Il Binda
L’agente scelto Simone Logiudice detto Simo
L’uomo nel buio
Il Michi
Ugo, Adriano
Achille
Lavinia, che era stata soubrette
Ladro in discoteca
Alla Squadra Mobile
L’inchiesta sommaria
La telefonata
Che anni brutti per l’Italia
Due
Tre
Quattro
Cinque
Sei
Sette
Otto
Nove
Dieci
Undici
Dodici
Lettera a Pietro Valpreda
Piero Colaprico
L’Estate del Mundial
(2003)
Mbooks 19
Comincia l'estate del 1982, l'estate del mundial, e Pietro Binda, che tra un
paio d'anni andrà in pensione per raggiunti limiti d'età, è un onesto e
coriaceo maresciallo alla squadra Omicidi. Ha due indagini di cui
occuparsi: una gli viene affidata dal suo superiore, il generale Casiraghi, ed
è legata alla misteriosa morte del banchiere Roberto Calvi, impiccato a
Londra sotto un ponte; inoltre, perché gliel'ha chiesto Loris, il suo amico
anarchico, s'impegna nel giallo che gli sta più a cuore: l'inspiegabile
omicidio di un'ex soubrette dell'avanspettacolo, Lavinia Marbella, uccisa
dopo aver passato la serata in una sala da ballo.
Piero Colaprico
L’Estate del Mundial
(2003)
Mbooks 19
Indice
Il Binda
L’agente scelto Simone Logiudice detto Simo
L’uomo nel buio
Il Michi
Ugo, Adriano
Achille
Lavinia, che era stata soubrette
Ladro in discoteca
Alla Squadra Mobile
L’inchiesta sommaria
La telefonata
Che anni brutti per l’Italia
Due
Tre
Quattro
Cinque
Sei
Sette
Otto
Nove
Dieci
Undici
Dodici
Lettera a Pietro Valpreda
Il Binda
Era stato trasferito a Milano da tre mesi e prima di quella notte non gli era
mai successo. L’ala scura di un brutto presentimento, o l’ondata d’ansia che
ti toglie il fiato, le aveva già conosciute da bambino, a Trani, il suo paese; e
da adolescente, a scuola; e da poliziotto, a Caserta. Ma lì, a Milano, era la
prima volta. Mentre si tormentava il bottone della divisa, l’agente scelto
Simone Logiudice era immerso in pensieri negativi. "Chissà perché il cuore
mi stantuffa così. Che cosa mi vuole comunicare? Che sta per succedere
qualcosa?"
«Simo, ascolta...»
La voce roca e biascicata dell’autista lo innervosì. «Piantala! E guida
diritto» ribatté Logiudice.
«No, Simo» intervenne dal sedile posteriore Oronzo, il capopattuglia,
calcando sull’accento pugliese «lascialo parlare. Più parla più possiamo
pretendere l’indennità speciale Ciccio Sarche, per aver sopportato
quest’animale allo sterzo...»
Oronzo era scuro e baffuto, magro e muscoloso, e dettava la legge
all’interno della "sua" volante. Lo rispettavano tutti, in via Fatebenefratelli:
per una decina d’anni era stato impeccabile, tre conflitti a fuoco, il
salvataggio di uno sbronzone caduto nel Naviglio, due encomi solenni e due
encomi semplici. Faceva sempre tanti straordinari, finché, un brutto giorno,
la figlia minore s’era ammalata. Da allora pensava solo a tornare a casa
presto.
«Volevo dire...» insistette Ciccio Sarche «quello nuovo, che hanno
mandato alla Omicidi, è vero che ti ha fregato la fidanzata giù al paese?...
Eh, Simone?».
L’agente Logiudice si voltò appena, fissando il sorrisetto del collega: i
denti ingialliti dal fumo si intravedevano fra le labbra sottili. I capelli erano
radi e incollati alla testa. La pancia da bevitore di birra sfiorava il volante.
Al mignolo sinistro, grasso e tozzo, faceva bella mostra di sé un anello con
brillante. Se Simone fosse stato il maresciallo del 113, uno così non
l’avrebbe mai mandato in giro di pattuglia, con la divisa della polizia. Ma
che figura ci faceva lo Stato?
No, si ripeté per l’ennesima volta nell’ultimo mese Simone detto Simo,
con questa chiavica non ci posso litigare, anche se sono l’ultimo arrivato.
«Non era la mia ragazza. Stavamo nella stessa comitiva» si limitò a
rispondere.
«Allora non è vero quello che si dice?»
La nottata di falsi allarmi si stava stemperando nella luce lattea di un’alba
umida, e Simo era allo stremo.
«Cioè?» chiese, incerto.
«Che avevi invitato a casa tua il Merza, un amico, un vero amico, ma la
sera che dovevate dire alle famiglie che tu e lei vi volevate bene, lei è uscita
con l’ospite ed è tornata a...»
Non ebbe il tempo di finire la frase. All’improvviso, una mano batté sul
parabrezza, e la frenata di Ciccio Sarche, nonostante la bassa andatura, fece
slittare le gomme. L’autista bestemmiò e cercò di impugnare la pistola,
fissando un uomo che si agitava alla luce dei fari.
«Statti calmo» ordinò Oronzo, bloccandogli una spalla con la mano.
«E qui, è qui, ferma!» gridava lo sconosciuto. «Qui cosa?»
L’uomo scoppiò a piangere. «L’hanno uccisa. L’hanno uccisa.» La bocca
era storta e piccola, come quella di un bambino capriccioso. «Ho telefonato
io.»
In quel momento la radio, che aveva gracchiato inutilmente per ore,
annunciò: «110. 110. Cadavere di donna sulle scale di via Lomazzo...».
Simone era tornato freddo ed efficiente: il sangue stava defluendo con
rapidità dal cuore che gli aveva lanciato un messaggio preciso. Afferrò il
microfono. «Volante Napoli a Centrale... siamo appena giunti sul posto,
passo.»
«Logiudice. Sei Logiudice?»
«Affermativo, ispettore Bagni.» L’aveva riconosciuto anche lui: era uno
dei migliori coordinatori del 113 e qualche volta avevano preso insieme il
caffè.
«Bene. Oronzo, non far toccare niente a nessuno, mi raccomando. Appena
dai la conferma del 110 vi mandiamo altre auto».
«D’accordo, chiudo» disse ancora Simone.
La scena dell’omicidio
Sdraiato sul letto, si osservò la punta delle scarpe inglesi, un regalo della
madre, che ci teneva all’"eleganza cosmopolita", come la chiamava,
imbecille borghese che non era altro. A destra, un’ampia porta-finestra si
apriva sul balcone imponente che dominava via Senato. Amava quella
finestra. Da là aveva anche visto la prima donna nuda della sua vita. Era
una modella che, nella camera dell’albergo di fronte, teneva spesso le
finestre aperte e l’aveva fatto anche mentre si depilava le gambe. Achille
aveva preso il binocolo, per guardarla meglio, per studiare il corpo perfetto
e spiare la faccia dal profilo da bambola.
Mezz’ora di stupore e di turbamenti. Alcune delle scene che aveva
osservato prima che lei, ignara di essere stata spiata, chiudesse la finestra,
erano rimaste impresse nella sua immaginazione. Anche in quei giorni stava
pensando a quella giovane bionda, esile, nuda e sconosciuta, probabilmente
straniera. Monica l’aveva lasciato per la terza volta in un anno. Tanto
sarebbe tornata, come sempre. E lui l’avrebbe ripresa, come sempre. Per
essere un sentimento fiacco, come lo giudicava lei, era sin troppo tenace. O
forse resisteva perché era meglio un tozzo d’amore vigliacco del nulla della
solitudine?
Di fronte al letto, dalla libreria alta fino al soffitto, sporgeva il suo libro
preferito, Il maestro e Margherita, e sulla scrivania di noce, che era stata del
nonno ingegnere, i fogli bianchi dell’ultimo tentativo di scrivere un
racconto sui complessi di colpa del centurione che crocifisse Gesù. Sul
parquet, accanto alla stuoia color ruggine che aveva portato da una vacanza
in Marocco, aveva messo le casse di un piccolo stereo giapponese e sentiva
Radio Studio 105.
Con la penna stilografica della stessa marca di quella usata da Hemingway
vergò un breve appunto, utile a mettere in risalto la figura del centurione:
"Il rimorso aveva trovato casa nei suoi occhi". Gli pareva d’averla già
sentita, in ogni modo non era male, e per il grande romanzo aveva tempo
sino ai trent’anni.
Il telefono squillò. «Pronto, siete voi?» chiese portandosi all’orecchio la
cornetta.
«Sì, tutto a posto, se hai capito cosa voglio dire... Adesso andiamo verso la
discoteca. Meglio ancora, perché non ci raggiungi qui con la tua macchina e
ci porti allo Zimba?»
«Mi dispiace, niente macchina stasera. Mio padre questa volta ha fatto il
duro e non mi dà nemmeno la Peugeot.»
«Finirà per piovere.»
«Colpa vostra, così un’altra volta che venite a casa mia farete meno i
bastardi. Martedì, quando voi e gli altri siete passati, non solo sono sparite
un frego di bottiglie, ma qualcuno s’è infilato in tasca un portacenere
d’argento che si trovava su un tavolo in corridoio. Mio padre se l’è presa a
morte.»
«Va be’, noi non siamo stati... Non è che puoi fregare la macchina a uno
dei camerieri?»
«No, ci vediamo in piazza XXIV Maggio» disse, riabbassando la cornetta.
Poi chiamò un taxi.
Lavinia, che era stata soubrette
Loris bevve il caffè, bevve l’acqua, poi si alzò. «Bene, signori, me ne torno
a casa.»
«Lei non può uscire.»
«No? Mi state fermando? Arrestando? O cosa?»
«Va bene, se vuole l’avvocato lo chiami. Chiami pure.»
Erano le due del pomeriggio quando riuscì a tornare a casa. Appena entrò,
il telefono prese a squillare. Lui sollevò la cornetta e sentì la voce di
Sandra.
«Loris, ma dov’eri? È tutta la mattina che ti cerco. Ho chiamato anche
Lavinia...»
Non riuscì a rispondere alla sua donna: un groppo gli bloccava la gola.
«Allora ti decidi a dire qualcosa?»
Singhiozzò senza lacrime. « È successa una cosa tremenda. Lav è stata
uccisa, e io sono stato sotto interrogatorio in questura.»
«Aspetta, aspetta, perché proprio te? E quando è morta?»
«Stanotte, poco dopo che l’ho accompagnata... era con me sino a poco
prima di essere uccisa, ma fallo capire alla polizia.»
Sandra continuò a chiedere, lui si sentì sollevato.
«Va bene, amore... se sei a casa, vuol dire che ti hanno creduto. Ora
sospettano di quei ragazzi. Senti, io parto stanotte e domani mattina sono a
Milano. Vieni a prendermi alla Centrale.»
Il tg diede la notizia dell’omicidio. Una panoramica esterna della casa
dove abitava la morta, la serata in discoteca con un amico, il fermo di
quattro giovani trovati su un’auto rubata, la droga che fumavano. Lui seguì
anche le altre notizie attraverso il velo di stanchezza che gli offuscava gli
occhi.
L’inchiesta sommaria
Incoeu, al paes
Pamela
son Nicola Quagliarulo un modello d’onestà
e Nicola Quagliarulo quel che dice, quello fa.
Son Nicola Quagliarulo ve lo metto... per iscritto
Quagliarulo se ne va. Ricordatelo Pamela
Pamela
Pamela.
Son Nicola Quagliarulo
me ne vado a fare... un viaggio
partirò ma tornerò.
benevolo.
«Ti posso dare del tu, visto che sei un ragazzo? Io non dovrei lavorare a
questo caso, ma è probabile che finirò per farlo, perché me l’ha chiesto un
amico. Ma tu, come mai sei qui?»
«Sono stato io a beccarli, i ragazzi dell’auto. Anche se avevano il
portafoglio della donna non credo che c’entrino con l’omicidio. Li vogliono
tenere in carcere, anche se con l’aiuto della Scientifica stiamo seguendo
un’altra pista segretissima. L’assassino potrebbe essere ancora in libertà, e
io vorrei cercare di fare qualcosa.»
A Binda venne il batticuore, ma si calmò subito. No, non potevano
avercela con il Loris, doveva essere un altro. «Chi è questo sospettato?»
chiese.
«Mi deve promettere di non dire nulla finché non capiamo meglio, ma
abbiamo eseguito alcune comparazioni balistiche e il proiettile che ha
ucciso la signora Marbella assomiglia ad altri esplosi nel 1959. L’assassino
che ha colpito allora, sarebbe tornato a colpire adesso.»
«Be’, se c’è già una pista sono contento comunque. Non ho mai amato la
concorrenza tra polizia e carabinieri. Che altro puoi dirmi?»
«Che questo qua, se è lui, ha dimostrato di avere i nervi d’acciaio, o forse
di essere pazzo. Giudichi lei: ha sequestrato la donna mentre saliva in casa,
di notte, e l’ha tenuta segregata in un appartamento vuoto, che è riuscito ad
aprire scassinando lucchetto e serratura senza che si vedessero segni di
effrazione. È molto probabile che dopo averla uccisa non sia scappato dal
portone, perché una porta in basso s’era aperta subito, ma sia tornato sui
suoi passi, nascondendosi in quell’appartamento. Lì ha atteso la fine dei
nostri sopralluoghi, poiché sono state trovate alcune cicche di Nazionali
senza filtro e una bottiglia di vino vuota. E lei che cosa intende fare?»
«Vorrei andare ad ascoltare qualche vecchio amico di Lavinia. Perché non
vieni con me... mi fai da autista e da aiuto... o hai i turni?»
Finirono a tavola in sedici, e quando lesse, tra gli antipasti, "Tiepido di
carciofi alle erbe con scaloppe di fois gras", Binda pensò sarebbe stato
meglio uscire da quel ristorante. Invece il risotto al taleggio e al radicchio
trevisano era ottimo, così come l’orata in salmoriglio al cartoccio. Tra una
portata e l’altra, Binda recuperò gli indirizzi di Paolo Perego, Vincenza
Trezzi e Vito Sangalli: il ballerino ex fidanzato di Lavinia, la soubrette sua
rivale e l’impresario di tutti i presenti al funerale.
Con Logiudice era stato facile intendersi: in quei primi controlli sarebbe
comparso ufficialmente solo il giovane; il più anziano sarebbe rimasto
dietro le quinte. Se qualcuno li avesse beccati, avrebbero inventato qualcosa
sul momento. Binda, in cuor suo, sapeva che al generale Casiraghi avrebbe
potuto chiedere qualsiasi copertura: una mano lava l’altra e, se lui stava
lavorando per il Comando generale, le alte sfere avrebbero avuto un occhio
di riguardo per il suo tempo speso per l’amico Loris. Anche perché non
stava facendo nulla di male.
Meno traumatica la visita successiva, nella casa di ringhiera dove abitava
Paolo Perego. Aveva aperto in pantaloncini corti e canottiera nera dalla
quale spuntavano ciuffi di peli grigi. Calvo, con riccioli ai lati della testa,
l’aria stravolta di chi faceva tardi la notte, non s’era mostrato entusiasta di
ricevere la visita di un poliziotto e di un carabiniere e aveva opposto una
serie di difficoltà: «Siete sicuri di voler parlare con me? Ma proprio con
me? Perché di Perego ce ne sono tanti».
Alla fine si rassegnò, pregò qualcuno che stava ancora a letto ed emetteva
curiosi rantoli, di preparare un caffè «con la moka grande» e si accomodò in
salotto, nel senso che si acciambellò tra alcuni cuscini di seta, probabile
ricordo di viaggi orientali, e ignorò gli altri due. Binda trovò posto su una
sedia Tonet, piuttosto scomoda. Logiudice restò in piedi. Stava per sedersi
su una poltrona con tre o quattro coperte al posto del cuscino, ma il padrone
di casa lo bloccò: «No, quello è il posto di Gianni, sono rogne se lo trova
occupato».
«Eh no, allora teniamolo tranquillo. Già l’abbiamo svegliato» disse il
poliziotto con un sorrisino, mentre Binda cominciava: «Senta, signor
Perego, lei che cosa può dirci di Lavinia Marbella?».
«Che mi dispiace che sia stata uccisa.»
«Va bene. E dopo?» chiese ancora Binda, guardandosi in giro.
In quel salotto arredato come un bazar c’erano varie fotografie di Perego.
Nella più grande compariva in tuta nera, da mimo, con un cappello bianco
tra le mani, e accanto a lui c’era una luccicante Lauretta Masiero in abito
scollatissimo. In un’altra, un Perego stralunato correva davanti a un toro,
probabilmente in una saga spagnola: l’espressione di panico stampata in
faccia e i muscoli del collo tesi come corde di violino erano esilaranti.
Paolo Perego sorrise prima di rispondere. «Lavinia era una bella persona,
ma proprio bella, rara, una persona buona e forse non tanto felice.»
A quel punto, il sottufficiale si schiarì platealmente la voce. «Secondo lei,
perché siamo qui? Per sprecare tempo con le sue frasi fatte?»
«No, no. Be’, Lavinia aveva anche un difetto caratteriale, nel senso che
non si affezionava mai a nessuno. Poteva vivere facendo a meno di tutti, ma
così, secondo me, aveva dimenticato anche se stessa e i suoi desideri, i suoi
sogni. Mai perdere i sogni.»
I due investigatori si guardarono perplessi. Binda incrociò le braccia che
spuntavano dalla Lacoste, e stava per ripartire all’attacco di Perego quando
sentì trafficare in cucina: doveva essere Gianni, lo scorbutico proprietario
della poltrona con le quattro coperte, pensò il maresciallo, e si sorprese
quando invece apparve sulla soglia una donna diafana, con profondi occhi
bistrati e un grosso cane che le saltellava accanto. «Cuccia» strillò
all’animale, che abbassò le orecchie e si mosse verso gli ospiti. Anche la
signora magra, ma sinuosa nei movimenti, iniziò la sua passerella attraverso
il salotto. Portava i caffè con eleganza, ma con malagrazia sgridò il suo
uomo: «Paolo, sveglia, questi due vogliono sapere se sei stato tu ad
ammazzarla o se puoi sapere chi è stato, l’hai capita?...». Poi, rivolta al
cane: «Gianni, stattene a cuccia, o ti spezzo le corna» minacciò mentre il
terranova saltava addosso al padrone, leccandogli la faccia e, soddisfatto, si
andava a sistemare con maestà sulla sua poltrona.
L’ex ballerino non sapeva più se guardare il cane, gli "sbirri", o la moglie.
«Io implicato nell’omicidio di Lavinia?» sussurrò. «Ma, dico, siamo
pazzi?» Si alzò gesticolando e gli ci volle qualche minuto per riconquistare
la calma. Non vedeva quella donna da anni, aggiunse balbettando. E no,
non aveva partecipato ai funerali perché di pomeriggio andava sempre in un
bar biliardo, quello vicino al teatro Smeraldo, come faceva quando era una
giovane speranza del balletto che viveva per il palcoscenico.
