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La repulsione della Dea.

Recensione di Angela Giallongo,


La donna serpente. Storie di un enigma dall’antichità al
XXI secolo, edizioni Dedalo, Bari 2012

di Claudio Tugnoli

Le Gorgoni devono la loro popolarità all’aspetto di mostri orribili.


Comparvero nell’arte greca dopo il periodo geometrico, in età
arcaica, come personificazioni di esseri terrificanti, risultato di
incroci di diverse specie animali, come i corrispondenti mostri al
maschile (Centauri, Ciclopi). Giallongo cita lo Scudo di Eracle,
un’opera epica composta in periodo successivo a Esiodo,
probabilmente nel 555 a.C., dove le Gorgoni sono ritratte mentre
inseguono Perseo, in seguito alla decapitazione della sorella. «Nella
Grecia arcaica (VIII-VI secolo a.C.) il gorgoneion era una testa di
pietra che riproduceva spesso con serpenti la faccia della Gorgone;
una sorta di stratagemma ora decorativo ora apotropaico.
Originariamente, come ha ipotizzato Jane Ellen Harrison agli inizi
del secolo scorso, impersonava l’aspetto mortale del ciclo della
Grande Dea Madre, venerata in Nord Africa» (p. 19). Marija
Gimbutas avrebbe poi scoperto altri significati nei vasi
antropomorfici, nelle sculture e nelle maschere di terracotta, a
testimoniare il culto della Dea nell’Europa neolitica (7.000-3.000
a.C.).
Il mito ateniese in cui Perseo distrugge una Gorgone svolgeva
il compito educativo di incitare il cuore e la mente dei maschi a
sconfiggere i mostri della sessualità, in un’epoca in cui il controllo
della società era passato di mano ai maschi; tutti i simboli del
femminile dovevano essere messi al bando, calpestati, demonizzati
e manipolati per renderli utilizzabili sul fronte del rafforzamento
dell’ideologia androcratica. In sostanza tagliare la testa della
Gorgone significava sconfiggere la sessualità e il potere femminile,
per dare spazio a un sistema alternativo, basato sul predominio
maschile. Nei miti che segnano il passaggio dall’ideologia femminile
a quella maschile, al mostro femminile si contrappone l’eroe
maschile, in un confronto che segna sempre il trionfo dell’eroe,
come Ercole che, dopo essersi esercitato da bambino a strozzare
serpenti, aveva fatto fuori mostri orribili come l’Idra di Lerna. I
mostri femminili, le Gorgoni in particolare, personificavano l’odiata
Dea, la cui messa al bando era significata dalla sua uccisione. Le
Gorgoni, che Esiodo nella Teogonia riconduce a tre (Steno, Euriale
e Medusa), erano l’epifania della Grande Dea. In Omero la Gorgone
appare per la prima volta in testimonianze scritte sotto forma di
mostro femminile con serpenti al posto dei capelli. Raffigurata sugli
scudi di Atena e di Agamennone nell’Iliade, Medusa aveva una
funzione apotropaica: «La sua immagine, originariamente usata nel
mondo greco arcaico come maschera rituale, con lingua penzolante,
con occhi roteanti, con zanne da cinghiale curvate e appuntite,
risvegliava i tormenti della paura e toglieva il respiro» (p. 27).
Giallongo attribuisce a Esiodo un’importante funzione, quella di
aver diffuso con i suoi versi una malevola e definitiva svalutazione
della donna: Perseo taglia la testa di Medusa, Zeus manda agli
uomini Pandora, bellissima e pericolosa portatrice del vaso
contenente tutti i mali. I contadini della Beozia avrebbero poi
insegnato ai propri figli che «la donna era lo strumento
dell’infelicità umana e che anche le belle dee, che concedevano
favori e doni, non avevano niente di desiderabile né di prezioso» (p.
28). Sorgeva così l’opposizione di maschile e femminile,
accompagnata dalla sfiducia nel valore femminile. La descrizione
delle Gorgoni come mostri rivoltanti sarebbe rimbalzata da un
autore all’altro, confermando i tratti ripugnanti delle donne in
generale attraverso la rappresentazione delle figure mitologiche
riconosciute.
Le relazioni omoerotiche tra dei ed eroi sono unilateralmente
maschili: «L’immaginario collettivo dorico non offrì infatti
all’uditorio femminile racconti paralleli a quelli consacrati alle
storie di dèi che si innamorano di giovani coppieri» (p. 31). La
comunità della poetessa Saffo non ha mai goduto della stessa
considerazione di quelle maschili. La paideia si basava sulla
convinzione che una formazione elevata fosse possibile solo sui
campi di battaglia, nelle palestre e nelle scuole dei filosofi, luoghi
dove le esortazioni erotiche da maschio adulto a giovinetto
consolidavano l’idea della superiorità del sesso maschile. Il termine
“eros” nei testi dell’epoca classica era quasi sempre usato per
descrivere il rapporto omoerotico (R. Flacelière, citato a p. 32-33).
Tutta la cultura greca, nel senso più ampio del termine, si basava
sul modello androcratico, in cui l’elemento femminile era
declassato, marginalizzato e rappresentato nella forma negativa del
femminino come orribile, spaventoso, patologico. La cultura della
dea subiva così una brutale manomissione e trasformazione: i suoi
contrassegni divenivano l’immorale lascivia, la turbolenza caotica,
la pericolosa arte magica, il raggiro, la menzogna. La donna veniva
quindi coerentemente esclusa dalla politica e dall’educazione dei
cittadini. Per i greci l’offesa peggiore era essere paragonati a una
donna. La Gorgone incarnava la ripugnanza che ispirava l’elemento
femminile a una civiltà che si era sovrapposta alla civiltà della Dea
con l’intenzione di dominarla, asservirla, occultarla, mediante
esercizi di negazione e ricostruzioni manipolatorie dei miti
dell’Europa antica, utili a giustificare la sottomissione del
femminile.
Robert Graves, sulle orme di James Frazer, ha visto l’origine
della Gorgone nella dea serpente, ampiamente trattata da Marjia
Gimbutas, nella Libia delle Amazzoni. La dea serpente era simbolo
della saggezza femminile, che concatenava vita, morte e rinascita. Il
giudaismo attribuisce a una divinità maschile gli attributi della Dea:
divino è tutto ciò che è stato, che è e che sarà. Giallongo ricorda che
Frazer ha affrontato il tema della Medusa velata. L’autore del Ramo
d’oro l’ha trattata come prototipo della rappresentazione del tempo,
con particolare riferimento al futuro e alla morte: «Nessun essere
umano avrebbe potuto sollevare il velo che la copriva, perché
guardarla in faccia significava essere trasformati in pietra, cioè in
statua funeraria. L’uso di velare il volto, soprattutto nei paesi
africani da cui proveniva il mito di Medusa, era segno sia di
sovranità sacrale sia del tabù che vietava di mostrare la faccia per
impedire che le cattive influenze entrassero o uscissero, a seconda
dei casi e delle persone, nel o dal corpo» (p. 35).
Secondo Frazer la favola del giovane privo di mezzi che cerca
fortuna e alla fine conquista, con la figlia del re di un paese lontano,
anche la metà del regno, è la sopravvivenza di una reale
consuetudine greco-latina, che a sua volta aveva il suo prototipo
nell’avventura di Perseo. Nella versione data nei Mythologiarum
libri tres di Fabio Planciade Fulgenzio (VI secolo d.C.), il re Forcide
aveva lasciato alle tre figlie ogni suo avere; Medusa era diventata la
più potente e avveduta nell’arte di coltivare la terra. “Gorgo” e
“georgico” contenevano il riferimento letterale all’agricoltura.
Fulgenzio descrive Perseo come un avventuriero senza scrupoli,
pronto a uccidere Medusa per impadronirsi di tutte le sue sostanze
(pp. 37-38).
Le mestruazioni non sono mai chiamate con il loro nome,
sono immonde, innominabili. Sulle orme di Chris Knight, Giallongo
sostiene che nel processo evolutivo, una vera e propria rivoluzione
umana, che ha avuto inizio alcun decine di migliaia di anni fa, la
donna ha svolto un ruolo di primo piano guidando l’interazione del
gruppo femminile con quello maschile. A tale scopo le donne si
tinteggiavano il corpo di rosso. Le Veneri del paleolitico superiore
colorate di rosso ocra dimostrano, secondo Giallongo, che «il ruolo
direttivo svolto dalle donne nell’evoluzione umana, che si è espressa
in una lunga e complessa sequenza – in un periodo valutato dai
100.000 ai 300.000 anni – è stato localizzato nella valenza
simbolica assegnata all’informe fenomeno fisiologico del ciclo: la
tinteggiatura in rosso sul corpo e sul viso esprimeva il desiderio di
trasformare il flusso in un emblema pubblico carico di molteplici
messaggi» (p. 44). Più precisamente, «le interpretazioni
archeologiche sulle rosseggianti pitture rupestri e sulle cinquecento
statuette femminili dell’Europa paleolitica suggeriscono che le
donne erano pensate partenogenetiche e che il rosso come colore
della vita si imprimeva nel programma culturale di quelle
particolari società. Nelle tradizioni dell’Europa antica, rintracciate
dagli archeologi, in particolare dalla Gimbutas, le mestruazioni
erano apprezzate come il simbolo potente e sacro della creazione»
(p. 45). Il sangue aveva un potere magico e un ruolo nell’esercizio
del potere delle donne e nell’influenza che hanno esercitato sulla
nascita della cultura, mediante le interdizioni e la programmazione
della condotta sessuale imposte ai partner maschili. Sessualità,
fertilità, procreazione, cicli fisiologici, mestruali e lunari: tutti
ambiti gestiti dalle donne, che hanno guidato la transizione dal
mondo dei primati a quello umano, come scrive Giallongo in
accordo con la tesi di Knight. Bisogna quindi abbandonare la tesi
tradizionale per cui le donne del Paleolitico sono oggetti e strumenti
delle forze e spinte pulsionali maschili e sostituirla con l’indicazione
dell’autonomia e della capacità della donna di essere protagonista,
come dimostra l’uso dirompente e di grande effetto delle
rosseggianti pitture corporee esibite con il loro stesso sangue.
Il rosso evoca il sangue mestruale, simbolo del potere
femminile, messo al bando, oscurato dalla cultura maschile. La
Madonna nella pittura rinascimentale è spesso ritratta in abiti color
rosso fiammante, ma nell’Ottocento le autorità ecclesiastiche
fissarono come colori del divino femminile il bianco e l’azzurro,
chiaro segno del fatto che ai loro occhi il rosso evocava direttamente
e pericolosamente il sangue mestruale, quindi la donna e il peccato
che essa incarnava agli occhi dei maschi dominatori (p. 46). Oggi è
ancora visibile la censura nei messaggi pubblicitari che mostrano
tamponi mestruali macchiati di un liquido azzurrino, che allude, ma
anche nega, la presenza di sangue rosso.
Come interpretare l’aneddoto tramandato sul gesto di Ipazia
che, per scoraggiare un allievo travolto da passione per lei, gli lanciò
una pezza macchiata di sangue mestruale? A circa un secolo dalla
morte della filosofa, Damascio riferiva nella Vita Isidori che Ipazia,
in risposta alle dichiarazioni d’amore che le rivolgeva un allievo, gli
aveva mostrato una pezza intrisa di sangue mestruale
accompagnando il gesto con le parole: «Questo, dunque, ami, o
giovane, niente di bello» (p. 50). L’episodio sarebbe stato ripreso da
Alejandro Amenábar, regista del film Agorà (2009), interamente
dedicato alla vita di Ipazia e al contesto sociale e culturale in cui
maturò il suo linciaggio. Giallongo suggerisce che Ipazia con quel
gesto abbia voluto comunicare iconicamente il suo rifiuto del
matrimonio e della maternità, coerentemente perseguito allo scopo
di dedicare tutto il tempo allo studio e al sapere. Il gesto inoltre, con
il riferimento alle mestruazioni, di cui la cultura maschile temeva ed
evitava la vista e il contatto, era un modo perentorio e di sicura
efficacia di togliersi di torno il giovanotto. Più in generale, Ipazia
cercava di distogliere lo sguardo del discepolo dal proprio corpo, di
cui gli mostrava quale aspetto rivoltante il sangue mestruale, per
reindirizzarlo alla sua intelligenza e al sapere, degni di esseri
coltivati e non caduchi.
L’aneddoto illustra con efficacia visiva la stessa filosofia
neoplatonica, basata sul dualismo di materiale e immateriale, di
corpo e intelligenza, molteplicità e unità. Il gesto di Ipazia contiene
una pluralità di allusioni e significati, ma rivela anche una specie di
conversione della filosofa alla mentalità maschilista del suo tempo.
