La donna serpente. Storie di un enigma dall’antichità al XXI secolo, edizioni Dedalo, Bari 2012
di Claudio Tugnoli
Le Gorgoni devono la loro popolarità all’aspetto di mostri orribili.
Comparvero nell’arte greca dopo il periodo geometrico, in età arcaica, come personificazioni di esseri terrificanti, risultato di incroci di diverse specie animali, come i corrispondenti mostri al maschile (Centauri, Ciclopi). Giallongo cita lo Scudo di Eracle, un’opera epica composta in periodo successivo a Esiodo, probabilmente nel 555 a.C., dove le Gorgoni sono ritratte mentre inseguono Perseo, in seguito alla decapitazione della sorella. «Nella Grecia arcaica (VIII-VI secolo a.C.) il gorgoneion era una testa di pietra che riproduceva spesso con serpenti la faccia della Gorgone; una sorta di stratagemma ora decorativo ora apotropaico. Originariamente, come ha ipotizzato Jane Ellen Harrison agli inizi del secolo scorso, impersonava l’aspetto mortale del ciclo della Grande Dea Madre, venerata in Nord Africa» (p. 19). Marija Gimbutas avrebbe poi scoperto altri significati nei vasi antropomorfici, nelle sculture e nelle maschere di terracotta, a testimoniare il culto della Dea nell’Europa neolitica (7.000-3.000 a.C.). Il mito ateniese in cui Perseo distrugge una Gorgone svolgeva il compito educativo di incitare il cuore e la mente dei maschi a sconfiggere i mostri della sessualità, in un’epoca in cui il controllo della società era passato di mano ai maschi; tutti i simboli del femminile dovevano essere messi al bando, calpestati, demonizzati e manipolati per renderli utilizzabili sul fronte del rafforzamento dell’ideologia androcratica. In sostanza tagliare la testa della Gorgone significava sconfiggere la sessualità e il potere femminile, per dare spazio a un sistema alternativo, basato sul predominio maschile. Nei miti che segnano il passaggio dall’ideologia femminile a quella maschile, al mostro femminile si contrappone l’eroe maschile, in un confronto che segna sempre il trionfo dell’eroe, come Ercole che, dopo essersi esercitato da bambino a strozzare serpenti, aveva fatto fuori mostri orribili come l’Idra di Lerna. I mostri femminili, le Gorgoni in particolare, personificavano l’odiata Dea, la cui messa al bando era significata dalla sua uccisione. Le Gorgoni, che Esiodo nella Teogonia riconduce a tre (Steno, Euriale e Medusa), erano l’epifania della Grande Dea. In Omero la Gorgone appare per la prima volta in testimonianze scritte sotto forma di mostro femminile con serpenti al posto dei capelli. Raffigurata sugli scudi di Atena e di Agamennone nell’Iliade, Medusa aveva una funzione apotropaica: «La sua immagine, originariamente usata nel mondo greco arcaico come maschera rituale, con lingua penzolante, con occhi roteanti, con zanne da cinghiale curvate e appuntite, risvegliava i tormenti della paura e toglieva il respiro» (p. 27). Giallongo attribuisce a Esiodo un’importante funzione, quella di aver diffuso con i suoi versi una malevola e definitiva svalutazione della donna: Perseo taglia la testa di Medusa, Zeus manda agli uomini Pandora, bellissima e pericolosa portatrice del vaso contenente tutti i mali. I contadini della Beozia avrebbero poi insegnato ai propri figli che «la donna era lo strumento dell’infelicità umana e che anche le belle dee, che concedevano favori e doni, non avevano niente di desiderabile né di prezioso» (p. 28). Sorgeva così l’opposizione di maschile e femminile, accompagnata dalla sfiducia nel valore femminile. La descrizione delle Gorgoni come mostri rivoltanti sarebbe rimbalzata da un autore all’altro, confermando i tratti ripugnanti delle donne in generale attraverso la rappresentazione delle figure mitologiche riconosciute. Le relazioni omoerotiche tra dei ed eroi sono unilateralmente maschili: «L’immaginario collettivo dorico non offrì infatti all’uditorio femminile racconti paralleli a quelli consacrati alle storie di dèi che si innamorano di giovani coppieri» (p. 31). La comunità della poetessa Saffo non ha mai goduto della stessa considerazione di quelle maschili. La paideia si basava sulla convinzione che una formazione elevata fosse possibile solo sui campi di battaglia, nelle palestre e nelle scuole dei filosofi, luoghi dove le esortazioni erotiche da maschio adulto a giovinetto consolidavano l’idea della superiorità del sesso maschile. Il termine “eros” nei testi dell’epoca classica era quasi sempre usato per descrivere il rapporto omoerotico (R. Flacelière, citato a p. 32-33). Tutta la cultura greca, nel senso più ampio del termine, si basava sul modello androcratico, in cui l’elemento femminile era declassato, marginalizzato e rappresentato nella forma negativa del femminino come orribile, spaventoso, patologico. La cultura della dea subiva così una brutale manomissione e trasformazione: i suoi contrassegni divenivano l’immorale lascivia, la turbolenza caotica, la pericolosa arte magica, il raggiro, la menzogna. La donna veniva quindi coerentemente esclusa dalla politica e dall’educazione dei cittadini. Per i greci l’offesa peggiore era essere paragonati a una donna. La Gorgone incarnava la ripugnanza che ispirava l’elemento femminile a una civiltà che si era sovrapposta alla civiltà della Dea con l’intenzione di dominarla, asservirla, occultarla, mediante esercizi di negazione e ricostruzioni manipolatorie dei miti dell’Europa antica, utili a giustificare la sottomissione del femminile. Robert Graves, sulle orme di James Frazer, ha visto l’origine della Gorgone nella dea serpente, ampiamente trattata da Marjia Gimbutas, nella Libia delle Amazzoni. La dea serpente era simbolo della saggezza femminile, che concatenava vita, morte e rinascita. Il giudaismo attribuisce a una divinità maschile gli attributi della Dea: divino è tutto ciò che è stato, che è e che sarà. Giallongo ricorda che Frazer ha affrontato il tema della Medusa velata. L’autore del Ramo d’oro l’ha trattata come prototipo della rappresentazione del tempo, con particolare riferimento al futuro e alla morte: «Nessun essere umano avrebbe potuto sollevare il velo che la copriva, perché guardarla in faccia significava essere trasformati in pietra, cioè in statua funeraria. L’uso di velare il volto, soprattutto nei paesi africani da cui proveniva il mito di Medusa, era segno sia di sovranità sacrale sia del tabù che vietava di mostrare la faccia per impedire che le cattive influenze entrassero o uscissero, a seconda dei casi e delle persone, nel o dal corpo» (p. 35). Secondo Frazer la favola del giovane privo di mezzi che cerca fortuna e alla fine conquista, con la figlia del re di un paese lontano, anche la metà del regno, è la sopravvivenza di una reale consuetudine greco-latina, che a sua volta aveva il suo prototipo nell’avventura di Perseo. Nella versione data nei Mythologiarum libri tres di Fabio Planciade Fulgenzio (VI secolo d.C.), il re Forcide aveva lasciato alle tre figlie ogni suo avere; Medusa era diventata la più potente e avveduta nell’arte di coltivare la terra. “Gorgo” e “georgico” contenevano il riferimento letterale all’agricoltura. Fulgenzio descrive Perseo come un avventuriero senza scrupoli, pronto a uccidere Medusa per impadronirsi di tutte le sue sostanze (pp. 37-38). Le mestruazioni non sono mai chiamate con il loro nome, sono immonde, innominabili. Sulle orme di Chris Knight, Giallongo sostiene che nel processo evolutivo, una vera e propria rivoluzione umana, che ha avuto inizio alcun decine di migliaia di anni fa, la donna ha svolto un ruolo di primo piano guidando l’interazione del gruppo femminile con quello maschile. A tale scopo le donne si tinteggiavano il corpo di rosso. Le Veneri del paleolitico superiore colorate di rosso ocra dimostrano, secondo Giallongo, che «il ruolo direttivo svolto dalle donne nell’evoluzione umana, che si è espressa in una lunga e complessa sequenza – in un periodo valutato dai 100.000 ai 300.000 anni – è stato localizzato nella valenza simbolica assegnata all’informe fenomeno fisiologico del ciclo: la tinteggiatura in rosso sul corpo e sul viso esprimeva il desiderio di trasformare il flusso in un emblema pubblico carico di molteplici messaggi» (p. 44). Più precisamente, «le interpretazioni archeologiche sulle rosseggianti pitture rupestri e sulle cinquecento statuette femminili dell’Europa paleolitica suggeriscono che le donne erano pensate partenogenetiche e che il rosso come colore della vita si imprimeva nel programma culturale di quelle particolari società. Nelle tradizioni dell’Europa antica, rintracciate dagli archeologi, in particolare dalla Gimbutas, le mestruazioni erano apprezzate come il simbolo potente e sacro della creazione» (p. 45). Il sangue aveva un potere magico e un ruolo nell’esercizio del potere delle donne e nell’influenza che hanno esercitato sulla nascita della cultura, mediante le interdizioni e la programmazione della condotta sessuale imposte ai partner maschili. Sessualità, fertilità, procreazione, cicli fisiologici, mestruali e lunari: tutti ambiti gestiti dalle donne, che hanno guidato la transizione dal mondo dei primati a quello umano, come scrive Giallongo in accordo con la tesi di Knight. Bisogna quindi abbandonare la tesi tradizionale per cui le donne del Paleolitico sono oggetti e strumenti delle forze e spinte pulsionali maschili e sostituirla con l’indicazione dell’autonomia e della capacità della donna di essere protagonista, come dimostra l’uso dirompente e di grande effetto delle rosseggianti pitture corporee esibite con il loro stesso sangue. Il rosso evoca il sangue mestruale, simbolo del potere femminile, messo al bando, oscurato dalla cultura maschile. La Madonna nella pittura rinascimentale è spesso ritratta in abiti color rosso fiammante, ma nell’Ottocento le autorità ecclesiastiche fissarono come colori del divino femminile il bianco e l’azzurro, chiaro segno del fatto che ai loro occhi il rosso evocava direttamente e pericolosamente il sangue mestruale, quindi la donna e il peccato che essa incarnava agli occhi dei maschi dominatori (p. 46). Oggi è ancora visibile la censura nei messaggi pubblicitari che mostrano tamponi mestruali macchiati di un liquido azzurrino, che allude, ma anche nega, la presenza di sangue rosso. Come interpretare l’aneddoto tramandato sul gesto di Ipazia che, per scoraggiare un allievo travolto da passione per lei, gli lanciò una pezza macchiata di sangue mestruale? A circa un secolo dalla morte della filosofa, Damascio riferiva nella Vita Isidori che Ipazia, in risposta alle dichiarazioni d’amore che le rivolgeva un allievo, gli aveva mostrato una pezza intrisa di sangue mestruale accompagnando il gesto con le parole: «Questo, dunque, ami, o giovane, niente di bello» (p. 50). L’episodio sarebbe stato ripreso da Alejandro Amenábar, regista del film Agorà (2009), interamente dedicato alla vita di Ipazia e al contesto sociale e culturale in cui maturò il suo linciaggio. Giallongo suggerisce che Ipazia con quel gesto abbia voluto comunicare iconicamente il suo rifiuto