«Il palcoscenico e le sottane» disse la donna con un sorriso seducente a
beneficio degli ospiti.
Perego chinò la testa, trattenendo un sospiro macho e soddisfatto, anche
se, per la verità, era convinto che se avessero fatto una gara tra le sottane
che aveva sollevato lui e i pantaloni che aveva sfilato lei, avrebbe
tragicamente perso.
Erano le undici passate quando i due investigatori approdarono in corso
Venezia. L’indirizzo di Sangalli corrispondeva a uno dei palazzi più
signorili affacciati sulla strada ampia e aristocratica. Vennero fermati dal
custode, un uomo dai tratti fini e con occhiali da professore, il quale,
appena seppe da chi andavano, storse la bocca e li annunciò al citofono un
po’ bruscamente, come se il compito gli pesasse.
Salirono al primo piano e più che un maggiordomo, l’uomo che aprì la
porta dell’appartamento di Vito Sangalli sembrava un pugile. O forse anche
uno zingaro. Il volto era cotto dal sole e il naso rincagnato era in bella
evidenza. Superava il metro e ottanta, più corpulento che massiccio, con
spalle larghe e quadrate. La giacca nera non riusciva a chiudersi né sui
pettorali sporgenti, né sullo stomaco di chi aveva smesso di allenarsi tutti i
giorni. Anche le maniche lasciavano scoperto un polso grosso come una
mazza da base-ball, al quale erano attaccate le mani nervose, con le vene in
rilievo. Dimostrava una cinquantina d’anni, e lo sguardo obliquo che scoccò
ai due visitatori emanava l’atavico livore dell’uomo della strada contro gli
uomini in divisa.
«Il padrone vi aspetta» annunciò, chiudendo la pesante porta dietro a
Binda e Logiudice. Se Sangalli era stato un ricchissimo impresario, un vero
nababbo del teatro, ora non sembrava navigare più in buone acque.
L’appartamento aveva bisogno di un’immediata ristrutturazione, oltre che di
una robusta pulita da cima a fondo. Batuffoli di polvere negli angoli, tende
luride, il parquet sconnesso.
"Rachele qui dentro impazzirebbe" pensò Binda. La casa dove viveva in
affitto era così diversa, molto più piccola, ma sempre in ordine. Senza
quelle chiazze gialle di umido sul soffitto e sulle pareti, senza quell’unto
intorno alle maniglie di ottone.
Ripensò alla moglie e al suo pianto per la marmitta di latte versato.
Almeno per un giorno sarebbe dovuto tornare presto, farla star meglio,
magari proporle di andare al cinema. Chissà, una gita nel fine settimana.
Doveva inventarsi qualcosa per alleviarle la tristezza.
Il maggiordomo, brontolando in quella che poteva essere una lingua slava,
non li precedette, ma li seguì, come se li sorvegliasse, lungo un corridoio
sul quale si affacciavano le porte, leggermente scardinate e spesso
socchiuse, di alcune stanze. «Andate sempre dritti, sino all’ultima a destra»
li avvertì.
Qualche sala era spoglia, ma in una Binda notò un grande divano coperto
da un lenzuolo grigio sporco, dal quale spuntavano i piedi di legno laccato
verdino con sfumature dorate, e la parte terminale del bracciolo scolpito con
la forma di un ramo sul quale si posa un uccello. Era appassionato di mobili
antichi: quel salottino poteva valere anche una cinquantina di milioni, se
rimesso a posto. Sulla parete color rosa antico, non era appeso nemmeno un
quadro. Li aveva forse venduti tutti?
Prima di raggiungere l’ultima porta, l’uomo in nero decise di sorpassarli.
Bussò due volte, poi aprì ed entrò per primo e ancora una volta, ordinò:
«Sempre dritti».
Chissà perché aveva bussato, visto che li indirizzava verso un altro
corridoio, molto più corto del primo, che finiva davanti a una lastra di
elegante vetro piombato: un’ombra alla scrivania era visibile dall’esterno, e
quell’ombra non poteva che essere il padrone della grande casa malandata.
«Permesso» ripeté l’uomo in nero, sorpassandoli ancora e aprendo la porta
dopo aver bussato leggermente.
Vito Sangalli, l’impresario che era stato potente e temuto, era un settantenne
macilento, pallido, avvolto in una bella vestaglia color ruggine, lisa sui
gomiti e con una macchia d’uovo sul bavero. Aveva sulla bocca
un’espressione saccente, le labbra carnose sbuffavano disprezzo sul resto
del mondo. Chissà da giovane, quanto poteva essere stato antipatico. Si
manteneva eretto grazie a due stampelle. Quando Binda e Logiudice si
avvicinarono, si accorsero dell’occhio nero e del labbro spaccato. Anche
Sangalli notò il loro sguardo e con un po’ d’imbarazzo si sentì in dovere di
dire: «Sono caduto l’altro ieri... non sto più in piedi tanto facilmente.
Sapete, l’età avanza». Di fronte al silenzio degli altri, continuò: «Le ossa, i
muscoli, tutto mi si sta rivoltando contro».
«Purtroppo, padrone, la stessa vecchiaia è una malattia, diceva mio padre»
aggiunse l’uomo in nero, deferente.
«Sì, è così, e se non ci fosse il mio amico Urban... Kurban, volevo dire
Kurban... ad aiutarmi, forse non potrei nemmeno uscire di casa.» Chinò la
testa, con un’infinita pena.
Dopo qualche convenevole, Sangalli affrontò la questione: «Siete venuti
per la povera Lavinia, dite pure». La sua voce era un malriuscito tentativo
di resistenza umana al dolore che doveva causargli, parlando, la crosta
secca sul labbro spaccato. Binda ascoltava il dialogo tra il giovane
poliziotto e l’impresario osservando un tavolino sistemato accanto alla
scrivania grande e nera, completamente sgombra, a parte una lampada
moderna, e scrostata negli angoli.
Era un tavolino Luigi xv, ricco di guarnizioni di bronzo e di intarsi
cromatici. Forse poteva essere addirittura di Jeans Francois Oeben, un
ebanista famosissimo, di cui aveva letto in uno dei libri d’antiquariato
acquistati sulle bancarelle intorno al Castello Sforzesco. Le gambe a voluta
del prezioso tavolino calzavano scarpette di bronzo e il piano rettangolare
era molto probabilmente apribile, anche se all’esterno non si vedeva la
cerniera. L’intarsio del lastrone raffigurava due scalinate e una fontana a
valva di conchiglia: un lavoro perfetto, perfetta anche la scelta dei diversi
legni impiegati, apprezzò il maresciallo.
«Anch’io sono stupito» stava rispondendo Sangalli. «Poi, nel nostro
ambiente, si è molto elastici, nemmeno per questioni di corna ci si è mai
ammazzati. Suicidi, be’, purtroppo ne sono capitati...»
«Però, ci scusi» lo interruppe Logiudice «è vero che lei ha un archivio
della gente di spettacolo?»
«Ne vado fiero. Con me, non faccio per vantarmi, se ne andrà un’epoca.
Sono l’ultimo dei mohicani dell’avanspettacolo e vorrei lasciare quei
documenti alla biblioteca Braidense, quando morirò.»
«E non è che ci possiamo dare un’occhiata?»
L’impresario guardò l’uomo in nero, ma Kurban sembrava distratto.
Allora, arrossendo, lo chiamò: «Kurban, è in ordine l’archivio?».
«È come lei l’ha lasciato» rispose il maggiordomo, con un leggero
tremolio nella voce, incerto su cosa dire.
Sangalli finse di non essere troppo contrariato. «Va bene, accompagnaci.»
«No» intervenne Binda, con un sorriso «mi scusi, ma non abbiamo un gran
tempo da perdere. Mentre io do un’occhiata all’archivio, l’agente Logiudice
verbalizza le sue dichiarazioni. Non metterò in disordine, si fidi... sono un
esperto di schedari.»
Questa volta toccò al maresciallo seguire l’uomo, ne notò le spalle
possenti ma un po’ stanche, il collo scolpito come una colonna. Era forse
troppo lento per essere un pugile, ma che avesse un passato da atleta era
sicuro. Kurban ebbe un attimo di esitazione, in fondo al corridoio.
«Da quanto tempo è a servizio in questa casa?» domandò Binda
all’improvviso, con il tono dell’impiccione che aveva notato l’incertezza.
«Conosco il padrone da trent’anni, da quando volle mettere sotto contratto
la mia famiglia: siamo musicisti sinti, originari della Croazia, e mi hanno
adottato da bambino. Spesso abbiamo lavorato per lui, io in particolare.»
Non gli aveva risposto. Ma non aveva senso chiedere altri particolari.
Entrarono in una sala rettangolare, con una grande scaffalatura centrale e,
lungo le pareti, cassettiere e armadi di varie fogge e misure.
Era proprio vero che Sangalli aveva accumulato di tutto, dalle locandine ai
libretti d’opera, dalle foto di scena agli autografi. Era qualcosa di più di un
archivio, di più di una collezione. Un’intera epoca, quasi definitivamente
scomparsa, aveva lasciato che Sangalli ne raccogliesse le ultime tracce.
Sotto vetro compariva un articolo con la descrizione di un fattaccio che
scosse il mondo dello spettacolo nel febbraio 1953: la Masiero aveva
abbandonato Renato Rascel a Milano "perché nella luminosa il suo nome
non figurava accanto...". Il titolo era famoso, Attanasio, cavallo vanesio, e
anche i genitori di Binda erano partiti da Canzo in treno per andare a vedere
lo spettacolo.
C’erano la locandina dell’operina di Arnaldo Fraccaroli Siamo tutti
milanesi, e anche una Ninetta del Verzee con l’autografo di Dina Galli. Foto
di bellezze come Dorian Gray in Passo doppio, dove recitava la parte di una
specie di Mata Hari. In mezzo a quelle immagini, compariva una stramba e
vecchia foto in bianco e nero del Duomo di Milano preso dall’alto, con una
frase a stampatello: SU 3400, UNA LA PRESCELTA, MA SENZA LA
FIGURA, NON SAPRAI COSA FARE. Poi i ritratti di Elena Giusti,
Carmen De Lirio e Lucy d’Albert, di cui gli avevano parlato una volta gli
amici a Como: era la figlia della ballerina Lydia Johnson e la moglie del
calciatore Attila Sallustro. Dove si trovava Wanda Osiris, che certo non
poteva mancare? C’era, e accanto a lei tale Anna Menzio. Più grande delle
loro foto, quella di Milly, con una didascalia "Opera da tre soldi, 1954".
"Quelli sì che erano bei tempi per il teatro" si disse
Individuò una cartellina intestata a Lavinia Marbella nel cassetto delle M:
c’erano testi, ritagli, una posa di scena. Era stata bellissima, con
pantaloncini di lamé gonfi sui fianchi e un reggiseno carico di pietre
preziose, ma appariva un po’ rigida, come se non fosse a suo agio davanti al
ritrattista. Strano atteggiamento, per una che era abituata a mostrarsi in
pubblico. Binda si sedette a uno scrittoio e consultò la sua scheda, con fogli,
ritagli, locandine. Una carriera senza infamia e senza lode, qualche buona
critica, più spesso però il suo nome era citato in mezzo agli altri della
compagnia. Avanspettacolo, rivista, due dischi dai titoli un po’ artificiosi,
Lav nel senso di love e Lav-day, un po’ di radio. In un’intervista si
raccontava in questo modo: "Il successo nel lavoro è poter fare ciò che si
sognava, e quindi io ho successo. Ma il successo è esso stesso un lavoro, nel
senso che se vuoi soldi, popolarità, risalto, devi faticare per ottenerli. Io non
sono mai stata disposta a lavorare fuori dal palcoscenico. Preferisco vivere,
leggere buoni libri, sentire come sta cambiando la musica d’oggi".
"Allora, anch’io sono un maresciallo di successo" pensò Binda.
Quando Kurban parve averne abbastanza e, come preso da un’urgenza
improrogabile, uscì a precipizio dalla stanza, l’investigatore si alzò
altrettanto velocemente.
Sangalli non aveva gradito la sua visita nell’archivio. Binda ne era certo,
dal modo in cui aveva reagito. Forse era solo geloso delle sue cose. Oppure,
dopo aver saputo dell’omicidio di Lavinia, era andato a rivedere qualche
carta. Poteva aver cercato qualche indicazione. Era questa l’ipotesi da
verificare.
Binda doveva quindi cercare qualcosa che fosse fuori posto.
Forse un cassetto, forse un foglio.
Percorse con lo sguardo gli scaffali. Notò in un angolo un fascicolo
intestato a Giulia Lazzarini, lo aprì e lo lesse velocemente. Nulla. Sotto un
pupazzo di Velia Mantegazza, alcuni fogli su Nuto Navarrini e le sue
operette e una biografia di Remigio Paone, "il più grande impresario privato
del xx secolo". Su uno scaffale c’era un’altra biografia, quella di Delia
Scala, che si chiamava in realtà Odette Bedogni, era milanese della zona di
piazzale Libia, e aveva debuttato nel ‘54 in Giove in doppiopetto con Carlo
Dapporto. Il musicista Gorni Kramer l’aveva ribattezzata "simpatica" ed era
bastata una canzone per farle spiccare il volo.
Spese dieci minuti buoni tra storie che poco c’entravano con l’omicidio di
Lavinia, e dovette concentrarsi per non farsi sommergere dai ricordi dei
motivetti o dalle immagini di quell’epoca in cui si vedevano le prime
Lambrette e i giovani sciamavano in gruppo. Lesse, controllò, e alla fine
l’occhio allenato ed esperto del detective notò due cartelline rosa in mezzo
ad altre cartelline gialle.
Prese la prima.
C’era un foglio di carta lucida che sembrava strappato da un’enciclopedia
per ragazzi, Il nostro mondo illustrato. Si leggeva un elenco di diamanti,
con tanto di fotografie e descrizioni. Li scorse velocemente: Kho-i-noor
(montagna di luce), Gran Mogol, Occhio di Poseidone o Occhio del Mare,
Hope Blue, Occhio dell’Idolo, Taylor-Burton... Chissà, magari il ricco
impresario da giovane avrebbe voluto comprare qualcuna di quelle pietre
preziose, che adesso avrebbe venduto, visto com’era ridotta la casa.
Avrebbe memorizzato quei nomi alla fine, si disse, afferrando la seconda
cartella rosa, dalla quale spuntava un ritaglio di giornale, con la cronaca di
una rapina e di una donna uccisa dalla polizia.
Pochi mesi prima era entrato in una boutique di quella via famosa e
importante, fingendo di essere un cliente, ed era stato trattato con mala
grazia dalle due bionde signorine, che si davano le arie, manco fossero le
socie proprietarie, e invece erano le commesse. Gli avevano spiegato che
non avevano molte giacche, non erano lì per vendere, ma per mostrare
pochi capi d’abbigliamento alla clientela. Era rimasto ugualmente davanti
alla meno scostante delle due che, mentre vantava la purezza dei tessuti e
dei tagli sartoriali, occhieggiava con fuggevole disgusto le sue scarpe dalla
pianta larga e la sua camicia celestina. Binda aveva sopportato giusto il
tempo necessario per veder uscire dal negozio di fronte un commercialista
legato alla mafia, che lui stava pedinando da giorni. Più tardi, a mente
fredda, ci aveva riflettuto, chiedendosi: ma quanto sta cambiando Milano?
E che razza di negozi stanno allestendo nel centro? Che senso hanno le
vetrine che mostrano un paio di oggetti e non mettono nemmeno un
cartellino con il prezzo?
Paragonò le sue reazioni di fronte alle commesse di via Montenapoleone
con la crescente e curiosa perplessità che aveva provato osservando i
giganteschi poster di Armani, le fotografie che riprendevano scene
insignificanti in bianco e nero e coprivano un intero muro di via Ponte
Vetero. Non le giudicava immagini adatte a fare pubblicità alle collezioni di
moda, ma a perpetuare una specie di culto della personalità. Aveva però
sbagliato a pensar male. Finalmente aveva compreso: Armani, le commesse
altezzose, le vetrine spoglie e nello stesso tempo ricche, non erano altro che
le tracce di un nuovo culto pagano che si stava diffondendo intorno al
Duomo. Una fede nell’apparenza che da Milano si propagava nel resto del
mondo.
Quelle vie, dove una volta c’erano negozietti, e bar, un po’ più umani
anche se non bellissimi, stavano diventando una chiesa. E, come tutte le
chiese, erano - dovevano essere - sfarzose. Rappresentavano il quadrilatero
d’oro, così avevano chiamato quella porzione di centro che comprendeva
via Montenapoleone, via della Spiga, via Sant’Andrea e via Manzoni, dove
continuavano a passare tram normali, come nel resto della metropoli, e non
carrozze reali trainate da cavalli bianchi. Forse qualcuno di quelli che
avevano trasformato il quadrilatero con passatoie rosse e alberelli
equatoriali prima o poi ci avrebbe pensato.
In quelle strade, Binda veniva sorpassato da stranieri eleganti, da giovani
in blazer nonostante il caldo, da auto lussuose che cercavano parcheggio
accanto alla pasticceria Cova. La gioielleria teatro della famosa rapina era
protetta da un vetro scuro e blindato. Lui stava per suonare, quando la
serratura scattò. Spinse la porta massiccia, lo sforzo gli fece aumentare il
mal di testa che da giorni tornava a visitarlo. Scorse la propria faccia su un
monitor ed entrò in una sala ricca di legni, poltroncine, antichi specchi e
moderne sculture.
Una signora con una crocchia di capelli color pepe e sale, occhiali di
tartaruga e tre giri di perle grandi come nocciole intorno al collo da ex
cigno lo salutò con cortesia, mentre un cinquantenne dal naso sottile e la
mandibola quadrata teneva una mano sotto il bancone, come se da un
momento all’altro potesse estrarre una pistola e fulminarlo.
«Sono un maresciallo dei carabinieri. C’è per favore il signor Capotondi?»
«Sono io» rispose l’uomo, tenendo sempre la mano sotto il bancone e
vigilando sui movimenti dello sconosciuto.
«Se ha tempo e non disturbo, vorrei parlarle della rapina del 1959 e del
diamante scomparso.»
Varie espressioni passarono in pochi istanti sul volto del gioielliere:
indicavano sorpresa, speranza, delusione, rabbia, rassegnazione. Raramente
Binda aveva visto una faccia così mobile, da attore. Alla fine rimase sul
viso di Capotondi solo la speranza. «L’avete trovato, l’Occhio del Mare?
No, l’avrei saputo. Ma forse ci sono altre novità? Qualcuno sa e può
parlare?»