Ipazia trae dall’universo maschile l’idea dell’incompatibilità tra la
conquista del sapere e la vita matrimoniale; si dedica
unilateralmente al sapere e all’insegnamento ispirandosi al modello
maschile, in base al quale la donna è un inciampo e un ostacolo al
perseguimento dell’eccellenza nel sapere e in ogni campo della
cultura e dell’arte. In Ipazia non parla la cultura della Dea, per la
quale non esiste alcuna incompatibilità tra i diversi obiettivi degni
di essere perseguiti da una donna, come la maternità accanto allo
sviluppo del sapere.
In seguito alla soppressione dei culti femminili ad opera della
cultura androcratica, tutti i simboli femminili furono manipolati
allo scopo di farli diventare sinonimi dell’abominevole, del
disgustoso, del mostruoso e terrificante. Nei miti greci i mostri
hanno per lo più corpo di donna, come ad esempio: Sirene, Sfingi,
Scille, Chimere, Gorgoni. I culti femminili avevano spesso ritratto le
divinità sotto forma di occhi tondeggianti. Le scoperte
archeologiche relative alla preistoria illustrano il nesso tra il culto
dell’occhio e le dee della morte e della rinascita. «L’occhio era
l’allegoria della vulva della dea, seguiva la traiettoria simbolica della
capacità generativa» (p. 58). Per Tracy Boyd la correlazione tra
occhio e vulva esprimeva il concetto che molte donne erano le
custodi della fascinazione. Giallongo segnala l’importante lavoro
dell’archeologo Waldemar Deonna, pubblicato postumo nel 1965 e
apparso in traduzione italiana presso Boringhieri nel 2008 (Il
simbolismo dell’occhio). Deonna esamina le molteplici e pervasive
rappresentazioni dell’occhio in diverse religioni e tradizioni
popolari, nella cultura greco-latina. L’occhio è divenuto il più
prezioso dei sensi, quello che ha dato luogo alla civiltà umana. I
primi tabù visivi secondo Deonna sono: il sangue mestruale, la vista
degli stranieri e lo sguardo malevolo. L’occhio irato della Gorgone è
divenuto nella società androcratica uno strumento di controllo sulle
donne, dal momento che si elaborano istruzioni rivolte alle donne
per vietare loro di fissare gli uomini con lo sguardo. La connessione
tra sguardo che uccide e donna mestruata è stata percepita come un
gravissimo pericolo dalle culture ginofobiche del Mediterraneo,
legittimata dalla spiegazione magica e fisiologica del trattato Sui
sogni attribuito ad Aristotele. Lo sguardo che uccide allude al
potere dell’occhio femminile di soggiogare l’uomo e di incantarlo in
una sorta di stupore immobile. La cultura androcratica capovolge in
segno negativo i simboli dei culti femminili e li trasforma in
elementi letali per il maschio, che aspira ad affermare la pienezza
del dominio maschile sulla femmina. Lo sguardo della Gorgone era
letale nel senso dei due genitivi, soggettivo e oggettivo: era vietato
sia guardarla che esserne guardati. Tale doppia distruttività della
Gorgone veniva esaltata, nel corso del Medioevo, dal leggendario
Basilisco, il “re dei serpenti” secondo Plinio il Vecchio (Historia
naturalis, VIII, 24, 70-80; VII, 65), che secondo altri miti era sorto
dal sangue fuoriuscito dalla testa della Gorgone decapitata da
Perseo. Nel Basilisco trovava sintesi compiuta la riunione di
elementi disparati: l’influenza pericolosa del sangue mestruale, gli
effetti letali di un’occhiata che esercitava un effetto immobilizzante
pari a quello provocato dal veleno delle vipere. «Medusa è stata
travestita dalla civiltà greca in un avvilente, inquietante mostro
dello sguardo» (p. 60).
In accordo con il risultato della ricerca di Gimbutas, Giallongo
spiega che il serpente, venerato come animale sacro nella cultura
della Dea del paleolitico e del neolitico, dopo il predominio
conseguito dalla civiltà opposta divenne temibile, inviso, pericoloso,
una creatura da cui ci si doveva guardare. In Europa sopravvivono
casi isolati di culto del serpente (p. 61), che in epoca classica fu
mandato in esilio agli Inferi. La presenza insistente del serpente a
Creta nel periodo 1900-1400 a.C. ha un significato che Christopher
Witcombe ha cercato di esplorare: il fatto che il rettile, associato
alle donne, fosse del tutto esente da connessioni negative incoraggia
«a far corrispondere i vitali riti minoici alle mestruazioni, al
concepimento e all’allattamento» (p. 65). Gli elementi della
connessione, in seguito al cambio di civiltà, cambiano tutti di segno,
da positivo a negativo. Le donne cretesi godevano di una posizione
privilegiata nella religione, se non di dominio.
Giallongo illustra l’esperienza pedagogica originale di
François Fénelon, che compose nel 1694 Le avventure di Telemaco,
in cui raccontava il seguito che immaginava avrebbe potuto avere il
IV libro dell’Odissea, riferendo le vicende occorse a Telemaco alla
ricerca del padre. Fénelon, precettore del dodicenne duca di
Borgogna, impartiva lezioni politiche e morali con l’intenzione di
istruire divertendo. Fénelon, nel IV libro delle Avventure di
Telemaco, propone Creta quale modello di società antica giusta,
pacifica, frugale; il modello cretese è agli antipodi rispetto alla
società della sua epoca, quell’universo aristocratico fatuo e
meschino, cartesiano e civilizzato (pp. 83-85). «Verso la fine delle
sue avventure, scrive Giallongo, compaiono a Telemaco, disceso
negli inferi alla ricerca del padre, i re condannati per aver abusato
del loro potere» (p. 85). Fénelon aveva immaginato che le Furie,
armate di specchi, piombassero sui re ingiusti e violenti,
costringendoli a guardarsi allo specchio per cogliervi la
degradazione del loro volto, i lineamenti resi turpi dalla malvagità.
Telemaco vede attonito i volti dei grandi colpevoli, sconvolti
dall’orrore che essi provano e dal rimorso che li perseguita
implacabile; dilaniati e sottoposti a supplizio dalla loro stessa
anima. Alle Furie era attribuito il ruolo di giustiziere, esecutrici
della giustizia come vendetta.
La fisiognomica deve la sua nascita presso i Greci e la sua
fortuna all’idea che i tratti del volto indicassero l’indole della
persona. La fisiognomica, ripresa ad Atene alla fine del V secolo
a.C., risaliva al periodo paleobabilonese; essa era considerata una
forma di sapere e al tempo stesso era praticata come arte magico-
divinatoria. Secondo Giallongo è possibile individuare un’intima
connessione tra 1) le teorie della visione, 2) la percezione del
malocchio e 3) la fisiognomica nel mondo antico. 1) La teoria
dominante sosteneva che gli occhi emettevano dei raggi sugli
oggetti della visione. Gli occhi erano una specie di braciere che
emanava effetti positivi o negativi sul mondo esterno – concezione,
questa, che va d’accordo con la teoria di scuola aristotelica secondo
la quale gli specchi delle donne mestruate erano offuscati, teoria
ripresa in seguito da Plinio il Vecchio. 2) Il malocchio era quel
fenomeno per cui dagli occhi potevano provenire forze distruttive
emanate dall’invidia o dalla rabbia. Presumibilmente gli stessi raggi
permettevano la visione degli oggetti e l’irradiazione di un potere
negativo sulle persone. 3) Infine la fisiognomica concentrava la
propria attenzione sul rapporto iconico tra sguardo e carattere. «I
tre ambiti erano accomunati, pur nella diversità dei metodi e dei
propositi, da una solida certezza: l’occhio quale speciale agente,
attivo interprete del corpo, del sovrannaturale e dell’indole era nello
stesso tempo cacciatore e preda» (p. 93). L’occhio assume un ruolo
e un’importanza privilegiati anche nella fisiognomica. Giallongo
cita il Trattato di fisiognomica di autore anonimo, scritto in latino
tra II e IV secolo d.C., dove venti capitoli sono dedicati alla vista.
L’anonimo invita a diffidare degli «occhi dallo sguardo penetrante o
gorgon (truce)», che già i Greci avrebbero segnalato come cattivi.
Nel trattato di Fisiognomica dello Pseudo-Aristotele l’ideale del
kalos kagathòs, incarnazione della perfezione spirituale e della
bellezza fisica, era indicato con caratteri maschili, mentre i tratti
negativi erano significati con il femminile. Giallongo sottolinea
l’importanza della fisiognomica nell’affermazione di categorie che
hanno esercitato un’influenza decisiva nel campo artistico. Si
stabilisce la convenzione di rimarcare la distinzione tra maschile e
femminile, positivo e negativo. Il tipo umano predisposto
all’inganno era assimilato al rettile. I tratti del volto e del corpo
erano classificati in base ai tratti caratteriali di cui erano sintomi
inequivocabili. «Il trattatista latino sopra ricordato, avendo con
estrema diligenza passato in rassegna i segnali visivi, aveva trovato
nelle pupille piccole da serpenti gli indizi della malignitas, tipica di
“un animale crudele, che fa del male, insidioso e terribile quando ha
preso una decisione”» (p. 94). Il carattere femminile era qualificato
mediante la malignitas, termine che ha un campo semantico che
comprende: scaltrezza, irascibilità, rancore, spietatezza e
dissimulazione. Insomma la fisiognomica di tradizione aristotelica
distingueva nettamente i tratti e i segni in due settori: maschile e
femminile, positivo e negativo. La malignitas era rappresentata con
i capelli anguiformi e lo sguardo bieco della testa di Medusa (p. 95).
Nel corso della storia le immagini hanno avuto un ruolo
fondamentale nella formazione dei cittadini. L’uso dell’arte a scopo
didattico si afferma dal VII secolo a.C., formando la memoria
collettiva ancor prima della scrittura. «Passeggiando sotto i portici,
andando a teatro, guardando le pareti dipinte dei templi e
rimirando le statue, i vasi, gli scudi, gli edifici pubblici e privati, gli
Ateniesi imparavano a schierarsi a favore del padre, delle divinità
maschili e dei valori virili» (p. 97). La testa di Medusa ebbe grande
fortuna nel corso dei secoli. Il simbolismo allegorico della
tradizione classica avrebbe trovato una sintesi efficace
nell’Iconologia di Cesare Ripa, stampata a Roma per la prima volta
nel 1593 e tradotta in tutta Europa fino al XVIII secolo. La testa di
Medusa era rimasta fondamentale per l’educazione morale dei
giovani maschi, per spronarli a liberarsi dalle cattive abitudini e dai
vizi. «La crescente fiducia “nella faccia come teatro delle passioni”
da parte di Cesare Ripa assicurò, sulle orme della iconografia
tradizionale, anche nell’età del Rinascimento e della Controriforma,
le basi per una salutare rappresentazione dei vizi e delle virtù» (p.
99). L’Iconologia era diventata una fonte d’ispirazione anche per gli
artisti nell’Europa intera.
La storia dell’iconografia di Medusa e della Gorgone segna
una svolta. In molte società umane le mestruazioni erano state
associate al serpente, che nell’arte minoica era simbolo della
regalità e della divinità femminile. Nell’arte greca del VII secolo i
serpenti assumono un significato opposto. La figura femminile era
rappresentata come un mostro mediante l’associazione ai serpenti:
«La lingua penzolante, lo sguardo persistente, la capigliatura a
riccio di coda di serpente diventarono, così, gli ingredienti repulsivi
di una nuova, lunga tradizione iconografica che metteva in guardia
dalla minaccia ritenuta maggiore, guardare cioè qualcosa di
proibito» (p. 106). La figura di donna come Gorgone, associata ai
serpenti, avvertiva che le donne durante il ciclo non dovevano
essere contattate. Una delle credenze diffuse nella cultura greco-
romana era che venire a contatto con donne mestruate poteva
provocare conseguenze catastrofiche: grandinate, follia dei cani,
trombe d’aria, acidificazione del vino (p. 107). Il tabù mestruale
insomma è connesso alla forza dello sguardo e ai tratti ferini dei
rettili. L’umanizzazione delle figure di Medusa nel IV secolo a.C.,
con gli occhi aperti o chiusi, non elimina i tratti repulsivi di
Medusa, la cui iconografia conserva «rintracciabili allusioni alle sue
pericolose abilità visive e agli enigmatici serpenti, intermediari di
ciò che era inguardabile e che doveva rimanere nascosto» (p. 113).
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Come Vernant ha mostrato, i greci rappresentano nella donna


