo
Pasolini, sulla televisione che non si accontenta più di suggerire a un uomo
cosa consumare, ma pretende che non siano ammesse altre ideologie al di
fuori del consumismo. L’ipotesi politicamente gli piaceva, ma non credeva
a una televisione che potesse condizionare i cervelli delle persone. Una
delle frasi del miliardario proprietario di tv Silvio Berlusconi che più
l’aveva colpito era: «Io vendo vendite». E se dopo i fustini di detersivo
avessero cominciato a vendere o svendere l’immagine delle persone? O
degli uomini politici? Non gliel’avrebbero mai permesso, non in Italia.
Accese la lampada, provò a leggere qualche pagina del libro che Loris gli
aveva portato nel pomeriggio, ma il titolo Il nostro nemico, lo Stato, di
Albert J. Nock, non lo convinceva e non riusciva a concentrarsi. Spense di
nuovo la luce.
Più pensava al generale Casiraghi, più il sonno tardava. Non gli aveva
affidato un lavoro di tutto riposo per il corpo e la mente. Sarebbe andato in
giro per gli uffici della Milano del denaro. La scusa ufficiale era che,
avendo scritto lui il rapporto sul suicidio della segretaria, avrebbe dovuto
procurarsi più informazioni per chiudere il caso. In realtà, Casiraghi gli
aveva fornito una lista di ex carabinieri e di ex appartenenti alle forze
dell’ordine che lavoravano negli studi degli agenti di cambio, nelle banche
pubbliche e private, che badavano alla sicurezza di istituti di credito e di
assicurazioni.
Ai fidati interlocutori Binda avrebbe fatto una serie di domande su Roberto
Calvi e avrebbe fatto sapere che dal Comando generale volevano
informazioni sui possibili segreti che s’era portato nella tomba. I suoi
rapporti sarebbero stati classificati con la RR di riservatissimo, gli aveva
garantito il generale.
Quanto a Loris, ma sì, poteva non aiutarlo? Andare a parlare con gli amici
della donna uccisa non sarebbe stato un problema. Ma dopo? Ce l’avrebbe
fatta a indagare pur avendo le giornate piene per il caso Calvi?
Di là in cucina, Rachele e Umberto avevano ripreso a discutere ad alta
voce: «Non puoi uscire ogni sera, per andare poi in quel posto, che non mi
piace per niente».
«Mamma, non rompere.»
«Porta rispetto, Umberto.»
«Cos’è che ho detto?»
Era sempre così, da quando aveva la pettinatura da rasta e passava ore al
centro sociale Leoncavallo. Non aveva aperto bocca tutta sera, mentre
sorbivano il brodo e mangiavano un po’ di formaggio friulano.
Sentì Rachele raggiungerlo in camera e finse di dormire. Di parlare non
aveva voglia, non quella notte.

Quando si svegliò, Rachele era già in cucina.


«Ancora latte caldo?» protestò. «Sono guarito, fuori ci saranno trenta
gradi...»
«Bevi e tas, Peder, e ascolta me. La radio ha dato una notizia che ti farà
piacere. Hanno arrestato l’assassino di Giorgio Ambrosoli.»
«William Joseph Aricò, il killer della mafia. Chilly Willy o Big Billy.
Dove l’hanno preso?» chiese con interesse.
«L’han ciapà a Filadelfia, a casa della figliastra, ha detto la radio.»
«Povero Ambrosoli, che uomo perbene, e di lui ci si è dimenticati.»
«Ma chi dovrebbe ricordarlo, Pietro?»
«I politici potrebbero almeno fingere e intitolargli una strada, una scuola.
Uno che muore per fare il proprio dovere, vale di più di chi trova le
scorciatoie. Purtroppo l’Italia è la patria delle scorciatoie. E peggiora
sempre più... lo sai che sono contento di andarmene in pensione. A volte ho
la terribile sensazione di aver passato la vita a correre dietro ai ladri di polli,
mentre ai grandi criminali gli facciamo un baffo.»
«Come sei di cattivo umore, in questi giorni. E la colpa sarà del solito
Casiraghi. Avanti, dimmi cosa ti manda a fare... ieri ti ho lasciato fingere di
dormire.»
«Non temere, non è come l’altra volta. Non mi muovo da Milano, cose di
routine, al limite un po’ di orari strani.»
«Davvero?»
«Davvero.»
«Meno male.»

Il Narvalo d’Oro era un piccolo teatro, famoso negli anni cinquanta, ma


praticamente in disarmo: veniva aperto talvolta per qualche compagnia di
passaggio, che non era in grado di essere ospitata nei teatri principali. Binda
non c’era mai entrato e si sorprese, arrivando a cerimonia funebre già
iniziata, di quante persone ci fossero. Da quando stava alla Omicidi, aveva
partecipato a tanti funerali, ma a uno laico non era mai andato.
Sotto il fascio di luce di un palchetto riconobbe una delle sorelle Nava, che
aveva visto dal vivo, alla RAI. Un altro gli sembrò Tino Scotti, in realtà gli
somigliava soltanto: aveva gli stessi baffi e l’eleganza da campagnolo, ma
gli occhi non brillavano d’intelligenza.
Venne risucchiato nella penombra: Loris l’aveva chiamato e gli aveva
tenuto una poltroncina a metà platea. La raggiunse chiedendo permesso a
due anziane signore, una delle quali stava dicendo a bassa voce quanto
fosse stato difficile «disegnare il nudo, creare costumi signorili e sfarzosi
lasciando scoperta la maggior parte del corpo, e senza mai essere volgari».
La osservò meglio: portava orecchini a forma di palloncino e una giacca
chiara aperta su una sbottonatissima camicia di serpente che, vero o finto
che fosse, non passava inosservata.
“Alla faccia della signorilità” pensò.
Sul palco stava parlando un tizio magro, con un maglioncino nero e una
massa di capelli ricci e bianchi sulle spalle, «un coreografo che vorrebbe
somigliare a Strehler» ironizzò Loris.
Il magro camminava a larghi passi e parlava, celebrava l’ingenuità di
Lavinia Marbella, ricordando un episodio: «Le avevamo dato una
calzamaglia rosa da indossare e una grande coperta blu, che tre o quattro
ballerini l’aiutavano a maneggiare. "Tu sei la verità, e pian pianino ti devi
scoprire", questo era il tema del balletto. Avevamo provato, ci doveva
essere sempre un occhio di bue sopra di lei, e uno sul pubblico. Lei faceva
sbucare dalla coperta blu prima la testa, poi le spalle, poi una gamba, poi il
busto... insomma, a poco a poco la coperta spariva e comparivano lei in
calzamaglia rosa, aderente, molto aderente, e le mani guantate di nero dei
ballerini, che reggevano, toccavano, sollevavano il suo fisico snello e
atletico. Veniva giù il teatro, e lei c’interrogava: "Ma davvero sono così
brava?". Mica aveva capito, povera stella, di aver partecipato a uno dei
primi scandali di nudo in teatro...».
La platea del Narvalo d’Oro esplose in una risata: forse a molti dei presenti
era capitato di essere in qualche modo buggerati dai colleghi, dai comici,
dagli impresari di quello strano mondo che era stato l’avanspettacolo prima
e la rivista poi.
«Comprese che non erano venuti ad ammirare il ballo, ma a capire se e
quanto fosse nuda, la sera in cui una compagnia di bergamaschi si portò nel
loggione un faro e l’accese per vedere meglio. Finì a botte, e finì anche quel
suo numero così nature.»
Altri applausi. Era un funerale, era una commemorazione, sembrava un
rito pagano: e forse, pensava Binda, potevano essere simili a questi i
funerali degli antichi romani e dei greci. Ricordi spesi e sospesi tra parole e
cibo.
Sul piccolo palco salì, accompagnato da mormorii, un uomo panciuto, con
un completo marrone, gilet giallo, camicia azzurra e cravatta bianca. «Provo
un enorme dolore» disse «e faccio una grande fatica a essere qui oggi. Non
avrei voluto partecipare a queste esequie, ma so che a lei, da lassù, farebbe
piacere essere ricordata da me, proprio da me, e con un pezzo speciale.
Quello che facevamo insieme, nel ‘47, al Teatro Nuovo.»
Ricominciarono le risate. Quelli sapevano tutto di tutti, avevano già capito
a quale scena si riferiva.
«Lei purtroppo non c’è più» riprese l’uomo panciuto «e no, nemmeno
adesso... Non voglio sostituirla, come mi aveva proposto la Vincenza.»
Altre risate.
«La Vincenzina era la sua rivale, voleva sempre fare le cose che faceva
Lav» sussurrò l’anarchico a Binda. «Invece Ettore Ferri era un grande
amico di Lavinia, è stato la spalla di comici famosi...»
Attraverso la morte di Lavinia - pensò il maresciallo - quelle persone
stavano commemorando e rinverdendo il lustro del loro mondo
irrimediabilmente cambiato. Ormai l’avanspettacolo a teatro metteva
tristezza, lo facevano i più disperati tra gli artisti in cinema di periferia, con
spogliarelli di donne vinte dalla vita e con battute di comici da bar sport. La
rivista era entrata nei ranghi della televisione, gli autori si erano riciclati dal
palcoscenico di legno alle pedane accecate dai fari e circondate dalle
telecamere. E loro che non erano rimasti così indietro da finire nei teatrini
più scalcinati, e non avevano la faccia anonima che tanto va in tv, erano gli
ultimi custodi dei ricordi. E ce la mettevano tutta, come l’anziano
cabarettista che, accompagnato da un violinista tarchiato come un medio-
massimo con tanto di naso a carciofo, intonò:
Pamela,
Pamela,
quest’amore senza sole quest’amore senza sale
non mi serve e non mi vale.
Pamela
Pamela
mi tradite con un tale
e per questo metto vela prendo
volo e vado al Cile.

Era una vocetta impostata, che metteva buonumore:

Pamela
son Nicola Quagliarulo un modello d’onestà
e Nicola Quagliarulo quel che dice, quello fa.
Son Nicola Quagliarulo ve lo metto... per iscritto
Quagliarulo se ne va. Ricordatelo Pamela
Pamela
Pamela.
Son Nicola Quagliarulo
me ne vado a fare... un viaggio
partirò ma tornerò.

Tanti ridevano, Ferri piangeva. Aveva fatto vibrare il «partirò ma tornerò»


e aveva chinato la testa, tornando in platea: Lavinia era partita per non
tornare più, così doveva aver pensato, così pensavano tutti, ma lo
spettacolo, come nella tradizione, non si fermava. Altri numeri di varietà e
altre parole degli amici scorrevano velocissimi. Si succedevano uno dopo
l’altro, anche se non c’era regia, e Loris sciorinava all’amico carabiniere
qualche informazione a proposito di chi parlava, cantava o ballava dal
palco: «Quello è un famoso negro».
«Ma se sembra albino...»
«Negro, nel senso che il suo lavoro era nero, oscuro. Ha scritto lui alcuni
grandi copioni che sono stati firmati da nomi celebri, ed è sempre stato
pagato pochissimo. Per me è un masochista assoluto: la sera della prima si
andava a sedere nell’ultima fila. Le battute più belle erano sue, e le
aspettava giustamente con trepidazione. Ma se il pubblico applaudiva e
rideva, lui invece di gloriarsi soffriva, perché i soldi li avrebbero fatti altri.
Se la platea fischiava, invece di soffrire, godeva, anche se il giorno dopo gli
autori che figuravano in cartellone l’avrebbero crocifisso: "Sei capace solo
di compulsare schifezze". Uno così complesso avrebbe dovuto tentare la
strada dei romanzi, invece, che vuoi, è stato fregato dalle luci della notte e
da quella signora lì, che sta salendo ora.»
Sulle scalette del palco dondolavano due donne, non più giovani e dalle
forme felliniane. Arrivarono ai microfoni e cominciarono a cantare,
rimandandosi le poche strofe delle canzoni che ai loro tempi creavano
agitazione tra le file dei giovani, che, dopo aver atteso pazienti nel
"tenebrone" dei posti in piedi, avanzavano nei corridoi delle poltrone per
osservare a distanza ravvicinata le loro star.
«Cia dongo o non cia dongo questa bella bumbuniera?» domandava la
prima, la donna del "negro".
«Me la dai la tua pansé» incalzava la seconda.
Il numero non c’entrava nulla con Lavinia, con il suo ricordo, ma come
giudicare chi comunque voleva dire qualcosa?
Una signora scollata e biondissima andò a baciare Loris sul collo: era
Renée Tancredi, e l’anarchico, nonostante lei fosse presente, raccontò a
Binda: «Da giovani siamo stati insieme per un po’. Lei era più anzianotta,
ma poco, ed era davvero splendida».
«Era, brutto scemo?» ribatté la donna e gli girò le spalle, fingendosi offesa.
Loris proseguì a bassa voce: «Quando nel dopoguerra la mossa era proibita
per ordine prefettizio, aveva inventato un sostituto ancora più sexy. Fingeva
che si spezzasse una spallina del reggiseno e in extremis, ma a volte non ci
riusciva proprio, afferrava la coppa, mentre a un metro da lei i fan entusiasti
mugolavano. Fin quando arrivò, molto più giovane di lei, Marisa Maresca,
con le sue gambe altissime, che inventò il puntino per coprirsi».
«Quella me la ricordo anch’io, quando uscì coperta da sole tre teste di
volpe, e poi ho conosciuto el Luis Brandolin dell’albergo Tonale, che le
portava in camera il Campari quando lei faceva il bagno nel latte, per
schiarire e nutrire la pelle...»
«Era molto intelligente, e poi impalmò il conte Agusta. La mia Renée
invece è una innamorata dell’amore, ed è sposata con Ermes Balestra, un
ladro cardiopatico. Tante volte ha dovuto provvedere lei al grano per
mantenerlo in galera e far studiare i figli.»
La cerimonia, che era stata l’antitesi di ogni cerimonia cui avesse mai
partecipato, stava finendo. Tante volte Binda s’era fatto un’idea del morto
osservandone il funerale: se c’era gente, com’era vestita, se piangeva, se
stringeva le mani alla famiglia, tanti erano gli indizi per capire quanta
stima, quanto affetto, e anche quanto denaro più o meno facile girasse
intorno alla vittima di un omicidio. In quel rito laico si capiva soprattutto
che Lav era stata rispettata, nel suo ambiente. Erano in tanti a compiangerla.
Il "negro" prese la parola per ultimo, per recitare quella che spacciò come
una sua poesia, e il violinista pizzicò il suo strumento e, dal palco, fece un
cenno.
«La passerella» gridarono dal pubblico alcuni uomini. «Come se ci fosse
Lavinia...»
S’erano messi d’accordo, per sdrammatizzare sino alla fine le esequie
teatrali. Alcune signore non si fecero pregare troppo per salire e, come un
tempo, passarono sul palco, agitando le mani, ancheggiando, mostrando la
loro bellezza di donne in perfetta salute: anziane e sorridenti. La chiusura
del funerale fu una canzone, la canzone preferita di Lavinia: Tu si ‘na cosa
grande.
C’era un tavolo con quaicoss de bev, molti bagnarono appena le labbra e
andarono via, tra baci e abbracci. Binda notò anche Roberto Brivio, uno dei
quattro Gufi, il cantamacabro. A lui quel quartetto di cabarettisti era
piaciuto moltissimo, era andato a vederlo sei o sette volte, anche con
Rachele, quand’erano appena sposati. C’erano Brivio, Lino Patruno detto
cantamusico, Nanni Svampa il cantastorie e Gianni Magni il cantamimo,
tutti vestiti di nero, con occhiali scuri, e il loro tormentone era una frase
che, un giorno, gli aveva ripetuto anche un truffatore di banche sotto
interrogatorio: «Non so, non ho visto, non c’ero e, se c’ero, dormivo».
Si sentivano di sottofondo le parole della bella canzone napoletana:

Me ne moro accussì, guardanti a te...


Ah dillo ‘na vota sola
che pure tu stai tremmanno,
dillo ca me vuò bene
comm’io, comm’io, comm’io voglio bene a te.
Tu si ‘na cosa grande pe’ me,
‘na cosa ca tu stessa non saie...

Erano strofe che forse spiegavano molto meglio di tante parole la


timidezza dell’unica soubrette solitaria della storia dell’avanspettacolo,
pensava Binda. Non era andato sulla scena del delitto, in via Lomazzo, e
non ne sentiva la mancanza. Forse, come succedeva ai comici, alle
soubrette, alle ballerine di fila, era arrivato anche per lui, esperto
maresciallo, il momento di uscire dalla scena.
Si sentì toccare la spalla. Era Loris che, sempre più stralunato e sofferente,
nonostante si sforzasse di apparire tranquillo, gli portava il violinista che sul
palco aveva accompagnato la maggior parte delle performance. Era stato
uno degli ultimi del loro ambiente a vedere Lavinia. Dal magiaro, Buda
Badacsony, che chiamavano Bada-Bada, venne a sapere innanzi tutto che
aveva lavorato con il grande Totò. Tutti i presenti al Narvalo d’Oro
dicevano «grande», per definire Totò. L’ungherese con il naso a carciofo era
stato il suo primo violino nelle serate d’improvvisazione, quando a fine
spettacolo il comico napoletano pizzicava lo strumento e poi, come se
scattasse un congegno misterioso, si muoveva come un automa. Sempre di
più, sempre di più, e mentre Totò continuava a muoversi, bisognava
andargli dietro con l’orchestra, ora con i tamburi, ora con gli archi, ora le
trombe.
Anche Bada-Bada, come gli altri, non era però utile alle indagini e non
immaginava alcuna ragione per l’omicidio di Lavinia Marbella: «L’ho vista
lunedì scorso, per caso, fare la spesa dal furmagiat. Era tranquilla e affabile,
la stessa bella persona di quarant’anni fa, quando abbiamo lavorato tutt’e
due con Macario. L’ho sempre considerata una a posto, una che sapeva
girare alla larga dalle stupidaggini più ovvie. Nel teatro non sono mai
mancate ragazze sbandate, scappate di casa, ma non lei, che pure era figlia
di NN».
«Di NN per modo di dire» puntualizzò una "piumista", intervenendo nella
conversazione. Era secca, alta, con capelli da strega, la bocca sottile e
crudele, specialista nell’assemblaggio di slip e corone con penne di fagiano,
ed era moglie di un sarto di scena. Ottenuto il silenzio svelò: «Sua madre a
Milano era stata abbastanza famosa tra le due guerre, sia per il fisico sia per
la voce...». Scosse la testa, con rimpianto: «Da soubrettina spiritosa
dell’avanspettacolo doveva anche recitare, e il suo pezzo forte era la parte
di una giornalaia che strillava i titoli dei quotidiani. C’era il fascismo, per
un nonnulla si finiva anni e anni al confino, ma nell’avanspettacolo
qualcosa si poteva ancora dire. Lei sa chi era von Ribbentropp?» chiese a
Binda, il quale a sua volta domandò: «Rudolph o Joachim, l’ss o il ministro
degli Esteri?».
«Tutto merito mio e dei libri di storia che gli ho regalato» scherzò Loris.
La piumista continuò: «La madre di Lavinia, dal palco dell’Alcione,
fingeva di essere una giornalaia di via Santa Margherita, dove stavano i
crucchi, e gridava: “Arriva a Milano il ministro von Ribbentrop. A Milano
von Ribbentrop. A Milan Ribbentrop. A Milan roben tropp, roben tropp, ah
se roben tropp a Milan...”. I tedeschi non capivano niente, i fascisti ridevano
anche loro se erano in borghese, ma se erano in divisa lei saltava il numero.
Un’altra delle sue battute era recitare lo stradario di Milano. Diceva una
strada, poi un’altra, poi "via Bruno Mussolini, pilota", e poi "via Ancalù",
cioè via anche lui, il duce. Il pubblico ghignava. Insomma, Lavinia, che era
cresciuta con una così, sapeva badare a se stessa. Suo padre, secondo le
voci del camerino, era un industriale che amava la bella vita e che fu
ammazzato mentre scappava in Svizzera con soldi e gioielli...».
Binda lasciò che i dialoghi si perdessero dietro le storie e chiese: «Ma c’è
qualcuno che ce l’aveva con lei per qualche ragione?».
«Che io sappia, e io so molto, nessuno. Sarei stupita, e moltissimo, se
fosse qualcuno del nostro ambiente ad averla uccisa. E uccisa così, poi, è
impossibile» rispose la piumista, mentre suo marito e il violinista
annuivano. Chiamò a gran voce Ettore Ferri, il comico che aveva cantato la
canzone di Quagliarulo, e la Renée Tancredi, l’ex amica intima di Loris, che
camminava coprendosi con le mani la profonda scollatura.
«La conoscevano bene, chieda anche a loro» incitò la piumista.
A Binda sembrava di aver già visto Ferri, ma non ricordava dove: un tipo
vestito così non era facile da scordare. Si sentì raccontare che lui, Renée e
Lavinia, da giovani, erano stati inseparabili e tra la fine degli anni cinquanta
e il ‘63 avevano fatto spesso compagnia insieme, fino a quando il prefetto di
Ancona aveva chiuso un loro spettacolo con le ballerine travestite da suore,
e da allora s’erano un po’ persi di vista.
«Va bene, va bene, ma a me interessa il presente» li bloccò Binda. «Lei
non vi ha mai parlato di qualcuno o qualcosa che l’aveva colpita
negativamente? O avete notato qualcosa di strano? Anche un’impressione
basta.»
«Mi ha stupito non vedere Sangalli. Del nostro giro è l’unico che manca»
disse il sarto.
«L’impresario Vito Sangalli» aggiunse il violinista magiaro «un uomo
ricchissimo, diventato ancor più ricco con il teatro. Sulle tende aveva fatto
ricamare in oro le sue sigle.»
« È sempre stato un uomo avido. Una carogna sul lavoro e nella vita
privata, ma non un assassino, o un violento» aggiunse Renée Tancredi,
l’unica che il maresciallo si obbligava a fissare negli occhi, per impedire
allo sguardo di cadere nel piacevole décolleté.
«Pare però sia diventato un po’ più povero, adesso. Ma sempre ben messo,
rispetto alla nostra media» concluse Ettore Ferri.
«Ma, secondo voi, una visita a questo Sangalli può essere utile?» insistette
Binda.
«Andare a trovarlo le può essere utile» rispose Renée Tancredi «anche
perché anni fa voleva dare alle stampe una storia dell’avanspettacolo
italiano visto, per così dire, dal buco della serratura dei camerini. Ha
conservato di tutto, cartoline, manifesti, articoli di stampa, registrazioni,
dischi. Una vita da collezionista. Ed è un pozzo di scienza.»
«Io» aggiunse la piumista, come se avesse riflettuto molto «andrei anche a
trovare il Perego, intendo Paolo Perego, e Vincenza Trezzi. Il primo era un
ballerino, ha avuto dei guai con la legge, roba da poco, contrabbando, ma
chissà... È stato per un po’ con Lavinia, alla fine degli anni più belli, e qui
sarebbe dovuto venire. La Vincenzina invece ce l’ha sempre avuta a morte
con lei, forse per invidia, ed è da un po’ che non si sa nulla...»
Binda si sentì osservato. Era un giovane dall’aria pulita, che girava per il
teatro da un po’, soffermandosi accanto a qualche gruppo, o rintanandosi da
solo in qualche angolo. Immaginò fosse il figlio, un po’ divertito e un po’
imbarazzato, di qualcuna di quelle matrone che tornavano ragazze facendo
la mossa. Invece, il giovane gli si avvicinò con un cauto sorriso.
«Mi faccia vedere i suoi documenti, sono un poliziotto», disse, mostrando
il tesserino.
«Questa è bella: lei viene da me a colpo sicuro. Ma sa chi sono io, agente
Simone Logiudice?» chiese Binda, restituendogli il tesserino e mostrandogli
il proprio.
L’agente rise. Un sorriso franco, che colpì favorevolmente il vecchio
investigatore.
«Lei era amico della vittima?» si sentì chiedere. «Non precisamente.
Conosco alcune persone che la conoscevano. Come mai è venuto diritto da
me?» «Così, a naso, mi sembrava uno con cui poter parlare... non è che mi
occupi spesso di indagini. Ho fatto una cosa stupida, vero?»
Non poteva condividere con uno sconosciuto le sue sensazioni. Qualcosa
l aveva spinto a parlare con lui e non con altri. L’uomo anziano lo osservava

benevolo.
«Ti posso dare del tu, visto che sei un ragazzo? Io non dovrei lavorare a
questo caso, ma è probabile che finirò per farlo, perché me l’ha chiesto un
amico. Ma tu, come mai sei qui?»
«Sono stato io a beccarli, i ragazzi dell’auto. Anche se avevano il
portafoglio della donna non credo che c’entrino con l’omicidio. Li vogliono
tenere in carcere, anche se con l’aiuto della Scientifica stiamo seguendo
un’altra pista segretissima. L’assassino potrebbe essere ancora in libertà, e
io vorrei cercare di fare qualcosa.»
A Binda venne il batticuore, ma si calmò subito. No, non potevano
avercela con il Loris, doveva essere un altro. «Chi è questo sospettato?»
chiese.
«Mi deve promettere di non dire nulla finché non capiamo meglio, ma
abbiamo eseguito alcune comparazioni balistiche e il proiettile che ha
ucciso la signora Marbella assomiglia ad altri esplosi nel 1959. L’assassino
che ha colpito allora, sarebbe tornato a colpire adesso.»
«Be’, se c’è già una pista sono contento comunque. Non ho mai amato la
concorrenza tra polizia e carabinieri. Che altro puoi dirmi?»
«Che questo qua, se è lui, ha dimostrato di avere i nervi d’acciaio, o forse
di essere pazzo. Giudichi lei: ha sequestrato la donna mentre saliva in casa,
di notte, e l’ha tenuta segregata in un appartamento vuoto, che è riuscito ad
aprire scassinando lucchetto e serratura senza che si vedessero segni di
effrazione. È molto probabile che dopo averla uccisa non sia scappato dal
portone, perché una porta in basso s’era aperta subito, ma sia tornato sui
suoi passi, nascondendosi in quell’appartamento. Lì ha atteso la fine dei
nostri sopralluoghi, poiché sono state trovate alcune cicche di Nazionali
senza filtro e una bottiglia di vino vuota. E lei che cosa intende fare?»
«Vorrei andare ad ascoltare qualche vecchio amico di Lavinia. Perché non
vieni con me... mi fai da autista e da aiuto... o hai i turni?»
Finirono a tavola in sedici, e quando lesse, tra gli antipasti, "Tiepido di
carciofi alle erbe con scaloppe di fois gras", Binda pensò sarebbe stato
meglio uscire da quel ristorante. Invece il risotto al taleggio e al radicchio
trevisano era ottimo, così come l’orata in salmoriglio al cartoccio. Tra una
portata e l’altra, Binda recuperò gli indirizzi di Paolo Perego, Vincenza
Trezzi e Vito Sangalli: il ballerino ex fidanzato di Lavinia, la soubrette sua
rivale e l’impresario di tutti i presenti al funerale.

Rachele aveva appena finito di rassettare la cucina. Il figlio se n’era già


andato a letto. Dopo aver trascorso il pomeriggio al centro sociale era
tornato un po’ in tilt, chissà perché, e le aveva detto di voler leggere
L’autobiografia di Malcolm X. Mah. Il marito era in giro insieme
all’anarchico... che strana amicizia. E a lei spuntò, nel silenzio della casa, un
sorriso: ma sì, era la sera giusta, e per prenderlo in giro per le sue indagini
su Calvi avrebbe preparato un "dolce da riciclaggio", cioè la torta de latt.
C’erano varie ricette per quella leccornia brianzola: qualcuno preferiva
mettere a bagno nel latte solo il pane raffermo, qualcun altro anche i mille
rimasugli di golosità, amaretti, biscottini, cacao. Lei non aveva dubbi: sì,
tutti gli ingredienti andavano a bagno, ma con qualche differenza. Il pane
raffermo doveva inzupparsi tutta la notte, coperto, e il resto lo avrebbe
aggiunto il mattino, poco prima dell’impasto. Aveva tutto in casa? Per un
litro di latte occorrevano 300 grammi di pane secco, 200 di biscotti, 250 di
amaretti. Poi due uova, due etti di zucchero, una tavoletta di cioccolato
fondente sminuzzata, un cucchiaio di cacao amaro, uvetta passa, una
bustina di vanillina... Andò a controllare: sì, la vanillina c’era, meno male.
Dopo il bagno notturno del pane, di mattino avrebbe tritato, impastato e
amalgamato gli ingredienti sino a ottenere un composto morbido, e infine
l’avrebbe messo in forno per un’ora a 180 gradi, con un po’ di pinoli
aggiunti all’ultimo istante. Ecco, i pinoli mancavano, ma ne avrebbe fatto a
meno: aveva un po’ di noci, sarebbero andate bene lo stesso. La sua
mamma la chiamava la "torta del Michelass", perché era facile da preparare,
e l’arte del Michelass è mangià, bev e andà a spass.
Lasciò sul tavolo della cucina la marmitta con il pane e il latte e guardò

l orologio a muro: suo marito non era ancora tornato e lei si sentiva
stanchissima. E un po’ triste. Aveva un pensiero fisso: le sue analisi, aveva
detto il medico, non erano buone. Era possibile che avesse un brutto male.
Che fare? Non voleva dirlo subito al marito, era così preoccupato in quel
periodo. Era forse giusto parlarne al figlio, che era così distante nella sua
ricerca di indipendenza? O avrebbe dovuto tenerselo per sé ancora un po’,
iniziare i controlli da sola? Se Pietro l’avesse saputo, ci sarebbe rimasto
male, malissimo: erano abituati a dirsele, le cose. Ma anche lui stava
diventando anziano. I colleghi lo consideravano un punto di riferimento e
non un rimbecillito, questo si capiva, ma era tanto affaticato, povero cristo,
ne aveva viste davvero troppe in quegli anni alla Omicidi.
Un conto è leggere i giornali che raccontano di assassini e fattacci, un
conto è vederli di persona. Le era rimasto impresso un discorso che il
marito le aveva fatto, pochi anni prima, a proposito di un bambino ucciso
dalla madre. Era la giovane figlia, non sposata, di un facoltoso
commerciante, e nonostante avesse tante possibilità di aiuto in famiglia, un
pomeriggio che il figlio piangeva non ce l’aveva fatta più. L’aveva preso e
buttato nel Lambro e poi aveva finto un rapimento. Delle indagini s’era
occupato lui, aveva fatto ripetere la storia alla giovane donna per sei, sette
volte, e ogni volta c’era qualcosa che lo convinceva sempre meno, dettagli,
modalità, e così, all’improvviso, le aveva detto: «Signorina, se è stata lei,
parli. Non mi faccia tenere fuori cento persone tutta la notte per cercare i
fantasmi, me li faccia usare per trovare il corpo di Federico».
La donna aveva chinato la testa, e non c’era stato bisogno di dire molto.
All’alba, in un’ansa del fiume, il piccolo era stato trovato: l’acqua l’aveva
pulito, sembrava l’angelo di un quadro. Vestito bene, le scarpine allacciate.
La madre, che l’aveva dovuto riconoscere all’obitorio, non aveva versato
una lacrima. Prima di entrare nel manicomio giudiziario di Castiglione delle
Stiviere aveva detto soltanto: «La voce dei bimbi uccisi non sparisce più.
Ogni giorno e ogni notte lo sento che piange».
Forse anche i volti di chi non c’è più s’imprimono nella memoria di chi li
ha visti nell’attimo estremo, o di chi ha cercato di svelare cosa sia accaduto
negli istanti che hanno preceduto la fine. Se quella mamma sosteneva di
sentire il pianto del figlio ucciso, anche Pietro era sicuro che non avrebbe
mai scordato il volto di quel piccolo, così bello, così sereno. Non era
gonfio: il bambino non era morto per annegamento, ma per il colpo di
freddo a contatto con l’acqua limacciosa. Quando gliene aveva parlato, suo
marito aveva lasciato che gli occhi si riempissero di lacrime e non le aveva
asciugate.
E il suo volto, si chiese Rachele, come sarebbe cambiato? La malattia le
avrebbe segnato le occhiaie, il cortisone gliel’avrebbe gonfiato, o si sarebbe
indebolita fino al punto di non alzarsi più dal letto, com’era successo a sua
cugina Adelaide? Troppe domande, troppo girarsi nel letto, e lui non c’era
ancora... va be’, aveva detto che faceva tardi. Essere sposata con un
carabiniere non è bello perché sai che, se non torna, c’è una possibilità che
non torni mai più: quanti funerali di colleghi c’erano stati, chi ucciso dai
terroristi, chi nelle sparatorie con i rapinatori di banche, e un paio s’erano
anche ammazzati. Piano piano, il velo di sonno le scese sugli occhi, e si
stava addormentando quando sentì girare la chiave. "Te ringrazi Signor" le
venne da dire.
Pietro, tornando a casa, si muoveva sempre senza accendere la luce, per
non disturbare. Lo sentì togliersi le scarpe, cercare le pantofole, andare in
cucina e...
Un rumore rimbombò nella notte, la luce si accese, lei balzò giù dal letto,
sicura di cos’era successo.
«Mi spiace Rachele, ma proprio sul tavolo dovevi lasciare la marmitta con
il latte?»
Le venne da piangere, provò a dire qualcosa, ma non ci riuscì. Cominciò a
singhiozzare, sempre più forte. Anche il figlio Umberto arrivò in cucina, gli
occhi già pronti al rimprovero duro che solo i figli sanno fare ai genitori, i
capelli da rasta spettinati in modo spaventoso, e si chinò sulla madre.
Rachele piangeva. Il figlio tentava di calmarla, Pietro puliva. «Mamma, dai,
prendersela così per il latte versato, non sei mica un proverbio.»
«Ma certo, ne farai una più buona» aggiunse Binda, strizzando lo straccio
nel lavandino.
"Sì, la farò, ma quanto tempo mi resta, quanto tempo ancora le mie mani
accarezzeranno la faccia di mio figlio dove il tempo non ha lasciato i segni,
quante volte ancora bacerò la faccia di mio marito che è invecchiata
insieme alla mia, quante volte, quante volte?" voleva dire Rachele, ma
continuò a piangere senza parole e senza parole andò in bagno, a prendersi
un calmante.
A letto, sentì il respiro del marito. La stava fissando nel buio.
«Peder, l’è nient, son on poo stracca.»
«Lo vedo, te l’ho detto di farti vedere da un medico. Non sarà niente, sono
stanco anch’io. Per fortuna siamo a un passo dalle ferie. Ce ne andiamo al
paese, vedrai che staremo meglio.»
Al pensiero di vedere tutte le facce dell’infanzia, dell’adolescenza, dei
parenti, Rachele si agitò. «Non potremmo andare al mare?»
«Ma se non ci siamo mai...»
«Per una volta, Peder, facciamo una settimana di ferie al mare, dài,
accontentami. A Riccione, o a Rimini. Sette giorni, via.»
«Va bene» disse lui e l’abbracciò, indeciso su cosa fare: tenerla stretta,
nonostante la notte non fosse proprio fresca, o baciarla e ribaciarla.
Nonostante i tanti anni insieme, cosa davvero volesse certe volte la moglie
non riusciva a comprenderlo: era difficile capire le donne in genere, la sua
in particolare. La tenne stretta, e le appoggiò la testa nell’incavo del collo,
come facevano da fidanzati, tante vite prima.
Quattro

«Dobbiamo sbrigarci prima delle due, quando ho appuntamento con un


commercialista-notaio in pausa pranzo, tra via Meravigli e via delle Orsole»
brontolò Binda con Logiudice, indicandogli le strade. Per sembrare più
giovane, il sottufficiale aveva indossato una Lacoste celestina; per dare
l’idea di maggiore maturità, l’agente scelto era in giacca scura, camicia
beige e cravatta marrone. Entrambi si sentivano un po’ fuori posto, ma
andava bene lo stesso.
Cominciarono dall’indirizzo più lontano dal centro. Vincenzina Trezzi
abitava in via Dolomiti, zona del Naviglio della Martesana: la strada
passava sotto il ponte di piazza Piccoli Martiri, intitolata ai bambini di una
scuola del quartiere che era stata bombardata dagli americani durante la
guerra. Logiudice era un pugliese di Trani, amava il mare e il pesce crudo.
Cravatta al vento, osservava dal finestrino le centinaia di case operaie, basse
e ben tenute, e il sole che si rifletteva nello stretto canale. «Milano non è
tutta brutta, allora. Questa periferia non mi dispiace» disse.
«Milano non è una brutta città, è una città che è stata ricostruita più volte e
da cui hanno storicamente girato alla larga esteti e fancazzisti. Qui anche
Leonardo, che era Leonardo, l’hanno chiamato per sistemare i Navigli e
renderli navigabili. Il Cenacolo l’avrà dipinto di nascosto, rubando il tempo
tra una chiusa e un disegno di macchine belliche. Se vuoi ti faccio da
cicerone in una visita guidata lungo le strade di questa città che non è mai
riuscita a diventare antica, perché è sempre stata rifatta secondo le necessità
del momento. Adesso no, perché abbiamo fretta.»
«Non per niente siamo a Milano. Qui correte sempre, come formiche
prima del temporale.»
Il carabiniere suonò il citofono. Rispose una voce femminile, con accento
straniero. Non c’era l’ascensore e i due investigatori affrontarono a piedi le
sei rampe. Li attendeva una giovane donna corpulenta, certamente
sudamericana. Li fece entrare in un appartamento con un lungo corridoio. In
fondo a destra c’era un salotto rettangolare, dove, come un’apparizione,
dietro un tavolo fratino sedeva Vincenza Trezzi.
Era truccata: una riga nera al posto delle sopracciglia, una sfumatura
d’ombretto blu sulle palpebre, le unghie lucide e curate. Si era anche
pettinata: un’onda bionda scendeva dietro l’orecchio sinistro, mettendo in
risalto una piccola stella d’oro e brillanti. L’effetto non era dei più
entusiasmanti: anche l’abito celeste sarebbe stato meglio a una donna più
giovane, ma almeno profumava di bucato. Tra le punte dell’indice e del
medio teneva una sigaretta accesa.
Li fissava senza parlare mentre annunciavano il motivo della visita. Per
capire, sembrava aver capito: aveva annuito, poi serrato le labbra turgide in
un’espressione di rammarico e aveva continuato ad aspirare la sigaretta.
La sudamericana era intervenuta. «La senora sta così da anni, a volte parla,
a volte sta zitta. Secondo i giorni. Non è malata, non ha niente, dicono i
medici. Io non so, non comprendo bene.»
Binda insistette: «Ma in questi giorni è uscita?».
«Uscita?» Sorrise come se avesse a che fare con un deficiente. E con un
gesto brusco, sollevò la gonna di Vincenza Trezzi, mostrando le protesi
sotto entrambe le ginocchia. «Un tram, quindici anni fa.»
Mentre Binda e Logiudice si alzarono per congedarsi, un po’ interdetti, la
cameriera con aria di ambigua complicità continuava a trattenerli. «Pare
volesse uccidersi, ma non è stata capace. Mesi all’ospedale, poi l’hanno
mandata via.» Alla fine del corridoio, sentirono un urlo soffocato. La
sudamericana nemmeno si girò, l’urlo soffocato si trasformò in un lamento:
Vincenza Trezzi forse piangeva per se stessa, forse per quell’amica nemica
uccisa sulle scale. I due non tornarono indietro a chiederglielo. Sul
pianerottolo, il maresciallo si toccò il fianco, diede una pacca al poliziotto e
scese le scale.