«Vorrei innanzitutto mostrarle una foto. Quest’uomo le ricorda qualcosa?»
L’interpellato osservò la foto segnaletica di Elmo Florio, il rapinatore della
Valcavallina, e scosse la testa. «Erano tutti mascherati con parrucche e
occhiali e sono rimasti dentro meno di quattro minuti.»
« È una storia che avrà riferito molte volte ai miei colleghi, ma
gentilmente mi può raccontare come andò e cosa, a distanza di tempo, le è
rimasta più impressa?»
«Dovevamo allestire una mostra di pietre preziose, e io tenevo quella
pietra, rara e costosa, nella vetrina blindata. Avevo un nuovissimo sistema
d’allarme, sul modello di una banca svizzera. Così complicato che per
accenderlo, testarlo e gestirlo, per settimane avevamo avuto qui la questura,
l’Enel e la Sip, ma sicuro. Sicurissimo, dicevano. E, di giorno, una guardia
giurata sul marciapiede. Mi sentivo tranquillo, c’era anche il mio povero
papà. Tutto normale. Tranne quel venerdì mattina. La guardia giurata non
c’era, ma abbiamo pensato a un leggero ritardo e, certi del sistema
d’allarme, abbiamo aperto lo stesso. Eravamo al lavoro da un quarto d’ora,
quando ha bussato un signore elegante, anziano e muscoloso.»
Un tic nervoso comparve sotto l’occhio destro di Capotondi.
«Gli abbiamo aperto e, senza il minimo sospetto, abbiamo trattato per un
orologio d’oro, che lui ha comprato. Al momento di pagare si è accorto di
non avere il denaro e così ha chiesto il permesso di telefonare al Grand
Hotel et de Milan, dove alloggiava. Ho composto io il numero, prendendolo
da una ricevuta, e gli ho passato la cornetta. Lui ha chiesto se potevano
portargli la sua cassetta-valori dalla concierge e loro hanno detto di sì.
Mentre li aspettavamo, il signore ha chiesto di vedere qualche altro gioiello
così, per ingannare l’attesa... cercava qualche bella pietra. Finché si sono
presentati, con tanto di livrea, due portieri. Ma non appena li abbiamo fatti
entrare, dalla cassetta hanno estratto le pistole. Ho schiacciato il pulsante
del sistema d’allarme e loro hanno riso, prima di picchiare me e papà,
chiuderci nel retro e prendere quello che potevano.»
Il gioielliere parlava con voce calma, monocorde, solo i rapidi tic
rendevano evidente quanto era stato profondo lo choc.
«Con le nostre chiavi hanno sbloccato cassaforte e vetrina blindata»
riprese Capotondi «e se ne sono andati tranquilli, lasciando qui le
parrucche, le divise, i baffi finti... Che avevamo subìto una rapina se ne
sono accorti mezz’ora dopo i baristi dove andavamo a prendere l’aperitivo.
Abbiamo scoperto che la guardia giurata era stata sequestrata a casa sua e
che i contatti del sistema d’allarme erano stati tagliati. Il numero che avevo
fatto corrispondeva alla cabina telefonica di corso Matteotti, davanti alla
libreria Paravia. Sono stati organizzati posti di blocco, perquisizioni, ci
hanno portato foto segnaletiche e addirittura persone sospette, ma non
abbiamo riconosciuto nessuno. Milano è stata bloccata: aeroporto e stazione
controllati, autostrade con il triplo di pattuglie, tutte le case dei pregiudicati
ispezionate, strizzati... come mi ha detto un suo collega della polizia... i
capimafia e i professionisti... Da allora, però, non abbiamo avuto una
notizia positiva che sia stata una. L’assicurazione ha pagato per il furto del
diamante, risarcendo il legittimo proprietario, un miliardario inglese che ha
messo una forte taglia per riavere l’Occhio del Mare e non ha certo bisogno
dei soldi dell’assicurazione. A noi ha dato poco e niente. Ci sono voluti
alcuni anni per risistemarci... ci avevano portato via il meglio del
campionario. E anche la nostra tranquillità. Perché, anche se siamo in pieno
centro, guardi come passo io le giornate...» E tirò fuori da sotto il bancone
una Smith & Wesson.
Era stato chiarissimo nell’esposizione. Lo fu altrettanto nei tentativi
d’informarsi sulle ragioni, a distanza di così tanti anni, della visita di Binda.
Ma il maresciallo lo pregò di non badarci e di non farne parola né con
estranei né con parenti. «Non voglio dirle nulla che possa impensierirla o
confortarla, e lei stesso sia prudente. Nel ‘59 i banditi hanno avuto ottimi
informatori... non so se li abbiano ancora... ma tutto vorrei far sapere, meno
che sto indagando su un tizio... forse legato a questa rapina. Mi promettete,
lei e la signora, di tacere con tutti?»
I due annuirono, ma Capotondi, prima che il maresciallo uscisse, ci tenne
ad aggiungere: «La ricompensa dell’inglese era di duecento milioni per chi
gli forniva notizie utili al ritrovamento del diamante. Adesso la somma sarà
anche maggiore. Io ne aggiungo cinquanta, di milioni, se si trovano i miei
gioielli e l’oro».
«Una bella ricompensa...»
«La pagherei volentieri. Non è mai saltato fuori uno spillo, di quanto è
sparito qui, e non so proprio spiegarmelo. E nemmeno il povero papà se lo
spiegava. Due anni fa, quando è morto per un brutto male, mi chiedeva
ancora se c’erano notizie sulle nostre cose...»
Cinque
spalancò gli occhi e aggiunse: «La sera prima di morire era stata insieme a
Lavinia al bar accanto allo Smeraldo. Me l’aveva raccontato Lav, dicendo
che era stato terribile bere un camparino con una collega e il giorno dopo
scoprire che era morta durante una rapina in banca. In quella rapina
centrava un durista, un rapinatore della Valcavallina».
«Sì, un certo Florio.»
«Ma allora lo sapevi già... E perché mi hai parlato di Sangalli? Perché
queste domande?»
Il maresciallo non voleva ammettere con se stesso che Loris, con quei suoi
atteggiamenti, stava esagerando, e non poco. O forse era lui che, in quei
giorni, doveva raschiare il fondo del barile delle energie per trovare la
voglia di alzarsi, di lavorare, collegare il cervello, cercare analogie e
discrepanze. Strinse i denti — la forza di volontà era una sua dote — ma
all’amico preferì dire chiaro e tondo che non era tenuto a rispondere. «A
ciascuno il suo compito. Ragioniamo. La prima cosa da fare è mandare
qualcuno a casa di Ferri, e adesso ci andrà un mio giovane collaboratore e
in questo modo ho anche un’ottima scusa per seguire ufficialmente le
indagini che sono in mano alla questura...»
«Pietro, dài, vacci tu.»
«Credimi, è come se fossi io. Del Giambelli mi fido ciecamente. Ha tatto,
educazione, intelligenza. Ha già lavorato a casi di persone scomparse. Lo
considererei il mio erede, se non fosse che è vegetariano. Adesso lo chiamo,
ma intanto» abbassò la voce e lo guardò intensamente «anche tu devi
cominciare a muoverti.»
«Sì, Pietro, dimmi.»
«Vai a trovare quella tua ex... com’è che si chiamava?... quella tutta
scollata.»
«Renée.»
«Renée, giusto. Vai da lei e bada che non le succeda niente. Dammi anche
l’indirizzo. Se era un’amica inseparabile di Ettore e Lavinia, chissà che...»
«Ci avevo già pensato. L’ho chiamata, sta bene e non apre a nessuno
finché non arrivo io. Sa badare a se stessa.»
«Sto più tranquillo, caso mai ci fosse la stessa mano dietro l’omicidio di
Lavinia e la scomparsa di Ferri. Tra l’altro, a me sembrava d’averlo già
visto da qualche parte, quel comico che piangeva così tanto al funerale, ma
non riesco a mettere a fuoco dove...»
«Da Renée ci vado armato? Forse è meglio, che ne dici?»
«Sono domande da fare a un carabiniere?»
«E la storia di Florio e Orsola Orsini?... Dài, Peder, cosa stai ravanando?»
Un po’ frastornato, si ritrovò nel sole rovente di piazza della Scala. Aveva
sentito parlare di persone che stabiliscono i valori delle merci e di
variabilità dei mercati. Sapeva di Enrico Cuccia, il taciturno banchiere che
in una piazzetta là vicino tirava le fila delle grandi famiglie italiane. Ma gli
sembrava che fosse una leggenda, questo potere del denaro e delle
informazioni. Una finzione. Sino a quella mattina. Forse ne aveva
incontrato uno, di gnomo dell’alta finanza. Sì, avrebbe detto a Umberto di
interessarsi di computer, poteva funzionare. Investire, be’, se avesse avuto i
soldi l’avrebbe fatto. Ma una previsione, anzi uno degli scenari del
professore era del tutto sballato. Alla morte del comunismo non credeva
proprio. Ma dài! A quante manifestazioni del Pci era stato mandato per
questioni di ordine pubblico? L’Italia era piena di bandiere rosse: dove
sarebbero andate a finire se il comunismo fosse morto? Bertolini
vaneggiava.
Fino a largo Donegani il tram era semivuoto, mentre il bus per via
Moscova sembrava un pezzo di mercato trasferito su ruote tante erano la
ressa e la confusione, ma stava arrivando e Binda lo prese al volo, per
tornare in caserma e svuotare la memoria scrivendo subito il rapporto per
Casiraghi. Prima finiva, prima avrebbe avuto le ore libere per le indagini
sull’omicidio di Lavinia e sulla scomparsa di Ettore Ferri.
Era quasi arrivato alla sbarra della caserma quando vide il lampeggiante
acceso di Giaguaro 11, l’Alfasud grigia in dotazione alla Sezione omicidi.
Al volante c’era il fidato Kalì; sul sedile accanto un giovane brigadiere
appena arrivato, il barbuto Demetrio Pantalò, che si sporse dal finestrino:
«Hanno segnalato un corpo in una discarica, un uomo sui cinquanta, vestito
con una camicia gialla».
Pensò a Ferri, a come l’aveva visto al Narvalo d’Oro: completo marrone,
gilet giallo, camicia azzurra e cravatta bianca. Poteva essere. Anzi, era.
Sentì il cuore battergli più forte.
«So che abbiamo già mandato el Negher a casa di uno che potrebbe essere
il morto...» aggiunse Kalì.
Binda non poteva lasciarli andare senza di lui. «Aspettate un secondo.»
Chiamò dal posto di guardia l’ufficio del generale Casiraghi e uno dei suoi
uomini gli rispose che era tornato d’urgenza a Roma. «Splendido... cioè,
volevo dire, quando lo trovo? Tra due giorni... Bene, grazie» disse e s’infilò
nell’Alfasud. «Via, ragazzi, vengo anch’io a vedere.»
«Cos’è, il richiamo della foresta?» scherzò Pantalò, che si stava
conquistando una solida fama di eccentrico sia per i completi di jeans sia
per le battute estemporanee.
«Se vi lascio soli, magari mi inquinate gli indizi... già sono scarsi» rispose
Binda, ma le parole di Pantalò lo fecero riflettere.
Non stava lavorando con la solita lena, avrebbe potuto riposarsi, e ne
aveva bisogno. E allora, perché era andato con loro? Cosa gli era scattato?
Non si trattava solo di un riflesso condizionato. Il "suo" lavoro di
investigatore esperto in omicidi gli serviva a star meglio. Ma poteva essere?
Sei
Certe notti per i carabinieri di via Moscova sono più frenetiche delle
giornate di esodo per un cameriere di autogrill. Intorno a Binda si muoveva
una decina di militari. Erano state date brevi disposizioni. Sapevano dove e
come lavorare.
Milano rappresentava per loro una sorta di università dell’anticrimine:
questa, avevano stabilito grazie all’esperienza, è una città dove c’è chi
uccide per gelosia, chi per denaro, chi per regolamento di conti tra bande,
chi per spionaggio, chi perché è un killer professionista e chi perché ha
commesso errori irreparabili. Omicidi politici, omicidi familiari, omicidi
mafiosi. Ogni investigatore imparava a occuparsi di tutto, a differenza di
quello che accade in altre metropoli, meno complesse di Milano. C’era chi
telefonava e chi usciva per parlare con un informatore o un testimone. Altri
mettevano sotto pressione il giro degli affittacamere mostrando la foto di
Elmo Florio.
«Non lo conosco», «Mai visto», «E sarebbe qui a Milano? Mi credi no»
dicevano a proposito del rapinatore sfregiato, diventato il ricercato numero
uno della squadra di Binda.
Mentre Giambelli, arrivato alla seconda notte in bianco, tentava di riposare
sul divano nell’ufficio del capitano, che s’era sposato da tre mesi ed era già
andato a casa, anche il brigadiere Kalì uscì per mostrare le foto ai vicini di
casa di Ettore Ferri e di Lavinia Marbella e ai negozianti intorno al Narvalo
d’Oro.
Era rientrato da Varigotti il pensionato Dipangrazio, la "memoria storica",
come diceva Binda. Era panciuto, rotondo e abbronzato come un bagnino.
Nonostante il curriculum di uno che aveva trascorso trent’anni al Nucleo
operativo e dava del tu a parecchi gangster, manteneva un inesauribile
serbatoio di entusiasmo infantile: «EI me amis Ciapùn sai cosa direbbe?
Che di stronzi ne ha conosciuti, ma quel Florio lì el spuzza pussee de
tucc...».
Binda dovette sorbirsi qualche minuto dei racconti del collega che aveva
indagato sulle celebri rapine di via Osoppo e di via Montenapoleone ed era
tornato in treno dalla Liguria apposta per lui. Infine, riuscì a spedirlo
gentilmente in archivio, a frugare tra gli scartafacci del tempo che fu.
"Quando sarò vecchio" promise a se stesso "di sicuro non racconterò agli
amici del paese le mie storie alla Omicidi."
La sua scrivania sembrava ormai una specie di lampada sulla quale, come
farfalle notturne, sbattevano le notizie grandi e piccole che emergevano dal
buio dell’inchiesta. Erano stati accompagnati in via Moscova due fratelli
che avevano le ville confinanti a Cesano Boscone. I due Formenti, Benito e
Arturo, erano originari di Sant’Angelo Lodigiano, specializzati negli assalti
ai camionisti, e secondo un altro malavitoso erano i basisti di parecchie
rapine nel circondario. La sapevano lunga. Sapevano anche che, quando ci
sono i morti di mezzo e la Squadra omicidi sul piede di guerra, non era il
caso di negare l’evidenza. Senza sottoscrivere una riga a verbale,
ovviamente, i due avevano accettato di "farsi chiarificatori", come dicevano
nel loro strampalato italiano. E seduti uno a fianco dell’altro, in mezzo ai
militari in borghese, Benito e Arturo avevano aperto il libro della verità:
«Florio? L’Elmo Florio? Saprete che è in circolo a Milano».
A parlare era soprattutto il più giovane, Arturo, con lo stomaco che
tendeva la stretta camicia di jeans, aperta su un crocefisso d’oro bicolore e
infilata in un paio di ruvidi pantaloni bianchi, mentre Benito,
completamente calvo, magro e baffuto, nuotava in una tuta grigia senza
marca. Il maggiore pronunciò solo qualche frase.
«Ci ha richiesto una possibilità di lavoro e gli abbiamo detto no.»
«Quale lavoro?»
«Se c’erano notizie su qualche laboratorio di oreficeria, o un
rappresentante di preziosi, qualcosa dì non troppo impegnativo da
affrontare» rispose Arturo.
«Ah, lavoro in questo senso...»
«Comunque gli abbiamo negato ogni accesso.» «Non era aria» ribadì il
fratello maggiore.
«E lui?» chiese Binda.
«S’è incazzato e se n’è andato. Noi con uno così non dividiamo il pane.
Oggi si affrontano le situazioni con un metodo più pulito, tanto sono tutti
assicurati, e non necessitano gli spara-spara dei suoi tempi. Ne convenite,
signori?»
«Tornerà?»
«Se ha bisogno, forse sì. E se torna» Arturo si mise la mano grassoccia sul
cuore «ve lo diamo.»
«Davvero?»
«Sì, non c’è remora nel sollevare la cornetta, quel Florio l’è un pistola.»
«Cosa potete dirci di lui? Anche del suo passato.»
«Gli piaceva che lo chiamassero Guerriero, forse perché il nome era
Elmo... Ma nell’ambiente per tutti era il Cece, tanto era difficile che tenesse
"il cece in bocca". Cioè non sapeva stare zitto quando doveva. Parlava a
sproposito, è finito in mezzo a tante di quelle risse... Ed era anche
un’impresa vederlo ridere.»
«Un attaccabrighe triste e solitario» si sentì la voce di Giambelli, dal
divano.
«Triste e noioso, un parla-parla. Ma solitario non è la parola giusta...»
ridacchiò Arturo, scuotendo la testa e dando un’occhiata al fratello, che
annuì. Poteva andare avanti: «Ha cambiato un sacco di donne, finché, ed era
stata una sorpresa, l’abbiamo visto con una come la Cipriana. Era bella, la
rideva sèmper e parlava pocch: il suo opposto. Si amavano davvero.
Avevano casa insieme, progettavano il matrimonio. Era incinta quando è
morta».
«Non lo sapevo» intervenne Binda, immaginando cosa potesse essere
passato attraverso la testa del rapinatore.
«E così... se trova i referti dell’autopsia, lo leggerà. Che lui la volesse
vendicare, lo sapeva tutta la Pianura Padana. Ma pensavamo che la vendetta
fosse già finita.»
«Come come?»
I due fratelli Formenti erano stati di parola: avevano molte notizie e più
d’una la stavano regalando ai carabinieri. La voce di Arturo continuò a
risuonare nella stanza affollata nonostante la tarda ora: «Il poliziotto che ha
sparato quella mattina contro la sua auto è stato travolto da un pirata della
strada, all’Ortica, davanti al bar Tri Basei. Non l’ha pianto nessuno, per
carità, e per noi l’a mazzaa lù, l’Elmo».
«Ve l’ha detto lui?»
«A noi no, ma in carcere l’ha detto, qualcuno l’ha spifferato in giro e una
volta che una notizia è sulla bocca di tutti, a noi arriva...» disse Arturo con
un sorriso.
«Ma Florio, anche dopo tanti anni, può covare ancora voglia di vendetta?»
«Be’, innanzitutto, come saprete già, i proiettili che hanno ucciso Lavinia
Marbella sono gli stessi che usava nei suoi vecchi colpi, anche se sparati da
una pistola diversa... Deve aver ripreso qualche vecchia scatola imboscata
chissà dove.»
I Formenti, avendo qualcuno a libro paga anche in via Fatebenefratelli,
ottenevano in tempo reale un bel po’ di buone informazioni, pensò Binda,
ascoltandoli ancora. «Psicologicamente» continuò Arturo «Florio è una
specie di bestia. Tu fare male me, io fare molto più male te. La vendetta gli
viene automatica. È un tipo che mentre pensa le cose, le fa.»