l’alterità del maschile: il male e la bruttezza trovano una sintesi
efficace nella Medusa. I greci furono indotti a definire se stessi in
un rapporto d’opposizione con il prossimo femminile, identificato
con la bruttezza e il male. Un paradosso significativo è dato dal fatto
che, mentre nei testi scritti dei greci si era concordemente
sostenuto che la Gorgone non si poteva fissare, né guardare, ma
neppure descrivere e rappresentare, dal VII secolo a.C. in poi
assistiamo a una copiosa riproduzione di Meduse. «L’aspetto
tarchiato, la faccia sorridente (condivisa comunque con i centauri,
gli eroi e gli dei sempre in cerca di felicità per l’arte arcaica),
talvolta inghiottita da una folta barba, talvolta provvisoriamente
bella, offriva lo spettacolo di ciò che era infinitamente inferiore. La
vista dei serpenti ostentava con cattivo gusto la subumanità del
mondo femminile. Con queste immagini gli antichi greci, antenati
lungimiranti, osteggiarono l’altro sesso e presero sul serio l’idea che
fosse “meno umano”, perché irrazionale e distruttivo» (p. 119). Dal
VII secolo a.C. s’impone un cliché che riunisce il mostruoso e il
femminile, interpretato come ricettacolo di rabbia e di aggressività
(p. 119). Oltre al femminile, anche il barbaro è assegnato
all’infraumano; Platone, attribuendo al barbaro il tratto specifico
dell’irascibilità, dà prova di dar credito alla fisiognomica
(Repubblica, IV, 435e).
Le Meduse della storia dell’arte non si contano. Tra le più
note: Caravaggio, Testa di Medusa su scudo da parata del 1598,
Galleria degli Uffizi, Firenze; Pieter Paul Rubens, Testa di Medusa
1617-1618. I caratteri repellenti si ripetono con regolarità nelle
diverse riproduzioni di Medusa: gli attributi repulsivi essenziali
sono i serpenti e la credenza nella pericolosità dello sguardo, due
caratteristiche che medici e teologi dal medioevo all’età moderna
hanno associato alla tossicità del sangue mestruale, tratto che
indicava l’imperfezione e l’inferiorità della donna rispetto al
maschio (p. 122). La caccia alle streghe riprende lo stereotipo della
donna inferiore, ricettacolo di ogni vizio e deformità, di ogni
pericolo. Senza l’incriminazione preventiva e stereotipa del
femminile, né la caccia alle streghe, né le fosche e agghiaccianti
rappresentazioni di quelle donne sarebbero state possibili. In opere
come il Compendium maleficarum (scritto e riscritto tra il 1608 e il
1625) oppure la Demonomania de gli stregoni (1580) di Jean
Bodin, vediamo riversate tutte le peggiori ignominie funzionali
all’eliminazione fisica delle streghe. «Nelle scene più opprimenti, le
adoratrici del diavolo posavano nude a gambe larghe (come le
Baubò greche e le Gorgoni etrusche) o in posizioni sconce, si
davano a orge sfrenate, si circondavano di gufi, corvi, serpenti,
ranocchi, mangiavano bambini, officiavano messe nere,
rimescolavano pentoloni fumanti di filtri e volavano nella notte. La
sessualità femminile era pubblicamente proposta come qualcosa di
sconcio, di repellente, di tetro, di pericoloso» (p. 135).
Giallongo dedica un paragrafo agli Hybrida, creature
riconoscibili per il loro inconsueto e trasgressivo miscuglio delle più
diverse specie animali: per lo più gli ibridi si presentano come
incrocio tra umano, animale e inanimato. I primi disegni di ibridi
sono comparsi 30.000 anni fa − paleolitico, grotta di Chauvet e
altrove. I primi racconti di ibridi li troviamo nei miti greci: «Qui
infatti si può intravedere la donna serpente rintanata, dopo un
passato glorioso, fra le forze primigenie distruttive dell’ordine
cosmico. Nella mitologia più arcaica la bella Echidna, dalla parte
inferiore del corpo serpentiforme, aveva spadroneggiato, secondo
Esiodo, fra gli opprimenti esseri primordiali provenienti dai più bui
recessi della Terra. La sua progenie con Tifeo (o Tifone) aveva
impreziosito il ricco repertorio di racconti greci sui mostri (i cani
policefali, Ortro e Cerbero, il Leone di Nemea, Ladon, il drago dalle
cento teste) e su perverse creature femminili: la Sfinge, la Chimera,
le Arpie e l’Idra di Lerna. Tutte eliminate dagli eroi di turno. In
primis quelle imparentate, come le Gorgoni, con il serpente» (pp.
138-139). Gli ibridi non sono mai scomparsi. Si trovano in numerosi
bestiari medievali e figure zooantropomorfiche sono presenti in
modo ossessivo in grondaie e capitelli del periodo romanico e
gotico. Sulla falsariga del Phisiologus diversi bestiari medievali
esponevano le affinità tra la donna e il serpente. In Dante le Furie
infernali travestite da Erinni, cinte di “verdissime idre” (Inferno,
IX, 39-42).
La combinazione di elementi primordiali e forme classiche
produsse la figura della Fata serpente. Le fate pagane furono
incriminate dai pensatori cristiani del medioevo e presto divennero
le streghe da mandare al rogo. Le fate sarebbero quindi un capitolo
nella storia degli ibridi femminili. Le fate sono il risultato della
giustapposizione di una seducente sembianza umana e di una
forma animale (serpente, pesce, drago). Troviamo la bellissima
donna serpente di Langres raccontata dal cistercense Goffredo
d’Auxerre e da Jean d’Arras, che la convertì in fondatrice del casato
dei Lusignano con un romanzo cavalleresco (1393-1394). Troviamo
ancora l’ibrido trasformato in fata nella fiaba La sirenetta (1836) di
Andersen e nel cartoon Ariel la sirenetta della Disney. In Melusina,
la Sirenetta e Ariel un occhio attento scopre i primitivi tratti ferini
al di là delle dissimulazioni umane (p. 140). Nella storia della
cultura occidentale la convivenza e l’interscambio tra uomo e
animale sono stati sostituiti dall’opposizione uomo-animale e dalla
svalorizzazione dell’alterità animale. Giallongo cita a questo
proposito C. Tugnoli (a cura di), Zooantropologia. Storia, etica e
pedagogia dell’interazione uomo-animale, FrancoAngeli, Milano
2003 (p. 140, nota 59). Omero ed Esiodo hanno fornito le
rappresentazioni degli ibridi più noti e che più a lungo sono
sopravvissute: la figura trimembra di Chimera, uccisa da
Bellerofonte nell’Iliade (VI, 180-184). Chimera è figlia, per Esiodo,
di Echidna (serpente) e di Tifone (gigante dalle gambe di serpente.
Oltre alle Erinni, tra gli ibridi troviamo l’Idra di Lerna, che Eracle
riuscì ad abbattere sfuggendo all’alito velenoso emesso dalle sue
teste di serpente. Nel V secolo a.C., spiega Giallongo, quando il
cartaginese Annone scoprì le Esperidi, alimentò la convinzione,
condivisa più tardi da Pomponio Mela, che le isole fossero abitate
da femmine pelose, selvagge e feroci. L’identificazione delle
scimmie di Annone con le Gorgoni del mito, grazie anche alla Storia
naturale di Plinio, sopravvisse fino al Medioevo e oltre.
Edward Topsell, autore di The History of Four-Footed Beasts
(1607) e di History of Serpents and Insects (1608), scoprì la
Catoblepa, animale libico, forse uno gnu, e le Amazzoni. La
Catoblepa era un animale orribile, dall’alito micidiale e dallo
sguardo mortale per tutti i viventi. Ecco che cosa scrive Topsell:
«Prendendo in esame questa bestia, appaiono manifeste la saggezza
e la provvidenza del creatore divino, che ha rivolto all’ingiù, verso la
terra, gli occhi di questa bestia, come se stesse seppellendone il
veleno per evitare danno all’uomo; e l’ha coperta con peli ruvidi,
lunghi e forti affinché i suoi raggi velenosi non si riflettano verso
l’alto se non quando provocata da paura o pericolo, essendo la
pesantezza del suo capo come una sorta di ceppo vincolante la
libertà della sua natura velenosa, ma quali altri aspetti, vizi o virtù,
siano contenuti nell’ambito di questo mostro, lo sa solo Dio, che gli
ha permesso di vivere sulla faccia della Terra probabilmente per
nessun altro motivo se non come castigo e flagello per l’umanità e
come esempio tangibile della sua potente ira che può arrivare fino
alla distruzione eterna. E ciò possa servire come descrizione di
questa bestia fino a quando, grazie alla provvidenza divina, non si
riesca a conoscere di più» (pp. 142-143). Le Amazzoni africane,
capeggiate da Medusa, avevano peli sul capo assai velenosi,
carattere attribuito in seguito anche alle streghe. Edward Topsell
(1575-1625, ministro della Chiesa anglicana, autore di bestiari
corredati da dettagliate xilografie) rappresenta la Gorgone
trasformata in animale. La Catoblepa, come il Basilisco, serviva a
esporre la teoria della mortalità dello sguardo: «chi propagava
veleno attraverso l’alito e/o gli occhi non era umano» (p. 143).
L’ibrido, presente da secoli nella storia naturale e oggetto di
accurate descrizioni, alimentava la credenza nell’alito e nello
sguardo letale. Istillava il timore di poter morire a causa di un soffio
o di uno sguardo. «L’asfissiante alito dell’Idra e la rinsecchente
occhiata gorgonica – strumenti letali delle eccentriche esistenze
create dalle fantasticherie maschili greche – confluirono dunque
alla spicciolata nell’immaginario scientifico, artistico e collettivo del
XVI secolo e di quelli successivi. In balia di questo incantesimo, la
maggioranza degli europei coltivava il mito dello sguardo che
uccide e prendeva sul serio l’idea della mostruosità femminile. Per i
nostri avi era un inevitabile obbligo culturale tormentarsi con l’idea
che una donna inchiomata di serpi (o con la parte inferiore del
corpo serpentiforme) e dallo sguardo fiammeggiante potesse
mettere in pericolo la loro vita» (p. 144). In seguito alla sconfitta
della cultura della Dea, in cui il serpente è una figura positiva, la
connessione donna-serpente assume un carattere negativo e
nefasto. Se a Creta, dove la cultura della Dea sopravvisse più a
lungo, la donna serpente era raffigurata con forme benevole e
rassicuranti, come di una divinità alla quale si chiede aiuto e
protezione, successivamente quell’iconografia è stata sostituita da
immagini della Gorgone orribile e pericolosa a guardarsi: dallo
sguardo letale e letale se guardata. Gli ibridi femminili in sostanza
hanno avuto un ruolo decisivo nella demonizzazione e
inferiorizzazione delle donne, come se dovessero giustificare la
paura maschile della donna, dal momento in cui essa ha cessato di
essere considerata come Dea, Madre Terra feconda. L’ibrido
esprime il disprezzo e il senso di superiorità maschile nei confronti
della donna. Giallongo cita Page duBois, per il quale Medusa è «il
mito della paura delle donne», vale a dire «la paura del loro valore
arcaico, della loro autosufficienza, del loro potere sotterraneo» (p.
145).
L’omosessualità maschile potrebbe essersi innestata e
cresciuta sulla base di quella stessa paura: dinanzi all’autarchia
partenogenetica femminile, l’uomo può essersi sentito escluso,
emarginato, sminuito. L’omosessualità maschile poteva
rappresentare una risposta all’inaccessibilità del mondo femminile:
i maschi potevano a loro volta bastare a se stessi almeno sul piano
sessuale. Una presunta e parziale autosufficienza, quella maschile,
che assumeva inevitabilmente la forma della parodia. La relazione
omosessuale era simile in tutto al rapporto eterosessuale (godeva
persino del vantaggio, se così si può dire, della reciprocità), tranne
che nella finalizzazione riproduttiva. L’omosessualità femminile
può essersi sviluppata a sua volta come rimedio all’esposizione
traumatica della donna al maschio dominatore. In pratica
l’omosessualità maschile e femminile appare la conseguenza della
rescissione dei legami e della consuetudine di cooperazione,
sostegno e aiuto reciproco che ha avuto luogo nel corso della
cosiddetta preistoria.
La Gorgone poteva assumere anche una funzione benigna,
apotropaica, quasi antidoto ai mali che minacciava, come le
antefisse a testa di Gorgone di tipo calmo e a forma femminile
regolare che trasmettevano sentimenti confortevoli a tutti coloro
che si recavano al tempio. Per Alyssa Hagen la Gorgone era
considerata dalle donne l’assistente di Artemide, la protettrice delle
partorienti, dei neonati e dei giovani, nonché la Signora degli
animali (p. 146). «Si potrebbe dire allora che l’immagine che si
affacciava nell’anima delle donne non fosse quella dell’incubo, bensì
quella di una zelante protettrice che in compagnia di altre dee
facilitava le nascite e guidava la crescita dei cittadini più giovani
nella polis. Nonostante queste sentite sollecitudini, Medusa non
riuscì a sfuggire nell’età classica alle umilianti raffigurazioni che la
relegavano al ruolo di guardiana dell’Ade. Come tale verrà accolta
infatti secoli dopo anche da Dante nel IX canto dell’Inferno» (p.
147). Nell’iconografia continuava a prevalere il segno negativo della
Gorgone – il serpente e il sangue mestruale alimentava la paura
della morte, della sessualità. Lucano, Apollodoro e Ovidio
concordavano nell’attribuire al sangue della Gorgone il potere
malefico, anche dopo la morte, di generare mostruosi serpenti e
mostri, tra cui il Basilisco, «il principale erede delle materne
occhiate mortali» (p. 149). Presso gli eroi greci la morte peggiore
era quella inferta da mano femminile (come Clitemnestra che
uccide il marito dopo che questi è ritornato da Troia). I greci allora
mascolinizzarono la morte, come osserva Hagen: «Era infatti più
desiderabile l’onnipotente armatura di Thanatos dell’odiosa morte
buia e informe inferta dalla Gorgone, tetra patrona della fine della
vita più che maestra di nascite» (p. 149).
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La ricerca di Giallongo impone una pausa di riflessione.