Con Logiudice era stato facile intendersi: in quei primi controlli sarebbe
comparso ufficialmente solo il giovane; il più anziano sarebbe rimasto
dietro le quinte. Se qualcuno li avesse beccati, avrebbero inventato qualcosa
sul momento. Binda, in cuor suo, sapeva che al generale Casiraghi avrebbe
potuto chiedere qualsiasi copertura: una mano lava l’altra e, se lui stava
lavorando per il Comando generale, le alte sfere avrebbero avuto un occhio
di riguardo per il suo tempo speso per l’amico Loris. Anche perché non
stava facendo nulla di male.
Meno traumatica la visita successiva, nella casa di ringhiera dove abitava
Paolo Perego. Aveva aperto in pantaloncini corti e canottiera nera dalla
quale spuntavano ciuffi di peli grigi. Calvo, con riccioli ai lati della testa,
l’aria stravolta di chi faceva tardi la notte, non s’era mostrato entusiasta di
ricevere la visita di un poliziotto e di un carabiniere e aveva opposto una
serie di difficoltà: «Siete sicuri di voler parlare con me? Ma proprio con
me? Perché di Perego ce ne sono tanti».
Alla fine si rassegnò, pregò qualcuno che stava ancora a letto ed emetteva
curiosi rantoli, di preparare un caffè «con la moka grande» e si accomodò in
salotto, nel senso che si acciambellò tra alcuni cuscini di seta, probabile
ricordo di viaggi orientali, e ignorò gli altri due. Binda trovò posto su una
sedia Tonet, piuttosto scomoda. Logiudice restò in piedi. Stava per sedersi
su una poltrona con tre o quattro coperte al posto del cuscino, ma il padrone
di casa lo bloccò: «No, quello è il posto di Gianni, sono rogne se lo trova
occupato».
«Eh no, allora teniamolo tranquillo. Già l’abbiamo svegliato» disse il
poliziotto con un sorrisino, mentre Binda cominciava: «Senta, signor
Perego, lei che cosa può dirci di Lavinia Marbella?».
«Che mi dispiace che sia stata uccisa.»
«Va bene. E dopo?» chiese ancora Binda, guardandosi in giro.
In quel salotto arredato come un bazar c’erano varie fotografie di Perego.
Nella più grande compariva in tuta nera, da mimo, con un cappello bianco
tra le mani, e accanto a lui c’era una luccicante Lauretta Masiero in abito
scollatissimo. In un’altra, un Perego stralunato correva davanti a un toro,
probabilmente in una saga spagnola: l’espressione di panico stampata in
faccia e i muscoli del collo tesi come corde di violino erano esilaranti.
Paolo Perego sorrise prima di rispondere. «Lavinia era una bella persona,
ma proprio bella, rara, una persona buona e forse non tanto felice.»
A quel punto, il sottufficiale si schiarì platealmente la voce. «Secondo lei,
perché siamo qui? Per sprecare tempo con le sue frasi fatte?»
«No, no. Be’, Lavinia aveva anche un difetto caratteriale, nel senso che
non si affezionava mai a nessuno. Poteva vivere facendo a meno di tutti, ma
così, secondo me, aveva dimenticato anche se stessa e i suoi desideri, i suoi
sogni. Mai perdere i sogni.»
I due investigatori si guardarono perplessi. Binda incrociò le braccia che
spuntavano dalla Lacoste, e stava per ripartire all’attacco di Perego quando
sentì trafficare in cucina: doveva essere Gianni, lo scorbutico proprietario
della poltrona con le quattro coperte, pensò il maresciallo, e si sorprese
quando invece apparve sulla soglia una donna diafana, con profondi occhi
bistrati e un grosso cane che le saltellava accanto. «Cuccia» strillò
all’animale, che abbassò le orecchie e si mosse verso gli ospiti. Anche la
signora magra, ma sinuosa nei movimenti, iniziò la sua passerella attraverso
il salotto. Portava i caffè con eleganza, ma con malagrazia sgridò il suo
uomo: «Paolo, sveglia, questi due vogliono sapere se sei stato tu ad
ammazzarla o se puoi sapere chi è stato, l’hai capita?...». Poi, rivolta al
cane: «Gianni, stattene a cuccia, o ti spezzo le corna» minacciò mentre il
terranova saltava addosso al padrone, leccandogli la faccia e, soddisfatto, si
andava a sistemare con maestà sulla sua poltrona.
L’ex ballerino non sapeva più se guardare il cane, gli "sbirri", o la moglie.
«Io implicato nell’omicidio di Lavinia?» sussurrò. «Ma, dico, siamo
pazzi?» Si alzò gesticolando e gli ci volle qualche minuto per riconquistare
la calma. Non vedeva quella donna da anni, aggiunse balbettando. E no,
non aveva partecipato ai funerali perché di pomeriggio andava sempre in un
bar biliardo, quello vicino al teatro Smeraldo, come faceva quando era una
giovane speranza del balletto che viveva per il palcoscenico.
«Il palcoscenico e le sottane» disse la donna con un sorriso seducente a
beneficio degli ospiti.
Perego chinò la testa, trattenendo un sospiro macho e soddisfatto, anche
se, per la verità, era convinto che se avessero fatto una gara tra le sottane
che aveva sollevato lui e i pantaloni che aveva sfilato lei, avrebbe
tragicamente perso.
Erano le undici passate quando i due investigatori approdarono in corso
Venezia. L’indirizzo di Sangalli corrispondeva a uno dei palazzi più
signorili affacciati sulla strada ampia e aristocratica. Vennero fermati dal
custode, un uomo dai tratti fini e con occhiali da professore, il quale,
appena seppe da chi andavano, storse la bocca e li annunciò al citofono un
po’ bruscamente, come se il compito gli pesasse.
Salirono al primo piano e più che un maggiordomo, l’uomo che aprì la
porta dell’appartamento di Vito Sangalli sembrava un pugile. O forse anche
uno zingaro. Il volto era cotto dal sole e il naso rincagnato era in bella
evidenza. Superava il metro e ottanta, più corpulento che massiccio, con
spalle larghe e quadrate. La giacca nera non riusciva a chiudersi né sui
pettorali sporgenti, né sullo stomaco di chi aveva smesso di allenarsi tutti i
giorni. Anche le maniche lasciavano scoperto un polso grosso come una
mazza da base-ball, al quale erano attaccate le mani nervose, con le vene in
rilievo. Dimostrava una cinquantina d’anni, e lo sguardo obliquo che scoccò
ai due visitatori emanava l’atavico livore dell’uomo della strada contro gli
uomini in divisa.
«Il padrone vi aspetta» annunciò, chiudendo la pesante porta dietro a
Binda e Logiudice. Se Sangalli era stato un ricchissimo impresario, un vero
nababbo del teatro, ora non sembrava navigare più in buone acque.
L’appartamento aveva bisogno di un’immediata ristrutturazione, oltre che di
una robusta pulita da cima a fondo. Batuffoli di polvere negli angoli, tende
luride, il parquet sconnesso.
"Rachele qui dentro impazzirebbe" pensò Binda. La casa dove viveva in
affitto era così diversa, molto più piccola, ma sempre in ordine. Senza
quelle chiazze gialle di umido sul soffitto e sulle pareti, senza quell’unto
intorno alle maniglie di ottone.
Ripensò alla moglie e al suo pianto per la marmitta di latte versato.
Almeno per un giorno sarebbe dovuto tornare presto, farla star meglio,
magari proporle di andare al cinema. Chissà, una gita nel fine settimana.
Doveva inventarsi qualcosa per alleviarle la tristezza.
Il maggiordomo, brontolando in quella che poteva essere una lingua slava,
non li precedette, ma li seguì, come se li sorvegliasse, lungo un corridoio
sul quale si affacciavano le porte, leggermente scardinate e spesso
socchiuse, di alcune stanze. «Andate sempre dritti, sino all’ultima a destra»
li avvertì.
Qualche sala era spoglia, ma in una Binda notò un grande divano coperto
da un lenzuolo grigio sporco, dal quale spuntavano i piedi di legno laccato
verdino con sfumature dorate, e la parte terminale del bracciolo scolpito con
la forma di un ramo sul quale si posa un uccello. Era appassionato di mobili
antichi: quel salottino poteva valere anche una cinquantina di milioni, se
rimesso a posto. Sulla parete color rosa antico, non era appeso nemmeno un
quadro. Li aveva forse venduti tutti?
Prima di raggiungere l’ultima porta, l’uomo in nero decise di sorpassarli.
Bussò due volte, poi aprì ed entrò per primo e ancora una volta, ordinò:
«Sempre dritti».
Chissà perché aveva bussato, visto che li indirizzava verso un altro
corridoio, molto più corto del primo, che finiva davanti a una lastra di
elegante vetro piombato: un’ombra alla scrivania era visibile dall’esterno, e
quell’ombra non poteva che essere il padrone della grande casa malandata.
«Permesso» ripeté l’uomo in nero, sorpassandoli ancora e aprendo la porta
dopo aver bussato leggermente.
Vito Sangalli, l’impresario che era stato potente e temuto, era un settantenne
macilento, pallido, avvolto in una bella vestaglia color ruggine, lisa sui
gomiti e con una macchia d’uovo sul bavero. Aveva sulla bocca
un’espressione saccente, le labbra carnose sbuffavano disprezzo sul resto
del mondo. Chissà da giovane, quanto poteva essere stato antipatico. Si
manteneva eretto grazie a due stampelle. Quando Binda e Logiudice si
avvicinarono, si accorsero dell’occhio nero e del labbro spaccato. Anche
Sangalli notò il loro sguardo e con un po’ d’imbarazzo si sentì in dovere di
dire: «Sono caduto l’altro ieri... non sto più in piedi tanto facilmente.
Sapete, l’età avanza». Di fronte al silenzio degli altri, continuò: «Le ossa, i
muscoli, tutto mi si sta rivoltando contro».
«Purtroppo, padrone, la stessa vecchiaia è una malattia, diceva mio padre»
aggiunse l’uomo in nero, deferente.
«Sì, è così, e se non ci fosse il mio amico Urban... Kurban, volevo dire
Kurban... ad aiutarmi, forse non potrei nemmeno uscire di casa.» Chinò la
testa, con un’infinita pena.
Dopo qualche convenevole, Sangalli affrontò la questione: «Siete venuti
per la povera Lavinia, dite pure». La sua voce era un malriuscito tentativo
di resistenza umana al dolore che doveva causargli, parlando, la crosta
secca sul labbro spaccato. Binda ascoltava il dialogo tra il giovane
poliziotto e l’impresario osservando un tavolino sistemato accanto alla
scrivania grande e nera, completamente sgombra, a parte una lampada
moderna, e scrostata negli angoli.
Era un tavolino Luigi xv, ricco di guarnizioni di bronzo e di intarsi
cromatici. Forse poteva essere addirittura di Jeans Francois Oeben, un
ebanista famosissimo, di cui aveva letto in uno dei libri d’antiquariato
acquistati sulle bancarelle intorno al Castello Sforzesco. Le gambe a voluta
del prezioso tavolino calzavano scarpette di bronzo e il piano rettangolare
era molto probabilmente apribile, anche se all’esterno non si vedeva la
cerniera. L’intarsio del lastrone raffigurava due scalinate e una fontana a
valva di conchiglia: un lavoro perfetto, perfetta anche la scelta dei diversi
legni impiegati, apprezzò il maresciallo.
«Anch’io sono stupito» stava rispondendo Sangalli. «Poi, nel nostro
ambiente, si è molto elastici, nemmeno per questioni di corna ci si è mai
ammazzati. Suicidi, be’, purtroppo ne sono capitati...»
«Però, ci scusi» lo interruppe Logiudice «è vero che lei ha un archivio
della gente di spettacolo?»
«Ne vado fiero. Con me, non faccio per vantarmi, se ne andrà un’epoca.
Sono l’ultimo dei mohicani dell’avanspettacolo e vorrei lasciare quei
documenti alla biblioteca Braidense, quando morirò.»
«E non è che ci possiamo dare un’occhiata?»
L’impresario guardò l’uomo in nero, ma Kurban sembrava distratto.
Allora, arrossendo, lo chiamò: «Kurban, è in ordine l’archivio?».
«È come lei l’ha lasciato» rispose il maggiordomo, con un leggero
tremolio nella voce, incerto su cosa dire.
Sangalli finse di non essere troppo contrariato. «Va bene, accompagnaci.»
«No» intervenne Binda, con un sorriso «mi scusi, ma non abbiamo un gran
tempo da perdere. Mentre io do un’occhiata all’archivio, l’agente Logiudice
verbalizza le sue dichiarazioni. Non metterò in disordine, si fidi... sono un
esperto di schedari.»
Questa volta toccò al maresciallo seguire l’uomo, ne notò le spalle
possenti ma un po’ stanche, il collo scolpito come una colonna. Era forse
troppo lento per essere un pugile, ma che avesse un passato da atleta era
sicuro. Kurban ebbe un attimo di esitazione, in fondo al corridoio.
«Da quanto tempo è a servizio in questa casa?» domandò Binda
all’improvviso, con il tono dell’impiccione che aveva notato l’incertezza.
«Conosco il padrone da trent’anni, da quando volle mettere sotto contratto
la mia famiglia: siamo musicisti sinti, originari della Croazia, e mi hanno
adottato da bambino. Spesso abbiamo lavorato per lui, io in particolare.»
Non gli aveva risposto. Ma non aveva senso chiedere altri particolari.
Entrarono in una sala rettangolare, con una grande scaffalatura centrale e,
lungo le pareti, cassettiere e armadi di varie fogge e misure.
Era proprio vero che Sangalli aveva accumulato di tutto, dalle locandine ai
libretti d’opera, dalle foto di scena agli autografi. Era qualcosa di più di un
archivio, di più di una collezione. Un’intera epoca, quasi definitivamente
scomparsa, aveva lasciato che Sangalli ne raccogliesse le ultime tracce.
Sotto vetro compariva un articolo con la descrizione di un fattaccio che
scosse il mondo dello spettacolo nel febbraio 1953: la Masiero aveva
abbandonato Renato Rascel a Milano "perché nella luminosa il suo nome
non figurava accanto...". Il titolo era famoso, Attanasio, cavallo vanesio, e
anche i genitori di Binda erano partiti da Canzo in treno per andare a vedere
lo spettacolo.
C’erano la locandina dell’operina di Arnaldo Fraccaroli Siamo tutti
milanesi, e anche una Ninetta del Verzee con l’autografo di Dina Galli. Foto
di bellezze come Dorian Gray in Passo doppio, dove recitava la parte di una
specie di Mata Hari. In mezzo a quelle immagini, compariva una stramba e
vecchia foto in bianco e nero del Duomo di Milano preso dall’alto, con una
frase a stampatello: SU 3400, UNA LA PRESCELTA, MA SENZA LA
FIGURA, NON SAPRAI COSA FARE. Poi i ritratti di Elena Giusti,
Carmen De Lirio e Lucy d’Albert, di cui gli avevano parlato una volta gli
amici a Como: era la figlia della ballerina Lydia Johnson e la moglie del
calciatore Attila Sallustro. Dove si trovava Wanda Osiris, che certo non
poteva mancare? C’era, e accanto a lei tale Anna Menzio. Più grande delle
loro foto, quella di Milly, con una didascalia "Opera da tre soldi, 1954".
"Quelli sì che erano bei tempi per il teatro" si disse
Individuò una cartellina intestata a Lavinia Marbella nel cassetto delle M:
c’erano testi, ritagli, una posa di scena. Era stata bellissima, con
pantaloncini di lamé gonfi sui fianchi e un reggiseno carico di pietre
preziose, ma appariva un po’ rigida, come se non fosse a suo agio davanti al
ritrattista. Strano atteggiamento, per una che era abituata a mostrarsi in
pubblico. Binda si sedette a uno scrittoio e consultò la sua scheda, con fogli,
ritagli, locandine. Una carriera senza infamia e senza lode, qualche buona
critica, più spesso però il suo nome era citato in mezzo agli altri della
compagnia. Avanspettacolo, rivista, due dischi dai titoli un po’ artificiosi,
Lav nel senso di love e Lav-day, un po’ di radio. In un’intervista si
raccontava in questo modo: "Il successo nel lavoro è poter fare ciò che si
sognava, e quindi io ho successo. Ma il successo è esso stesso un lavoro, nel
senso che se vuoi soldi, popolarità, risalto, devi faticare per ottenerli. Io non
sono mai stata disposta a lavorare fuori dal palcoscenico. Preferisco vivere,
leggere buoni libri, sentire come sta cambiando la musica d’oggi".
"Allora, anch’io sono un maresciallo di successo" pensò Binda.
Quando Kurban parve averne abbastanza e, come preso da un’urgenza
improrogabile, uscì a precipizio dalla stanza, l’investigatore si alzò
altrettanto velocemente.
Sangalli non aveva gradito la sua visita nell’archivio. Binda ne era certo,
dal modo in cui aveva reagito. Forse era solo geloso delle sue cose. Oppure,
dopo aver saputo dell’omicidio di Lavinia, era andato a rivedere qualche
carta. Poteva aver cercato qualche indicazione. Era questa l’ipotesi da
verificare.
Binda doveva quindi cercare qualcosa che fosse fuori posto.
Forse un cassetto, forse un foglio.
Percorse con lo sguardo gli scaffali. Notò in un angolo un fascicolo
intestato a Giulia Lazzarini, lo aprì e lo lesse velocemente. Nulla. Sotto un
pupazzo di Velia Mantegazza, alcuni fogli su Nuto Navarrini e le sue
operette e una biografia di Remigio Paone, "il più grande impresario privato
del xx secolo". Su uno scaffale c’era un’altra biografia, quella di Delia
Scala, che si chiamava in realtà Odette Bedogni, era milanese della zona di
piazzale Libia, e aveva debuttato nel ‘54 in Giove in doppiopetto con Carlo
Dapporto. Il musicista Gorni Kramer l’aveva ribattezzata "simpatica" ed era
bastata una canzone per farle spiccare il volo.
Spese dieci minuti buoni tra storie che poco c’entravano con l’omicidio di
Lavinia, e dovette concentrarsi per non farsi sommergere dai ricordi dei
motivetti o dalle immagini di quell’epoca in cui si vedevano le prime
Lambrette e i giovani sciamavano in gruppo. Lesse, controllò, e alla fine
l’occhio allenato ed esperto del detective notò due cartelline rosa in mezzo
ad altre cartelline gialle.
Prese la prima.
C’era un foglio di carta lucida che sembrava strappato da un’enciclopedia
per ragazzi, Il nostro mondo illustrato. Si leggeva un elenco di diamanti,
con tanto di fotografie e descrizioni. Li scorse velocemente: Kho-i-noor
(montagna di luce), Gran Mogol, Occhio di Poseidone o Occhio del Mare,
Hope Blue, Occhio dell’Idolo, Taylor-Burton... Chissà, magari il ricco
impresario da giovane avrebbe voluto comprare qualcuna di quelle pietre
preziose, che adesso avrebbe venduto, visto com’era ridotta la casa.
Avrebbe memorizzato quei nomi alla fine, si disse, afferrando la seconda
cartella rosa, dalla quale spuntava un ritaglio di giornale, con la cronaca di
una rapina e di una donna uccisa dalla polizia.

Finisce nel sangue la rapina di via Farini


MUORE BONNIE, SCAPPA CLYDE
La polizia risponde al fuoco dei malviventi

era il titolaccio sparato su nove colonne.


La foto mostrava una ragazza bionda, con i lunghi capelli alla Veronica
Lake: "L’aspirante soubrette ed ex reginetta di bellezza Cipriana Bontempi,
detta Orsola Orsini, ai tempi di Sposa Holly ma bacia Wood". La data era il
dicembre 1959.
La stessa data di cui gli aveva parlato l’agente Logiudice.
"La ballerina era l’amante di Florio e allora il sospettato della polizia è
proprio lui" pensò. Altroché se aveva sentito parlare di Florio e della
batteria di cui faceva parte, i "Cavallini". Erano banditi tosti, di quelli
abituati a guardare in faccia i nemici e regolare i conti in mezzo alla strada,
con le armi in pugno. Era alla prima colonna dell’articolo sulla vecchia
rapina quando avvertì dei passi nel corridoio. Non voleva essere scoperto
mentre frugava. Lasciò le cartelline come le aveva trovate e corse a sedersi,
complimentandosi con se stesso quando vide entrare, barcollando sulle
stampelle, Sangalli accompagnato dall’incravattato Logiudice.
L’impresario, notandolo con la cartella di Lavinia aperta davanti, sembrò
rincuorato. S’informò con cortesia, ma anche distrattamente, delle ricerche
e, mormorando frasi come: «Ci ho messo una vita a raccogliere questo...»,
si trascinò, con sforzi non da poco, verso lo scompartimento dove c’erano le
due cartelline fuori posto. Le guardò, sorrise: nessuno le aveva toccate, così
ne dedusse.
Appariva molto più rilassato rispetto a quando era entrato nell’archivio, e
Binda, osservando la sua reazione, decise di non tentare alcun azzardo.
Doveva prima saperne di più. Doveva farsi dire dal giovane agente cosa
sapevano in questura di quella rapina del lontano 1959, di quei nomi, di
quelle storie. E anche se avevano raccolto qualcosa su Sangalli. Tanto, lui, il
finto ingenuo in vestaglia, che chissà perché taceva le possibili informazioni
utili alle indagini, non sarebbe andato lontano.
Sangalli parve riscuotersi dai suoi pensieri. «Trasferiamoci in salotto, qui
c’è odore di polvere. Ci porti qualcosa da bere, Kurban? Che cosa gradite?
Forse mi è rimasta dell’acqua frizzante.»

Bevuto d’un fiato un bicchiere d’acqua con ghiaccio e limone, Binda si


accarezzò il fianco sinistro, sulla cicatrice, e l’agente lo bloccò. «Cos’ha?
Non si sente bene?» chiese premuroso.
Lui scosse la testa. «Ho una vecchia ferita... mi è rimasto un riflesso, un
tic. A volte sento il bisogno di sapere che c’è, e che ci sono anch’io.» Rise e
alzandosi si rivolse al padrone di casa: «Scusi, posso toccare?». Senza
attendere il permesso, sollevò il ripiano del tavolino d’antiquariato che
aveva notato entrando. Era apribile, come aveva pensato: dentro c’era un
unico vano, con una decina di immaginette sparse, tra cui parecchi santini.
Lesse i nomi: san Ciro, san Medico, san Feliciano, sant’Annibale Di
Francia, sant’Efisio. Uno, su un santino doppio, lo riconobbe senza leggere
la didascalia: era sant’Antonio Abate, e dalle sue parti non c’era stalla che
non avesse sulla porta quell’immagine. Non era raffigurato con qualche
animale, o con il solito proverbio popolare "sant’Antonio dà la barba bianca,
fare catà quel che manca", e cioè un marito, una moglie, un lavoro migliore,
ma era insieme a un santo con tanto di armatura, un certo san Bovo.
Potevano essere pezzi di una collezione, pensò, ma quello che gli
interessava era il contenitore. «È un Oeben, vero?» chiese al padrone di
casa.
«Purtroppo no. È della sua scuola, però... Eh, tutto potevo immaginare
meno un poliziotto esperto di mobili. È uno degli ultimi oggetti cari che mi
sono rimasti dai bei tempi e me lo tengo da conto.»
«Gli uomini possono essere come questo tavolino: eleganti, di grande
valore, perfetti, ma zac, li osservi meglio e scopri che nascondono un
segreto.»
«E voi, in genere, lo scoprite?»
«Più o meno. E come un buon restauratore fa rivivere gli antichi oggetti,
così un buon investigatore lucida gli indizi sino ad arrivare a far risplendere
la verità.»
«Lei è un poeta delle indagini» disse Sangalli, con gli occhi che restavano
cupi e dolenti, mentre la bocca accennava un sorriso.
«E lei un bravo ascoltatore. Scommetto che mi ha capito proprio bene»
ribatté Binda, fissandolo, e accorgendosi che anche il premuroso Kurban
non aveva perso una sillaba. Che tipo di rapporto legava quei due? si chiese
Binda.

Un folto gruppo di turisti giapponesi sciamava lungo il marciapiede di


corso Venezia: erano sbucati dalla metropolitana di Palestro e andavano
verso un negozio di lampade e paralumi artigianali. La galleria Salvini
risplendeva nel sole dell’estate e l’ufficio postale era lustro come una banca.
Sul marciapiede un maggiordomo, in livrea verde, camminava impettito
tornando dal fruttivendolo con una borsa piena di pomodori.
Una donna di servizio, con la crestina in testa, lo guardava dalla finestra,
facendogli ciao con la mano.
«Non andiamo alla macchina. Vieni con me, voglio farti vedere una cosa»
propose a Logiudice, portandolo in via Cappuccini.
«Ma perché?»
«Taci e seguimi.» E poco prima di arrivare a un alto cancello nero,
suggerì: «Adesso chiudi gli occhi e ascolta. Tra un po’ i clacson e i motori
non li sentirai più, sentirai altro».
Un cinguettio di uccelli, forse un tubare di tortore, stupì il poliziotto, che
spalancò gli occhi e, tra le sbarre, vide due fenicotteri rosa accanto a un
pavone. Alle spalle dello strano gruppo da documentario, s’intuiva una
fontana ottocentesca.
«Allora, Milano è sempre brutta, no?» chiese Binda. «Ma chi ci abitava,
un Savoia?» Logiudice guardava a bocca aperta.
«A Milano i nobili fanno la vita di tutti, lavorano, aprono negozi, quelli
che si mettono in mostra sono i re di denari. Qui ci abitano gli Invernizzi,
quelli della "Mucca Carolina"».
«Che bontà» canticchiò il giovane agente, come nella pubblicità.
«Già, e possiedono anche una villa meravigliosa, con i daini, a
Trenzanesio, sulla strada paullese. Sei anni fa li ho conosciuti, marito e
moglie. La signora a Montecarlo aveva rischiato di essere rapita... Era un
brutto periodo, c’era il boom dei sequestri, per paura dell’Anonima intere
famiglie avevano lasciato l’Italia che avevano contribuito a creare. Sono
accadute vicende terribili, che non si possono dimenticare.»
«Se ne occupava lei?»
«Qualche volta ho dato una mano nelle perquisizioni o per tenere i telefoni
dei boss sotto controllo, ma quello non era il mio ambiente. È un discorso
lungo, devi sapere che c’era persino uno dei rapitori, Renato Vallanzasca...»
«Il bel René della Comacina.»
«Stava a Lambrate. Be’, quello lì diceva al sequestrato: "Vuoi un
trattamento di serie A, B o C? C vuol dire che stai legato al letto e mangi
male. B che ti puoi alzare e mangiare come al ristorante. Trattamento A, se
vuoi ti portiamo la coca e le entraîneuse. Cosa scegli?". O, per lo meno, così
la racconta lui...».
«E la signora Invernizzi venne presa?»
«La scampò, fortunatamente. Fu salvata da una guardia del corpo mentre
tentavano di portarla via e da allora lui e lei, Romeo ed Enrica mi pare che
si chiamino, vivono giustamente un po’ appartati. Gente simpatica, mi erano
sembrati. La famiglia di lui era più o meno delle mie parti. Di Pasturo,
sopra Lecco. Facevano i mandriani, poi si sistemarono a Pozzuolo
Martesana, in pianura, e hanno conquistato il mondo con la robiola. Adesso
devo scappare... volevo solo mostrarti che Milano non è solo quella che
battiamo noi.»
Era soddisfatto del piccolo giro, ma ancora di più del suo piccolo lavoro di
spionaggio a casa di Sangalli, e volle stupire il poliziotto: «A proposito, ho
capito a quale uomo misterioso state pensando. A un rapinatore».
«Sì.»
«A Florio.»
«Sì» confermò meravigliato Logiudice.
«Bene» sospirò Binda. Era certo che Loris non c’entrasse, ma a volte
saperlo al cento percento era più rassicurante.
«Ma se fino a ieri lei era all’oscuro di tutto...»
«Non ci crederai, ma l’ho appreso poco fa, a casa Sangalli.» Gli raccontò
di aver frugato in archivio, di aver trovato la cartellina. Gli chiese se poteva
rintracciare i vecchi poliziotti che avevano lavorato al caso. «Insomma fai il
possibile, perché in quel mondo dell’avanspettacolo, così perbene come ce
l’hanno decantato, almeno una ballerina che ha partecipato a una rapina
finita nel sangue c’è stata. Se ci vediamo oggi pomeriggio, ce la fai a dirmi
qualcosa?»
«Spero di sì, anzi sì. Ma c’è Italia-Camerun, non le interessa?»
«Il calcio m’interessa solo quando non ho da fare cose più importanti»
disse e scappò via, all’appuntamento con il primo dei professionisti della
Borsa selezionati dall’elenco del generale Casiraghi.
Logiudice con aria imbarazzata piegava e ripiegava alcuni fogli di carta
battuti a macchina. Si era sistemato, insieme al maresciallo, in un bar vicino
a via Fatebenefratelli che i colleghi avevano ribattezzato "Il loculo" e, i più
anglofoni, "Funeral House". Era stato un onesto bar specializzato in panini
caldi e caffè ben miscelati, ma da qualche mese il proprietario aveva
"rinnovato il look", come aveva stabilito l’architetto. Erano spariti la vetrina
con in mostra salami, pancetta, prosciutto, e il bancone metallico. Al loro
posto sorgevano colonnine trasparenti con dentro scodelle di rucola e mais e
un pianale di marmo nero. Anche alle pareti, che un tempo venivano
imbiancate una volta ogni due anni, erano state appese mensole di marmo,
con composizioni floreali. La musica e i notiziari della radiolina erano stati
sostituiti da uno stereo con compilation di arpa celtica. I poliziotti per mesi
avevano sfottuto il proprietario, ma alla fine alcuni s’erano rassegnati, pochi
avevano cambiato bar, molti erano rimasti perché quel nuovo clima aveva
fatto confluire nel "Loculo" le giovani clienti di una vicina palestra. «Gente
centrale» aveva specificato il barista, il quale era riuscito a rifare il
maquillage a tutto, meno che al suo linguaggio.
Binda contemplava quel mondo marmoreo così simile al baretto dove
aveva mangiato con l’elegante e narcisista cinquantenne esperto di azioni e
alta finanza. Non gli aveva detto altro che le solite frasi fatte sul "banchiere
di Dio". Niente di utile davvero. Troppi blabla, ma il generale Casiraghi
l’aveva messo in conto: «Batti e ribatti, un’informazione giusta arriverà».
Beveva una spremuta mista, arancio e pompelmo, mentre Logiudice a
fatica conteneva l’insoddisfazione: «Per le nostre visite di stamattina ho
avuto rogne con il maresciallo Cocilovo».
«E che vuole? Lo stai aiutando nelle indagini.., io nemmeno compaio
ufficialmente... l’indagine è e resta vostra.»
«Lo so, gliel’ho detto, ma se l’è presa lo stesso. Mi ha chiesto se sono
matto ad aver parlato con lei e chi mi ha autorizzato a indagare. Che c’è la
Mobile per questo, e anche se lui è alla Buoncostume ne capisce di più di
un "misero sbirretto da volante", così mi ha chiamato. Quindi sono fuori da
tutto, mi spiace.»
«Ma dài?»
«Ha ricordato che io ho la divisa blu, non color cachi. Per lui il futuro è
con i carabinieri in campagna e i poliziotti in città, senza spreco di risorse.»
«Sì, aspetta e spera. La concorrenza è l’anima dell’investigazione, almeno
nei casi che non vuole scandagliare nessuno... Allora mi sento autorizzato a
lavorare insieme ai miei, vediamo alla fine chi trova il colpevole, se io o
Cocilovo.»
«Non mi metta nei guai.»
«No, anzi, polemiche a parte, cosa vuoi fare? A meno che tu non voglia
creare un caso, ti conviene ubbidire.»
«Lo so, è così. Però, mi ascolti, nel frattempo ho lavorato. Ci sono quattro
ragazzi in galera, non possiamo dimenticarceli perché le altre piste non
portano a nulla. Un sovrintendente mi ha passato un po’ di vecchi rapporti.
Dunque l’uomo della ballerina morta nell’assalto a una banca è come
sappiamo Elmo Florio...»
«Sì, della banda dei Cavallini» continuò Binda, toccandosi la ferita.
«Ho letto» puntualizzò l’agente, toccandosi il fianco a sua volta «che li
chiamavano anche la banda dei Diavoli freddi.»
«Una palla dei giornalisti di nera. Io non li ho conosciuti, lavoravo da poco
a Milano, ma c’era un maresciallo, Dipangrazio... praticamente ha fondato
lui il Nucleo investigativo quand’era ancora in via Valpretrosa... Anzi, devo
vedere se è ancora vivo. Credo di sì perché non manca mai alla festa
dell’Arma. Be’, lo farò rintracciare: la memoria storica di chi ha conosciuto
i più grossi delinquenti di Milano, e quindi d’Italia, può esserci utile. Non
faceva altro che parlare di Florio, del suo amico Pippo Palestra e soprattutto
di Asio Bugatti, il loro capo, che è morto durante un’evasione, ed era uno
con un grande cervello, il genio assoluto del gruppo rapinatori dal grilletto
facile, con più d’un omicidio sulla coscienza.»
«Rapinatori bergamaschi? Mai sentito...»
«Secondo un luogo comune che circola tra noi investigatori, i migliori
rapinatori di banche sono catanesi e sardi, pugliesi per i tir e i depositi dei
grossisti, ma in realtà i bergamaschi e i bresciani non sono secondi a
nessuno, e quelli della Valcavallina erano tremendi. La loro valle è sempre
stata un luogo di passaggio, dai lanzichenecchi alle SS, e si sono formate nei
secoli famiglie un po’ pericolose. Ma veniamo a noi... Questo Florio, se non
ricordo male, lo presero in Svizzera dopo una ventina di rapine tra il Ticino
e Lucerna.»
«Sì, stava in una banda che i giornalisti locali definivano "gli incappucciati
dell’Alfa Rossa", perché molte rapine le facevano andando all’assalto con
una Duemila truccata, sempre la stessa, tutti con i passamontagna in testa e
sparando in aria lungo la strada della fuga. Alla fine però mi risulta solo il
ferimento di un impiegato.»
«Florio dovrebbe essere ancora lì, in galera. In Svizzera sono severi.»
«E invece è uscito da due mesi, perciò gli stiamo dietro. Ha ottenuto di
scontare la fine della condanna in Italia, era stato mandato a Novara.»
«E da lì Florio sarebbe venuto a Milano?» chiese Binda.
«Pare di sì. Queste sono le sue ultime fotografie, scattate alla questura di
Alessandria, perché dopo che è uscito dal carcere è stato fermato in un bar
intestato alla moglie di un pregiudicato per sequestro di persona ed
estorsione.»
«Ha mantenuto le buone abitudini» mormorò Binda, mentre studiava la
foto. Capelli neri, lineamenti regolari, barba rasata, Florio poteva sembrare
un tranquillo uomo di mezza età come tanti altri. Ma gli occhi neri, a
mandorla, fissavano l’obiettivo con calcolato disprezzo. Una piccola
cicatrice sullo zigomo sinistro e un’altra più vistosa sul mento, ricordi di un
incidente stradale, contribuivano a renderlo riconoscibile.
«Senti, Simo, nel dicembre 1959 avviene la rapina in cui muore la sua
amante ballerina di fila. Hai potuto vedere com’è andata?»
«In quel periodo» rispose Logiudice «Milano... lo dico stando ai rapporti,
ma lei lo saprà meglio di me... era in grande allarme.»
«Nemmeno io ero a Milano. Mi avevano mandato in una stazione dalle
parti di Genova, ma di quei fatti se n’è sempre molto parlato in ogni ufficio
dove sono stato. L’anno prima le famose tute blu avevano realizzato in via
Osoppo la rapina del secolo, come l’avevano chiamata. Il primo assalto a un
furgone portavalori studiato con precisione militare, con un uomo armato di
mitra, anche se scarico, a bloccare i curiosi, e uno, con un martello, che
spacca il finestrino e frega le guardie giurate. Poco dopo era stato realizzato
il colpo grosso alla gioielleria di via Montenapoleone, per cui era stata
accusata una banda di marsigliesi, comandata da un ex fascista francese,
Claude Grimaldi, ma non si erano mai trovate prove sui colpevoli.»
«Infatti, anche perché non s’è più trovato l’Occhio del Mare, un diamante
che...»
«Cosa cosa?» domandò Binda, ricordandosi immediatamente della
cartellina rosa trovata nell’archivio in corso Venezia. Quell’impresario
teatrale perché gli aveva taciuto l’informazione?
«Sì, nel colpo grosso in via Montenapo c’era quel diamante, chiamato così
o anche Occhio di Poseidone per le tonalità sul giallo e sul blu... l’ho letto
nella denuncia di rapina. E non è stato più trovato.»
Un boato si propagò in via Fatebenefratelli, ma a differenza dei tanti
episodi del passato, erano le urla di gioia a risuonare. «Ha segnato l’Italia, e
vaiii» gridò il barista.
Non si riusciva più a parlare, tra clacson e strepiti dalle finestre, ma durò
poco.
«Se gh’è, l’hanno annullato?» chiese Binda.
«No, ha pareggiato il Camerun. Quest’Italia di Bearzot fa pena, ho
scommesso che ci buttano fuori ai quarti.»
Ma al maresciallo non interessava la partita, si sentiva galvanizzato dalle
notizie che gli portava Logiudice. Gli sembrava di ricordare qualcosa, a
proposito del diamante, doveva controllare. Comunque sia, potevano esserci
oppure no legami tra l’omicidio e la rapina, tra il ‘59 e l’82, tra una
soubrette in pensione e un gangster appena uscito dal carcere. Ma dal buio
delle prime ore filtrava qualche fiammella a indicare il possibile sentiero da
prendere.
«Ah, tu mi porti fortuna, Logiudice. Sai per caso se il diamante risulta
ancora sparito? A volte i gioielli, o i quadri, o certe anfore antiche
ricompaiono nei modi più strani.»
«Mai trovato. Un collega se l’è fatto confermare dal ministero. E
comunque anche del resto della refurtiva non s’è mai saputo nulla.»
«Brav fioeu, sei un ragazzo curioso, fai le cose giuste, t’impegni. Ti
prometto che se cavo qualcosa, tu entri a pieno titolo nel rapporto come un
bravo detective, e poi voglio vedere il tuo maresciallo Cocilovo... Della
rapina in via Farini cosa puoi dirmi?»
«Allora, erano le 9.13 quando in via Farini viene notata una Fiat 600, con a
bordo Cipriana Bontempi, nome all’anagrafe dell’artista di varietà Orsola
Orsini, ferma davanti a una filiale bancaria. Gli agenti dell’Antirapine erano
appostati, ma non sono nemmeno scesi dalla loro auto che vengono
raggiunti da una serie di colpi di pistola, per fortuna senza conseguenze,
esplosi da un uomo appena uscito dalla banca. I proiettili potrebbero essere
stati sparati dalla stessa pistola usata contro Lavinia, la Scientifica ancora
non ha terminato le comparazioni... La 600 fugge verso il cimitero
Monumentale, sul ponte di via Farini viene riagganciata e gli agenti
rispondono al fuoco. La donna al volante muore, colpita alla spina dorsale
da un proiettile entrato dal fanalino posteriore sinistro. L’altro scappa con la
refurtiva, circa sette milioni, ma sull’auto ci sono le sue impronte. È Florio,
viene ricercato, ma lo si rintraccerà anni dopo, in Svizzera...»
«E questo lo sappiamo.»
«Che storia! Cipriana Bontempi, detta Orsola Orsini, ballerina di fila e
forse rapinatrice per amore, era morta ammazzata, e lui aveva tagliato la
corda, diventando sempre più cattivo... Lei pensa? Può essere stato questo
rapinatore ad ammazzare Marbella Lavinia? E perché?»
«Calma, calma, stiamo con i piedi per terra. Per ora è solo un’ipotesi.
Bisogna faticare e controllare. A proposito, a quale civico di via
Montenapoleone è stata fatta la rapina?»