«Eppure, se aveva ammazzato il poliziotto...»
«Ma come facevano i poliziotti a trovarsi là, durante la rapina costata la
vita alla sua donna? Come se avessero un appuntamento dal dentista. La
soffiata c’è stata, e guardi che non è un’impressione... è andata così, si fidi.
Se Florio ha ammazzato quella gente lì, è perché pensava che quei due, la
soubrette e il comico, avessero fatto la spiata, e lui ci aveva rimesso la
donna e il bambino. Non ci piove, capo.»
«Hope Blue porta sfiga ai ricchi e ai nobili, l’Occhio del Mare porta sfiga a
chi fa teatro» fu il commento di Lamanna.
Anche il pensionato Dipangrazio, che aveva terminato una prima ricerca
veloce negli archivi, era arrivato davanti al capo armato di un eccesso di
soddisfazione. Giusto un po’ di polvere sulla giacca lo rendeva meno
trionfante. «Guardate qui» disse esibendo uno dei suoi "tesori nascosti",
come li chiamava lui.
Estrasse da una cartellina una fotografia di gruppo: «L’hanno scattata a
una festa di prima comunione, a Baggio. Dopo qualche tempo il papà del
ragazzino è stato ammazzato e io mi sono fregato l’album. Eccoli qui, i
Cavallini, anche loro sono quasi tutti morti».
Su giacche non proprio sobrie, avevano un fiore bianco all’occhiello, una
rara stella alpina. Gli occhi erano coperti da occhiali da sole. Le cravatte
erano strette e scure.
Dipangrazio si godette le espressioni attente sui volti dei colleghi. Sapeva
che grazie alla sua memoria e alle carte che aveva contribuito a raccogliere,
scrivere, assemblare, avrebbero messo a fuoco un po’ meglio la banda dei
bergamaschi di cui Asio Bugatti era il capo e che contava su quell’animale
feroce di Florio.
«Allora, questo qui è il nostro Florio. Uno che, si diceva, ha la testa utile
soprattutto a tenere separate le orecchie.»
«Più pazzo o più scemo?» s’intromise Lamanna.
«Un balordo di quelli che fa prima a sparare che a dire ti sparo, ma anche
con una sensibilità particolare per le casseforti. Era abile con i ferri del
mestiere. E qualche dote ce l’ha se è l’unico sopravvissuto.»
«Gli altri sono morti...»
«Eh sì, quasi tutti... non è un lavoro che porta con certezza a godersi la
pensione. Prima di schiattare hanno fatto in tempo a imperversare
soprattutto nel Nord Italia. E non sono mai stati recuperati i soldi che hanno
razziato. In Veneto avranno svuotato sei o sette furgoni portavalori...»
«Cioè, Dipa, non sono mai stati trovati i soldi delle loro rapine?» chiese
Binda.
«Poca roba, praticamente zero. Spendevano tanto, eh, non pensavano a
investire. Quando entravano alla Tour d’Orient erano capaci di bruciarsi in
una sera con una ballerina quanto un operaio becca in un anno.»
«Be’, grazie del paragone, visto che quando sono entrato nell’Arma mi
davano 250mila lire al mese, e alla Fiat ne prendono 400» si levò dall’altra
stanza la voce di Giambelli.
«Ma tu, Negher, sei carabiniere per sport, perché hai il papà brianzolo con
la fabbrichetta» gli risposero in coro.
«Noi» riprese Dipangrazio «sapevamo che i Cavallini avevano una loro
tecnica per far sparire i soldi e solo quando l’aria si calmava andavano a
recuperarli. Ma di più non abbiamo mai saputo. L’unico che era a
conoscenza di tutto è lui» aggiunse mostrando la foto: «Questo, il più alto, è
Bugatti, detto il Conte. Di ottima famiglia, industriali della lana, intelligente
a scuola, due anni di giurisprudenza, ma il classico legno storto. Gli
avevano già intestato una delle aziende di famiglia e lui se l’è venduta,
dopo aver giocato in una bisca con alcuni pezzi da novanta. Finiti i soldi, è
passato alle rapine in grande stile. Gli piacevano i colpi leggendari, le cose
difficili. La prima volta che li ho beccati erano dei perfetti sconosciuti.
Avevano tamponato un furgone che trasportava oro a Valenza Po e per
evitare di essere inseguiti avevano seminato sull’autostrada migliaia di
chiodi a tre punte. Durante il sopralluogo, mentre i colleghi cambiavano le
gomme e c’erano sei o sette autogrù, avevo trovato un sacchetto in un fosso,
con la scritta FERRAMENTA D. GORNI, ENDINE. E da lì, li ho fatti
finire in carcere la prima volta. Ma Asio non era tipo da fermarsi. Voleva
vivere in un altro modo. Come sapete, e la cosa fece scalpore, è morto
durante un tentativo di fuga dal carcere di Poggioreale. L’elicottero dei
complici è andato a sbattere contro i fili dell’alta tensione. Un’evasione
fulminea». Si concesse una risatina per la battuta, ma nessuno lo imitò.
«Questi altri due» continuò allora «sono stati trovati, crivellati di proiettili,
nel bagagliaio di un’auto, ad Ankara. Si parlò di una vendetta dei turchi per
pareggiare il conto con alcuni loro corrieri scomparsi a Milano. Ma sapete,
collaborazione zero con i colleghi di Ankara. Li chiamavano la Volpe e la
Volpe, due furbacchioni. Era difficile dire chi potesse fare la parte del gatto.
Anche perché guidavano da dio, sparavano bene, ma mangiavano come
dannati e non ce la facevano più a saltare i banconi. Di solito le Volpi
restavano di copertura fuori dalle banche. A mettersi in piedi sul banco era
spesso questo qui, con la faccia da cavallo, Pierino Monti detto Cannello.
Nel ‘63 ha rapinato in solitaria una banca nel Texas. Ha finito la benzina in
qualche strano posto in mezzo al niente, l’hanno preso gli sceriffi e messo
in galera, e la notte stessa della cattura un detenuto l’ha massacrato tentando
di violentarlo. Almeno, questa è stata la versione ufficiale dello sceriffo.»
«Ci abbiamo creduto?» chiese Kali.
«Tanto, non l’ha pianto nessuno. Questo con il cappellino e gli occhiali blu
è un altro bel dritto... si chiama Giuseppe Foglia, detto Pippo Palestra. Per
qualcuno è morto, per qualcun altro ha cambiato vita, comunque è sparito
da almeno quindici anni... dicevano fosse andato in Tibet, o in India, con
quello che restava dei soldi della banda. Vuoi altro?»
«Be’, vedi tu, stiamo cercando qualche pista per prendere Florio e per
capire cosa sta succedendo dopo il suo arrivo a Milano...»
Nel frattempo, due appuntati portavano nuove informazioni sull’impresario
Sangalli.
Aveva avuto piccoli trascorsi di droga e all’inizio della carriera aveva più
volte faticato a ripianare i debiti con le banche. Nessun reato, a parte
qualche assegno a vuoto, un sacco di noie con il fisco e la finanza, imbrogli
con la Siae, ovvio. Una volta l’avevano beccato con un sacchetto per
l’immondizia pieno di soldi in contanti, il ricavato dei biglietti falsi che
avevano staccato. Comunque, sulla fine degli anni quaranta, inizi cinquanta,
il successo era arrivato. Era diventato forse il più ricco degli impresari
teatrali italiani, sempre più solido, e le riviste che metteva in scena erano
andate anche in America. Amava mostrarsi spregiudicato: aveva vissuto
con due attrici, nella sua bella casa di Porta Venezia, e più d’un ristoratore
lo ricordava a cena con uomini famosi. Con un pugile, che era stato un
grande contrabbandiere di sigarette, aveva aperto un bar in centro, poi
fallito. Aveva comprato case e terreni edificabili, ma negli anni settanta
aveva venduto praticamente ogni cosa: anche quella meravigliosa casa, di
cui aveva conservato la nuda proprietà, era di una società danese.
I soldi giravano in tasca a chi faceva la tv e per fare tv ci volevano gli
agganci politici, ma pochi politici erano disposti a farsi vedere troppo vicini
a Sangalli. Negli ultimi dieci anni, non c’era alcuna segnalazione che lo
riguardava.
Renée Tancredi, prelevata dalla casa-fungo, era stata lasciata tutte quelle
ore da sola nell’ufficio del capitano della Narcotici. Era rimasta a riflettere
finché la porta si aprì all’improvviso e Binda le si piazzò davanti. Poco
dopo, entrò anche l’insonnolito Giambelli che si appoggiò allo stipite della
porta. Non un saluto, non un preambolo.
«Conosco Loris, mi ha parlato di Lavinia» disse Binda «perciò, signora,
facciamola breve. Cosa sa di Florio Elmo?»
«L’è on disgraziaa e l’è in Svizzera, in carcere.» «No, è a Milano» disse
Giambelli.
«Impossibile...»
«È qui» confermò Binda.
«Allora voi credete che sia stato lui a uccidere...» Appena lo disse,
bestemmiò con voce roca, fissò il maresciallo, e poi Giambelli.
«L’ammazzerei con le mie mani.»
«Perché diceva che è un disgraziato?»
«Perché, a parte quello che ha fatto nella sua vita, ha rovinato una mia
amica, tanto tempo fa, e lei è morta a causa sua...»
«Orsola Orsini, nome d’arte di Cipriana Bontempi.»
La donna storse la bocca in una smorfia che poteva essere seducente, o
anche molto volgare. «Oh, Madonna, ma non ditemi che...»
«Risponda alle domande.»
Con un fazzoletto bianco si deterse un leggero velo di sudore
dall’abbondante scollatura, infilando senza il minimo pudore la mano nel
reggiseno. «L’ho conosciuta bene, abitavamo porta a porta al Ticinese. Era
molto leggera e molto ambiziosa, la Ciprianina. Non proprio una che faceva
simpatia a pelle, ma aveva avuto un’infanzia tremenda, e con questo ho
detto tutto.»
Negli occhi della donna, e in una piega automatica delle sue labbra, si
lesse un profondo disprezzo, forse rivolto a chi aveva fatto del male alla sua
amica quand’era bambina: «Voleva sfondare, sfondare, mi chiese aiuto e io
l’ho portata alla rivista con me, l’ho presentata a destra e a manca. Parlava
solo del successo e, negli ultimi tempi, quasi ce la poteva fare. Aveva
cominciato da ballerina, come me, e mentre io continuavo a sgambettare lei
aveva recitato qualche battuta e cantato un paio di strofe. Si vociferava che
stava per avere un contratto speciale, che avrebbe avuto un camerino da
sola, insomma... Purtroppo credeva che chiunque avesse la grana fosse un
tipo da coltivare. Grazie al Florio cambiava tanti vestiti in anni in cui noi
già affermate faticavamo ad avere dieci mises nel guardaroba».
Accese una sigaretta: «Grazie al denaro del Guerriero, come lei chiamava
Florio, Cipriana aveva anche cominciato a usare la morfina, che quei
bastardi dei marsigliesi avevano importato in Italia. Anche se non era
drogata come quelli di adesso, che capisen nagott, stava diventando una
scoppiata. Le piaceva recitare la parte della bella e dannata, insieme a quel
pazzo di Florio».
«Lo dice per la rapina che fecero insieme?» chiese Giambelli, dal buio
accanto alla porta.
La donna scosse la chioma. «Mah, non ho mai capito cosa le fosse
scattato.» Sospirò, poi abbassò la voce: «Di soldi, quei due ne avevano
sempre avuti. Erano dei comodi».
«Comodi?»
«Sì, a Florio ballava la lira, non come a me, o al nostro amico anarchico.
Ma se voi pensate che sia stato Florio... se è così... farò di tutto per aiutarvi
a prenderlo.»
«Ci aiuti prima a capire che cosa può avergli armato la mano contro
Lavinia e Ferri. Perché loro due?»
«L’unica cosa che mi è venuta in mente mentre parlavo con voi, ma mi
sembra impossibile, è questa. La sera prima che ci fosse quella tragica
rapina, al bar biliardo dietro lo Smeraldo eravamo in cinque. Noi tre donne,
io, lei, Lavinia, e due uomini, l’Ettore e Sangalli. Bevevamo, ce la
raccontavamo su, un po’ prima di andare in scena. E lei, bella bella, se n’è
venuta fuori con una frase del tipo: "Domani provo una nuova emozione...
vado con il mio Guerriero a rapinare una banca in via Farini".»
«Così vi ha detto?»
«Sì, più o meno.»
«In un locale pubblico? Una bell’ingenua.»
«È la prima volta che qualcuno la chiama ingenua. Ingenua era Lavinia,
non lei. Comunque là, in quel trani con biliardo, poteva farlo. È sempre
stato un posto sicuro, a compartimenti stagni. I giocatori erano
professionisti che si portavano le valigette con le stecche personali. La
malavita era rappresentata da scassinatori, ladri e rapinatori. E anche tra
noi, non raramente, si parlava di argomenti peggiori di una rapina. Ho
sentito... Be’, lasciamo stare, torniamo al discorso della Ciprianina. Noi non
le abbiamo dato peso, non ci credevamo nemmeno, l’abbiamo anche
stuzzicata. "E dove la fai?" "In via Farini." "Ma va", "Ma sì", l’abbiamo
messa un po’ in mezzo. "Vuoi giocare alla bandita?" Ghignavamo, e il
giorno dopo non vi dico come siamo rimasti.»
«E così, Florio s’è convinto che vent’anni fa sia stato qualcuno di voi a far
la spia. Le pare possibile?» domandò Giambelli.
«No.»
«Ma perché no?»
«Mi no e la Lavinia tanto meno. Sangalli non è uno che vedeva di buon
occhio le divise. Ettore? Non ci credo. Ne aveva anche lui di cose da
nascondere, perché l’era staa un fazulet, un fascista. È stato a Salò, sino
all’ultimo, l’è andà a San Vitur insema al Walter Chiari e a Tom Ponzi, ci
raccontava, e ne ha prese tante di botte dai partigiani, e da allora s’è sempre
fatto gli affari suoi.»
Binda puntualizzò: «Quando Cipriana è morta durante la rapina, come ne
avete parlato?».
«Eravamo tutti stupiti, addolorati. Ho pianto tanto, ho persino pensato che
era colpa mia. Se non l’avessi aiutata io, non avrebbe conosciuto quel
delinquente, e se non avesse conosciuto...»
«Scusi se la interrompo, ma c’è qualcosa di quel periodo che l’ha colpita?
Qualsiasi cosa, anche una frase, un gesto.»
«Non direi.»
«Qualche faccia nuova che lei ha visto per un po’ ed è sparita, oppure
qualcuno che s’è trasferito senza motivo, qualsiasi stranezza.»
«Be’, non so se lo dico perché sono successe queste cose adesso, ma la
morte di Cipriana in qualche modo potrebbe aver cambiato il Ferri.»
«E come?» domandò ansioso Giambelli, il cui pensiero corse subito alla
casa dove aveva visto la signora Elena, il bambino pianista, il testamento.
«Era un mangiapreti, uno che ogni tre parole bestemmiava, ma s’è messo a
pregare, ha cominciato a frequentare una chiesa. Dopo qualche tempo dalla
morte della Ciprianina, ha lasciato il nostro mondo, e ha lasciato anche la
sua topina, come la chiamava lui. In realtà era una sciacquetta senz’arte né
parte a cui voleva far fare carriera.»
Binda rifletté ad alta voce: «Ha detto che può darci una mano a prendere
Florio... Dov’è, secondo lei? Ha qualche amico a Milano?».
«Amici non ne ha mai avuti, ma donne sì. Più le trattava male, più gli
stavano appiccicate addosso. Lasciatemi chiedere in giro.»
«Signora, ci sono già stati due morti ammazzati. Non ce ne possiamo
permettere un terzo.»
«Voi non mi avete chiesto niente, mi sono presentata io.»
«Adesso mettiamo a verbale questa storia e se ne torna nel... a casa» disse
Binda, che stava pronunciando la parola fungo. Quelle abitazioni che aveva
visto dietro via Polveriera erano davvero assurde.
«Però, maresciallo...»
«Niente però. Non faccia sciocchezze. Il Florio prima o poi lo becchiamo
lo stesso. Se il prima deve costare caro a lei e alla sua famiglia, meglio
dopo, dia retta a me. Parlo per il suo bene, lei ha figli, e un marito in cella.
Pensi a loro.»
«Sì, maresciallo.»
«Bene. Tu che ne dici, Giambelli?» chiese al giovane agente, dopo aver
affidato Renée a uno degli appuntati.
«Mettiamo subito nero su bianco le circostanze che riguardano
l’inafferrabile fantasma di Florio, ma abbiamo altre due cose da fare quanto
prima. Controllare quel bar vicino allo Smeraldo, dove parlavano di rapine
come fossero brioche. E poi c’è un’altra persona da andare a piccionare.»
«Vuoi tornare in corso Venezia?»
«Eh sì, bisogna incontrare di nuovo Sangalli. Non solo perché nel 1959
può aver soffiato lui alla polizia la storia della rapina e nell’82 può aver
dirottato Florio su altri possibili bersagli. Ma anche perché il nostro
impresario, con tutti quei brutti lividi in faccia, può aver cantato con il
bergamasco, ma è stato zitto con lei. E non sta bene.»
«Anche per me è andata così. Andiamoci adesso, di prima mattina. Te la
senti o sei troppo stanco?» «No, andiamo.»
«Kalì, vieni, ci vuole un rapporto giudiziario bello pesante a carico di
Elmo Florio. Lo denunci per omicidio aggravato. Sostieni che, appena
uscito dal carcere, ha assassinato Lavinia Marbella e Ettore Ferri. Ricorda
che ha usato probabilmente... probabilmente, mi raccomando, perché le
notizie ufficiali la questura non ce le ha passate... le stesse cartucce che
usava nel ‘59. Ci aggiungi la carriera di uno che faceva le rapine, tanto hai
già quello che ha spiegato il buon Dipangrazio. Riempi almeno dieci
pagine, se no pensano che siamo scarsi a indizi, e porti il tutto al più presto
alla firma del dottor Catanoso. Entro mezzogiorno, Kalì, che quel lì dopo
mangiato l’è mai al sò post.»
Otto
Non era stata una grande consolazione avere la conferma alle ipotesi su
come, chi e perché aveva assassinato Lavinia, la soubrette timida amica di
Loris, la donna coraggiosa che aveva preferito tentare la fuga per non
aiutare l’assassino. Come spesso accade, a sparare era stato uno abituato a
uccidere, uno che sa quanto sia facile far scorrere il sangue altrui e poi
mettersi al sicuro. Uno che ormai s’era rintanato in una piega della Milano
parallela e segreta, dove sapeva muoversi. Uno difficile da prendere vivo e
far parlare. Forse Renée Tancredi avrebbe scoperto il suo rifugio o forse no.
