Sei sulla pagina 1di 120

Cartografie /

Raymond Williams (1921-1988), fino al 1983 fu titolare della


cattedra di “Drama” a Cambrigde. Tra i fondatori dei cultu-
ral studies, punto di riferimento della new left inglese, e tra i
maggiore sociologi della seconda metà del Novecento di lingua
inglese. In italiano sono stati tradotti: Cultura e rivoluzione
industriale (Einaudi, 1968), La lunga rivoluzione (Officina,
1980), Sociologia della cultura (il Mulino, 1983) e Televisione
(Editori Riuniti, 2000).
Raymond Williams
Il dottor Caligari
a Cambridge
Dramma e classi popolari nel cinema

Postfazione e cura di Fabrizio Denunzio


Prefazione di Gino Frezza
Pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Politiche,
Sociali e della Comunicazione dell’Università degli Studi di Salerno

Prima edizione: gennaio 2015

Traduzione dall’inglese di Fabrizio Denunzio

© ombre corte
Via Alessandro Poerio 9, 37124 Verona
Tel./fax: 0458301735; mail: info@ombrecorte.it
www.ombrecorte.it

Progetto grafico copertina e impaginazione: ombre corte

ISBN: 978-88-97522-99-7
Indice

7 Avvertenza del curatore

9 Prefazione: Raymond Williams: cinema, media, società


di Gino Frezza

17 Film e tradizione drammatica


Introduzione; Natura del dramma; Film come forma dramma-
tica; Natura delle convenzioni; Dramma moderno: spettacolo
e realismo; Dramma moderno: naturalismo; Limiti del natura-
lismo; Direzioni del dramma odierno; Film come espressione
totale; Conclusioni

79 Cinema e socialismo

99 Postfazione: Il dramma come azione sociale


di Fabrizio Denunzio

1 13 Bibliografia

Avvertenza del curatore

La traduzione di Film e tradizione drammatica è stata


condotta su Film and the Dramatic Tradition, in Raymond
Williams e Michael Orrom, Preface to Film, Film Drama,
London 1954, pp. 1-55. Un’edizione molto parziale del
testo è presente in The Raymond Williams Reader, edit-
ed by John Higgins, Blackwell Publischer, Oxford 2001,
pp. 25-41. Alcune precisazioni: activity è stato reso con
azione piuttosto che con attività, perché vicino al lessico
concettuale delle scienze sociali e in grado di restituire
con una certa immediatezza l’idea di dramma che ha Wil-
liams, cioè non una generica attività estetica, ma una vera
e propria azione sociale. Habit è stato reso con conformi-
smo perché in Williams ha sempre un’accezione negativa
rispetto a quella positiva di convention, reso letteralmente
con convenzione. Performance è stato lasciato in originale
dal momento che il significato assegnatole da Williams,
cioè un’esecuzione totale di tutti gli elementi visivi, sonori,
fisici e scenici non ha equivalenti in italiano, sempre se
non si voglia riprendere il sintagma di wagneriana memo-
ria “opera totale”. Feeling, a seconda del contesto, è stato
reso con sentire e sentimento. Play, a seconda del contesto,
è stato reso con rappresentazione teatrale, lavoro teatrale e
dramma. Speech, a seconda del contesto, con parola (nel
senso dell’atto di parola) e con discorso. Design, infine, è
stato reso con messa in scena. Sono stati elisi i diversi rife-
8 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

rimenti al saggio di Michael Orrom, Film and its Dramatic


Techniques, che completa Preface to Film. Un grande rin-
graziamento va a Paoletta Denunzio per aver reperito il
testo originale.
La traduzione di Cinema e socialismo è stata condotta
su Cinema and Socialism, in R. Williams, Politics of Mo-
dernism, Verso, London-New York 2007, pp. 107-118. Si
tratta di una conferenza tenuta il 21 luglio 1985 al Natio-
nal Film Theatre di Londra, in chiusura di un festival. In
molte parti il testo conserva traccia dell’esposizione orale.
Tutti gli interventi del curatore sono segnalati in [ ]. Si
ringrazia, inoltre, Antonella Trotta per i preziosi suggeri-
menti dati in sede di revisione finale della traduzione.
Prefazione
Raymond Williams: cinema, media, società
di Gino Frezza

È davvero importante per il lettore italiano la pubbli-


cazione di questi due saggi di Raymond Williams, nel no-
stro paese fino a oggi inediti almeno nella forma completa
in cui qui vengono curati da Fabrizio Denunzio e pre-
sentati, perché coprono uno spazio finora lasciato vuoto
nella complessa tessitura di quel pensiero – tipicamente
moderno, e collegato alla prima metà e all’inizio della se-
conda metà del Novecento – che ha variamente riflettuto
sull’avvento dei media – meglio, dei sistemi mediali, con
le loro istituzioni produttive e di consumo –, da un lato in
rapporto all’emergere di nuove tecnologie della comuni-
cazione, e dall’altro in relazione all’esistenza di condizioni
culturali più vaste e di un contesto sociale.
Qual è questo spazio vuoto? Esso può essere indicato,
a titolo meramente esemplificativo, dall’assenza di questi
due saggi di Williams nella rielaborazione, sia di una pos-
sibile “sociologia del cinema”, sia di una più vasta e com-
plessa teoria del film, nella grande (e utilissima) summa
delle Teorie del cinema (1945-1990) di Francesco Casetti
pubblicata in Italia nel 1993. Difatti, sia nella bibliogra-
fia, sia nel ripercorre e dibattere, in questa importante
summa, le varie posizioni emerse nella costruzione di un
pensiero teorico del cinema e dei film, l’assenza di Wil-
liams si avverte. E, dunque, ci si chiede perché. La spie-
gazione forse è davvero semplice: può essersi trattato di
10 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

una assai comprensibile difficoltà a incasellare i testi qui


editi di Williams nei campi disciplinari dibattuti, pur con
grande precisione, da uno studioso eminente e accorto co-
me Casetti; l’apparenza con cui questi saggi si presentano
pare infatti assimilarli più alla storia dello spettacolo e del
dramma piuttosto che a una teoria del cinema.
Ma, se li si legge in profondità, si scopre l’ardita campi-
tura dello sguardo analitico (non scevro da questioni tut-
tora aperte) messo in atto dallo studioso inglese, nonché
delle suggestive ipotesi teoriche da egli delineate. Come,
per esempio, la concezione – oggi si direbbe transmediale
– del dramma, concezione con la quale Williams intende
un rapporto vivo di legami profondi fra le tradizioni del
teatro – classico e moderno – e il cinema stesso, nell’ottica
della conquista espressiva e artistica di una “espressione
totale” (idea in cui resta implicito il debito con l’idea wa-
gneriana dell’opera d’arte totale). Resta quindi il rammari-
co per essere stata finora persa l’occasione di inquadrare
il contributo dato da Williams – uno dei principali fonda-
tori della sociologia della cultura e dei media, attivo in un
trentennio così cruciale come quello fra anni Cinquanta
e Settanta del Novecento – alla prospettiva di una com-
prensione poliedrica e multiforme di un medium, come
il cinema, tanto risolutivo per capire l’epoca moderna e
post-moderna.
D’altro canto, non c’è dubbio che i saggi sul cinema
di Williams devono poter avere da noi, in Italia, il ricono-
scimento e l’interesse che meritano, oltre che aprire una
riflessione specifica su come cambia l’orizzonte teorico
sui media e sul cinema in quella differenza temporale – il
primo saggio è pubblicato nel 1954, il secondo trascrive
una conferenza tenuta nel 1985, pochi anni prima della
morte – la quale, d’altronde, pone in atto un vero e pro-
prio scarto culturale. È la differenza fra i primi anni Cin-
quanta e i primi anni Ottanta. Si tratta, in altre parole, di
una differenza che mette in scena, negli anni Cinquanta,
l’emergere del conflitto e della concorrenza fra Cinema e
PREFAZIONE 11

Tv – concorrenza che muta il contesto informativo e cul-


turale in cui, da lì in poi, viene formato il pubblico dei me-
dia – rispetto a un decennio come gli anni Ottanta, perio-
do in cui, invece, l’ormai avvenuta e avanzata integrazione
e ibridazione fra quei due media concorre a predisporre
l’emergere dello scarto e della “rivoluzione” complessiva
dei media digitali nei decenni successivi.
Ma, dalla lettura di questi saggi, la figura di Raymond
Williams – indubitabilmente, uno dei più significativi fon-
datori della sociologia della cultura e dei media (Bechel-
loni 1983), in particolare della Televisione – svetta anche
come uno dei pensatori che, nei decenni chiave della for-
mazione della società dei consumi (anni Cinquanta-Set-
tanta), ricollocano il cinema nella rete dei legami tessu-
ti fra vita sociale e processi di comunicazione, e insieme
propugnano punti di vista che rinsaldano un preciso
collegamento fra studio dei media, teoria della società e
mutamento sociale (in una linea che, a mio avviso, deve
ricomprendere, almeno, autori del secondo dopoguerra
come Edgar Morin, Siegfried Kracauer, Galvano Della
Volpe, Theodor Adorno, Max Horkheimer).