Pochi mesi prima era entrato in una boutique di quella via famosa e
importante, fingendo di essere un cliente, ed era stato trattato con mala
grazia dalle due bionde signorine, che si davano le arie, manco fossero le
socie proprietarie, e invece erano le commesse. Gli avevano spiegato che
non avevano molte giacche, non erano lì per vendere, ma per mostrare
pochi capi d’abbigliamento alla clientela. Era rimasto ugualmente davanti
alla meno scostante delle due che, mentre vantava la purezza dei tessuti e
dei tagli sartoriali, occhieggiava con fuggevole disgusto le sue scarpe dalla
pianta larga e la sua camicia celestina. Binda aveva sopportato giusto il
tempo necessario per veder uscire dal negozio di fronte un commercialista
legato alla mafia, che lui stava pedinando da giorni. Più tardi, a mente
fredda, ci aveva riflettuto, chiedendosi: ma quanto sta cambiando Milano?
E che razza di negozi stanno allestendo nel centro? Che senso hanno le
vetrine che mostrano un paio di oggetti e non mettono nemmeno un
cartellino con il prezzo?
Paragonò le sue reazioni di fronte alle commesse di via Montenapoleone
con la crescente e curiosa perplessità che aveva provato osservando i
giganteschi poster di Armani, le fotografie che riprendevano scene
insignificanti in bianco e nero e coprivano un intero muro di via Ponte
Vetero. Non le giudicava immagini adatte a fare pubblicità alle collezioni di
moda, ma a perpetuare una specie di culto della personalità. Aveva però
sbagliato a pensar male. Finalmente aveva compreso: Armani, le commesse
altezzose, le vetrine spoglie e nello stesso tempo ricche, non erano altro che
le tracce di un nuovo culto pagano che si stava diffondendo intorno al
Duomo. Una fede nell’apparenza che da Milano si propagava nel resto del
mondo.
Quelle vie, dove una volta c’erano negozietti, e bar, un po’ più umani
anche se non bellissimi, stavano diventando una chiesa. E, come tutte le
chiese, erano - dovevano essere - sfarzose. Rappresentavano il quadrilatero
d’oro, così avevano chiamato quella porzione di centro che comprendeva
via Montenapoleone, via della Spiga, via Sant’Andrea e via Manzoni, dove
continuavano a passare tram normali, come nel resto della metropoli, e non
carrozze reali trainate da cavalli bianchi. Forse qualcuno di quelli che
avevano trasformato il quadrilatero con passatoie rosse e alberelli
equatoriali prima o poi ci avrebbe pensato.
In quelle strade, Binda veniva sorpassato da stranieri eleganti, da giovani
in blazer nonostante il caldo, da auto lussuose che cercavano parcheggio
accanto alla pasticceria Cova. La gioielleria teatro della famosa rapina era
protetta da un vetro scuro e blindato. Lui stava per suonare, quando la
serratura scattò. Spinse la porta massiccia, lo sforzo gli fece aumentare il
mal di testa che da giorni tornava a visitarlo. Scorse la propria faccia su un
monitor ed entrò in una sala ricca di legni, poltroncine, antichi specchi e
moderne sculture.
Una signora con una crocchia di capelli color pepe e sale, occhiali di
tartaruga e tre giri di perle grandi come nocciole intorno al collo da ex
cigno lo salutò con cortesia, mentre un cinquantenne dal naso sottile e la
mandibola quadrata teneva una mano sotto il bancone, come se da un
momento all’altro potesse estrarre una pistola e fulminarlo.
«Sono un maresciallo dei carabinieri. C’è per favore il signor Capotondi?»
«Sono io» rispose l’uomo, tenendo sempre la mano sotto il bancone e
vigilando sui movimenti dello sconosciuto.
«Se ha tempo e non disturbo, vorrei parlarle della rapina del 1959 e del
diamante scomparso.»
Varie espressioni passarono in pochi istanti sul volto del gioielliere:
indicavano sorpresa, speranza, delusione, rabbia, rassegnazione. Raramente
Binda aveva visto una faccia così mobile, da attore. Alla fine rimase sul
viso di Capotondi solo la speranza. «L’avete trovato, l’Occhio del Mare?
No, l’avrei saputo. Ma forse ci sono altre novità? Qualcuno sa e può
parlare?»
«Vorrei innanzitutto mostrarle una foto. Quest’uomo le ricorda qualcosa?»
L’interpellato osservò la foto segnaletica di Elmo Florio, il rapinatore della
Valcavallina, e scosse la testa. «Erano tutti mascherati con parrucche e
occhiali e sono rimasti dentro meno di quattro minuti.»
« È una storia che avrà riferito molte volte ai miei colleghi, ma
gentilmente mi può raccontare come andò e cosa, a distanza di tempo, le è
rimasta più impressa?»
«Dovevamo allestire una mostra di pietre preziose, e io tenevo quella
pietra, rara e costosa, nella vetrina blindata. Avevo un nuovissimo sistema
d’allarme, sul modello di una banca svizzera. Così complicato che per
accenderlo, testarlo e gestirlo, per settimane avevamo avuto qui la questura,
l’Enel e la Sip, ma sicuro. Sicurissimo, dicevano. E, di giorno, una guardia
giurata sul marciapiede. Mi sentivo tranquillo, c’era anche il mio povero
papà. Tutto normale. Tranne quel venerdì mattina. La guardia giurata non
c’era, ma abbiamo pensato a un leggero ritardo e, certi del sistema
d’allarme, abbiamo aperto lo stesso. Eravamo al lavoro da un quarto d’ora,
quando ha bussato un signore elegante, anziano e muscoloso.»
Un tic nervoso comparve sotto l’occhio destro di Capotondi.
«Gli abbiamo aperto e, senza il minimo sospetto, abbiamo trattato per un
orologio d’oro, che lui ha comprato. Al momento di pagare si è accorto di
non avere il denaro e così ha chiesto il permesso di telefonare al Grand
Hotel et de Milan, dove alloggiava. Ho composto io il numero, prendendolo
da una ricevuta, e gli ho passato la cornetta. Lui ha chiesto se potevano
portargli la sua cassetta-valori dalla concierge e loro hanno detto di sì.
Mentre li aspettavamo, il signore ha chiesto di vedere qualche altro gioiello
così, per ingannare l’attesa... cercava qualche bella pietra. Finché si sono
presentati, con tanto di livrea, due portieri. Ma non appena li abbiamo fatti
entrare, dalla cassetta hanno estratto le pistole. Ho schiacciato il pulsante
del sistema d’allarme e loro hanno riso, prima di picchiare me e papà,
chiuderci nel retro e prendere quello che potevano.»
Il gioielliere parlava con voce calma, monocorde, solo i rapidi tic
rendevano evidente quanto era stato profondo lo choc.
«Con le nostre chiavi hanno sbloccato cassaforte e vetrina blindata»
riprese Capotondi «e se ne sono andati tranquilli, lasciando qui le
parrucche, le divise, i baffi finti... Che avevamo subìto una rapina se ne
sono accorti mezz’ora dopo i baristi dove andavamo a prendere l’aperitivo.
Abbiamo scoperto che la guardia giurata era stata sequestrata a casa sua e
che i contatti del sistema d’allarme erano stati tagliati. Il numero che avevo
fatto corrispondeva alla cabina telefonica di corso Matteotti, davanti alla
libreria Paravia. Sono stati organizzati posti di blocco, perquisizioni, ci
hanno portato foto segnaletiche e addirittura persone sospette, ma non
abbiamo riconosciuto nessuno. Milano è stata bloccata: aeroporto e stazione
controllati, autostrade con il triplo di pattuglie, tutte le case dei pregiudicati
ispezionate, strizzati... come mi ha detto un suo collega della polizia... i
capimafia e i professionisti... Da allora, però, non abbiamo avuto una
notizia positiva che sia stata una. L’assicurazione ha pagato per il furto del
diamante, risarcendo il legittimo proprietario, un miliardario inglese che ha
messo una forte taglia per riavere l’Occhio del Mare e non ha certo bisogno
dei soldi dell’assicurazione. A noi ha dato poco e niente. Ci sono voluti
alcuni anni per risistemarci... ci avevano portato via il meglio del
campionario. E anche la nostra tranquillità. Perché, anche se siamo in pieno
centro, guardi come passo io le giornate...» E tirò fuori da sotto il bancone
una Smith & Wesson.
Era stato chiarissimo nell’esposizione. Lo fu altrettanto nei tentativi
d’informarsi sulle ragioni, a distanza di così tanti anni, della visita di Binda.
Ma il maresciallo lo pregò di non badarci e di non farne parola né con
estranei né con parenti. «Non voglio dirle nulla che possa impensierirla o
confortarla, e lei stesso sia prudente. Nel ‘59 i banditi hanno avuto ottimi
informatori... non so se li abbiano ancora... ma tutto vorrei far sapere, meno
che sto indagando su un tizio... forse legato a questa rapina. Mi promettete,
lei e la signora, di tacere con tutti?»
I due annuirono, ma Capotondi, prima che il maresciallo uscisse, ci tenne
ad aggiungere: «La ricompensa dell’inglese era di duecento milioni per chi
gli forniva notizie utili al ritrovamento del diamante. Adesso la somma sarà
anche maggiore. Io ne aggiungo cinquanta, di milioni, se si trovano i miei
gioielli e l’oro».
«Una bella ricompensa...»
«La pagherei volentieri. Non è mai saltato fuori uno spillo, di quanto è
sparito qui, e non so proprio spiegarmelo. E nemmeno il povero papà se lo
spiegava. Due anni fa, quando è morto per un brutto male, mi chiedeva
ancora se c’erano notizie sulle nostre cose...»
Cinque

I peluche trasparenti non esistono, lo sapeva, eppure ne era circondato. Il


suo ultimo, confuso sogno mattutino era una gigantesca bolla che, bucata da
un ronzio metallico, si frammentava in mille bollicine morbide e pelose, o
così gli sembrava, mentre faticava a sollevare la testa dal cuscino. Il rumore
che l’aveva svegliato gli ricordava i voli radenti delle api nella sua casa
davanti alle Grigne. C’era dunque un insetto metallico che svolazzava e
sbatteva contro le pareti del salotto? Il tonfo moriva in un meccanico clic,
poi il volo del tecnocalabrone riprendeva. Che cosa poteva essere?
Binda mosse le braccia come un sonnambulo, i peluche trasparenti
scomparvero e rimbombò una voce familiare: «Peder, è il nuovo citofono».
E come se gli avesse letto nel pensiero, Rachele aggiunse: «Te see mai a cà
de matinna, non sai nemmeno com’è fatto il citofono. Cià che vado io a
vedere chi è... Avranno di certo sbagliato».
Mancavano pochi minuti alle sette, l’ora solita della sveglia mattutina.
«Dici sempre che devi riposarti» rispose lui, ritrovando l’equilibrio. «Anzi,
ti preparo io la colazione, così mi perdoni per la torta de latt.»
Non gli era bastata una notte di sonno a smaltire la stanchezza accumulata
nei giorni precedenti. Aveva fatto anche in tempo a passare dalla salumeria
Abbiati, in piazza Tricolore. Lì si vendevano i migliori pulaster allo spiedo
di Milano e ne aveva acquistato uno ben cotto, insieme a una vaschetta di
antipasti vari, compreso un po’ di pesce in carpione, e una bottiglia di
grignolino. L’avevano scolata nel corso di una tranquilla serata casalinga, e
dopocena avevano pure sonnecchiato davanti alla televisione. Avevano
chiacchierato di vacanze: forse al mare, va bene, sì, anche sulla Riviera
romagnola dove mai aveva messo piede. Il sorriso era salito più volte agli
occhi chiari della moglie, mentre si infilava la camicia da notte. Avevano
dormito sodo, sino al ronzio.
Ma chi poteva essere a quell’ora di mattina? Per sicurezza, Binda diede
un’occhiata nella stanza di Umberto: il finto ribelle dormiva beato, con un
libro aperto sulla canottiera. Andò a rispondere e sentì la voce della nuova
custode, una bella signora che era arrivata da poco a sostituire il vecchio
portinar, el Renzin, un mantovano che dal venerdì sera al lunedì mattina
non c’era per nessuno, se non per i suoi fiaschi di lambrusco.
«Scusi, maresciallo, sono Alba.»
«Mi dica.»
«C’è qui un tizio, un uomo. Dice che vuole salire, che è un suo amico,
ma...» Il tono di voce evidenziava una notevole incredulità e un filo di
disapprovazione.
«E come si chiama?»
«Morìs, dice.»
«Loris.»
«Sì, sì, giusto: Loris. Allora lo conosce...»
«Sì, gli dica di salire.»
Prima di quel giorno, l’amico non era mai andato a casa sua. Aspettò in
vestaglia sul pianerottolo che l’ascensore salisse e aprì la porta di lucido
metallo a un Loris spettinato, stanco, senza la solita giacca, in jeans e
maglietta verde a girocollo, la faccia tirata. La portinaia non aveva tutti i
torti a diffidare di un uomo con quell’aspetto.
«Cos’è successo? Ti vogliono arrestare?» chiese Binda, cercando di
metterla sulla battuta.
«Ho paura, Pietro. Sta accadendo qualcosa di pesante.»
«Hai detto che hai paura. Di che cosa?»
«Che sia morto un altro amico, l’Ettore Ferri» rispose l’anarchico, e i suoi
lineamenti si deformarono in una smorfia sghemba e disperata. Per uno
come lui, con la sua storia, le sue rapine solitarie, precise, chirurgiche e
senza spargimento di sangue, diventava insopportabile non riuscire a capire
cosa stesse capitando ai suoi amici. Accettò volentieri un caffè dal
maresciallo e cominciò: «Non è più tornato, l’Ettore. Te lo ricordi? Era
quello che aveva cantato la canzone di Quagliarulo al funerale... Ma dopo
essere uscito dal Narvalo d’Oro, non è venuto con noi al ristorante. Diceva
di dover rincasare subito, ma...».
«È scomparso, vuoi dire?»
«Sì, e siamo tutti molto agitati, a cominciare dalla moglie. Stanno in via
Lipari, vicino a piazza Aquileia; devi venirci a parlare, Peder. Magari ti
accorgi di qualcosa che mi sta sfuggendo.»
«Ho un appuntamento alle dieci e non posso mancarlo.»
Loris provò a insistere, a brontolare, ma fu inutile.
«Non posso fare diversamente» disse il maresciallo «ma adesso sistemo la
cosa. Anzi, visto che sei qui, dimmi: secondo te, Sangalli è uno pulito?»
Con uno scatto e serrando la mandibola, l’ex rapinatore chiese con labbra
tremanti di collera: «C’entra Sangalli con la morte di Lavinia?».
«Non credo proprio» mentì Binda.
Loris chinò la testa, fissò con insistenza l’amico che, incerto su come
interpretare quell’atteggiamento, decise di aggiungere un’altra domanda: «E
hai mai sentito parlare di Orsola Orsini, nome d’arte di...?».
«Cipriana Bontempi. Ma Peder, cos’è che non mi stai dicendo?»
«E adesso muchèla!» sbottò l’altro. «Perché rispondi alle mie domande
con altre domande? Non sei in caserma, sei a casa mia. Il caffè che bevi te
l’ho preparato io. E ti ricordo che mi hai chiesto tu di aiutarti... Se sai
qualcosa di questa ragazza, dimmelo, non c’è da sprecare fiato, no?»
La sfuriata sortì l’effetto sperato. «Cipriana, detta Orsola, era della
scuderia Sangalli e se non ricordo male è stata ammazzata dalla polizia nel
‘60, o giù di lì» spiegò Loris e, come se cominciasse a capire qualcosa,

spalancò gli occhi e aggiunse: «La sera prima di morire era stata insieme a
Lavinia al bar accanto allo Smeraldo. Me l’aveva raccontato Lav, dicendo
che era stato terribile bere un camparino con una collega e il giorno dopo
scoprire che era morta durante una rapina in banca. In quella rapina
centrava un durista, un rapinatore della Valcavallina».
«Sì, un certo Florio.»
«Ma allora lo sapevi già... E perché mi hai parlato di Sangalli? Perché
queste domande?»
Il maresciallo non voleva ammettere con se stesso che Loris, con quei suoi
atteggiamenti, stava esagerando, e non poco. O forse era lui che, in quei
giorni, doveva raschiare il fondo del barile delle energie per trovare la
voglia di alzarsi, di lavorare, collegare il cervello, cercare analogie e
discrepanze. Strinse i denti — la forza di volontà era una sua dote — ma
all’amico preferì dire chiaro e tondo che non era tenuto a rispondere. «A
ciascuno il suo compito. Ragioniamo. La prima cosa da fare è mandare
qualcuno a casa di Ferri, e adesso ci andrà un mio giovane collaboratore e
in questo modo ho anche un’ottima scusa per seguire ufficialmente le
indagini che sono in mano alla questura...»
«Pietro, dài, vacci tu.»
«Credimi, è come se fossi io. Del Giambelli mi fido ciecamente. Ha tatto,
educazione, intelligenza. Ha già lavorato a casi di persone scomparse. Lo
considererei il mio erede, se non fosse che è vegetariano. Adesso lo chiamo,
ma intanto» abbassò la voce e lo guardò intensamente «anche tu devi
cominciare a muoverti.»
«Sì, Pietro, dimmi.»
«Vai a trovare quella tua ex... com’è che si chiamava?... quella tutta
scollata.»
«Renée.»
«Renée, giusto. Vai da lei e bada che non le succeda niente. Dammi anche
l’indirizzo. Se era un’amica inseparabile di Ettore e Lavinia, chissà che...»
«Ci avevo già pensato. L’ho chiamata, sta bene e non apre a nessuno
finché non arrivo io. Sa badare a se stessa.»
«Sto più tranquillo, caso mai ci fosse la stessa mano dietro l’omicidio di
Lavinia e la scomparsa di Ferri. Tra l’altro, a me sembrava d’averlo già
visto da qualche parte, quel comico che piangeva così tanto al funerale, ma
non riesco a mettere a fuoco dove...»
«Da Renée ci vado armato? Forse è meglio, che ne dici?»
«Sono domande da fare a un carabiniere?»
«E la storia di Florio e Orsola Orsini?... Dài, Peder, cosa stai ravanando?»

Il vicebrigadiere Dante Giambelli aveva le mani immerse nei crespi


riccioli neri e odiava con tutte le sue forze l’immigrato cileno che aveva
interrogato inutilmente per tutta la notte, senza riuscire a venire a capo di
una storia complicata sulla giovane moglie scomparsa. Mentre l’ascoltava
aveva visto le stelle, l’alba, la luce del primo mattino, e non ne poteva più di
parole inutili, anche perché tutti gli immigrati, dato il suo aspetto, finivano
sempre con l’essere affidati a lui, o a due carabinieri di origine somala, nati
a Roma, che parlavano con l’accento della capitale e nun c’avevano voja de
fa ‘n cazzo.
La voce del suo capo interruppe la quinta ora di un dialogo poco
costruttivo. All’affaticato sottufficiale non sembrava provenire dal telefono,
ma da un altro pianeta. Il tono non ammetteva repliche: Binda gli stava
chiedendo di precipitarsi a casa di un tale. Scomparso. Un probabile
rapimento.
«Ma che c’entriamo noi della Terza? Non avvisiamo l’Antisequestri?»
«Perché oggi tutti mi fanno domande? Ho detto che ci vai tu, e subito»
ordinò dettandogli l’indirizzo.

«Chi è e cosa fa qui? Guardi che stanno arrivando i carabinieri» l’apostrofò


una voce femminile dietro la porta chiusa. Arrivato stanco e sudato in via
Lipari, il Negher Giambelli brontolò a mezza voce e mostrò il suo tesserino
all’occhio magico. Sentì armeggiare, finché la moglie di Ettore Ferri, una
ragazza giovane e somigliante all’Ornella Muti di Romanzo popolare, gli
aprì e lo invitò a entrare, accennando un sorriso cortese, di scusa.
Con la sua faccia da deserto africano e il suo fisico da guerriero saraceno,
da Agramante, come gli avevano detto al liceo classico vedendo un disegno
su un’antologia che citava un canto dell’Orlando Furioso, s’era abituato sia
a quello che chiamava "razzismo automatico", sia allo stupore di chi poi lo
sentiva parlare con l’accento brianzolo.
C’erano le donne come Rachele, la moglie di Binda, o c’apparenza. C’era
chi gli diceva negro con disprezzo, senza sapere che era italiano, benestante
e colto. E poi c’era chi pensava che fosse facile andarci a letto insieme.
C’era davvero di tutto, quando si guardava solo al colore della pelle, e lui,
nel corso degli anni, aveva scelto di far finta di niente e stabilito che non era
il caso di condividere con estranei una sola parola sulla sua infanzia.
La moglie di Ferri, certamente la seconda moglie, dimostrava al massimo
una trentina d’anni, ma poteva averne anche meno. Si chiamava Elena
Morandi, disse, tendendogli finalmente la mano dalla pelle ruvida e secca di
chi badava alle faccende domestiche. Parlando, si girava a guardare in un
angolo del salotto un bambino sui dieci anni che, seduto davanti a un
pianoforte a muro, suonava eccezionalmente bene. Con una simile famiglia,
Ferri non poteva aver mollato gli ormeggi: non c’era il clima casalingo di
uno che se la batte dicendo di uscire a comprare le sigarette. Quello era il
suo mondo, ed era un bel mondo, forse un po’ troppo perfettino, ma
invidiabile, soprattutto se filtrato attraverso gli occhi del giovane e un po’
solitario Giambelli.
«Ettore era andato a un funerale e... Dio mio, era andato a commemorare
una collega, quella uccisa sulle scale. Io non l’ho accompagnato per stare
con il bambino. Ora me ne pento.»
La signora Elena aveva una voce strana, sottile, friabile come vetro. Una
voce che stava spezzandosi, e che turbava nel profondo il vicebrigadiere.
Giambelli avvertiva, anche dopo pochi minuti di conoscenza, che l’interesse
per quella donna non sarebbe mai stato solo professionale, come invece
avrebbe continuato a fingere che fosse.
«Non ha nulla da rimproverarsi, signora» tentò di rincuorarla.
«Vorrei ben vedere» rispose lei, con uno scatto di nervi.
Meglio misurare le parole, si disse Giambelli. Aggiunse qualche frase di
circostanza, prima di tornare, con cautela, alle domande più precise: «Da
quando è uscito, dunque, lei non l’ha più visto né sentito?».
«Esatto. E mai, prima d’ora, era successa una cosa così.»
«Sono qui per ascoltare» la incoraggiò.
«Sette anni senza mai un ritardo. Non mi piace stare a casa da sola,
soprattutto di sera. Non se n’è andato di sua volontà... è impensabile, mi
creda. Se c’è un uomo regolare e affettuoso è lui» disse ma in realtà pensava
a quanto si fossero allontanati, in quell’ultimo periodo, e a una frase del
marito che le parlava di un amico malato: «Quando sei giovane, la vita
t’interessa molto... ma quando sei anziano, capisci che non è più quel
granché che ti sembrava. Se per esempio ti ammali, può venirti in mente
che sia giusto uccidersi per non soffrire». Ricacciò indietro quei pensieri.
Non poteva certo riferirli a quell’estraneo dalla faccia da marocchino, no di
certo. «Non so come fosse prima, quando lavorava in teatro, ma con me era
il classico marito perfetto. È» si corresse subito «il classico marito perfetto,
amorevole, buono, e un gran padre, poi.»
Alla parola "amorevole" il tono di voce s’era abbassato, e lei si torse le
mani. Infine aggiunse un ricordo che le pareva importante: «Forse sarò
stupida, ma mi ha baciato a lungo, prima di uscire, e ha accarezzato anche il
bambino».
Ferri era uscito forse sapendo che rischiava di morire. Ma perché? Perché
non reagire, non chiamare le forze dell’ordine, o un amico?
Giambelli si poneva queste domande mentre annuiva con educazione,
osservando l’appartamento grande, pulito, luminoso. Il bambino indossava
una camicia bianca, da ometto, stirata e senza una piega fuori posto. Più
guardava negli occhi la donna che gli stava parlando, più sperava di
trovarne una così, che fosse come lei, muovesse le mani come lei, e in più si
prendesse cura di lui, dei bambini che avrebbero avuto, della casa. Dopo
una breve convivenza con un’infermiera, era tornato dai genitori, con la
mamma che pensava a tutto. Ma una come l’Elena Morandi l’avrebbe anche
potuta sposare, e far da padre al figlio.
«Preoccupazioni per oscure minacce?» chiese, ma la risposta era
invariabile. Zero. Nessun segno di nervosismo. Nessuna malattia. Nessun
problema finanziario.
«Anche quando è stata uccisa la soubrette ha pianto per il dolore, ha
ricordato com’era, cosa avevano fatto insieme, ma» disse lei «non ha detto
nulla che potesse allarmarmi. I casi, secondo lei, sono collegati?»
«Forse sì e forse no, signora.» Il carabiniere congiunse le mani. «Senta,
magari c’è stata qualche telefonata che gli ha cambiato l’umore?»
«No, no. Ma s’è un po’ arrabbiato perché due volte il telefono ha squillato,
verso le tre o le quattro del mattino, e dall’altra parte non c’era nessuno...
cose che succedono, abbiamo pensato. Non è vero?»
«Quando?»
«Tra venerdì e sabato.»
«Per ora, basta così» concluse Giambelli. Non voleva farla deprimere
troppo, meglio inventarsi qualcosa. Lavinia Marbella era stata ammazzata
proprio in quel momento. L’assassino aveva voluto assicurarsi che Ferri
fosse in casa: questo forse poteva spiegare come mai la soubrette era stata
portata sulle scale. L’esecutore del delitto probabilmente voleva che fosse
lei ad accompagnarlo o a far da esca per Ferri, con una scusa. Che cosa
c’era sotto?
«Signora, le lascio alcuni compiti. Deve controllare se in banca sono
spariti dei soldi, o se suo marito è andato da qualche parente o amico. No,
davvero, non se la prenda, dobbiamo procedere per esclusione. Io verifico
negli ospedali e...»
«Già fatto» annunciò il ragazzino, continuando a suonare.
La mamma fece segno al carabiniere di non rispondere.
«... insomma» riprese Giambelli, abbassando la voce, «in qualsiasi posto,
compreso il dormitorio pubblico di viale Ortles. Suo marito ha un ufficio?»
«No, Ettore lavora in casa. Detto in due parole insegna canto ai cantanti.
Dà lezioni di dizione, di portamento, di respirazione ai cantanti di Sanremo,
o del Cantagiro. Abbiamo sempre gente di spettacolo da noi, anche la
domenica, a volte. E suona l’organo nella parrocchia. Anch’io cantavo...»

Seduto di fronte al "dottor Bellomo", uno dei nominativi della lista di


professionisti e amici dell’Arma stilata dallo staff del generale Casiraghi,
Binda sentiva gli alluci friggergli dentro le scarpe, tanta era la voglia di
alzarsi. Avrebbe voluto precipitarsi in via Lipari, ma non poteva certo
lasciare a metà le laboriose investigazioni sul caso Calvi. Quello era
l’ottavo incontro utile - utile? - alle indagini sull’omicidio del banchiere. In
realtà, durante i primi sette aveva ascoltato tante, troppe chiacchiere su alta
finanza, su nomi eccellenti che nascondevano incredibili doppie vite, sulle
strategie occulte dell’Istituto opere religiose del Vaticano. Gli avevano
parlato dei misteri sbocciati intorno al gruppo terroristico turco dei Lupi
grigi e somministrato dosi d’informazioni internazionali che si vergognava
a mettere per iscritto, tanto sembravano inutili fumisterie. Il disgusto per
alcuni uomini influenti del paese e il senso di smarrimento personale, acuiti
dopo aver visto da vicino il cadavere della Carrocher, la segretaria di Calvi,
non s’erano affatto dissolti.
«Come immagini, collega, quelli sono giri troppo in alto, per chi come me
si occupa della microfilmatura dei documenti di questa banca. Ma qui
dispongono di un ufficio studi formidabile e c’è qualcuno che può sapere.»
Bellomo aveva l’aria furba. Non era dottore, come veniva definito nella
lista di Casiraghi, ma un ex appuntato con la quinta elementare, un
bitorzolo sul naso e le unghie delle mani piuttosto nere. Ebbe un guizzo
negli occhi opachi, magnificandogli «un giovane laureato in economia e
commercio, che tutti chiamano professore. È un tipo genialoide, e se io
garantisco per te, cioè se tu non farai il suo nome, posso convincerlo. Che
ne dici?»
«Che va bene.»
Lo ascoltò scherzare al telefono con un «eccellentissimo professor
Bertolini», spiegargli la situazione, prendere un appuntamento immediato:
«Sai, ognuno ha i suoi lati deboli, anche i geni, e lui mi deve un bel
favore...».
Lo scortò lungo un paio di corridoi a L, con linoleum lucido e pareti
bianche illuminate dal neon, passando davanti a stanze affollate di impiegati
con la testa china sulle carte. Arrivarono a un ascensore con la chiave. Da lì,
salirono all’ottavo piano, e di colpo l’aspetto degli uffici cambiò. Legni
scuri alle pareti e sul pavimento, luci basse proiettate da lampade bronzee,
piante dalle foglie larghe, grasse, senza un grammo di polvere. Accanto
all’anticamera del direttore generale c’era una porta chiusa, con una
targhetta: UFFICIO STUDI, AREA RISCHIO-PAESE.
L’ex appuntato Bellomo non aveva perso le buone abitudini del passato e
la spalancò senza complimenti: in fondo c’era una scrivania, ai lati strani
armadi - in realtà enormi calcolatori elettronici - e al centro della stanza un
trentenne baffuto, con grandi occhi azzurri intonati al camice celestino.
Camminava avanti e indietro e osservava, ora su uno schermo ora su un
altro, lo scorrere di cifre, e nel frattempo a un telefono dal filo lunghissimo
dettava: «Operazioni di credito in America Latina, quante e per quale
importo? Operazioni di credito in Messico, quante e per quale importo?
Dammi le risposte oggi. No, non domani, oggi».
Masticava in continuazione caramelle al rabarbaro: un portacenere era
pieno di cartine ben piegate. Quando finì, si rivolse verso il nuovo arrivato,
ignorando Bellomo. «Io studio macroeconomia dei paesi emergenti»
cantilenò «ma in verità seguo un po’ quello che capita. Qui dentro, tra noi
osservatori, abbiamo l’obbligo di dirci tutto.»
«Anche nel mio ufficio vale la stessa regola...» ribatté Binda.
«Quale ufficio?» chiese l’altro lisciandosi i baffi biondastri.
«La Sezione omicidi del Nucleo operativo dei carabinieri. Mi chiamo
Pietro Binda e sono maresciallo capo. Allora, che cosa mi dice di Calvi?»
Il trentenne lo fissò. Aveva occhi sporgenti, da rana. «A volte, a parte i
soldi, uno non ha più niente» disse con aria distaccata. «Non un amico, non
un aiuto... Ma lei non vuole filosofia, lo vedo dalla sua faccia. Anzi, sembra
avere persino fretta.»
«Fretta no, ma...»
«Ma adesso le racconterò qualcosa che le interesserà. Le dirò l’unica cosa
concreta che conti in questa complessa vicenda. La vuole sentire?»
Un altro che gli faceva domande. «Professore, sono tutto orecchi.»

Il giovane in camice, chissà perché, arrossì lievemente, poi aggiunse: «Ci


sono mille miliardi spariti. Lo sapeva?».
«No» rispose Binda, secco, mentre Bellomo borbottava: «Io vado...
Bertolini, mi raccomando, ci siamo capiti».
Il giovane abbozzò, un po’ più pallido, come se la frase contenesse
un’oscura minaccia. Si mise in bocca un’altra caramella e proseguì: «Il
punto centrale sono quei mille miliardi. E, senta, cosa sa lei di 633369
Protezione?».
«So che quel numero è stato trovato nella villa di Licio Gelli, il massone
segretario della Loggia Propaganda 2.»
«Giusto. È un conto bancario, di transito, all’Ubs, l’Unione banche
svizzere. Lugano, forziere d’Italia. E circa due anni fa su quel conto Calvi
ha versato sette milioni di dollari, in due tranche di tre milioni e mezzo.
Non so di chi sia quel conto. C’è chi dice... anche grazie all’appunto trovato
a casa di Gelli, uomo molto informato su scandali e scandaletti... che sia dei
politici socialisti, e ci sia di mezzo un architetto, un amico di Craxi che vive
spesso all’estero. Le ho detto già troppo. Come Calvi ha dato i soldi ai
socialisti, può averli dati a tutti i partiti.»
«E quindi?»
«Se ne deduce che a ucciderlo possono essere stati in tanti. Innanzitutto,
nell’ambiente finanziario si sa che parte di quei mille miliardi sarebbero
della mafia palermitana, che viene soppiantata a colpi di lupara dalla mafia
dei corleonesi, e cioè quelli che stanno mettendo a ferro e fuoco la Sicilia e
hanno ammazzato probabilmente i suoi colleghi, qualche giorno fa.»
Binda annuì, pensando al suo amico Silvano che non c’era più, e si sforzò
di restare tranquillo.
«Poi» continuò il professore «una fetta di questi mille miliardi scomparsi
sarebbe di alcuni politici. Un’altra fetta ancora apparteneva ad alcuni
esportatori di valuta, i quali gestiscono fondi di clienti molto, molto
importanti, che nessuno nomina. Nessuno di noi, dico di noi del giro delle
informazioni bancarie ad altissimo livello, può affermare oggi con esattezza
cosa sia successo, ma tutti siamo concordi su un punto: bisognerebbe
seguire il percorso dei soldi.»
«Lei vuoi dire che chi movimenterà i mille miliardi sarà l’unico contatto
possibile per arrivare agli assassini?»
«Sì, signor maresciallo. Ma a nessun analista finanziario si può chiedere di
fare oggi domande suicide a persone che hanno già dato prova di saper
ammazzare e godere dei benefici influssi... degli astri. Lei non sarà venuto
subito da me, immagino. In giro sinora ha raccolto qualche informazione
preziosa?»
Binda allargò le braccia.
«Appunto. Però, signor maresciallo, il tempo è galantuomo: la banca che
aumenterà il suo giro d’affari, o l’imprenditore che diventerà ricco, molto
ricco in questi avidissimi anni ottanta, o l’amministratore dell’azienda che si
espanderà all’improvviso come nessuno prevedeva... ecco dove andare in
cerca dell’uomo giusto da far parlare, con le buone o le cattive.»
«Già.»
Binda si sentì in parte soddisfatto perché stava centrando l’obiettivo della
missione affidatagli da Casiraghi, e in parte amareggiato per l’Italia e il suo
lavoro. Che cosa fare?
Quasi mormorando tra sé, considerò: «Difficile convincere a parlare chi
non ci sta. E poi, scusi, questa storia dei miliardi spariti e in viaggio chissà
dove può essere logica, ma fa parte dell’universo delle illazioni. Non ci
sono prove».
«Illazioni? Via, lei sottovaluta il frutto di ragionamenti scientifici... non le
ho parlato dei mille miliardi perché li ho visti in una sfera di cristallo. Sono
scenari.»
«Saranno scenari, ma sono scenari senza prove.»
«La mia specializzazione» replicò Bertolini, un po’ piccato dallo
scetticismo del suo visitatore «è disegnare scenari. Il futuro non è che una
variabile del nostro presente. Lei non è molto ricco, vero?»
«No, professore. Non ho le pezze sul sedere, ma di certo non sono ricco.»
«Ha figli?»
«Uno.»
«Quanti anni ha il ragazzo?»
«Studia alle superiori.»
«Bene, allora gli faccia studiare informatica, la scienza dei computer. E se
investirà tutti i suoi risparmi in oro e in petrolio, tra vent’anni avrà un
capitale. Non venda mai, compri sempre, ma lasci perdere la Borsa: oro e
petrolio, renderanno molto più del mattone. Forse io sarò morto, ma mi
ringrazierà. Anche queste non sono illazioni, sono scenari... scenari, ha
capito? E vuol sapere come faccio a dirglielo? Per quello che è accaduto in
Polonia.»
«E per il papa Wojtila...» disse Binda, con un sorriso ironico, ma l’altro
l’applaudì: «Bravo, esatto. Il papa l’anno scorso s’è salvato per miracolo
dall’attentato in piazza San Pietro, un vero miracolo, per me che sono
credente. La Polonia è la tessera del domino, farà cadere tutte le altre. Entro
il 1994, si dice, il comunismo crollerà, le due Germanie torneranno
unite...».
«Lei scherza» lo interruppe Binda.
«Assolutamente no. Le Germanie torneranno unite e si creeranno le
condizioni per cambiare lo scacchiere entro il primo trentennio del
Duemila: ci saranno gli Stati Uniti da una parte, e una forte e grande
Europa, dal Portogallo agli Urali, dall’altra. Bisognerà vedere come si
collocheranno tra questi due nuovi blocchi gli inglesi, che rappresentano la
grande incognita, e noi italiani, che siamo i bipedi più sfuggenti del
Mediterraneo e dintorni. In ogni modo saranno decenni di forte espansione,
anche se il prezzo da pagare sarà alto: recessione, assestamenti in Medio ed
Estremo Oriente, Borse in altalena nel mondo occidentale. E un nuovo
nemico comune, forse la Cina, di certo non il mondo arabo, troppo diviso.
Be’, ovviamente se c’incontrassimo tra dieci anni, diciamo nel 1992-93,
potrei essere più preciso rispetto a questa prospettiva. Riassumendo,
petrolio e oro per i suoi investimenti, pane e computer per suo figlio... e per
quanto riguarda Calvi aspetti che compaiano i nuovi super-ricchi da mettere
sotto controllo. Ma chissà se ve le faranno svolgere, queste indagini...»
Binda era piuttosto sconcertato. A quel punto, gli venne solo da ribattere:
«A proposito, giacché sa tutto... come finisce la partita con l’Argentina di
Maradona?».
«Mi prende in giro, eh? Sapesse che voci girano, laggiù a Vigo, sulla
necessità che avevamo di passare il turno a qualsiasi prezzo con il Camerun.
Non ci credo, sia chiaro, che quei colossi abbiano sbagliato i gol apposta...
anzi lasciamo correre, caro maresciallo. E, a proposito, grazie. Capisco che
è lei che devo ringraziare per aver risolto quel mio problemino con il
travestito.»
Binda annuì gravemente, anche se immaginava appena di che cosa
parlasse quel tecnico in camice celeste, con gli occhi azzurri diventati
sporgenti forse per il troppo guardare lontano. "Hai capito Bellomo... ne
conosce di storie private delle persone che protegge e, se vuole, tiene in
pugno" pensò a quel punto.