del matrimonio e della maternità, coerentemente perseguito allo scopo di dedicare tutto il tempo allo studio e al sapere. Il gesto inoltre, con il riferimento alle mestruazioni, di cui la cultura maschile temeva ed evitava la vista e il contatto, era un modo perentorio e di sicura efficacia di togliersi di torno il giovanotto. Più in generale, Ipazia cercava di distogliere lo sguardo del discepolo dal proprio corpo, di cui gli mostrava quale aspetto rivoltante il sangue mestruale, per reindirizzarlo alla sua intelligenza e al sapere, degni di esseri coltivati e non caduchi. L’aneddoto illustra con efficacia visiva la stessa filosofia neoplatonica, basata sul dualismo di materiale e immateriale, di corpo e intelligenza, molteplicità e unità. Il gesto di Ipazia contiene una pluralità di allusioni e significati, ma rivela anche una specie di conversione della filosofa alla mentalità maschilista del suo tempo. Ipazia trae dall’universo maschile l’idea dell’incompatibilità tra la conquista del sapere e la vita matrimoniale; si dedica unilateralmente al sapere e all’insegnamento ispirandosi al modello maschile, in base al quale la donna è un inciampo e un ostacolo al perseguimento dell’eccellenza nel sapere e in ogni campo della cultura e dell’arte. In Ipazia non parla la cultura della Dea, per la quale non esiste alcuna incompatibilità tra i diversi obiettivi degni di essere perseguiti da una donna, come la maternità accanto allo sviluppo del sapere. In seguito alla soppressione dei culti femminili ad opera della cultura androcratica, tutti i simboli femminili furono manipolati allo scopo di farli diventare sinonimi dell’abominevole, del disgustoso, del mostruoso e terrificante. Nei miti greci i mostri hanno per lo più corpo di donna, come ad esempio: Sirene, Sfingi, Scille, Chimere, Gorgoni. I culti femminili avevano spesso ritratto le divinità sotto forma di occhi tondeggianti. Le scoperte archeologiche relative alla preistoria illustrano il nesso tra il culto dell’occhio e le dee della morte e della rinascita. «L’occhio era l’allegoria della vulva della dea, seguiva la traiettoria simbolica della capacità generativa» (p. 58). Per Tracy Boyd la correlazione tra occhio e vulva esprimeva il concetto che molte donne erano le custodi della fascinazione. Giallongo segnala l’importante lavoro dell’archeologo Waldemar Deonna, pubblicato postumo nel 1965 e apparso in traduzione italiana presso Boringhieri nel 2008 (Il simbolismo dell’occhio). Deonna esamina le molteplici e pervasive rappresentazioni dell’occhio in diverse religioni e tradizioni popolari, nella cultura greco-latina. L’occhio è divenuto il più prezioso dei sensi, quello che ha dato luogo alla civiltà umana. I primi tabù visivi secondo Deonna sono: il sangue mestruale, la vista degli stranieri e lo sguardo malevolo. L’occhio irato della Gorgone è divenuto nella società androcratica uno strumento di controllo sulle donne, dal momento che si elaborano istruzioni rivolte alle donne per vietare loro di fissare gli uomini con lo sguardo. La connessione tra sguardo che uccide e donna mestruata è stata percepita come un gravissimo pericolo dalle culture ginofobiche del Mediterraneo, legittimata dalla spiegazione magica e fisiologica del trattato Sui sogni attribuito ad Aristotele. Lo sguardo che uccide allude al potere dell’occhio femminile di soggiogare l’uomo e di incantarlo in una sorta di stupore immobile. La cultura androcratica capovolge in segno negativo i simboli dei culti femminili e li trasforma in elementi letali per il maschio, che aspira ad affermare la pienezza del dominio maschile sulla femmina. Lo sguardo della Gorgone era letale nel senso dei due genitivi, soggettivo e oggettivo: era vietato sia guardarla che esserne guardati. Tale doppia distruttività della Gorgone veniva esaltata, nel corso del Medioevo, dal leggendario Basilisco, il “re dei serpenti” secondo Plinio il Vecchio (Historia naturalis, VIII, 24, 70-80; VII, 65), che secondo altri miti era sorto dal sangue fuoriuscito dalla testa della Gorgone decapitata da Perseo. Nel Basilisco trovava sintesi compiuta la riunione di elementi disparati: l’influenza pericolosa del sangue mestruale, gli effetti letali di un’occhiata che esercitava un effetto immobilizzante pari a quello provocato dal veleno delle vipere. «Medusa è stata travestita dalla civiltà greca in un avvilente, inquietante mostro dello sguardo» (p. 60). In accordo con il risultato della ricerca di Gimbutas, Giallongo spiega che il serpente, venerato come animale sacro nella cultura della Dea del paleolitico e del neolitico, dopo il predominio conseguito dalla civiltà opposta divenne temibile, inviso, pericoloso, una creatura da cui ci si doveva guardare. In Europa sopravvivono casi isolati di culto del serpente (p. 61), che in epoca classica fu mandato in esilio agli Inferi. La presenza insistente del serpente a Creta nel periodo 1900-1400 a.C. ha un significato che Christopher Witcombe ha cercato di esplorare: il fatto che il rettile, associato alle donne, fosse del tutto esente da connessioni negative incoraggia «a far corrispondere i vitali riti minoici alle mestruazioni, al concepimento e all’allattamento» (p. 65). Gli elementi della connessione, in seguito al cambio di civiltà, cambiano tutti di segno, da positivo a negativo. Le donne cretesi godevano di una posizione privilegiata nella religione, se non di dominio. Giallongo illustra l’esperienza pedagogica originale di François Fénelon, che compose nel 1694 Le avventure di Telemaco, in cui raccontava il seguito che immaginava avrebbe potuto avere il IV libro dell’Odissea, riferendo le vicende occorse a Telemaco alla ricerca del padre. Fénelon, precettore del dodicenne duca di Borgogna, impartiva lezioni politiche e morali con l’intenzione di istruire divertendo. Fénelon, nel IV libro delle Avventure di Telemaco, propone Creta quale modello di società antica giusta, pacifica, frugale; il modello cretese è agli antipodi rispetto alla società della sua epoca, quell’universo aristocratico fatuo e meschino, cartesiano e civilizzato (pp. 83-85). «Verso la fine delle sue avventure, scrive Giallongo, compaiono a Telemaco, disceso negli inferi alla ricerca del padre, i re condannati per aver abusato del loro potere» (p. 85). Fénelon aveva immaginato che le Furie, armate di specchi, piombassero sui re ingiusti e violenti, costringendoli a guardarsi allo specchio per cogliervi la degradazione del loro volto, i lineamenti resi turpi dalla malvagità. Telemaco vede attonito i volti dei grandi colpevoli, sconvolti dall’orrore che essi provano e dal rimorso che li perseguita implacabile; dilaniati e sottoposti a supplizio dalla loro stessa anima. Alle Furie era attribuito il ruolo di giustiziere, esecutrici della giustizia come vendetta. La fisiognomica deve la sua nascita presso i Greci e la sua fortuna all’idea che i tratti del volto indicassero l’indole della persona. La fisiognomica, ripresa ad Atene alla fine del V secolo a.C., risaliva al periodo paleobabilonese; essa era considerata una forma di sapere e al tempo stesso era praticata come arte magico- divinatoria. Secondo Giallongo è possibile individuare un’intima connessione tra 1) le teorie della visione, 2) la percezione del malocchio e 3) la fisiognomica nel mondo antico. 1) La teoria dominante sosteneva che gli occhi emettevano dei raggi sugli oggetti della visione. Gli occhi erano una specie di braciere che emanava effetti positivi o negativi sul mondo esterno – concezione, questa, che va d’accordo con la teoria di scuola aristotelica secondo la quale gli specchi delle donne mestruate erano offuscati, teoria ripresa in seguito da Plinio il Vecchio. 2) Il malocchio era quel fenomeno per cui dagli occhi potevano provenire forze distruttive emanate dall’invidia o dalla rabbia. Presumibilmente gli stessi raggi permettevano la visione degli oggetti e l’irradiazione di un potere negativo sulle persone. 3) Infine la fisiognomica concentrava la propria attenzione sul rapporto iconico tra sguardo e carattere. «I tre ambiti erano accomunati, pur nella diversità dei metodi e dei propositi, da una solida certezza: l’occhio quale speciale agente, attivo interprete del corpo, del sovrannaturale e dell’indole era nello stesso tempo cacciatore e preda» (p. 93). L’occhio assume un ruolo e un’importanza privilegiati anche nella fisiognomica. Giallongo cita il Trattato di fisiognomica di autore anonimo, scritto in latino tra II e IV secolo d.C., dove venti capitoli sono dedicati alla vista. L’anonimo invita a diffidare degli «occhi dallo sguardo penetrante o gorgon (truce)», che già i Greci avrebbero segnalato come cattivi. Nel trattato di Fisiognomica dello Pseudo-Aristotele l’ideale del kalos kagathòs, incarnazione della perfezione spirituale e della bellezza fisica, era indicato con caratteri maschili, mentre i tratti negativi erano significati con il femminile. Giallongo sottolinea l’importanza della fisiognomica nell’affermazione di categorie che hanno esercitato un’influenza decisiva nel campo artistico. Si stabilisce la convenzione di rimarcare la distinzione tra maschile e femminile, positivo e negativo. Il tipo umano predisposto all’inganno era assimilato al rettile. I tratti del volto e del corpo erano classificati in base ai tratti caratteriali di cui erano sintomi inequivocabili. «Il trattatista latino sopra ricordato, avendo con estrema diligenza passato in rassegna i segnali visivi, aveva trovato nelle pupille piccole da serpenti gli indizi della malignitas, tipica di “un animale crudele, che fa del male, insidioso e terribile quando ha preso una decisione”» (p. 94). Il carattere femminile era qualificato mediante la malignitas, termine che ha un campo semantico che comprende: scaltrezza, irascibilità, rancore, spietatezza e dissimulazione. Insomma la fisiognomica di tradizione aristotelica distingueva nettamente i tratti e i segni in due settori: maschile e femminile, positivo e negativo. La malignitas era rappresentata con i capelli anguiformi e lo sguardo bieco della testa di Medusa (p. 95). Nel corso della storia le immagini hanno avuto un ruolo fondamentale nella formazione dei cittadini. L’uso dell’arte a scopo didattico si afferma dal VII secolo a.C., formando la memoria collettiva ancor prima della scrittura. «Passeggiando sotto i portici, andando a teatro, guardando le pareti dipinte dei templi e rimirando le statue, i vasi, gli scudi, gli edifici pubblici e privati, gli Ateniesi imparavano a schierarsi a favore del padre, delle divinità maschili e dei valori virili» (p. 97). La testa di Medusa ebbe grande fortuna nel corso dei secoli. Il simbolismo allegorico della tradizione classica avrebbe trovato una sintesi efficace nell’Iconologia di Cesare Ripa, stampata a Roma per la prima volta nel 1593 e tradotta in tutta Europa fino al XVIII secolo. La testa di Medusa era rimasta fondamentale per l’educazione morale dei giovani maschi, per spronarli a liberarsi dalle cattive abitudini e dai vizi. «La