Film e performance totale

Riguardo alla concezione anti-essenzialistica del dram-


ma avanzata nel primo saggio qui presentato di Williams,
ossia Film e tradizione drammatica, rimando il lettore al-
la interessante e intensa ricostruzione mossa, nella post-
fazione, dal curatore di questo libro, in cui si segnalano
lucidamente le differenze epistemologiche che marcano
il pensiero “materialistico” e pragmatico dello studioso
inglese nei confronti di altri importanti pensatori del No-
vecento. Non c’è dubbio, insomma, che quando Williams
collega il cinema al teatro, contemporaneamente delinei il
quadro delle novità che rendono la piattaforma espressiva
del cinema in grado di realizzare quello che il teatro può
12 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

fare soltanto virtualmente; il cinema è inteso, pertanto, co-


me una innovazione decisiva, che corrisponde a un sentire
comune, socialmente diffuso, che punta a una maggiore
completezza nella realizzazione appunto “drammatica”.
È da rimarcare l’accentuazione che un pensatore
marxista come Williams fornisce alla dimensione sociale
del cinema, riconosciuta non, banalmente, nelle ideolo-
gie e nei “contenuti” rappresentati, ma soprattutto nelle
sue forme di rappresentazione. Per esempio, nel legame
profondo che collega la convenzione espressiva alla sua
accettazione/legittimazione da parte del pubblico. Nel-
la concezione di Williams, la forma convenzionale dello
standard – così presente e non espungibile nelle strategie
delle istituzioni produttive del Cinema, o nelle modalità di
consumo del film in sala – non è un elemento meramente
formale, né si spiega e si risolve esclusivamente nelle logi-
che delle economie di produzione. Essa piuttosto rimanda
al contesto socio-culturale, alle legittimazioni sociali che
rendono possibile la circolazione del senso depositato nel-
lo standard espressivo; le osservazioni di Williams su que-
sto punto sono così lucide da costituire, nemmeno tanto
implicitamente, un elemento forte per la fondazione dello
sguardo sociologico sui media. Si tratta di un punto quali-
ficante del suo discorso, che non a caso sfocia nel tema del
sentire comune (su cui infra).
Altrettanto rimarchevole è il modo in cui da Williams
viene ricostruito il contesto spettacolare che, dalle forme
pre-cinematografiche, perviene, ai primi del Novecento,
alla decisiva novità costituita dal cinema; Williams inter-
roga e interpreta lucidamente il mutamento e lo “stupore”
costituito dalla tecnologia cinefotografica, in particolare
rispetto al melodramma, al romanzo “popolare”, alle for-
me di teatro popolare (music hall ecc.). Lo studioso in-
glese contribuisce in modo originale alla comprensione di
cosa debba essere inteso per “spettacolare” o per “realisti-
co”. La differenza/somiglianza fra spettacolo e realismo,
com’è da lui trattata, riporta il lettore a una articolata serie
PREFAZIONE 13

di dibattiti – teorici e storici – sulle origini del cinema:


un medium che, insieme, contiene lo spettacolo nel suo
medesimo dispositivo tecnico (la fotografia del reale final-
mente dinamica e quindi complessa), ossia effetti speciali
intrinseci alla tecnologia espressiva, ma anche, e soprattut-
to, la capacità di andare oltre, verso un realismo profondo
in grado di cogliere la struttura del sentire comune: quel
senso depositato in una data epoca storica e che ne costi-
tuisce la serie, complessa, e stratificata, di percezioni e di
emozioni/cognizioni condivise.
E, anche se le argomentazioni di Williams sono rife-
rite specialmente al teatro di Primo Novecento (Cechov,
Strindberg, Stanislavskij) e al problema del Naturalismo,
tuttavia esse rivestono una notevole importanza per varie
questioni di teoria del Cinema. Per esempio, egli discu-
te di “realismo” e di “spettacolo” senza concedere nulla
sia a una visione ontologica del reale incisa nella tecnolo-
gia cine-fotografica, sia a ipotetici o singolari incroci fra
psicologia sociale e filosofia. C’è una netta differenza, su
questi punti, fra questo scritto di Williams e un libro, pur
così importante, uscito pochi anni dopo, come Theory of
Film di Siegfried Kracauer (Kracauer 1960), in cui il ci-
nema è infine considerato nei termini di una “redenzione
della realtà” fondata sulla sua natura essenzialmente foto-
grafica. La prospettiva di Williams, invece, senza tenten-
namenti, afferma e salvaguarda il carattere performativo
dell’opera filmica, cioè l’esperienza che in essa si produce
come creazione in atto: per quanto ripetibile e replicabile,
il film, grazie a questo imprescindibile carattere perfor-
mativo, segna un avanzamento, nei termini della perfezio-
ne drammatica, rispetto alla scena e al teatro. Per tali sue
implicazioni, il pensiero di Williams risulta insomma più
vicino, da un lato, a quello di Marshall McLuhan (laddove
egli considera vari aspetti collegati alle diverse piattaforme
comunicative del teatro e del cinema e a come esse “se-
zionino” la percezione e la sensibilità degli spettatori) e,
dall’altro, a quello di Walter Benjamin (quando Williams
14 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

considera il portato delle innovazioni sociali conseguite da


questa particolare tecnologia mediale).

Cinema e mutamento sociale

“Il primo pubblico del cinema fu quello della gente


delle grandi città del mondo industrializzato. Tra le stes-
se persone, nello stesso periodo, il movimento operaio e
quello socialista crescevano di forza”. Con queste parole
si apre il secondo saggio, Cinema e socialismo. Apertura
sorprendente – non in sé, si badi, ma per come il nostro
autore immediatamente colleghi i temi sociali del Cinema
a quelli della Metropoli. La domanda che si pone è: può il
Cinema può farsi motore di una profonda trasformazione
sociale? Attraverso Williams, dunque, rientrano in gioco
problemi grandi e piccoli di una visione moderna e radica-
le, sia del Medium che della stessa Società. Egli ribadisce
che il Cinema fa parte di quell’orizzonte di vasti, e non
semplici, mutamenti della vita quotidiana fra Ottocento
e Novecento. Si tratta, anche questo, di un filo comples-
so del pensiero sociologico e mediologico, che da un lato
forse inizia dal noto testo su La Metropoli e la vita dello
spirito di Georg Simmel (Simmel 1903) e dall’altro, do-
po esser degnamente rilanciato dal grande saggio di Wal-
ter Benjamin sull’opera d’arte e la riproducibilità tecnica
(Benjamin 1936), viene assai utilmente ripreso, dagli anni
Settanta a oggi, nelle riflessioni di un sociologo italiano co-
me Alberto Abruzzese, dedicate a temi quali: forme este-
tiche, società di massa, democrazie e conflitti, costruzione
dell’immaginario sociale del Cinema (Abruzzese 1973,
2006, 2007a e 2007b). Temi considerati da Abruzzese, ne-
cessariamente, in una visione sistemica dei media, in rela-
zione alla storia e alle dinamiche che riguardano l’intera
vicenda dei mezzi e delle tecnologie della comunicazione
e, in particolare, oltre al cinema, la letteratura, il fumetto,
la Tv, l’informazione.
PREFAZIONE 15

Nella sua conferenza su cinema e socialismo, Williams


scarta subito un problema, liquidato come inessenziale e
sbagliato: quello di far coincidere il cinema con il “popo-
lare”; e altresì avverte sul rischio di ritenere che solo le
forze del cambiamento – in termini sintetici, le forze di
Sinistra – possano arrogarsi il titolo di aver promosso, o
addirittura scatenato, l’acquisizione di diritti maggiori o di
libertà prima negate. Da un lato, Williams subito ricono-
sce che le forze del cambiamento possono annidarsi in zo-
ne non considerate interessanti, sul piano politico, dal So-
cialismo (se non addirittura avverse, come le azioni svolte
dai commercianti per l’aumento dei traffici e degli scambi,
mentre queste invece hanno innescato cambiamenti che,
in tempi medi/lunghi, hanno fatto conseguire un aumen-
to delle libertà e dei diritti). E, dall’altro, segnala come
quel che viene inteso come “popolare” possa essere imme-
diatamente sentito e riconosciuto dagli Stati e dai Poteri
Costituiti con la qualità di un elemento assolutamente da
controllare, per contenerne il potenziale sovversivo o ri-
voluzionario. Si è al centro di questioni che attengono ad
argomenti quali: Masse, Democrazie, Libertà ecc.
Film e socialismo, per Williams, appaiono precursori
e attuatori di “un nuovo tipo di mondo, quello moder-
no: basato sulla scienza e la tecnologia; fondamentalmente
aperto e mobile; quindi, non solo un medium popolare,
ma anche dinamico e, forse addirittura, rivoluzionario”. È
una prospettiva che si nutre di immagini di futuro, qual-
che volta di Utopie, comunque di spinte e di energie di-
rottate al cambiamento. A un certo momento del suo di-
scorso, riemerge il punto di vista dello studioso di sistemi.
Una concezione socialista del Cinema, per Williams, non
può non vedere una “certa simmetria nei processi”: quella
fra sviluppo del Medium e sviluppo di Economie e Forme
Sociali che si verificano direttamente sul piano transnazio-
nale invece che, meramente, su quello locale.
È un’affermazione oggi ancora valida, nell’epoca delle
reti digitali e della loro pervasività nelle forme intricate in
16 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

cui l’Economia, pur in crisi, tuttavia si innesta come rete


sociale di comunicazione fra Mercato e Consumo, Produ-
zione e Collettività distribuite non uniformemente, e nella
valenza sempre più alta delle soggettività che emergono
nelle pratiche delle reti di comunicazione. Secondo un
tasso che, mentre accresce le opportunità – non solo di
comunicazione, ma di vita – per individui e comunità più
o meno vaste, dall’altra vede attecchire disuguaglianze e
conflitti talora insanabili.
Non mancano osservazioni sulla funzione cruciale che,
per la conoscenza sociale, svolge il cinema come linguag-
gio audiovisivo; nei passaggi dedicati al montaggio come
“modernismo rivoluzionario” o in quelli sul montaggio e
sulla dialettica “come forme strettamente legate allo stes-
so movimento rivoluzionario del pensiero” non soltanto si
riconosce un debito che il sociologo inglese paga alla let-
tura degli scritti sul cinema di autori senza dubbio amati
nella cerchia universitaria – marxista e più – di Cambridge
(come Pudovkin e Ejsenstejn, o il grande cinema tedesco
espressionista, e di qui ecco la spiegazione del titolo di
questo volume), ma anche una comprensione profonda
degli effetti che il nostro medium innesca per la conoscen-
za del mondo e del reale. Con alcune affermazioni incon-
trovertibili, per esempio la seguente:

Questa capacità di muoversi oltre i limiti spaziali fissati, di


connettere o collidere azioni altrimenti separate, di investire
momenti e frammenti con il potere di un immaginario soste-
nuto e integrato, questa capacità di costruire un nuovo flusso
di conoscenze, o di alterarlo, rappresenta infatti la gamma di
maggiori potenzialità per l’innovazione,