Un po’ frastornato, si ritrovò nel sole rovente di piazza della Scala. Aveva
sentito parlare di persone che stabiliscono i valori delle merci e di
variabilità dei mercati. Sapeva di Enrico Cuccia, il taciturno banchiere che
in una piazzetta là vicino tirava le fila delle grandi famiglie italiane. Ma gli
sembrava che fosse una leggenda, questo potere del denaro e delle
informazioni. Una finzione. Sino a quella mattina. Forse ne aveva
incontrato uno, di gnomo dell’alta finanza. Sì, avrebbe detto a Umberto di
interessarsi di computer, poteva funzionare. Investire, be’, se avesse avuto i
soldi l’avrebbe fatto. Ma una previsione, anzi uno degli scenari del
professore era del tutto sballato. Alla morte del comunismo non credeva
proprio. Ma dài! A quante manifestazioni del Pci era stato mandato per
questioni di ordine pubblico? L’Italia era piena di bandiere rosse: dove
sarebbero andate a finire se il comunismo fosse morto? Bertolini
vaneggiava.
Fino a largo Donegani il tram era semivuoto, mentre il bus per via
Moscova sembrava un pezzo di mercato trasferito su ruote tante erano la
ressa e la confusione, ma stava arrivando e Binda lo prese al volo, per
tornare in caserma e svuotare la memoria scrivendo subito il rapporto per
Casiraghi. Prima finiva, prima avrebbe avuto le ore libere per le indagini
sull’omicidio di Lavinia e sulla scomparsa di Ettore Ferri.
Era quasi arrivato alla sbarra della caserma quando vide il lampeggiante
acceso di Giaguaro 11, l’Alfasud grigia in dotazione alla Sezione omicidi.
Al volante c’era il fidato Kalì; sul sedile accanto un giovane brigadiere
appena arrivato, il barbuto Demetrio Pantalò, che si sporse dal finestrino:
«Hanno segnalato un corpo in una discarica, un uomo sui cinquanta, vestito
con una camicia gialla».
Pensò a Ferri, a come l’aveva visto al Narvalo d’Oro: completo marrone,
gilet giallo, camicia azzurra e cravatta bianca. Poteva essere. Anzi, era.
Sentì il cuore battergli più forte.
«So che abbiamo già mandato el Negher a casa di uno che potrebbe essere
il morto...» aggiunse Kalì.
Binda non poteva lasciarli andare senza di lui. «Aspettate un secondo.»
Chiamò dal posto di guardia l’ufficio del generale Casiraghi e uno dei suoi
uomini gli rispose che era tornato d’urgenza a Roma. «Splendido... cioè,
volevo dire, quando lo trovo? Tra due giorni... Bene, grazie» disse e s’infilò
nell’Alfasud. «Via, ragazzi, vengo anch’io a vedere.»
«Cos’è, il richiamo della foresta?» scherzò Pantalò, che si stava
conquistando una solida fama di eccentrico sia per i completi di jeans sia
per le battute estemporanee.
«Se vi lascio soli, magari mi inquinate gli indizi... già sono scarsi» rispose
Binda, ma le parole di Pantalò lo fecero riflettere.
Non stava lavorando con la solita lena, avrebbe potuto riposarsi, e ne
aveva bisogno. E allora, perché era andato con loro? Cosa gli era scattato?
Non si trattava solo di un riflesso condizionato. Il "suo" lavoro di
investigatore esperto in omicidi gli serviva a star meglio. Ma poteva essere?
Sei

Nell’appartamento di via Lipari il bambino musicista non c’era più: era


stato portato a casa di una parente. La signora Morandi, la moglie di Ferri,
s’era vestita di nero e rispondeva con voce sommessa a questioni che per lei
non avevano più senso. Ettore era morto. Nessuno gliel’avrebbe ridato.
Forse glielo doveva dire, ai carabinieri, che da qualche mese tra loro s’era
rotto l’incantesimo, che lui era sempre più chiuso in se stesso, sempre più
solitario, nervoso, brusco, e lei non aveva più avuto voglia di far l’amore
con la pazienza necessaria alle esigenze di un uomo anziano. Quel pensiero,
carico di sensi di colpa, le si era conficcato nel cervello, fino in fondo, come
un martello può fare con un chiodino.
Anche i carabinieri le avevano per il momento taciuto qualche spicchio di
storia. A fin di bene, le avevano nascosto che il marito era stato non solo
rapito, ma anche picchiato, portato in una discarica abusiva nel vecchio
borgo di Ponte Lambro, fatto inginocchiare nella ruera, tra cessi sbeccati e
un divano nero, e ucciso con un proiettile in mezzo agli occhi, come un
animale al macello.
La Rilievi non aveva dubbi: stesso revolver, con silenziatore, che aveva
ammazzato la soubrette.
Nemmeno la vedova aveva dubbi: era di nuovo sola, con il figlio rimasto
ancora una volta senza padre. Doveva essere il loro destino, poiché il padre
naturale era scappato e quello adottivo era stato ucciso.
Il carabiniere scuro di pelle le aveva mandato il cuore in gola. «Signora»
aveva detto all’improvviso «sapeva che suo marito pochi giorni fa ha
lasciato un testamento?»
No, non lo sapeva. Chi mai ci pensa alla morte? Ettore non ci pensava, non
alla propria. Si comportava come se fosse eterno. Ma lei lo conosceva
davvero il suo uomo? O credeva di conoscerlo solo perché lui le aveva
offerto un riparo come una quercia fa con un uccellino. Quante cose non le
aveva detto, Ettore? E perché conosceva chi l’aveva ucciso, come ormai era
chiaro anche a lei?
Ma la domanda, ora che aveva scoperto di avere una rendita in
obbligazioni e azioni sufficiente a garantirle da vivere, era un’altra: che
esistenza sarebbe stata senza di lui? Forse non si amavano, forse lei non
l’aveva mai amato. Chissà se io sono davvero capace di amore, s’era chiesta
più volte. Ma aveva saputo mostrare gratitudine a quell’uomo che l’aveva
protetta, accontentata, coccolata, vezzeggiata come una bambina. Era stato
per lei anche il padre mai avuto.
Era stato. Lo vedeva già lontano, come se spuntasse dal finestrino di un
treno di luce. Evanescente, lattiginoso, senza contorni. Come nella scighera,
la nebbia del mattino. Rispondeva ai carabinieri, ma sentiva le orecchie
piene di ovatta, il cuore stretto da un nodo, le gambe rigide come trampoli.
Nella ricerca vana di qualsiasi informazione utile, Kalì e alcuni colleghi
avevano messo a soqquadro l’appartamento, mentre Giambelli, molto
malvolentieri, perché non gli andava di allontanarsi dalla donna, aveva
dovuto seguire Binda. S’era messo alla guida dell’auto che li portava da
Renée Tancredi, la terza amica, la "superstite", come l’aveva chiamata il
carabiniere Pantalò. Stava alla Comasina, in una zona dalle parti di via
Polveriera, appena dietro le "case minime" di via Novate 19. Chiamavano
così un quartierino di costruzioni a due piani, dall’intonaco scrostato e
giallastro, realizzate con materiali poverissimi per gli sfollati della guerra e
destinate a essere rase al suolo appena terminata l’emergenza. Erano invece
passati i decenni; e quelle casette stavano ancora là, preda perenne di
perenni sfollati. Occupazioni abusive, le chiamava il Comune.
Anno dopo anno, vi avevano trovato riparo operai sfrattati, nomadi, poi ex
carcerati, e persone di ogni parte del mondo, i relitti
dell’industrializzazione. Qualcuno, andandosene via da quelle case non sue,
aveva rubato persino gabinetti e lavandini, e chi l’aveva sostituito negli
appartamenti sempre simili a spelonche si accontentava di scarichi che si
aprivano direttamente nel pavimento.
Quando l’Alfasud entrò in quella strada, era evidente il viavai disperato di
giovani malfermi sulle gambe. Andavano sicuramente a comprare eroina da
un certo Salino, venditore di droga al dettaglio. Lui si avvaleva dell’intera
famiglia, comprese le fidanzate e i compagni di scuola dei figli, per ritirare i
soldi e portare in cambio pezzettini di carta stagnola con dentro il "quartino"
di ero.
Binda lo conosceva perché, dopo l’omicidio di un ragazzo indebitato con i
pusher, aveva bussato anche alla sua porta. E, nonostante ne avesse viste
tante nelle sue perlustrazioni metropolitane, era rimasto stupito davanti a
una statua alta almeno un metro e mezzo della Madonna Addolorata, che
campeggiava nel corridoio della casa fatiscente. Intorno al cuore trafitto e
alle mani erano appese decine e decine di collanine, bracciali, medagliette.
Come in una processione del Sud più tradizionale. Ma quell’oro era
sicuramente il bottino degli scippi e dei furti: la "moneta" che i tossici
portavano alla famiglia Salino per avere la dose.
Il boss del quartiere disastrato aveva sostenuto il contrario: «Quelle
collane, taggiuro» erano i suoi «ex voto, per aver ricevuto una grazia dal
cielo, ero più di là che di qua, ma la Madonna benedetta ha messo la sua
mano sulla mia testa». A Binda era venuto l’impulso di mettergli addosso le
sue, di mani: larghe e pesanti, da montanaro. Ma aveva lasciato perdere. E
anche la Narcotici non era mai riuscita a incastrarlo, giusto qualche "entra
ed esci" dalla galera, con arresti che poi naufragavano davanti ai giudici.
Anche perché le cantine non esistevano più, i muri erano stati abbattuti e in
questo modo i detective non potevano dimostrare alcunché quando
trovavano, come pure succedeva, le bustine di droga. Lo scantinato era terra
di nessuno ed era utilizzato anche come poligono di tiro, per provare le armi
che sempre il solito Salino - «Taggiuro, capo, so’ anfamità» - smerciava ai
giovani disposti alle rapine e a qualsiasi nefandezza per pagarsi la roba.
Giambelli fermò l’auto, controllò l’indirizzo, scese e scoppiò a ridere. Una
risata liberatoria, dopo la tensione in casa Ferri. Ma dov’erano finiti? Lo
stesso Binda, il "profondo conoscitore di Milano e dei suoi accessi remoti"
come lo etichettavano scherzando i colleghi, si guardava in giro a bocca
aperta. Quelle case sembravano funghi, o relitti spaziali, poggiati su
palafitte di cemento armato. Una visione incredibile. In quella periferia
battuta dai camion e dalle auto sorgeva un microcosmo che, invece di dare
alla gente un appartamento, la consegnava a vivere in un paese dei balocchi.
Che cosa ci facevano costruzioni simili dietro la trattoria di via Polveriera?
I numeri civici erano balenghi come le abitazioni, si passava dal 20 al 30.
«Loris, dove te see?» gridò Binda dalla strada, mettendo le mani a mo’ di
megafono.
Dopo un paio di richiami, una finestra a forma di oblò si aprì e la testa
dell’amico comparve. Il caloroso cenno di saluto si bloccò non appena
l’anarchico incrociò lo sguardo di Binda.
Capì subito, senza bisogno di parole. «Anca lu.» «Lei dov’è?»
«È andata a far la spesa. Qui in giro non la tocca nessuno, non temere. Ma
entra...»
«È una parola. Da dove?»
«Ti apro la porticina dietro. C’è una scala a chiocciola.»
Allo stranito Giambelli venne voglia di scherzare: «Mi sembra di entrare
in un cartone animato dei Puffi».
Loris era terreo, strinse forte la mano a Giambelli e abbracciò Binda.
«Senti» disse subito «ho l’impressione che Renée sappia qualcosa, io la
conosco bene. Lei dice di no, ma in un modo strano.»
«Proviamo noi a farla parlare...»
«Non ci riesci, Peder, se non vuole. È la moglie di un detenuto. Non ha
nulla da perdere.»
«Intanto l’aspettiamo e la portiamo in caserma. E tu mettiti una mano sulla
coscienza, vedi se recuperi qualche dritta in quello che era il tuo ambiente.»
Loris chinò la testa, un gesto che venne interpretato da Binda come una
forma di resistenza.
«Fallo per Lavinia» disse il maresciallo «e dimenticati che sono un
carabiniere... sono Peder, un tuo amico.»
«Quello che so non serve a niente, credimi.» «Lascialo decidere a me.
Quando ci parliamo, Loris?»

Tornando verso il centro Binda si fece lasciare in corso Venezia, sotto la


casa dell’impresario Sangalli e mandò il vicebrigadiere in caserma, a
chiamare tutti gli uomini liberi della Sezione. Quel Florio andava preso, e
anche rapidamente: ci volevano i fonogrammi, l’ufficialità degli atti, ma
anche dei bravi cacciatori di dritte, di soffiate dal milieu.
Il custode con i capelli bianchi e gli occhiali da umanista lo riconobbe
subito e smise di trafficare sulla Settimana enigmistica, invitandolo nella
guardiola.
«Perché ce l’ha con Sangalli?» gli chiese Binda.
«Fossi solo io. Il condominio al completo lo detesta. Sono arrivato qui
quattro anni fa, e il portiere precedente sì che ce l’aveva con lui, perché l’ha
conosciuto negli anni delle piazzate, quando stava con una donna che gli
lanciava i piatti sulle scale e nessuno del loro personale andava mai a
ramazzare i cocci. È in causa con l’amministratore, non paga gli arretrati...
sa quanti commercianti vengono qui a chiedere i sospesi?»
«Questo tipo non l’ha mai visto?» Binda gli mise sotto il naso la foto di
Florio che gli aveva dato Logiudice.
«No, ma dopo le sette di sera chiudo e vado a casa mia, non sto qua a far la
guardia ai miliardari.»
«A proposito, come fa Sangalli a mantenersi quel maggiordomo?»
«Kurban» disse il portinaio, sogghignando. «Che sia un maggiordomo o
una guardia del corpo è ancora da capire. In ogni modo non ce l’aveva sino
a qualche giorno fa.»
«Lo sospettavo» fece il maresciallo, aggrottando le sopracciglia. «E da
quanto tempo è qui?»
«Direi dalla fine della settimana scorsa. È comparso praticamente in
contemporanea alle botte che Sangalli ha preso.»
«Ah.»
«Eh sì.»
«Sangalli ha detto di essere caduto, anche se ho faticato a credergli.»
«Anche in carcere, uno pestato dice sempre che è caduto dalle scale. E
quell lì di gente da galera se ne intende. Non mi dica che le sembravano
ferite da caduta.»
S

Certe notti per i carabinieri di via Moscova sono più frenetiche delle
giornate di esodo per un cameriere di autogrill. Intorno a Binda si muoveva
una decina di militari. Erano state date brevi disposizioni. Sapevano dove e
come lavorare.
Milano rappresentava per loro una sorta di università dell’anticrimine:
questa, avevano stabilito grazie all’esperienza, è una città dove c’è chi
uccide per gelosia, chi per denaro, chi per regolamento di conti tra bande,
chi per spionaggio, chi perché è un killer professionista e chi perché ha
commesso errori irreparabili. Omicidi politici, omicidi familiari, omicidi
mafiosi. Ogni investigatore imparava a occuparsi di tutto, a differenza di
quello che accade in altre metropoli, meno complesse di Milano. C’era chi
telefonava e chi usciva per parlare con un informatore o un testimone. Altri
mettevano sotto pressione il giro degli affittacamere mostrando la foto di
Elmo Florio.
«Non lo conosco», «Mai visto», «E sarebbe qui a Milano? Mi credi no»
dicevano a proposito del rapinatore sfregiato, diventato il ricercato numero
uno della squadra di Binda.
Mentre Giambelli, arrivato alla seconda notte in bianco, tentava di riposare
sul divano nell’ufficio del capitano, che s’era sposato da tre mesi ed era già
andato a casa, anche il brigadiere Kalì uscì per mostrare le foto ai vicini di
casa di Ettore Ferri e di Lavinia Marbella e ai negozianti intorno al Narvalo
d’Oro.
Era rientrato da Varigotti il pensionato Dipangrazio, la "memoria storica",
come diceva Binda. Era panciuto, rotondo e abbronzato come un bagnino.
Nonostante il curriculum di uno che aveva trascorso trent’anni al Nucleo
operativo e dava del tu a parecchi gangster, manteneva un inesauribile
serbatoio di entusiasmo infantile: «EI me amis Ciapùn sai cosa direbbe?
Che di stronzi ne ha conosciuti, ma quel Florio lì el spuzza pussee de
tucc...».
Binda dovette sorbirsi qualche minuto dei racconti del collega che aveva
indagato sulle celebri rapine di via Osoppo e di via Montenapoleone ed era
tornato in treno dalla Liguria apposta per lui. Infine, riuscì a spedirlo
gentilmente in archivio, a frugare tra gli scartafacci del tempo che fu.
"Quando sarò vecchio" promise a se stesso "di sicuro non racconterò agli
amici del paese le mie storie alla Omicidi."
La sua scrivania sembrava ormai una specie di lampada sulla quale, come
farfalle notturne, sbattevano le notizie grandi e piccole che emergevano dal
buio dell’inchiesta. Erano stati accompagnati in via Moscova due fratelli
che avevano le ville confinanti a Cesano Boscone. I due Formenti, Benito e
Arturo, erano originari di Sant’Angelo Lodigiano, specializzati negli assalti
ai camionisti, e secondo un altro malavitoso erano i basisti di parecchie
rapine nel circondario. La sapevano lunga. Sapevano anche che, quando ci
sono i morti di mezzo e la Squadra omicidi sul piede di guerra, non era il
caso di negare l’evidenza. Senza sottoscrivere una riga a verbale,
ovviamente, i due avevano accettato di "farsi chiarificatori", come dicevano
nel loro strampalato italiano. E seduti uno a fianco dell’altro, in mezzo ai
militari in borghese, Benito e Arturo avevano aperto il libro della verità:
«Florio? L’Elmo Florio? Saprete che è in circolo a Milano».
A parlare era soprattutto il più giovane, Arturo, con lo stomaco che
tendeva la stretta camicia di jeans, aperta su un crocefisso d’oro bicolore e
infilata in un paio di ruvidi pantaloni bianchi, mentre Benito,
completamente calvo, magro e baffuto, nuotava in una tuta grigia senza
marca. Il maggiore pronunciò solo qualche frase.
«Ci ha richiesto una possibilità di lavoro e gli abbiamo detto no.»
«Quale lavoro?»
«Se c’erano notizie su qualche laboratorio di oreficeria, o un
rappresentante di preziosi, qualcosa dì non troppo impegnativo da
affrontare» rispose Arturo.
«Ah, lavoro in questo senso...»
«Comunque gli abbiamo negato ogni accesso.» «Non era aria» ribadì il
fratello maggiore.
«E lui?» chiese Binda.
«S’è incazzato e se n’è andato. Noi con uno così non dividiamo il pane.
Oggi si affrontano le situazioni con un metodo più pulito, tanto sono tutti
assicurati, e non necessitano gli spara-spara dei suoi tempi. Ne convenite,
signori?»
«Tornerà?»
«Se ha bisogno, forse sì. E se torna» Arturo si mise la mano grassoccia sul
cuore «ve lo diamo.»
«Davvero?»
«Sì, non c’è remora nel sollevare la cornetta, quel Florio l’è un pistola.»
«Cosa potete dirci di lui? Anche del suo passato.»
«Gli piaceva che lo chiamassero Guerriero, forse perché il nome era
Elmo... Ma nell’ambiente per tutti era il Cece, tanto era difficile che tenesse
"il cece in bocca". Cioè non sapeva stare zitto quando doveva. Parlava a
sproposito, è finito in mezzo a tante di quelle risse... Ed era anche
un’impresa vederlo ridere.»
«Un attaccabrighe triste e solitario» si sentì la voce di Giambelli, dal
divano.
«Triste e noioso, un parla-parla. Ma solitario non è la parola giusta...»
ridacchiò Arturo, scuotendo la testa e dando un’occhiata al fratello, che
annuì. Poteva andare avanti: «Ha cambiato un sacco di donne, finché, ed era
stata una sorpresa, l’abbiamo visto con una come la Cipriana. Era bella, la
rideva sèmper e parlava pocch: il suo opposto. Si amavano davvero.
Avevano casa insieme, progettavano il matrimonio. Era incinta quando è
morta».
«Non lo sapevo» intervenne Binda, immaginando cosa potesse essere
passato attraverso la testa del rapinatore.
«E così... se trova i referti dell’autopsia, lo leggerà. Che lui la volesse
vendicare, lo sapeva tutta la Pianura Padana. Ma pensavamo che la vendetta
fosse già finita.»
«Come come?»
I due fratelli Formenti erano stati di parola: avevano molte notizie e più
d’una la stavano regalando ai carabinieri. La voce di Arturo continuò a
risuonare nella stanza affollata nonostante la tarda ora: «Il poliziotto che ha
sparato quella mattina contro la sua auto è stato travolto da un pirata della
strada, all’Ortica, davanti al bar Tri Basei. Non l’ha pianto nessuno, per
carità, e per noi l’a mazzaa lù, l’Elmo».
«Ve l’ha detto lui?»
«A noi no, ma in carcere l’ha detto, qualcuno l’ha spifferato in giro e una
volta che una notizia è sulla bocca di tutti, a noi arriva...» disse Arturo con
un sorriso.
«Ma Florio, anche dopo tanti anni, può covare ancora voglia di vendetta?»
«Be’, innanzitutto, come saprete già, i proiettili che hanno ucciso Lavinia
Marbella sono gli stessi che usava nei suoi vecchi colpi, anche se sparati da
una pistola diversa... Deve aver ripreso qualche vecchia scatola imboscata
chissà dove.»
I Formenti, avendo qualcuno a libro paga anche in via Fatebenefratelli,
ottenevano in tempo reale un bel po’ di buone informazioni, pensò Binda,
ascoltandoli ancora. «Psicologicamente» continuò Arturo «Florio è una
specie di bestia. Tu fare male me, io fare molto più male te. La vendetta gli
viene automatica. È un tipo che mentre pensa le cose, le fa.»
«Eppure, se aveva ammazzato il poliziotto...»
«Ma come facevano i poliziotti a trovarsi là, durante la rapina costata la
vita alla sua donna? Come se avessero un appuntamento dal dentista. La
soffiata c’è stata, e guardi che non è un’impressione... è andata così, si fidi.
Se Florio ha ammazzato quella gente lì, è perché pensava che quei due, la
soubrette e il comico, avessero fatto la spiata, e lui ci aveva rimesso la
donna e il bambino. Non ci piove, capo.»

Crederci o non crederci? Con la mala era difficile da stabilire a priori,


bisognava verificare. I fratelli uscirono dopo qualche stretta di mano e
arrivò l’esagitato brigadiere Assunto Lamanna, uno che doveva essere stato
raccomandato da qualche pezzo grosso sia per gli esami del concorso, sia
per il trasferimento immediato a Milano, dove aveva un bell’appartamento
in via Lambro. Tornava trionfante come se avesse scoperto finalmente il
mistero dell’oro di Dongo, il suo pallino: erano sei anni che passava le ferie
in giro nei posti dov’era passato Benito Mussolini prima di essere fucilato.
In realtà aveva solo fatto aprire di notte la biblioteca Sormani e sventolava
la fotocopia di una pagina dell’enciclopedia. Era la stessa che Binda aveva
trovato nella cartellina rosa a casa di Sangalli e che ora lesse con più calma:

Kho-i-Noor (montagna di luce): se ne parla la prima volta nel 1304,


pesava 186 carati ed era una pietra tagliata ovale. Si credeva fosse
incastonato nel famoso trono del Pavone. Tagliato durante il regno
della regina Vittoria. Adesso si trova tra i gioielli della corona
britannica e pesa 108,93 carati.
Gran Mogol: venne estratto nel XVII secolo, il suo nome deriva dal
grande leader che costruì il Taj Mahal. Si dice che la pietra grezza
pesasse 793 carati. Scomparso da tempo, viene cercato da tutti i grandi
collezionisti del mondo. È a forma di mezzo uovo, colorazione sul
bianco.
Taylor-Burton: tagliato a goccia, peso di 69,42 carati, venne acquistato
da Cartier di New York e subito dopo dall’attore Richard Burton, che
lo donò a Elizabeth Taylor. Nel giugno 1979 fu venduto per quasi tre
milioni di dollari; si dice che ora si trovi in Arabia Saudita.
Occhio del Mare o Occhio di Poseidone: è una gemma purissima a
forma di goccia allungata, armonicamente sfaccettata. Il suo taglio,
infatti, sebbene risalga a otto secoli fa, è talmente perfetto da far
pensare all’uso di tecniche moderne. La sua forma è quella di un
prisma allungato e la sua colorazione blu assume toni giallo-bruni che
si ritengono provocati da presenza di ossido di ferro. Èdi proprietà di
un eccentrico miliardario londinese.
Hope Blue: era di proprietà di Luigi XIV ed era ufficialmente
denominato "il diamante blu della corona". Lo portava al collo Maria
Antonietta, la regina ghigliottinata. Le venne rubato, ma ricomparve
nel 1830 nella cassaforte di un gioielliere, il quale morì d’infarto
quando seppe dalla polizia che il responsabile del furto era suo figlio.
Il figlio si suicidò alla notizia della morte del padre. Venne acquistato
da Evelina Walsh, nella cui famiglia morirono in rapida successione il
fratello, la figlia, il figlio. Il diamante fu ritenuto scomparso con
l’affondamento del Titanic, ma in realtà era stato acquistato da Henry
Philip Hope, membro di una famiglia di banchieri il quale non volle
tenerlo: nel ‘58 lo regalò allo Smithsonian di Washington D.C., il
museo dove oggi è esposto.
Occhio dell’Idolo: è una pietra a forma di goccia piatta della grandezza
di una noce. Il suo peso dopo la lavorazione è di 70,20 carati. È un
altro famoso diamante che era incastonato nell’occhio di un idolo
prima di essere rubato.

«Hope Blue porta sfiga ai ricchi e ai nobili, l’Occhio del Mare porta sfiga a
chi fa teatro» fu il commento di Lamanna.
Anche il pensionato Dipangrazio, che aveva terminato una prima ricerca
veloce negli archivi, era arrivato davanti al capo armato di un eccesso di
soddisfazione. Giusto un po’ di polvere sulla giacca lo rendeva meno
trionfante. «Guardate qui» disse esibendo uno dei suoi "tesori nascosti",
come li chiamava lui.
Estrasse da una cartellina una fotografia di gruppo: «L’hanno scattata a
una festa di prima comunione, a Baggio. Dopo qualche tempo il papà del
ragazzino è stato ammazzato e io mi sono fregato l’album. Eccoli qui, i
Cavallini, anche loro sono quasi tutti morti».
Su giacche non proprio sobrie, avevano un fiore bianco all’occhiello, una
rara stella alpina. Gli occhi erano coperti da occhiali da sole. Le cravatte
erano strette e scure.
Dipangrazio si godette le espressioni attente sui volti dei colleghi. Sapeva
che grazie alla sua memoria e alle carte che aveva contribuito a raccogliere,
scrivere, assemblare, avrebbero messo a fuoco un po’ meglio la banda dei
bergamaschi di cui Asio Bugatti era il capo e che contava su quell’animale
feroce di Florio.
«Allora, questo qui è il nostro Florio. Uno che, si diceva, ha la testa utile
soprattutto a tenere separate le orecchie.»
«Più pazzo o più scemo?» s’intromise Lamanna.
«Un balordo di quelli che fa prima a sparare che a dire ti sparo, ma anche
con una sensibilità particolare per le casseforti. Era abile con i ferri del
mestiere. E qualche dote ce l’ha se è l’unico sopravvissuto.»
«Gli altri sono morti...»
«Eh sì, quasi tutti... non è un lavoro che porta con certezza a godersi la
pensione. Prima di schiattare hanno fatto in tempo a imperversare
soprattutto nel Nord Italia. E non sono mai stati recuperati i soldi che hanno
razziato. In Veneto avranno svuotato sei o sette furgoni portavalori...»
«Cioè, Dipa, non sono mai stati trovati i soldi delle loro rapine?» chiese
Binda.
«Poca roba, praticamente zero. Spendevano tanto, eh, non pensavano a
investire. Quando entravano alla Tour d’Orient erano capaci di bruciarsi in
una sera con una ballerina quanto un operaio becca in un anno.»
«Be’, grazie del paragone, visto che quando sono entrato nell’Arma mi
davano 250mila lire al mese, e alla Fiat ne prendono 400» si levò dall’altra
stanza la voce di Giambelli.
«Ma tu, Negher, sei carabiniere per sport, perché hai il papà brianzolo con
la fabbrichetta» gli risposero in coro.
«Noi» riprese Dipangrazio «sapevamo che i Cavallini avevano una loro
tecnica per far sparire i soldi e solo quando l’aria si calmava andavano a
recuperarli. Ma di più non abbiamo mai saputo. L’unico che era a
conoscenza di tutto è lui» aggiunse mostrando la foto: «Questo, il più alto, è
Bugatti, detto il Conte. Di ottima famiglia, industriali della lana, intelligente
a scuola, due anni di giurisprudenza, ma il classico legno storto. Gli
avevano già intestato una delle aziende di famiglia e lui se l’è venduta,
dopo aver giocato in una bisca con alcuni pezzi da novanta. Finiti i soldi, è
passato alle rapine in grande stile. Gli piacevano i colpi leggendari, le cose
difficili. La prima volta che li ho beccati erano dei perfetti sconosciuti.
Avevano tamponato un furgone che trasportava oro a Valenza Po e per
evitare di essere inseguiti avevano seminato sull’autostrada migliaia di
chiodi a tre punte. Durante il sopralluogo, mentre i colleghi cambiavano le
gomme e c’erano sei o sette autogrù, avevo trovato un sacchetto in un fosso,
con la scritta FERRAMENTA D. GORNI, ENDINE. E da lì, li ho fatti
finire in carcere la prima volta. Ma Asio non era tipo da fermarsi. Voleva
vivere in un altro modo. Come sapete, e la cosa fece scalpore, è morto
durante un tentativo di fuga dal carcere di Poggioreale. L’elicottero dei
complici è andato a sbattere contro i fili dell’alta tensione. Un’evasione
fulminea». Si concesse una risatina per la battuta, ma nessuno lo imitò.
«Questi altri due» continuò allora «sono stati trovati, crivellati di proiettili,
nel bagagliaio di un’auto, ad Ankara. Si parlò di una vendetta dei turchi per
pareggiare il conto con alcuni loro corrieri scomparsi a Milano. Ma sapete,
collaborazione zero con i colleghi di Ankara. Li chiamavano la Volpe e la
Volpe, due furbacchioni. Era difficile dire chi potesse fare la parte del gatto.
Anche perché guidavano da dio, sparavano bene, ma mangiavano come
dannati e non ce la facevano più a saltare i banconi. Di solito le Volpi
restavano di copertura fuori dalle banche. A mettersi in piedi sul banco era
spesso questo qui, con la faccia da cavallo, Pierino Monti detto Cannello.
Nel ‘63 ha rapinato in solitaria una banca nel Texas. Ha finito la benzina in
qualche strano posto in mezzo al niente, l’hanno preso gli sceriffi e messo
in galera, e la notte stessa della cattura un detenuto l’ha massacrato tentando
di violentarlo. Almeno, questa è stata la versione ufficiale dello sceriffo.»
«Ci abbiamo creduto?» chiese Kali.
«Tanto, non l’ha pianto nessuno. Questo con il cappellino e gli occhiali blu
è un altro bel dritto... si chiama Giuseppe Foglia, detto Pippo Palestra. Per
qualcuno è morto, per qualcun altro ha cambiato vita, comunque è sparito
da almeno quindici anni... dicevano fosse andato in Tibet, o in India, con
quello che restava dei soldi della banda. Vuoi altro?»
«Be’, vedi tu, stiamo cercando qualche pista per prendere Florio e per
capire cosa sta succedendo dopo il suo arrivo a Milano...»
Nel frattempo, due appuntati portavano nuove informazioni sull’impresario
Sangalli.
Aveva avuto piccoli trascorsi di droga e all’inizio della carriera aveva più
volte faticato a ripianare i debiti con le banche. Nessun reato, a parte
qualche assegno a vuoto, un sacco di noie con il fisco e la finanza, imbrogli
con la Siae, ovvio. Una volta l’avevano beccato con un sacchetto per
l’immondizia pieno di soldi in contanti, il ricavato dei biglietti falsi che
avevano staccato. Comunque, sulla fine degli anni quaranta, inizi cinquanta,
il successo era arrivato. Era diventato forse il più ricco degli impresari
teatrali italiani, sempre più solido, e le riviste che metteva in scena erano
andate anche in America. Amava mostrarsi spregiudicato: aveva vissuto
con due attrici, nella sua bella casa di Porta Venezia, e più d’un ristoratore
lo ricordava a cena con uomini famosi. Con un pugile, che era stato un
grande contrabbandiere di sigarette, aveva aperto un bar in centro, poi
fallito. Aveva comprato case e terreni edificabili, ma negli anni settanta
aveva venduto praticamente ogni cosa: anche quella meravigliosa casa, di
cui aveva conservato la nuda proprietà, era di una società danese.
I soldi giravano in tasca a chi faceva la tv e per fare tv ci volevano gli
agganci politici, ma pochi politici erano disposti a farsi vedere troppo vicini
a Sangalli. Negli ultimi dieci anni, non c’era alcuna segnalazione che lo
riguardava.