crescente fiducia “nella faccia come teatro delle passioni” da parte di Cesare Ripa assicurò, sulle orme della iconografia tradizionale, anche nell’età del Rinascimento e della Controriforma, le basi per una salutare rappresentazione dei vizi e delle virtù» (p. 99). L’Iconologia era diventata una fonte d’ispirazione anche per gli artisti nell’Europa intera. La storia dell’iconografia di Medusa e della Gorgone segna una svolta. In molte società umane le mestruazioni erano state associate al serpente, che nell’arte minoica era simbolo della regalità e della divinità femminile. Nell’arte greca del VII secolo i serpenti assumono un significato opposto. La figura femminile era rappresentata come un mostro mediante l’associazione ai serpenti: «La lingua penzolante, lo sguardo persistente, la capigliatura a riccio di coda di serpente diventarono, così, gli ingredienti repulsivi di una nuova, lunga tradizione iconografica che metteva in guardia dalla minaccia ritenuta maggiore, guardare cioè qualcosa di proibito» (p. 106). La figura di donna come Gorgone, associata ai serpenti, avvertiva che le donne durante il ciclo non dovevano essere contattate. Una delle credenze diffuse nella cultura greco- romana era che venire a contatto con donne mestruate poteva provocare conseguenze catastrofiche: grandinate, follia dei cani, trombe d’aria, acidificazione del vino (p. 107). Il tabù mestruale insomma è connesso alla forza dello sguardo e ai tratti ferini dei rettili. L’umanizzazione delle figure di Medusa nel IV secolo a.C., con gli occhi aperti o chiusi, non elimina i tratti repulsivi di Medusa, la cui iconografia conserva «rintracciabili allusioni alle sue pericolose abilità visive e agli enigmatici serpenti, intermediari di ciò che era inguardabile e che doveva rimanere nascosto» (p. 113). ****
Come Vernant ha mostrato, i greci rappresentano nella donna
l’alterità del maschile: il male e la bruttezza trovano una sintesi efficace nella Medusa. I greci furono indotti a definire se stessi in un rapporto d’opposizione con il prossimo femminile, identificato con la bruttezza e il male. Un paradosso significativo è dato dal fatto che, mentre nei testi scritti dei greci si era concordemente sostenuto che la Gorgone non si poteva fissare, né guardare, ma neppure descrivere e rappresentare, dal VII secolo a.C. in poi assistiamo a una copiosa riproduzione di Meduse. «L’aspetto tarchiato, la faccia sorridente (condivisa comunque con i centauri, gli eroi e gli dei sempre in cerca di felicità per l’arte arcaica), talvolta inghiottita da una folta barba, talvolta provvisoriamente bella, offriva lo spettacolo di ciò che era infinitamente inferiore. La vista dei serpenti ostentava con cattivo gusto la subumanità del mondo femminile. Con queste immagini gli antichi greci, antenati lungimiranti, osteggiarono l’altro sesso e presero sul serio l’idea che fosse “meno umano”, perché irrazionale e distruttivo» (p. 119). Dal VII secolo a.C. s’impone un cliché che riunisce il mostruoso e il femminile, interpretato come ricettacolo di rabbia e di aggressività (p. 119). Oltre al femminile, anche il barbaro è assegnato all’infraumano; Platone, attribuendo al barbaro il tratto specifico dell’irascibilità, dà prova di dar credito alla fisiognomica (Repubblica, IV, 435e). Le Meduse della storia dell’arte non si contano. Tra le più note: Caravaggio, Testa di Medusa su scudo da parata del 1598, Galleria degli Uffizi, Firenze; Pieter Paul Rubens, Testa di Medusa 1617-1618. I caratteri repellenti si ripetono con regolarità nelle diverse riproduzioni di Medusa: gli attributi repulsivi essenziali sono i serpenti e la credenza nella pericolosità dello sguardo, due caratteristiche che medici e teologi dal medioevo all’età moderna hanno associato alla tossicità del sangue mestruale, tratto che indicava l’imperfezione e l’inferiorità della donna rispetto al maschio (p. 122). La caccia alle streghe riprende lo stereotipo della donna inferiore, ricettacolo di ogni vizio e deformità, di ogni pericolo. Senza l’incriminazione preventiva e stereotipa del femminile, né la caccia alle streghe, né le fosche e agghiaccianti rappresentazioni di quelle donne sarebbero state possibili. In opere come il Compendium maleficarum (scritto e riscritto tra il 1608 e il 1625) oppure la Demonomania de gli stregoni (1580) di Jean Bodin, vediamo riversate tutte le peggiori ignominie funzionali all’eliminazione fisica delle streghe. «Nelle scene più opprimenti, le adoratrici del diavolo posavano nude a gambe larghe (come le Baubò greche e le Gorgoni etrusche) o in posizioni sconce, si davano a orge sfrenate, si circondavano di gufi, corvi, serpenti, ranocchi, mangiavano bambini, officiavano messe nere, rimescolavano pentoloni fumanti di filtri e volavano nella notte. La sessualità femminile era pubblicamente proposta come qualcosa di sconcio, di repellente, di tetro, di pericoloso» (p. 135). Giallongo dedica un paragrafo agli Hybrida, creature riconoscibili per il loro inconsueto e trasgressivo miscuglio delle più diverse specie animali: per lo più gli ibridi si presentano come incrocio tra umano, animale e inanimato. I primi disegni di ibridi sono comparsi 30.000 anni fa − paleolitico, grotta di Chauvet e altrove. I primi racconti di ibridi li troviamo nei miti greci: «Qui infatti si può intravedere la donna serpente rintanata, dopo un passato glorioso, fra le forze primigenie distruttive dell’ordine cosmico. Nella mitologia più arcaica la bella Echidna, dalla parte inferiore del corpo serpentiforme, aveva spadroneggiato, secondo Esiodo, fra gli opprimenti esseri primordiali provenienti dai più bui recessi della Terra. La sua progenie con Tifeo (o Tifone) aveva impreziosito il ricco repertorio di racconti greci sui mostri (i cani policefali, Ortro e Cerbero, il Leone di Nemea, Ladon, il drago dalle cento teste) e su perverse creature femminili: la Sfinge, la Chimera, le Arpie e l’Idra di Lerna. Tutte eliminate dagli eroi di turno. In primis quelle imparentate, come le Gorgoni, con il serpente» (pp. 138-139). Gli ibridi non sono mai scomparsi. Si trovano in numerosi bestiari medievali e figure zooantropomorfiche sono presenti in modo ossessivo in grondaie e capitelli del periodo romanico e gotico. Sulla falsariga del Phisiologus diversi bestiari medievali esponevano le affinità tra la donna e il serpente. In Dante le Furie infernali travestite da Erinni, cinte di “verdissime idre” (Inferno, IX, 39-42). La combinazione di elementi primordiali e forme classiche produsse la figura della Fata serpente. Le fate pagane furono incriminate dai pensatori cristiani del medioevo e presto divennero le streghe da mandare al rogo. Le fate sarebbero quindi un capitolo nella storia degli ibridi femminili. Le fate sono il risultato della giustapposizione di una seducente sembianza umana e di una forma animale (serpente, pesce, drago). Troviamo la bellissima donna serpente di Langres raccontata dal cistercense Goffredo d’Auxerre e da Jean d’Arras, che la convertì in fondatrice del casato dei Lusignano con un romanzo cavalleresco (1393-1394). Troviamo ancora l’ibrido trasformato in fata nella fiaba La sirenetta (1836) di Andersen e nel cartoon Ariel la sirenetta della Disney. In Melusina, la Sirenetta e Ariel un occhio attento scopre i primitivi tratti ferini al di là delle dissimulazioni umane (p. 140). Nella storia della cultura occidentale la convivenza e l’interscambio tra uomo e animale sono stati sostituiti dall’opposizione uomo-animale e dalla svalorizzazione dell’alterità animale. Giallongo cita a questo proposito C. Tugnoli (a cura di), Zooantropologia. Storia, etica e pedagogia dell’interazione uomo-animale, FrancoAngeli, Milano 2003 (p. 140, nota 59). Omero ed Esiodo hanno fornito le rappresentazioni degli ibridi più noti e che più a lungo sono sopravvissute: la figura trimembra di Chimera, uccisa da Bellerofonte nell’Iliade (VI, 180-184). Chimera è figlia, per Esiodo, di Echidna (serpente) e di Tifone (gigante dalle gambe di serpente. Oltre alle Erinni, tra gli ibridi troviamo l’Idra di Lerna, che Eracle riuscì ad abbattere sfuggendo all’alito velenoso emesso dalle sue teste di serpente. Nel V secolo a.C., spiega Giallongo, quando il cartaginese Annone scoprì le Esperidi, alimentò la convinzione, condivisa più tardi da Pomponio Mela, che le isole fossero abitate da femmine pelose, selvagge e feroci. L’identificazione delle scimmie di Annone con le Gorgoni del mito, grazie anche alla Storia naturale di Plinio, sopravvisse fino al Medioevo e oltre. Edward Topsell, autore di The History of Four-Footed Beasts (1607) e di History of Serpents and Insects (1608), scoprì la Catoblepa, animale libico, forse uno gnu, e le Amazzoni. La Catoblepa era un animale orribile, dall’alito micidiale e dallo sguardo mortale per tutti i viventi. Ecco che cosa scrive Topsell: «Prendendo in esame questa bestia, appaiono manifeste la saggezza e la provvidenza del creatore divino, che ha rivolto all’ingiù, verso la terra, gli occhi di questa bestia, come se stesse seppellendone il veleno per evitare danno all’uomo; e l’ha coperta con peli ruvidi, lunghi e forti affinché i suoi raggi velenosi non si riflettano verso l’alto se non quando provocata da paura o pericolo, essendo la pesantezza del suo capo come una sorta di ceppo vincolante la libertà della sua natura velenosa, ma quali altri aspetti, vizi o virtù, siano contenuti nell’ambito di questo mostro, lo sa solo Dio, che gli ha permesso di vivere sulla faccia della Terra probabilmente per nessun altro motivo se non come castigo e flagello per l’umanità e come esempio tangibile della sua potente ira che può arrivare fino alla distruzione eterna. E ciò possa servire come descrizione di questa bestia fino a quando, grazie alla provvidenza divina, non si riesca a conoscere di più» (pp. 142-143). Le Amazzoni africane, capeggiate da Medusa, avevano peli sul capo assai velenosi, carattere attribuito in seguito anche alle streghe. Edward Topsell (1575-1625, ministro della Chiesa anglicana, autore di bestiari corredati da dettagliate xilografie) rappresenta la Gorgone trasformata in animale. La Catoblepa, come il Basilisco, serviva a esporre la teoria della mortalità dello sguardo: «chi propagava veleno attraverso l’alito e/o gli occhi non era umano» (p. 143). L’ibrido, presente da secoli nella storia naturale e oggetto di accurate descrizioni, alimentava la credenza nell’alito e nello sguardo letale. Istillava il timore di poter morire a causa di un soffio o di uno sguardo. «L’asfissiante alito dell’Idra e la rinsecchente occhiata gorgonica – strumenti letali delle eccentriche esistenze create dalle fantasticherie maschili greche – confluirono dunque alla spicciolata nell’immaginario scientifico, artistico e collettivo del XVI secolo e di quelli successivi. In balia di questo incantesimo, la maggioranza degli europei coltivava il mito dello sguardo che uccide e prendeva sul serio l’idea della mostruosità femminile. Per i nostri avi era un inevitabile