Williams non si limita, infine, a dichiarare il potere del


medium ma, assieme alla tensione a inquadrare il cinema
nei processi che articolano un sentire comune e condiviso,
ne cerca i segreti più reconditi, ne scruta le implicazioni
che adempiono al suo valore socio-culturale più alto e am-
bizioso.
Film e tradizione drammatica

Introduzione

Il film, nelle sue principali realizzazioni, è un medium


particolare all’interno della tradizione generale del dram-
ma. In quanto medium drammatico, la sua novità essen-
ziale è quella di offrire, sotto diversi aspetti, condizioni del
tutto nuove e differenti alla performance. Infatti, il film è,
dal punto di vista della tradizione drammatica in generale,
una particolare specie di performance, unica per il fatto
che quella a cui dà vita è registrata e definitiva. Si tratta, in
altre parole, di una performance totale che non può essere
distinta da ciò che in essa viene performato.
Gran parte dei teorici e dei critici del film, come del
resto degli attuali registi, sono stati imprecisi perché han-
no trascurato, o addirittura negato, la relazione di que-
sto nuovo medium con la più vasta e generale tradizione
drammatica. Infatti, nella maggior parte dei libri sul film,
la distinzione di questo dalle altre arti è quasi assiomati-
ca, e si ottiene, come risultato, che termini quali teatrale
e letterario sono, in questo vocabolario speciale, forme di
critica negativa o di rifiuto. Mentre è ovvio che il film è un
medium nuovo e differente – ed è certo che chi non ne è
del tutto consapevole finirà col non saperlo usare bene –
appare meno evidente che la distinzione tra teatrale e lette-
rario non riguarda da un lato il film e dall’altro il dramma e
18 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

la letteratura, ma i metodi del film e i metodi di alcuni tipi


di opere teatrali o di romanzi. Infatti, sebbene una specie
particolare di opera teatrale non rappresenti per intero la
tradizione drammatica, per lo più gran parte delle persone
tende a credere che l’opera teatrale a cui è abituata equi-
valga interamente al genere drammatico, e, sebbene il ro-
manzo non sia l’unica forma letteraria, oggi è talmente do-
minante che gran parte delle persone ricavano la loro idea
di cosa sia letterario dalla propria esperienza di lettori di
romanzi. Così, se è necessario distinguere, come medium,
il film dal teatro o dal romanzo contemporaneo, non ne
consegue che esso, come arte, non abbia alcuna relazione
col dramma, né tanto meno, dal momento che il dramma
è in primo luogo una forma letteraria, non abbia alcuna
rilevante relazione con la letteratura. Dire che i metodi di
Citizen Kane1 sono differenti da quelli di Candida2 non si-
gnifica rifiutare la relazione generale, ma in verità è come
dire che i metodi drammatici di Ibsen sono differenti da
quelli di Shakespeare o di Sofocle o da quelli del teatro Nō
del Giappone. I metodi drammatici cambiano, nel lavoro
di ogni autore drammatico, come le condizioni della per-
formance, ma tutti questi cambiamenti avvengono all’inter-
no della tradizione drammatica: lo stesso accade nel caso
dei film, che arriva a coinvolgere tanto le nuove condizioni
della performance, quanto quelle dei metodi drammatici
che tali nuove condizioni hanno rese necessarie.
Insistere con particolare enfasi sulle convenzioni speci-
fiche del medium filmico è, in realtà, perfettamente com-
patibile con il pieno riconoscimento del suo posto nella
tradizione drammatica generale. E il film ha sofferto per-
ché questo riconoscimento non c’è stato, il che non vuol
dire che la tradizione non l’abbia influenzato, significa so-
lamente, e lo ha significato per sessant’anni, che tale in-
fluenza è stata casuale e indiretta, e ciò che ha agito non lo

1 [Quarto potere, 1941, di Orson Welles.]


2 [Commedia di G. B. Shaw del 1895.]
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 19

ha fatto in quanto risultato di una consapevole selezione di


elementi nell’interezza della tradizione stessa, ma piuttosto
come frutto di contatti del tutto accidentali e puntuali.
La conseguenza è che, mentre elementi mediocri e irri-
levanti hanno avuto un effetto definitivo, quelli buoni e ri-
levanti sono stati spesso trascurati. Il regista che afferma di
impiegare il nuovo medium senza riferirsi alla tradizione
generale del dramma e della letteratura, sta decisamente
ingannando se stesso. Infatti, gran parte dei film contem-
poranei sono troppo strettamente legati ai metodi delle
opere teatrali o dei romanzi attuali, di cui sono spesso solo
dei sostituti inferiori, mentre, al di là di questo conformi-
smo, un’area vasta e fertile della tradizione drammatica ri-
mane relativamente inesplorata. Nel film, i maggiori espe-
rimenti creativi sono ancora da fare, e saremo più forti e
più liberi di riuscire a farli quando potremo attingere alla
tradizione generale del dramma, rifiutando i limiti imposti
dal conformismo e dalla terminologia odierni.
In questo saggio discuterò: primo, la natura generale
del dramma; secondo, la natura delle convenzioni dram-
matiche; terzo, le convenzioni e le consuetudini del dram-
ma e del film del nostro tempo; quarto, il concetto di per-
formance totale, vera e propria opportunità concettuale
del film.

Natura del dramma

Si tende ad accettare, forse soprattutto in Inghilterra,


che la definizione di un’arte debba essere cercata facen-
do riferimento alle opere, anziché in una generalizzazio-
ne astratta dell’arte nel suo complesso. Il dramma è stato
spesso definito da un numero di formule tutte in competi-
zione tra di loro, ma mentre ciascuna di esse può fungere,
momentaneamente, da utile parola d’ordine, oppure da
significativa generalizzazione per un numero particolare
di opere, è molto pericoloso usare queste formule come se
20 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

fossero la definizione di una essenza assoluta. La difficoltà


nasce quando il dramma, in quanto sostantivo, è pensato
come il nome di una singola identificabile cosa, un oggetto
assoluto, immutabile ed eterno. Qualsiasi ricerca che inizi
da un presupposto del genere, crediamo che ad un certo
punto ci possa fare sbagliare. E questo perché confonde il
nome con l’azione, e mentre il nome può persistere, l’azio-
ne stessa può cambiare: se adottiamo l’ipotesi che esista
un solo nome, finiamo per concludere che l’azione che
esso descrive deve avere, in fondo, qualcosa di immuta-
bile e assoluto, e quindi non riusciremo a comprendere le
trasformazioni dell’azione stessa.
Se, per esempio, vogliamo capire la tragedia, abbiamo
bisogno di prendere in esame un numero di opere che, in
un certo tempo e in un certo luogo, sono state chiamate
tragedie e, sulla base di dati di fatto, vedere quanto sia
possibile ricavarne un principio generale. Anche in que-
sto caso, non dobbiamo pensare che stiamo cercando di
distillare da ognuna di queste opere qualche essenza asso-
luta chiamata Tragedia, indipendente da esse. Rendiamo
più giustizia a tali opere se diciamo che la nostra ricerca
riguarda esperienze drammatiche diverse che vengono de-
finite tragiche. Allo stesso modo, nel dramma, dobbiamo
riconoscere di trovarci di fronte a opere e non a un’essen-
za. Scopriremo, ad esempio, che le definizioni di un critico
come Aristotele sono nulla di più (o di meno) che ragione-
voli generalizzazioni di tutto ciò che sapeva del dramma;
e quando arriviamo a opere di Shakespeare, o di Ibsen, o
di Cocteau, saranno necessarie generalizzazioni differenti.
Nel cuore della polemica, inoltre, possiamo usare le defi-
nizioni coniate in una data epoca per sminuire le opere di
un’altra (questo era il modo in cui procedeva Sidney nella
sua Difesa della poesia3). Al di là di tutto ciò, dopo attenta
comparazione, potremmo anche preferire i metodi di un
tipo di dramma a quelli di un altro, e argomentare la no-

3 [Philip Sidney, poeta inglese di epoca elisabettiana.]


FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 21

stra preferenza, ma rimane comunque un abuso intellettua-


le cercare di assegnare il nome generico di dramma a una
qualsiasi particolarità, provando che un’altra opera non sia
dramma perché ha infranto qualche “legge essenziale”.
Questo punto di vista può essere accettato, ma si può
obiettare che in tal modo non saremo più in grado di di-
stinguere il dramma da qualsiasi altra specie di espressione
artistica. A meno di non essere in grado di elaborare una
definizione generale, non saremo capaci di dire se una par-
ticolare opera sia dramma o fiction, dramma poetico o po-
esia drammatica. Penso che questa paura sia esagerata, ma
una questione di questo tipo diventa ovviamente rilevante
di fronte alla pretesa di considerare il film nelle sue tante
realizzazioni come una forma drammatica. Si è stabilito, lo
si è visto, che il dramma non è un’essenza assoluta: è il no-
me dato, in tempi e luoghi diversi, ad alcune differenti ti-
pologie di azione. Ai nostri giorni, d’altra parte, per dram-
ma si intende comunemente quello teatrale, che può essere
legittimamente distinto dall’opera lirica, dal balletto e dal
film. Ad un critico che ponesse obiezioni del genere sarà
inutile fare notare che il dramma, in certi tempi e luoghi,
ha incluso il canto, la musica e la danza: vi risponderà che
si tratta di forme distinte e che confonderle è senza senso.
Ora, se il risultato di tutto ciò fosse davvero la confusione,
allora, ci sarebbe da essere d’accordo, ma c’è almeno una
buona ragione per sostenere che tale distinzione, sotto cer-
ti aspetti, sia dannosa. Se, per esempio, insistiamo nel man-
tenere la separazione dei nomi e ad assegnare a ognuno di
essi la propria “legge”, ci neghiamo, per ragioni puramente
formali, l’opportunità di scoprire nuove e preziose forme
di espressione. Stiamo per caso dicendo che nel dramma i
performers parlano, nell’opera lirica cantano, nel balletto
danzano, e che tutto ciò pone fine alla discussione? Dal
momento che siamo consapevoli delle forme del dram-
ma – ad esempio di quello del v secolo in Atene – in cui
i performers parlavano, cantavano e danzavano nella stes-
sa opera, non ci stiamo per caso negando, solo per motivi
22 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