Renée Tancredi, prelevata dalla casa-fungo, era stata lasciata tutte quelle
ore da sola nell’ufficio del capitano della Narcotici. Era rimasta a riflettere
finché la porta si aprì all’improvviso e Binda le si piazzò davanti. Poco
dopo, entrò anche l’insonnolito Giambelli che si appoggiò allo stipite della
porta. Non un saluto, non un preambolo.
«Conosco Loris, mi ha parlato di Lavinia» disse Binda «perciò, signora,
facciamola breve. Cosa sa di Florio Elmo?»
«L’è on disgraziaa e l’è in Svizzera, in carcere.» «No, è a Milano» disse
Giambelli.
«Impossibile...»
«È qui» confermò Binda.
«Allora voi credete che sia stato lui a uccidere...» Appena lo disse,
bestemmiò con voce roca, fissò il maresciallo, e poi Giambelli.
«L’ammazzerei con le mie mani.»
«Perché diceva che è un disgraziato?»
«Perché, a parte quello che ha fatto nella sua vita, ha rovinato una mia
amica, tanto tempo fa, e lei è morta a causa sua...»
«Orsola Orsini, nome d’arte di Cipriana Bontempi.»
La donna storse la bocca in una smorfia che poteva essere seducente, o
anche molto volgare. «Oh, Madonna, ma non ditemi che...»
«Risponda alle domande.»
Con un fazzoletto bianco si deterse un leggero velo di sudore
dall’abbondante scollatura, infilando senza il minimo pudore la mano nel
reggiseno. «L’ho conosciuta bene, abitavamo porta a porta al Ticinese. Era
molto leggera e molto ambiziosa, la Ciprianina. Non proprio una che faceva
simpatia a pelle, ma aveva avuto un’infanzia tremenda, e con questo ho
detto tutto.»
Negli occhi della donna, e in una piega automatica delle sue labbra, si
lesse un profondo disprezzo, forse rivolto a chi aveva fatto del male alla sua
amica quand’era bambina: «Voleva sfondare, sfondare, mi chiese aiuto e io
l’ho portata alla rivista con me, l’ho presentata a destra e a manca. Parlava
solo del successo e, negli ultimi tempi, quasi ce la poteva fare. Aveva
cominciato da ballerina, come me, e mentre io continuavo a sgambettare lei
aveva recitato qualche battuta e cantato un paio di strofe. Si vociferava che
stava per avere un contratto speciale, che avrebbe avuto un camerino da
sola, insomma... Purtroppo credeva che chiunque avesse la grana fosse un
tipo da coltivare. Grazie al Florio cambiava tanti vestiti in anni in cui noi
già affermate faticavamo ad avere dieci mises nel guardaroba».
Accese una sigaretta: «Grazie al denaro del Guerriero, come lei chiamava
Florio, Cipriana aveva anche cominciato a usare la morfina, che quei
bastardi dei marsigliesi avevano importato in Italia. Anche se non era
drogata come quelli di adesso, che capisen nagott, stava diventando una
scoppiata. Le piaceva recitare la parte della bella e dannata, insieme a quel
pazzo di Florio».
«Lo dice per la rapina che fecero insieme?» chiese Giambelli, dal buio
accanto alla porta.
La donna scosse la chioma. «Mah, non ho mai capito cosa le fosse
scattato.» Sospirò, poi abbassò la voce: «Di soldi, quei due ne avevano
sempre avuti. Erano dei comodi».
«Comodi?»
«Sì, a Florio ballava la lira, non come a me, o al nostro amico anarchico.
Ma se voi pensate che sia stato Florio... se è così... farò di tutto per aiutarvi
a prenderlo.»
«Ci aiuti prima a capire che cosa può avergli armato la mano contro
Lavinia e Ferri. Perché loro due?»
«L’unica cosa che mi è venuta in mente mentre parlavo con voi, ma mi
sembra impossibile, è questa. La sera prima che ci fosse quella tragica
rapina, al bar biliardo dietro lo Smeraldo eravamo in cinque. Noi tre donne,
io, lei, Lavinia, e due uomini, l’Ettore e Sangalli. Bevevamo, ce la
raccontavamo su, un po’ prima di andare in scena. E lei, bella bella, se n’è
venuta fuori con una frase del tipo: "Domani provo una nuova emozione...
vado con il mio Guerriero a rapinare una banca in via Farini".»
«Così vi ha detto?»
«Sì, più o meno.»
«In un locale pubblico? Una bell’ingenua.»
«È la prima volta che qualcuno la chiama ingenua. Ingenua era Lavinia,
non lei. Comunque là, in quel trani con biliardo, poteva farlo. È sempre
stato un posto sicuro, a compartimenti stagni. I giocatori erano
professionisti che si portavano le valigette con le stecche personali. La
malavita era rappresentata da scassinatori, ladri e rapinatori. E anche tra
noi, non raramente, si parlava di argomenti peggiori di una rapina. Ho
sentito... Be’, lasciamo stare, torniamo al discorso della Ciprianina. Noi non
le abbiamo dato peso, non ci credevamo nemmeno, l’abbiamo anche
stuzzicata. "E dove la fai?" "In via Farini." "Ma va", "Ma sì", l’abbiamo
messa un po’ in mezzo. "Vuoi giocare alla bandita?" Ghignavamo, e il
giorno dopo non vi dico come siamo rimasti.»
«E così, Florio s’è convinto che vent’anni fa sia stato qualcuno di voi a far
la spia. Le pare possibile?» domandò Giambelli.
«No.»
«Ma perché no?»
«Mi no e la Lavinia tanto meno. Sangalli non è uno che vedeva di buon
occhio le divise. Ettore? Non ci credo. Ne aveva anche lui di cose da
nascondere, perché l’era staa un fazulet, un fascista. È stato a Salò, sino
all’ultimo, l’è andà a San Vitur insema al Walter Chiari e a Tom Ponzi, ci
raccontava, e ne ha prese tante di botte dai partigiani, e da allora s’è sempre
fatto gli affari suoi.»
Binda puntualizzò: «Quando Cipriana è morta durante la rapina, come ne
avete parlato?».
«Eravamo tutti stupiti, addolorati. Ho pianto tanto, ho persino pensato che
era colpa mia. Se non l’avessi aiutata io, non avrebbe conosciuto quel
delinquente, e se non avesse conosciuto...»
«Scusi se la interrompo, ma c’è qualcosa di quel periodo che l’ha colpita?
Qualsiasi cosa, anche una frase, un gesto.»
«Non direi.»
«Qualche faccia nuova che lei ha visto per un po’ ed è sparita, oppure
qualcuno che s’è trasferito senza motivo, qualsiasi stranezza.»
«Be’, non so se lo dico perché sono successe queste cose adesso, ma la
morte di Cipriana in qualche modo potrebbe aver cambiato il Ferri.»
«E come?» domandò ansioso Giambelli, il cui pensiero corse subito alla
casa dove aveva visto la signora Elena, il bambino pianista, il testamento.
«Era un mangiapreti, uno che ogni tre parole bestemmiava, ma s’è messo a
pregare, ha cominciato a frequentare una chiesa. Dopo qualche tempo dalla
morte della Ciprianina, ha lasciato il nostro mondo, e ha lasciato anche la
sua topina, come la chiamava lui. In realtà era una sciacquetta senz’arte né
parte a cui voleva far fare carriera.»
Binda rifletté ad alta voce: «Ha detto che può darci una mano a prendere
Florio... Dov’è, secondo lei? Ha qualche amico a Milano?».
«Amici non ne ha mai avuti, ma donne sì. Più le trattava male, più gli
stavano appiccicate addosso. Lasciatemi chiedere in giro.»
«Signora, ci sono già stati due morti ammazzati. Non ce ne possiamo
permettere un terzo.»
«Voi non mi avete chiesto niente, mi sono presentata io.»
«Adesso mettiamo a verbale questa storia e se ne torna nel... a casa» disse
Binda, che stava pronunciando la parola fungo. Quelle abitazioni che aveva
visto dietro via Polveriera erano davvero assurde.
«Però, maresciallo...»
«Niente però. Non faccia sciocchezze. Il Florio prima o poi lo becchiamo
lo stesso. Se il prima deve costare caro a lei e alla sua famiglia, meglio
dopo, dia retta a me. Parlo per il suo bene, lei ha figli, e un marito in cella.
Pensi a loro.»
«Sì, maresciallo.»
«Bene. Tu che ne dici, Giambelli?» chiese al giovane agente, dopo aver
affidato Renée a uno degli appuntati.
«Mettiamo subito nero su bianco le circostanze che riguardano
l’inafferrabile fantasma di Florio, ma abbiamo altre due cose da fare quanto
prima. Controllare quel bar vicino allo Smeraldo, dove parlavano di rapine
come fossero brioche. E poi c’è un’altra persona da andare a piccionare.»
«Vuoi tornare in corso Venezia?»
«Eh sì, bisogna incontrare di nuovo Sangalli. Non solo perché nel 1959
può aver soffiato lui alla polizia la storia della rapina e nell’82 può aver
dirottato Florio su altri possibili bersagli. Ma anche perché il nostro
impresario, con tutti quei brutti lividi in faccia, può aver cantato con il
bergamasco, ma è stato zitto con lei. E non sta bene.»
«Anche per me è andata così. Andiamoci adesso, di prima mattina. Te la
senti o sei troppo stanco?» «No, andiamo.»
«Kalì, vieni, ci vuole un rapporto giudiziario bello pesante a carico di
Elmo Florio. Lo denunci per omicidio aggravato. Sostieni che, appena
uscito dal carcere, ha assassinato Lavinia Marbella e Ettore Ferri. Ricorda
che ha usato probabilmente... probabilmente, mi raccomando, perché le
notizie ufficiali la questura non ce le ha passate... le stesse cartucce che
usava nel ‘59. Ci aggiungi la carriera di uno che faceva le rapine, tanto hai
già quello che ha spiegato il buon Dipangrazio. Riempi almeno dieci
pagine, se no pensano che siamo scarsi a indizi, e porti il tutto al più presto
alla firma del dottor Catanoso. Entro mezzogiorno, Kalì, che quel lì dopo
mangiato l’è mai al sò post.»
Otto

Albeggiava e bastava guardare con quale lentezza camminavano nel cortile


di via Moscova Demetrio Pantalò e un collega sardo di cui nessuno
ricordava mai il cognome – Fratus, forse – per comprendere che stavano
tornando a mani vuote. Erano stati spediti nel carcere di Novara per tentare
di ragionare con il compagno di cella di Elmo Florio. Non avevano avuto
difficoltà, nonostante fosse piena notte, a farlo accompagnare in una sala
colloqui e a offrirgli un pacchetto di sigarette, ma poi non era andata come
aveva sperato Binda: «Ci ha mandato diciamo a quel paese» era stata la
sintesi. Un po’ omertosa. Il gangster aveva sputato sul pavimento e
organizzato una tale sceneggiata sul senso dell’onore che si stava perdendo
e sullo schifo che provava sin da bambino per i delatori, che era finita a
parolacce e spintoni, ed erano dovuti intervenire come pacieri gli agenti di
custodia.
«Di quello che Florio aveva in mente non sappiamo nulla. L’unica cosa
che abbiamo è questa: quando è entrato in carcere, nel portafoglio
conservava la foto della Cipriana nuda.»
«Che aveva anche un diavolo tatuato sotto l’ombelico.»
«Vedere.»
Si passarono la foto, l’immagine del demone riscosse più successo di
quella di Cipriana.
«Va be’, andiamo da Sangalli. Due macchine bastano e avanzano» disse
Binda, troncando i commenti. Nella prima auto, l’Alfasud grigia, salirono
lui e i vice-brigadieri Giambelli e Pantalò; nella seconda, una 128 amaranto,
l’appuntato Assunto Lamanna e il sardo.
Kalì, brontolando, era rimasto a infilare nel rullo della macchina per
scrivere i fogli e le carte copiative per il rapporto destinato all’autorità
giudiziaria, nella persona del dottor Catanoso. A lui piaceva andare in giro,
come quando stava alla Narcotici, ma Binda era stato irremovibile: «Dopo
di me sei il più alto in grado, quindi...».
Da via Moscova le auto svoltarono in piazza Mirabello e arrivarono al
semaforo, dove un anziano signore, alla guida di una Mini, era fermo
nonostante fosse scattato il verde. «Che aspettiamo, che se mette ‘n moto
l’asfarto pe’ annassene da ‘sto ‘ncrocio?» gli gridò Pantalò dal finestrino.
Forse era soprappensiero, perché arrossì sentendo le risate dei colleghi.
Il distinto custode del palazzo di corso Venezia bagnava il marciapiede con
un secchio d’acqua e liscivia e, mentre con una scopa di saggina lavava via
il nero lasciato dallo smog, aveva un’aria da professorone che sta
conducendo un esperimento: «Al terzo piano abita un conte, che ha sposato
una modella dell’Est, e stasera invita mezzo mondo per la partita Honduras-
Jugoslavia... mah, fosse Francia-Inghilterra capirei che ci tiene all’etichetta.
El ma ditt de lava tuscoss. Sto già sudando».
«Sarà una giornata calda qui, chissà in Spagna» commentò Giambelli.
«Anche a Milano farà molto caldo per qualcuno» aggiunse Pantalò.
«Va da Sangalli?» chiese il custode all’unico che aveva già visto.
«Sì.»
«Mi sembrano due sposini, lui e il Kurban. Vann insema a fà la spesa... il
colosso dice che sta riabilitando il principale dopo la caduta.»
«Non ci annunci.»
Il custode li osservò salire con soddisfazione. Se cinque carabinieri
bussano a una porta di mattina presto, non può essere per una visita di
cortesia. E infatti, quando il maggiordomo con l’aspetto da pugile aprì,
sembrò spaventarsi davanti a quel grappolo d’uomini.
«Tranquillo, siamo carabinieri» disse Binda.
«Lei la riconosco, ma...» non sapeva trovare le parole. Era impaurito, più
che indeciso, e restava sulla soglia.
«Ci porti dal principale, non perdiamo tempo» intimò il maresciallo,
spostandolo di peso.
Kurban non osò più fiatare. Precedette il drappello e lo introdusse nello
studio che, se possibile, sembrava ancora più sporco rispetto alla prima
visita.
Sangalli era terreo: «A che debbo?» si limitò a mormorare.
Nessuno gli rispose. Un paio di santini erano per terra, come se fossero
volati via, insieme ad alcune fotocopie di una biografia scritta da Jacopo da
Varagine. Binda raccolse e lesse: si trattava di san Giorgio, raffigurato in
copertina mentre uccide il drago. Posò i fogli sulla scrivania insieme a un
sant’Ariberto d’Intimiano "fautore del Carroccio, e arcivescovo guerriero", e
Vito Sangalli lo ringraziò, con un filo di voce. Appariva affaticato, quasi
malato. Le escoriazioni erano meno evidenti, le spalle però s’erano
incurvate di più.
«Lei ha mai visto questo qui? Ci pensi bene» gli chiese, mostrandogli la
foto di Florio.
Non ci fu bisogno di sforzare troppo la memoria. Sangalli chinò la testa,
guardò Kurban a lungo, come se fossero solo loro due nello studio, e alla
fine gli ordinò: «Ecco, diglielo tu come stanno le cose».
«Calma e gesso» s’intromise Giambelli. Ma Binda fece un cenno, che
lasciassero proseguire il maggiordomo.
Kurban si concentrò, incrociò le braccia muscolose sul petto. «Ieri
quest’uomo è venuto qui» ammise a occhi bassi.
«Ah, a che ora?»
Kurban esitò un attimo. «All’alba.» Ci pensò meglio. «Alle sei» si
corresse.
«E come ha fatto a entrare?» riprese Giambelli.
«Ha sicuramente forzato il portone. Ci stava provando anche con questa
porta, ma io l’ho sentito, ero sveglio per il caldo, ho aperto di scatto e l’ho
immobilizzato.»
«Senza armi?»
Kurban guardò il principale e confermò: «Con queste mani».
«Cioè, facci capire, tu fermi un assassino armato e pericoloso con la forza
delle mani. Ragazzi, lo dobbiamo assumere» sfotté il vicebrigadiere.
«Ciò che conta è la volontà. Quello non veniva per uccidere, se no non
avrei avuto scampo. Forse» precisò con una punta di orgoglio, e aggiunse:
«L’ho fatto appoggiare al muro e l’ho perquisito. Lo sfregiato s’è lasciato
disarmare, gli ho preso una pistola e un silenziatore e l’ho portato dal
signore».
«Bene. Sangalli, si è calmato? Ci riferisce che cosa vi siete detti?» riprese
il capo della Squadra omicidi.
L’impresario, sempre più macerato dall’angoscia, guardò il maggiordomo
e scosse la testa. Non voleva proseguire e così risuonò ancora la voce di
Kurban. «Ho assistito anche al dialogo» continuò, con un fare ossequioso
che gli era estraneo, ma voleva evidentemente collaborare e aiutare il suo
padrone.
«Ossignur, Kurban. Cià, che si sono detti?» domandò il maresciallo.
«Lo sfregiato ha detto al padrone che Ettore Ferri, prima che gli sparasse,
aveva confessato le sue colpe.»
L’impresario annuì, nascose gli occhi dietro le mani ansiose e tormentate.
«Lo sfregiato si vantava di averlo rapito all’uscita di un teatro e di averlo
portato in una discarica... "un rifiuto tra i rifiuti", ha detto. L’aveva fatto
cantare senza problemi e così ha saputo cos’era successo tanto tempo fa,
quando una ballerina, la sua fidanzata, era morta, ammazzata dalla polizia.
Ferri ha confessato di essere stato lui a telefonare alla polizia per avvisarli
della rapina in via Farini. Il motivo della soffiata è antico quanto il mondo:
voleva che arrestassero Cipriana, voleva lo scandalo, voleva che lei sparisse
dalle scene per dare il posto alla sua fidanzata, di cui nemmeno ricordava
più il nome vero. Non voleva che l’ammazzassero, certo che no, ma era
andata così. E da allora non se l’era mai perdonato.»
Kurban imitava quelle che potevano essere state le espressioni di Florio: la
sua faccia diventava ora più truce, ora più triste. «Ferri gli ha chiesto pietà,
gli ha detto che era disposto a tutto per riparare al danno, anche a dargli tutti
i suoi soldi, ma il Florio non ha accettato: "Come non ti perdoni tu, non ti
perdono io", questa la sentenza che ha emesso, e l’ha ammazzato. E ha
detto anche al principale che era dispiaciuto di aver fatto fuori l’altra.»
«Ma perché? Perché uccidere Lavinia Marbella, se non c’entrava?»
Kurban aveva la risposta pronta. «Aveva tentato di scappare mentre la
portava via per farsi accompagnare di notte a casa di Ferri. Lei aveva
accettato di seguirlo, ma sulle scale aveva provato a divincolarsi e lui non
aveva potuto far altro che sparare. Non poteva permettere che desse
l’allarme, o avvisasse Ferri. E poi, non so se lo sapete, s’era nascosto in una
casa vuota, accanto a quella della donna, e vi ha sentito mentre eravate lì.»
«Non noi, quelli della questura» puntualizzò Pantalò.
«E questo è tutto.»
«Cioè?»
Kurban esitò, come se avesse perso la sicurezza. Fissò Sangalli, e Sangalli
guardò la luce che veniva dalla finestra. Era talmente esausto che
barcollava.
I carabinieri tacevano guardando ora l’uno ora l’altro, e Kurban continuò:
«Questo ho sentito. Gli ha detto anche» fece un cenno a indicare Sangalli
«di tenere la bocca chiusa, o l’avrebbe ammazzato».
Binda sospirò. «Kurban, non dire balle.»
«Giuro, capo, non sono balle.»
«Non giurare o ti porto dentro adesso. Perché Florio doveva dare tutte
queste spiegazioni a lui? E chi è, suo fratello?» gli domandò, stizzito.
Kurban allargò le braccia. Binda finse di perdere la pazienza e si avvicinò
a pochi centimetri da Sangalli. «Chi è che le ha rotto la faccia qualche
giorno fa?» gli chiese.
Sangalli chinò la testa. Kurban si affrettò a parlare: «Quel tipo l’ha
ringraziato, gli ha detto che sarebbe sparito, ha voluto un caffè, qualche
soldo e se n’è andato».
«E la pistola, Kurban?»
«Florio la rivoleva, e il padrone ha detto di sì, di dargliela pure, ormai.
Siccome però non mi fidavo, l’arma gliel’ho consegnata, ma le cartucce le
ho messe in un sacchetto e gliele ho lanciate dalla finestra quando era già in
strada. Se n’è andato verso la metropolitana di Palestro ed è sparito.»
«Sangalli, che cosa facciamo?»
L’impresario non sapeva dove guardare, né cosa dire. Binda lo incalzò
ancora, con durezza. Avrebbero almeno potuto prendere l’assassino, se
avesse parlato subito. Forse anche impedire l’omicidio di Ferri. Il
maresciallo alzò la voce: «Lei per me è complice, al di là di quello che
stabilirà il giudice. È stato lei che ha aiutato Elmo Florio a condurre in porto
la sua vendetta. E così? Lo ammetta».
Sangalli sembrava sempre più un naufrago, si fissò le mani, infine disse
con voce lamentosa: «Ho sbagliato, ma quello era armato, che cosa potevo
fare?».
«Non era più armato, se Kurban gli aveva tolto la pistola. Florio era
fottuto, sarebbe bastato chiamarci» puntualizzò Giambelli.
«Sì, ma che ne so se ha complici pronti a vendicarlo? So per certo che
poteva farmi male Io stesso. Tornare. Sparare.»
«Che bel quadretto!»
«Era già venuto qui, sì, è vero. Questi segni, che avete notato anche voi,
chi me li ha fatti? Lui, è vero, è vero, è vero» gridò alla fine. E con voce
incrinata, aggiunse: «Se non mi picchiava, mai avrei detto che quella sera,
insieme al grande amore della sua porca vita, come la chiama lui, c’eravamo
io, Lavinia, Renée e Ettore. Se non mi terrorizzava, avrei chiamato Lavinia,
o Ettore, o Renée, li avrei avvisati, avrei fatto qualcosa, non sono così,
così...». Non gli veniva la parola giusta, e i singhiozzi sovrastarono le
parole.
Binda si piazzò davanti a lui e chiese a tutti, Kurban compreso, di uscire.
«Posso chiamare l’avvocato?» chiese Sangalli, con le mani sulla faccia.
«Sì, lo chiami, ma prima mi deve dire una cosa. Lei lo sa cos’è l’Occhio di
Poseidone?»
L’interrogato tentennò. Deglutì. Non era bravo a mentire, nonostante
avesse lavorato tanto con gli attori. Binda lo incalzò: «Eviti stupidaggini
ulteriori. Cosa ne sa di questa storia, e della refurtiva scomparsa dalla
gioielleria di via Montenapoleone? O, forse, vuole morire anche lei?».
Sangalli divenne pallido come un cencio. «Quale refurtiva? Quale
refurtiva?» gridò, come per farsi sentire da tutti. «Non so nulla, lo giuro.»
«Strano. Quando sono venuto a trovarla e sono andato in archivio, c’erano
due cartelline fuori posto. Una era dedicata alla morte di Bonnie e alla fuga
di Clyde, il titolo era più o meno questo. E l’altra comprendeva un
bell’elenco di diamanti da miliardari. Uno dei quali, guarda caso, è stato
rubato a Milano, sempre nel ‘59…»
«Non so di cosa parla...»
«Non ha visto quanti morti è già costata questa storia?»
Gli occhi di Sangalli si appannarono. Quell’uomo ormai anziano, che era
stato riverito e potente e ora tirava sera in una casa in malora, chinò il capo.
«È andata come le ha riferito Kurban» disse. «Del resto non so niente, non
ero uno della loro banda. Non ero caduto in basso, allora. Nel ‘59 ero,
ero...»
«Sì, va bene... ma Florio perché è venuto da lei?»
«Perché un tempo ci si conosceva» ammise Sangalli. E dopo una pausa, in
cui aveva riflettuto un po’ meglio, aggiunse: «Io ho sbagliato tante volte per
leggerezza, e tra gli sbagli che ho fatto c’è stato aver raccontato a un pugile
un po’ balordo, che ritenevo un amico, la storia della Cipriana. Gli ho detto
che la ragazza mi aveva annunciato di voler fare una rapina, questo amico
l’ha riferito a qualcun altro, e parola dopo parola, Florio l’ha saputo e
quando è uscito dal carcere mi ha cercato. All’inizio è stato gentile, ma
quando ho capito dove andava a parare, ho negato tutto, tutto, finché lui mi
ha terrorizzato e picchiato. Che cosa potevo fare? Anche se sono vecchio la
morte mi terrorizza... Ho chiamato Kurban a proteggermi. Sì, è così... è
così».

Non era stata una grande consolazione avere la conferma alle ipotesi su
come, chi e perché aveva assassinato Lavinia, la soubrette timida amica di
Loris, la donna coraggiosa che aveva preferito tentare la fuga per non
aiutare l’assassino. Come spesso accade, a sparare era stato uno abituato a
uccidere, uno che sa quanto sia facile far scorrere il sangue altrui e poi
mettersi al sicuro. Uno che ormai s’era rintanato in una piega della Milano
parallela e segreta, dove sapeva muoversi. Uno difficile da prendere vivo e
far parlare. Forse Renée Tancredi avrebbe scoperto il suo rifugio o forse no.
Restava un fantasma da incatenare, ma il caso più o meno era chiuso. O
questa era l’apparenza.
L’avvocato di Sangalli era un uomo anziano, pieno di forfora, finito una
volta in carcere per truffa. Ma si dimostrò competente, esperto di procedure
e cavilli, e non ebbe la minima difficoltà a fare in modo che l’interrogatorio
avvenisse non in caserma, ma nella casa del cliente. Nel verbale veniva dato
ampio spazio al terrore provato da Sangalli di fronte a un noto assassino,
uno conosciuto per caso tanti anni prima, perché era l’uomo di una ballerina
di fila. Si lasciava emergere la totale ignoranza dell’impresario su rapine e
colpi miliardari. Fu molto preciso, professionale, e a Binda che lo fissava
con una buona dose d’ironia rispose con una citazione che doveva aver
ripetuto più d’una volta: «Come diceva Dickens, se non ci fosse gente
cattiva, non ci sarebbero buoni avvocati».
«Ma lei si rende conto che a causa di questa gente cattiva, come la
definisce lei, una donna piange suo marito?» protestò Giambelli.
«Destino» glissò l’avvocato, guardandolo come se fosse un alieno, se non
un semplice "negher" con l’accento brianzolo.

Il nubifragio di sabato era un ricordo. A parte i rami spezzati in piazza


Aquileia e le auto con i parabrezza in frantumi, il sole bruciava una città
strangolata dall’afa. Nel pomeriggio, Binda e Loris si recarono insieme al
funerale di Ettore Ferri, nella parrocchia di San Francesco d’Assisi al
Fopponino, non lontano dall’abitazione del caratterista. Binda era passato
da via Giovio chissà quante volte, ma non aveva mai notato che la facciata
della chiesa moderna aveva una serie di aperture, poligoni che lasciavano
vedere le finestre delle case del quartiere. Le chiese moderne raramente gli
piacevano, ma quella era stata pensata da qualcuno in gamba. C’era folla,
molti parrocchiani erano andati a salutare per l’ultima volta Ettore Ferri. Su
uno dei grandi pannelli colorati, dedicati alla vita di san Francesco, Binda
lesse una frase incisa sotto il dipinto: "Dov’è l’errore, che io porti la verità".
Magari, si disse.
Fu un colpo scorgere nella chiesa il figlio di Ferri seduto davanti ai tasti
dell’organo. E non appena riconobbe il ragazzino, si ricordò dove aveva
visto suo padre. L’aveva incontrato per caso, un pomeriggio di domenica, al
secondo anello di San Siro, sotto l’orologio, sulla linea di centrocampo,
davanti alla tribuna rossa. Era come lui un tifoso dell’Inter. Ferri ci andava
pochissimo allo stadio, certo meno di lui, ma si erano trovati a
chiacchierare.
L’aveva fatto ridere raccontandogli a cosa lo portava la passione per i
colori nerazzurri. «Io la domenica spesso insegno canto e lui» aveva detto il
caratterista indicando il suo bimbo con la maglia di Prohaska «ha un
compito speciale. Ascolta la radio e se cambia il risultato dell’Inter, accende
la luce del salotto dove sono io. Una volta significa che vinciamo noi, due
volte che perdiamo. A volte, con una scusa, interrompo la lezione e mi
aggiorna. Se ci sono partite importanti, come si fa a resistere?»
Dal pulpito il sacerdote lo stava ricordando come un fedele da prendere a
modello, un «testimone della Provvidenza». Quell’uomo simpatico, allegro,
con la moglie giovane: lui sapeva quanto gli era costato lasciare il teatro e
organizzarsi un’altra vita, tenendosi dentro il segreto, preparando il
testamento in quei giorni d’estate. Aveva capito dalla morte violenta di
Lavinia che, probabilmente, Florio era tornato e che nessuno l’avrebbe
potuto, o forse dovuto fermare.
Faceva effetto vedere in chiesa tante delle persone che avevano partecipato
al funerale laico al Narvalo d’Oro: là avevano riso, scambiato battute; qui
più d’una si soffiava il naso. Era come se l’ambiente li condizionasse, come
capita a certi pesci che cambiano colore a seconda dello scoglio dove vanno
a nuotare, d’altra parte gli attori passano decenni a interpretare vite di altri...
Scuro, massiccio, riccioluto, il vicebrigadiere Giambelli spiccava sotto il
pannello con la frase "Dov’è la disperazione, ch’io porti la speranza". Non
era un uomo che faceva pensare alla speranza, ma all’azione. Binda lo
osservò, notando che il giovane guardava in un certo modo la vedova di
Ferri, non solo come se fosse molto dispiaciuto per quello che era accaduto.
Quella donna non gli era indifferente. Lo capiva: lei poteva piacere, anche
se appariva chiusa in se stessa. A Roma c’era stato un maresciallo che s’era
sposato con la vedova di un industriale rapito e mai più tornato a casa, ma
qui sarebbe stato diverso. Giambelli rischiava persino di essere trasferito in
un’altra città. Doveva parlargliene, metterlo in guardia, poi scegliesse lui.

Alla fine della funzione, seppe che la chiesa era stata costruita da Giò
Ponti, che viveva poco lontano, in via Dezza, e mentre chiedeva qualche
dettaglio, tanta era la sua curiosità e il suo amore per le bellezze segrete di
Milano, il suo amico Loris scalpitava: «Andemm». L’aveva invitato in
un’enoteca là vicino: «Devo proprio parlarti».
Ma il maresciallo insistette per fargli fare qualche passo in più, sino
all’inizio di via San Vittore: «C’è un posto che si chiama Bastianello. L’ho
scoperto perché è accanto a quella bellissima villa a forma di castello, che
in realtà è un convitto di suore. Una volta ci abbiamo ricoverato due
gemelle di dieci anni scappate da casa. Insomma, gusterai i migliori
cioccolatini del mondo».
«Con ‘sto caldo?»
«Ho bisogno di un po’ di zuccheri.»
L’anarchico sorrise, un sorriso amaro. «Senti, Peder, ci ho pensato, devo
dirti una cosa. E cioè, che io Asio lo conoscevo. Anche bene.»
«Tu conoscevi il capo della banda dei Cavallini...» «Già, e anche qualcuno
di loro, come Pippo Palestra, quello che è sparito pare con i soldi di tutti.»
Binda si fermò, prese sottobraccio Loris, gli diede scherzosamente due
pugni allo stomaco.
«Cosa aspettavi a dirmelo?»
«Non è facile.»
Sospirò, fissò ancora l’anarchico: «Mi hai coinvolto tu in questa storia, mi
hai chiesto di indagare sulla tua amica Lav, e poi dici che non è facile? Cià,
com’è la faccenda?».
«Ero giovane, gli ho fatto da autista. Piccoli colpi in provincia, noi due da
soli, spartizione cinquanta e cinquanta. Credo che non l’abbia mai detto a
nessuno dei suoi, nemmeno al Pippo, che era il più furbo, il suo vero
braccio destro.»
«Non vi hanno mai scoperti?»
«Mai. E tu non ti metteresti oggi a cercare un colpevole per quelle vecchie
dure, giusto?»
«Fa’ nò el pirla... sono reati vecchi, caduti in prescrizione. Vai avanti.»
«Anche con me applicava le sue regole, e cioè c’era l’ordine tassativo,
dopo la rapina, di non spendere nemmeno una lira del bottino sino a quando
le acque fossero tornate calme. Bugatti aveva cervello sia per organizzare i
colpi, sia per far sparire e riciclare la refurtiva. Era uno che aveva studiato,
credo anche qualche anno d’università. Il padre lo voleva in fabbrica, ma
non era proprio il tipo da sudarsi i quattrini. Leggeva molto, un bel
cervello... è stato lui a regalarmi alcuni libri americani, che io prima
d’incontrarlo rifiutavo di leggere. Gli piaceva una poesia, che dice più o
meno così: "Veniva notte - notte calda - e le piante fiorite facevano estate".
Peder, credimi, era una testa fina. La prima volta che ho sentito la frase "il
mezzo è il messaggio", l’ha detta lui, a proposito di una sua invenzione...»
«Anche inventore?»
«Voglio dire che è stato lui il primo in Italia a usare le ruspe per entrare
nelle banche a tutta velocità, sfondare porte e vetrine e scappare tra le
macerie. Immagina la scena vista dall’interno della banca: sembrava
l’apocalisse, nessuno se la sentiva di reagire con gente che spaccava tutto. E
lui, per rendere comprensibile la paura di bancari e clienti, se n’è uscito con
quella frase, il mezzo è il messaggio.»
«C’eri anche lì?»
«Ti ho forse detto che c’ero?»
«Davvero non c’entravi con il resto della banda?»
«No, davvero. Era una cosa tra me e lui. È successo due o tre volte. Forse
qualcuna di più, ma erano colpi senza rischi. Credo che lui l’abbia fatto per
darmi una mano e anche un po’ di "educazione al crimine corretto", come
diceva scherzando. Ma entrambi sapevamo che io ero e sono un’altra cosa,
un combattente anarchico, uno della città, e lui era quello che era. Ci
stavamo solo simpatici.»
«Si vede.»
«Da lui ho imparato a essere prudente. Era paterno. Lo è stato con me, lo
era con i suoi, ragazzi nati poveri ma cresciuti con lui, tra Spinone al Lago,
Endine, Ranzanico... Conosci la zona?»
«Sono andato a mangiare a Trescore, insieme a un amico fissato con il
pesce persico.»
«Allora non la conosci, ma prima o poi vacci. Se vuoi ci andiamo insieme.
È bella, particolare... Comunque, tornando ad Asio e a quello che può
servirti, nei giorni prima dei colpi dei suoi Cavallini era lui che studiava un
imbosco. Andava da solo a nascondere la merce o i soldi e, in nome di una
garanzia collettiva, lasciava le indicazioni su come recuperarli a due uomini
della banda, sempre diversi, scelti a seconda delle circostanze. Consegnava
due mezze verità.»
«E perché?»
«Solo mettendosi insieme, l’uno d’accordo con l’altro, e quindi con il resto
della banda che sapeva e in teoria poteva controllare che non ci fossero
furbate, i due complici avrebbero messo le mani sul denaro.»
Si fermarono per lasciar passare un’ambulanza diretta a gran velocità, ma
senza sirena, alla clinica San Giuseppe. Loris parve riflettere su quello che
stava dicendo, come se fosse ancora indeciso, ma non appena ripresero a
camminare riprese anche a parlare: «Se fosse capitato qualcosa ad Asio, gli
altri non ci avrebbero rimesso, e sarebbero resistiti come gruppo. La vedeva
così. Spesso nascondeva il bottino nella Valle del Diavolo, come la
chiamano dalle loro parti».
«E dov’è?» chiese Binda, pensando alla possibilità di recuperare l’Occhio
del Mare, il diamante di via Montenapoleone.
«Endine, Solto Collina, Sovere, ci puoi arrivare da lì. Sulle cartine trovi
anche Valle del Freddo, perché nonostante sia una zona piuttosto bassa, non
credo arrivi a quattrocento metri, ci crescono le stelle alpine. La gente del
posto è superstiziosa e gira alla larga. Un luogo ideale per crearsi un
imbosco. Asio conosceva il territorio masso per masso e sapeva dove
scavare una buca. Ci metteva le valigie o i sacchi chiusi nel cellophane, e
poi dava mezza mappa a uno e mezza mappa all’altro. Indicava a uno un
albero, all’altro una roccia. Altre volte piazzava il malloppo in piccoli
appartamenti affittati per un paio di mesi. Una mattina che aspettavamo
sotto casa il direttore di un supermercato che aveva le chiavi della
cassaforte...»
«Vedi che ho ragione a dubitare...» lo interruppe Binda. «Non facevate
solo uffici postali di provincia?» «Cos’è che ho detto adesso?»
«Supermercato.»
«Ah.»
«Eh già.»
«Mi sono sbagliato, era un ufficio postale. Dài, non fare sempre il
carabiniere.»
«Io s-o-n-o carabiniere.»
«Comunque, cosa cambia? Non fare... il precisino, Peder. Quella volta
Asio mi ha detto che i suoi erano impazziti perché una rapina in Piemonte
aveva fruttato ben quarantacinque milioni, e li aveva nascosti lui, come al
solito. Poi a uno aveva detto il posto, Cantalupo, me lo ricordo ancora, e a
un altro aveva dato la via e il numero. Ed era sparito... credo che in quel
periodo stesse con una cantante lirica piuttosto nota anche come giocatrice
di poker. Erano trascorse un paio di settimane e, come nei patti, non
vedendo tornare Asio, che se la stava spassando in Costa Azzurra, i due
complici... in quel caso Pippo Palestra e uno di una coppia che chiamavano
le due Volpi... si erano incontrati. Avevano messo insieme le loro verità e,
per recuperare i quarantacinque pali, erano andati insieme in provincia di
Alessandria. Il paese chiamato Cantalupo esisteva, ma non c’era la via
indicata dal capo.»
«E come mai?» si sorprese Binda.
«Ora ti dico. Erano disperati... non che temessero di essere stati fregati, ma
comunque erano andati in vacca. Finché Asio, una settimana dopo, bello
abbronzato e riposato, e senza più un soldo, era tornato a Endine per
prendere la sua parte. Ma gli altri avevano i musi lunghi, il denaro non
l’avevano recuperato, e così li aveva portati vicino a Cerro Maggiore, dove
c’era un’altra frazione chiamata Cantalupo, quella giusta: "Scusate ragazzi,
ho sbagliato io, ma voi... dài, non nascondo i soldi in Piemonte, testine. Mi
avete mai visto imboscare tanta grana lontano da cà nostra?" aveva chiesto.
Quasi sempre, insomma, era lui che tornava in tempo per prendere il bottino
e dividerlo.»
«Una cosa che funziona uno continua a farla anche per scaramanzia.»
«Un po’ per scaramanzia, un po’ perché gli piaceva pianificare, Asio ha
imposto quel sistema.»
«Tu sai se siano stati loro a fare il colpo in via Montenapoleone?»
«Sinceramente no, ma non lo escluderei. Era il tipo di lavoro che ad Asio
piaceva, e la refurtiva, compreso un famoso diamante, non s’è mai trovata.
E questo può spiegarsi con il fatto che la banda si è dissolta e nessuno ha
più saputo dove mettere le mani. Asio non ce lo può confermare purtroppo:
è stato arrestato a Napoli, dieci giorni dopo quella rapina. Tentava un colpo
acrobatico in un museo ed è finito in carcere. Processo, condanna, processo
d’appello ancora a Napoli, dopo qualche anno, condanna pesante. Allora ha
tentato di evadere, come aveva fatto un vero marsigliese, un suo mito,
Albert Bergamelli, ma è finito brasato sui cavi elettrici. La banda, senza di
lui, si era sfarinata e non s’è più saputo niente sino a questi giorni.»
«Quando arriva Florio...»
«Il quale potrebbe essere tornato a Milano perché qualcuno che sa, che
conosce la mezza verità, vuole da lui l’altra metà per papparsi tutta la
refurtiva. Vedi come fila adesso il ragionamento?»
«Ti faccio entrare nei carabinieri ausiliari?»
Loris rise di gusto. Era la prima risata vera dalla morte della sua Lav.
Aveva sempre avuto la capacità di sdrammatizzare, ma probabilmente i suoi
scherzi, le battute, le scrollate di spalle erano una maschera per proteggersi,
per resistere alle tristezze della vita. Finché non era piombata su di lui una
grande tristezza, con l’omicidio della sua amica soubrette, e quella
maschera era stata gettata via. A Binda Loris adesso appariva migliore di
quanto pensasse, meno superficiale, e non sapendo come dirglielo si limitò
a dargli una pacca sulla spalla.
«Be’, ti ho raccontato tutto questo solo per Lavinia» disse Loris. «Era
proprio una persona perbene, sai che cosa intendo? Io ho avuto varie donne,
ma con lei ho proprio voluto essere amico. Non che non mi piacesse, era
bella, ma il letto di mezzo non ce lo volevo mettere. Se poi litigavamo,
pensavo, con chi avrei potuto trascorrere quelle belle serate intelligenti,
serene? Non puoi capire quanto mi manchi. E se penso che l’ha ammazzata
uno che, come me, faceva le rapine, mi viene quasi da sputarmi in faccia.»
«Hai detto che hai lavorato con lui per un certo periodo. E poi cos’è
successo? Come mai avete smesso?»
«Asio aveva i suoi metodi, e non tutti li conoscevo. Una rapina l’ha fatta
perché il cassiere di una banca era indebitato con una bisca, per una somma
astronomica. Ha usato quel poveretto come "dito": s’è fatto indicare dove,
come e quando entrare e gli ha promesso metà del bottino. Ma, invece dei
soldi, lo ha sepolto sotto la calce. Me ne ha parlato una sera, forse per
saggiare la mia reazione. E ha bloccato le mie proteste dicendo che se uno è
scemo, deve essere castigato. Che se non lo ammazzava lui, uno così scemo
da perdere i milioni con i dadi era capace di soffiare agli sbirri, non appena
si fosse ritrovato di nuovo con le tasche vuote...»
Erano arrivati alla pasticceria Bastianello. Il maresciallo, che stava
incoraggiando l’amico, venne interrotto dal saluto caloroso del proprietario:
«Non mi dica che è qui per l’uva al cioccolato!».
Dovettero smettere di parlare. «Ce l’ha?» chiese Binda.
«Certo, l’abbiamo appena fatta. Una primizia.»
Loris era teso. Pensava a Lavinia, gli occhi umidi, ma il pasticciere non se
ne accorse nemmeno, intento com’era a mettere nel piattino alcune piccole
uova di cioccolato: erano acini sbucciati, senza semi, bagnati nel fondente
che i pasticcieri stessi producevano, seguendo una loro ricetta, e «con burro
di cacao originale, maresciallo». Li gustarono lentamente, apprezzandoli.
«Vorrei averlo tra le mani per cinque minuti. Non il diamante, ma Florio»
borbottò Loris.