obbligo culturale tormentarsi con l’idea che una donna inchiomata di serpi (o con la parte inferiore del corpo serpentiforme) e dallo sguardo fiammeggiante potesse mettere in pericolo la loro vita» (p. 144). In seguito alla sconfitta della cultura della Dea, in cui il serpente è una figura positiva, la connessione donna-serpente assume un carattere negativo e nefasto. Se a Creta, dove la cultura della Dea sopravvisse più a lungo, la donna serpente era raffigurata con forme benevole e rassicuranti, come di una divinità alla quale si chiede aiuto e protezione, successivamente quell’iconografia è stata sostituita da immagini della Gorgone orribile e pericolosa a guardarsi: dallo sguardo letale e letale se guardata. Gli ibridi femminili in sostanza hanno avuto un ruolo decisivo nella demonizzazione e inferiorizzazione delle donne, come se dovessero giustificare la paura maschile della donna, dal momento in cui essa ha cessato di essere considerata come Dea, Madre Terra feconda. L’ibrido esprime il disprezzo e il senso di superiorità maschile nei confronti della donna. Giallongo cita Page duBois, per il quale Medusa è «il mito della paura delle donne», vale a dire «la paura del loro valore arcaico, della loro autosufficienza, del loro potere sotterraneo» (p. 145). L’omosessualità maschile potrebbe essersi innestata e cresciuta sulla base di quella stessa paura: dinanzi all’autarchia partenogenetica femminile, l’uomo può essersi sentito escluso, emarginato, sminuito. L’omosessualità maschile poteva rappresentare una risposta all’inaccessibilità del mondo femminile: i maschi potevano a loro volta bastare a se stessi almeno sul piano sessuale. Una presunta e parziale autosufficienza, quella maschile, che assumeva inevitabilmente la forma della parodia. La relazione omosessuale era simile in tutto al rapporto eterosessuale (godeva persino del vantaggio, se così si può dire, della reciprocità), tranne che nella finalizzazione riproduttiva. L’omosessualità femminile può essersi sviluppata a sua volta come rimedio all’esposizione traumatica della donna al maschio dominatore. In pratica l’omosessualità maschile e femminile appare la conseguenza della rescissione dei legami e della consuetudine di cooperazione, sostegno e aiuto reciproco che ha avuto luogo nel corso della cosiddetta preistoria. La Gorgone poteva assumere anche una funzione benigna, apotropaica, quasi antidoto ai mali che minacciava, come le antefisse a testa di Gorgone di tipo calmo e a forma femminile regolare che trasmettevano sentimenti confortevoli a tutti coloro che si recavano al tempio. Per Alyssa Hagen la Gorgone era considerata dalle donne l’assistente di Artemide, la protettrice delle partorienti, dei neonati e dei giovani, nonché la Signora degli animali (p. 146). «Si potrebbe dire allora che l’immagine che si affacciava nell’anima delle donne non fosse quella dell’incubo, bensì quella di una zelante protettrice che in compagnia di altre dee facilitava le nascite e guidava la crescita dei cittadini più giovani nella polis. Nonostante queste sentite sollecitudini, Medusa non riuscì a sfuggire nell’età classica alle umilianti raffigurazioni che la relegavano al ruolo di guardiana dell’Ade. Come tale verrà accolta infatti secoli dopo anche da Dante nel IX canto dell’Inferno» (p. 147). Nell’iconografia continuava a prevalere il segno negativo della Gorgone – il serpente e il sangue mestruale alimentava la paura della morte, della sessualità. Lucano, Apollodoro e Ovidio concordavano nell’attribuire al sangue della Gorgone il potere malefico, anche dopo la morte, di generare mostruosi serpenti e mostri, tra cui il Basilisco, «il principale erede delle materne occhiate mortali» (p. 149). Presso gli eroi greci la morte peggiore era quella inferta da mano femminile (come Clitemnestra che uccide il marito dopo che questi è ritornato da Troia). I greci allora mascolinizzarono la morte, come osserva Hagen: «Era infatti più desiderabile l’onnipotente armatura di Thanatos dell’odiosa morte buia e informe inferta dalla Gorgone, tetra patrona della fine della vita più che maestra di nascite» (p. 149). ****
La ricerca di Giallongo impone una pausa di riflessione.
L’iconografia greca presenta numerosi mostri: Gorgoni, Erinni, Minotauri, Ciclopi, Arpie, Scille, Cariddi. I mostri alimentano incubi e paure, senza i quali a loro volta i mostri non esisterebbero. Nella mitologia i mostri devono essere sconfitti, c’è sempre un eroe, come Eracle nel caso dell’Idra di Lerna, che li mette fuori gioco. I mostri sono la rappresentazione proiettiva della violenza caricata su di una vittima, che in questo caso è la donna. L’elemento femminile catalizza tutte le tensioni, le crisi e la diffusa violenza della società. La deformità e la mostruosità sono infatti alcuni degli stereotipi vittimari secondo l’ermeneutica girardiana. La vittima della persecuzione e del linciaggio, accusata dei peggiori crimini, è rappresentata nella forma della mostruosità, che allude all’indifferenziazione e alla conflittualità endemica che la caratterizza. L’antropologia vittimaria interpreta l’ibrido mostruoso delle figure mitologiche come simbolo di indifferenziazione e violenza. La vittima deve essere uccisa per liberare la comunità dalla minaccia della sua stessa violenza, proiettata sul mostro. La paura del mostro è, geneticamente, la paura della violenza serpeggiante che, a un certo punto, viene concentrata in uno solo: la figura femminile assume il ruolo di mostro che minaccia di morte, ma la sua violenza è in realtà quella dei persecutori (impersonati dall’eroe di turno) i quali mirano così a liberarsene. Il mostro fa paura solo perché incarna la stessa violenza di coloro che ne sono impauriti. La paura dello sguardo che uccide è significativa: la vittima uccide con lo sguardo, per questo bisogna ucciderla. Ma la vittima non fa che estroflettere lo sguardo malefico dei persecutori che la condannano ad assumere il ruolo di collettore della violenza, di purificatrice della stessa maleodorante impudica mortifera dissoluzione da cui vogliono liberarsi coloro che mirano a liberarsi del mostro. Un legame storico-culturale strettissimo intercorre quindi tra elemento femminile, mostro, vittima espiatoria. Il sangue mestruale della donna-mostro è pericoloso solo perché è sangue, emblema della violenza da cui i persecutori intendono liberarsi una volta per tutte, per non dover più spargere sangue loro stessi. Tutti gli attributi della violenza, compreso lo sguardo assassino, che i persecutori attribuiscono alla vittima provengono dalla crisi dell’intera comunità. La vittima, causa di ogni male e minaccia mortale, deve allora essere linciata per la salvezza di tutti. L’antropologia vittimaria quindi offre un’ermeneutica adeguata alla comprensione del fenomeno storico culturale degli ibridi e dei mostri di ogni specie, che rievocano la figura della donna serpente, dopo la sua trasformazione da Dea amica del serpente in mostro orribile e malefico, predestinato a divenire il catalizzatore di ogni crisi e veicolo di soluzione vittimaria del conflitto. La trasformazione in mostro è una duplice operazione di censura e di mascheramento, oltre che di proiezione. Ancora più profondamente, nell’ibrido l’uomo teme la contaminazione, la mescolanza, il confronto con l’alterità femminile e, in generale, con qualsiasi alterità. Il mito del Timeo sull’origine degli animali riassume in modo quasi archetipico la svalorizzazione dell’alterità femminile e animale, da parte di un umanesimo androcratico che sente il dovere di produrre un’ideologia protettiva a tutela della purezza incontaminata dell’essere umano, della separatezza di una sostanza umana autofondata, totalmente autarchica, originaria e originale. Non può sfuggire naturalmente la contraddizione per cui l’affermazione della purezza originaria e autarchica di un uomo che ha già tutto in se stesso, è incompatibile con la minaccia rappresentata da qualsiasi alterità. L’autosufficienza esclude di per sé qualsiasi possibilità di influenzamento, contaminazione e alterazione, e tuttavia l’umanesimo ha avvertito l’esigenza di produrre i mostri di ibridazione, illustrazioni dimostrative e oggettivazioni dell’angoscia di influenzamento, di ibridazione e di perdita dell’identità, intesa come qualcosa di statico, isolato e separato. I mostri erano e continuano ad essere un avvertimento − dai bestiari medievali fino agli spauracchi di chimere frutto di manipolazioni genetiche − a non ammettere alcuna forma di ibridazione, mescolanza, meticciato, in nome di una presunta purezza che la storia naturale, parallelamente, smentisce continuamente. Mostri e ibridi eretti a baluardo della purezza identitaria, minacciata dall’incontro con l’alterità fondamentale, la donna, e con tutte le altre forme di alterità (straniero, animale, ecc.). La stessa operazione di separazione dell’elemento nocivo, della vittima candidata all’espulsione nel processo di vittimizzazione e purificazione della società, parte dalla mostrificazione dell’altro femminile, che così accoglie i tratti dell’alterità animale (serpente, drago) e inanimata (il veleno, fluido dello sguardo, liquido mestruale). L’ibrido condensa così tutti i tratti dell’alterità che va respinta ai margini e abolita per affermare la purezza incontaminata dei persecutori. Il processo vittimario appare dunque un eloquente strategia di affermazione umanistica della purezza identitaria e dell’autarchia dell’uomo. L’uomo archetipo del mito platonico deve distruggere e allontanare da sé ogni forma di alterità, associata al male assoluto, la perdita dell’identità, lo smarrimento della propria natura originaria. Troviamo qui la ragione per cui non ci sono prove dell’esistenza di pratiche sacrificali nelle società dominate dalla cultura della Dea, rette da un sistema ginocentrico, chiamato gilanico da Eisler, mentre nelle società caratterizzate dal sistema androcratico i sacrifici diventano addirittura una pratica costante. Bisognava quindi tenere in scacco la Dea, sconfitta dall’avvento di un sistema di potere basato sulla gerarchia autoritaria e violenta, sul dominio del potere maschile. Il mito del Timeo sancisce il passaggio dal modello gilanico di società e cultura al modello androcratico. La vittima sacrificale è sempre mostruosa, incarnazione e oggettivazione di ogni bruttura, contaminazione, contagio, violenza, da cui il potere maschile si sente minacciato e da cui deve periodicamente prendere le distanze per ritrovare se stesso. Il linciaggio fondatore e il rito sacrificale sono tratti strutturali tipici delle società androcratiche? Dunque la tesi di Girard, secondo il quale il linciaggio fondatore segna l’inizio della cultura e della civiltà, della società tout court, deve essere rivista? Forse esistono o sono esistite società basate su una cultura di tipo diverso, non esposte alla minaccia di un’alterità oppressiva proprio perché il sistema di potere che le caratterizza non produce rivalità, tensione e violenza?