formali, l’opportunità di una simile gamma e flessibilità di


espressione, semplicemente perché oggi abbiamo tre nomi
distinti per questi tipi di performance?
Allo stesso modo, nel film, grazie alla natura del me-
dium, troviamo l’opportunità di avere una specie comple-
tamente nuova di espressione visuale attraverso l’uso della
macchina da presa, l’abilità di selezionare immagini visive e
montarle in rapporti del tutto determinati dall’artista. Certi
critici, giustamente consapevoli dell’unicità di questa tecni-
ca, hanno stabilito che solo questo è film, e in ciò distinto
dal dramma o dall’opera o dal balletto. Questi critici, nei
modi più assoluti, sosterranno che poiché il film ha questa
unica proprietà, la parola, il canto e la danza sono sem-
plicemente intrusivi, e devono essere lasciati nei rispettivi
compartimenti stagni del dramma, dell’opera lirica e del
balletto, lì dove non possono adulterare la pura essenza del
film. Mi sembra che un atteggiamento di questo tipo, come
quelli corrispondenti nel dramma, nell’opera lirica e nel
balletto, sia solo una resa ad una tirannia dei nomi.
Un artista che lavori alla realizzazione di un dramma
dovrebbe essere in grado, a seconda di come giudica ne-
cessario in base all’esperienza che intende creare, di im-
piegare nella sua performance le modalità della parola, del
canto, della danza, o dell’immaginario visivo. Il suo com-
pito sarà fare dell’opera intera un’unità, e non dovrebbe
vietarsi tale tentativo nel rispetto di qualche “legge” im-
maginata. Può decidere che la sua performance si svolga,
secondo una qualunque delle possibili modalità, su un
palcoscenico; oppure solamente attraverso i suoni, come
nel caso di un’opera teatrale scritta per essere trasmessa
via radio; oppure, grazie alla disponibilità di una vasta
gamma di risorse visive, nel film. La sua scelta, in questi
casi, dovrebbe sicuramente essere determinata solo da ciò
che la sostanza del suo lavoro rende necessario, e non da
meri conformismi pratici o verbali. La prospettiva allora
sarebbe quella di utilizzare una o tutte le convenzioni che
la produzione del dramma prevede.
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 23

A questo punto si noterà che il dramma stesso rima-


ne indefinito. Se non è semplicemente un’opera teatrale
o una trasmissione radiofonica, come categoria è del tut-
to riconoscibile? Ho già sostenuto che nessuna semplice
definizione al mondo farebbe al caso. Allora, in generale,
non è possibile definire questo tipo di azione?
Direi ancora una volta che l’unica definizione reale si
trova nelle opere stesse, anche se una descrizione dei tipi
di azioni che chiamiamo dramma è possibile. Penso sia
chiaro, prima di tutto, che l’elemento della performance
sia uno dei più importanti per ottenere questo tipo di
riconoscimento. Con performance intendiamo un gran
numero di azioni: differenti modi di parlare, di recitare
e di cantare; diverse modalità di movimento, incluso il
movimento comune, i gesti di molti tipi e di differenti
gradi di formalizzazione e la danza anch’essa con le sue
differenti forme, tutte impiegabili da un individuo solo o
da un gruppo, così come del resto il parlare, il recitare e il
cantare; e ancora, modi della rappresentazione visiva nei
vestiti dei performers, nella presentazione della scenogra-
fia, nell’uso della luce o delle immagini visive, statiche o
in movimento; infine, le modalità del suono, formalizzate
nella musica o articolate in tutte le altre possibilità che
non riguardano la voce umana.
Dal mio punto di vista, quando troviamo l’elemento
della performance abbiamo già fatto tanta strada per com-
prendere ciò che, in un senso più generale, è il dramma.
In quelli che la nostra tradizione riconosce come i perio-
di di maggiore sviluppo del dramma – la Grecia antica, il
Medioevo, l’epoca elisabettiana, il naturalismo moderno
– gli elementi verbali, fisici, visivi e uditivi della perfor-
mance sono tutti presenti, sebbene ciascuno di essi vari
ampiamente per particolari modalità. Un’opera letteraria
scritta per essere performata secondo una delle modalità
indicate, è immediatamente riconoscibile come dramma.
Quindi, si può dire che la caratteristica della perfor-
mance drammatica, considerata complessivamente, sia la
24 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

rappresentazione, o la mimica, o l’imitazione (mimesis).


Ovviamente, ciò che queste parole indicano è vitale: un
poeta che scriva versi da leggere ad alta voce si potrebbe
dire, in un certo senso, che scriva per la performance, ma
a meno che la performance non contenga questo elemento
dell’imitazione dovremmo esitare a chiamarla drammatica.
Come al solito la difficoltà nasce dal fatto che ognuna del-
le possibili parole che potremmo usare per descrivere tale
elemento è stata associata a certe convenzioni particolari.
Rappresentazione, ad esempio, è spesso associata con na-
turalistico, come se l’intenzione del dramma fosse la “rap-
presentazione realistica” delle azioni, del discorso e delle
emozioni attraverso metodi familiari al teatro naturalista.
Chiaramente, per dirla in modo molto semplice, quando
un autore scrive o un attore parla o canta in versi, non si
tratta di una rappresentazione realistica e, nello stesso sen-
so, né lo sono il movimento o il gesto formalizzato. Certo,
tali convenzioni sono una parte importante del dramma
come noi lo conosciamo, ma definire lo scopo della per-
formance con la sola rappresentazione diventa pericoloso
se consente a chiunque di pensare che un insieme parti-
colare di convenzioni possa significare l’intero metodo
drammatico. Credo che ciò sia un pericolo reale anche a
causa della predominanza del naturalismo nel nostro tem-
po, ed è facile vedere quanto imitazione o mimica possano
sollecitare le medesime associazioni che sollecita la rappre-
sentazione. Nel contesto del dramma, la performance porta
su di sé tutto il peso di questa situazione e si potrebbe
essere ancora più precisi chiamandola performance in at-
to. Ancora una volta, però, va sottolineato che l’elemento
dell’imitazione è vitale, e che i modi dell’imitazione varia-
no talmente tanto che interpretare il processo drammatico
a partire da una particolare modalità sarebbe fuorviante
Quando questi due elementi – performance o l’inten-
zione della performance, e il processo dell’imitazione – so-
no stati realizzati, si è arrivati al punto in cui, forse, si può
offrire un metodo per il riconoscimento del dramma come
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 25

azione distintiva. Non si può definire il dramma nei ter-


mini del teatro perché qualche dramma importante (per
esempio quello inglese dei miracoli e dei misteri4) è stato
recitato abitualmente in un posto diverso dal teatro. Non
lo si può definire nei termini del palcoscenico perché (a
parte la confusione che può derivare dalla grande varietà
di palcoscenici che sono stati usati) abbiamo memoria di
performances drammatiche che non lo usano nel senso che
il termine ha attualmente: si pensi al dramma attico del
V secolo, al teatro dei misteri della Cornovaglia, per non
parlare delle complicazioni introdotte dal dramma radio-
fonico. Tutti possono dire che il dramma ha un luogo in
cui essere eseguito, ma la centralità performance lo rende
già di per sé evidente.
Come accade per la maggior parte delle definizioni più
ambiziose – di cui è un buon esempio quella del dramma è
conflitto – queste, mentre spesso offrono delle importanti
generalizzazioni a proposito di alcune opere drammatiche
in particolare, non possono mai essere universalizzate.
Difficilmente si potrebbe descrivere l’episodio dell’Ado-
razione dei Magi del ciclo inglese del teatro dei miracoli
come l’esibizione di un conflitto, a meno che non si voglia
estendere così tanto il termine fino al punto di svuotarlo
di significato. Abitualmente il desiderio che si nasconde
dietro questo tipo di definizione è quello di riconoscere la
natura collettiva della performance drammatica. Il singolo
testo drammatico, di solito, è plurale nella performance,
nel senso che le parti sono assegnate a un numero diverso
di performers, le cui relazioni sono mostrate con chiarezza.
A causa di ciò la sostanza del dramma finisce col riguar-
dare tali relazioni, ma questo è più importante come ri-
sultato relativo alle condizioni della performance che non
in quanto legge per la sostanza dell’opera drammatica. È
ovvio che mille di queste opere hanno usato relazioni che
hanno a che fare con il conflitto, ma, ancora una volta,

4 [Genere di rappresentazione sacra tipico dell’Inghilterra medioevale.]