L’Italia aveva vinto contro l’Argentina di Maradona ed era calata una sera
dolce: una brezza leggera scompigliava i capelli delle donne, asciugava le
schiene dei tifosi, muoveva le tende nei negozi, ma non arrivava sino a
Binda, curvo sul seguito del rapporto giudiziario a carico di Florio. Lo
compilava «con le mani malate», come gli aveva detto una volta un
capitano molto simpatico: «Quando vuoi proteggere un’informazione, o una
fonte, non pestare sui tasti, ma immagina di avere le mani malate». Lui
doveva tener fuori Loris. Era a un punto cruciale del rapporto quando
squillò il telefono.
«È la carraia, comandi. Sono il carabiniere Lo Curto. Un gruppo di giovani
chiede di lei.»
«Falli entrare solo se vogliono costituirsi per qualche reato grave. Se no
digli di ripassare, anche se fossero mio figlio e i suoi amici.»
«Li accompagna anche un poliziotto, tale Logiudice.»
Comparvero in ufficio Achille, Michi, Adriano, Ugo, i quattro giovani
sospettati per l’omicidio di Lavinia Marbella e finiti in carcere. Portavano
una bottiglia di costoso passito e un vassoio di pasticcini. Michi e Ugo
avevano gli occhi lucidi. Avevano aspettato la fine della partita per non
disturbare, ma volevano vedere chi li aveva aiutati a non restare nemmeno
un giorno di più in cella.
«A me piacerebbe che lei raccontasse le sue avventure» disse Achille a
Binda. «Magari ci scrivo un giallo, non dico come Mario Soldati, ma
chissà... Un bel libro di successo» tentò Achille.
«Un carabiniere non parla mai finché è in attività» commentò il
maresciallo strizzandogli l’occhio. «Ne riparliamo quando sarò in
pensione.»
«Mio padre ci tiene ad avervi tutti a cena, per festeggiare la ritrovata
libertà. Venite, per favore» disse Achille.
«Sono giorni difficili, magari ci prendiamo un caffè» tergiversò Binda.
Non gli andava di cenare con sconosciuti o di stringere relazioni con le
persone che erano state oggetto delle indagini della Sezione. Si era sempre
comportato così.
«Ma dovrete pur mangiare. Venite, cenate e ve ne andate, parola d’onore.
Papà ci tiene a conoscervi, gli piace la gente che fa bene il proprio lavoro e
credo che ne abbia parlato anche con uno dei vostri comandanti, visto che
ha appena vinto l’appalto per costruire quattro o cinque nuove caserme.»
Nove

Si sentiva appeso a un filo, come diceva sua madre, quando era molto, ma
molto stanca dopo una giornata intera di lavoro. Ma Kalì e Giambelli lo
bloccarono sulla porta dell’ufficio, con il pacco dei dolci e il vino in mano.
«Non aspetta che salga Dipangrazio?» gli chiesero.
«Di cosa parlate? È ancora qua?»
«Certo, è tornato in archivio. Ci sta da otto ore e pare abbia trovato
qualcosa d’importante... ci tiene a fare bella figura. Passiamo dallo spaccio
a prendere un marsalino?»
«Ma no, mi hanno portato queste cose» disse dopo qualche esitazione:
sarebbe stato meglio berselo da solo, quel nettare da intenditori, o dividerlo
con colleghi che l’avrebbero considerato un vino qualsiasi? Meglio in
compagnia dei suoi uomini, stabilì Binda, con qualche residuo di dubbio
goloso.
Quando riemerse dagli archivi con una serie di fascicoli in mano,
Dipangrazio sembrava perfetto per interpretare il ruolo del fantasma di un
vecchio ravanatore in pensione. Aveva tutte e due le spalle della giacca
impolverate, gli occhi chiari rimpiccioliti e affossati nella borsa delle
occhiaie spesse e scure, la bocca semiaperta.
«Sono stanco morto» mormorò. «Da pensionato non sono più abituato a
lavorare a questi ritmi. Ho sempre pensato che non c’è via di mezzo: Milano
o t’ammazza o ti fa restare giovane.»
I capelli radi spettinati a ciuffi e lo stomaco sporgente lo rendevano invece
più vecchio di quanto fosse e solo gli occhi, frementi, dimostravano la sua
perfetta salute. «Ho qualcosa di buono, a proposito di due morti» annunciò.
«Eh sì, lo sappiamo. Marbella Lavinia e Ferri Ettore» tagliò corto Binda.
«E invece no. Ce ne sono altri due, che rafforzano l’impianto
dell’indagine. Era da un pezzo che ci riflettevo su, ma ho dovuto controllare
un bel po’ di fascicoli. Dovete sapere che nel ‘59, mentre eravamo in pieno
casino per andare a caccia dei rapinatori di via Montenapoleone, vennero
trovati due cadaveri carbonizzati, dentro una Lancia Appia. Aspettate,
aspettate e vedrete che ho ragione io. Uno era un tecnico dell’Enel e l’altro
un muratore della Veneranda Fabbrica del Duomo.»
Si rigirava tra le mani le carte, ma poteva anche fare a meno di leggerle:
quello che raccontava l’aveva vissuto tanti anni prima, sulla strada, quando
era giovane, quando Milano, quando sua moglie, quando... «Sembrava una
storiaccia tra loro. Un omicidio-suicidio classico. Con uno che uccideva
l’altro, e si ammazzava con un colpo di pistola in bocca, mentre accendeva
un fiammifero e bruciava uno straccio di benzina, collegato a una tanica.
Un po’ laborioso, ma ci stava. Però, non esisteva un movente tale da
scatenare una simile violenza.»
Allargando le braccia si accorse di avere le spalle impolverate, ma non si
fermò per spazzolarle. «Il problema è che quei due di certo si conoscevano,
li avevano visti insieme poco prima in un bar di viale Corsica, ma
sembravano ed erano tipi normalissimi. Almeno sul conto del tecnico
dell’Enel, che aveva una caterva di figli e due famiglie da mantenere, poco
o nulla da dire. Preciso sul lavoro, competente, serio. Un conto corrente
senza strani versamenti. A casa notammo parecchi oggetti di valore, bei
mobili, e s’era comprato una Mercedes pagandola in gran parte in contanti.
Insomma, poteva avere qualche fonte di reddito che non conoscevamo e
non lasciava tracce, ma niente di che.»
«Parlami dell’altro.»
«L’altro, il muratore, era stato in galera durante la guerra. Furti,
soprattutto. Era il classico "barbera", come dicevamo noi... uno che beveva e
usciva dal seminato. Una cooperativa religiosa l’aveva aiutato a reinserirsi
come marmista, e alla fine erano così contenti di lui che l’avevano
raccomandato per un posto fisso nella prestigiosa bottega della Fabbrica del
Duomo.»
«Ma dove vai a parare?» gli chiese Binda.
«Vi porto a rileggere ora, con le informazioni che abbiamo su Florio e
compari, quello che non ho capito allora. Perché non ci avevamo nemmeno
fatto caso, ma il marmista era a San Vittore nello stesso periodo in cui c’era
Bugatti.»
«Ha fatto la galera insieme al capo della banda dei Cavallini?»
«Sì, son dovuto impazzire tra i fascicoli dell’ufficio matricola di San
Vittore, ma è così, e allora, uno può ipotizzare che...»
«Dipagranzio, scusa, ipotesi a parte, ma cosa c’entra il tecnico dell’Enel?»
«Be’, ho scoperto che c’entra eccome. Lavorava in zona San Babila, e la
zona San Babila controlla sia Montenapoleone, sia il Duomo. Stesso gruppo
operativo.»
«E che cosa vuol dire?»
«Che nel ‘59, quando installavano i primi antifurti, l’Enel mandava i suoi
tecnici. Allora non ci avevamo badato, ma adesso...»
«Stai pensando alla rapina di via Montenapoleone, e a lui come basista, o
informatore?»
«Esatto, si può ipotizzare che i due abbiano cominciato a ragionare su una
possibile rapina e forse poi, non potendola portare a termine da soli, si siano
messi in contatto con dei professionisti. Con i Cavallini, che il marmista
conosceva direttamente. Non sapendo che quelli, una volta fatto il colpo,
non amavano lasciarsi alle spalle troppe persone informate sui fatti e sul
bottino...»
«Forse, forse, forse...» mormorò Binda.
«Che cosa vuoi di più?» s’infervorò Dipangrazio.
«Ma no, scusa, anzi sei stato un grande, davvero, e ti ringrazio di cuore.
Puoi aver finalmente trovato la chiave per aprire la porta giusta.» E
aggiunse: «Il problema adesso è come procedere senza sbagliare».
Ragionava ad alta voce davanti ai suoi uomini: «Adesso beviamo qualcosa
per festeggiare Dipangrazio che può tornare in ferie, beato lui, e poi Aloisi e
Giambelli...».
«Ma perché sempre noi?» chiese disperato Aloisi detto Kalì.
«Perché sinora le notizie migliori ce le ha portate Dipangrazio, che è in
pensione, benedetto il Signore, e voi due ancora non mi avete dato un’idea
che sia una. Un buon lavoro, ma di routine, perciò adesso brindiamo, poi
mollate la sedia e ve ne andate a rintracciare le famiglie di questi due, i loro
colleghi... voglio sapere tutto quello che si può. Ma dalle vostre bocche non
deve uscire mezza sillaba che offenda la loro memoria, chiaro? Parlate di
una riapertura delle indagini decisa da Roma, alla quale però non credete
nemmeno voi».
«Passate anche da via Montenapoleone, riparlate con il gioielliere rapinato,
portategli le foto di questo caporeparto dell’Enel e del marmista, scoprite se
gli ricordano qualcosa... E, ragazzi, questi controlli li voglio per ieri.»
Era stremato quando salì sul tram che lo portava verso casa. Eppure, per la
prima volta dopo una sequela di inquieti giorni all’insegna della fatica,
provava un senso di appagamento. Il lavoro, soprattutto se ben fatto, aveva
questo potere terapeutico: quando cominciava a girare per il verso giusto,
portava una tale dose di soddisfazione da lenire piccole e grandi stanchezze.
Forse era questo il grande segreto di Milano: non era solo una città, ma una
grande casa di cura. Le circonvallazioni erano le corsie, i palazzi
sovraccarichi di uffici erano i reparti che, attraverso la medicina del lavoro,
riuscivano a dare senso compiuto alle nostre sfuggenti, incomplete, sgranate
vite, pensava Binda.
Non dimenticava il suo pianto per l’agguato di Palermo che aveva portato
via l’amico e il collega, di aver sofferto molto più di quanto si aspettasse per
il suicidio della segretaria di Calvi, di essersi inoltrato nella selva oscura
delle tragedie politiche dell’Italia attraverso l’omicidio eccellente del
banchiere. Non poteva, nemmeno voleva, dimenticarlo. Non scordava
quant’era depresso Loris per la morte di Lavinia, non aveva perso un
fotogramma dei funerali di Ferri, spesso si sorprendeva a pensare al piccolo
figlio adottivo del caratterista, un bimbo così sensibile e già segnato dalla
vita.
Tutto questo gli pesava sulle spalle come un sacco di cemento, eppure
quella sera aveva provato un forte senso di sollievo grazie alla svolta
impressa alle indagini.
Si guardò nel riflesso del vetro: aveva le occhiaie, e che occhiaie.
Viaggiare in tram la sera non gli era mai piaciuto. Al mattino era diverso,
c’era ressa, c’era fermento, i giornali venivano aperti e sbirciati, gli studenti
vociavano. Era quella la Milano prosperosa e vitale, il ricettacolo di ogni
follia e di ogni novità, la patria di ogni cambiamento e dei nuovi fermenti.
La Milano simile a un’astronave carica dei più grandi ambiziosi arrivati da
ogni angolo della penisola e del mondo, il teatro dei protagonismi di chi ci
tiene, nel bene e nel male, ad apparire, a essere riconosciuto. Non esisteva
in Italia un’altra città così. Con quella fretta costante che gli estranei non
capiranno mai, ma che ti catapulta, oh milanese, sì, lo sai che è così, in una
moltitudine di giorni. Ore e ore che si susseguono come vagoni di un treno.
Scompartimenti in cui si possono incontrare criminali che nascondono le
mani insanguinate e vittime che schivano colpi di rasoio; in cui cerchi di
parlare con i fantasmi del passato e con le ballerine in cerca del futuro; ti
metti seduto con ricchi che possono tutto e con disperati che non hanno
niente; li vedi, li riconosci a pelle i tuoi simili, quelli che come te hanno
trovato la medicina del mal di vivere nello sbattersi quotidiano.
Alla fine, come in una terapia riuscita, noi milanesi che corriamo, e
abbiamo il fiatone, e sudiamo, al traguardo incontriamo sempre noi stessi.
Anche se siamo stanchi e ci osserviamo incanutirci nel riflesso del vetro del
tram, non possiamo non continuare questa corsa, verso traguardi
irraggiungibili. Non possiamo non stringere o evitare le altre mani, non
possiamo non stare qui, dove stiamo, a Milano.
Solo la sera la Grande Clinica cambia aspetto. Circolano meno persone, e
sui tram c’è gente sola. Più accasciata che seduta. Ammaccata. Come se
fosse stata spremuta. A questo pensava Binda: che sì, anche lui era stato ben
spremuto, in quella sua vita a caccia di assassini, in cerca del ragionamento
perfetto, tesa a riparare sulla terra i torti che forse nemmeno in cielo
possono essere riparati.
"Sono felice?" si chiese all’improvviso, e preferì rispondersi alla milanese:
"Almeno sono contento di aver fatto il mio".

Dopo le ultime informazioni, il sostituto procuratore Catanoso,


sorprendentemente gentile, aveva firmato un mandato di comparizione per
Sangalli. Volevano fargli sentire il fiato della Procura sul collo. «Quello sa
qualcosa e adesso la deve dire» affermò Binda, tornando in corso Venezia
con le due macchine al completo e con l’idea di una perquisizione accurata.
Erano le sette di una mattina già caldissima.
Bussarono. Nulla.
Ribussarono. Nessuna risposta.
«Aprite» si levò la voce stentorea del maresciallo. Silenzio. Un simile
silenzio non preannunciava nulla di buono. «È scappato.»
«Vado dal portinaio a farmi dare il doppione» sospirò Giambelli, un velo
di sconcertata amarezza negli occhi.
«Non c’è, non dorme qui» spiegò il capo.
«Scusa, Negher, fammi provare» s’intromise il giovane Pantalò.
Diceva sempre di aver lasciato andare un ladro che in cambio gli aveva
insegnato un po’ di trucchi del mestiere, ma era una bugia: era nato in un
quartiere difficile, forse da ragazzo non aveva saputo subito quale strada
intraprendere. Per sua fortuna, alla fine aveva scelto quella che gli
permetteva di dormire più sereno. Estrasse dalla tasca interna del giubbotto
jeans un involucro di pelle, con alcuni ferri, gli "spadini", come li
chiamavano i ladri, e ne scelse uno ricavato da una scatoletta di tonno. Ci
sputò sopra e lo inserì con mossa calma e precisa nella serratura. Ruotò il
polso, un movimento da giocatore di biliardo, un rumore che ricordava la
crosta del formaggio grattugiato, infine un clic e la porta si aprì. Non era
stata chiusa a chiave, quindi, solo tirata dietro.
L’odore di polvere da sparo era inconfondibile. Là era entrata la violenza.
Estrassero le pistole, sapendo già che era un gesto inutile. Alla fine del
primo corridoio c’era un corpo per terra, il corpo grande e grosso di
Kurban. Si lamentava. Un livido gli macchiava la fronte. Le mani erano
annodate in qualche modo dietro la schiena, come se avesse tentato di
liberarsi.
«Dov’è?» chiese Binda, con la Beretta d’ordinanza in mano.
Kurban scosse la testa, indicò la porta dell’archivio, e lì in mezzo alle
fotografie, alle carte, alle locandine, avvolto in una vestaglia beige che il
sangue aveva reso marrone, c’era Vito Sangalli. Freddo, pallido. Con due
proiettili nel petto. Come svuotato. Le sue labbra carnose avevano perso la
smorfia di superiorità, sembravano piegate all’insù, in un sorriso ebete. Si
era reso conto, troppo tardi, di non essere così intelligente come credeva,
ma solo un pover’uomo in procinto di essere ammazzato. Ogni suo gioco,
ogni doppiezza, ogni menzogna si erano dissolte. Gli occhi a mezz’asta
conservavano un’espressione più terrorizzata che stupita.
«Ormai Florio lo odio. È un fantasma che arriva sempre un attimo prima»
commentò Giambelli, rompendo il silenzio.
Binda rinfoderò la pistola. «Voi due chiamate la Rilievi e il medico legale»
ordinò. «Non toccate più niente, e andate a sentire i vicini appena possibile.
Giambelli resta con me, che diamo un’occhiata in giro. Pantalò e tu, come ti
chiami, portate il ferito al Fatebenefratelli.» Abbassò la voce. «Fatelo
sentire tra amici.»

Si piazzò davanti a Sangalli, come se potesse leggergli la verità negli occhi


semiaperti. "Pirla" gli disse mentalmente. Aveva avuto i carabinieri a casa,
avrebbe potuto suggerire qualcosa, salvarsi, e invece no, aveva voluto
giocare a nascondino con un rapinatore dal grilletto facile. Ed era finita
come quasi sempre andava a finire, con il lupo che sbrana l’agnello.
«S’è visto la morte in faccia, eh?» commentò Giambelli, che s’era
avvicinato al sottufficiale ammutolito.
«Invece di filosofeggiare, guardati intorno e cerca di essere utile.
Dovrebbero esserci quelle due cartelline rosa di cui ti ho già parlato...
cercale, va’.»
Anche lui ispezionò l’archivio insieme al vicebrigadiere, ma la pagina
dell’enciclopedia e il ritaglio di giornale sulla rapina commessa da Florio e
Cipriana non si trovarono. Erano ancora lì a frugare quando si presentò
Casulli della Rilievi, annunciando che il dottor Boncompagni,
l’anatomopatologo, sarebbe arrivato di lì a un’oretta. C’era stato un altro
morto ammazzato nella notte, uno di Petilia Policastro che si era piegato
accanto alla sua auto, per cambiare la gomma bucata da un punteruolo.
Evidentemente non era stata la bravata di un teppista, ma una strategia dei
killer che in moto si erano avvicinati, svuotandogli nella schiena i sei colpi
di una .44 Magnum. Praticamente l’avevano segato in due, raccontò ai due
colleghi Casulli, estraendo la macchina fotografica.
Apparentemente Sangalli si era difeso, almeno a giudicare dal disordine,
ma – notò il fotografo della Rilievi, che di cadaveri ne aveva messi a fuoco
centinaia e a differenza di Binda sembrava non risentirne – non era
spettinato, né aveva segni sulle nocche o sotto le unghie. «Sembra che abbia
fatto a botte con un fantasma. E i proiettili se li è presi senza reagire, senza
nemmeno alzare le braccia.»
E che cosa poteva fare? Ah, le stampelle, forse le aveva usate, pensò
Binda. Erano sotto i fogli sparsi, e una era storta e ammaccata: «Giambelli,
prova a vedere tu tra queste carte se c’è qualcosa che potrebbe interessarci».
«Eh, è una parola.»
«Io ci sono già stato, qui dentro, e ho trovato. Ma adesso c’è bisogno di un
occhio più fresco... Cerca tu, io torno dopo, passo dal Fatebene.»

Kurban fumava su una panca appena fuori del reparto Ortopedia, con la
testa fasciata, ma abbastanza tranquillo. Era insieme al carabiniere Pantalò e
sembrava rilassato, ma forse era l’effetto degli antidolorifici. Appena vide
Binda, raccontò subito cos’era successo: «Ieri pomeriggio ci siamo ritrovati
in casa il tizio con le due cicatrici in faccia e una pistola in mano».
«Florio è tornato da voi? E come ha fatto a entrare?» chiese il maresciallo.
«Scassinando la porta. Questa volta non ho potuto fare nulla, mi ha messo
una corda intorno al collo e alle mani e mi ha portato subito nella stanza del
padrone. Conosceva la strada.»
«Lo immagino.»
«Il padrone quando l’ha visto s’è messo a piangere. "Te lo giuro, non so
dove sia, non lo so, credimi." Parlavano di un diamante rubato tanto tempo
fa, non ho capito dove, e Florio diventava sempre più nervoso. A un certo
punto, ha afferrato la stampella del padrone e ha spaccato il tavolino dello
studio. Non riusciva a star calmo. Mi ha afferrato per i capelli e mi ha
mandato a sbattere contro il muro, facendomi non dico svenire, ma quasi.
Mi ha spinto e, mentre barcollavo, mi ha buttato a terra. Poi ha trattenuto il
padrone e se l’è portato in archivio. Non so quanto tempo c’è stato...
quando è tornato da me, aveva la bava alla bocca per l’agitazione. Ha tirato
la corda, il collo mi faceva male, mi ha detto: "Dove può essere la
refurtiva?"».
«Tu sai di che cosa parlava» sostenne Binda.
«Penso di quel diamante. Ma io gliel’ho ripetuto che non ne sapevo nulla,
l’ho sentito dire da loro. Mi ha schiaffeggiato e preso a calci, e lasciato là.
Ha girato per casa, con calma. Ha preso libri, è passato di stanza in stanza.
"Forse ho capito" gli ho sentito borbottare, e a quel punto mi ha mandato a
sbattere con la testa contro quello spigolo. E stato poche ore fa.»
«Kurban, ma non c’era modo di farlo ragionare, di fermarlo?»
«No, è un pazzo pericoloso e molto cattivo.»
«Dovrai ripetere queste cose in caserma, quando il medico ti lascerà
andare. Ti serve qualcosa?»
«No, no. Va bene così. Solo una cosa, maresciallo.» «Dimmi.»
«Siamo sicuri che non viene nessuno a uccidermi?» «Se Florio avesse
voluto, saresti già morto.»

Sui Bastioni di Porta Venezia erano fermi i bus dei turisti. I motori
arrostivano l’asfalto. A fare da autista a Binda c’era il carabiniere sardo, che
non fiatava mai. Il portone del palazzo di corso Venezia era assediato dai
giornalisti: s’era diffusa la notizia della morte tragica del famoso impresario
in rovina e quell’omicidio era stato messo in relazione con gli altri due,
della soubrette Lavinia Marbella e del comico Ettore Ferri. Binda senza
rispondere a nessuno entrò e salì al primo piano, dov’era arrivato anche il
capitano, rapidamente informato da Dante Giambelli, che continuava a
frugare nell’archivio dell’impresario.
Dopo qualche scambio di frasi, Binda ricominciò a muoversi per la casa in
lungo e in largo. Troppo grande per una persona sola. Molte stanze davano
l’idea di essere chiuse da mesi, non aerate. Sollevò alcune lenzuola
impolverate che coprivano i mobili e trovò sul divano con il bracciolo a
forma di becco d’uccello una pistola Bernardelli con la matricola abrasa.
Poteva anche essere l’arma del delitto, o forse un’arma che Sangalli s’era
procurato, temendo per la sua vita. Senza toccarla, Binda avvisò Casulli ed
entrò nello studio, dove il tavolino della scuola Oeben era spaccato a metà.
Il prezioso intarsio irrimediabilmente perduto. Là Florio aveva picchiato
Sangalli, o Kurban.
Osservò con calma la libreria, molto fornita. Centinaia di gialli di ogni
parte del mondo, tutte le prime edizioni di Giorgio Scerbanenco. E molte
foto del Duomo di Milano. Un volume aveva un segnalibro: Binda lo prese,
lo aprì, lesse una frase sottolineata: "La sua vastità impressiona, ci si perde
nei suoi 12mila metri quadrati di superficie, tra le sue 3400 statue. È stato
calcolato che mettendo una sull’altra tutte le strutture, si supererebbe il
Monte Bianco".
Sempre più incuriosito per la piega che stava prendendo quell’inchiesta,
spalancò la porta di uno dei salotti: il Duomo di Milano era riprodotto
dall’alto, in ogni sua componente architettonica. Una visione incredibile,
che lasciava esterrefatti. Guglie e prospettive disegnate con mano precisa,
forse da uno scenografo, o da un architetto.
Un numero era scritto con il pennarello rosso e seguito da tre punti
esclamativi: "12mila!!!". Era la superficie della cattedrale, che venne
cominciata nel 1386 e finita nel 1814, come si leggeva sopra lo stipite della
porta. Numeri e simboli comparivano dovunque, nella stanza, sopra le varie
mappe.
"Il popolo di pietra." Questa scritta a mano doveva averla fatta Sangalli,
così aveva chiamato le statue. Molti personaggi di questo popolo erano
contrassegnati da croci, cerchi, asterischi, parentesi. Non tutte le statue,
però, avevano un simbolo grafico. Su alcune c’erano segnacci a pennarello,
come se avesse voluto cancellare la rabbiosa delusione. Forse aveva smesso
anche di cercare, forse non aveva mai trovato quello che cercava.
Binda si stava facendo un’idea più precisa. Aveva solo bisogno di calma e
di rimettere a posto alcune tessere, ma non c’era più il tempo per farlo senza
correre rischi.
Chiamò Giambelli c il capitano, che restarono a bocca aperta davanti alle
riproduzioni del Duomo. Bisognava fare presto, sbrigarsi, ripeté Binda,
mentre ragionava veloce ed esponeva le sue deduzioni: «Mettiamo insieme
quello che abbiamo, Dante. C’è un criminale che esce dal carcere e viene a
Milano. Dopo il suo arrivo, registriamo i primi due morti, il risultato della
vendetta. Adesso il terzo morto, questo Sangalli, ammazzato per qualcosa
che possiamo intuire, ma che ci sfugge. E altre cose, tante altre ci sfuggono
ancora, ma abbiamo una certezza: vengono dal passato, dal 1959, dalla
rapina di via Montenapoleone, con il diamante scomparso... Dal 1959, come
i due morti ammazzati e bruciati nell’Appia, il tecnico dell’Enel e quel
marmista che, guarda caso, lavorava in Duomo. Tu cosa faresti, Giambelli,
quello che farei io?».
Il giovane vicebrigadiere annuì. «Ci andiamo noi?»
Binda scosse la testa e, piuttosto ansioso, telefonò in caserma. Trovò
Aloisi, detto Kalì, e gli ordinò di presidiare il Duomo, con qualche
carabiniere in borghese, portandosi dietro la fotografia di Florio. Al
capitano, piuttosto perplesso, aggiunse: «Non so esattamente che nesso ci
possa essere tra il Duomo e questa gentaglia, ma un nesso c’è, e bisogna
tentarle tutte per non farsi scappare dalle grinfie questo assassino».

Binda tornò da solo in caserma. Il caldo era arrivato in città a 37 gradi:


sempre meglio di Cagliari, dove si erano superati i 40. Benedisse i muri
antichi dell’ufficio, ma dovette spegnere il ventilatore gigante portato da
Kalì: non riusciva, per il vento e il rumore, a studiare con calma tutti i
fascicoli che aveva preso con sé. Lesse, lesse: i vecchi fatti del ‘59, gli
assassini dei due teatranti, le schede di Florio. Voleva pensare come Florio,
anche se non era facile.
Stava per mandare a quel paese chi bussava alla porta aperta dell’ufficio,
ma scattò in piedi scorgendo il generale Casiraghi, con il cipiglio dei giorni
peggiori. «Noi ci conosciamo» esordì il superiore. «Inutile che ti ripeta
quanta fiducia e stima abbiamo di te, però il lavoro che ti ho affidato
langue.»
«Ha ragione, generale. Ma qua alla Sezione...»
«So tutto. State lavorando su quei tre casi di omicidio collegati, però io ho
ancora bisogno del tuo aiuto. Finisci di controllarmi quella lista di persone,
fai il rapporto, dobbiamo chiudere la pratica. La tua storia dei mille miliardi
può essere fondamentale, anche se alcuni analisti spiegano che i mille
miliardi sono scomparsi solo sulla carta, nel senso che c’è stato il calo delle
azioni di Borsa e non si trovano alcune lettere di credito, che però ci sono e
arriveranno. Ma io credo più a te che agli analisti. E altre informazioni, poi,
ci arrivano da Londra. Tu ne ha visti tanti, di cadaveri, quindi capirai di
cosa parlo. Come sai, già arrivare sotto quel ponte dove l’hanno trovato
impiccato, con due pietre in tasca, è impresa da atleti, e non da gente di
banca come Calvi. Ma mettiamo che ci sia riuscito da solo, sai che cosa ci
manda a dire da Londra l’ufficiale che abbiamo inviato come osservatore?»
Il generale abbassò appena la voce: gli stava dando informazioni riservate.
«La corda che ha impiccato Calvi era su un’impalcatura arrugginita. Ma
Calvi non aveva sulle mani segni di ruggine. Come può essersi
arrampicato? Volando? Ce l’hanno messo a forza. E non solo...» Il generale
scosse la testa. «Anche le pietre che gli hanno trovato in tasca sono porose,
ma sulle sue mani non hanno lasciato traccia, c’erano residui calcarei solo
nelle tasche. Quindi nemmeno quei sassi li ha toccati, gli sono entrati nella
giacca volando... Hai capito?»
«Omicidio.»
«Omicidio, sì. Un delitto "perfettissimo", perché i delitti perfetti li
scopriamo... questo ci farà dannare chissà per quanto tempo. Anche perché
accanto a questi indizi, per me già sufficienti, a chiarire che non è un
suicidio ci è arrivava una soffiata. Una soffiata pesante. Per la precisione, da
Palermo. Anche da lì, negli ambienti dell’onorata società, si confidano che
è stato ammazzato "per i piccioli", i soldi. L’hanno fatto fuori loro, anche se
gli esperti inglesi chiuderanno il caso come suicidio.»
«Perché?»
«Perché sì: non ammettono che la mafia li possa minacciare da vicino,
pensano di essere ancora un impero... Comunque sia, è omicidio, e questa
certezza si sposa perfettamente con quella storia che hai scoperto tu. Sei
stato utile come mi aspettavo: cerca di scrivere in fretta il rapporto che ti ho
chiesto. Comunque devo farti i complimenti.»
«Grazie, signor generale.»
«Peccato, noi andiamo così d’accordo, e la tua è stata una carriera
normale, Binda... Non hai voluto entrare nella mia Sezione e ti sei mosso
poco dal Nord, anche se le tue note caratteristiche annuali sono state sempre
eccellenti. Fammi un ultimo favore. Pensa a un bravo sottufficiale da
mandarmi a Roma, perché ho ancora bisogno di restare qualche anno sulla
breccia.»
«Generale, perché lo chiede a me?»
«Perché sei uno che ascolta, che capisce, che segue molto spesso la pista
giusta. E poi, per dirla tutta, noi cerchiamo collaboratori che sappiano cose
che non possiamo scrivere, che abbiano non solo un cervello, ma che siano
anche onesti.»
Noi chi? si chiese Binda. Un tempo "noi" significava solo l’Arma, ma
adesso, quel "noi", con l’Italia che stava cambiando, poteva significare
troppe cose. E lui, poteva fidarsi di Casiraghi? Vallo a sapere.
Dieci

Appena uscì dalla caserma, si ritrovò bagnato fradicio. Uno scirocco da


Mezzogiorno d’Italia ardeva nella città nonostante fosse scesa la sera. Sulla
strada per il Fatebenefratelli, Binda si fermò a comprare un po’ di frutta
tropicale in un negozietto carissimo, che gli faceva un po’ di sconto.
Finalmente arrivò al reparto di Ortopedia, ma del maggiordomo non c’era
più alcuna traccia.
«Se n’è andato. Ha firmato...» gli comunicò la caposala, una trentenne con
gli occhiali rotondi e i capelli a zero.
«Ma come?»
«Non era in arresto, così ci hanno detto i carabinieri che l’hanno portato.
Gliel’abbiamo chiesto apposta.»
Il maresciallo poteva essere scambiato per un parente disperato, tanto si
levarono le sue urla contro Pantalò e il sardo di cui non ricordava il nome.
Kurban aveva tagliato la corda, se n’era tornato in seno alla sua famiglia di
zingari suonatori, o dove?