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Il passaggio da un’epoca all’altra è ben segnalato dalla presenza
ossessiva della Gorgone nelle figure mostruose elaborate dai maestri dell’intaglio in pietra e in bronzo e dai pittori nel periodo dal VII al I secolo a.C. Le figurine dell’arte paleolitica e neolitica, rappresentazioni delle dee della fertilità, così ben illustrate da Gimbutas, in seguito al diffondersi della paura maschile per la donna (le streghe sarebbero state accusate tra l’altro di togliere ai maschi la loro potenza virile) assunsero un significato opposto. Il serpente nelle società più antiche era venerato e amato come protettore della casa, simbolo della fertilità e della forza creativa femminile, rappresentazione della natura ciclica della vita. Ma ad un certo punto il serpente è posto sotto accusa; nella mitologia greca con Echidna, metà donna e metà serpente, era accusato di essersi mescolato con l’umano e di aver generato diversi draghi. L’Europa medievale ormai cristianizzata da secoli racconta favole sul basilisco, il serpente crestato, vuoi con il corpo da dragone, vuoi con il corpo di gallo dalla coda di rettile. Favole si raccontavano anche su Melusina, in parte donna, in parte pesce, in parte serpente. «Sono stati i pulpiti della tradizione giudaico-cristiana a far perdere le tracce positive lasciate dal serpente nei culti della rinascita e della protezione, e ad accentuarne la fama di perfido spirito che aveva indotto alla disobbedienza Adamo ed Eva» (pp. 171-172). Gli animali in generale erano visti con sospetto e spesso si istruivano processi agli animali, che potevano essere accusati di gravi crimini, compresa la perversione sessuale. Se giudicati colpevoli, venivano sepolti vivi, impiccati o mandati al rogo. «Nella lista degli animali associati all’inferno e ai diavoli, il serpente – sotto le forme più svariate dalla Vipera al Drago – godeva di una certa considerazione. Il cristianesimo, secondo Michel Pastoureau, non era andato molto lontano dalle tradizioni antiche che avevano già attribuito al serpente le sembianze del principe del male. Erano stati i primi testi biblici a mettere sulla breccia il serpente seduttore di Eva e il serpente-drago dell’Apocalisse e a rinchiudere, nel contenitore dell’alterità morale, la specie rettile al completo» (pp. 172-173). In epoca medievale il serpente è onnipresente: come ricorda H.A. Kelly, citato da Giallongo, il serpente in epoca medievale «veicolava allegorie religiose, emblemi araldici, istruzioni morali, ispirazioni artistiche ed esperienze didattiche» (p. 173). Giallongo cita il Physiologus, scritto in greco tra il II e il III secolo d.C. dall’edizione a cura di Francesco Zambon, per l’editore Adelphi, Milano 1993. La descrizione della Vipera nel Fisiologo dice che le vipere, maschio e femmina, hanno forma umana, mentre la coda è di coccodrillo. La femmina è senza vagina, quindi il maschio che copre la femmina le eiacula in bocca, poi la femmina, inghiottito il seme, tronca i genitali del maschio, che muore all’istante. I figli, crescendo, divorano il ventre della madre mentre sono ancora nel suo ventre e vengono alla luce mangiandolo. Le vipere sono quindi parricide e matricide (p. 175, nota 34). Tra tutti gli animali dei bestiari medievali spiccava il Basilisco, dallo sguardo assassino. Era descritto come serpente crestato o come un gallo dalla coda di serpente che, per completare l’ibridazione, covava le uova. Curiosamente, Alberto Magno credeva nello sguardo mortale del basilisco, ma non era disposto a credere, nel De animalibus (1260), che un gallo potesse essere in grado di covare le uova. Il basilisco risultava particolarmente ripugnante: si credeva che «il suo sguardo, il suo tocco, il suo fiato, il suo sangue fossero così perniciosi da bruciare l’erba, i cespugli, da spaccare le rocce e da avvelenare gli uomini che, a cavallo, avevano tentato di trafiggerlo con la lancia» (p. 180). Molte leggende medievali avevano raccomandato di ricorrere allo specchio facendo in modo che il basilisco, guardandovisi, finalmente morisse. Dal sangue colato dalla testa decapitata era nato anche l’Anfisbena, un serpente con due teste, una per ciascuna estremità. Gli animali grotteschi, ibridi e fantastici rappresentavano, si può dire, l’alterità di secondo grado, rispetto al primo grado che consisteva nell’animale realmente esistente. L’Amphisbaena era stata descritta da Plinio il Vecchio e da Isidoro (D. Badke, Medieval Bestiary). Altri esperti ritenevano che questo animale potesse anche munirsi di ali, riavere le zampe ed eventualmente di rifornirsi di corna e di orecchie. Tutti questi mostri, strani animali o, per meglio dire, inconsuete combinazioni di animali, rivelavano la loro parentela con Medusa e tutti insieme rappresentavano proiettivamente l’orrore per l’alterità che caratterizzava le società medievali, a partire dalla repulsione per l’elemento femminile, in associazione con i riferimenti simbolici di cui si è detto sopra. Orrore che giustificava e presupponeva la presa di distanza, la separatezza e la guerra santa contro i mostri maligni. Hieronymus Bosch (1453- 1516) seppe rappresentare tutte le figure più mostruose allora disponibili nei bestiari, emblemi dei peggiori vizi. Nel suo Giudizio universale (1482), nel Giardino dell’Eden l’incontro di Adamo ed Eva avviene con un serpente Tentatore camuffato da umanoide- donna: «La persuasiva coda mischiata a zampe e a piedi di lucertola alludeva allo stato benestante del serpente prima della caduta, mentre la testa e/o il busto femminile accoglievano la nuova esperienza pregustata dall’arte tardo-medievale e rinascimentale: rappresentare il Tentatore con fattezze muliebri» (p. 183). Ricordiamo che molte pitture medievali mostrano le fate in questa foggia: serpente in forme femminili. Inoltre nella tradizione giudaico-cristiana Lilith era stata equiparata a Satana e al serpente. La rappresentazione del Tentatore in serpente con volto e/o busto di umanoide-donna esprimeva la sintesi di convergenti tradizioni misogine, contribuendo a identificare nella donna la causa e la matrice del male e del peccato. Neppure Michelangelo aveva fatto a meno di ricorrere all’ibrido donna-serpente nella rappresentazione del Tentatore: nel Soffitto della Cappella Sistina, l’affresco del 1519 mostra la donna serpente con le gambe avvitate al tronco dell’albero come se fosse una doppia coda con le punte rastremate tipiche della coda di rettile (pp. 183-184). Bosch possiede una particolare abilità nel dipingere la perdita della grazia mediante l’ibrido serpente femminile, i peccatori inseguiti, divorati e sfregiati in tutti i modi da mostri. Uomini e donne di Bosch che il vizio e il peccato hanno trasformato in ibridi animaleschi. La bestialità femminile, il mostro donna-serpente, appariva la peggiore, l’estrema caduta, il culmine dell’abominio. Giallongo ricorda che Alberto Magno (1206-1280), maestro di Tommaso d’Aquino, riteneva che «la natura difettosa della donna fosse riconoscibile dalla sua impotenza morale incoraggiata da un eccesso di liquidità che stimolava il male al di là di ogni aspettativa» (p. 185). La natura della donna era tale che bisognava guardarsene come da un serpente velenoso o da un diavolo cornuto. L’iconografia che propone il Tentatore nel duplice aspetto di donna- umanoide e serpente allude allo scarto tra apparenza e realtà, esattamente come nelle figure di fate; la figura accattivante, seducente del bel volto femminile si rivela ingannevole e svela il vizio e la corruzione del rettile, la vera natura peccaminosa. Anche la teoria dei quattro umori aveva dato il suo contributo, associando le donne al flemma, quindi al temperamento flemmatico, umido e freddo, tipico delle salamandre, capaci di spegnere con la propria gelida natura anche le fiamme più veementi. La misoginia spingeva a considerare la donna un rettile travestito, che già in questo travestimento dimostrava un’astuzia ignota al maschio. Un’astuzia con cui la donna doveva compensare la sua volubilità, curiosità, instabilità e insicurezza, celando insieme la sua peculiare predisposizione al peccato, all’inganno, all’infedeltà, alla perversione. Uomo e donna erano contrapposti come l’intelligenza alla furbizia, il sole alle tenebre, il bene al male. La donna come alterità assoluta sotto le sembianze mansuete della sua costitutiva immaturità fisica e psichica rispetto all’uomo, e della sua fragilità. Fragilità, debolezza e imperfezione della donna che aprono la strada al peccato e al male. La scena della Genesi in cui il Tentatore riusciva a indurre in peccato diventa così rivelatrice grazie alla figura biforcuta donna/serpente. Il serpente è in sostanza Eva stessa: il doppio si giustifica come accorgimento retorico di censura, per evitare la resistenza che avrebbe provocato la rappresentazione della donna come direttamente responsabile del peccato originale. L’iconografia però nel corso dei secoli finisce col rivelare quel che nel testo biblico rimane nascosto: la natura femminile del serpente, controfigura della donna. Disvelamento che combacia con le descrizioni e rappresentazioni della natura femminile che troviamo nella letteratura medievale (esempio formidabile è Alberto Magno, Quaestiones super de animalibus, XV, 11).
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Se è vero che il serpente tentatore non è altri che la donna stessa,
protagonista in prima persona e non tentatrice tentata a sua volta da un Altro, allora l’ingresso del peccato nel mondo non riguarda l’intera umanità, ma solo la sua metà maschile. La donna viene defraudata anche del peccato originale. Il passo della Genesi che ci riguarda, compresi gli sviluppi iconografici successivi, non può che essere interpretato nel modo seguente: finché la sua natura predisposta al male riguarda solo la donna, di peccato non si può parlare. La contaminazione del peccato originale avviene quando l’uomo si lascia soggiogare dalle lusinghe della donna. Il peccato originale non esiste ancora finché solo la donna è vittima della propria debolezza e immaturità. La donna è causa del peccato, ma solo l’uomo è colpito dal peccato originale, in quanto l’uomo, non la donna, è soggetto alla tentazione. Se il serpente è la donna stessa, vuol dire che la donna tenta se stessa da sempre, ovvero è vittima della sua stessa fragilità, ma senza peccato originale. Si dovrebbe quindi distinguere tra tentazione interna (serpente-Eva) e tentazione esterna (Eva-Adamo), assegnando solo alla seconda la funzione di spartiacque epocale, di evento assoluto che delimita il prima e il poi nella storia dell’uomo. Tutti questi elementi corroborano la conclusione che la Caduta sia stata concepita e raccontata nella prospettiva dell’ideologia androcratica e con l’intento di mantenere la figura femminile al di fuori dell’orizzonte umano, nella penombra di un’alterità oscura e minacciosa, poi rivelatasi foriera del principio del male per la metà maschile degli esseri umani. Nel corso del Medioevo il serpente e gli animali reali o immaginari che gli erano apparentati (Basilisco, Salamandra, Idra) indicavano il femminile, in particolare basilisco, salamandra e idra corrispondevano alla donna mestruata e in menopausa. La mediazione del rettile era un artificio retorico inconscio: permetteva di evitare la condanna diretta della donna, che tuttavia veniva dipinta nella forma della negazione dell’umano e del bene, con la fattispecie orrifica dell’abominevole assoluto, dell’alterità portatrice di dissoluzione fisica e morale, del peccato e della morte. Identificarla con il rettile presentava il vantaggio di scaraventarla lontano e di eliminarla fisicamente, se necessario, per togliersi di torno quella che era considerata la rovina dell’umanità. La forma del mostro toglieva ogni residuo di umanità alla donna e ripuliva preliminarmente da ogni senso di colpa i suoi detrattori/carnefici. Il modo in cui Eva è presentata nella Genesi corrisponde ai requisiti della persecuzione vittimaria: la vittima è inclusa nel genere umano maschile, e insieme ne è geneticamente distinta, secondo una delle due versioni della creazione di Eva. Secondo questa versione Eva è un derivato di Adamo e insieme la controfigura del serpente, assimilata all’universo maschile ma anche suo antagonista. Solo a questa condizione potrà assumere il ruolo di causa e insieme capro espiatorio della tentazione, del maleficio e del peccato. La donna nella storia successiva eredita e porta il peso dell’accusa archetipica, che giustifica in tal modo la trasformazione in mostro e la sottomissione della figura femminile.