26 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

non è opportuno farne una legge. Si tratta, piuttosto, di


un’importante generalizzazione relativa ad un certo tipo
di dramma a sua volta molto importante.
La stessa cosa si può dire della definizione dramma è
un personaggio in azione. Nella sua accezione più neutra
ciò è quasi sempre vero, ma, poi la parola personaggio di-
mostra di aver acquisito certe particolari associazioni che
sono il risultato di un cambiamento storico piuttosto che
qualcosa di essenziale avvenuto nel processo drammatico.
Il significato della frase, allora, slitta molto facilmente ver-
so qualcosa di simile a lo scopo del dramma è la creazione
di personaggi, in cui personaggio ha di nuovo un significato
particolare. Si tratta di una generalizzazione molto utile
per certi tipi di opere teatrali, ma è inutile come legge.
Personaggio può essere opposto a tipo, come normalmente
accade oggi e, allora, ci si può inoltrare in un labirinto di
confusione come quando, ad esempio, si accusa un’opera
di “non essere realmente drammatica” perché le sue ma-
schere non sono “individui riconoscibili, reali”, ma sempli-
ci “tipi standardizzati”, o “burattini dell’autore”. Ed ecco
ricavata da una certa specie di personaggio convenzionale
una generalizzazione che si afferma come una “legge” del
dramma. Similmente, azione può essere intesa in così tanti
modi da poter trasformare un’apparente definizione in un
mero pregiudizio. Azione può significare una successio-
ne di eventi complicati che coinvolge movimenti rapidi
e pressoché continui, ma questa, non è una condizione
necessaria del dramma, che può usare anche pochissimi
movimenti e molto semplici, e concentrarsi, in alcuni mo-
menti, su qualcosa di fisso e quasi fermo. È anche vero
che in alcuni drammi l’essenziale dell’azione è dato dal di-
scorso drammatico piuttosto che da un movimento fisico
distinto, ma se azione è usato come un’opposizione alter-
nativa al solo stare in piedi e parlare, e quindi, è applicato
come una “legge” drammatica, allora, il risultato è di nuo-
vo la confusione. La definizione il dramma è un personag-
gio in azione, dunque, può essere usata per significare un
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 27

certo numero di cose o, allo stesso tempo, praticamente


niente. Questo suggerisce che difficilmente potrà servire
come legge.
Riconoscere il dramma nei termini della sua funzione
è ugualmente difficile. “Lo scopo di un’opera teatrale è
quello di intrattenere”, così inizia una critica negativa, ma
intrattenere solleva alcune domande molto impegnative
perché noi sappiamo che il dramma, in tempi e luoghi
diversi, è stato usato come spettacolo civile, come cele-
brazione religiosa, come uno strumento di propaganda,
nonché come “show business”. Pensare l’utilità del dram-
ma (un’utilità che ovviamente cambia al cambiare delle
condizioni) partendo dall’osservazione di una funzione
che successivamente l’osservatore eleva a legge, è solo un
impedimento pregiudizievole.
Nel presentare queste osservazioni di certo io non in-
tendo sostenere che ogni dichiarazione del tipo ‘se… al-
lora’ sul dramma, con i relativi argomenti a supporto, sia
sempre da invalidare. Mi sono solo preoccupato che gli
argomenti critici necessari non finissero in un punto mor-
to solo perché qualcuno usa dichiarazioni di questo tipo
come fossero una legge. La ricca varietà della tradizione
dell’azione drammatica è troppo importante, come con-
quista umana, per essere soppressa a vantaggio di qualsiasi
interesse particolare. Se fosse così perverremo inevitabil-
mente a delle preferenze e sceglieremo alcune modalità
particolari. Tali preferenze sono utili nel contesto della
tradizione generale perché possono fornire, nell’atto del-
la scelta, l’energia creativa per il rinnovamento e lo svi-
luppo. Ma se noi riconosciamo la varietà della conquista
drammatica non potremo mai lasciare che tali preferenze
si pietrifichino in formule, ma saremo pronti, quando ne-
cessario, a sperimentare e a prestare attenzione con mente
aperta alle sperimentazioni degli altri.
28 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

Film come forma drammatica

Se, come abbiamo stato sostenuto, il dramma è un tipo


di opera creativa che si distingue in virtù della performan-
ce o in funzione del suo scopo, e se, inoltre, non può esse-
re limitato identificandolo con singoli elementi di questa,
da ciò segue che il film, nelle sue principali realizzazioni,
è un tipo di dramma ed è vantaggioso riconoscerlo come
tale. L’espressione “nelle sue principali realizzazioni” è
necessaria perché il film, spesso, è realizzato come mera
registrazione, al di fuori di ogni intenzione artistica, ad
esempio, in quanto cinegiornale di eventi pubblici, oppu-
re come testimonianza di esperimenti scientifici e così via.
C’è, però, una categoria intermedia, quella del documen-
tario, che a volte è sì una semplice registrazione, ma in
altri casi è un’opera creativa che fa ricorso a convenzioni
speciali (l’uso di luoghi e di eventi reali, di persone piut-
tosto che di attori, di temi riguardanti problemi e proces-
si sociali, invece di un “racconto”). Documentario, come
termine, allora, può significare tanto una semplice regi-
strazione, quanto una convenzione speciale di questo tipo,
o a volte, addirittura, un mix di entrambe. In alcuni casi
il documentario tende a sfumare nel dramma, cioè nella
principale realizzazione del film, e questo avviene quando
in ciò che normalmente chiamiamo “racconto cinemato-
grafico” oppure “lungometraggio” sono riconoscibili gli
elementi della performance e dell’imitazione.
Qui si annida una delle possibili cause della confusione
terminologica esistente. Oggi è pratica comune tra gli im-
presari di teatro e di cinema, usare il dramma in un senso
ancora più ristretto. Un cartellone ci invita a vedere “gli
Attori X in una stagione del West End Comedies and Dra-
mas”; uno studio pubblicitario ci informa che, dopo una
carriera spesa tra commedie e musical, Miss Y è pronta
per un ruolo da protagonista in un dramma. Cosa voglia
significare dramma, in ciascun contesto, è abbastanza ov-
vio: non è più l’azione completa che ha incluso commedie,
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 29

tragedie, melodrammi (questa la parola originaria per in-


dicare i musical), e quasi tutte le loro possibili variazioni e
combinazioni, ma è limitata a temi e a sceneggiature che,
visti dal di fuori, probabilmente li si direbbe “tristi”. Spes-
so, dramma significa un tipo di tragedia, ma un’estensione
metaforica di questo tipo, che arriva addirittura a masche-
rare gli eventi reali, ne cancella il significato originale. Dal
momento che tragedia è così spesso usato per descrive-
re incidenti o i frutti di crimini violenti, è comprensibile
che gli impresari esitino a proporre ai loro committenti
di scegliere la tragedia come genere di intrattenimento. Il
dramma, in questo senso ristretto, infatti, significa molto
di più di ciò che si definirebbe tragedia; allo stesso tempo
significa qualcosa che non è commedia, o burlesco o farsa
o pantomima, e la si parafrasa come “opera teatrale seria”.
Dal momento che una commedia può essere molto seria,
si capisce che la distinzione non sempre è utile e, più in
generale, la confusione terminologica prodotta dal con-
testo pubblicitario è così grande che difficilmente si può
rimettere in ordine senza che, al contempo, si inventi un
nuovo linguaggio (un compito che a volte gli agenti pub-
blicitari sembrano assumersi). Su questo punto, però, non
ci soffermeremo oltre, lo abbiamo menzionato solamente
per evitare confusione rispetto all’argomento principale.
Ora, ritornando all’affermazione iniziale, ossia che
il film, nelle sue principali realizzazioni, è una forma di
dramma nella sua accezione più ampia, dobbiamo affron-
tare un’obiezione che sembra derivare dalle caratteristiche
tecniche del film stesso. Si può sostenere che, nonostante
tutto quello che ho detto in precedenza, il film “non sia
realmente” un dramma perché è registrato su pellicola,
“inscatolato” e spedito a un pubblico che non lo può in-
fluenzare. Questo pubblico, ora, è un elemento vitale in
ogni dramma, ma nel film è presente solo quando la per-
formance è finita. Ciò impedisce quell’esercizio di feconda
“partecipazione” del pubblico che, spesso, è stato ricono-
sciuto come prezioso.
30 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

Ritengo che, proprio per ragioni formali, questa obie-


zione sia fin troppo marginale per essere in grado di nega-
re lo statuto del film come dramma, qualcosa, però, a tale
riguardo bisogna dirla, almeno sotto due aspetti: primo,
l’effetto sul pubblico e, secondo, l’effetto sui performers.
Primo punto: il vero problema è l’effetto prodotto dalle
condizioni in cui si guarda il film. Questo è un medium
immensamente potente: nell’oscurità della sala, lo scher-
mo che domina con le sue grandi figure in movimento,
il volume ad alta voce, il simultaneo coinvolgimento di
occhio ed orecchio, è ovvio che tutto possa esercitare
una specie di effetto “ipnotico” che stimola immediata-
mente la fantasia e un facile appagamento emotivo. In te-
atro, certo, una volta che la sala è stata oscurata così da
ridurre gli effetti della luce, si sperimenta una condizione
simile, ma probabilmente meno intensa. La questione è
molto importante perché, senza dubbio, tale condizione
permette agli speculatori di imporre delle emozioni molto
crude (che fuori dal cinema possono essere riconosciute e
rifiutate), e anche perché consente ad artisti di rango in-
feriore di produrre effetti del tutto apparenti grazie ad un
processo di potente suggestione piuttosto che in virtù di
un’espressione sinceramente artistica. Ciò è reso più facile
nel caso in cui il pubblico risulti eccessivamente immatu-
ro in funzione del tipo di individui che lo compongono
(come dimostrano i dati sull’affluenza delle fasce d’età).
Non voglio sottovalutare il problema, infatti, penso di non
saperne abbastanza da poter arrivare ad una conclusione
definitiva.
È possibile, tuttavia, vedere il film nei termini di un
medium drammatico davvero molto potente (dotato della
licenza di creare illusioni dalla quale, tecnicamente, ogni
arte dipende) di cui si è ampiamente abusato, per ragioni
che riguardano lo stato della società nel suo complesso e,
quindi, non semplicemente il medium in se stesso. Dopo
tutto, simili abusi ci sono nel romanzo, nell’opera teatrale
e nella retorica. Se le cose stanno così, il punto di cui di-
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 31