Restava un fantasma da incatenare, ma il caso più o meno era chiuso. O
questa era l’apparenza.
L’avvocato di Sangalli era un uomo anziano, pieno di forfora, finito una
volta in carcere per truffa. Ma si dimostrò competente, esperto di procedure
e cavilli, e non ebbe la minima difficoltà a fare in modo che l’interrogatorio
avvenisse non in caserma, ma nella casa del cliente. Nel verbale veniva dato
ampio spazio al terrore provato da Sangalli di fronte a un noto assassino,
uno conosciuto per caso tanti anni prima, perché era l’uomo di una ballerina
di fila. Si lasciava emergere la totale ignoranza dell’impresario su rapine e
colpi miliardari. Fu molto preciso, professionale, e a Binda che lo fissava
con una buona dose d’ironia rispose con una citazione che doveva aver
ripetuto più d’una volta: «Come diceva Dickens, se non ci fosse gente
cattiva, non ci sarebbero buoni avvocati».
«Ma lei si rende conto che a causa di questa gente cattiva, come la
definisce lei, una donna piange suo marito?» protestò Giambelli.
«Destino» glissò l’avvocato, guardandolo come se fosse un alieno, se non
un semplice "negher" con l’accento brianzolo.
Alla fine della funzione, seppe che la chiesa era stata costruita da Giò
Ponti, che viveva poco lontano, in via Dezza, e mentre chiedeva qualche
dettaglio, tanta era la sua curiosità e il suo amore per le bellezze segrete di
Milano, il suo amico Loris scalpitava: «Andemm». L’aveva invitato in
un’enoteca là vicino: «Devo proprio parlarti».
Ma il maresciallo insistette per fargli fare qualche passo in più, sino
all’inizio di via San Vittore: «C’è un posto che si chiama Bastianello. L’ho
scoperto perché è accanto a quella bellissima villa a forma di castello, che
in realtà è un convitto di suore. Una volta ci abbiamo ricoverato due
gemelle di dieci anni scappate da casa. Insomma, gusterai i migliori
cioccolatini del mondo».
«Con ‘sto caldo?»
«Ho bisogno di un po’ di zuccheri.»
L’anarchico sorrise, un sorriso amaro. «Senti, Peder, ci ho pensato, devo
dirti una cosa. E cioè, che io Asio lo conoscevo. Anche bene.»
«Tu conoscevi il capo della banda dei Cavallini...» «Già, e anche qualcuno
di loro, come Pippo Palestra, quello che è sparito pare con i soldi di tutti.»
Binda si fermò, prese sottobraccio Loris, gli diede scherzosamente due
pugni allo stomaco.
«Cosa aspettavi a dirmelo?»
«Non è facile.»
Sospirò, fissò ancora l’anarchico: «Mi hai coinvolto tu in questa storia, mi
hai chiesto di indagare sulla tua amica Lav, e poi dici che non è facile? Cià,
com’è la faccenda?».
«Ero giovane, gli ho fatto da autista. Piccoli colpi in provincia, noi due da
soli, spartizione cinquanta e cinquanta. Credo che non l’abbia mai detto a
nessuno dei suoi, nemmeno al Pippo, che era il più furbo, il suo vero
braccio destro.»
«Non vi hanno mai scoperti?»
«Mai. E tu non ti metteresti oggi a cercare un colpevole per quelle vecchie
dure, giusto?»
«Fa’ nò el pirla... sono reati vecchi, caduti in prescrizione. Vai avanti.»
«Anche con me applicava le sue regole, e cioè c’era l’ordine tassativo,
dopo la rapina, di non spendere nemmeno una lira del bottino sino a quando
le acque fossero tornate calme. Bugatti aveva cervello sia per organizzare i
colpi, sia per far sparire e riciclare la refurtiva. Era uno che aveva studiato,
credo anche qualche anno d’università. Il padre lo voleva in fabbrica, ma
non era proprio il tipo da sudarsi i quattrini. Leggeva molto, un bel
cervello... è stato lui a regalarmi alcuni libri americani, che io prima
d’incontrarlo rifiutavo di leggere. Gli piaceva una poesia, che dice più o
meno così: "Veniva notte - notte calda - e le piante fiorite facevano estate".
Peder, credimi, era una testa fina. La prima volta che ho sentito la frase "il
mezzo è il messaggio", l’ha detta lui, a proposito di una sua invenzione...»
«Anche inventore?»
«Voglio dire che è stato lui il primo in Italia a usare le ruspe per entrare
nelle banche a tutta velocità, sfondare porte e vetrine e scappare tra le
macerie. Immagina la scena vista dall’interno della banca: sembrava
l’apocalisse, nessuno se la sentiva di reagire con gente che spaccava tutto. E
lui, per rendere comprensibile la paura di bancari e clienti, se n’è uscito con
quella frase, il mezzo è il messaggio.»
«C’eri anche lì?»
«Ti ho forse detto che c’ero?»
«Davvero non c’entravi con il resto della banda?»
«No, davvero. Era una cosa tra me e lui. È successo due o tre volte. Forse
qualcuna di più, ma erano colpi senza rischi. Credo che lui l’abbia fatto per
darmi una mano e anche un po’ di "educazione al crimine corretto", come
diceva scherzando. Ma entrambi sapevamo che io ero e sono un’altra cosa,
un combattente anarchico, uno della città, e lui era quello che era. Ci
stavamo solo simpatici.»
«Si vede.»
«Da lui ho imparato a essere prudente. Era paterno. Lo è stato con me, lo
era con i suoi, ragazzi nati poveri ma cresciuti con lui, tra Spinone al Lago,
Endine, Ranzanico... Conosci la zona?»
«Sono andato a mangiare a Trescore, insieme a un amico fissato con il
pesce persico.»
«Allora non la conosci, ma prima o poi vacci. Se vuoi ci andiamo insieme.
È bella, particolare... Comunque, tornando ad Asio e a quello che può
servirti, nei giorni prima dei colpi dei suoi Cavallini era lui che studiava un
imbosco. Andava da solo a nascondere la merce o i soldi e, in nome di una
garanzia collettiva, lasciava le indicazioni su come recuperarli a due uomini
della banda, sempre diversi, scelti a seconda delle circostanze. Consegnava
due mezze verità.»
«E perché?»
«Solo mettendosi insieme, l’uno d’accordo con l’altro, e quindi con il resto
della banda che sapeva e in teoria poteva controllare che non ci fossero
furbate, i due complici avrebbero messo le mani sul denaro.»
Si fermarono per lasciar passare un’ambulanza diretta a gran velocità, ma
senza sirena, alla clinica San Giuseppe. Loris parve riflettere su quello che
stava dicendo, come se fosse ancora indeciso, ma non appena ripresero a
camminare riprese anche a parlare: «Se fosse capitato qualcosa ad Asio, gli
altri non ci avrebbero rimesso, e sarebbero resistiti come gruppo. La vedeva
così. Spesso nascondeva il bottino nella Valle del Diavolo, come la
chiamano dalle loro parti».
«E dov’è?» chiese Binda, pensando alla possibilità di recuperare l’Occhio
del Mare, il diamante di via Montenapoleone.
«Endine, Solto Collina, Sovere, ci puoi arrivare da lì. Sulle cartine trovi
anche Valle del Freddo, perché nonostante sia una zona piuttosto bassa, non
credo arrivi a quattrocento metri, ci crescono le stelle alpine. La gente del
posto è superstiziosa e gira alla larga. Un luogo ideale per crearsi un
imbosco. Asio conosceva il territorio masso per masso e sapeva dove
scavare una buca. Ci metteva le valigie o i sacchi chiusi nel cellophane, e
poi dava mezza mappa a uno e mezza mappa all’altro. Indicava a uno un
albero, all’altro una roccia. Altre volte piazzava il malloppo in piccoli
appartamenti affittati per un paio di mesi. Una mattina che aspettavamo
sotto casa il direttore di un supermercato che aveva le chiavi della
cassaforte...»
«Vedi che ho ragione a dubitare...» lo interruppe Binda. «Non facevate
solo uffici postali di provincia?» «Cos’è che ho detto adesso?»
«Supermercato.»
«Ah.»
«Eh già.»
«Mi sono sbagliato, era un ufficio postale. Dài, non fare sempre il
carabiniere.»
«Io s-o-n-o carabiniere.»
«Comunque, cosa cambia? Non fare... il precisino, Peder. Quella volta
Asio mi ha detto che i suoi erano impazziti perché una rapina in Piemonte
aveva fruttato ben quarantacinque milioni, e li aveva nascosti lui, come al
solito. Poi a uno aveva detto il posto, Cantalupo, me lo ricordo ancora, e a
un altro aveva dato la via e il numero. Ed era sparito... credo che in quel
periodo stesse con una cantante lirica piuttosto nota anche come giocatrice
di poker. Erano trascorse un paio di settimane e, come nei patti, non
vedendo tornare Asio, che se la stava spassando in Costa Azzurra, i due
complici... in quel caso Pippo Palestra e uno di una coppia che chiamavano
le due Volpi... si erano incontrati. Avevano messo insieme le loro verità e,
per recuperare i quarantacinque pali, erano andati insieme in provincia di
Alessandria. Il paese chiamato Cantalupo esisteva, ma non c’era la via
indicata dal capo.»
«E come mai?» si sorprese Binda.
«Ora ti dico. Erano disperati... non che temessero di essere stati fregati, ma
comunque erano andati in vacca. Finché Asio, una settimana dopo, bello
abbronzato e riposato, e senza più un soldo, era tornato a Endine per
prendere la sua parte. Ma gli altri avevano i musi lunghi, il denaro non
l’avevano recuperato, e così li aveva portati vicino a Cerro Maggiore, dove
c’era un’altra frazione chiamata Cantalupo, quella giusta: "Scusate ragazzi,
ho sbagliato io, ma voi... dài, non nascondo i soldi in Piemonte, testine. Mi
avete mai visto imboscare tanta grana lontano da cà nostra?" aveva chiesto.
Quasi sempre, insomma, era lui che tornava in tempo per prendere il bottino
e dividerlo.»
«Una cosa che funziona uno continua a farla anche per scaramanzia.»
«Un po’ per scaramanzia, un po’ perché gli piaceva pianificare, Asio ha
imposto quel sistema.»
«Tu sai se siano stati loro a fare il colpo in via Montenapoleone?»
«Sinceramente no, ma non lo escluderei. Era il tipo di lavoro che ad Asio
piaceva, e la refurtiva, compreso un famoso diamante, non s’è mai trovata.
E questo può spiegarsi con il fatto che la banda si è dissolta e nessuno ha
più saputo dove mettere le mani. Asio non ce lo può confermare purtroppo:
è stato arrestato a Napoli, dieci giorni dopo quella rapina. Tentava un colpo
acrobatico in un museo ed è finito in carcere. Processo, condanna, processo
d’appello ancora a Napoli, dopo qualche anno, condanna pesante. Allora ha
tentato di evadere, come aveva fatto un vero marsigliese, un suo mito,
Albert Bergamelli, ma è finito brasato sui cavi elettrici. La banda, senza di
lui, si era sfarinata e non s’è più saputo niente sino a questi giorni.»
«Quando arriva Florio...»
«Il quale potrebbe essere tornato a Milano perché qualcuno che sa, che
conosce la mezza verità, vuole da lui l’altra metà per papparsi tutta la
refurtiva. Vedi come fila adesso il ragionamento?»
«Ti faccio entrare nei carabinieri ausiliari?»
Loris rise di gusto. Era la prima risata vera dalla morte della sua Lav.
Aveva sempre avuto la capacità di sdrammatizzare, ma probabilmente i suoi
scherzi, le battute, le scrollate di spalle erano una maschera per proteggersi,
per resistere alle tristezze della vita. Finché non era piombata su di lui una
grande tristezza, con l’omicidio della sua amica soubrette, e quella
maschera era stata gettata via. A Binda Loris adesso appariva migliore di
quanto pensasse, meno superficiale, e non sapendo come dirglielo si limitò
a dargli una pacca sulla spalla.
«Be’, ti ho raccontato tutto questo solo per Lavinia» disse Loris. «Era
proprio una persona perbene, sai che cosa intendo? Io ho avuto varie donne,
ma con lei ho proprio voluto essere amico. Non che non mi piacesse, era
bella, ma il letto di mezzo non ce lo volevo mettere. Se poi litigavamo,
pensavo, con chi avrei potuto trascorrere quelle belle serate intelligenti,
serene? Non puoi capire quanto mi manchi. E se penso che l’ha ammazzata
uno che, come me, faceva le rapine, mi viene quasi da sputarmi in faccia.»
«Hai detto che hai lavorato con lui per un certo periodo. E poi cos’è
successo? Come mai avete smesso?»
«Asio aveva i suoi metodi, e non tutti li conoscevo. Una rapina l’ha fatta
perché il cassiere di una banca era indebitato con una bisca, per una somma
astronomica. Ha usato quel poveretto come "dito": s’è fatto indicare dove,
come e quando entrare e gli ha promesso metà del bottino. Ma, invece dei
soldi, lo ha sepolto sotto la calce. Me ne ha parlato una sera, forse per
saggiare la mia reazione. E ha bloccato le mie proteste dicendo che se uno è
scemo, deve essere castigato. Che se non lo ammazzava lui, uno così scemo
da perdere i milioni con i dadi era capace di soffiare agli sbirri, non appena
si fosse ritrovato di nuovo con le tasche vuote...»
Erano arrivati alla pasticceria Bastianello. Il maresciallo, che stava
incoraggiando l’amico, venne interrotto dal saluto caloroso del proprietario:
«Non mi dica che è qui per l’uva al cioccolato!».
Dovettero smettere di parlare. «Ce l’ha?» chiese Binda.
«Certo, l’abbiamo appena fatta. Una primizia.»
Loris era teso. Pensava a Lavinia, gli occhi umidi, ma il pasticciere non se
ne accorse nemmeno, intento com’era a mettere nel piattino alcune piccole
uova di cioccolato: erano acini sbucciati, senza semi, bagnati nel fondente
che i pasticcieri stessi producevano, seguendo una loro ricetta, e «con burro
di cacao originale, maresciallo». Li gustarono lentamente, apprezzandoli.
«Vorrei averlo tra le mani per cinque minuti. Non il diamante, ma Florio»
borbottò Loris.
L’Italia aveva vinto contro l’Argentina di Maradona ed era calata una sera
dolce: una brezza leggera scompigliava i capelli delle donne, asciugava le
schiene dei tifosi, muoveva le tende nei negozi, ma non arrivava sino a
Binda, curvo sul seguito del rapporto giudiziario a carico di Florio. Lo
compilava «con le mani malate», come gli aveva detto una volta un
capitano molto simpatico: «Quando vuoi proteggere un’informazione, o una
fonte, non pestare sui tasti, ma immagina di avere le mani malate». Lui
doveva tener fuori Loris. Era a un punto cruciale del rapporto quando
squillò il telefono.
«È la carraia, comandi. Sono il carabiniere Lo Curto. Un gruppo di giovani
chiede di lei.»
«Falli entrare solo se vogliono costituirsi per qualche reato grave. Se no
digli di ripassare, anche se fossero mio figlio e i suoi amici.»
«Li accompagna anche un poliziotto, tale Logiudice.»
Comparvero in ufficio Achille, Michi, Adriano, Ugo, i quattro giovani
sospettati per l’omicidio di Lavinia Marbella e finiti in carcere. Portavano
una bottiglia di costoso passito e un vassoio di pasticcini. Michi e Ugo
avevano gli occhi lucidi. Avevano aspettato la fine della partita per non
disturbare, ma volevano vedere chi li aveva aiutati a non restare nemmeno
un giorno di più in cella.
«A me piacerebbe che lei raccontasse le sue avventure» disse Achille a
Binda. «Magari ci scrivo un giallo, non dico come Mario Soldati, ma
chissà... Un bel libro di successo» tentò Achille.
«Un carabiniere non parla mai finché è in attività» commentò il
maresciallo strizzandogli l’occhio. «Ne riparliamo quando sarò in
pensione.»
«Mio padre ci tiene ad avervi tutti a cena, per festeggiare la ritrovata
libertà. Venite, per favore» disse Achille.
«Sono giorni difficili, magari ci prendiamo un caffè» tergiversò Binda.
Non gli andava di cenare con sconosciuti o di stringere relazioni con le
persone che erano state oggetto delle indagini della Sezione. Si era sempre
comportato così.
«Ma dovrete pur mangiare. Venite, cenate e ve ne andate, parola d’onore.
Papà ci tiene a conoscervi, gli piace la gente che fa bene il proprio lavoro e
credo che ne abbia parlato anche con uno dei vostri comandanti, visto che
ha appena vinto l’appalto per costruire quattro o cinque nuove caserme.»
Nove
Si sentiva appeso a un filo, come diceva sua madre, quando era molto, ma
molto stanca dopo una giornata intera di lavoro. Ma Kalì e Giambelli lo
bloccarono sulla porta dell’ufficio, con il pacco dei dolci e il vino in mano.
«Non aspetta che salga Dipangrazio?» gli chiesero.
«Di cosa parlate? È ancora qua?»
«Certo, è tornato in archivio. Ci sta da otto ore e pare abbia trovato
qualcosa d’importante... ci tiene a fare bella figura. Passiamo dallo spaccio
a prendere un marsalino?»
«Ma no, mi hanno portato queste cose» disse dopo qualche esitazione:
sarebbe stato meglio berselo da solo, quel nettare da intenditori, o dividerlo
con colleghi che l’avrebbero considerato un vino qualsiasi? Meglio in
compagnia dei suoi uomini, stabilì Binda, con qualche residuo di dubbio
goloso.
Quando riemerse dagli archivi con una serie di fascicoli in mano,
Dipangrazio sembrava perfetto per interpretare il ruolo del fantasma di un
vecchio ravanatore in pensione. Aveva tutte e due le spalle della giacca
impolverate, gli occhi chiari rimpiccioliti e affossati nella borsa delle
occhiaie spesse e scure, la bocca semiaperta.
«Sono stanco morto» mormorò. «Da pensionato non sono più abituato a
lavorare a questi ritmi. Ho sempre pensato che non c’è via di mezzo: Milano
o t’ammazza o ti fa restare giovane.»
I capelli radi spettinati a ciuffi e lo stomaco sporgente lo rendevano invece
più vecchio di quanto fosse e solo gli occhi, frementi, dimostravano la sua
perfetta salute. «Ho qualcosa di buono, a proposito di due morti» annunciò.
«Eh sì, lo sappiamo. Marbella Lavinia e Ferri Ettore» tagliò corto Binda.