L’iconografia greca presenta numerosi mostri: Gorgoni, Erinni,
Minotauri, Ciclopi, Arpie, Scille, Cariddi. I mostri alimentano
incubi e paure, senza i quali a loro volta i mostri non esisterebbero.
Nella mitologia i mostri devono essere sconfitti, c’è sempre un eroe,
come Eracle nel caso dell’Idra di Lerna, che li mette fuori gioco. I
mostri sono la rappresentazione proiettiva della violenza caricata su
di una vittima, che in questo caso è la donna. L’elemento femminile
catalizza tutte le tensioni, le crisi e la diffusa violenza della società.
La deformità e la mostruosità sono infatti alcuni degli stereotipi
vittimari secondo l’ermeneutica girardiana. La vittima della
persecuzione e del linciaggio, accusata dei peggiori crimini, è
rappresentata nella forma della mostruosità, che allude
all’indifferenziazione e alla conflittualità endemica che la
caratterizza. L’antropologia vittimaria interpreta l’ibrido mostruoso
delle figure mitologiche come simbolo di indifferenziazione e
violenza. La vittima deve essere uccisa per liberare la comunità
dalla minaccia della sua stessa violenza, proiettata sul mostro. La
paura del mostro è, geneticamente, la paura della violenza
serpeggiante che, a un certo punto, viene concentrata in uno solo: la
figura femminile assume il ruolo di mostro che minaccia di morte,
ma la sua violenza è in realtà quella dei persecutori (impersonati
dall’eroe di turno) i quali mirano così a liberarsene. Il mostro fa
paura solo perché incarna la stessa violenza di coloro che ne sono
impauriti. La paura dello sguardo che uccide è significativa: la
vittima uccide con lo sguardo, per questo bisogna ucciderla. Ma la
vittima non fa che estroflettere lo sguardo malefico dei persecutori
che la condannano ad assumere il ruolo di collettore della violenza,
di purificatrice della stessa maleodorante impudica mortifera
dissoluzione da cui vogliono liberarsi coloro che mirano a liberarsi
del mostro. Un legame storico-culturale strettissimo intercorre
quindi tra elemento femminile, mostro, vittima espiatoria. Il sangue
mestruale della donna-mostro è pericoloso solo perché è sangue,
emblema della violenza da cui i persecutori intendono liberarsi una
volta per tutte, per non dover più spargere sangue loro stessi. Tutti
gli attributi della violenza, compreso lo sguardo assassino, che i
persecutori attribuiscono alla vittima provengono dalla crisi
dell’intera comunità. La vittima, causa di ogni male e minaccia
mortale, deve allora essere linciata per la salvezza di tutti.
L’antropologia vittimaria quindi offre un’ermeneutica adeguata alla
comprensione del fenomeno storico culturale degli ibridi e dei
mostri di ogni specie, che rievocano la figura della donna serpente,
dopo la sua trasformazione da Dea amica del serpente in mostro
orribile e malefico, predestinato a divenire il catalizzatore di ogni
crisi e veicolo di soluzione vittimaria del conflitto. La
trasformazione in mostro è una duplice operazione di censura e di
mascheramento, oltre che di proiezione. Ancora più
profondamente, nell’ibrido l’uomo teme la contaminazione, la
mescolanza, il confronto con l’alterità femminile e, in generale, con
qualsiasi alterità. Il mito del Timeo sull’origine degli animali
riassume in modo quasi archetipico la svalorizzazione dell’alterità
femminile e animale, da parte di un umanesimo androcratico che
sente il dovere di produrre un’ideologia protettiva a tutela della
purezza incontaminata dell’essere umano, della separatezza di una
sostanza umana autofondata, totalmente autarchica, originaria e
originale.
Non può sfuggire naturalmente la contraddizione per cui
l’affermazione della purezza originaria e autarchica di un uomo che
ha già tutto in se stesso, è incompatibile con la minaccia
rappresentata da qualsiasi alterità. L’autosufficienza esclude di per
sé qualsiasi possibilità di influenzamento, contaminazione e
alterazione, e tuttavia l’umanesimo ha avvertito l’esigenza di
produrre i mostri di ibridazione, illustrazioni dimostrative e
oggettivazioni dell’angoscia di influenzamento, di ibridazione e di
perdita dell’identità, intesa come qualcosa di statico, isolato e
separato. I mostri erano e continuano ad essere un avvertimento −
dai bestiari medievali fino agli spauracchi di chimere frutto di
manipolazioni genetiche − a non ammettere alcuna forma di
ibridazione, mescolanza, meticciato, in nome di una presunta
purezza che la storia naturale, parallelamente, smentisce
continuamente. Mostri e ibridi eretti a baluardo della purezza
identitaria, minacciata dall’incontro con l’alterità fondamentale, la
donna, e con tutte le altre forme di alterità (straniero, animale,
ecc.). La stessa operazione di separazione dell’elemento nocivo,
della vittima candidata all’espulsione nel processo di
vittimizzazione e purificazione della società, parte dalla
mostrificazione dell’altro femminile, che così accoglie i tratti
dell’alterità animale (serpente, drago) e inanimata (il veleno, fluido
dello sguardo, liquido mestruale). L’ibrido condensa così tutti i
tratti dell’alterità che va respinta ai margini e abolita per affermare
la purezza incontaminata dei persecutori. Il processo vittimario
appare dunque un eloquente strategia di affermazione umanistica
della purezza identitaria e dell’autarchia dell’uomo. L’uomo
archetipo del mito platonico deve distruggere e allontanare da sé
ogni forma di alterità, associata al male assoluto, la perdita
dell’identità, lo smarrimento della propria natura originaria.
Troviamo qui la ragione per cui non ci sono prove dell’esistenza di
pratiche sacrificali nelle società dominate dalla cultura della Dea,
rette da un sistema ginocentrico, chiamato gilanico da Eisler,
mentre nelle società caratterizzate dal sistema androcratico i
sacrifici diventano addirittura una pratica costante. Bisognava
quindi tenere in scacco la Dea, sconfitta dall’avvento di un sistema
di potere basato sulla gerarchia autoritaria e violenta, sul dominio
del potere maschile. Il mito del Timeo sancisce il passaggio dal
modello gilanico di società e cultura al modello androcratico. La
vittima sacrificale è sempre mostruosa, incarnazione e
oggettivazione di ogni bruttura, contaminazione, contagio, violenza,
da cui il potere maschile si sente minacciato e da cui deve
periodicamente prendere le distanze per ritrovare se stesso. Il
linciaggio fondatore e il rito sacrificale sono tratti strutturali tipici
delle società androcratiche? Dunque la tesi di Girard, secondo il
quale il linciaggio fondatore segna l’inizio della cultura e della
civiltà, della società tout court, deve essere rivista? Forse esistono o
sono esistite società basate su una cultura di tipo diverso, non
esposte alla minaccia di un’alterità oppressiva proprio perché il
sistema di potere che le caratterizza non produce rivalità, tensione e
violenza?