scutere è il massimo sforzo da sostenere per promuovere


film che siano già di per sé emotivamente disciplinati. Se
le condizioni in cui si guarda un film, infine, ostacoleranno
questo tipo di comunicazione, ebbene, questo, potrà essere
verificato, ragionevolmente, solo quando ciò accadrà.
Dal mio punto di vista, il problema si risolve tornando
al regista e al fatto, di per sé rilevante, che debba lavorare
senza un pubblico. Un dramma serio può essere realizzato
senza la partecipazione di un pubblico che, nel peggiore
dei casi, favorisce indulgenza e, nel migliore, un risultato
molto limitato? Di sicuro, ci sono momenti in teatro du-
rante i quali un pubblico diventa, per così dire, dramma-
ticamente consapevole, momenti carichi di un’indimen-
ticabile emozione condivisa. L’effetto del pubblico sulla
creazione di un’opera (un punto che si è spesso confuso
con quello della sua comunicazione), però, è stato quasi
certamente sopravvalutato. Il problema si è ulteriormente
confuso a causa dell’influenza esercitata dal conformismo
del teatro naturalista e da ciò che lo sosteneva, il dram-
ma romantico, oramai completamente frantumato. Tradi-
zionalmente un drammaturgo crea la sua opera da solo,
consapevole di un pubblico potenziale, ma non in suo
diretto contatto. Quando si arriva alla performance, è per-
fettamente possibile per gli attori concepire una relazione
vitale con quest’opera, come avviene per il drammaturgo,
ma solo potenzialmente con un pubblico. Alcuni attori lo
negheranno, penso perché sono stati così spesso forzati
alla performance con un’opera che, per ragioni che discu-
terò in seguito, non la si considera ancora completa se non
quando la creazione finale prende posto – anziché essere
comunicata – sul palcoscenico.
Quando a un attore si chiede di dare troppo, questi
può concepire, infatti, una relazione più vitale con il pub-
blico che non con l’opera. Dall’altro lato – e qui sono in-
coraggiato dalle più recenti dichiarazioni di molti attori
– quando si riesce a stabilire una soddisfacente relazione
con l’opera, allora, una performance senza pubblico può
32 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

essere del tutto gratificante e vitale5. Ciò accade durante le


prove, dove non è raro che avvengano alcune delle miglio-
ri performances e, visto il modo in cui lo concepisco, credo
che tale condizione sia applicabile anche alla produzione
di film. La migliore performance attoriale che io abbia vi-
sto, su schermo o su palcoscenico, è stata quella della Fal-
conetti nella Jeanne d’Arc di Dreyer6, in ogni caso, ciò la
classifica come una delle più grandi performances di ogni
tempo. E ciò dipende, non da una relazione con il pub-
blico, ma dall’accettazione della disciplina dell’emozione
totale che Dreyer ha concepito.
Questa potrebbe essere un’eccezione, ma in realtà ci
sono state tante grandi performances nel cinema e ci sono
prove sufficienti per dimostrare che l’ispirazione per una
grande performance può (come vorrei idealmente suggeri-
re) nascere dalla risposta dell’attore all’emozione dell’ope-
ra. Quindi, nonostante l’esistenza di difficoltà marginali

5 Cfr.: “Abitualmente, agli attori che lavorano tanto per il teatro quanto per
il cinema, la domanda che viene posta con una monotonia non del tutto
trascurabile – alla quale ne segue un’altra altrettanto monotona e insignifi-
cante del tipo, ‘Quale preferisci?’ – è ‘Non ti manca il pubblico?’ Abitual-
mente la mia risposta è: ‘No: perché dovrebbe? Non mi manca il pubblico
durante le prove quando il personaggio viene creato, e quando alcuni dei
momenti più eccitanti della recitazione creativa si realizzano proprio lì’.
Confesso che si tratta di una risposta evasiva perché la replica, semplice e
logica, sarebbe,‘Sicuramente non desideri continuare a provare per sem-
pre?’ Al che la mia risposta dovrebbe essere un enfatico, ‘Certamente no’.
Ma è sbagliato credere... che il pubblico sia ipso facto di aiuto per l’attore.
Può tradirlo nella ricerca di vie facili per piacergli, ripetendogli lusinghe
che hanno già avuto successo. Lo può costringere a dominare il suo umore,
come frequentemente ha fatto, con forza o trucchi estranei alla parte che
sta recitando. Può, in breve, fare di lui un adulatore o un pazzo lottatore. Il
‘piacere alle orecchie della platea’ è diventato ‘recitare per la galleria’.
“Non voglio dire che un attore debba essere un Coriolano che, attraverso
l’orgoglio della propria integrità, non pronuncia mai le parole leggere che
gli soffia il cuore. Ma io dico che, sebbene il pubblico possa esercitare
sull’attore una forte pressione rispetto sia al suo autore, al suo produtto-
re e alla sua coscienza artistica, non dovrebbe mai forzarlo ad essere più
incredulo di questi tre” (Michael Redgrave, The Actor’s Ways and Means;
Heinemann, 1953, pp. 33-34).
6 [La passion de Jeanne d’Arc, 1928, di Carl Theodor Dreyer.]
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 33

(e rimuovibili) abbia potuto nasconderne l’opportunità, le


condizioni per la realizzazione di un film esistono.
La discussione sul nuovo tipo di rapporto con il pubbli-
co indotto dalle caratteristiche tecniche del film, non solo
è necessaria, può essere decisiva. La relazione dei perfor-
mers con il pubblico e con le sue aspettative, è cambiata
di molto nell’intera tradizione drammatica: la continuità
generale del dramma sostituisce la variazione particolare
del cinema. E siccome è importante riconoscere la conti-
nuità nei processi creativi, sostengo con fermezza che il
film, nelle sue principali realizzazioni, è drammatico negli
elementi della performance e dell’imitazione, ed è capace di
produrre opere nei generi della tragedia, della commedia,
della farsa o in qualsiasi nuova categoria creatasi in quanto
variazione interna alla storia drammatica. Con questo, sicu-
ramente, non si vuole negare che il film, in quanto medium
drammatico particolare, abbia delle sue proprie condizioni
e può impiegare, al loro interno, un numero possibile di
convenzioni. Arrivati a questo punto, allora, è necessario
considerare il problema generale delle convenzioni e la lo-
ro relazione con le condizioni della performance.

Natura delle convenzioni

La definizione di convention7 dataci dal vocabolario in-


glese ci fornisce un utile punto di partenza. Così, conven-
tion è l’atto dello stare assieme; un’assemblea; un’unione;
una coalizione, specialmente di rappresentanti che voglia-

7 [In italiano non si può restituire il senso del ragionamento ‘linguistico’


svolto nell’originale da Williams, in quanto si basa sulla derivazione di
conventional da convention. Ora, mentre è possibile tradurre conventio-
nal con “convenzionale”, la lingua italiana non dispone di un termine per
significare convention sia nel senso della “parentela” con conventional,
quindi mantenendo il significato di un qualcosa di abitudinario, ordinario,
vuotamente ripetitivo, sia nel senso dell’adunanza, dell’incontro collettivo,
del raduno. Inoltre, i due termini originali rimandano a una prassi legale
completamente estranea al lessico italiano.]
34 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

no raggiungere un qualche scopo preciso; un accordo che


precede la stipula definitiva di un trattato; un’abitudine. In
modo simile, convenzionale può significare: risolto median-
te una clausola o un tacito consenso; gradito agli standard
accettati; disposto a contrattare. Se si passa attraverso que-
sti significati e attraverso quelli delle diverse parole deri-
vate, si percepisce un’ambiguità che è importante per due
ordini di motivi: indica una possibile fonte di confusione
che richiede di essere chiarita, e mostra una via d’ingresso
ad un’analisi del posto delle convenzioni nel dramma.
La possibile fonte di confusione è data dal fatto che
convenzione copre sia tacito consenso che standard accetta-
ti, ed è facile vedere come il secondo sia stato spesso inteso
come un insieme di regole formali. Così, in un commento
negativo è facile sentire che un’opera sia solo convenziona-
le; una ruotine familiare; roba vecchia; ripete lo stesso tratta-
mento8. Noi usiamo la parola nello stesso senso quando si
tratta di un commento negativo riferito a persone o azioni
che troviamo noiose, limitate, antiquate, poco originali,
insensibili a nuove idee. La spiegazione dello sviluppo di
convenzionale come di un commento negativo all’interno
della critica richiederebbe un excursus che in questa se-
de non sarebbe pertinente, così, per dirla brevemente, è
il risultato di una controversia in cui ha giocato un ruolo
da protagonista quello che abitualmente chiamiamo Mo-
vimento Romantico, e nel corso della quale l’accento è ca-
duto con durezza sul diritto dell’artista di distruggere, do-
ve lo riteneva opportuno, le leggi che qualcun altro aveva
fissato per la prassi della sua arte9. È difficile condividere
questo modo di sentire, anche se, proprio per ciò che con-
cerne il film, sembra che lo facciamo poiché stiamo cer-
cando di eliminare alcune leggi e di inventarne delle altre,

8 [In originale: the mixture as before, nel senso della prescrizione medica
relativa all’assunzione periodica di farmaci.]
9 Ho discusso in modo più completo questa e le relative questioni nel mio
saggio The Idea of Culture, in “Essays in Criticism”, vol. iii, 3, luglio 1953,
pp. 239-266.
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 35

ma, paradossalmente, la sensibilità romantica è ciò che ci


avrebbe impedito di usare i termini convention e conven-
zionale. Un artista abbandona una convenzione solo per
seguirne o crearne un’altra, questa, come si vedrà in se-
guito, è la base della sua comunicazione. Ma quando con-
venzionale arriva a significare cose del tipo roba vecchia,
noioso, e inoltre, quando è usato, come spesso accade at-
tualmente, nel senso di un facile, e negativo, contrasto con
naturale, è difficile usare la parola senza essere frainteso.
Tuttavia è possibile pensare l’ambiguità come strumento
di un’intuizione, ed è in questo modo che ne discuteremo.
Convention, come abbiamo visto, copre tanto tacito
accordo quanto standard accettati. Nell’attuale prassi del
dramma convention, in particolare, è solo il termine con
cui si indica che l’autore, i performers e il pubblico deci-
dono di incontrarsi così che la performance possa avere
luogo. Incontrarsi, di certo, non significa affatto un pro-
cesso formale o chiuso: in ogni arte, molto più spesso, il
consenso è in gran parte abituale e molte volte, anzi, è vir-
tualmente inconscio.
Ciò può essere notato facilmente nelle convenzioni di
una certa epoca. Nelle rappresentazioni teatrali del natu-
ralismo, la convenzione prevede che la parola e l’azione
debbano essere quanto più vicine possibili a quelle della
vita quotidiana, ma pochi realizzano che si tratti di una
convenzione, per la maggior parte è solo un “assomiglia
a”, oppure un “è il genere di cose che la recitazione cerca
di fare”. Si tratta di una convenzione davvero straordina-
ria quella che prescrive agli attori di rappresentare perso-
ne che si comportino naturalmente, come di solito sono in
privato, mentre per tutto il tempo della recitazione man-
tengono l’illusione che, come personaggi, queste persone
sono ignare della presenza del pubblico. La più disperata
confessione privata o la più pericolosa cospirazione, posso-
no essere recitate sul palcoscenico, viste e ascoltate da un
migliaio di persone, senza che a nessuno tra gli attori o tra
il pubblico appaia come qualcosa di strano, e questo per-
36 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