«E invece no. Ce ne sono altri due, che rafforzano l’impianto
dell’indagine. Era da un pezzo che ci riflettevo su, ma ho dovuto controllare
un bel po’ di fascicoli. Dovete sapere che nel ‘59, mentre eravamo in pieno
casino per andare a caccia dei rapinatori di via Montenapoleone, vennero
trovati due cadaveri carbonizzati, dentro una Lancia Appia. Aspettate,
aspettate e vedrete che ho ragione io. Uno era un tecnico dell’Enel e l’altro
un muratore della Veneranda Fabbrica del Duomo.»
Si rigirava tra le mani le carte, ma poteva anche fare a meno di leggerle:
quello che raccontava l’aveva vissuto tanti anni prima, sulla strada, quando
era giovane, quando Milano, quando sua moglie, quando... «Sembrava una
storiaccia tra loro. Un omicidio-suicidio classico. Con uno che uccideva
l’altro, e si ammazzava con un colpo di pistola in bocca, mentre accendeva
un fiammifero e bruciava uno straccio di benzina, collegato a una tanica.
Un po’ laborioso, ma ci stava. Però, non esisteva un movente tale da
scatenare una simile violenza.»
Allargando le braccia si accorse di avere le spalle impolverate, ma non si
fermò per spazzolarle. «Il problema è che quei due di certo si conoscevano,
li avevano visti insieme poco prima in un bar di viale Corsica, ma
sembravano ed erano tipi normalissimi. Almeno sul conto del tecnico
dell’Enel, che aveva una caterva di figli e due famiglie da mantenere, poco
o nulla da dire. Preciso sul lavoro, competente, serio. Un conto corrente
senza strani versamenti. A casa notammo parecchi oggetti di valore, bei
mobili, e s’era comprato una Mercedes pagandola in gran parte in contanti.
Insomma, poteva avere qualche fonte di reddito che non conoscevamo e
non lasciava tracce, ma niente di che.»
«Parlami dell’altro.»
«L’altro, il muratore, era stato in galera durante la guerra. Furti,
soprattutto. Era il classico "barbera", come dicevamo noi... uno che beveva e
usciva dal seminato. Una cooperativa religiosa l’aveva aiutato a reinserirsi
come marmista, e alla fine erano così contenti di lui che l’avevano
raccomandato per un posto fisso nella prestigiosa bottega della Fabbrica del
Duomo.»
«Ma dove vai a parare?» gli chiese Binda.
«Vi porto a rileggere ora, con le informazioni che abbiamo su Florio e
compari, quello che non ho capito allora. Perché non ci avevamo nemmeno
fatto caso, ma il marmista era a San Vittore nello stesso periodo in cui c’era
Bugatti.»
«Ha fatto la galera insieme al capo della banda dei Cavallini?»
«Sì, son dovuto impazzire tra i fascicoli dell’ufficio matricola di San
Vittore, ma è così, e allora, uno può ipotizzare che...»
«Dipagranzio, scusa, ipotesi a parte, ma cosa c’entra il tecnico dell’Enel?»
«Be’, ho scoperto che c’entra eccome. Lavorava in zona San Babila, e la
zona San Babila controlla sia Montenapoleone, sia il Duomo. Stesso gruppo
operativo.»
«E che cosa vuol dire?»
«Che nel ‘59, quando installavano i primi antifurti, l’Enel mandava i suoi
tecnici. Allora non ci avevamo badato, ma adesso...»
«Stai pensando alla rapina di via Montenapoleone, e a lui come basista, o
informatore?»
«Esatto, si può ipotizzare che i due abbiano cominciato a ragionare su una
possibile rapina e forse poi, non potendola portare a termine da soli, si siano
messi in contatto con dei professionisti. Con i Cavallini, che il marmista
conosceva direttamente. Non sapendo che quelli, una volta fatto il colpo,
non amavano lasciarsi alle spalle troppe persone informate sui fatti e sul
bottino...»
«Forse, forse, forse...» mormorò Binda.
«Che cosa vuoi di più?» s’infervorò Dipangrazio.
«Ma no, scusa, anzi sei stato un grande, davvero, e ti ringrazio di cuore.
Puoi aver finalmente trovato la chiave per aprire la porta giusta.» E
aggiunse: «Il problema adesso è come procedere senza sbagliare».
Ragionava ad alta voce davanti ai suoi uomini: «Adesso beviamo qualcosa
per festeggiare Dipangrazio che può tornare in ferie, beato lui, e poi Aloisi e
Giambelli...».
«Ma perché sempre noi?» chiese disperato Aloisi detto Kalì.
«Perché sinora le notizie migliori ce le ha portate Dipangrazio, che è in
pensione, benedetto il Signore, e voi due ancora non mi avete dato un’idea
che sia una. Un buon lavoro, ma di routine, perciò adesso brindiamo, poi
mollate la sedia e ve ne andate a rintracciare le famiglie di questi due, i loro
colleghi... voglio sapere tutto quello che si può. Ma dalle vostre bocche non
deve uscire mezza sillaba che offenda la loro memoria, chiaro? Parlate di
una riapertura delle indagini decisa da Roma, alla quale però non credete
nemmeno voi».
«Passate anche da via Montenapoleone, riparlate con il gioielliere rapinato,
portategli le foto di questo caporeparto dell’Enel e del marmista, scoprite se
gli ricordano qualcosa... E, ragazzi, questi controlli li voglio per ieri.»
Era stremato quando salì sul tram che lo portava verso casa. Eppure, per la
prima volta dopo una sequela di inquieti giorni all’insegna della fatica,
provava un senso di appagamento. Il lavoro, soprattutto se ben fatto, aveva
questo potere terapeutico: quando cominciava a girare per il verso giusto,
portava una tale dose di soddisfazione da lenire piccole e grandi stanchezze.
Forse era questo il grande segreto di Milano: non era solo una città, ma una
grande casa di cura. Le circonvallazioni erano le corsie, i palazzi
sovraccarichi di uffici erano i reparti che, attraverso la medicina del lavoro,
riuscivano a dare senso compiuto alle nostre sfuggenti, incomplete, sgranate
vite, pensava Binda.
Non dimenticava il suo pianto per l’agguato di Palermo che aveva portato
via l’amico e il collega, di aver sofferto molto più di quanto si aspettasse per
il suicidio della segretaria di Calvi, di essersi inoltrato nella selva oscura
delle tragedie politiche dell’Italia attraverso l’omicidio eccellente del
banchiere. Non poteva, nemmeno voleva, dimenticarlo. Non scordava
quant’era depresso Loris per la morte di Lavinia, non aveva perso un
fotogramma dei funerali di Ferri, spesso si sorprendeva a pensare al piccolo
figlio adottivo del caratterista, un bimbo così sensibile e già segnato dalla
vita.
Tutto questo gli pesava sulle spalle come un sacco di cemento, eppure
quella sera aveva provato un forte senso di sollievo grazie alla svolta
impressa alle indagini.
Si guardò nel riflesso del vetro: aveva le occhiaie, e che occhiaie.
Viaggiare in tram la sera non gli era mai piaciuto. Al mattino era diverso,
c’era ressa, c’era fermento, i giornali venivano aperti e sbirciati, gli studenti
vociavano. Era quella la Milano prosperosa e vitale, il ricettacolo di ogni
follia e di ogni novità, la patria di ogni cambiamento e dei nuovi fermenti.
La Milano simile a un’astronave carica dei più grandi ambiziosi arrivati da
ogni angolo della penisola e del mondo, il teatro dei protagonismi di chi ci
tiene, nel bene e nel male, ad apparire, a essere riconosciuto. Non esisteva
in Italia un’altra città così. Con quella fretta costante che gli estranei non
capiranno mai, ma che ti catapulta, oh milanese, sì, lo sai che è così, in una
moltitudine di giorni. Ore e ore che si susseguono come vagoni di un treno.
Scompartimenti in cui si possono incontrare criminali che nascondono le
mani insanguinate e vittime che schivano colpi di rasoio; in cui cerchi di
parlare con i fantasmi del passato e con le ballerine in cerca del futuro; ti
metti seduto con ricchi che possono tutto e con disperati che non hanno
niente; li vedi, li riconosci a pelle i tuoi simili, quelli che come te hanno
trovato la medicina del mal di vivere nello sbattersi quotidiano.
Alla fine, come in una terapia riuscita, noi milanesi che corriamo, e
abbiamo il fiatone, e sudiamo, al traguardo incontriamo sempre noi stessi.
Anche se siamo stanchi e ci osserviamo incanutirci nel riflesso del vetro del
tram, non possiamo non continuare questa corsa, verso traguardi
irraggiungibili. Non possiamo non stringere o evitare le altre mani, non
possiamo non stare qui, dove stiamo, a Milano.
Solo la sera la Grande Clinica cambia aspetto. Circolano meno persone, e
sui tram c’è gente sola. Più accasciata che seduta. Ammaccata. Come se
fosse stata spremuta. A questo pensava Binda: che sì, anche lui era stato ben
spremuto, in quella sua vita a caccia di assassini, in cerca del ragionamento
perfetto, tesa a riparare sulla terra i torti che forse nemmeno in cielo
possono essere riparati.
"Sono felice?" si chiese all’improvviso, e preferì rispondersi alla milanese:
"Almeno sono contento di aver fatto il mio".
Kurban fumava su una panca appena fuori del reparto Ortopedia, con la
testa fasciata, ma abbastanza tranquillo. Era insieme al carabiniere Pantalò e
sembrava rilassato, ma forse era l’effetto degli antidolorifici. Appena vide
Binda, raccontò subito cos’era successo: «Ieri pomeriggio ci siamo ritrovati
in casa il tizio con le due cicatrici in faccia e una pistola in mano».
«Florio è tornato da voi? E come ha fatto a entrare?» chiese il maresciallo.
«Scassinando la porta. Questa volta non ho potuto fare nulla, mi ha messo
una corda intorno al collo e alle mani e mi ha portato subito nella stanza del
padrone. Conosceva la strada.»
«Lo immagino.»
«Il padrone quando l’ha visto s’è messo a piangere. "Te lo giuro, non so
dove sia, non lo so, credimi." Parlavano di un diamante rubato tanto tempo
fa, non ho capito dove, e Florio diventava sempre più nervoso. A un certo
punto, ha afferrato la stampella del padrone e ha spaccato il tavolino dello
studio. Non riusciva a star calmo. Mi ha afferrato per i capelli e mi ha
mandato a sbattere contro il muro, facendomi non dico svenire, ma quasi.
Mi ha spinto e, mentre barcollavo, mi ha buttato a terra. Poi ha trattenuto il
padrone e se l’è portato in archivio. Non so quanto tempo c’è stato...
quando è tornato da me, aveva la bava alla bocca per l’agitazione. Ha tirato
la corda, il collo mi faceva male, mi ha detto: "Dove può essere la
refurtiva?"».
«Tu sai di che cosa parlava» sostenne Binda.
«Penso di quel diamante. Ma io gliel’ho ripetuto che non ne sapevo nulla,
l’ho sentito dire da loro. Mi ha schiaffeggiato e preso a calci, e lasciato là.
Ha girato per casa, con calma. Ha preso libri, è passato di stanza in stanza.
"Forse ho capito" gli ho sentito borbottare, e a quel punto mi ha mandato a
sbattere con la testa contro quello spigolo. E stato poche ore fa.»
«Kurban, ma non c’era modo di farlo ragionare, di fermarlo?»
«No, è un pazzo pericoloso e molto cattivo.»
«Dovrai ripetere queste cose in caserma, quando il medico ti lascerà
andare. Ti serve qualcosa?»
«No, no. Va bene così. Solo una cosa, maresciallo.» «Dimmi.»
«Siamo sicuri che non viene nessuno a uccidermi?» «Se Florio avesse
voluto, saresti già morto.»
Sui Bastioni di Porta Venezia erano fermi i bus dei turisti. I motori
arrostivano l’asfalto. A fare da autista a Binda c’era il carabiniere sardo, che
non fiatava mai. Il portone del palazzo di corso Venezia era assediato dai
giornalisti: s’era diffusa la notizia della morte tragica del famoso impresario
in rovina e quell’omicidio era stato messo in relazione con gli altri due,
della soubrette Lavinia Marbella e del comico Ettore Ferri. Binda senza
rispondere a nessuno entrò e salì al primo piano, dov’era arrivato anche il
capitano, rapidamente informato da Dante Giambelli, che continuava a
frugare nell’archivio dell’impresario.
Dopo qualche scambio di frasi, Binda ricominciò a muoversi per la casa in
lungo e in largo. Troppo grande per una persona sola. Molte stanze davano
l’idea di essere chiuse da mesi, non aerate. Sollevò alcune lenzuola
impolverate che coprivano i mobili e trovò sul divano con il bracciolo a
forma di becco d’uccello una pistola Bernardelli con la matricola abrasa.
Poteva anche essere l’arma del delitto, o forse un’arma che Sangalli s’era
procurato, temendo per la sua vita. Senza toccarla, Binda avvisò Casulli ed
entrò nello studio, dove il tavolino della scuola Oeben era spaccato a metà.
Il prezioso intarsio irrimediabilmente perduto. Là Florio aveva picchiato
Sangalli, o Kurban.
Osservò con calma la libreria, molto fornita. Centinaia di gialli di ogni
parte del mondo, tutte le prime edizioni di Giorgio Scerbanenco. E molte
foto del Duomo di Milano. Un volume aveva un segnalibro: Binda lo prese,
lo aprì, lesse una frase sottolineata: "La sua vastità impressiona, ci si perde
nei suoi 12mila metri quadrati di superficie, tra le sue 3400 statue. È stato
calcolato che mettendo una sull’altra tutte le strutture, si supererebbe il
Monte Bianco".
Sempre più incuriosito per la piega che stava prendendo quell’inchiesta,
spalancò la porta di uno dei salotti: il Duomo di Milano era riprodotto
dall’alto, in ogni sua componente architettonica. Una visione incredibile,
che lasciava esterrefatti. Guglie e prospettive disegnate con mano precisa,
forse da uno scenografo, o da un architetto.
Un numero era scritto con il pennarello rosso e seguito da tre punti
esclamativi: "12mila!!!". Era la superficie della cattedrale, che venne
cominciata nel 1386 e finita nel 1814, come si leggeva sopra lo stipite della
porta. Numeri e simboli comparivano dovunque, nella stanza, sopra le varie
mappe.
"Il popolo di pietra." Questa scritta a mano doveva averla fatta Sangalli,
così aveva chiamato le statue. Molti personaggi di questo popolo erano
contrassegnati da croci, cerchi, asterischi, parentesi. Non tutte le statue,
però, avevano un simbolo grafico. Su alcune c’erano segnacci a pennarello,
come se avesse voluto cancellare la rabbiosa delusione. Forse aveva smesso
anche di cercare, forse non aveva mai trovato quello che cercava.
Binda si stava facendo un’idea più precisa. Aveva solo bisogno di calma e
di rimettere a posto alcune tessere, ma non c’era più il tempo per farlo senza
correre rischi.
Chiamò Giambelli c il capitano, che restarono a bocca aperta davanti alle
riproduzioni del Duomo. Bisognava fare presto, sbrigarsi, ripeté Binda,
mentre ragionava veloce ed esponeva le sue deduzioni: «Mettiamo insieme
quello che abbiamo, Dante. C’è un criminale che esce dal carcere e viene a
Milano. Dopo il suo arrivo, registriamo i primi due morti, il risultato della
vendetta. Adesso il terzo morto, questo Sangalli, ammazzato per qualcosa
che possiamo intuire, ma che ci sfugge. E altre cose, tante altre ci sfuggono
ancora, ma abbiamo una certezza: vengono dal passato, dal 1959, dalla
rapina di via Montenapoleone, con il diamante scomparso... Dal 1959, come
i due morti ammazzati e bruciati nell’Appia, il tecnico dell’Enel e quel
marmista che, guarda caso, lavorava in Duomo. Tu cosa faresti, Giambelli,
quello che farei io?».
Il giovane vicebrigadiere annuì. «Ci andiamo noi?»
Binda scosse la testa e, piuttosto ansioso, telefonò in caserma. Trovò
Aloisi, detto Kalì, e gli ordinò di presidiare il Duomo, con qualche
carabiniere in borghese, portandosi dietro la fotografia di Florio. Al
capitano, piuttosto perplesso, aggiunse: «Non so esattamente che nesso ci
possa essere tra il Duomo e questa gentaglia, ma un nesso c’è, e bisogna
tentarle tutte per non farsi scappare dalle grinfie questo assassino».
«Con questo due a zero di oggi andiamo alla finalissima per vincerla» li
accolse il padrone di casa, il papà di Achille Minutri, stappando una
bottiglia di champagne. Guidava i suoi invitati tra le inconsuete sfumature
pastello degli intonaci e i microscopici fari punati a illuminare un paio di
quadri. Nessuno dei carabinieri era mai entrato in una casa come quella, che
testimoniava una grande ricchezza, un solido potere, un’educazione
autentica. La cena, che in realtà appresero chiamarsi pranzo – la cena è
dopo gli spettacoli, e a mezzogiorno si fa colazione, ciumbia, ei savevi no -
era all’altezza della casa.
Non avevano potuto sottrarsi all’invito: un paio di alti ufficiali avevano
personalmente chiamato Binda per sollecitarlo a trovare una data possibile
per festeggiare «i quattro ragazzi innocenti che devono dire grazie
all’Arma» e così si erano presentati, portando un mazzo di rose bianche per
la padrona di casa e il loro robusto appetito. Antipasti italiani, riso alla
marinara, aragoste ovviamente alla catalana, formaggi di sei qualità diverse,
gelato e frutta. Una mangiata colossale. I vini serviti da un paio di camerieri
erano bianchi friulani, profumati, e rossi toscani, intensi e antichi, tra cui un
Intistieti, di cui Binda prima di quella sera non aveva mai sentito parlare ma
che si accaparrò dopo il primo sorso. La tavola era apparecchiata con una
larga tovaglia con ricami al tombolo, calici di cristallo, posate d'argento,
piatti decorati. Nella splendida casa dei ricchissimi Minutri le vettovaglie
erano arrivate sul furgoncino bianco di un famoso negozio di gastronomia
alle spalle di piazza Cordusio, senza perdere odori e sapori nonostante il
traffico, i caroselli delle auto, le bandiere italiane che sventolavano già dalle
sei, a partita ancora in corso, per festeggiare il sonante successo - sonante,
dicevano in tv, chissà perché - sulla Polonia.
Grazie al calcio e alla padrona di casa, che rovesciò, forse apposta, un
bicchiere d'acqua, vennero superati i primi momenti di imbarazzo. Bevuto
lo champagne come aperitivo e sistemati sulle sedie, con Binda a
capotavola da una parte e il dottor Giangi Minutri dall'altra, i commensali
accantonarono gli elogi a Paolo Rossi e a Bearzot e s'impegnarono in una
conversazione amichevole e rilassata. L'agente Logiudice, che era poco più
grande di Achille, venne invitato a raccontare il suo impatto con Milano.