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Lo sguardo della donna mestruata era considerato potente come
quello del basilisco, ed era concepito e percepito come un reale gravissimo pericolo dalla comunità degli intellettuali. Le equivalenze più aberranti (per la mentalità e la scienza attuale), come quella di Eva con il serpente, dello sguardo mortale del basilisco con quello della donna mestruata, trovano conferma nelle rappresentazioni iconografiche, nei racconti, nelle teorie filosofiche e mediche, nelle riflessioni teologiche, nelle esortazioni dei moralisti (p. 188). In seguito al peccato, da Eva in poi le donne hanno portato il peso di una colpa gigantesca, alla quale hanno cercato di sfuggire rigettando, respingendo il serpente, negando ogni rapporto con lui, agitandosi alla vista del rettile per fornire una prova ulteriore della loro estraneità al rettile, al principe del male. In seguito alla condanna del serpente in ambito giudaico-cristiano, le donne hanno dovuto rinunciare e aborrire i culti ofidici in cui esse danzavano con i serpenti. Tutti i culti antichi che contemplavano la presenza del rettile erano stati banditi, ma sopravvivenze furtive non mancavano: «A Cevo, in Valsaviore, una leggenda medievale voleva che il Basilisco venisse custodito in un antro da una genìa di streghe e che, a Cocullo, in provincia dell’Aquila, il culto arcaico della Grande Madre Angizia era stato sostituito, nella festa dei serpari, alla fine del XIII secolo, da san Domenico da Foligno invocato, come l’antica dea, contro i morsi dei rettili» (p. 190). In campo educativo, sulla scia di Tertulliano che aveva condannato la sconcezza delle donne, sempre pronte ad abbigliarsi, agghindarsi e curarsi in ogni modo nell’aspetto allo scopo di attirare gli sguardi degli uomini, le donne erano accusate di voler attirare con ogni stratagemma gli sguardi degli uomini, «per esercitare il loro potere, come i rettili, di fascinazione» (p. 191). Per secoli il comportamento visivo delle donne è stato sottoposto a censure, restrizioni, proibizioni. Nei vangeli non si trova traccia di alcuna colpevolizzazione, svalorizzazione o demonizzazione della donna, tutt’altro. Ma da san Paolo, Clemente Alessandrino, Tertulliano, Agostino, Girolamo, Bernardo di Chiaravalle, si diffuse una concezione umiliante della e per la donna: le discendenti di Eva possedevano l’arte di mandare in rovina gli esseri umani e quindi era da tutti condivisa la proibizione rivolta loro di parlare a loro nome, di considerarsi pari ai maschi e di disporre di beni propri. Il bene, il divino, il giusto per secoli ha assunto le sembianze del maschile, mentre il femminile per opposizione è divenuto sinonimo di male, demoniaco, iniquo. Giallongo cita Witcombe, deplorando la persistenza di questa mentalità diffusa che deve la sua origine alla “fiction patriarcale” della Genesi. Lo stereotipo inaugurato dal testo biblico è persistente e tenace; e, come ogni rilettura dello stesso testo, l’adesione alla presunta “verità” del testo non fa che consolidare la credenza nella sua irrefutabilità. Non bisogna dimenticare poi il ruolo formativo svolto da affreschi, mosaici e illustrazioni di bestiari che ovunque pullulavano nel Medioevo, sostituendo le carenti istituzioni scolastiche e alimentandosi della diffidenza nei confronti dello spirito critico, della dialettica dei greci. Nessun discorso sarebbe stato più efficace e penetrante rispetto alle immagini che ritraevano il serpente della Genesi con una testa di donna, sempre accanto a Eva. «La relazione fra Eva e il serpente in alcuni dipinti, ancora nel XIX secolo, si era fatta così intercambiabile da far prendere direttamente a Eva il posto del serpente. A sua volta il demonio, di rado dipinto con le mammelle, dal IX secolo aveva cominciato occasionalmente a sfoggiare una capigliatura serpentina che, durante il XIV secolo, passò direttamente sulla testa della strega» (p. 196). Giallongo ricorda che il tedesco Ulrich Molitor, autore del trattato Delle Lamie e pitonesse (1489-1493), nel quale si coglie la parentela strettissima, dal dialogo e dalle xilografie, tra la donna e il serpente. Eva e il serpente, apparentati, confusi e identificati, meritavano e ottenevano la stessa sorte, la stessa maledizione eterna. E il Malleus maleficarum di Sprenger e Krämer, contemporanei del Molitor, poneva il sigillo alla tragica persistente favola dell’Eden. Demonio, serpente, femmina: uniti dalla stessa condanna al fuoco di un braciere molto terreno. Un altro aspetto del potere malefico della donna era rappresentato dalle mestruazioni. La donna era particolarmente pericolosa durante le perdita di sangue e dopo la sua definitiva assenza. A causa delle mestruazioni la donna si rivelava portatrice di un’anomalia, di una mostruosità contraria alle leggi della natura, e dimostrava così di essere un errore della natura che poteva suscitare solo disgusto. La donna era quindi percepita come mostruosa e suscitava una duplice angoscia: in quanto donna e in quanto mestruata, depositaria quindi di un corpo mal vissuto e portatrice del demonio. «Il mostro, in quanto manifestazione del disordine e immagine del male, alla fine del Medioevo slitterà infatti verso il diabolico, quando si svilupperà, con il mito della strega, l’immagine esclusivamente malefica della donna stessa» (p. 197). La misoginia coltivata nella tradizione giudaico-cristiana illustrava il flusso mensile delle figlie di Eva come prova della loro imperfezione costitutiva. Il flusso mensile non era considerato come un naturale processo fisiologico, ma come segno di anatema, manifestazione di una colpa atavica e marchio d’infamia. Giallongo ricorda giustamente che l’impurità della donna mestruata era codificata nel Levitico: le donne mestruate dovevano rimanere segregate per sette giorni, evitando ogni contatto con uomini, oggetti di qualsiasi genere, edifici sacri; infine dovevano purificarsi con un bagno (Levitico, 15, 1-15; 19-30). Anche Plinio aveva messo in guardia dalla tossicità del flusso, che si trasmetteva alla natura intera, compresi animali e persone, mediante il contatto, l’aria e lo sguardo. L’idea dell’impurità della donna mestruata era presente anche in molte civiltà precristiane. La distinzione tra puro e impuro, la delimitazione e il controllo delle impurità sono una preoccupazione presente in tutte le società primitive, sono stati esaminati a fondo dall’opera di Mary Douglas: Purezza e pericolo: un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, 1966, trad. it., 1975. I Padri della Chiesa esortarono le donne con il ciclo a non prendere la comunione e condannarono i rapporti sessuali durante le mestruazioni come una perversione; Burcardo di Worms, nel suo Decretum (1008-1012) aveva incluso questa trasgressione tra i peccati mortali, avvertendo che i bambini concepiti durante le regole sarebbero stati deformi (p. 199). Quindi la proibizione di avere rapporti durante il flusso mensile non era dovuta all’obbligo di mantenere il rapporto aperto alla procreazione. Si credeva che il flusso non interrompesse la capacità della donna di rimanere incinta. E fino a pochi decenni fa i figli nati con qualche difetto congenito erano tenuto nascosti in casa dai genitori che evitavano così di mostrare alla luce del sole quello che l’opinione pubblica e loro stessi consideravano il frutto di un peccato. Tutti i nati con difetti evidenti dalla nascita erano a rischio di perdere la vita e l’anima. La teoria secondo la quale la vita di questi infelici era stata soffocata da un quid ripugnante, già presente in Girolamo, riappare nello Speculum naturalis (XXX, I, 54) di Vincent de Beauvais e nel De secretis mulierum dello pseudo-Alberto Magno. «Qui si ripeteva, scrive Giallongo, ormai per necessità di attaccamento ai luoghi comuni, che i capelli di una donna mestruata piantati in terra contenessero un seme che avrebbe generato durante la stagione estiva serpenti e specie simili; e che gli effetti velenosi del sangue mestruale ricadevano sui bambini. In modo particolare, gli sguardi delle donne in menopausa, cariche in eccesso di umori infetti, intossicavano i poppanti» (p. 200). «Nel XIV secolo il chirurgo francese Guy de Chauliac credeva, come altri medici, che la peste si trasmettesse con lo sguardo e che i fumi del sangue mestruale si infiltrassero con successo fra gli agenti mortali» (p. 201). Si assiste quindi a un regresso della scienza medica, che con gli ippocratici aveva indicato nel flusso mestruale un rimedio e una prevenzione delle malattie a beneficio della donna. Ma già Aristotele nel De generatione animalium (1, 19, 1-20) aveva equiparato il sangue mestruale a una versione sterile del liquido seminale maschile, seguendo il criterio di base per cui la donna è un uomo immaturo e imperfetto. E la teoria aristotelica influenzava certamente Tommaso d’Aquino. «La condivisa repulsione verso la donna mestruata faceva parte di un complesso sistema interessato a sorvegliare i valori, a disciplinare condotte, a proclamare verità e a fornire, all’occorrenza, capri espiatori. La paura generata dal sangue mestruale fece affiorare teorie educative basate su un rigido controllo visivo, giustificato da preoccupazioni religiose (ben espresse dal IX canto dell’Inferno, dove Dante, se avesse incrociato lo sguardo di Medusa, avrebbe perduto per sempre la vitalità spirituale) e mediche» (p. 202). L’opera Placides et Timeo, che ebbe ben 13 ristampe prima del 1598, è un dialogo di educazione all’attività politica, destinato quindi a coloro che dovranno esercitare il potere (Placides è figlio di un piccolo re). Timéo è il maestro che accoglie individui sanguigni, flegmatici, collerici e melanconici. Se il temperamento collerico di Placides poteva essere temperato e migliorato con l’insegnamento, quello melanconico del figlio dell’imperatore era tale “per natura e malattia”, avendo un legame troppo stretto con il freddo irrimediabile e si doveva quindi lasciare al suo destino (p. 208). Il calore era una qualità maschile, associata alla vita, mentre il freddo era femminile e associato alla morte. Ambroise Paré (1510-1590), anatomista e padre della chirurgia francese, relegava l’uomo flegmatico alla categoria del freddo e lo condannava a una vita maledetta ossessionata dalla visione di serpenti, sepolcri e cadaveri (p. 209). Nella donna quindi si fiutava, oltre al peccato, anche la malattia. Come osserva Giallongo, «Ippocrate aveva introdotto la falsa idea che il ciclo fosse una sorta di evacuazione di umori cattivi. E il senso di paura e di sgomento maschili, accumulatosi nei secoli, faceva avvertire in quel ciclico sgocciolamento rossastro una sinistra e micidiale minaccia messa in atto da un organismo assuefatto al velenoso prodotto del proprio corpo» (p. 210). L’idea che la donna fosse immune al veleno che il suo stesso corpo produceva, unita all’angoscia maschile nei confronti dell’alterità femminile, fu all’origine, nel XIII secolo, del mito della Pulzella