ché tutti, in base al tacito consenso dell’abitudine, hanno


accettato questo tipo di procedura come una convenzione.
Non tanto tempo fa, e forse ancora in alcuni posti,
però, si considerava molto strano che un personaggio
parlasse da solo, si credeva che “pensasse ad alta voce” o
che si “rivolgesse direttamente al pubblico”. Il rimprove-
ro sarebbe stato quello di essere “artificiale”, “non vero
come la vita”, o addirittura “non drammatico”, eppure è
sicuramente naturale, “vero come la vita”, quando accade
che un attore, sul palcoscenico, davanti a mille persone,
rivolgendosi ad esse, pretende di recitare come se queste
non fossero lì. Per quanto riguarda la considerazione del
soliloquio come “non drammatico”, anche in questo caso
si tratta di una specie di dichiarazione elevata a “legge”,
cosa di cui abbiamo già discusso, poiché è ben noto che
il soliloquio, in molte epoche, è stato accettato, di norma,
come parte della prassi drammatica.
Le varie convenzioni che sono state usate nel dramma
sono troppo numerose da elencare. Una battaglia di due
giorni tra grandi eserciti può essere rappresentata dal pas-
saggio di pochi soldati in brevi scene dalla durata di non
più di cinque minuti. L’ultima ora di vita di un uomo può
essere recitata su di un palcoscenico con un’enfasi delibe-
ratamente giocata sulla tensione dell’attesa, eppure “l’ora”
drammatica può durare non più di cinque o sei minuti.
Un uomo può camminare su di un palcoscenico comple-
tamente spoglio, allestito solo di tendaggi, e da ciò che
dice capiremo se sia nel Gloucestershire, in Illiria, o su di
un’isola mitica. Può essere un generale romano che ci par-
la in versi sciolti inglesi da un gradino di legno che per noi
è un palco del Foro di Roma. Può essere un fantasma un
demone o un dio, e ancora bere, rispondere al telefono,
oppure essere portato via dal palcoscenico con una gru.
Si può mettere un mantello grigio e noi crederemo che sia
invisibile, nonostante continuiamo a vederlo. Può parlar-
ci rivelandoci i suoi più intimi pensieri e noi crederemo
di ascoltarlo dal retro della galleria, non potendo essere
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 37

ascoltato da un uomo a pochi passi di distanza da lui, o


da dietro le quinte. Con il minimo di indicazioni, accet-
teremo che gli eventi ai quali partecipiamo sono accaduti
quattrocento anni prima di Cristo, o nel Medioevo, o in
un appartamento di Parigi o la sera stessa in cui siamo in
teatro a Manchester. Gli uomini che vediamo recitare il
ruolo d’ispettore e quello di criminale li riconosciamo per
averli visti la scorsa settimana come criminale e ispettore,
maggiordomo o pari, ma non per questo li rifiutiamo. Ac-
cettiamo, crediamo: queste sono le convenzioni.
Poiché l’uso di convenzioni di questo tipo è connatu-
rato al processo drammatico, può sembrare sorprendente,
in un primo momento, che, una volta accettata la conven-
zione principale della performance, sorgano particolari dif-
ficoltà, acute e ricorrenti. Crederemo sì che la persona sul
palcoscenico sia uno spirito e che, del tutto inconsapevole
della nostra attenta presenza, stia parlando intimamente
alla sua vedova nel 1827, ma se la vedova tenta di rivolger-
si a noi, ci metterà subito a disagio. Crederemo sì che un
assassino stia dietro ad una porta (dove lo possiamo anco-
ra vedere) e possa guardare con gli occhi bassi le sue mani
con un’espressione di agonia (che ci accorgeremo subito
essere macchiate di sangue innocente), ma se si avvicina
al palcoscenico e, in una ventina di versi o in una canzone
parlata, oppure danzando, esprime (in modo più pieno e
intenso) la stessa emozione, subito noi, o molti di noi, si
sentiranno a disagio e, in seguito, saranno disposti a dire
che era “irreale”. Se accettiamo l’opinione dell’uomo co-
mune, possiamo anche concludere che l’opera teatrale sia
intellettualistica, o surrealista, o pretenziosa (una parola
sempre più comune tra coloro la cui pretesa professiona-
lità è di norma), e mentre possiamo essere in grado di ri-
fiutare questa semplificazione, non saremo capaci, anche
solo nel pensiero, di creare una convenzione alternativa.
In effetti, questa è la difficoltà principale: mentre cre-
do sia vero che il pubblico, mediamente, abbia la mente
più aperta della media degli impresari – così che la base
38 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

per il cambiamento e lo sviluppo della convenzione esi-


ste potenzialmente sempre – è solo una verità accademica
che il drammaturgo possa usare qualsiasi convenzione che
si adatti al suo materiale e al suo scopo. Una convenzio-
ne, semplicemente, è solo un metodo, un pezzo tecnico
di un macchinario che facilita la performance. I metodi,
però, cambiano e cambiano le tecniche, e mentre un coro
di danzatori o il mantello dell’invisibilità, o un soliloquio
cantato, sono metodi drammatici conosciuti, non posso-
no essere usati in modo soddisfacente al momento della
performance a meno che non siano qualcosa di più di me-
todi, cioè, convenzioni. Drammaturgo, attori e pubblico
devono essere d’accordo che il metodo da impiegare sia
accettabile e, a seconda dei casi, che una parte importante
di esso deve abitualmente precedere la performance, così
da essere accettato senza frizioni dannose.
In definitiva, giudichiamo una convenzione non dai
suoi vantaggi astratti o dalle sue probabilità, ma da ciò
che essa riesce concretamente ad ottenere nell’opera d’ar-
te. Se, infatti, non fosse storicamente vero che certe opere
sono state in grado, grazie alla loro forza, di modificare
le vecchie convenzioni e di introdurne di nuove, noi non
avremmo avuto cambiamento in sé, come stabilito da un
breve decreto assolutista. Accettiamo, con serenità e con-
divisione, tali successi del passato. Leggiamo con simpatia
le biografie di un Ibsen o di uno Stanislavskij. La simpatia,
però, rimane solo un qualcosa di sentimentale se non la si
rende attiva e creativa nel nostro tempo.
Ibsen e Stanislavskij hanno vinto, come vinse Eschilo
quando introdusse il secondo attore, o Shakespeare quan-
do trasformò la Tragedia del Sangue. Tuttavia la storia
dell’arte non è una continua evoluzione in forme superiori
e migliori, c’è sia svilimento che raffinatezza, novità e tra-
sformazione, in breve, del cattivo come del buono. Sareb-
be assurdo immaginare che il segmento contemporaneo
del più grande arco delle possibilità drammatiche sia ne-
cessariamente il migliore, solo perché è più recente. Tutta-
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 39

via, a causa della natura della convenzione e della dipen-


denza di qualsiasi metodo drammatico da questo modo di
intendere, non è possibile, in qualsiasi tempo, allontanarsi
di molto dal segmento più attuale della tradizione vivente,
oppure iniziare da un punto qualsiasi che non sia interno
ad essa o collocato lungo i suoi bordi. Così, nello stesso
tempo, abbiamo bisogno della tradizione – convenzione
come tacito consenso – e dell’esperimento, dallo svilup-
po di nuovi modi del sentire fino alla percezione di nuo-
vi o riscoperti mezzi tecnici – convenzione come metodo
drammatico. È all’interazione tra questi due significati del
termine convenzione che ora dobbiamo rivolgerci.
Se pensiamo alla convenzione drammatica come a un
mezzo tecnico della performance in atto, non troviamo una
ragione assoluta che spieghi perché un altro espediente
tecnico non possa essere impiegato e giudicato a sua volta
partendo dai risultati drammatici conseguiti. Nella prati-
ca, lo abbiamo visto, questa assoluta libertà di scelta non
è possibile: un drammaturgo deve conquistare il consenso
del suo pubblico in funzione di quel determinato mezzo
che lui desidera impiegare e, mentre spesso lo può fare
durante lo svolgimento dell’opera grazie alla forza dell’ef-
fetto suscitato dal metodo, non vi può fare del tutto affi-
damento perché, una eccessiva consapevolezza della no-
vità o della stranezza del mezzo, anche lì dove il pubblico
fosse in sintonia con esso, può effettivamente ostacolare
la piena comunicazione dell’opera teatrale producendo
un’aperta ostilità. Quando si guarda alla storia del dram-
ma, sembra possibile che i cambiamenti effettivi abbiano
avuto luogo quando c’era già una latente volontà di accet-
tarli, almeno in quei gruppi sociali dai quali l’artista traeva
il suo supporto. Mentre è possibile vedere retrospettiva-
mente questa situazione, non sarebbe mai stato facile, e
non lo è tutt’ora, guardarla con sufficiente chiarezza se
calati nel flusso di quell’esperienza. Può essere possibile,
eventualmente, fare e sostenere una ragionevole ipotesi su
ciò che sia necessario nella situazione presente, così da ca-
40 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