Michi, un ragazzo dagli occhi davvero malinconici, annunciò di voler
cambiare lavoro: non avrebbe fatto l'elettricista, ma sarebbe diventato
"aspirante aiuto meccanico" in un'officina specializzata in motociclette
giapponesi, la sua passione. Adriano, che per il momento aveva accettato un
posto da centralinista in un'azienda dove il padre di Achille aveva degli
interessi, appariva il più tranquillo, e Ugo teneva banco, con una raffica di
facezie sulla sua vita da pony express e sociologo. Achille era come
bloccato dalla presenza dei genitori e si limitava a sorridere.
Dei carabinieri, solo Pantalò dava davvero corda ai quattro amici. E si finì
per parlare di San Vittore. Il loro ospite, dopo un discorso di circostanza
piuttosto falso sul ritrovato rapporto con suo figlio grazie anche a quella
pessima avventura, si era messo facilmente al centro dell’attenzione.
Sosteneva che gli imprenditori milanesi erano i più bravi dei mondo, ma
non avevano mai avuto amministratori pubblici che sapessero correre
quanto loro: «Ma può un privato gestire un carcere? Dopo quello che mi ha
detto mio figlio, credo che sia pazzesco per chiunque, anche per un
colpevole, finire in un luogo di "dimenticanza". Vorrei fare qualcosa, posso
diversificare gli investimenti.».
Kalì, che di persone "in casanza", "al numer du", in "villeggiatura", ne
aveva accompagnate e riaccompagnate una caterva, spostò il baricentro del
discorso: «Stare in carcere non è facile nemmeno per un direttore. L’unica
realtà di cui tutti, anche i politici, dovrebbero ricordarsi, è che quelli che
stanno in galera sono persone come noi, con figli, mogli e guai. E che a
tutti, in teoria, può capitare di essere arrestati, anche ai ricchi, anche agli
amministratori pubblici. Per la verità in Italia non è mai successo, ma non è
detto che non succeda».
Il papà di Achille era molto scettico in proposito, ma aveva convenuto con
il sottufficiale: «Se in Parlamento pensassero almeno a questo, adesso c’è
anche la crisi di governo con Spadolini... Che Italia, con i socialisti che
ormai sono riusciti ad avere persino un presidente della Repubblica, come
Pertini... ma al Craxi non gli basta mai».
«Comunque» riprese Kalì «lascerei questi discorsi e farei il solo brindisi
possibile. Alla libertà di questi ragazzi.»
Era curioso veder brindare carabinieri ed ex detenuti, anziani e giovani,
alla libertà, ma andò così, e i discorsi divennero sempre meno formali.
Binda dovette raccontare qualche vecchio caso che li fece ridere, e una
storia che non se ne andava dalla sua testa, quella di un bimbo ucciso dalla
madre che l’aveva buttato nel Lambro. La serata scorreva comunque
tranquilla, e mentre il cameriere portava le bottiglie di liquore i tre gruppi si
separarono come se ci fosse un tacito accordo. Achille e i suoi amici si
piazzarono davanti al televisore, per una delle partite del Mundial. I genitori
si accomiatarono per «qualche telefonata improrogabile». E Binda, Kalì,
Giambelli, Pantalò e l'agente Logiudice si ritrovarono sulle scale e,
seguendo il consiglio di Pantalò, andarono ai Giardini Pubblici di via
Palestro. I cancelli erano chiusi, ma era facile scavalcare: appena dietro la
pompa di benzina mancavano due sbarre di ferro.
«Va be' che siamo carabinieri, ma entrare così» protestò Binda, in realtà
piuttosto divertito. I suoi accesero qualche sigaretta. Volevano approfittare
di quella serata per finire di analizzare insieme il caso Florio, come
l'avevano chiamato in caserma.
«Allora, l'ipotesi è che quelli della banda dei Cavallini abbiano nascosto la
refurtiva della grande rapina di via Montenapoleone da qualche parte nel
Duomo» iniziò il più alto in grado. «Non so come, ma dev'essere andata
così. Florio è qui e vuole cattarsela su, ed ecco perché è tornato, ma noi
adesso siamo preparati e sorvegliamo la cattedrale.»
«Magari l'ha già presa» disse Kalì.
«No, e dopo vi dico il perché. Sapete che un vecchio non dorme come i
giovani. A proposito di dormiglioni... Giambelli» gli puntò il dito contro
«non sei tu che hai la maturità classica?»
«Sì.»
«Allora facci un bel riassunto di quanto abbiamo scoperto, così vediamo se
ci sono punti deboli.»
Giambelli, che aveva bevuto più del solito e mangiato poco, si schiarì la
voce, ma le idee fluivano ordinate. Cominciò come se avesse preparato una
conferenza: «Siamo nel 1959 e viene organizzata la grande rapina in via
Montenapoleone. È il classico colpo perfetto, sparisce l'Occhio di
Poseidone, o Occhio del Mare. Insieme al prezioso diamante, passano dalle
mani del gioielliere a quelle dei misteriosi banditi decine di pietre preziose
e alcuni chili di oro lavorato. Il gioielliere, che abbiamo sentito e risentito,
ha avuto un po’ di soldi dall’assicurazione, ma ci ha messo anni prima di
tornare finanziariamente in piedi. Nonostante i suoi sforzi e le indagini di
alcuni investigatori privati, del suo tesoro nessuno ha saputo nulla.
Soprattutto del diamante. L’ultimo proprietario, un possidente inglese, ha
offerto l’equivalente di duecento milioni a chi glielo riporterà.»
«Una discreta sommetta.»
«Che nessuno si è mai presentato a riscuotere. E qui sta un punto centrale
del discorso.»
La guardia scelta Logiudice annuiva senza perdere una sillaba. Avrebbe
voluto diventare come loro, un investigatore. Stare sulle volanti,
scaraventarsi nel traffico e superare in velocità la fretta di Milano, trovarsi
in situazioni d’emergenza giorno dopo giorno, notte dopo notte, non
corrispondeva al suo carattere riflessivo. Ascoltò con attenzione quanto
diceva Giambelli, il carabiniere brianzol-tunisino.
«La tecnica del gruppo, come sappiamo, è conservare il bottino e spartirlo
solo quando le acque si calmano. Con un simile diamante sparito è difficile,
impossibile che le acque si calmino presto. C’erano stati posti di blocco
ovunque, perquisizioni a tappeto, anche le abitazioni di Bugatti e altri della
banda erano state rivoltate come calzini, senza trovare nulla. Qualche
giorno dopo via Montenapo, Florio decide di spostarsi un po’ più lontano
dal centro e studia un colpetto in coppia, come pare fosse un’altra abitudine
della superbanda, visto che anche il capo non disdegnava le rapine
accompagnato da un complice di cui non sappiamo nulla. Ne sa qualcosa
solo il nostro Binda, vero?»
«Lassa sta, Dante, vai avanti, che adesso ti fai le domande e ti dai anche le
risposte.»
«Maresciallo, prego, non interrompa» ridacchiò Giambelli. «Dunque
anche Florio il colpo non lo mette a segno con i soliti amici, ma con la sua
donna. Come se si fosse isolato e fosse rimasto senza il becco di un
quattrino... questa è una risposta logica. O come se gli altri avessero mollato
Milano a rotta di collo. O come se ognuno avesse un suo compito.»
«Anche questo mi sembra giusto» disse Kalì.
«Infatti, magari Florio aveva tempo libero perché il capo gli aveva dato la
metà delle indicazioni per il recupero del bottino.»
«Mentre qualcun altro» intervenne Pantalò «assolveva al compito più
crudele previsto dalla strategia d’attacco alla gioielleria.»
«Ragazzi, scusate, voglio sentire Giambelli» intervenne il maresciallo.
Chissà perché, si chiese il giovane investigatore, ma proseguì: «Grazie,
Pantalò, quello che dici è vero. In quegli stessi giorni vengono trovati
ammazzati in un’Appia un caporeparto dell’Enel, che gestiva le centraline
di piazza San Babila, e quindi di via Montenapoleone, e un marmista con un
passato da "leggera" che lavorava sul Duomo. Di questi due le famiglie non
sanno nulla, se non la sorella del marmista. È un’indicazione minima, ma
utile. Racconta di come le avesse detto: "Sto per diventare ricchissimo,
vedrai, Nina... mi compro i denti nuovi". Come può un marmista diventare
ricchissimo?».
«Nel ‘59 c’era già il Toto nero?»
«Uhm. La risposta è un’altra. Se il nostro discorso fila, si può ipotizzare
che i due amici, conoscendosi, abbiano parlato della possibilità di una
rapina, ma non potendo realizzarla in proprio si siano rivolti agli specialisti.
E gli specialisti hanno detto sì. Uno specialista, peraltro, dice sempre sì. Poi
fa come gli pare.»
«E in questo caso...» incalzò Binda.
«La banda dei Cavallini accetta la proposta, sfrutta ogni indicazione, mette
a segno il colpo. Ma poi, per i due, non va come avevano sperato. Per non
lasciare testimoni, o per non spartire in troppi, Bugatti dà l’ordine di
eliminare marmista e caporeparto. Ma... attenzione alle date... li elimina tre
giorni dopo il colpo. Non subito. A che cosa servivano?»
Logiudice stava per intervenire, ma Binda gli fece cenno di stare zitto.
«La risposta è semplice, le varie tracce trovate a casa Sangalli parlano
chiaro» disse Giambelli. «Grazie al marmista, complice riverito che verrà
degradato a vittima, la refurtiva era stata nascosta nel posto che è davanti
agli occhi di tutti, ma nello stesso tempo è il più sicuro di tutti.»
A questo punto, Logiudice sussurrò: «Il Duomo».
«Esatto, il Duomo. Ma il Duomo è vasto, è frequentato, ha mille
nascondigli. Stiamo vedendo noi in questi giorni, che casino, per
sorvegliare tutto quanto, dentro e fuori.»
«Inoltre» intervenne ancora Logiudice «se il marmista e il caporeparto
avevano davvero pensato a mettere a segno la rapina da soli, e quindi hanno
avuto tanto tempo per meditare, possono anche aver escogitato un imbosco
perfetto.»
«Sono d’accordo. Infatti, senza le due mezze verità, chi può riuscire a
sapere dov’è stata messa la refurtiva? Lo sa Asio, il rapinatore colto e senza
scrupoli, che però muore senza più tornare nella Milano delle sue
scorribande. Lo sa il marmista che però, come abbiamo detto, passa
malvolentieri a miglior vita insieme al suo amico dell’Enel. E lo sanno, se
ha funzionato il solito schema delle mezze verità, due uomini della banda.
Solo due, come è la prassi. Ma chi sono? Noi non c’eravamo, ma visto
quello che è accaduto dopo, uno è senz’altro Florio, e ci metto la mano sul
fuoco. E l’altro, per me, è in qualche modo Sangalli.» Tacitò i brontolii. «O
comunque uno legato a Sangalli. Adesso vi chiarisco come ci arrivo.
Mettiamo in fila date e persone.»
Giambelli ottenne il silenzio e ragionò ad alta voce: «Florio non è uno che,
come abbiamo visto, sta a riflettere più di tanto, Si muove come un animale
da preda, ha fiuto, ha zanne e artigli, la sua forza è saper vivere alla
giornata. All’inizio non può fare nulla per arraffare il maltolto, ha la sua
mezza verità, che sia una botola, sia una statua, sia una panca, qualsiasi
cosa sia, sa cos’è, ma non sa dov’è. Non ci perde il sonno. Solo per la sua
Cipriana soffre: il resto del mondo è per lui come un panino da
sgranocchiare. Comincia a fare l’emigrante della rapina, se ne va in tournée
all’estero, nelle banche svizzere. Rimedia altri complici, è sempre più
cattivo e spregiudicato, ogni tanto ci pensa, al diamante, ai gioielli, all’oro,
ma a parte incazzarsi, che cosa può fare? Niente e, per contrappasso, ne
combina tante e tante: rapine, contrabbando, armi, droga, ma alla fine torna
in galera. Una condanna che sarà di dodici anni e passa. Svizzera, Novara,
ma alla fine esce. E quando esce, eccolo bel bello che viene qua».
«A Milano» puntualizzò Lo Giudice.
«La sua prima tappa è filare dritto sparato da Sangalli. Lo mena,
probabilmente si fa dire cose che noi non conosciamo. O forse vede la
mappa del Duomo nella camera. Comunque, è evidente che ha inquadrato
Sangalli come l’uomo che possiede l’altra mezza verità. Insieme, possono
diventare miliardari.»
«Non lo sapeva nel ‘59, perché se no non sarebbe stato tanto all’estero ad
assaltare banche» aggiunse ancora Logiudice.
«Esatto. Secondo logica, nel ‘59 Florio ignorava chi fosse il complice a
conoscenza del mezzo segreto sul nascondiglio del bottino, ma adesso che
qualcuno gliel’ha detto, si fa avanti con tutta la violenza di cui è capace.»
«Che non è poca.»
«Non è poca no... La prova di quanto dico sta anche nell’analisi dei
movimenti di Sangalli.»
«Movimenti? Ma se sta sempre immobile come una statua» intervenne
Logiudice.
Giambelli annuì: «Immaginiamo il Sangalli negli anni sessanta, quando è
al top e se la spassa. Ricco, disinibito, potente. Un ventennio da leone.
Produce, incassa, spende e spande, finché non arrivano gli anni settanta.
L’impero traballa, ma è probabilmente in quel periodo che Sangalli
apprende la storia della famosa rapina di via Montenapo e della refurtiva,
del diamante che ogni collezionista vorrebbe avere. C’è una sua foto alla
Fondazione Cariplo, alla presentazione di un libro in due volumi sul
Duomo. Era il 1973, quindi allora lui sa solo che la possibilità di una nuova
vita è nel Duomo e che un altro uomo, chissà chi, forse uno che addirittura è
morto, ha o aveva l’altra mezza parte di mappa. Per uno come lui, che
psicologicamente si dimostra un essere umano di genere opposto a Florio,
dev’essere stato drammatico andare sempre più in malora e sognare che
avrebbe potuto ribaltare la situazione. Come avvicinarsi al tesoro? Non ne
ha la più pallida idea, non è facile. Questo logorio lo leggo nella mappa
gigantesca che ha disegnato a mano sulle pareti. S’era impegnato proprio a
fondo. Ci ha messo la testa, nella sua determinazione. Ma i risultati sono
stati nulli».
Alcune bandiere tricolori comparvero in via Palestro: spuntavano dai
tettucci apribili e dai finestrini di un corteo di auto, e in lontananza
risuonava la tromba bitonale di un tir.
Dante Giambelli attese che la confusione dei tifosi dell’Italia diminuisse e
riprese: «Finché non si sono incontrati, sia Florio sia Sangalli erano a un
punto morto. Chi lo propizia? Io penso sempre che possa essere stato uno di
quelli che il maresciallo è andato a sentire all’inizio, il mimo Paolo Perego,
ma lui ha negato su tutta la linea, quindi, lasciamolo in sospeso. Comunque
sia, questo incontro si tiene e sarà fatale all’impresario. Il Sangalli... questa
l’unica ricostruzione possibile in base a quanto sappiamo... quando si
accorge che Florio sa usare le mani ed è armato, si terrorizza nemmeno
avesse visto Belfagor. È uno che ha truffato la Siae, ha evaso il fisco, ha
avuto amici tra i balordoni, ma non è un criminale incallito. Perciò per
proteggersi chiama Kurban, ma anche Kurban per quanto sia grande e
grosso, è inutile di fronte a un assassino come Florio. Un animale da preda,
un Florio che è tornato il Guerriero di vent’anni prima e ha in mente due
cose. Una è la caccia a quelli che crede gli infami. L’altra è la caccia alla
refurtiva».
«Ma può essere che covi la vendetta per oltre vent’anni?» chiese
Logiudice, rapito da quella ricostruzione così razionale. Man mano che
Giambelli dipanava la matassa, gli indizi che aveva appreso trovavano la
collocazione giusta. Ma la mentalità criminale, lui non sapeva cosa fosse.
«Possibile che Florio preferisca ammazzare qualcuno prima di prendere il
diamante?»
«Scherzi? Non è il conte di Montecristo. Un morto in più o in meno, che
cosa gli cambia? E così lui arriva e fa un po’ come vuole, lupo tra le pecore.
Picchia Sangalli, uccide Lavinia Marbella perché tenta di fuggire, uccide
Ettore Ferri perché l’ha venduto ai questurini. Sin qui, è tutto chiaro? Bene.
Poi che fa? Torna da Sangalli e lo fredda. Ecco, qui dobbiamo fare
attenzione. Gli spara per qualche ragione che non sappiamo, forse perché
gli ha detto la sua mezza verità e ormai non gli serve più. O perché teme di
essere fregato. Non lo sappiamo con certezza, e il nostro testimone, Kurban,
purtroppo...»
Si percepì, anche nel buio, l’imbarazzo di Pantalò, colpevole della fuga,
che gettò via quella che aveva definito "una sigaretta indiana", ma poteva
anche essere qualcosa d’altro. «E allora?» borbottò.
«Purtroppo nessuno è riuscito a rintracciarlo. E queste sono tutte le carte
che abbiamo in mano.»
«Bravo, una ricostruzione perfetta» si congratulò Binda. «Non avrei saputo
fare di meglio neppure io, ma...» «Ma...?» chiese Giambelli.
«Dante, da quando abbiamo cominciato a conoscere la struttura della
banda dei Cavallini mi gira nella testa una domanda: "Perché mai Asio, un
rapinatore capace di usare il cervello e così spietato da ammazzare anche i
basisti, affida la metà di un segreto così importante, il nascondiglio del
colpo più straordinario della loro carriera, a un minus habens come Elmo
Florio?".»
Gli altri ammutolirono.
«Non riesco a capirlo» continuò il maresciallo. «Perché corre il rischio di
far andare tutto in vacca? Lo chiamavano Guerriero, ma anche Cece, perché
non sapeva star zitto, e Asio, che ha a disposizione gente più fidata, tipo
Pippo Palestra, o la Volpe e la Volpe, si rivolge a lui?»
L’obiezione era giusta, il capo era sempre il capo. Cercarono risposte poco
convincenti, comunque Binda era molto soddisfatto di quel dopocena di
lavoro. «Giambelli, sei un perfetto analista, dovresti lavorare al ministero...
Hai grandi qualità, e vorrei vederti crescere» gli disse, pensando che
sarebbe stato davvero il caso di mandarlo a Roma, al fianco del generale
Casiraghi.
«Grazie, capo, ma poi loro diventano invidiosi.»
Gli altri colleghi, in realtà, al ministero non avrebbero mai voluto mettere
piede. Kalì perché era bresciano e a Roma era andato solo in viaggio di
nozze per vedere il papa. Demetrio Pantalò perché, anche se non poteva
dirlo nemmeno ai suoi colleghi, era davvero un carabiniere comunista.