velenosa. Accolto da Alberto Magno, che si rifaceva ad Avicenna, da Tommaso d’Aquino e dall’autore anonimo di Placides et Timeo, il mito della Pulzella velenosa si può riassumere nel modo seguente. Un re indiano che voleva togliere di mezzo Alessandro Magno, fece allevare in segreto una fanciulla avvenente alimentandola con sostanze tossiche, così che alla fine la Pulzella corrompeva l’aria con il respiro e uccideva gli animali al solo contatto. Alessandro viene ridestato ad avventure amorose dalla bella ragazza, ma Aristotele, travestito da chierico di corte e Socrate, suo maestro, smorzano immediatamente la passione di Alessandro per salvargli la vita. Fanno chiamare due servi e ordinano loro di abbracciare la Pulzella, con esito letale all’istante per entrambi. Non solo, fanno venire anche cani e cavalli, che muoiono non appena sono toccati dalla Pulzella. Solo dopo queste prove eloquentissime, Alessandro si convince a desistere dai suoi approcci erotici (p. 210-211). La finalità pedagogica di tale invenzione era quella di far desistere gli uomini dall’aver rapporti sessuali con una donna mestruata. Gli uomini dovevano apprendere una serie di segreti, se non volevano perdere il fiato, la giovinezza, le forze, la vita stessa. La storia della Pulzella velenosa rafforzò la credenza che collegava strettamente la donna e il serpente. Come dimostrano le ricerche di C. Thomasset, si diffusero diverse versioni della storia. «In una delle versioni italiane, la ragazza mangiava fin dalla nascita soltanto serpenti e pesci; in un’altra, veniva allevata da un serpente “con quelli elementi” con i quali “nutricava altri serpenti”, per questo motivo “non parlava ma come serpente zufolava”. Pertanto, secondo uno dei migliori ragionamenti, messo in bocca ad Aristotele, la Pulzella, per gli “atti e reggimento da serpente”, avrebbe avvelenato chiunque avesse tentato di accoppiarsi con lei. Infine, non è irrilevante il fatto che in una versione francese, un’altra appestata venisse sbrigativamente liquidata come Lamia o Vampira» (p. 213). Nell’iconografia dell’epoca il mestruo era rappresentato mettendo in bella evidenza serpenti di diverse forme e colori oppure rettili umanoidi con cui le Eve scambiavano quattro chiacchiere oppure Melusine che esibivano dalla vita in giù, nella vasca da bagno, pesanti squame verdastre (per poi fuggire dalla finestra trasformandosi direttamente in draghi (rettili alati, simboli del demonio e del veleno); sguardi di Basilischi simili agli occhi mortali della Medusa dantesca; oppure donne allo specchio. Lo specchio, già usato efficacemente da Perseo contro Medusa, ricompare nelle storie del Basilisco con la stessa funzione. «Lo specchio-arma o trappola insinuava i poteri letali, attribuiti alternativamente alla donna serpente, al Basilisco e, per proprietà transitiva, alla donna mestruata e a quella in menopausa. Alludeva quindi alla morte, alla malattia, al veleno, guadagnandosi così la possibilità di consorziarsi ai pericoli provocati dal sangue mestruale» (pp. 217-218). Aristotele nel testo Sui sogni aveva insegnato che le donne emanavano fluidi velenosi che opacizzavano gli specchi, le donne rovinavano gli specchi con lo sguardo. Se uno specchio era danneggiato seriamente dallo sguardo femminile, a maggior ragione gli esseri umani potevano subire la stessa sorte. Giallongo cita due esempi di dipinti che rispecchiano questa mentalità: Bosch, Il giardino delle delizie, 1505; Giotto, Cappella degli Scrovegni, (1303-1305), l’Invidia rappresentata come vecchia repellente. La sequenza di rimandi simbolici era la seguente: Sangue delle donne, mestruo, occhi, sguardo, specchi, insidia femminile, veleno, serpente, pericolo per gli uomini, conseguenze mortali. La donna, velenosa per natura, poteva quindi essere associata allo specchio, al serpente e rifuggita o temuta o combattuta aspramente per difendersi dalla minaccia permanente che rappresentava. Non è un caso che le Sirene con la coda di pesce a mo’ di serpente, fossero spesso ritratte con uno specchio in mano (p. 221). Dunque: donna, sangue (mestruale, ma non necessariamente), veleno, serpente, specchio, sguardo letale, morte. La donna, procreatrice e principio di vita, diveniva sinonimo di morte. La donna non è associata alla vita ma alla morte. La rimozione del femminile non poteva essere più completa, la falsificazione della natura delle cose non avrebbe potuto essere più malefica e insidiosa per gli effetti sull’educazione delle generazioni che si susseguivano. Educazione che ricorreva a mezzi iconografici potentemente persuasivi, come affreschi e dipinti. E suggeriva che il solo rimedio per difendersi dall’insidia velenosa della serpentina Pulzella fosse quello di decapitarla come Medusa e bruciarla sul rogo. Il Medioevo è epoca di esclusione dell’alterità. L’alterità femminile è in primo piano, ma non è la sola. La letteratura didattica e l’iconografia popolare mostrano che «fra i dispositivi usati per identificare e denigrare le figure da emarginare – contadini, ebrei, musulmani, neri, eretici, lebbrosi, menomati fisici, giocatori d’azzardo, giullari e prostitute – erano preferiti, per la loro forza espressiva, i criteri fisici, i comportamenti e i gesti» (p. 224). Le donne, che non potevano insegnare né governare, erano il nero rispetto al bianco del maschile. Temibile come un’insidia permanente, priva di un raziocinio indipendente, la femmina stava al maschio come il corpo all’anima, le passioni alla guida razionale. L’uomo viveva dunque un’autoestraneazione nelle due figure contrapposte, femminile e maschile. Di qui la malafede maschile di attribuire all’alterità femminile tutto ciò che di cieco, ingovernabile, irrazionale, malefico e distruttivo il maschio riscontrava in se stesso. La causa di ogni stortura, deviazione, smarrimento, peccato era sempre la donna, era sempre qualcosa di esterno che il maschio era costretto a subire, da cui quindi doveva guardarsi e che perciò doveva soffocare o distruggere non appena gli fosse stato possibile o, in ogni caso, tenere sotto stretta sorveglianza. Il regime e l’istituzione della separazione tra i sessi presenta un’infinità di esempi e circostanze e attraversa i secoli fino al secolo XX. I trattati dell’amor cortese furono presto colpiti da una reazione repressiva della feudalità e della Chiesa. Lo sguardo tra un uomo e una donna fomentava la passione amorosa e generava l’intesa emotiva. Dalla gioia di guardarsi negli occhi partiva la relazione amorosa. Di qui la preoccupazione ossessiva per il controllo e la disciplina dello sguardo femminile: la donna, amata e lodata da chi ne era innamorato, rimaneva agli occhi del potere maschile e dell’ideologia dominante la Gorgone pericolosa, la Pulzella velenosa, il serpente letale da cui i maschi avrebbero dovuto guardarsi. L’innamoramento era guardato con sospetto, come una pericolosa sottomissione e un abbandono ai poteri malefici della femmina, una condizione che toglieva al maschio le difese naturali, destinandolo a sicura rovina. I predicatori francescani e domenicani a partire dal XIII secolo furono chiari ed espliciti: alle donne era proibito qualsiasi contatto con i maschi. La proibizione riguardava anche sguardi e sorrisi ed era la conseguenza della condanna dell’amor cortese per eresia (pp. 229-230). Tra gli altri numerosi esempi, anche nel Bestiario d’amore di Richard de Fournival (1201-1260) compare la circostanza per cui l’uomo è preso per gli occhi e l’amore nasce allo stesso modo in cui un animale è catturato nella rete. L’uomo s’innamora a causa dello sguardo e perde l’intelletto. La paura del potere distruttivo dello sguardo femminile, l’occhiata insistente e ripetuta che, insieme alla voce, fa dell’uomo un inconsapevole prigioniero che si illude di aver messo le ali e di essere entrato in una specie di paradiso. Nasceva tuttavia il dilemma tra la rinuncia alla conoscenza (con la perdita dell’intelletto quale conseguenza dell’amore) e la rinuncia alla passione amorosa per conseguire la conoscenza e la sapienza. «Fra le inquiete perplessità di Fournival, combattuto fra il funerale della ragione e la perdita, altrettanto irreparabile, dell’amore, influiva anche l’avvilente dubbio sull’estrema pericolosità dell’occhiata femminile, in cui si celava per potenza di casualità “quella natura di serpente” che avrebbe avvelenato la sete di conoscenza» (p. 233). Il trattatello di Walter Map Dissuasio Valerii ad Ruffinum philosophum ne uxorem ducat (1180) indicava la via per mantenersi immuni e indenni dall’influenza femminile, in perfetto allineamento con la misoginia secolare. Map spiegava che l’uomo avrebbe perduta la sua identità, la sua sofferenza e delusione sarebbero stati indicibili se avesse consentito alla donna di ammaliarlo con i suoi incantesimi. Piuttosto che cedere alla tentazione della donna che lo avrebbe «morso come un serpente, lasciando una ferita refrattaria a qualunque antidoto» (p. 235), Map dichiarava preferibile per il maschio appartenere a se stesso e non a una femmina. Anche in Jean de Meun (Le Roman de la Rose) la misoginia celebra uno dei suoi vertici più alti. Il carattere misterioso della natura femminile non era altro che la sua ottusa natura di rettile, animale inferiore, emotivo e iracondo. L’uomo doveva guardarsi quindi da un essere così collerico e malizioso. «La donna era identica al serpente che si nascondeva nell’erba per aggredire meglio l’uomo con il suo veleno. Serpente, diavolo, donna, per farla breve, erano la stessa persona. Furono queste le immagini violente che conquistarono, istruirono e puntarono l’indice accusatorio contro il mondo straniero delle figlie di Eva» (p. 237). L’innamoramento come avvelenamento, l’amore come veleno. La donna era rappresentata come subdola, sleale, maligna, lussuriosa, dominata dalla passione e fomentatrice di passione, calcolatrice, avida e senza scrupoli. L’uomo che sceglieva di sposarsi avrebbe dovuto quanto meno assicurarsi che la futura consorte fosse pura e monda, nei limiti consentiti a un essere femminile, quindi vergine. Giallongo ricorda tre donne intellettuali e scrittrici, che hanno cercato di superare in qualche modo la sfortuna di essere nate donne: Ildegarda di Bingen, Trotula de Ruggiero e Christine de Pizan. Ildegarda di Bingen nel suo Liber vitae meritorum confutava la pseudoscienza dell’epoca sulla natura femminile: mostrava che le donne erano risparmiate da alcune malattie proprio grazie alle mestruazioni con cui eliminavano le sostanze nocive; erano meno impulsive degli uomini; e la loro sessualità le rendeva simili al sole che irraggia stabilmente, a differenza degli uomini che bruciavano come fuoco ardente (p. 243). Con le sue visioni «Ildegarda coltivava arditamente il desiderio di ricondurre le donne al divino e il progetto di godere della loro compagnia spirituale» (p. 244). Tutte e tre combatterono strenuamente le menzogne sulle donne riprodotte nei secoli, compresa l’identificazione della femmina con il serpente e il demonio.