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Il passaggio da un’epoca all’altra è ben segnalato dalla presenza


ossessiva della Gorgone nelle figure mostruose elaborate dai
maestri dell’intaglio in pietra e in bronzo e dai pittori nel periodo
dal VII al I secolo a.C. Le figurine dell’arte paleolitica e neolitica,
rappresentazioni delle dee della fertilità, così ben illustrate da
Gimbutas, in seguito al diffondersi della paura maschile per la
donna (le streghe sarebbero state accusate tra l’altro di togliere ai
maschi la loro potenza virile) assunsero un significato opposto. Il
serpente nelle società più antiche era venerato e amato come
protettore della casa, simbolo della fertilità e della forza creativa
femminile, rappresentazione della natura ciclica della vita. Ma ad
un certo punto il serpente è posto sotto accusa; nella mitologia
greca con Echidna, metà donna e metà serpente, era accusato di
essersi mescolato con l’umano e di aver generato diversi draghi.
L’Europa medievale ormai cristianizzata da secoli racconta favole
sul basilisco, il serpente crestato, vuoi con il corpo da dragone, vuoi
con il corpo di gallo dalla coda di rettile. Favole si raccontavano
anche su Melusina, in parte donna, in parte pesce, in parte
serpente. «Sono stati i pulpiti della tradizione giudaico-cristiana a
far perdere le tracce positive lasciate dal serpente nei culti della
rinascita e della protezione, e ad accentuarne la fama di perfido
spirito che aveva indotto alla disobbedienza Adamo ed Eva» (pp.
171-172). Gli animali in generale erano visti con sospetto e spesso si
istruivano processi agli animali, che potevano essere accusati di
gravi crimini, compresa la perversione sessuale. Se giudicati
colpevoli, venivano sepolti vivi, impiccati o mandati al rogo. «Nella
lista degli animali associati all’inferno e ai diavoli, il serpente –
sotto le forme più svariate dalla Vipera al Drago – godeva di una
certa considerazione. Il cristianesimo, secondo Michel Pastoureau,
non era andato molto lontano dalle tradizioni antiche che avevano
già attribuito al serpente le sembianze del principe del male. Erano
stati i primi testi biblici a mettere sulla breccia il serpente seduttore
di Eva e il serpente-drago dell’Apocalisse e a rinchiudere, nel
contenitore dell’alterità morale, la specie rettile al completo» (pp.
172-173). In epoca medievale il serpente è onnipresente: come
ricorda H.A. Kelly, citato da Giallongo, il serpente in epoca
medievale «veicolava allegorie religiose, emblemi araldici,
istruzioni morali, ispirazioni artistiche ed esperienze didattiche» (p.
173). Giallongo cita il Physiologus, scritto in greco tra il II e il III
secolo d.C. dall’edizione a cura di Francesco Zambon, per l’editore
Adelphi, Milano 1993. La descrizione della Vipera nel Fisiologo dice
che le vipere, maschio e femmina, hanno forma umana, mentre la
coda è di coccodrillo. La femmina è senza vagina, quindi il maschio
che copre la femmina le eiacula in bocca, poi la femmina,
inghiottito il seme, tronca i genitali del maschio, che muore
all’istante. I figli, crescendo, divorano il ventre della madre mentre
sono ancora nel suo ventre e vengono alla luce mangiandolo. Le
vipere sono quindi parricide e matricide (p. 175, nota 34).
Tra tutti gli animali dei bestiari medievali spiccava il
Basilisco, dallo sguardo assassino. Era descritto come serpente
crestato o come un gallo dalla coda di serpente che, per completare
l’ibridazione, covava le uova. Curiosamente, Alberto Magno credeva
nello sguardo mortale del basilisco, ma non era disposto a credere,
nel De animalibus (1260), che un gallo potesse essere in grado di
covare le uova. Il basilisco risultava particolarmente ripugnante: si
credeva che «il suo sguardo, il suo tocco, il suo fiato, il suo sangue
fossero così perniciosi da bruciare l’erba, i cespugli, da spaccare le
rocce e da avvelenare gli uomini che, a cavallo, avevano tentato di
trafiggerlo con la lancia» (p. 180). Molte leggende medievali
avevano raccomandato di ricorrere allo specchio facendo in modo
che il basilisco, guardandovisi, finalmente morisse. Dal sangue
colato dalla testa decapitata era nato anche l’Anfisbena, un serpente
con due teste, una per ciascuna estremità. Gli animali grotteschi,
ibridi e fantastici rappresentavano, si può dire, l’alterità di secondo
grado, rispetto al primo grado che consisteva nell’animale
realmente esistente. L’Amphisbaena era stata descritta da Plinio il
Vecchio e da Isidoro (D. Badke, Medieval Bestiary). Altri esperti
ritenevano che questo animale potesse anche munirsi di ali, riavere
le zampe ed eventualmente di rifornirsi di corna e di orecchie.
Tutti questi mostri, strani animali o, per meglio dire,
inconsuete combinazioni di animali, rivelavano la loro parentela
con Medusa e tutti insieme rappresentavano proiettivamente
l’orrore per l’alterità che caratterizzava le società medievali, a
partire dalla repulsione per l’elemento femminile, in associazione
con i riferimenti simbolici di cui si è detto sopra. Orrore che
giustificava e presupponeva la presa di distanza, la separatezza e la
guerra santa contro i mostri maligni. Hieronymus Bosch (1453-
1516) seppe rappresentare tutte le figure più mostruose allora
disponibili nei bestiari, emblemi dei peggiori vizi. Nel suo Giudizio
universale (1482), nel Giardino dell’Eden l’incontro di Adamo ed
Eva avviene con un serpente Tentatore camuffato da umanoide-
donna: «La persuasiva coda mischiata a zampe e a piedi di lucertola
alludeva allo stato benestante del serpente prima della caduta,
mentre la testa e/o il busto femminile accoglievano la nuova
esperienza pregustata dall’arte tardo-medievale e rinascimentale:
rappresentare il Tentatore con fattezze muliebri» (p. 183).
Ricordiamo che molte pitture medievali mostrano le fate in questa
foggia: serpente in forme femminili. Inoltre nella tradizione
giudaico-cristiana Lilith era stata equiparata a Satana e al serpente.
La rappresentazione del Tentatore in serpente con volto e/o busto
di umanoide-donna esprimeva la sintesi di convergenti tradizioni
misogine, contribuendo a identificare nella donna la causa e la
matrice del male e del peccato. Neppure Michelangelo aveva fatto a
meno di ricorrere all’ibrido donna-serpente nella rappresentazione
del Tentatore: nel Soffitto della Cappella Sistina, l’affresco del 1519
mostra la donna serpente con le gambe avvitate al tronco
dell’albero come se fosse una doppia coda con le punte rastremate
tipiche della coda di rettile (pp. 183-184). Bosch possiede una
particolare abilità nel dipingere la perdita della grazia mediante
l’ibrido serpente femminile, i peccatori inseguiti, divorati e sfregiati
in tutti i modi da mostri. Uomini e donne di Bosch che il vizio e il
peccato hanno trasformato in ibridi animaleschi. La bestialità
femminile, il mostro donna-serpente, appariva la peggiore,
l’estrema caduta, il culmine dell’abominio. Giallongo ricorda che
Alberto Magno (1206-1280), maestro di Tommaso d’Aquino,
riteneva che «la natura difettosa della donna fosse riconoscibile
dalla sua impotenza morale incoraggiata da un eccesso di liquidità
che stimolava il male al di là di ogni aspettativa» (p. 185).
La natura della donna era tale che bisognava guardarsene
come da un serpente velenoso o da un diavolo cornuto.
L’iconografia che propone il Tentatore nel duplice aspetto di donna-
umanoide e serpente allude allo scarto tra apparenza e realtà,
esattamente come nelle figure di fate; la figura accattivante,
seducente del bel volto femminile si rivela ingannevole e svela il
vizio e la corruzione del rettile, la vera natura peccaminosa. Anche
la teoria dei quattro umori aveva dato il suo contributo, associando
le donne al flemma, quindi al temperamento flemmatico, umido e
freddo, tipico delle salamandre, capaci di spegnere con la propria
gelida natura anche le fiamme più veementi. La misoginia spingeva
a considerare la donna un rettile travestito, che già in questo
travestimento dimostrava un’astuzia ignota al maschio. Un’astuzia
con cui la donna doveva compensare la sua volubilità, curiosità,
instabilità e insicurezza, celando insieme la sua peculiare
predisposizione al peccato, all’inganno, all’infedeltà, alla
perversione. Uomo e donna erano contrapposti come l’intelligenza
alla furbizia, il sole alle tenebre, il bene al male. La donna come
alterità assoluta sotto le sembianze mansuete della sua costitutiva
immaturità fisica e psichica rispetto all’uomo, e della sua fragilità.
Fragilità, debolezza e imperfezione della donna che aprono la strada
al peccato e al male. La scena della Genesi in cui il Tentatore
riusciva a indurre in peccato diventa così rivelatrice grazie alla
figura biforcuta donna/serpente. Il serpente è in sostanza Eva
stessa: il doppio si giustifica come accorgimento retorico di censura,
per evitare la resistenza che avrebbe provocato la rappresentazione
della donna come direttamente responsabile del peccato originale.
L’iconografia però nel corso dei secoli finisce col rivelare quel che
nel testo biblico rimane nascosto: la natura femminile del serpente,
controfigura della donna. Disvelamento che combacia con le
descrizioni e rappresentazioni della natura femminile che troviamo
nella letteratura medievale (esempio formidabile è Alberto Magno,
Quaestiones super de animalibus, XV, 11).

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Se è vero che il serpente tentatore non è altri che la donna stessa,


protagonista in prima persona e non tentatrice tentata a sua volta
da un Altro, allora l’ingresso del peccato nel mondo non riguarda
l’intera umanità, ma solo la sua metà maschile. La donna viene
defraudata anche del peccato originale. Il passo della Genesi che ci
riguarda, compresi gli sviluppi iconografici successivi, non può che
essere interpretato nel modo seguente: finché la sua natura
predisposta al male riguarda solo la donna, di peccato non si può
parlare. La contaminazione del peccato originale avviene quando
l’uomo si lascia soggiogare dalle lusinghe della donna. Il peccato
originale non esiste ancora finché solo la donna è vittima della
propria debolezza e immaturità. La donna è causa del peccato, ma
solo l’uomo è colpito dal peccato originale, in quanto l’uomo, non la
donna, è soggetto alla tentazione. Se il serpente è la donna stessa,
vuol dire che la donna tenta se stessa da sempre, ovvero è vittima
della sua stessa fragilità, ma senza peccato originale. Si dovrebbe
quindi distinguere tra tentazione interna (serpente-Eva) e
tentazione esterna (Eva-Adamo), assegnando solo alla seconda la
funzione di spartiacque epocale, di evento assoluto che delimita il
prima e il poi nella storia dell’uomo.
Tutti questi elementi corroborano la conclusione che la
Caduta sia stata concepita e raccontata nella prospettiva
dell’ideologia androcratica e con l’intento di mantenere la figura
femminile al di fuori dell’orizzonte umano, nella penombra di
un’alterità oscura e minacciosa, poi rivelatasi foriera del principio
del male per la metà maschile degli esseri umani. Nel corso del
Medioevo il serpente e gli animali reali o immaginari che gli erano
apparentati (Basilisco, Salamandra, Idra) indicavano il femminile,
in particolare basilisco, salamandra e idra corrispondevano alla
donna mestruata e in menopausa. La mediazione del rettile era un
artificio retorico inconscio: permetteva di evitare la condanna
diretta della donna, che tuttavia veniva dipinta nella forma della
negazione dell’umano e del bene, con la fattispecie orrifica
dell’abominevole assoluto, dell’alterità portatrice di dissoluzione
fisica e morale, del peccato e della morte. Identificarla con il rettile
presentava il vantaggio di scaraventarla lontano e di eliminarla
fisicamente, se necessario, per togliersi di torno quella che era
considerata la rovina dell’umanità. La forma del mostro toglieva
ogni residuo di umanità alla donna e ripuliva preliminarmente da
ogni senso di colpa i suoi detrattori/carnefici. Il modo in cui Eva è
presentata nella Genesi corrisponde ai requisiti della persecuzione
vittimaria: la vittima è inclusa nel genere umano maschile, e
insieme ne è geneticamente distinta, secondo una delle due versioni
della creazione di Eva. Secondo questa versione Eva è un derivato di
Adamo e insieme la controfigura del serpente, assimilata
all’universo maschile ma anche suo antagonista. Solo a questa
condizione potrà assumere il ruolo di causa e insieme capro
espiatorio della tentazione, del maleficio e del peccato. La donna
nella storia successiva eredita e porta il peso dell’accusa archetipica,
che giustifica in tal modo la trasformazione in mostro e la
sottomissione della figura femminile.