«Con questo due a zero di oggi andiamo alla finalissima per vincerla» li
accolse il padrone di casa, il papà di Achille Minutri, stappando una
bottiglia di champagne. Guidava i suoi invitati tra le inconsuete sfumature
pastello degli intonaci e i microscopici fari punati a illuminare un paio di
quadri. Nessuno dei carabinieri era mai entrato in una casa come quella, che
testimoniava una grande ricchezza, un solido potere, un’educazione
autentica. La cena, che in realtà appresero chiamarsi pranzo – la cena è
dopo gli spettacoli, e a mezzogiorno si fa colazione, ciumbia, ei savevi no -
era all’altezza della casa.
Non avevano potuto sottrarsi all’invito: un paio di alti ufficiali avevano
personalmente chiamato Binda per sollecitarlo a trovare una data possibile
per festeggiare «i quattro ragazzi innocenti che devono dire grazie
all’Arma» e così si erano presentati, portando un mazzo di rose bianche per
la padrona di casa e il loro robusto appetito. Antipasti italiani, riso alla
marinara, aragoste ovviamente alla catalana, formaggi di sei qualità diverse,
gelato e frutta. Una mangiata colossale. I vini serviti da un paio di camerieri
erano bianchi friulani, profumati, e rossi toscani, intensi e antichi, tra cui un
Intistieti, di cui Binda prima di quella sera non aveva mai sentito parlare ma
che si accaparrò dopo il primo sorso. La tavola era apparecchiata con una
larga tovaglia con ricami al tombolo, calici di cristallo, posate d'argento,
piatti decorati. Nella splendida casa dei ricchissimi Minutri le vettovaglie
erano arrivate sul furgoncino bianco di un famoso negozio di gastronomia
alle spalle di piazza Cordusio, senza perdere odori e sapori nonostante il
traffico, i caroselli delle auto, le bandiere italiane che sventolavano già dalle
sei, a partita ancora in corso, per festeggiare il sonante successo - sonante,
dicevano in tv, chissà perché - sulla Polonia.
Grazie al calcio e alla padrona di casa, che rovesciò, forse apposta, un
bicchiere d'acqua, vennero superati i primi momenti di imbarazzo. Bevuto
lo champagne come aperitivo e sistemati sulle sedie, con Binda a
capotavola da una parte e il dottor Giangi Minutri dall'altra, i commensali
accantonarono gli elogi a Paolo Rossi e a Bearzot e s'impegnarono in una
conversazione amichevole e rilassata. L'agente Logiudice, che era poco più
grande di Achille, venne invitato a raccontare il suo impatto con Milano.
Michi, un ragazzo dagli occhi davvero malinconici, annunciò di voler
cambiare lavoro: non avrebbe fatto l'elettricista, ma sarebbe diventato
"aspirante aiuto meccanico" in un'officina specializzata in motociclette
giapponesi, la sua passione. Adriano, che per il momento aveva accettato un
posto da centralinista in un'azienda dove il padre di Achille aveva degli
interessi, appariva il più tranquillo, e Ugo teneva banco, con una raffica di
facezie sulla sua vita da pony express e sociologo. Achille era come
bloccato dalla presenza dei genitori e si limitava a sorridere.
Dei carabinieri, solo Pantalò dava davvero corda ai quattro amici. E si finì
per parlare di San Vittore. Il loro ospite, dopo un discorso di circostanza
piuttosto falso sul ritrovato rapporto con suo figlio grazie anche a quella
pessima avventura, si era messo facilmente al centro dell’attenzione.
Sosteneva che gli imprenditori milanesi erano i più bravi dei mondo, ma
non avevano mai avuto amministratori pubblici che sapessero correre
quanto loro: «Ma può un privato gestire un carcere? Dopo quello che mi ha
detto mio figlio, credo che sia pazzesco per chiunque, anche per un
colpevole, finire in un luogo di "dimenticanza". Vorrei fare qualcosa, posso
diversificare gli investimenti.».
Kalì, che di persone "in casanza", "al numer du", in "villeggiatura", ne
aveva accompagnate e riaccompagnate una caterva, spostò il baricentro del
discorso: «Stare in carcere non è facile nemmeno per un direttore. L’unica
realtà di cui tutti, anche i politici, dovrebbero ricordarsi, è che quelli che
stanno in galera sono persone come noi, con figli, mogli e guai. E che a
tutti, in teoria, può capitare di essere arrestati, anche ai ricchi, anche agli
amministratori pubblici. Per la verità in Italia non è mai successo, ma non è
detto che non succeda».
Il papà di Achille era molto scettico in proposito, ma aveva convenuto con
il sottufficiale: «Se in Parlamento pensassero almeno a questo, adesso c’è
anche la crisi di governo con Spadolini... Che Italia, con i socialisti che
ormai sono riusciti ad avere persino un presidente della Repubblica, come
Pertini... ma al Craxi non gli basta mai».
«Comunque» riprese Kalì «lascerei questi discorsi e farei il solo brindisi
possibile. Alla libertà di questi ragazzi.»
Era curioso veder brindare carabinieri ed ex detenuti, anziani e giovani,
alla libertà, ma andò così, e i discorsi divennero sempre meno formali.
Binda dovette raccontare qualche vecchio caso che li fece ridere, e una
storia che non se ne andava dalla sua testa, quella di un bimbo ucciso dalla
madre che l’aveva buttato nel Lambro. La serata scorreva comunque
tranquilla, e mentre il cameriere portava le bottiglie di liquore i tre gruppi si
separarono come se ci fosse un tacito accordo. Achille e i suoi amici si
piazzarono davanti al televisore, per una delle partite del Mundial. I genitori
si accomiatarono per «qualche telefonata improrogabile». E Binda, Kalì,
Giambelli, Pantalò e l'agente Logiudice si ritrovarono sulle scale e,
seguendo il consiglio di Pantalò, andarono ai Giardini Pubblici di via
Palestro. I cancelli erano chiusi, ma era facile scavalcare: appena dietro la
pompa di benzina mancavano due sbarre di ferro.
«Va be' che siamo carabinieri, ma entrare così» protestò Binda, in realtà
piuttosto divertito. I suoi accesero qualche sigaretta. Volevano approfittare
di quella serata per finire di analizzare insieme il caso Florio, come
l'avevano chiamato in caserma.
«Allora, l'ipotesi è che quelli della banda dei Cavallini abbiano nascosto la
refurtiva della grande rapina di via Montenapoleone da qualche parte nel
Duomo» iniziò il più alto in grado. «Non so come, ma dev'essere andata
così. Florio è qui e vuole cattarsela su, ed ecco perché è tornato, ma noi
adesso siamo preparati e sorvegliamo la cattedrale.»
«Magari l'ha già presa» disse Kalì.
«No, e dopo vi dico il perché. Sapete che un vecchio non dorme come i
giovani. A proposito di dormiglioni... Giambelli» gli puntò il dito contro
«non sei tu che hai la maturità classica?»
«Sì.»
«Allora facci un bel riassunto di quanto abbiamo scoperto, così vediamo se
ci sono punti deboli.»
Giambelli, che aveva bevuto più del solito e mangiato poco, si schiarì la
voce, ma le idee fluivano ordinate. Cominciò come se avesse preparato una
conferenza: «Siamo nel 1959 e viene organizzata la grande rapina in via
Montenapoleone. È il classico colpo perfetto, sparisce l'Occhio di
Poseidone, o Occhio del Mare. Insieme al prezioso diamante, passano dalle
mani del gioielliere a quelle dei misteriosi banditi decine di pietre preziose
e alcuni chili di oro lavorato. Il gioielliere, che abbiamo sentito e risentito,
ha avuto un po’ di soldi dall’assicurazione, ma ci ha messo anni prima di
tornare finanziariamente in piedi. Nonostante i suoi sforzi e le indagini di
alcuni investigatori privati, del suo tesoro nessuno ha saputo nulla.
Soprattutto del diamante. L’ultimo proprietario, un possidente inglese, ha
offerto l’equivalente di duecento milioni a chi glielo riporterà.»
«Una discreta sommetta.»
«Che nessuno si è mai presentato a riscuotere. E qui sta un punto centrale
del discorso.»
La guardia scelta Logiudice annuiva senza perdere una sillaba. Avrebbe
voluto diventare come loro, un investigatore. Stare sulle volanti,
scaraventarsi nel traffico e superare in velocità la fretta di Milano, trovarsi
in situazioni d’emergenza giorno dopo giorno, notte dopo notte, non
corrispondeva al suo carattere riflessivo. Ascoltò con attenzione quanto
diceva Giambelli, il carabiniere brianzol-tunisino.
«La tecnica del gruppo, come sappiamo, è conservare il bottino e spartirlo
solo quando le acque si calmano. Con un simile diamante sparito è difficile,
impossibile che le acque si calmino presto. C’erano stati posti di blocco
ovunque, perquisizioni a tappeto, anche le abitazioni di Bugatti e altri della
banda erano state rivoltate come calzini, senza trovare nulla. Qualche
giorno dopo via Montenapo, Florio decide di spostarsi un po’ più lontano
dal centro e studia un colpetto in coppia, come pare fosse un’altra abitudine
della superbanda, visto che anche il capo non disdegnava le rapine
accompagnato da un complice di cui non sappiamo nulla. Ne sa qualcosa
solo il nostro Binda, vero?»
«Lassa sta, Dante, vai avanti, che adesso ti fai le domande e ti dai anche le
risposte.»
«Maresciallo, prego, non interrompa» ridacchiò Giambelli. «Dunque
anche Florio il colpo non lo mette a segno con i soliti amici, ma con la sua
donna. Come se si fosse isolato e fosse rimasto senza il becco di un
quattrino... questa è una risposta logica. O come se gli altri avessero mollato
Milano a rotta di collo. O come se ognuno avesse un suo compito.»
«Anche questo mi sembra giusto» disse Kalì.
«Infatti, magari Florio aveva tempo libero perché il capo gli aveva dato la
metà delle indicazioni per il recupero del bottino.»
«Mentre qualcun altro» intervenne Pantalò «assolveva al compito più
crudele previsto dalla strategia d’attacco alla gioielleria.»
«Ragazzi, scusate, voglio sentire Giambelli» intervenne il maresciallo.
Chissà perché, si chiese il giovane investigatore, ma proseguì: «Grazie,
Pantalò, quello che dici è vero. In quegli stessi giorni vengono trovati
ammazzati in un’Appia un caporeparto dell’Enel, che gestiva le centraline
di piazza San Babila, e quindi di via Montenapoleone, e un marmista con un
passato da "leggera" che lavorava sul Duomo. Di questi due le famiglie non
sanno nulla, se non la sorella del marmista. È un’indicazione minima, ma
utile. Racconta di come le avesse detto: "Sto per diventare ricchissimo,
vedrai, Nina... mi compro i denti nuovi". Come può un marmista diventare
ricchissimo?».
«Nel ‘59 c’era già il Toto nero?»
«Uhm. La risposta è un’altra. Se il nostro discorso fila, si può ipotizzare
che i due amici, conoscendosi, abbiano parlato della possibilità di una
rapina, ma non potendo realizzarla in proprio si siano rivolti agli specialisti.
E gli specialisti hanno detto sì. Uno specialista, peraltro, dice sempre sì. Poi
fa come gli pare.»
«E in questo caso...» incalzò Binda.
«La banda dei Cavallini accetta la proposta, sfrutta ogni indicazione, mette
a segno il colpo. Ma poi, per i due, non va come avevano sperato. Per non
lasciare testimoni, o per non spartire in troppi, Bugatti dà l’ordine di
eliminare marmista e caporeparto. Ma... attenzione alle date... li elimina tre
giorni dopo il colpo. Non subito. A che cosa servivano?»
Logiudice stava per intervenire, ma Binda gli fece cenno di stare zitto.
«La risposta è semplice, le varie tracce trovate a casa Sangalli parlano
chiaro» disse Giambelli. «Grazie al marmista, complice riverito che verrà
degradato a vittima, la refurtiva era stata nascosta nel posto che è davanti
agli occhi di tutti, ma nello stesso tempo è il più sicuro di tutti.»
A questo punto, Logiudice sussurrò: «Il Duomo».
«Esatto, il Duomo. Ma il Duomo è vasto, è frequentato, ha mille
nascondigli. Stiamo vedendo noi in questi giorni, che casino, per
sorvegliare tutto quanto, dentro e fuori.»
«Inoltre» intervenne ancora Logiudice «se il marmista e il caporeparto
avevano davvero pensato a mettere a segno la rapina da soli, e quindi hanno
avuto tanto tempo per meditare, possono anche aver escogitato un imbosco
perfetto.»
«Sono d’accordo. Infatti, senza le due mezze verità, chi può riuscire a
sapere dov’è stata messa la refurtiva? Lo sa Asio, il rapinatore colto e senza
scrupoli, che però muore senza più tornare nella Milano delle sue
scorribande. Lo sa il marmista che però, come abbiamo detto, passa
malvolentieri a miglior vita insieme al suo amico dell’Enel. E lo sanno, se
ha funzionato il solito schema delle mezze verità, due uomini della banda.
Solo due, come è la prassi. Ma chi sono? Noi non c’eravamo, ma visto
quello che è accaduto dopo, uno è senz’altro Florio, e ci metto la mano sul
fuoco. E l’altro, per me, è in qualche modo Sangalli.» Tacitò i brontolii. «O
comunque uno legato a Sangalli. Adesso vi chiarisco come ci arrivo.
Mettiamo in fila date e persone.»
Giambelli ottenne il silenzio e ragionò ad alta voce: «Florio non è uno che,
come abbiamo visto, sta a riflettere più di tanto, Si muove come un animale
da preda, ha fiuto, ha zanne e artigli, la sua forza è saper vivere alla
giornata. All’inizio non può fare nulla per arraffare il maltolto, ha la sua
mezza verità, che sia una botola, sia una statua, sia una panca, qualsiasi
cosa sia, sa cos’è, ma non sa dov’è. Non ci perde il sonno. Solo per la sua
Cipriana soffre: il resto del mondo è per lui come un panino da
sgranocchiare. Comincia a fare l’emigrante della rapina, se ne va in tournée
all’estero, nelle banche svizzere. Rimedia altri complici, è sempre più
cattivo e spregiudicato, ogni tanto ci pensa, al diamante, ai gioielli, all’oro,
ma a parte incazzarsi, che cosa può fare? Niente e, per contrappasso, ne
combina tante e tante: rapine, contrabbando, armi, droga, ma alla fine torna
in galera. Una condanna che sarà di dodici anni e passa. Svizzera, Novara,
ma alla fine esce. E quando esce, eccolo bel bello che viene qua».
«A Milano» puntualizzò Lo Giudice.
«La sua prima tappa è filare dritto sparato da Sangalli. Lo mena,
probabilmente si fa dire cose che noi non conosciamo. O forse vede la
mappa del Duomo nella camera. Comunque, è evidente che ha inquadrato
Sangalli come l’uomo che possiede l’altra mezza verità. Insieme, possono
diventare miliardari.»
«Non lo sapeva nel ‘59, perché se no non sarebbe stato tanto all’estero ad
assaltare banche» aggiunse ancora Logiudice.
«Esatto. Secondo logica, nel ‘59 Florio ignorava chi fosse il complice a
conoscenza del mezzo segreto sul nascondiglio del bottino, ma adesso che
qualcuno gliel’ha detto, si fa avanti con tutta la violenza di cui è capace.»
«Che non è poca.»
«Non è poca no... La prova di quanto dico sta anche nell’analisi dei
movimenti di Sangalli.»
«Movimenti? Ma se sta sempre immobile come una statua» intervenne
Logiudice.
Giambelli annuì: «Immaginiamo il Sangalli negli anni sessanta, quando è
al top e se la spassa. Ricco, disinibito, potente. Un ventennio da leone.
Produce, incassa, spende e spande, finché non arrivano gli anni settanta.
L’impero traballa, ma è probabilmente in quel periodo che Sangalli
apprende la storia della famosa rapina di via Montenapo e della refurtiva,
del diamante che ogni collezionista vorrebbe avere. C’è una sua foto alla
Fondazione Cariplo, alla presentazione di un libro in due volumi sul
Duomo. Era il 1973, quindi allora lui sa solo che la possibilità di una nuova
vita è nel Duomo e che un altro uomo, chissà chi, forse uno che addirittura è
morto, ha o aveva l’altra mezza parte di mappa. Per uno come lui, che
psicologicamente si dimostra un essere umano di genere opposto a Florio,
dev’essere stato drammatico andare sempre più in malora e sognare che
avrebbe potuto ribaltare la situazione. Come avvicinarsi al tesoro? Non ne
ha la più pallida idea, non è facile. Questo logorio lo leggo nella mappa
gigantesca che ha disegnato a mano sulle pareti. S’era impegnato proprio a
fondo. Ci ha messo la testa, nella sua determinazione. Ma i risultati sono
stati nulli».
Alcune bandiere tricolori comparvero in via Palestro: spuntavano dai
tettucci apribili e dai finestrini di un corteo di auto, e in lontananza
risuonava la tromba bitonale di un tir.
Dante Giambelli attese che la confusione dei tifosi dell’Italia diminuisse e
riprese: «Finché non si sono incontrati, sia Florio sia Sangalli erano a un
punto morto. Chi lo propizia? Io penso sempre che possa essere stato uno di
quelli che il maresciallo è andato a sentire all’inizio, il mimo Paolo Perego,
ma lui ha negato su tutta la linea, quindi, lasciamolo in sospeso. Comunque
sia, questo incontro si tiene e sarà fatale all’impresario. Il Sangalli... questa
l’unica ricostruzione possibile in base a quanto sappiamo... quando si
accorge che Florio sa usare le mani ed è armato, si terrorizza nemmeno
avesse visto Belfagor. È uno che ha truffato la Siae, ha evaso il fisco, ha
avuto amici tra i balordoni, ma non è un criminale incallito. Perciò per
proteggersi chiama Kurban, ma anche Kurban per quanto sia grande e
grosso, è inutile di fronte a un assassino come Florio. Un animale da preda,
un Florio che è tornato il Guerriero di vent’anni prima e ha in mente due
cose. Una è la caccia a quelli che crede gli infami. L’altra è la caccia alla
refurtiva».
«Ma può essere che covi la vendetta per oltre vent’anni?» chiese
Logiudice, rapito da quella ricostruzione così razionale. Man mano che
Giambelli dipanava la matassa, gli indizi che aveva appreso trovavano la
collocazione giusta. Ma la mentalità criminale, lui non sapeva cosa fosse.
«Possibile che Florio preferisca ammazzare qualcuno prima di prendere il
diamante?»
«Scherzi? Non è il conte di Montecristo. Un morto in più o in meno, che
cosa gli cambia? E così lui arriva e fa un po’ come vuole, lupo tra le pecore.
Picchia Sangalli, uccide Lavinia Marbella perché tenta di fuggire, uccide
Ettore Ferri perché l’ha venduto ai questurini. Sin qui, è tutto chiaro? Bene.
Poi che fa? Torna da Sangalli e lo fredda. Ecco, qui dobbiamo fare
attenzione. Gli spara per qualche ragione che non sappiamo, forse perché
gli ha detto la sua mezza verità e ormai non gli serve più. O perché teme di
essere fregato. Non lo sappiamo con certezza, e il nostro testimone, Kurban,
purtroppo...»
Si percepì, anche nel buio, l’imbarazzo di Pantalò, colpevole della fuga,
che gettò via quella che aveva definito "una sigaretta indiana", ma poteva
anche essere qualcosa d’altro. «E allora?» borbottò.
«Purtroppo nessuno è riuscito a rintracciarlo. E queste sono tutte le carte
che abbiamo in mano.»
«Bravo, una ricostruzione perfetta» si congratulò Binda. «Non avrei saputo
fare di meglio neppure io, ma...» «Ma...?» chiese Giambelli.
«Dante, da quando abbiamo cominciato a conoscere la struttura della
banda dei Cavallini mi gira nella testa una domanda: "Perché mai Asio, un
rapinatore capace di usare il cervello e così spietato da ammazzare anche i
basisti, affida la metà di un segreto così importante, il nascondiglio del
colpo più straordinario della loro carriera, a un minus habens come Elmo
Florio?".»
Gli altri ammutolirono.
«Non riesco a capirlo» continuò il maresciallo. «Perché corre il rischio di
far andare tutto in vacca? Lo chiamavano Guerriero, ma anche Cece, perché
non sapeva star zitto, e Asio, che ha a disposizione gente più fidata, tipo
Pippo Palestra, o la Volpe e la Volpe, si rivolge a lui?»
L’obiezione era giusta, il capo era sempre il capo. Cercarono risposte poco
convincenti, comunque Binda era molto soddisfatto di quel dopocena di
lavoro. «Giambelli, sei un perfetto analista, dovresti lavorare al ministero...
Hai grandi qualità, e vorrei vederti crescere» gli disse, pensando che
sarebbe stato davvero il caso di mandarlo a Roma, al fianco del generale
Casiraghi.
«Grazie, capo, ma poi loro diventano invidiosi.»
Gli altri colleghi, in realtà, al ministero non avrebbero mai voluto mettere
piede. Kalì perché era bresciano e a Roma era andato solo in viaggio di
nozze per vedere il papa. Demetrio Pantalò perché, anche se non poteva
dirlo nemmeno ai suoi colleghi, era davvero un carabiniere comunista.
Quindi ridacchiarono, fecero qualche battutina, finché Binda non parlò di
nuovo: «Adesso, Giambelli, rispondi all’ultima domanda: noi come
possiamo agire?».
«Secondo me sorvegliando il Duomo, come stiamo facendo, ma è
dispendioso in quanto a uomini e mezzi ed è sempre a rischio. Sarebbe più
bello giocare d’anticipo, avviare indagini sul possibile imbosco e aspettarlo
lì, quando Florio andrà a prendersi il bottino.»
«Magari il diamante ce l’ha già in tasca» ripeté Kalì.
«Se l’avesse preso, non starebbe più a rischiare il collo a Milano. E invece
c’è» rispose Binda, con un sorriso furbo. «Come vi avevo detto, ho una
notizia. Mi ha telefonato il più giovane dei due fratelli ricettatori... com’è
che si chiamano?»
«I Formenti. Arturo?»
«Sì, lui. Ha saputo da un non meglio precisato amico che è stato Florio a
rapinare qualche giorno fa le sei farmacie tra Loreto e Porta Venezia. In una
ha trovato mezzo chilo di morfina, che ha rivenduto per quattro milioni. Ho
mandato il sardo in giro dai farmacisti con la sua foto: l’hanno riconosciuto.
Quindi, Giambelli, visto che ti ho promosso sul campo ad analizzatore
ufficiale, studia un po’ che cosa possiamo fare. Se Florio ha razziato le
farmacie come se fosse un tossico, vuoi dire che era a corto di soldi ed è
rimasto qui. Andate un po’ in giro. Io intanto vorrei dare un’occhiata alla
Valcavallina, non si sa mai. Rischio di finire davanti alla corte marziale, se
non consegno il rapporto per il generale Casiraghi, ma voglio attraversare i
paesini da dove vengono questi che pure da morti ci hanno fatto dannare. Ci
vado domenica, prima della finale. Voglio vedere anch’io se battiamo i
tedeschi come a Città del Messico... ormai ci credo al titolo mondiale e ai
gol di Paolo Rossi. Voi no?»

In autostrada la Fiat 125 veniva superata allegramente da piccole utilitarie,


mentre Binda e Loris davanti, Rachele e Sandra sul sedile posteriore,
chiacchieravano a coppie, interrompendosi a vicenda. Uscirono a Seriate,
poi arrivarono a Sovere, dove un’altra coppia, amici di Loris, li aspettava
per portarli in valle. Un’innocente gita per tutti, meno che per il carabiniere
e l’anarchico, i quali avevano un altro programma.
L’amico di Loris era alto, magro, con occhiali quadrati dalle lenti spesse.
«Quella cima» indicò con passione «è il monte Clemo. Il diavolo in persona
ci salì sopra e decise di sfidare Dio a chi lanciava più lontano uno dei massi
rossastri della zona. La posta in gioco erano, ovviamente, le nostre poco pie
anime bergamasche. La pietra gettata da Satana cadde a Pratilonghi, laggiù.
Ma quella scagliata da Dio arrivò addirittura al di là della valle, sui prati di
Possimo. Il demonio, com’è noto, non sa perdere, anzi s’incazzò di brutto.
Picchiò il tallone nella roccia e sprofondò sotto la crosta terrestre, da dove
emerge il suo respiro gelido e malefico.»
«Che stremissi» scherzò Rachele, che avvertiva la morsa del caldo e
continuava a bere acqua da una bottiglia di minerale. Avrebbe voluto stare a
casa, aveva forti dolori alla schiena, ma non se l’era permesso. Aveva
preferito mettersi uno zainetto sulle spalle e ascoltava con il sorriso
stereotipato quelle spiegazioni di cui non le importava molto: ciò che le
importava davvero era stare accanto al marito. Voleva dirglielo, delle analisi
che andavano male. Voleva creare un clima sereno e dirglielo. Voleva.
«In realtà, queste grandi pietre» continuava l’occhialuto «sono i massi
erratici trasportati anticamente a valle dal ghiacciaio che, tanto tempo fa,
stava lassù, nella faglia di scorrimento tra la dolomia norica e la dolomia
principale. Sono stati quei rivolgimenti naturali a modificare il sottosuolo,
rendendolo simile a un gigantesco polmone. Perciò, d’inverno, quando la
temperatura della valle scende facilmente a meno venti gradi, si formano in
profondità enormi blocchi di ghiaccio. I ghiacci sotterranei resistono per
mesi, sino all’estate, quando si sciolgono, lentamente, goccia a goccia, e
l’aria gelida dei megacubetti filtra da una serie di buche, arriva in
superficie... ed ecco il respiro satanico, che mette i brividi.»
«Ma dove l’hai trovato questo professore?» scherzò Binda, che cercava di
rendersi simpatico.
« È uno che amai suoi posti» rispose Loris.
«In effetti, è così. Io prima di morire vorrei visitare tutti i paesi del mondo,
e sono a buon punto, ma mi piace anche sapere cos’ho sotto casa. Diceva
Danilo Montaldi, uno degli scrittori-sociologi che più amo: "Scrivete i
vostri costumi, se volete conoscere la vostra storia".»
«È quello del libro sulla mala che ti ho regalato» disse Loris a Binda, il
quale a sua volta stava già citando il titolo: Autobiografie della leggera.
«Bene, mi fa piacere. Gli anni sessanta sì che hanno dato qualcosa di
costruttivo; in questi anni ottanta non c’è uno scrittore che non si guardi
l’ombelico. Anche la leggenda di Satana sul monte, come avrete capito,
nasce dall’attenta osservazione, e oserei dire dal rispetto che la gente aveva
un tempo per i suoi luoghi. Qui nessuno ci metteva volentieri piede finché
nel 1939 un botanico dilettante scoprì sul cappello di un cacciatore una
stella alpina appena colta.»
Rachele guardò il marito, facendo segno di non poterne più, ma lui allargò
le braccia. Certo, era difficile interrompere quell’uomo, che forse stava
troppo da solo in riva al lago di Endine, e non vedeva l’ora di accalappiare
qualche cittadino per fare un rifornimento di chiacchiere: «Il dilettante andò
in cerca di altre stelle alpine, le trovò e avvisò immediatamente i botanici
dell’università. Non credevano ai loro occhi e hanno cominciato a studiare
questa valle. Ci abbiamo messo quarant’anni e passa, ma dallo scorso
marzo qui è nata una riserva naturale. Adesso andiamola a vedere e, se
permettete, non parlo più. Lo spettacolo della natura non ha bisogno di
parole».
Meno male, pensarono gli altri. Le tre coppie si misero in cammino, un
percorso facile, breve, ma di grande ricchezza. «Vado piano per godermi il
paesaggio» disse Rachele. Calpestavano un tappeto di pervinca, le tonalità
rosa e violetto le dava la genziana, fiorita in ritardo, il giallo e il bianco la
biscutella, l’anthillis e la potentilla, e un mare di migliaia di ciclamini
arrossava la natura.
L’amico di Loris indicò una piantina. «È una pinguicola» disse «le sue
foglie carnose di colore verde e giallognolo formano una rosetta di
ghiandole appiccicose che intrappolano gli insetti, e lei li digerisce.»
Rachele, che già si sentiva male, volle sedersi, affaticata, ma il marito non
si preoccupò, pensava che anche Florio, come una mosca, doveva incappare
in una trappola costruita per lui dentro il Duomo. Doveva credere di
avvicinarsi al nettare, ma sarebbe rimasto invischiato.
La gita finì in un’osteria alla buona, dalla quale i due amici milanesi
andarono via con una scusa, lasciando le mogli dopo aver ingollato il
secondo, un sanato all’olio. Si fermarono a parlare con una sorella di Florio,
ma la povera donna disse che, per quanto ne sapeva lei, era ancora in
carcere, in Svizzera, che la famiglia con lui aveva rotto ogni rapporto. Una
stranezza però l’aveva colpita. Disse che nel solaio di una cugina erano
andati i ladri, ma non avevano portato via nulla.
"Era Florio, tornato a prendersi le cartucce" pensò Binda soddisfatto di
quell’altro piccolo tassello che andava al posto giusto. Quando arrivarono
alla tavola sotto la pergola, la trovarono vuota. Gli altri erano scappati
perché, chiarì l’oste asciugando una pentola, una stava male. Era Rachele,
l’avevano portata agli Ospedali Riuniti di Bergamo.
Loris e Binda vi si precipitarono, ma trovarono tutti fuori dal Pronto
soccorso, tranquilli e sorridenti. «Un calo di pressione» disse Rachele.
Aveva deciso di tenersi il segreto ancora un po’. Suo marito le appariva
troppo preso dalla sua indagine e dal lavoro per il generale Casiraghi. Era
inutile dargli altri grattacapi.

Piazza Duomo sembrava un campo di battaglia: la festa era durata tutta la


notte, sino all’alba, ma adesso un silenzio da sagrestia e un fresco da
cantina accolsero Binda e Giambelli negli uffici della Veneranda Fabbrica
del Duomo, in via Arcivescovado. Il responsabile, l’ingegner Carlo Ferrari
da Passano, li liquidò in pochi minuti, affidandoli a un giovane collega con i
baffi a manubrio. Era una giornata tersa.
«Non vi andrebbe di salire in cima al Duomo?»
Si bolliva, stando con i piedi sui marmi di Candoglia. Fermi all’ombra di
uno dei gugliotti, il capo della Sezione omicidi chiese: «Se le faccio
domande che le sembrano assurde non si inquieti. La nostra indagine è
arrivata a una svolta, ma abbiamo bisogno di aiuto».
«Dica pure.»
«Un estraneo può riuscire a entrare nel Duomo, sia dentro, sia quassù, e
manomettere qualcosa?»
Sopportare il pensiero che qualcuno potesse rovinare anche solo un pezzo
della sua creatura faceva fremere l’ingegnere. Alcuni di quelli che ci
lavorano, pensano che il Duomo sia come un bambino da curare, da
difendere, da soddisfare nei suoi bisogni. Lui era di quella pasta, era
l’ultimo dei papà delle guglie e ci teneva che svettassero nei secoli.
«Non è impossibile che un estraneo arrivi sin qui, ma» scosse la testa «è
difficile. Ci sono i custodi, la sorveglianza... All’interno della chiesa è
anche più difficile, con i fedeli, il sagrestano, i vigili urbani, direi che è
molto, ma molto improbabile.»
«Allora concentriamoci su questi terrazzi. Qui un estraneo può arrivarci, in
teoria.»
«In teoria, sì.»
«Bene. Uno che arriva, può per esempio manomettere una statua?»
«Una statua?»
«Una statua» ripeté Binda.
«È più facile raschiare, o scrivere parolacce con un pennarello. È più che
difficile, anzi è quasi impossibile, attuare una manomissione vera, come
portare via un pezzo di scultura.» Rabbrividì al solo pensiero.
«Ma un estraneo, se non può lavorare indisturbato intorno a una statua che
già c’è, ne può portare dentro una sua?»
«Una sua statua? In teoria?» chiese l’ingegnere, sempre più stupito dalla
serie di strane domande, ma molto cortese con i due carabinieri.
«In teoria e anche in pratica.»
Annuì. «Non è impossibile, ma occorre una complicità interna. Un
capocantiere, un marmista, un operaio. Da solo non può. Con un complice
interno, sì.»
«E così, grazie a un marmista, può piazzare una sua statua...»
«Eh, sa quanta gente chiede se c’è posto per il tale santo, o talaltro.
Dobbiamo sempre trovare qualche scusa.»
La risposta sconcertò Binda, ma Giambelli, che aveva seguito il filo logico
del discorso, replicò: «State equivocando, scusate. Lui vuoi sapere se un
estraneo può aggiungere una statua senza che nessuno se ne accorga».
L’ingegnere insorse scandalizzato. «Qui entrano ed escono solo le statue
approvate dalla Veneranda Fabbrica del Duomo, è impensabile che ne
arrivino altre... Ma sa quanto pesano, quanto sono alte... ma dico, va bene
che non siamo specialisti come voi carabinieri...»
«E quindi?» riprese la parola Binda.
«Quindi ci vuole un’opera già finita, o quasi da finire, che qualcuno
manomette nel laboratorio, magari, e poi porta qui, ma dopo aver superato i
controlli del caso. Perciò parlavo di un complice all’interno.»
Binda passò in rassegna le risposte ricevute e si voltò verso Giambelli.
«Questo argomento dovrebbe restringere un po’ il campo delle ricerche.»
«Dovrebbe» sottolineò Giambelli, che continuava a guardare il panorama
della città. La Torre Velasca, la Terrazza Martini, il Tribunale, dove sperava
di mandare Florio, il fantasma assassino, e laggiù doveva esserci via Lipari,
la casa di Elena Morandi. Ogni giorno, e soprattutto ogni notte, aveva
pensato di telefonarle. Alla fine l’aveva fatto, senza nemmeno sapere cosa
le avrebbe detto, tentando solo di essere sincero: «Volevo sapere come
stava».
Lei stava male, soffriva, anche se non lo diceva lo si intuiva dalla sua voce
così friabile, in più doveva capire come pagare le tasse di successione.
Giambelli non sapeva più cosa dirle di sensato, ma non voleva chiudere la
telefonata. «Se deve sistemare ancora quelle pratiche, io l’accompagno
volentieri» le aveva proposto e lei aveva accettato. Presto l’avrebbe rivista:
il pensiero gli sbocciava improvviso portandogli un ardore che in parte lo
impensieriva e in parte lo riscaldava, gli teneva compagnia.
«Allora» disse Binda all’ingegnere «mi faccia proseguire con le
domande... lei ci sta aiutando più di quanto immagina. Mettiamo che sia
stata portata una statua, lei sa risalire a quante e quali statue...»
«Le posso dire che il programma di quest’anno prevedeva don Orione,
suor Maria Sala...»
«No, guardi, non sto facendo una ricerca sulle vite dei santi, ma sulle vite
dei criminali. Io voglio sapere... nel ‘59 che statue avete aggiunto?»
«Ma vuole che si sia dedicata una statua a un criminale...»
Non c’era niente da fare, le incomprensioni erano possibili perché i due
parlavano linguaggi diversi: uno cercava di capire dove si fosse annidato il
male, l’altro vedeva solo una vita ordinata come la scansione delle guglie e
delle statue che avevano intorno.
Binda ruppe gli indugi. «Senta, ingegnere. Spero che lei sappia tenere un
segreto, perché a questo punto, visto che non ci capiamo, devo dirle
qualcosa su cui la prego di tacere con tutti. Più di vent’anni fa un rapinatore
ha probabilmente usato una vostra statua per nasconderci qualcosa.»
«Oh Dio, e cosa?»
Binda, anche se a prima vista si fidava dell’ingegnere, non voleva parlargli
del diamante. Preferiva tacere alcuni dettagli. «Mi segua» riprese «nel filo
del discorso. Abbiamo trovato in casa di una persona uccisa una gigantesca
mappa del Duomo, con asterischi e crocette piazzate su varie statue, più una
serie di santini e molte biografie di santi. Da ciò si deduce che qualcuno
abbia utilizzato una statua come forziere. E pensiamo che qualcun altro, un
tizio armato e pericoloso, dopo aver ammazzato alcune persone intenda
venire probabilmente quassù, oppure dentro la cattedrale. Vuole riprendersi
questo qualcosa che è stato nascosto tanto tempo fa e per noi è l’occasione
per castigarlo.»
«Anche se è armato?»
«Soprattutto se è armato.»
L’ingegnere smise di non capire, diventando molto più collaborativo:
qualcuno aveva osato coinvolgere il Duomo in attività nefande? Doveva
pagarla. «Statua vecchia o nuova? Quale avrebbe usato?» chiese.
«E chi lo sa? Sto andando a tentoni, grazie a lei vorremmo individuarla.»
«Va bene. Dunque, lei vuole sapere quali statue sono state collocate nel
‘59, giusto?»
«Giusto» sorrise Binda, finalmente soddisfatto. Si stavano capendo, era
ora.
«Nuove statue o vecchie statue rimesse a posto?» continuò a indagare
l’ingegnere.
«Ma non lo so, direi tutto quello che ha...»
«Anche i blocchi di marmo?»
«Be’, sì.»
«Allora non posso fornirle l’elenco completo, perché di quelli non c’è un
censimento.»
«Allora solo le statue, cominciamo dalle statue» cedette estenuato il
maresciallo.
«Vedrò che cosa posso fare... ma intanto aiutiamoci a vicenda. Devo
cercare, che lei sappia, una statua originale o una copia?»
«Boh» brontolò Binda.
«Lei saprà che di statue ce ne sono...» «Tremilaquattrocento.»
«Bravo, e l’approssimazione è per difetto. Ce ne sono a grandezza
naturale, molte sono alte settanta centimetri, e sono dappertutto. Nelle
andadore, sugli archi, nei gugliotti. Venga che gliene mostro una a distanza
ravvicinata: vedete qua, c’è una catena» la indicò a Binda e Giambelli «che
serve a tenerla ferma, perché durante la guerra c’è stata una strage delle
statue, con i bombardamenti ne erano venute giù tantissime... Ecco, quando
un marmista consegna una statua, noi verifichiamo tante cose, dalla catena
alle superfici del marmo. Io lo noto, se c’è una manomissione, il capo
cantiere lo nota... insomma, se qualcuno ci vuole nascondere dentro
qualcosa... è questo il senso delle sue domande, vero?... allora ci vorrebbe
una lavorazione particolare. Che so, sant’Elisabetta che dà il pane ai
poveretti, e che un qualcosa fosse nascosto in un filone.»
«Le devo portare i santini che abbiamo trovato.» «Sì, giusto. Portatemeli e
vediamo se coincidono con qualche statua. State cercando qualcosa di
deperibile? Forse dell’uranio?»
«No, ma perché...»
«Be’, ho detto uranio perché ne parlano come di un materiale costoso e in
circolazione sul mercato nero. E se fosse stato materiale deperibile, ce ne
saremmo accorti per lo sporco, ma se non è deperibile...»
Il vento soffiava tra le guglie, e Binda non riusciva più a spiccicare parola.
Il simpatico e disponibile ingegnere l’aveva inguaiato con le sue domande e
le sue precisazioni. Comunque, doveva fornirgli l’elenco delle statue erette
intorno al ‘59. Fossero state anche cento, avrebbe messo cento carabinieri a
ispezionarle palmo a palmo con la lente d’ingrandimento o a controllarle a
vista. Non esisteva altra via d’uscita, anche se sapeva bene che nessuno gli
avrebbe dato nemmeno cinque uomini in più.
«Scusi, posso cambiare domanda?» intervenne Giambelli, che sembrava
uscito dal suo torpore. «Ingegnere, mi segua nel ragionamento. Io vent’anni
fa ho messo qualcosa sul Duomo, e adesso voglio tornare a prenderlo. E
difficile, ma non impossibile. Giusto?»
«Giusto.»
«Quindi devo aggirare la sorveglianza e i controlli. Come faccio?»
«Be’, può farsi assumere come operaio, e lavorare per un po’ e...»
«Io so sparare, so uccidere, ma non ho mai sudato in vita mia. Inoltre, il
mio certificato penale è terribile. Nessuno mi assumerebbe, ma comunque
io sono qui. Mi vede? Mi aggiro tra le guglie. Come ci sono arrivato?
Quando ci sono arrivato? Si sforzi.»
«Lei è un estraneo, non è dei nostri, ma gira tranquillo. Sì, ci siamo, è
venuto a controllare i parafulmini.» «Può essere, prosegua» lo incoraggiò
Giambelli, a sua volta spronato dallo sguardo di Binda.
«Deve sapere che ogni anno sul Duomo piovono in media quattro o cinque
fulmini. Attratte da quelle guglie verticali le saette colpiscono l'edificio con
tutta la loro violenza. Ma non fanno danni. L'energia si scarica in modo
neutrale, grazie ad antenne speciali, che vanno però controllate. Per questo
la Madonnina dall'alto dei suoi 108,5 metri può sentirsi protetta.»
«Senta, è l'Enel che controlla i parafulmini?»
«No, sono i pompieri. L'Enel però compare anche lei sul Duomo. Si
occupa della verifica dei fari dell'illuminazione di gala.»
Binda e Giambelli si fecero più attenti. Stavano avvicinandosi a un'ipotesi
di lavoro che calzava a pennello con quanto già sapevano.
«Cos'è l'illuminazione di gala?»
«Alcune volte all'anno, nelle feste principali, vengono accesi i faretti
che...»
«E, scusi se la interrompo, in quest'ultimo periodo, quando sono stati
accesi i faretti?»
«L'ultima volta per il Corpus Domini. La prossima per il 15 agosto,
'
l Assunta.»
«A Ferragosto.»
«Sì, il giorno prima qualcuno dell'Enel verrà a verificare che le luci dei fari
funzionino perfettamente.»
«Aaaah, che bello» disse Binda. «Magari anche noi vedremo la luce.»