Quindi ridacchiarono, fecero qualche battutina, finché Binda non parlò di
nuovo: «Adesso, Giambelli, rispondi all’ultima domanda: noi come
possiamo agire?».
«Secondo me sorvegliando il Duomo, come stiamo facendo, ma è
dispendioso in quanto a uomini e mezzi ed è sempre a rischio. Sarebbe più
bello giocare d’anticipo, avviare indagini sul possibile imbosco e aspettarlo
lì, quando Florio andrà a prendersi il bottino.»
«Magari il diamante ce l’ha già in tasca» ripeté Kalì.
«Se l’avesse preso, non starebbe più a rischiare il collo a Milano. E invece
c’è» rispose Binda, con un sorriso furbo. «Come vi avevo detto, ho una
notizia. Mi ha telefonato il più giovane dei due fratelli ricettatori... com’è
che si chiamano?»
«I Formenti. Arturo?»
«Sì, lui. Ha saputo da un non meglio precisato amico che è stato Florio a
rapinare qualche giorno fa le sei farmacie tra Loreto e Porta Venezia. In una
ha trovato mezzo chilo di morfina, che ha rivenduto per quattro milioni. Ho
mandato il sardo in giro dai farmacisti con la sua foto: l’hanno riconosciuto.
Quindi, Giambelli, visto che ti ho promosso sul campo ad analizzatore
ufficiale, studia un po’ che cosa possiamo fare. Se Florio ha razziato le
farmacie come se fosse un tossico, vuoi dire che era a corto di soldi ed è
rimasto qui. Andate un po’ in giro. Io intanto vorrei dare un’occhiata alla
Valcavallina, non si sa mai. Rischio di finire davanti alla corte marziale, se
non consegno il rapporto per il generale Casiraghi, ma voglio attraversare i
paesini da dove vengono questi che pure da morti ci hanno fatto dannare. Ci
vado domenica, prima della finale. Voglio vedere anch’io se battiamo i
tedeschi come a Città del Messico... ormai ci credo al titolo mondiale e ai
gol di Paolo Rossi. Voi no?»
Agli inizi di agosto, senza aver ancora scoperto niente di utile, non proprio
al colmo dell’entusiasmo, Binda usufruì della programmata settimana di
ferie, lasciando una serie di disposizioni ai suoi uomini di guardia sia dentro
la chiesa, sia tra le guglie. Come aveva promesso a Rachele, la portava a
Riccione, in una pensione della zona Alba, verso Rimini, che gli aveva
consigliato un collega di Bagnocavallo. Aveva caricato la 125 e s’era
intristito sentendo i notiziari radio. In Francia si erano scontrati due
pullman: quarantaquattro bimbi erano morti in Borgogna. Ci sarebbe stata
la commemorazione per i due anni dalla strage della stazione di Bologna.
Aveva letto tutto il possibile sui due frati ammazzati a Vicenza da un
gruppo neonazista che si era firmato "Ludwig". Da quando si era occupato
dei Maimorti non era più un dilettante sul tema delle formazioni naziste e
fasciste che avevano operato in Italia negli anni quaranta, ma di "Ludwig"
non aveva mai letto un rigo. Chissà chi erano, quegli assassini.
Sua moglie non scendeva da casa, era in ritardo di un quarto d’ora e le
notizie tragiche lo influenzavano. «Starà male come sul lago di Endine?» si
chiese preoccupato.
Si precipitò nel palazzo, ma la vide subito. Era davanti alla portineria e
stava confabulando con Alba, la nuova e simpatica custode: «Grazie, se so
che ci pensa lei, sto più... Oh, Peder, te see chi? Dài, ‘ndemm».
«Non sapevo che foste così amiche...»
«Be’, tu sei sempre fuori, che ne sai? L’Alba è una signora simpatica,
chissà cosa aveva in testa il marito quando l’ha lasciata con un figlio...»
«Scusa, Rachele, ma ti ho sentito dire che sei tranquilla "se ci pensa lei". A
cosa dovrebbe pensare lei?»
«Ma a niente... Siccome quando torniamo io vado in montagna e tu starai
da solo a Milano, magari ti cucina qualche piatto.»
«Per carità...» tentò di protestare lui, e non aprì più bocca sino a Bologna,
quando fece il pieno. Si scocciava moltissimo quando la moglie lo trattava
come uno che non sapeva cavarsela. E, per dirla tutta, quella vacanza a
Riccione lo infastidiva. Solo una settimana, si erano ripromessi. Ma che
posto è, la Riviera romagnola? Appiccicati gli uni agli altri, un sacco di
tedeschi, un mare grasso d’olio abbronzante, confusione... Le aveva detto sì
perché non poteva dirle di no, voleva accontentarla e farla sentire meglio,
però che noia!
Arrivarono alla pensione, sistemarono i bagagli e a pranzo Binda ebbe la
prima sorpresa: si mangiava veramente bene, c’era una zuppetta di mare
saporita e poco unta, e a seguire fritto di paranza e un gelato. I commensali,
da un tavolo all’altro, salutavano i nuovi arrivati.
«E tua figlia? Ma com’è cresciuta!»
«Mario è rimasto a Brescia...»
Molti erano lombardi, sembrava quasi di essere a casa sulle Grigne, tanto
era frequente l’uso del dialetto. Una coppia, a fine pasto, li invitò al loro
tavolo a bere il caffè. «L’albergo non ha la piscina, ma la cucina della
signora Tosi è eccezionale, leggera, sana... ci venivano i miei genitori»
raccontava l’uomo, un bancario di Andalo.
A metà pomeriggio, andarono in spiaggia. Il bagnino sembrava un
manager. «Due sdraio, ve le do in terza posizione, né troppo avanti, che c’è
passaggio, né dietro, se no che cosa siete venuti a fare qui se non vedete il
mare. No, non paghi adesso. State dai Tosi, no... Le sdraio le pagate alla
fine della vacanza, le consumazioni come volete, anche giorno per giorno.»
Rachele sembrava soddisfatta e si stese al sole, mentre il marito cominciò
a guardarsi intorno. Mamme e bambini. Bagnini dall’aria furbastra.
Venditori ambulanti che passavano vendendo gelati. «Bomba, chi non
bomba non tromba» gridava un uomo corpulento e occhialuto, annunciando
«Vado a Rimini». Poco dopo, lo si risentiva: «Adesso sono Ambrogio tutto
mogio, da ragazzo ero più duro e mi chiamavano Arturo... Bomba».
A sentire Arturo non gli venne da ridere. Pensò agli informatori, ai
Formenti, all’Arturo che aveva spifferato della presenza di Florio a Milano.
Nel cervello si fece largo tra i pensieri l’eterna domanda: perché mai il
raffinato e spregiudicato Asio Bugatti aveva affidato la verità a Florio?
Com’era possibile? Loris, che aveva conosciuto il capo dei Cavallini, lo
descriveva come uno che leggeva e sapeva. Florio era invece uno che
sparava e spandeva. Inconciliabili, quei due. Era più comprensibile aver
lasciato mezza verità a Sangalli.
«Pietro, Pietro, possibile che non ti rilassi mai. A che pensi, sempre al
generale Casiraghi? Muchela con il lavoro, siamo in ferie.»
«Non stavo affatto pensando all’ufficio» mentì. «Dopo tanto correre, devo
abituarmi all’immobilità della sdraio.»
La spiaggia si svuotò alle sette, mentre il sole era ancora caldo. «Si va a
cena, alle otto le gambe sono già sotto il tavolo» spiegò il bancario di
Andalo, mano nella mano con la moglie, invitandoli a sbrigarsi. I ritmi
erano da caserma, con gli albergatori proclamati capi assoluti delle armate
seminude dei vacanzieri. I clienti venivano sbattuti fuori dalle camere al
mattino, tenuti nei cortili quando il sole se ne andava, costretti a mollare le
spiagge in concomitanza con i pasti, e tutto questo non con la rudezza
militare, bensì con una ferma gentilezza che rendeva unico quel litorale
sabbioso. «È il posto giusto per non pensare» si disse Binda, il quale,
invece, continuava a far girare le rotelle.
Quella sera, facendo un po’ di attenzione perché le pareti delle camere
erano sottili, Pietro e Rachele fecero l’amore dopo quasi due mesi di
astinenza. Era bello e dolce guardarsi negli occhi, mentre lui le sfilava la
camicia da notte e lei si passava le mani tra i capelli spettinati, mentre si
toccavano e si muovevano insieme, allo stesso ritmo. Erano anziani, ma non
decrepiti. Non c’era più la passione dei primi incontri, ma anche la profonda
calma di chi si conosce da una vita e ha visto, da quell’unione, nascere
anche un altro essere umano, era un buon afrodisiaco.
«Ti amo» gli disse Rachele, mordendogli le labbra.
Lui lasciò fare e restituì i morsi, ma non gli veniva facile pronunciare la
stessa frase. Pensava che fosse sottintesa, pensava anche che a lei avrebbe
fatto piacere sentirsela dire, pensava un po’ troppo, el Peder, anche in quei
momenti.
Nei giorni successivi, lo sfaccendato Binda in bermuda e ciabatte da mare
comprese un altro degli aspetti benemeriti di Riccione: la lunga spiaggia
favoriva le passeggiate delle donne. Certo, anche degli uomini, ma erano
soprattutto le clienti dell’albergo - tra le quali Rachele, che cicciarava alla
grande con le nuove conoscenze -a darsi appuntamento per marciare spedite
e in gruppo sino al molo e ritorno.
In quelle ore, dal bar sulla spiaggia, aveva qualche volta chiamato i
colleghi. Giambelli gli era parso piuttosto su di giri e, alla fine, quando era
rimasto solo in ufficio, aveva confessato: «Mi vedo con Elena Morandi, la
vedova di Ferri».
Dopo qualche secondo d’esitazione, Binda gli chiese: «Divertimento o
amore?».
«Maresciallo, ancora non lo so. Sto bene con lei e quando non la sento mi
manca. Tra un po’ va in vacanza con il bambino: è simpatico, e spero di
raggiungerli.»
Novità, a parte questa storia sentimentale del Negher Giambelli, non ce
n’erano. Spaparanzato sulla sdraio con i giornali, senza Rachele che lo
bombardava di domande, aveva potuto finalmente leggersi alcuni
lunghissimi articoli, come quello di Pierluigi Franz intitolato "Il nudo e la
legge, trent’anni di storie e storielle italiane". Gli piacevano gli articoli di
diritto.
Anche quello era scritto bene e rappresentava un viatico per quanto
osservava con i propri occhi: dalla ragazza bruna che indossava un costume
rosso così stretto da sembrare a sedere nudo al giovane atletico che, non si
sapeva come, riusciva a far stare tutto quello che doveva restare coperto
sotto un minuscolo lembo di stoffa lucida.
"Il mezzo è il messaggio" pensò. Quella era proprio una frase famosa. Una
frase che aveva detto anche Asio Bugatti a Loris, per spiegare la tecnica
della sua rapina a bordo di una ruspa.
Nel cervello gli squillarono, improvvisi e misteriosi, segnali d’allarme: "Il
mezzo è il messaggio".
Poteva, questa frase, significare qualcosa di diverso da quello che aveva
immaginato sino a quella mattina.
Aver ironizzato sugli esibizionisti in costume da bagno lo aveva portato a
comprendere meglio una possibile, probabile analogia con la frase di Asio.
Trovava spiegazione quello che aveva notato a casa Sangalli.
Sì, forse aveva capito. Forse aveva ragione. Doveva telefonare a Giambelli
e... No, no, doveva tornare a cà sua. Tanto la settimana di vacanza era
terminata, avevano già fatto le valigie, sarebbero partiti dopo aver gustato
gli ultimi manicaretti. Rachele aveva detto d’essere contenta e rilassata... se
anche l’avesse lasciata per un po’ davanti alle Grigne, facendo lui qualche
avant e indree con Milano...
«Peder, sai che mi fermerei un’altra settimana» esclamò lei, tornando
sorridente dalla camminata. L’aria di mare le faceva bene.
«Anch’io, cara, siamo stati proprio bene, ma purtroppo mi cercano
dall’ufficio.»
Undici
La statua del santo guerriero stava eretta sotto l’arco del passaggio, con lo
scudo bucato. "Il mezzo è il messaggio" e Florio, detto il Guerriero, era la
persona giusta per nascondere la sua mezza verità sulla mappa. L’altra metà
ce l’aveva Pippo Palestra, che doveva spiegare il ruolo di Sangalli.
«L’Occhio del Mare» disse Binda, mentre il sole del pomeriggio faceva
luccicare la Madonnina come una fiaccola, «l’ho preso io. Non è male, è
giallo e blu, molto puro, sai Kurban. Quando l’ho sollevato, tra queste
statue, mi sembrava di avere in mano un piccolo sole. Il resto della
refurtiva, al confronto, pareva fatto di falsi, come gioielli di scena. Ma
adesso andiamo in caserma, dobbiamo parlare.»
«Non ho nulla da dire.»
«Lo credi tu» intimò il maresciallo.
Incoeu, al paes
«Ecco perché quando siete entrati a casa di Sangalli, lui non voleva parlare
e ha parlato Kurban. L’impresario era già ostaggio dei due, Kurban era là
non per aiutarlo, ma per sorvegliarlo. E ha inventato lì per lì una
spiegazione. Mica stupido...» dice il dipendente comunale, con il naso rosso
dalla troppa grappa bevuta.
«Sì, è stato bravo a fingere, a presentarsi come uno zingaro sinti, ma il suo
gioco, tatàn, era già finito» aggiunge Fisich, con uno sghignazzo.
«Magari anche Florio era nascosto in casa Sangalli mentre voi andavate
là» la butta lì il medico.
«Negativo» risponde Binda «perché abbiamo ricostruito tutto, ma molto in
ritardo. Vi ricordate Paolo Perego, il mimo che andava a giocare a biliardo
vicino allo Smeraldo, quello con il cane che aveva la sua poltrona. Be’, la
sua donna aveva avuto, ai bei tempi, una relazione con Florio e gli aveva
dato una branda in cantina, all’insaputa del marito.»
«Hai capito...» sghignazza Fisich. «Be’, abbiamo fatto tardi, è passata pure
l’ora dell’aperitivo e stavolta tua moglie s’incazza di brutto. Ma non dovete
partire?» chiede a Binda, che alza le spalle: «Ma no, figuriamoci. Per il bus
che ci porta a Malpensa c’è ancora tempo».
«Se devo dire una cosa» interviene il dipendente comunale che aveva
perso le elezioni al paesello «non mi è piaciuta la storia dei mille miliardi.
A Milano i magistrati e voi forze dell’ordine ce l’avete con Berlusconi.»
Il freddo intenso s’infila nelle fessure del vecchio locale.
«E chi ha parlato di Berlusconi?»
«Be’, sai, due più due cosa fa? Uno che diventa ricco dopo Calvi, uno che
forse ha ricevuto i soldi della mafia... Le solite calunnie della sinistra e di
certi magistrati.»
«Tu non mi conosci. Io non ce l’ho con il Berlusca, ma il fatto è che ti stai
sbagliando e nello stesso tempo stai centrando il problema che fa dannare la
gente come Casiraghi, o come Giambelli, che poi è andato a lavorare con
lui a Roma. In Italia quanti sono quelli diventati ricchissimi? Berlusconi, va
bene. Ma anche Gardini, per esempio. Poi un altro, che trattava granaglie. E
che dire dei politici che diventano padroni di case, azioni, isole intere?
Insomma, amici miei, in un paese come l’America uno che diventa ricco e
non sa certificare da dove ha preso i soldi, rischia di finire in carcere, come
capitò ad Al Capone. Invece, in Italia i furbi hanno un premio, finché va
bene.»
«Eh, purtroppo questo è il grande male italiano.» Il vigile urbano scuote la
testa.
«Il nostro» continua Binda «è un paese speciale che è incomprensibile ai
non italiani, è il paese dove i delitti non sono solo perfetti, ma
"perfettissimi", come li chiamava il generale, perché tutti sanno chi è il
Caro Pietro,
a volte, mentre giro per il lavoro, mi viene in mente la tua voce: "In
doe te sé? Ma dài, lassa sta, vieni qui che scriviamo il libro". Purtroppo
sei uscito prima del secondo tempo e non hai visto come andava a
finire. Allora "uso" questo libro anche come fosse un messaggio nella
bottiglia.
Ho preso il tuo manoscritto, quello che volevi facessimo prima
dell’ultimo giallo, e l’ho letto. E riletto. Pensavo a cosa avrei potuto
dirti, a cosa avremmo spostato, modificato, se avessimo ancora potuto
discutere nel salotto di casa tua, mentre Pia ci portava i biscotti. Sapevi
che non ne ero entusiasta.
Poi c’è stata Mantova. Ci sono andato in moto, ti ricordi? Ti avevo già
raccontato che in motocicletta, quando la velocità rende più stretta la
strada, chissà perché, sembra più facile riflettere... o forse sarà il vento
che fa cozzare gli scarsi neuroni... insomma, mentre stavo là e parlavo
con un po’ di gente che (adesso esagero) ci vuole bene per quello che
abbiamo scritto, la soluzione mi è arrivata, anche grazie a un
professore di lettere.
Dovevo un po’scavare nella memoria, per trovare qualcosa dei tuoi
racconti privati, quelli che hai condiviso con me mentre, invece di
scrivere, ce la prendevamo comoda. "Citarti" in qualche modo, ma
sentirmi libero di scegliere in quale estate far scarpinare il nostro
Binda, dopo l’autunno di Quattro gocce d’acqua piovana, l’inverno
della Nevicata dell’85 e La primavera dei maimorti. Libero di seguire
le mie emozioni e le mie idee. Ciò detto, mi sono messo al lavoro: la
nostra ‘pizza quattro stagioni"è completa.
Come sai, avrei voluto firmare questo libro insieme con te. Pare non
sia possibile, e per alcuni non sarebbe nemmeno etico, firmare a nome
di un morto, che non può protestare: me ne sarei fregato, se non ci
fossero di mezzo possibili beghe legali e burocratiche. Quindi, ciao, ex
socio, entrambi sappiamo che nella mia firma idealmente ci sei.
Non so che cosa sarà del resto delle nostre piccole idee, né del vecchio
maresciallo che ha divertito i lettori. Vedremo. Credo che questa sia la
sua ultima volta in pubblico. Binda però non poteva, com’è purtroppo
successo a te, non poteva chiudere l’ufficio prima del tempo.
Se non avessi scritto questo libro, mi sarei davvero arrabbiato con me
stesso: non siamo persone che lasciano le cose a metà. So bene che
saresti rimasto volentieri ancora un po’ con noi e, come ti dicevo,
quando vado in giro spesso mi accorgo di aspettare la tua chiamata:
"Piero, ma dài, ho una cosa da mettere a pagina 52, quand’è che