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Lo sguardo della donna mestruata era considerato potente come


quello del basilisco, ed era concepito e percepito come un reale
gravissimo pericolo dalla comunità degli intellettuali. Le
equivalenze più aberranti (per la mentalità e la scienza attuale),
come quella di Eva con il serpente, dello sguardo mortale del
basilisco con quello della donna mestruata, trovano conferma nelle
rappresentazioni iconografiche, nei racconti, nelle teorie filosofiche
e mediche, nelle riflessioni teologiche, nelle esortazioni dei
moralisti (p. 188). In seguito al peccato, da Eva in poi le donne
hanno portato il peso di una colpa gigantesca, alla quale hanno
cercato di sfuggire rigettando, respingendo il serpente, negando
ogni rapporto con lui, agitandosi alla vista del rettile per fornire una
prova ulteriore della loro estraneità al rettile, al principe del male.
In seguito alla condanna del serpente in ambito giudaico-cristiano,
le donne hanno dovuto rinunciare e aborrire i culti ofidici in cui
esse danzavano con i serpenti. Tutti i culti antichi che
contemplavano la presenza del rettile erano stati banditi, ma
sopravvivenze furtive non mancavano: «A Cevo, in Valsaviore, una
leggenda medievale voleva che il Basilisco venisse custodito in un
antro da una genìa di streghe e che, a Cocullo, in provincia
dell’Aquila, il culto arcaico della Grande Madre Angizia era stato
sostituito, nella festa dei serpari, alla fine del XIII secolo, da san
Domenico da Foligno invocato, come l’antica dea, contro i morsi dei
rettili» (p. 190). In campo educativo, sulla scia di Tertulliano che
aveva condannato la sconcezza delle donne, sempre pronte ad
abbigliarsi, agghindarsi e curarsi in ogni modo nell’aspetto allo
scopo di attirare gli sguardi degli uomini, le donne erano accusate
di voler attirare con ogni stratagemma gli sguardi degli uomini,
«per esercitare il loro potere, come i rettili, di fascinazione» (p.
191). Per secoli il comportamento visivo delle donne è stato
sottoposto a censure, restrizioni, proibizioni.
Nei vangeli non si trova traccia di alcuna colpevolizzazione,
svalorizzazione o demonizzazione della donna, tutt’altro. Ma da san
Paolo, Clemente Alessandrino, Tertulliano, Agostino, Girolamo,
Bernardo di Chiaravalle, si diffuse una concezione umiliante della e
per la donna: le discendenti di Eva possedevano l’arte di mandare
in rovina gli esseri umani e quindi era da tutti condivisa la
proibizione rivolta loro di parlare a loro nome, di considerarsi pari
ai maschi e di disporre di beni propri. Il bene, il divino, il giusto per
secoli ha assunto le sembianze del maschile, mentre il femminile
per opposizione è divenuto sinonimo di male, demoniaco, iniquo.
Giallongo cita Witcombe, deplorando la persistenza di questa
mentalità diffusa che deve la sua origine alla “fiction patriarcale”
della Genesi. Lo stereotipo inaugurato dal testo biblico è persistente
e tenace; e, come ogni rilettura dello stesso testo, l’adesione alla
presunta “verità” del testo non fa che consolidare la credenza nella
sua irrefutabilità. Non bisogna dimenticare poi il ruolo formativo
svolto da affreschi, mosaici e illustrazioni di bestiari che ovunque
pullulavano nel Medioevo, sostituendo le carenti istituzioni
scolastiche e alimentandosi della diffidenza nei confronti dello
spirito critico, della dialettica dei greci. Nessun discorso sarebbe
stato più efficace e penetrante rispetto alle immagini che ritraevano
il serpente della Genesi con una testa di donna, sempre accanto a
Eva. «La relazione fra Eva e il serpente in alcuni dipinti, ancora nel
XIX secolo, si era fatta così intercambiabile da far prendere
direttamente a Eva il posto del serpente. A sua volta il demonio, di
rado dipinto con le mammelle, dal IX secolo aveva cominciato
occasionalmente a sfoggiare una capigliatura serpentina che,
durante il XIV secolo, passò direttamente sulla testa della strega»
(p. 196). Giallongo ricorda che il tedesco Ulrich Molitor, autore del
trattato Delle Lamie e pitonesse (1489-1493), nel quale si coglie la
parentela strettissima, dal dialogo e dalle xilografie, tra la donna e il
serpente. Eva e il serpente, apparentati, confusi e identificati,
meritavano e ottenevano la stessa sorte, la stessa maledizione
eterna. E il Malleus maleficarum di Sprenger e Krämer,
contemporanei del Molitor, poneva il sigillo alla tragica persistente
favola dell’Eden. Demonio, serpente, femmina: uniti dalla stessa
condanna al fuoco di un braciere molto terreno.
Un altro aspetto del potere malefico della donna era
rappresentato dalle mestruazioni. La donna era particolarmente
pericolosa durante le perdita di sangue e dopo la sua definitiva
assenza. A causa delle mestruazioni la donna si rivelava portatrice
di un’anomalia, di una mostruosità contraria alle leggi della natura,
e dimostrava così di essere un errore della natura che poteva
suscitare solo disgusto. La donna era quindi percepita come
mostruosa e suscitava una duplice angoscia: in quanto donna e in
quanto mestruata, depositaria quindi di un corpo mal vissuto e
portatrice del demonio. «Il mostro, in quanto manifestazione del
disordine e immagine del male, alla fine del Medioevo slitterà
infatti verso il diabolico, quando si svilupperà, con il mito della
strega, l’immagine esclusivamente malefica della donna stessa» (p.
197). La misoginia coltivata nella tradizione giudaico-cristiana
illustrava il flusso mensile delle figlie di Eva come prova della loro
imperfezione costitutiva. Il flusso mensile non era considerato
come un naturale processo fisiologico, ma come segno di anatema,
manifestazione di una colpa atavica e marchio d’infamia. Giallongo
ricorda giustamente che l’impurità della donna mestruata era
codificata nel Levitico: le donne mestruate dovevano rimanere
segregate per sette giorni, evitando ogni contatto con uomini,
oggetti di qualsiasi genere, edifici sacri; infine dovevano purificarsi
con un bagno (Levitico, 15, 1-15; 19-30). Anche Plinio aveva messo
in guardia dalla tossicità del flusso, che si trasmetteva alla natura
intera, compresi animali e persone, mediante il contatto, l’aria e lo
sguardo. L’idea dell’impurità della donna mestruata era presente
anche in molte civiltà precristiane.
La distinzione tra puro e impuro, la delimitazione e il
controllo delle impurità sono una preoccupazione presente in tutte
le società primitive, sono stati esaminati a fondo dall’opera di Mary
Douglas: Purezza e pericolo: un’analisi dei concetti di
contaminazione e tabù, 1966, trad. it., 1975. I Padri della Chiesa
esortarono le donne con il ciclo a non prendere la comunione e
condannarono i rapporti sessuali durante le mestruazioni come una
perversione; Burcardo di Worms, nel suo Decretum (1008-1012)
aveva incluso questa trasgressione tra i peccati mortali, avvertendo
che i bambini concepiti durante le regole sarebbero stati deformi (p.
199). Quindi la proibizione di avere rapporti durante il flusso
mensile non era dovuta all’obbligo di mantenere il rapporto aperto
alla procreazione. Si credeva che il flusso non interrompesse la
capacità della donna di rimanere incinta. E fino a pochi decenni fa i
figli nati con qualche difetto congenito erano tenuto nascosti in casa
dai genitori che evitavano così di mostrare alla luce del sole quello
che l’opinione pubblica e loro stessi consideravano il frutto di un
peccato. Tutti i nati con difetti evidenti dalla nascita erano a rischio
di perdere la vita e l’anima. La teoria secondo la quale la vita di
questi infelici era stata soffocata da un quid ripugnante, già
presente in Girolamo, riappare nello Speculum naturalis (XXX, I,
54) di Vincent de Beauvais e nel De secretis mulierum dello
pseudo-Alberto Magno. «Qui si ripeteva, scrive Giallongo, ormai
per necessità di attaccamento ai luoghi comuni, che i capelli di una
donna mestruata piantati in terra contenessero un seme che
avrebbe generato durante la stagione estiva serpenti e specie simili;
e che gli effetti velenosi del sangue mestruale ricadevano sui
bambini. In modo particolare, gli sguardi delle donne in
menopausa, cariche in eccesso di umori infetti, intossicavano i
poppanti» (p. 200). «Nel XIV secolo il chirurgo francese Guy de
Chauliac credeva, come altri medici, che la peste si trasmettesse con
lo sguardo e che i fumi del sangue mestruale si infiltrassero con
successo fra gli agenti mortali» (p. 201). Si assiste quindi a un
regresso della scienza medica, che con gli ippocratici aveva indicato
nel flusso mestruale un rimedio e una prevenzione delle malattie a
beneficio della donna. Ma già Aristotele nel De generatione
animalium (1, 19, 1-20) aveva equiparato il sangue mestruale a una
versione sterile del liquido seminale maschile, seguendo il criterio
di base per cui la donna è un uomo immaturo e imperfetto. E la
teoria aristotelica influenzava certamente Tommaso d’Aquino. «La
condivisa repulsione verso la donna mestruata faceva parte di un
complesso sistema interessato a sorvegliare i valori, a disciplinare
condotte, a proclamare verità e a fornire, all’occorrenza, capri
espiatori. La paura generata dal sangue mestruale fece affiorare
teorie educative basate su un rigido controllo visivo, giustificato da
preoccupazioni religiose (ben espresse dal IX canto dell’Inferno,
dove Dante, se avesse incrociato lo sguardo di Medusa, avrebbe
perduto per sempre la vitalità spirituale) e mediche» (p. 202).
L’opera Placides et Timeo, che ebbe ben 13 ristampe prima
del 1598, è un dialogo di educazione all’attività politica, destinato
quindi a coloro che dovranno esercitare il potere (Placides è figlio di
un piccolo re). Timéo è il maestro che accoglie individui sanguigni,
flegmatici, collerici e melanconici. Se il temperamento collerico di
Placides poteva essere temperato e migliorato con l’insegnamento,
quello melanconico del figlio dell’imperatore era tale “per natura e
malattia”, avendo un legame troppo stretto con il freddo
irrimediabile e si doveva quindi lasciare al suo destino (p. 208). Il
calore era una qualità maschile, associata alla vita, mentre il freddo
era femminile e associato alla morte. Ambroise Paré (1510-1590),
anatomista e padre della chirurgia francese, relegava l’uomo
flegmatico alla categoria del freddo e lo condannava a una vita
maledetta ossessionata dalla visione di serpenti, sepolcri e cadaveri
(p. 209). Nella donna quindi si fiutava, oltre al peccato, anche la
malattia. Come osserva Giallongo, «Ippocrate aveva introdotto la
falsa idea che il ciclo fosse una sorta di evacuazione di umori cattivi.
E il senso di paura e di sgomento maschili, accumulatosi nei secoli,
faceva avvertire in quel ciclico sgocciolamento rossastro una
sinistra e micidiale minaccia messa in atto da un organismo
assuefatto al velenoso prodotto del proprio corpo» (p. 210).
L’idea che la donna fosse immune al veleno che il suo stesso
corpo produceva, unita all’angoscia maschile nei confronti
dell’alterità femminile, fu all’origine, nel XIII secolo, del mito della