Ecco dove e come si erano conosciuti, il marmista e il caporeparto


ammazzati insieme nel '59. Ecco dov'erano nate le idee del nascondiglio e
della rapina. Ecco come, quando e perché Florio sarebbe arrivato sulla
cattedrale. Sarebbe bastato seguirlo per catturare l'assassino e recuperare la
refurtiva.
Giambelli e Binda si misero a indagare tra i compagni di lavoro del
marmista ucciso, cominciarono a dare un’occhiata alle statue erette o
sostituite o sbozzate nel ‘59, cercarono manomissioni nel cappello di San
Girolamo e nei fiori di santa Zita, andarono in via Brunetti, dalle parti di
viale Espinasse, a parlare con chi ancora puliva le statue. Ispezionarono i
sotterranei, tra montagne di busti, di figure di marmo che venivano
cambiate e rimodernate. Controllarono con i santini trovati a casa di
Sangalli. Trascorsero molti giorni e molte notti, ma senza un risultato che
fosse uno. Chi aveva nascosto l’Occhio del Mare era stato bravo.
Il maresciallo passeggiò spesso in cima al Duomo, accompagnato qualche
volta dall’ingegnere, ormai conquistato alla causa dei detective.
Camminava apprendendo che passava sotto le gattonature, ammirava le
guglie di coronamento e la falconatura. Imparava cosa era il peduccio sugli
arconi del tiburio, gli sguanci dei finestroni dell’abside. Ma più di ogni altra
cosa gli piaceva starsene sul terrazzo del transetto destro a guardare Milano
dalla prospettiva delle statue immobili, sistemate in cima alle guglie. Gli
venivano aggettivi che non ricordava più dai tempi della scuola, come
ieratici e classicheggianti. O si ricordava di un capitolo in un volume di
storia, intitolato "Stiliti e anacoreti". Le figure, lassù, gli davano a volte
l’idea di tuffatori stanchi, a volte di pensosi uomini di cultura. Nel silenzio
sembravano commiserare i milanesi senza pace, le migliaia e migliaia di
pazienti, spesso non nati a Milano, ma venuti qua apposta. Brava gente che
grazie alla "lavoro-terapia" si medicava l’anima nella città ospedale, in fila
verso la metropolitana, verso i tram, verso la Galleria, come se andasse al
prelievo del sangue, alle analisi delle urine, allo sportello della Usi.
«Formiche prima del temporale» aveva detto l’agente di polizia, nella loro
prima missione per trovare l’assassino di Lavinia, di Lav. Ne aveva fatti di
passi avanti, ma Binda, tra le statue, si sentiva distante da quella frenesia,
che pure gli apparteneva.
Ogni volta che tornava formica tra le formiche, malato di lavoro tra i
malati di lavoro, non poteva non dare un ultimo sguardo di saluto lassù, in
alto, allo ieratico e taciturno "popolo di pietra". Gli piaceva
quell’espressione che per la prima volta aveva letto a casa di Sangalli. Era
stato ricco e riverito, non doveva essere stato un uomo banale, poi chissà
quale dei tanti meccanismi dell’esistenza s’era inceppato, aveva finito per
vivere in vestaglia, in una casa non più sua, sino a interpretare il ruolo
definitivo della terza vittima del rapinatore vendicativo e ormai introvabile:
ma di là, se voleva il diamante, sarebbe dovuto passare, il Florio. Là, si
diceva Binda, l’avrebbe catturato.
Loris, dopo un’ultima serata al bar Picchio, era dovuto partire insieme alla
moglie per badare alla suocera. La sua amica dal seno generoso non era
stata in grado di aiutarli, e forse era stato meglio così. Ai suoi carabinieri
non restava altro da fare che continuare a seguire il caso, anche perché,
fortunatamente, sembravano essere andati in vacanza anche gli altri
assassini.
Su consiglio del bibliotecario della Fabbrica, il maresciallo si era immerso
nella solitaria lettura di due libri: Le sculture sul Duomo di Milano, di tale
Nebbia, del 1910, e soprattutto Il Duomo di Milano, uscito nove anni prima,
nel ‘73, e edito dalla Cassa di risparmio delle provincie lombarde. Era il
libro che doveva aver letto anche Sangalli, per ricostruire la sua gigantesca
e casalinga mappa del Duomo.

Agli inizi di agosto, senza aver ancora scoperto niente di utile, non proprio
al colmo dell’entusiasmo, Binda usufruì della programmata settimana di
ferie, lasciando una serie di disposizioni ai suoi uomini di guardia sia dentro
la chiesa, sia tra le guglie. Come aveva promesso a Rachele, la portava a
Riccione, in una pensione della zona Alba, verso Rimini, che gli aveva
consigliato un collega di Bagnocavallo. Aveva caricato la 125 e s’era
intristito sentendo i notiziari radio. In Francia si erano scontrati due
pullman: quarantaquattro bimbi erano morti in Borgogna. Ci sarebbe stata
la commemorazione per i due anni dalla strage della stazione di Bologna.
Aveva letto tutto il possibile sui due frati ammazzati a Vicenza da un
gruppo neonazista che si era firmato "Ludwig". Da quando si era occupato
dei Maimorti non era più un dilettante sul tema delle formazioni naziste e
fasciste che avevano operato in Italia negli anni quaranta, ma di "Ludwig"
non aveva mai letto un rigo. Chissà chi erano, quegli assassini.
Sua moglie non scendeva da casa, era in ritardo di un quarto d’ora e le
notizie tragiche lo influenzavano. «Starà male come sul lago di Endine?» si
chiese preoccupato.
Si precipitò nel palazzo, ma la vide subito. Era davanti alla portineria e
stava confabulando con Alba, la nuova e simpatica custode: «Grazie, se so
che ci pensa lei, sto più... Oh, Peder, te see chi? Dài, ‘ndemm».
«Non sapevo che foste così amiche...»
«Be’, tu sei sempre fuori, che ne sai? L’Alba è una signora simpatica,
chissà cosa aveva in testa il marito quando l’ha lasciata con un figlio...»
«Scusa, Rachele, ma ti ho sentito dire che sei tranquilla "se ci pensa lei". A
cosa dovrebbe pensare lei?»
«Ma a niente... Siccome quando torniamo io vado in montagna e tu starai
da solo a Milano, magari ti cucina qualche piatto.»
«Per carità...» tentò di protestare lui, e non aprì più bocca sino a Bologna,
quando fece il pieno. Si scocciava moltissimo quando la moglie lo trattava
come uno che non sapeva cavarsela. E, per dirla tutta, quella vacanza a
Riccione lo infastidiva. Solo una settimana, si erano ripromessi. Ma che
posto è, la Riviera romagnola? Appiccicati gli uni agli altri, un sacco di
tedeschi, un mare grasso d’olio abbronzante, confusione... Le aveva detto sì
perché non poteva dirle di no, voleva accontentarla e farla sentire meglio,
però che noia!
Arrivarono alla pensione, sistemarono i bagagli e a pranzo Binda ebbe la
prima sorpresa: si mangiava veramente bene, c’era una zuppetta di mare
saporita e poco unta, e a seguire fritto di paranza e un gelato. I commensali,
da un tavolo all’altro, salutavano i nuovi arrivati.
«E tua figlia? Ma com’è cresciuta!»
«Mario è rimasto a Brescia...»
Molti erano lombardi, sembrava quasi di essere a casa sulle Grigne, tanto
era frequente l’uso del dialetto. Una coppia, a fine pasto, li invitò al loro
tavolo a bere il caffè. «L’albergo non ha la piscina, ma la cucina della
signora Tosi è eccezionale, leggera, sana... ci venivano i miei genitori»
raccontava l’uomo, un bancario di Andalo.
A metà pomeriggio, andarono in spiaggia. Il bagnino sembrava un
manager. «Due sdraio, ve le do in terza posizione, né troppo avanti, che c’è
passaggio, né dietro, se no che cosa siete venuti a fare qui se non vedete il
mare. No, non paghi adesso. State dai Tosi, no... Le sdraio le pagate alla
fine della vacanza, le consumazioni come volete, anche giorno per giorno.»
Rachele sembrava soddisfatta e si stese al sole, mentre il marito cominciò
a guardarsi intorno. Mamme e bambini. Bagnini dall’aria furbastra.
Venditori ambulanti che passavano vendendo gelati. «Bomba, chi non
bomba non tromba» gridava un uomo corpulento e occhialuto, annunciando
«Vado a Rimini». Poco dopo, lo si risentiva: «Adesso sono Ambrogio tutto
mogio, da ragazzo ero più duro e mi chiamavano Arturo... Bomba».
A sentire Arturo non gli venne da ridere. Pensò agli informatori, ai
Formenti, all’Arturo che aveva spifferato della presenza di Florio a Milano.
Nel cervello si fece largo tra i pensieri l’eterna domanda: perché mai il
raffinato e spregiudicato Asio Bugatti aveva affidato la verità a Florio?
Com’era possibile? Loris, che aveva conosciuto il capo dei Cavallini, lo
descriveva come uno che leggeva e sapeva. Florio era invece uno che
sparava e spandeva. Inconciliabili, quei due. Era più comprensibile aver
lasciato mezza verità a Sangalli.
«Pietro, Pietro, possibile che non ti rilassi mai. A che pensi, sempre al
generale Casiraghi? Muchela con il lavoro, siamo in ferie.»
«Non stavo affatto pensando all’ufficio» mentì. «Dopo tanto correre, devo
abituarmi all’immobilità della sdraio.»
La spiaggia si svuotò alle sette, mentre il sole era ancora caldo. «Si va a
cena, alle otto le gambe sono già sotto il tavolo» spiegò il bancario di
Andalo, mano nella mano con la moglie, invitandoli a sbrigarsi. I ritmi
erano da caserma, con gli albergatori proclamati capi assoluti delle armate
seminude dei vacanzieri. I clienti venivano sbattuti fuori dalle camere al
mattino, tenuti nei cortili quando il sole se ne andava, costretti a mollare le
spiagge in concomitanza con i pasti, e tutto questo non con la rudezza
militare, bensì con una ferma gentilezza che rendeva unico quel litorale
sabbioso. «È il posto giusto per non pensare» si disse Binda, il quale,
invece, continuava a far girare le rotelle.
Quella sera, facendo un po’ di attenzione perché le pareti delle camere
erano sottili, Pietro e Rachele fecero l’amore dopo quasi due mesi di
astinenza. Era bello e dolce guardarsi negli occhi, mentre lui le sfilava la
camicia da notte e lei si passava le mani tra i capelli spettinati, mentre si
toccavano e si muovevano insieme, allo stesso ritmo. Erano anziani, ma non
decrepiti. Non c’era più la passione dei primi incontri, ma anche la profonda
calma di chi si conosce da una vita e ha visto, da quell’unione, nascere
anche un altro essere umano, era un buon afrodisiaco.
«Ti amo» gli disse Rachele, mordendogli le labbra.
Lui lasciò fare e restituì i morsi, ma non gli veniva facile pronunciare la
stessa frase. Pensava che fosse sottintesa, pensava anche che a lei avrebbe
fatto piacere sentirsela dire, pensava un po’ troppo, el Peder, anche in quei
momenti.
Nei giorni successivi, lo sfaccendato Binda in bermuda e ciabatte da mare
comprese un altro degli aspetti benemeriti di Riccione: la lunga spiaggia
favoriva le passeggiate delle donne. Certo, anche degli uomini, ma erano
soprattutto le clienti dell’albergo - tra le quali Rachele, che cicciarava alla
grande con le nuove conoscenze -a darsi appuntamento per marciare spedite
e in gruppo sino al molo e ritorno.
In quelle ore, dal bar sulla spiaggia, aveva qualche volta chiamato i
colleghi. Giambelli gli era parso piuttosto su di giri e, alla fine, quando era
rimasto solo in ufficio, aveva confessato: «Mi vedo con Elena Morandi, la
vedova di Ferri».
Dopo qualche secondo d’esitazione, Binda gli chiese: «Divertimento o
amore?».
«Maresciallo, ancora non lo so. Sto bene con lei e quando non la sento mi
manca. Tra un po’ va in vacanza con il bambino: è simpatico, e spero di
raggiungerli.»
Novità, a parte questa storia sentimentale del Negher Giambelli, non ce
n’erano. Spaparanzato sulla sdraio con i giornali, senza Rachele che lo
bombardava di domande, aveva potuto finalmente leggersi alcuni
lunghissimi articoli, come quello di Pierluigi Franz intitolato "Il nudo e la
legge, trent’anni di storie e storielle italiane". Gli piacevano gli articoli di
diritto.
Anche quello era scritto bene e rappresentava un viatico per quanto
osservava con i propri occhi: dalla ragazza bruna che indossava un costume
rosso così stretto da sembrare a sedere nudo al giovane atletico che, non si
sapeva come, riusciva a far stare tutto quello che doveva restare coperto
sotto un minuscolo lembo di stoffa lucida.
"Il mezzo è il messaggio" pensò. Quella era proprio una frase famosa. Una
frase che aveva detto anche Asio Bugatti a Loris, per spiegare la tecnica
della sua rapina a bordo di una ruspa.
Nel cervello gli squillarono, improvvisi e misteriosi, segnali d’allarme: "Il
mezzo è il messaggio".
Poteva, questa frase, significare qualcosa di diverso da quello che aveva
immaginato sino a quella mattina.
Aver ironizzato sugli esibizionisti in costume da bagno lo aveva portato a
comprendere meglio una possibile, probabile analogia con la frase di Asio.
Trovava spiegazione quello che aveva notato a casa Sangalli.
Sì, forse aveva capito. Forse aveva ragione. Doveva telefonare a Giambelli
e... No, no, doveva tornare a cà sua. Tanto la settimana di vacanza era
terminata, avevano già fatto le valigie, sarebbero partiti dopo aver gustato
gli ultimi manicaretti. Rachele aveva detto d’essere contenta e rilassata... se
anche l’avesse lasciata per un po’ davanti alle Grigne, facendo lui qualche
avant e indree con Milano...
«Peder, sai che mi fermerei un’altra settimana» esclamò lei, tornando
sorridente dalla camminata. L’aria di mare le faceva bene.
«Anch’io, cara, siamo stati proprio bene, ma purtroppo mi cercano
dall’ufficio.»
Undici

Quando in via Moscova lo videro entrare all’improvviso, abbronzato e


riposato, ma con gli occhi da febbricitante, pensarono che fosse accaduto
qualcosa. Ma Binda non rese partecipe nessuno delle sue elucubrazioni
sulla sdraio. «Il mezzo è il messaggio» disse, e se ne andò volutamente da
solo alla Veneranda Fabbrica del Duomo. Chiamò l’archivista della
biblioteca e stette una ventina di minuti chino sui libri. Le mani gli
tremavano. Non era come quando era studente e doveva prepararsi agli
esami, era come se fosse a Lascia o raddoppia? Lesse, rilesse, studiò e gli
sembrò ormai di non poter sbagliare più.
Aveva capito, non c’erano dubbi. Sorridendo, corse sul Duomo. Andò a
colpo sicuro verso il lato sinistro, il lato che guarda Palazzo Reale, e si
fermò davanti a una statua. Sì, forse – si diceva "forse" solo per un residuo
di prudenza, in realtà era sempre più entusiasta – aveva ragione lui, sarebbe
stato un ottimo risultato. Si congratulò con se stesso, avvicinandosi alla
scultura che aveva individuato: "Se il mezzo è il messaggio, ora capisco
perché ha scelto Florio".
Per il 14 agosto era tutto pronto. La trappola era stata organizzata in ogni
dettaglio. Binda aveva immaginato la scena decine di volte, l’aveva sognata
a occhi aperti. Non dovevano far altro che aspettare.
Alla folla dei turisti del Duomo si erano aggiunti l’agente di polizia
Simone Logiudice e Dante Giambelli, i due con l’aria più esotica del
gruppo. Giambelli, con la camicia colorata da americano, non lo si sarebbe
mai preso per un carabiniere. Altri due avevano addosso una tuta da operaio
e stavano insieme agli operai veri su un’impalcatura, costruita apposta per
loro: da là in alto, il pensionato Dipangrazio, al quale non avevano potuto
dire di no, raccomandandogli però il massimo della prudenza, e Aloisi detto
Kalì, fumavano e osservavano. Era metà pomeriggio e Binda, vestito da
custode, era impegnato a staccare i biglietti per la salita nell’atrio degli
ascensori. Aveva così modo di guardare da vicino quelli che entravano o
uscivano. Florio non sarebbe potuto passare inosservato. «Oggi è il giorno
X» si erano detti, ma la mattina era finita, il pomeriggio stava andandosene
e non si vedeva nessuno.
Alle cinque passarono sul marciapiede due tecnici dell’Enel. Finalmente, si
disse Binda. Li scrutò meglio: erano bassini, con i capelli bianchi, frettolosi
e, contrariamente a quanto Binda immaginava, non entrarono in Duomo.
Chissà, magari Florio li stava utilizzando, li aveva pagati. Stava
diventando paranoico, pensò.
Si affacciò al portone e fu allora che notò, sotto i portici della Rinascente,
un casco giallo. Un terzo tecnico dell’Enel? Qualcuno camminava con una
borsa capiente in pugno e un elmetto calcato sul cranio. Camminava verso
l’ingresso degli ascensori, guardandosi intorno. Binda lo vide e trasecolò,
correndo a nascondersi sotto il banco della biglietteria.
«Fallo passare» ordinò al vero custode.
Il finto tecnico arrivò alla reception degli ascensori. «Forse i miei colleghi
sono già su» disse con un marcato accento bergamasco.
«Non s’è visto nessuno.»
«Alura li precedo.»
Appena l’uomo con l’elmetto giallo prese l’ascensore, il sottufficiale
travestito da custode afferrò la radio e lanciò le parole convenzionali:
«Mike a Papa. Il tonno è nella tonnara. Sta salendo, lo seguo anch’io, ma
voi non fatevi vedere. Ripeto, non fatevi vedere per nessun motivo.
Mimetizzatevi».
«Più di così?» chiese Giambelli, ma ubbidì, defilandosi in un angolo
particolarmente affollato. Binda, nel frattempo, ordinò ai dipendenti del
Duomo di non far più salire né uscire nessuno, e di chiamare subito il
capitano perché mandasse altri uomini, immediatamente, e senza sirene.
I finti operai e i finti turisti restarono impassibili quando, con gli occhiali
da sole e un largo giubbotto, comparve il finto tecnico. Tutti i protagonisti
della recita si mossero ignorandosi reciprocamente.
L’uomo si accese una sigaretta, guardò un po’ il panorama, poi si spostò
sul lato sinistro del Duomo. Contò le arcate e si fermò, senza sapere di
essere osservato dagli operai dell’impalcatura, davanti a una statua.
Non poteva nascondere l’eccitazione. Con mano tremante toccò il marmo,
come una carezza al "santo guerriero" che raffigurava. Guerriero, come il
soprannome di Florio.
Estrasse dal sacco una boccetta e la versò su uno straccio bianco.
Cominciò a sfregare lo scudo. Sfregò e sfregò, probabilmente era solvente,
sfregò veloce finché il perno centrale si staccò e un filo rosso comparve
dall’interno cavo dello scudo. Le mani gli tremavano, si stava emozionando
e non se l’aspettava. Tirò il filo: in fondo era appeso un sacchettino in pelle
di daino. Lo prese e non resistette alla tentazione. Ma quando l’aprì, la vista
gli si offuscò per un attimo. C’era una dentiera. La statua del santo
guerriero, in C4, come era identificata quella nicchia anche dalla mappa di
Sangalli, non conteneva il diamante, ma...
Fu allora che si sentì osservato, si girò e li riconobbe immediatamente
anche lui.
«Alza le mani» intimò Giambelli, mentre Logiudice prendeva le manette.
L’uomo chinò la testa, finse di sentirsi in trappola, ma con una rapidità da
animale che lotta per la vita si lanciò con la sua mole contro i due. A
Giambelli, che non era certo un fuscello, cadde la pistola; Logiudice sentì
un dolore pazzesco alla faccia, ma fu niente rispetto al fatto di essere
afferrato, stretto al collo e con la canna di un revolver puntata alla testa.
«Fatemi passare, subito. Fatemi passare o sparo» disse l’uomo, ed esplose
un colpo contro la borsa delle macchine fotografiche di un turista,
mandandole in frantumi. «Non scherzo, faccio una strage» gridò ancora,
mentre le persone scappavano verso l’uscita.
"Oggi morirò, ecco perché il cuore mi stantuffa di nuovo" pensava
Logiudice, invaso da una paradossale, fatalistica calma. "Milano mi
chiamava per mostrarmi il corpo della donna uccisa e poi mi ha mandato
dal maresciallo. E Milano adesso mi uccide. Se è l’ora, non importa."
Un gruppo di bambini si era radunato in un angolo, dietro alcuni adulti,
che fronteggiavano l’uomo armato alzando le mani e chiedendogli di non
sparare, che c’erano i piccoli. Anche un vigile urbano aveva sollevato le
braccia, anche se nessuno l’aveva indicato come un potenziale pericolo per
l’uomo armato.
Gli operai avevano lasciato cadere gli attrezzi, un turista sordo continuava
a fotografare il gugliotto. Una signora sembrava svenuta e un anziano
custode cercava di sollevarla, di incoraggiarla.
L’uomo armato, trascinando Logiudice, sparò un altro colpo in aria e poi
puntò il mirino ora su un operaio, ora alla testa dell’agente che gli serviva
da ostaggio. Guadagnava l’uscita, il più rapidamente possibile, e sferrò una
pedata al custode che cercava di rianimare la donna proprio sul luogo di
passaggio, ma si ritrovò con la scarpa agganciata dalla presa dell’anziano in
divisa: era Binda che si alzò di scatto, facendogli perdere l’equilibrio e la
pistola. La donna non era svenuta: era una turista francese, e non aveva in
concreto capito nulla, non si rendeva conto del perché tutti si lanciavano
addosso a un uomo che veniva ammanettato, schiena a terra.
«Siete stati bravi.» L’uomo parlò per primo.
«Ciao Kurban» lo salutò Binda, tenendogli puntata alla testa la pistola
d’ordinanza.
«Sono vivo, vivo! Ma allora è vero che l’assassino può essere il
maggiordomo» scoppiò a piangere l’agente Logiudice, che era passato dal
massimo della sua sovrumana tranquillità al massimo della tensione.
«Porca vacca, ma chi lo immaginava. Un finto maggiordomo» esclamò
Kalì.
«Pippo Palestra? Dimmi, sei tu, non è vero?» chiese Dipangrazio. L’aveva
riconosciuto. Fra tutti gli uomini della banda ce n’era uno che aveva
cambiato vita – così aveva fatto sapere – ma non era vero. Era tornato. E
aveva architettato l’ultima puntata della rapina miliardaria.

La statua del santo guerriero stava eretta sotto l’arco del passaggio, con lo
scudo bucato. "Il mezzo è il messaggio" e Florio, detto il Guerriero, era la
persona giusta per nascondere la sua mezza verità sulla mappa. L’altra metà
ce l’aveva Pippo Palestra, che doveva spiegare il ruolo di Sangalli.
«L’Occhio del Mare» disse Binda, mentre il sole del pomeriggio faceva
luccicare la Madonnina come una fiaccola, «l’ho preso io. Non è male, è
giallo e blu, molto puro, sai Kurban. Quando l’ho sollevato, tra queste
statue, mi sembrava di avere in mano un piccolo sole. Il resto della
refurtiva, al confronto, pareva fatto di falsi, come gioielli di scena. Ma
adesso andiamo in caserma, dobbiamo parlare.»
«Non ho nulla da dire.»
«Lo credi tu» intimò il maresciallo.

Ci vollero due giorni di interrogatorio, ma alla fine Kurban detto Pippo


Palestra dai Cavallini e Giuseppe Foglia all’anagrafe, accettò di mettere a
verbale la sua versione davanti a Binda e alla sua squadra al completo:
«Confermo quanto già in parte sapete. Avevo la mezza verità sul bottino
della rapina, e cioè sapevo dov’era nascosto il tesoro, ma
quest’informazione, ormai sfiduciato dopo una decina di inutili sopralluoghi
sul Duomo, l’ho venduta a Sangalli nel 1974 per trenta milioni. L’avevo
conosciuto anni prima, attraverso un amico comune, un pugile. Vito
Sangalli credeva di essere il più furbo del mondo, pensava fosse facile
circoscrivere il raggio delle ricerche, invece non ce l’ha fatta, e allora gli ho
consigliato di aspettare l’altra mezza verità. E mi sono dato da fare. Ho
inviato un messaggio a Florio perché andasse da Sangalli, una volta uscito
dal carcere. Ma, come temevo, non è stato facile ragionarci insieme e, per
esempio, ipotizzare che si poteva dividere anche per tre».
«Ma voi eravate due vecchi complici di rapine che si ritrovano, come ha
fatto Sangalli a fidarsi di voi?»
«Aveva alternative?» chiese a sua volta l’uomo che era stato Kurban.
«No».
«Appunto. Io ho offerto la mia alleanza a entrambi, convincendo sia l’uno
sia l’altro che, al momento del bisogno, sarei stato dalla sua parte. Insieme a
Florio ci siamo piazzati a casa di Sangalli, che aveva studiato tutte le statue
del Duomo, e aveva disegnato anche la pianta sulle pareti. Florio l’ha vista,
l’ha valutata, ha ghignato. Non ci diceva la sua mezza verità. Ci ha messo
sulle spine... Non parlava e ripeteva: "Ma lo sapete che ci potevate arrivare
da soli?". Ora ho capito che aveva ragione quel pistola.»
«Kurban, lasciamo da parte i commenti. Com’è andata, allora?»
«Dopo tanta galera Florio non pensava solo ai soldi. Di pomeriggio ha
bussato a un casino di via Melchiorre Gioia, che è gestito da una vecchia
fiamma, e poi, la sera, forse perché là avrà ripensato a quella vacca
dell’Orsola...»
«Ti ho già detto di cambiare atteggiamento, non voglio ripeterlo.»
«Va bene, va bene... il Florio in ogni caso ha preso da parte Sangalli e s’è
fatto raccontare per filo e per segno la storia dell’ultima sera di Orsola
Orsini, delle sue frasi nel trani dietro lo Smeraldo, della bevuta insieme,
tutti quanti... E stato allora che l’ha picchiato e che, se non ci fossi stato io,
l’avrebbe strangolato. Ha impugnato la pistola ed è uscito.»
«E Sangalli?»
«Sangalli l’avete visto: l’ombra dell’uomo che era stato.»
«Sangalli era seguito come un’ombra da te, Kurban, e lo facevi per
sorvegliarlo, non per proteggerlo.»
«No, maresciallo, si sbaglia. Lo sorvegliavo, è vero, ma non volevo che gli
succedesse niente di male. Io con Sangalli andavo d’accordo, come le ho
detto lo conoscevo da tanto, e proprio il giorno in cui siete arrivati voi la
prima volta ci stavamo organizzando per andare sul Duomo. Ma ci siamo
chiesti: e se questi sanno qualcosa? Ci siamo sentiti curati e abbiamo
rimandato. Sempre più furibondi, perché se quel balordo di Florio non
avesse ammazzato lo spione, il diamante sarebbe stato nostro, e invece...»
«Ma chi ha ucciso Sangalli?»
«Come chi? Florio.»
«Perché?»
«Ve l’ho detto, è un pazzo. Ha sparato a Sangalli, mi ha picchiato e se n’è
andato. Mi ha assicurato che bastava fare due più due, che lui era il
Guerriero, insomma, che andava a cercare la statua di un santo guerriero per
prendere quello che c’era dentro, nello scudo. E mi ha detto di restare in
giro, che si sarebbe fatto vivo lui con me.»
«Il mezzo è il messaggio» disse Binda.
«Era una frase che diceva sempre il grande Asio.»
«Ah sì?»
«Sì, questa è la storia, io Florio non l’ho più visto. Ma, avendo studiato le
mappe di Sangalli, sono arrivato, e voi mi avete preso. Non so di che cosa
potete accusarmi...»
«Ma tu, Kurban, come speri che crediamo alle tue balle?» domandò il
maresciallo, guardandolo storto.
«Non so cosa credete voi, ma se le cose non stanno così, dovete
dimostrarlo.»
«Lo dimostreremo quando salterà fuori il cadavere di Florio.»
Kurban fissò il sottufficiale a capo della Sezione omicidi senza rispondere.
«Li hai eliminati tu, entrambi» l’accusò Binda. «Ottenuta la mezza verità
di Florio, hai capito che ce la potevi fare da solo. E, infatti, sul Duomo ci
sei arrivato da solo, amico. E sei andato diritto sparato verso il santo
guerriero. Ma chi pensi di fregare?»
«Giusto» intervenne il vicebrigadiere Pantalò. «E da oggi, se lei permette,
invece di chiamarla maresciallo Binda, per me sarà sempre il maresciallo
Blinda» aggiunse, prima di far finta di scappare in corridoio, tra le risate di
tutti, meno che di Kurban.
Dodici

Incoeu, al paes

«Ecco perché quando siete entrati a casa di Sangalli, lui non voleva parlare
e ha parlato Kurban. L’impresario era già ostaggio dei due, Kurban era là
non per aiutarlo, ma per sorvegliarlo. E ha inventato lì per lì una
spiegazione. Mica stupido...» dice il dipendente comunale, con il naso rosso
dalla troppa grappa bevuta.
«Sì, è stato bravo a fingere, a presentarsi come uno zingaro sinti, ma il suo
gioco, tatàn, era già finito» aggiunge Fisich, con uno sghignazzo.
«Magari anche Florio era nascosto in casa Sangalli mentre voi andavate
là» la butta lì il medico.
«Negativo» risponde Binda «perché abbiamo ricostruito tutto, ma molto in
ritardo. Vi ricordate Paolo Perego, il mimo che andava a giocare a biliardo
vicino allo Smeraldo, quello con il cane che aveva la sua poltrona. Be’, la
sua donna aveva avuto, ai bei tempi, una relazione con Florio e gli aveva
dato una branda in cantina, all’insaputa del marito.»
«Hai capito...» sghignazza Fisich. «Be’, abbiamo fatto tardi, è passata pure
l’ora dell’aperitivo e stavolta tua moglie s’incazza di brutto. Ma non dovete
partire?» chiede a Binda, che alza le spalle: «Ma no, figuriamoci. Per il bus
che ci porta a Malpensa c’è ancora tempo».
«Se devo dire una cosa» interviene il dipendente comunale che aveva
perso le elezioni al paesello «non mi è piaciuta la storia dei mille miliardi.
A Milano i magistrati e voi forze dell’ordine ce l’avete con Berlusconi.»
Il freddo intenso s’infila nelle fessure del vecchio locale.
«E chi ha parlato di Berlusconi?»
«Be’, sai, due più due cosa fa? Uno che diventa ricco dopo Calvi, uno che
forse ha ricevuto i soldi della mafia... Le solite calunnie della sinistra e di
certi magistrati.»
«Tu non mi conosci. Io non ce l’ho con il Berlusca, ma il fatto è che ti stai
sbagliando e nello stesso tempo stai centrando il problema che fa dannare la
gente come Casiraghi, o come Giambelli, che poi è andato a lavorare con
lui a Roma. In Italia quanti sono quelli diventati ricchissimi? Berlusconi, va
bene. Ma anche Gardini, per esempio. Poi un altro, che trattava granaglie. E
che dire dei politici che diventano padroni di case, azioni, isole intere?
Insomma, amici miei, in un paese come l’America uno che diventa ricco e
non sa certificare da dove ha preso i soldi, rischia di finire in carcere, come
capitò ad Al Capone. Invece, in Italia i furbi hanno un premio, finché va
bene.»
«Eh, purtroppo questo è il grande male italiano.» Il vigile urbano scuote la
testa.
«Il nostro» continua Binda «è un paese speciale che è incomprensibile ai
non italiani, è il paese dove i delitti non sono solo perfetti, ma
"perfettissimi", come li chiamava il generale, perché tutti sanno chi è il

colpevole... e più o meno si capiscono retroscena e situazioni... ma è


impossibile arrestarlo. E così è peggio, perché gli uomini peggiori vanno in
giro a fare gli intoccabili... In ogni modo lasciamo stare la politica, se no ci
avveleniamo la serata.»
«Giusto. E Florio? Dicci di Florio.»
«A me, alla fine di questa indagine sul diamante di via Montenapoleone,
devo dire che dispiace non aver mai conosciuto da vicino questo Florio. So
tutto di lui, ma solo de relato. Quando ha realizzato la vendetta, è tornato
dal suo vecchio complice, e così, senza a né ba, insieme hanno eliminato
Sangalli e si sono messi d’accordo per dividere. Ma Kurban-Foglia gli ha
sparato e, stando a una serie di indizi basati sulle tracce trovate su un’auto
che usava, dovrebbe averlo sepolto sotto un cavalcavia dell’autostrada. Il
cadavere non l’abbiamo mai trovato. Sarà ancora da qualche parte in
Lombardia.»
Le grappe sono finite, un po’ di neve a raffiche sbatte sui vetri. Aliti gelati,
forse come quelli della Valle del Diavolo dove si rifugiavano i rapinatori di
Asio Bugatti, penetrano nel locale quelle rare volte che qualcuno apre la
porta con le tendine a quadretti rossi e i doppi vetri.
Binda ha la voce rauca, anche per il troppo parlare, ma le domande non
sono finite.
«Senti, Peder» dice Fisich, l’ex fantino che da quando è diventato
imprenditore pensa sempre ai soldi «ma la ricompensa per chi trovava
l’Occhio del Mare l’hai cattata te?»
«No, no. Abbiamo diviso per tre.»
«Tu e chi altri? E perché? Sei stato tu ad arrivare alla soluzione.»
Il pensionato scuote la testa. «Certo che mi avrebbero fatto comodo quei
soldi, ma ne ho parlato con i ragazzi. Con i duecento milioni dell’inglese e i
cinquanta del gioielliere di via Montenapoleone c’era da scialare, ma noi ci
siamo detti che uno stipendio, bene o male, ce l’avevamo già. E così ci
siamo messi una mano sulla coscienza e abbiamo dato un terzo
all’associazione delle vittime della mafia, un terzo alle vittime delle stragi e
un terzo a un prete che cura i tossicomani. Che volete, siamo gente di
strada, pensiamo alla gente di strada. Chiedi al tuo Berlusconi cosa avrebbe
fatto al nostro posto...»
L’ex dipendente comunale ride storto e sta per chiamare la figlia
dell’Andrein, per un ultimo giro di grappe, quando la porta del locale si apre
e, imbacuccata in una pelliccia, entra Alba, con gli occhi accesi.
«Pietro, ma l’è possibil? La valigia te l’ho fatta io.»
«Scusa, il tempo è passato in fretta» dice. Non gli piace discutere in
pubblico. Si alza: «Va be’, ragazzi passatelli, ci vediamo tra quindici
giorni».
«Buon viaggio, e non scottarti a Santo Domingo. Alba, me raccumandi,
mettigli la crema» scherza Fisich.
Li lasciano uscire, poi Fisich continua: «Oh, ma l’avete visto? Quando alla
nostra età trovi una donna più giovane, la metti sul piedistallo».
«Parli per invidia.»
«Be’, è chiaro. E poi l’Alba non solo gli fa le valigie, ma gli cucina anche
bene. E se tanto mi dà tanto, ora mi spiego» sghignazzò «perché el Peder mi
sembra più magro.»
Lettera a Pietro Valpreda

Caro Pietro,

a volte, mentre giro per il lavoro, mi viene in mente la tua voce: "In
doe te sé? Ma dài, lassa sta, vieni qui che scriviamo il libro". Purtroppo
sei uscito prima del secondo tempo e non hai visto come andava a
finire. Allora "uso" questo libro anche come fosse un messaggio nella
bottiglia.
Ho preso il tuo manoscritto, quello che volevi facessimo prima
dell’ultimo giallo, e l’ho letto. E riletto. Pensavo a cosa avrei potuto
dirti, a cosa avremmo spostato, modificato, se avessimo ancora potuto
discutere nel salotto di casa tua, mentre Pia ci portava i biscotti. Sapevi
che non ne ero entusiasta.
Poi c’è stata Mantova. Ci sono andato in moto, ti ricordi? Ti avevo già
raccontato che in motocicletta, quando la velocità rende più stretta la
strada, chissà perché, sembra più facile riflettere... o forse sarà il vento
che fa cozzare gli scarsi neuroni... insomma, mentre stavo là e parlavo
con un po’ di gente che (adesso esagero) ci vuole bene per quello che
abbiamo scritto, la soluzione mi è arrivata, anche grazie a un
professore di lettere.
Dovevo un po’scavare nella memoria, per trovare qualcosa dei tuoi
racconti privati, quelli che hai condiviso con me mentre, invece di
scrivere, ce la prendevamo comoda. "Citarti" in qualche modo, ma
sentirmi libero di scegliere in quale estate far scarpinare il nostro
Binda, dopo l’autunno di Quattro gocce d’acqua piovana, l’inverno
della Nevicata dell’85 e La primavera dei maimorti. Libero di seguire
le mie emozioni e le mie idee. Ciò detto, mi sono messo al lavoro: la
nostra ‘pizza quattro stagioni"è completa.
Come sai, avrei voluto firmare questo libro insieme con te. Pare non
sia possibile, e per alcuni non sarebbe nemmeno etico, firmare a nome
di un morto, che non può protestare: me ne sarei fregato, se non ci
fossero di mezzo possibili beghe legali e burocratiche. Quindi, ciao, ex
socio, entrambi sappiamo che nella mia firma idealmente ci sei.
Non so che cosa sarà del resto delle nostre piccole idee, né del vecchio
maresciallo che ha divertito i lettori. Vedremo. Credo che questa sia la
sua ultima volta in pubblico. Binda però non poteva, com’è purtroppo
successo a te, non poteva chiudere l’ufficio prima del tempo.
Se non avessi scritto questo libro, mi sarei davvero arrabbiato con me
stesso: non siamo persone che lasciano le cose a metà. So bene che
saresti rimasto volentieri ancora un po’ con noi e, come ti dicevo,
quando vado in giro spesso mi accorgo di aspettare la tua chiamata:
"Piero, ma dài, ho una cosa da mettere a pagina 52, quand’è che

vieni?". Quante discussioni abbiamo acceso per un sostantivo, per una


scena, per una frase: mi mancano moltissimo, mi sono mancate
durante tutta la scrittura. In due si ghignava di più.
Non credevi in Dio, eri ateo, e anarchico persino per gli anarchici. Io
in realtà credo che qualcosa Lassù ci sia, e penso che tu possa in
qualche modo leggere queste parole e leggermi dentro, quindi non ho
bisogno di aggiungere altro, se non un grande grazie per tutte le volte
che mi hai spronato e incoraggiato. Sei stato un incontro importante,
che mi ha aiutato a capire meglio qualcosa della vita: per esempio che
forse alcuni sono, com’è successo a te, destinati a soffrire più di altri,
ma l’importante è non perdere il coraggio. E non farsi fottere mai dalla
paura umana, ma così sbagliata, d’essere se stessi. Dalla paura di
scegliere, di decidere, di continuare, insistere, provare.
Ah, sì, un’ultima cosa. Mi ha scritto un po’ di gente, per dirmi che eri
un uomo buono. Vedi com’è strano il mondo... ma certo, quanto fosse
strano e spesso ingiusto tu lo sapevi già. Piuttosto bene. Sono io che,
nonostante quello che vedo, sento e so, gioco il ruolo dell’ottimista. E
mi viene da chiedermi se per caso, anche dove sei oggi, tu non riesca
ancora a raccontare qualche aneddoto, nel tuo milanese da casa di
ringhiera.
Avrai senz’altro qualcuno che t’ascolta e ride, lo so.
Un grazie a Renzo Garlaschelli, papà di Barbara, per il milanese (non è la
mia lingua madre). A Oliviero Ponte di Pino ed Emilio Pozzi, per i libri sul
teatro. A Stefano Massaron, perché lui, da bambino, passava i pomeriggi
della domenica ad accendere la luce nello studio del padre, quando
segnava l’Inter. E più d’un grazie a due amiche, speciali fan del
maresciallo Binda: Giovanna Vitale e Anna Zaffoni.

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