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Giallongo cita un breve scritto di Freud sulla Testa della Medusa
(1922) in cui la decapitazione del Caravaggio è illustrata come espressione dell’angoscia maschile di castrazione. Il passo di Freud (La testa di Medusa, in S. Freud, Opere, Boringhieri, Torino 1980, vol. IX, pp. 415 segg.) è esplicito: «Il terrore della Medusa è il terrore della decapitazione legato alla vista di qualcosa. Da numerose analisi sappiamo che il bambino di fronte al genitale femminile crede alla minaccia di evirazione. I serpenti sostitutivi del pene acuiscono l’orrore della mancanza. I greci, fortemente omosessuali, hanno incoraggiato la raffigurazione delle donne- mostro a causa della loro evirazione» (p. 271). Freud si allinea alla tradizione umanista evocando il disgusto e la ripugnanza alla vista del sesso femminile, concepito come il risultato di una decapitazione. Il serpente rappresentava per Freud la privazione del pene femminile provocando sorpresa e turbamento infantili sul membro perduto dell’altro sesso. Giallongo richiama a questo proposito l’osservazione dello psicostorico israeliano Iacov Levi, secondo il quale «per Freud il serpente era uno dei simboli fallici meno studiato e i serpenti sulla testa di Medusa sostituivano il pene femminile, non quello maschile. Insomma, il significato del serpente come simbolo fallico femminile sarebbe divenuto più chiaro se si fosse semplicemente preso in considerazione il fatto che, in molte mitologie, il rettile era stato sempre associato alle dee e non agli dèi o agli eroi» (p. 272). Anche Sándor Ferenczi, in una breve memoria del 1923, Il simbolismo della testa della Medusa, riprende l’impostazione psicoanalitica: «La moltiplicazione dei serpenti sulla testa avrebbe alluso proprio come rappresentazione del contrario alla perdita del pene e l’orrore stesso sarebbe la ripetizione dell’impressione di paura prodotta sul bambino dai genitali privi di pene (castrati). Gli occhi angosciati e angosciosi sporgenti della Medusa alludevano pertanto, come significato collaterale, all’erezione» (p. 273). Jung è stato accusato di aver trasformato gli archetipi in verità eterne, invece di concepirli come prodotti della loro epoca, di una certa classe e di un genere, il maschile. «L’accusa, scrive Giallongo, è quella di aver recepito come modello universale l’inconscio collettivo maschile sulle donne espresso dalla cultura arcaica e classica greca» (p. 273). La psicologa junghiana Jean S. Bolen (Le dee dentro la donna. Una nuova psicologia femminile, Astrolabio 1991) ed Erich Neuman (La Grande Madre, Astrolabio 1980) si sono opposti a questa interpretazione, utilizzando i modelli interni, gli archetipi della mitologia greca come strumenti per comprendere le diverse personalità femminili. A Julia Kristeva si deve una rilettura del mito di Medusa: La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, Donzelli 2009. L’ultimo secolo ha registrato l’apparizione di figure femminili apparentate a Medusa come pericolose stimolatrici del desiderio sessuale, assaltatrici capaci di affascinare e sottomettere i maschi ai loro voleri (come nel film Basic Instinct di Paul Verhoeven). Ritorna, temibile e incombente, la donna imperiosa, indipendente, sicura di sé, sempre nel pieno controllo di se stessa, per la quale il maschio prova un’oscura attrazione mescolata ad avversione, estasi e frustrazione. Il legame tra mestruazioni e mostruosità sopravvive nella saga Twilight della scrittrice americana Stephanie Meyer, dove rivive la credenza, ancora nel XIX secolo, secondo la quale le donne si trasformavano in vampiri per recuperare il sangue perduto in seguito al ciclo mestruale. La donna insanguinata continua così, come ai tempi del Levitico, ad essere assimilata a una minaccia, a un incubo; il sangue mestruale continua a suscitare ribrezzo. La donna mestruata ancora oggi è invitata a coprire i cattivi odori del mestruo con ogni specie di deodoranti. Secondo Giallongo la donna continua ad essere relegata nella sfera dell’animalità repellente e contaminante, per l’odore disgustoso dei suoi fluidi corporei, così disgustoso che la pubblicità e le confezioni dei tamponi ricorrono al verde, blu e bianco, evitando rigorosamente il rosso, che alluderebbe pericolosamente a un flusso che va mantenuto clandestino (pp. 284-285). Ma, ci chiediamo, davvero solo il maschio prova disgusto per il flusso mestruale? Se la donna è un essere umano a tutti gli effetti, come è possibile che l’avversione per le mestruazioni non sia presente anche nella donna? Non è proprio questo un modo per affossare la donna in una dimensione di pura corporeità animale, incapace di percepire le parti maleodoranti di sé? Giallongo scrive che il punto di vista dominante sulla donna è quello del soggetto maschile, che costruisce in vari modi e ambiti l’immagine della donna come altro. La donna, definita in termini negativi solo in relazione all’uomo, vive in uno stato di emarginazione, sempre sul punto di essere espulsa. L’alterità femminile, scrive Giallongo citando Simone de Beauvoir, non è costruita solo sulle mestruazioni: non sono le mestruazioni che fanno della donna una figura dell’Altro, ma è la donna in quanto Altro che fa delle mestruazioni un marchio di riconoscimento. «I tolleranti messaggi sulla vergogna, sulla riservatezza, sulla sicurezza dei tamponi e degli assorbenti in fin dei conti promettono, anche se in apparenza rompono i tabù, di perpetuare il segreto, rendendo eterno il gioco della gerarchia sessuale (…) Quindi, nonostante la raffinata doratura sanitaria e medica, le mestruazioni non si sono liberate del loro quid nauseabondo e ammorbante, che spesso hanno condiviso con altri scherzi di natura» (pp. 285-286). Lo studio di Giallongo mostra come durante il Medioevo «il segno distintivo dei secreta mulierum era l’effetto velenoso, contaminante del sangue mestruale» (p. 286), secondo una teoria che risaliva all’epoca di Aristotele, Plinio il Vecchio, Galeno. La donna, sia nella tradizione classica sia in quella biblica, continuava a essere trattata come un essere pericoloso socialmente perché impuro. La storia di Eva consentiva di assimilare la donna al serpente, rafforzando la misoginia imperante. La donna non è mai stata componente a pieno titolo della società, ma le era riconosciuta un’esistenza relativa, appunto come Altro. Le mestruazioni erano considerate la prova del carattere impuro e velenoso del sangue femminile e quindi dell’anomalia congenita della donna in quanto tale, che era così identificata con i mostri in un quadro teratologico elaborato mediante l’indicazione sempre più scoperta della sua parentela con il serpente: la donna era un serpente dal sangue impuro e velenoso, un mostro che poteva assumere innumerevoli varianti. La donna poteva uccidere con lo sguardo, come fosse una Medusa, poiché gli occhi della donna mestruata emanavano vapori corrosivi che avvelenavano l’aria circostante, come dimostrava, secondo la tradizione aristotelica, l’effetto di opacizzazione che lo sguardo femminile produceva ai danni degli specchi. Quelle evidenze sembravano tali da autorizzare i maschi a prendere misure severe per proteggersi dalla potenza dello sguardo femminile; la donna veniva così tenuta in quarantena permanente, controllata, aborrita ed esclusa dalle attività della polis. Nessun rapporto era quindi ammesso con la donna mestruata. «Nell’immenso serbatoio della civilizzazione occidentale, il potente controllo sullo sguardo, ora per evitarne il potere pietrificante, ora per farlo rivolgere umilmente verso il basso, servì a giustificare la gerarchia tra i sessi. La negativa predominanza simbolica della donna serpente, funzionale alla rappresentazione dell’alterità, rientra quindi nei ritmi di questo processo storico» (p. 294). Giallongo auspica che possa riprendere il progetto di ribellione alla vergogna e all’infelicità cui la donna è stata destinata per secoli. Riprendendo l’opera di Christine de Pizan, la donna oggi può decostruire l’immagine della Medusa, restituendole una bellezza nuova, piena di effetti positivi e carica di slanci vitali. Per Christine de Pizan Medusa era stata «un simbolo luminoso, sereno, liberatorio, salutare. Qui sta il valore del pensiero sognante della de Pizan, che inseguì per sé e per le altre un sentimento diffuso di armonica gioia di vivere» (p. 295).
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Un aspetto non trascurabile è il ruolo che la donna ha avuto nel
creare l’immagine delle mestruazioni come di un segno di fallimento: il ciclo interviene a denunciare, fisiologicamente, l’assenza di fecondazione e gravidanza, vale a dire la mancanza di ciò che, per la donna, rappresenta il completamento, l’espressione della massima perfezione della sua natura. È un aspetto che sfugge completamente a Giallongo e al femminismo in genere. La donna prova un primordiale e intrinseco, si può dire, senso di colpa ogni volta che subisce il flusso mestruale, a conclusione della periodica fase di ovulazione che non ha dato luogo al concepimento. Molte depressioni femminili concomitanti al flusso mestruale sono evidentemente una risposta inconscia e profonda, transtoricamente significativa, al mancato concepimento. Quindi in parte la condanna maschile della donna mestruata può discendere dal fatto che il maschio accoglie la svalutazione che la donna vive di se stessa. Le mestruazioni come sinonimo di sterilità e morte, sono state e continuano ad essere un incubo in primo luogo per la donna. La messa in guardia dall’aver rapporti sessuali con una donna mestruata, rafforzata dalla prospettazione del rischio di morire, è un’elaborazione del disgusto femminile, recepito dal maschio, per un accoppiamento senza speranza di concepimento. Bisogna capire se l’orrore per le mestruazioni non sia stato una costante in tutte le epoche dell’umanità, paleolitico compreso. Se questa considerazione non è priva di fondamento, allora si dovrà riscrivere la storia della donna serpente evitando di fare della figura femminile la sola vittima e del maschio il solo carnefice responsabile della brutale deformazione, demonizzazione e messa al bando, che la donna ha indubbiamente subito nel corso dei secoli.