Pulzella velenosa. Accolto da Alberto Magno, che si rifaceva ad
Avicenna, da Tommaso d’Aquino e dall’autore anonimo di Placides
et Timeo, il mito della Pulzella velenosa si può riassumere nel modo
seguente. Un re indiano che voleva togliere di mezzo Alessandro
Magno, fece allevare in segreto una fanciulla avvenente
alimentandola con sostanze tossiche, così che alla fine la Pulzella
corrompeva l’aria con il respiro e uccideva gli animali al solo
contatto. Alessandro viene ridestato ad avventure amorose dalla
bella ragazza, ma Aristotele, travestito da chierico di corte e
Socrate, suo maestro, smorzano immediatamente la passione di
Alessandro per salvargli la vita. Fanno chiamare due servi e
ordinano loro di abbracciare la Pulzella, con esito letale all’istante
per entrambi. Non solo, fanno venire anche cani e cavalli, che
muoiono non appena sono toccati dalla Pulzella. Solo dopo queste
prove eloquentissime, Alessandro si convince a desistere dai suoi
approcci erotici (p. 210-211). La finalità pedagogica di tale
invenzione era quella di far desistere gli uomini dall’aver rapporti
sessuali con una donna mestruata. Gli uomini dovevano apprendere
una serie di segreti, se non volevano perdere il fiato, la giovinezza,
le forze, la vita stessa. La storia della Pulzella velenosa rafforzò la
credenza che collegava strettamente la donna e il serpente. Come
dimostrano le ricerche di C. Thomasset, si diffusero diverse versioni
della storia. «In una delle versioni italiane, la ragazza mangiava fin
dalla nascita soltanto serpenti e pesci; in un’altra, veniva allevata da
un serpente “con quelli elementi” con i quali “nutricava altri
serpenti”, per questo motivo “non parlava ma come serpente
zufolava”. Pertanto, secondo uno dei migliori ragionamenti, messo
in bocca ad Aristotele, la Pulzella, per gli “atti e reggimento da
serpente”, avrebbe avvelenato chiunque avesse tentato di
accoppiarsi con lei. Infine, non è irrilevante il fatto che in una
versione francese, un’altra appestata venisse sbrigativamente
liquidata come Lamia o Vampira» (p. 213).
Nell’iconografia dell’epoca il mestruo era rappresentato
mettendo in bella evidenza serpenti di diverse forme e colori
oppure rettili umanoidi con cui le Eve scambiavano quattro
chiacchiere oppure Melusine che esibivano dalla vita in giù, nella
vasca da bagno, pesanti squame verdastre (per poi fuggire dalla
finestra trasformandosi direttamente in draghi (rettili alati, simboli
del demonio e del veleno); sguardi di Basilischi simili agli occhi
mortali della Medusa dantesca; oppure donne allo specchio. Lo
specchio, già usato efficacemente da Perseo contro Medusa,
ricompare nelle storie del Basilisco con la stessa funzione. «Lo
specchio-arma o trappola insinuava i poteri letali, attribuiti
alternativamente alla donna serpente, al Basilisco e, per proprietà
transitiva, alla donna mestruata e a quella in menopausa. Alludeva
quindi alla morte, alla malattia, al veleno, guadagnandosi così la
possibilità di consorziarsi ai pericoli provocati dal sangue
mestruale» (pp. 217-218). Aristotele nel testo Sui sogni aveva
insegnato che le donne emanavano fluidi velenosi che opacizzavano
gli specchi, le donne rovinavano gli specchi con lo sguardo. Se uno
specchio era danneggiato seriamente dallo sguardo femminile, a
maggior ragione gli esseri umani potevano subire la stessa sorte.
Giallongo cita due esempi di dipinti che rispecchiano questa
mentalità: Bosch, Il giardino delle delizie, 1505; Giotto, Cappella
degli Scrovegni, (1303-1305), l’Invidia rappresentata come vecchia
repellente. La sequenza di rimandi simbolici era la seguente:
Sangue delle donne, mestruo, occhi, sguardo, specchi, insidia
femminile, veleno, serpente, pericolo per gli uomini, conseguenze
mortali. La donna, velenosa per natura, poteva quindi essere
associata allo specchio, al serpente e rifuggita o temuta o
combattuta aspramente per difendersi dalla minaccia permanente
che rappresentava. Non è un caso che le Sirene con la coda di pesce
a mo’ di serpente, fossero spesso ritratte con uno specchio in mano
(p. 221).
Dunque: donna, sangue (mestruale, ma non
necessariamente), veleno, serpente, specchio, sguardo letale, morte.
La donna, procreatrice e principio di vita, diveniva sinonimo di
morte. La donna non è associata alla vita ma alla morte. La
rimozione del femminile non poteva essere più completa, la
falsificazione della natura delle cose non avrebbe potuto essere più
malefica e insidiosa per gli effetti sull’educazione delle generazioni
che si susseguivano. Educazione che ricorreva a mezzi iconografici
potentemente persuasivi, come affreschi e dipinti. E suggeriva che il
solo rimedio per difendersi dall’insidia velenosa della serpentina
Pulzella fosse quello di decapitarla come Medusa e bruciarla sul
rogo.
Il Medioevo è epoca di esclusione dell’alterità. L’alterità
femminile è in primo piano, ma non è la sola. La letteratura
didattica e l’iconografia popolare mostrano che «fra i dispositivi
usati per identificare e denigrare le figure da emarginare –
contadini, ebrei, musulmani, neri, eretici, lebbrosi, menomati fisici,
giocatori d’azzardo, giullari e prostitute – erano preferiti, per la loro
forza espressiva, i criteri fisici, i comportamenti e i gesti» (p. 224).
Le donne, che non potevano insegnare né governare, erano il nero
rispetto al bianco del maschile. Temibile come un’insidia
permanente, priva di un raziocinio indipendente, la femmina stava
al maschio come il corpo all’anima, le passioni alla guida razionale.
L’uomo viveva dunque un’autoestraneazione nelle due figure
contrapposte, femminile e maschile. Di qui la malafede maschile di
attribuire all’alterità femminile tutto ciò che di cieco, ingovernabile,
irrazionale, malefico e distruttivo il maschio riscontrava in se
stesso. La causa di ogni stortura, deviazione, smarrimento, peccato
era sempre la donna, era sempre qualcosa di esterno che il maschio
era costretto a subire, da cui quindi doveva guardarsi e che perciò
doveva soffocare o distruggere non appena gli fosse stato possibile
o, in ogni caso, tenere sotto stretta sorveglianza. Il regime e
l’istituzione della separazione tra i sessi presenta un’infinità di
esempi e circostanze e attraversa i secoli fino al secolo XX. I trattati
dell’amor cortese furono presto colpiti da una reazione repressiva
della feudalità e della Chiesa. Lo sguardo tra un uomo e una donna
fomentava la passione amorosa e generava l’intesa emotiva. Dalla
gioia di guardarsi negli occhi partiva la relazione amorosa. Di qui la
preoccupazione ossessiva per il controllo e la disciplina dello
sguardo femminile: la donna, amata e lodata da chi ne era
innamorato, rimaneva agli occhi del potere maschile e dell’ideologia
dominante la Gorgone pericolosa, la Pulzella velenosa, il serpente
letale da cui i maschi avrebbero dovuto guardarsi.
L’innamoramento era guardato con sospetto, come una pericolosa
sottomissione e un abbandono ai poteri malefici della femmina, una
condizione che toglieva al maschio le difese naturali, destinandolo a
sicura rovina. I predicatori francescani e domenicani a partire dal
XIII secolo furono chiari ed espliciti: alle donne era proibito
qualsiasi contatto con i maschi. La proibizione riguardava anche
sguardi e sorrisi ed era la conseguenza della condanna dell’amor
cortese per eresia (pp. 229-230). Tra gli altri numerosi esempi,
anche nel Bestiario d’amore di Richard de Fournival (1201-1260)
compare la circostanza per cui l’uomo è preso per gli occhi e l’amore
nasce allo stesso modo in cui un animale è catturato nella rete.
L’uomo s’innamora a causa dello sguardo e perde l’intelletto. La
paura del potere distruttivo dello sguardo femminile, l’occhiata
insistente e ripetuta che, insieme alla voce, fa dell’uomo un
inconsapevole prigioniero che si illude di aver messo le ali e di
essere entrato in una specie di paradiso. Nasceva tuttavia il
dilemma tra la rinuncia alla conoscenza (con la perdita
dell’intelletto quale conseguenza dell’amore) e la rinuncia alla
passione amorosa per conseguire la conoscenza e la sapienza. «Fra
le inquiete perplessità di Fournival, combattuto fra il funerale della
ragione e la perdita, altrettanto irreparabile, dell’amore, influiva
anche l’avvilente dubbio sull’estrema pericolosità dell’occhiata
femminile, in cui si celava per potenza di casualità “quella natura di
serpente” che avrebbe avvelenato la sete di conoscenza» (p. 233).
Il trattatello di Walter Map Dissuasio Valerii ad Ruffinum
philosophum ne uxorem ducat (1180) indicava la via per
mantenersi immuni e indenni dall’influenza femminile, in perfetto
allineamento con la misoginia secolare. Map spiegava che l’uomo
avrebbe perduta la sua identità, la sua sofferenza e delusione
sarebbero stati indicibili se avesse consentito alla donna di
ammaliarlo con i suoi incantesimi. Piuttosto che cedere alla
tentazione della donna che lo avrebbe «morso come un serpente,
lasciando una ferita refrattaria a qualunque antidoto» (p. 235), Map
dichiarava preferibile per il maschio appartenere a se stesso e non a
una femmina. Anche in Jean de Meun (Le Roman de la Rose) la
misoginia celebra uno dei suoi vertici più alti. Il carattere
misterioso della natura femminile non era altro che la sua ottusa
natura di rettile, animale inferiore, emotivo e iracondo. L’uomo
doveva guardarsi quindi da un essere così collerico e malizioso. «La
donna era identica al serpente che si nascondeva nell’erba per
aggredire meglio l’uomo con il suo veleno. Serpente, diavolo,
donna, per farla breve, erano la stessa persona. Furono queste le
immagini violente che conquistarono, istruirono e puntarono
l’indice accusatorio contro il mondo straniero delle figlie di Eva» (p.
237). L’innamoramento come avvelenamento, l’amore come veleno.
La donna era rappresentata come subdola, sleale, maligna,
lussuriosa, dominata dalla passione e fomentatrice di passione,
calcolatrice, avida e senza scrupoli. L’uomo che sceglieva di sposarsi
avrebbe dovuto quanto meno assicurarsi che la futura consorte
fosse pura e monda, nei limiti consentiti a un essere femminile,
quindi vergine.
Giallongo ricorda tre donne intellettuali e scrittrici, che hanno
cercato di superare in qualche modo la sfortuna di essere nate
donne: Ildegarda di Bingen, Trotula de Ruggiero e Christine de
Pizan. Ildegarda di Bingen nel suo Liber vitae meritorum confutava
la pseudoscienza dell’epoca sulla natura femminile: mostrava che le
donne erano risparmiate da alcune malattie proprio grazie alle
mestruazioni con cui eliminavano le sostanze nocive; erano meno
impulsive degli uomini; e la loro sessualità le rendeva simili al sole
che irraggia stabilmente, a differenza degli uomini che bruciavano
come fuoco ardente (p. 243). Con le sue visioni «Ildegarda coltivava
arditamente il desiderio di ricondurre le donne al divino e il
progetto di godere della loro compagnia spirituale» (p. 244). Tutte e
tre combatterono strenuamente le menzogne sulle donne riprodotte
nei secoli, compresa l’identificazione della femmina con il serpente
e il demonio.

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Giallongo cita un breve scritto di Freud sulla Testa della Medusa


(1922) in cui la decapitazione del Caravaggio è illustrata come
espressione dell’angoscia maschile di castrazione. Il passo di Freud
(La testa di Medusa, in S. Freud, Opere, Boringhieri, Torino 1980,
vol. IX, pp. 415 segg.) è esplicito: «Il terrore della Medusa è il
terrore della decapitazione legato alla vista di qualcosa. Da
numerose analisi sappiamo che il bambino di fronte al genitale
femminile crede alla minaccia di evirazione. I serpenti sostitutivi
del pene acuiscono l’orrore della mancanza. I greci, fortemente
omosessuali, hanno incoraggiato la raffigurazione delle donne-
mostro a causa della loro evirazione» (p. 271). Freud si allinea alla
tradizione umanista evocando il disgusto e la ripugnanza alla vista
del sesso femminile, concepito come il risultato di una
decapitazione. Il serpente rappresentava per Freud la privazione del
pene femminile provocando sorpresa e turbamento infantili sul
membro perduto dell’altro sesso. Giallongo richiama a questo
proposito l’osservazione dello psicostorico israeliano Iacov Levi,
secondo il quale «per Freud il serpente era uno dei simboli fallici
meno studiato e i serpenti sulla testa di Medusa sostituivano il pene
femminile, non quello maschile. Insomma, il significato del
serpente come simbolo fallico femminile sarebbe divenuto più
chiaro se si fosse semplicemente preso in considerazione il fatto
che, in molte mitologie, il rettile era stato sempre associato alle dee
e non agli dèi o agli eroi» (p. 272).
Anche Sándor Ferenczi, in una breve memoria del 1923, Il
simbolismo della testa della Medusa, riprende l’impostazione
psicoanalitica: «La moltiplicazione dei serpenti sulla testa avrebbe
alluso proprio come rappresentazione del contrario alla perdita del
pene e l’orrore stesso sarebbe la ripetizione dell’impressione di
paura prodotta sul bambino dai genitali privi di pene (castrati). Gli
occhi angosciati e angosciosi sporgenti della Medusa alludevano
pertanto, come significato collaterale, all’erezione» (p. 273). Jung è
stato accusato di aver trasformato gli archetipi in verità eterne,
invece di concepirli come prodotti della loro epoca, di una certa
classe e di un genere, il maschile. «L’accusa, scrive Giallongo, è
quella di aver recepito come modello universale l’inconscio
collettivo maschile sulle donne espresso dalla cultura arcaica e
classica greca» (p. 273). La psicologa junghiana Jean S. Bolen (Le
dee dentro la donna. Una nuova psicologia femminile, Astrolabio
1991) ed Erich Neuman (La Grande Madre, Astrolabio 1980) si
sono opposti a questa interpretazione, utilizzando i modelli interni,
gli archetipi della mitologia greca come strumenti per comprendere
le diverse personalità femminili. A Julia Kristeva si deve una
rilettura del mito di Medusa: La testa senza il corpo. Il viso e
l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, Donzelli 2009.
L’ultimo secolo ha registrato l’apparizione di figure femminili
apparentate a Medusa come pericolose stimolatrici del desiderio
sessuale, assaltatrici capaci di affascinare e sottomettere i maschi ai
loro voleri (come nel film Basic Instinct di Paul Verhoeven).
Ritorna, temibile e incombente, la donna imperiosa, indipendente,
sicura di sé, sempre nel pieno controllo di se stessa, per la quale il
maschio prova un’oscura attrazione mescolata ad avversione, estasi
e frustrazione. Il legame tra mestruazioni e mostruosità sopravvive
nella saga Twilight della scrittrice americana Stephanie Meyer,
dove rivive la credenza, ancora nel XIX secolo, secondo la quale le
donne si trasformavano in vampiri per recuperare il sangue perduto
in seguito al ciclo mestruale. La donna insanguinata continua così,
come ai tempi del Levitico, ad essere assimilata a una minaccia, a
un incubo; il sangue mestruale continua a suscitare ribrezzo.
La donna mestruata ancora oggi è invitata a coprire i cattivi
odori del mestruo con ogni specie di deodoranti. Secondo Giallongo
la donna continua ad essere relegata nella sfera dell’animalità
repellente e contaminante, per l’odore disgustoso dei suoi fluidi
corporei, così disgustoso che la pubblicità e le confezioni dei
tamponi ricorrono al verde, blu e bianco, evitando rigorosamente il
rosso, che alluderebbe pericolosamente a un flusso che va
mantenuto clandestino (pp. 284-285). Ma, ci chiediamo, davvero
solo il maschio prova disgusto per il flusso mestruale? Se la donna è
un essere umano a tutti gli effetti, come è possibile che l’avversione
per le mestruazioni non sia presente anche nella donna? Non è
proprio questo un modo per affossare la donna in una dimensione
di pura corporeità animale, incapace di percepire le parti
maleodoranti di sé?
Giallongo scrive che il punto di vista dominante sulla donna è
quello del soggetto maschile, che costruisce in vari modi e ambiti
l’immagine della donna come altro. La donna, definita in termini
negativi solo in relazione all’uomo, vive in uno stato di
emarginazione, sempre sul punto di essere espulsa. L’alterità
femminile, scrive Giallongo citando Simone de Beauvoir, non è
costruita solo sulle mestruazioni: non sono le mestruazioni che
fanno della donna una figura dell’Altro, ma è la donna in quanto
Altro che fa delle mestruazioni un marchio di riconoscimento. «I
tolleranti messaggi sulla vergogna, sulla riservatezza, sulla sicurezza
dei tamponi e degli assorbenti in fin dei conti promettono, anche se
in apparenza rompono i tabù, di perpetuare il segreto, rendendo
eterno il gioco della gerarchia sessuale (…) Quindi, nonostante la
raffinata doratura sanitaria e medica, le mestruazioni non si sono
liberate del loro quid nauseabondo e ammorbante, che spesso
hanno condiviso con altri scherzi di natura» (pp. 285-286).
Lo studio di Giallongo mostra come durante il Medioevo «il
segno distintivo dei secreta mulierum era l’effetto velenoso,
contaminante del sangue mestruale» (p. 286), secondo una teoria
che risaliva all’epoca di Aristotele, Plinio il Vecchio, Galeno. La
donna, sia nella tradizione classica sia in quella biblica, continuava
a essere trattata come un essere pericoloso socialmente perché
impuro. La storia di Eva consentiva di assimilare la donna al
serpente, rafforzando la misoginia imperante. La donna non è mai
stata componente a pieno titolo della società, ma le era riconosciuta
un’esistenza relativa, appunto come Altro. Le mestruazioni erano
considerate la prova del carattere impuro e velenoso del sangue
femminile e quindi dell’anomalia congenita della donna in quanto
tale, che era così identificata con i mostri in un quadro teratologico
elaborato mediante l’indicazione sempre più scoperta della sua
parentela con il serpente: la donna era un serpente dal sangue
impuro e velenoso, un mostro che poteva assumere innumerevoli
varianti. La donna poteva uccidere con lo sguardo, come fosse una
Medusa, poiché gli occhi della donna mestruata emanavano vapori
corrosivi che avvelenavano l’aria circostante, come dimostrava,
secondo la tradizione aristotelica, l’effetto di opacizzazione che lo
sguardo femminile produceva ai danni degli specchi. Quelle
evidenze sembravano tali da autorizzare i maschi a prendere misure
severe per proteggersi dalla potenza dello sguardo femminile; la
donna veniva così tenuta in quarantena permanente, controllata,
aborrita ed esclusa dalle attività della polis. Nessun rapporto era
quindi ammesso con la donna mestruata. «Nell’immenso serbatoio
della civilizzazione occidentale, il potente controllo sullo sguardo,
ora per evitarne il potere pietrificante, ora per farlo rivolgere
umilmente verso il basso, servì a giustificare la gerarchia tra i sessi.
La negativa predominanza simbolica della donna serpente,
funzionale alla rappresentazione dell’alterità, rientra quindi nei
ritmi di questo processo storico» (p. 294). Giallongo auspica che
possa riprendere il progetto di ribellione alla vergogna e
all’infelicità cui la donna è stata destinata per secoli. Riprendendo
l’opera di Christine de Pizan, la donna oggi può decostruire
l’immagine della Medusa, restituendole una bellezza nuova, piena
di effetti positivi e carica di slanci vitali. Per Christine de Pizan
Medusa era stata «un simbolo luminoso, sereno, liberatorio,
salutare. Qui sta il valore del pensiero sognante della de Pizan, che
inseguì per sé e per le altre un sentimento diffuso di armonica gioia
di vivere» (p. 295).

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Un aspetto non trascurabile è il ruolo che la donna ha avuto nel


creare l’immagine delle mestruazioni come di un segno di
fallimento: il ciclo interviene a denunciare, fisiologicamente,
l’assenza di fecondazione e gravidanza, vale a dire la mancanza di
ciò che, per la donna, rappresenta il completamento, l’espressione
della massima perfezione della sua natura. È un aspetto che sfugge
completamente a Giallongo e al femminismo in genere. La donna
prova un primordiale e intrinseco, si può dire, senso di colpa ogni
volta che subisce il flusso mestruale, a conclusione della periodica
fase di ovulazione che non ha dato luogo al concepimento. Molte
depressioni femminili concomitanti al flusso mestruale sono
evidentemente una risposta inconscia e profonda, transtoricamente
significativa, al mancato concepimento. Quindi in parte la
condanna maschile della donna mestruata può discendere dal fatto
che il maschio accoglie la svalutazione che la donna vive di se
stessa. Le mestruazioni come sinonimo di sterilità e morte, sono
state e continuano ad essere un incubo in primo luogo per la donna.
La messa in guardia dall’aver rapporti sessuali con una donna
mestruata, rafforzata dalla prospettazione del rischio di morire, è
un’elaborazione del disgusto femminile, recepito dal maschio, per
un accoppiamento senza speranza di concepimento. Bisogna capire
se l’orrore per le mestruazioni non sia stato una costante in tutte le
epoche dell’umanità, paleolitico compreso. Se questa
considerazione non è priva di fondamento, allora si dovrà riscrivere
la storia della donna serpente evitando di fare della figura
femminile la sola vittima e del maschio il solo carnefice
responsabile della brutale deformazione, demonizzazione e messa
al bando, che la donna ha indubbiamente subito nel corso dei
secoli.

1 giugno 2014

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