pire la relazione tra un tipo particolare di convenzioni e


la vita del tempo in cui si formarono. Non credo che oggi
esistano ragionamenti di questo tipo, ma alcuni punti mi
sembrano sufficientemente fondati così da avanzare ipote-
si sperimentali.
In primo luogo, sembra chiaro che le convenzioni
drammatiche di un dato periodo sono fondamentalmente
correlate alla struttura del sentire di quel momento. Uso
la frase struttura del sentire perché, in questo contesto, mi
sembra più appropriata di idee o di vita in generale. Tutti
i prodotti di una comunità in un dato periodo sono, in
genere lo crediamo, essenzialmente correlati, sebbene in
pratica e in dettaglio questa cosa non la si riconosca facil-
mente. Nello studio di un periodo possiamo essere in gra-
do di ricostruire, più o meno accuratamente, la vita mate-
riale, l’organizzazione sociale generale e, in larga misura,
le idee dominanti. Non è necessario discutere qui quale,
eventualmente, di questi aspetti sia determinante nell’inte-
ro complesso; un’importante istituzione come il dramma,
in tutta probabilità prenderà da tutti loro, con gradazioni
diverse, il suo colorito. Nello studio di un periodo passato
possiamo separare particolari aspetti della vita e trattarli
come se fossero autosufficienti, questo, se da un lato rima-
ne l’unico modo per poterli studiarli, dall’altro, però, ci ri-
corda che la loro unità non può essere esperita. Esaminia-
mo ogni elemento come un precipitato, ma nell’esperienza
vivente di quel tempo ogni elemento era in soluzione, in
una parte inseparabile dall’intero complesso. E sembra es-
sere vero, in base alla natura dell’arte, che è da una tale
totalità che l’artista attingeva, è nell’arte, principalmente,
che l’effetto della totalità, la struttura del sentire domi-
nante è espressa e incarnata. Correlare un’opera d’arte a
ogni parte di questa totalità osservata può essere utile sot-
to molti aspetti, ma è un’esperienza comune, nell’analisi,
realizzare che quando uno ha misurato l’opera a fronte
delle parti inseparabili, resta ancora qualche elemento per
il quale non c’è una controparte esterna. Questo elemen-
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 41

to, credo, è quello che ho chiamato la struttura del sentire


di un periodo ed è realizzabile solo attraverso l’esperienza
dell’opera d’arte stessa nella sua interezza.
Le convenzioni – i mezzi d’espressione che trovano il
tacito consenso – sono una parte vitale di questa struttura
del sentire. Al cambiare delle strutture, nuovi mezzi ven-
gono realizzati e percepiti, mentre quelli vecchi appaiono
vuoti e artificiali. Ciò potrebbe essere dimostrato, credo,
attraverso uno studio dettagliato di una convenzione come
quella del coro greco, passato da una posizione dominan-
te nel dramma, attraverso una partecipazione paritaria e
attiva, a una di osservazione e commento, e infine, aumen-
tando la sua distanza dal centro dell’azione, è diventato un
semplice interludio e intralcio. Oppure, si potrebbe con-
frontare la controllata semplicità del modello di una delle
prime rappresentazioni teatrali del ciclo dei miracoli, in
cui il carattere individuale è appena enfatizzato, con quel-
la completamente differente e molto più complessa di una
tragedia elisabettiana nella quale il carattere individuale,
in particolare, può essere la fonte primaria della tensione.
Si possono osservare le convenzioni di un dramma reli-
gioso come quello greco e confrontarle con quelle del na-
turalismo moderno, così da rintracciare il punto d’avvio
di un’analisi nelle dichiarazioni dei principali esponenti di
quest’ultima corrente. Ad esempio, Ibsen scrive:
Lo stile dovrebbe conformarsi al grado di idealità impartito
all’intero presentimento. La mia rappresentazione teatrale non
è una tragedia nel senso antico. Il mio desiderio era di descri-
vere gli esseri umani, e per questo avrei fatto in modo che non
parlassero il linguaggio degli dei10.

Oppure Strindberg:
Il naturalista ha abolito la colpa abolendo Dio... Lady Julie è
un personaggio moderno... Il tipo è tragico dal momento che

10 Lettera a Edmund Gosse, citato nell’Introduzione di Archer a Emperor


and Galilean (Collected Works, Heinemann, vol. v).
42 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

offre lo spettacolo di una lotta disperata con la natura; tragico,


anche nel senso di una eredità romantica attualmente dispersa
dal naturalismo, il cui solo desiderio è la felicità11.

Fondamentali trasformazioni del sentire di questo tipo


nell’intera concezione dell’essere umano e delle sue rela-
zioni con ciò che è non-umano, hanno alle proprie spalle
trasformazioni della convenzione. Andrebbe al di là degli
scopi di questo saggio tracciarle dettagliatamente, ma è
giusto enfatizzare il grado del cambiamento perché altri-
menti non capiremmo il problema della convenzione se
continuassimo a pensarlo come una specie di scelta tec-
nica del tutto casuale e minore. Tutte le trasformazioni
nei metodi di un’arte come quella del dramma sono es-
senzialmente correlate alle trasformazioni della struttura
del sentire radicata nell’uomo. Il riconoscimento di questa
verità lo dobbiamo tenere presente in ogni discussione.
Per questo non è mai un caso che un artista selezioni i suoi
mezzi tecnici dall’enorme varietà della memoria storica.
Se noi comprendiamo la parola convenzione, realizziamo
che il metodo deve trovare la sua controparte nell’attuale
struttura del sentire ed esservi d’accordo. Solo in questo
modo può essere qualcosa di più di un dispositivo e di-
ventare una convenzione.
Convenzione, tuttavia, implica non solo tacito consen-
so, ma anche standard accettato, ed è qui, nel flusso del
presente che sorgono le più serie difficoltà. Se è vero che
le convenzioni di un’arte, in ogni periodo, corrispondono
essenzialmente alla struttura del sentire di quel momento,
allora è possibile sostenere che, in ogni dato periodo, le
convenzioni esistenti siano necessariamente giuste e che
quelli che le criticano o intendono cambiarle si oppon-
gono inutilmente12. È sempre importante tenere conto di
questo fatto, ma per capire davvero la questione bisogna

11 Prefazione a Lady Julie, in Lucky Peter’s Travels and other plays, Jonatha
Cape, London 1930, p. 174.
12 [In originale, kicking against the pricks.]
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 43

analizzare ancora la convenzione, questa volta nei termini


di standard accettato.
Una nuova convenzione, per esempio, quella del natu-
ralismo, si stabilirà perché ci sono dei cambiamenti nella
struttura del sentire che chiedono di essere espressi e che
gli artisti più creativi realizzeranno eventualmente nelle
loro opere. A molte di queste trasformazioni, però, si op-
porrà resistenza, saranno duramente attaccate, e questo
in nome degli standard accettati. Ciò che succede in una
situazione di questo tipo è il risultato dei modi attraverso
cui una struttura del sentire cambia. La consapevolezza
di tali trasformazioni all’inizio sarà appannaggio di poche
menti soltanto e, tra gli artisti, essa potrebbe agire non nel
senso della comprensione intellettuale di tale processo, ma
esprimersi come se fosse un qualcosa di originale e, appa-
rentemente, del tutto personale. Presto, però, tali opere
inizieranno a guadagnare consenso e, come nel caso del
naturalismo, raggiungeranno lo slancio di un movimento.
La nuova opera non solo renderà esplicite le trasforma-
zioni nel sentire, ma le favorirà e influenzerà. La resisten-
za continuerà, ma nel normale svolgimento degli eventi,
lentamente diminuirà. La nuova opera diventerà in sé il
tipo, ma, mentre all’inizio era impegnata ad attaccare le
“convenzioni” – sarebbe a dire i metodi che supportavano
l’originaria struttura del sentire – in seguito, come stabili-
to, creerà nuove “convenzioni”, metodi che saranno visti
come validi e fecondi. L’opera attaccava le convenzioni in
quanto standard accettati e, a volte senza consapevolezza,
realizzava che ciò che stava facendo era creare nuove con-
venzioni dal tacito consenso.
Ora, nel caso di qualsiasi arte, una convenzione in
quanto metodo tecnico, normalmente cerca una contro-
parte materiale: nel caso del dramma, un certo tipo di
teatro, una forma particolare di palcoscenico, dei metodi
speciali di recitazione. Questi diventeranno gli standard
accettati, ma quando si verifica il cambiamento, ciò che
prima era un metodo adeguato può diventare un ostacolo,
44 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

e poiché esiste materialmente, non può essere solo igno-


rato. Un drammaturgo può stabilire nuove convenzioni
nel suo scritto teatrale, ma è quasi sempre probabile che
scopra che esso può essere performato solo in teatro, sul
palcoscenico e con i metodi di recitazione prodotti dalle
convenzioni che la sua opera è in procinto di sostituire.
Un buon esempio di cosa si verifichi in un caso del ge-
nere, lo si può vedere nella storia de Il gabbiano di Čechov
che fu un fiasco nella produzione di Karpov al Teatro
Alexandrinsky nel 1896, secondo quelli che allora erano
i metodi convenzionali della produzione, ma fu un gran-
de successo quando, attraverso l’intuizione immaginativa
di Stanislavskij, delle nuove convenzioni di produzione
divennero possibili grazie al Teatro d’Arte di Mosca nel
1898. I soli due anni trascorsi tra il fiasco e il successo, in-
dicano che questo periodo fu la soglia critica del cambia-
mento, in circostanze meno fortunate l’intervallo poteva
essere di una generazione.
Quando esaminiamo l’attuale processo di cambiamen-
to delle convenzioni, e pensiamo che quelle vecchie ave-
vano sempre un solido e potente impianto materiale, non
ci sembra sorprendente che esso, anche quando è visto re-
trospettivamente come inevitabile, si stabilì con considere-
voli scontri e amarezze. I cambiamenti del passato tuttavia
ci rassicurano poiché sappiamo come la battaglia finale è
andata a finire, sappiamo di chi è la vittoria e ci schieria-
mo, naturalmente, dalla parte dei battaglioni vincenti. At-
tualmente, una rassicurazione del genere non è possibile,
e di solito si trova che chi ha ottenuto i maggiori vantaggi
indiretti dalle vittorie passate, è tra i più aspri e compia-
centi oppositori della nuova proposta di cambiamento.
La battaglia è stata già vinta, perché ricominciare ancora
una volta i combattimenti? Questo di certo è il paradosso
della situazione: che i nuovi metodi stabiliti diventano a
loro volta le “convenzioni” ed ora non sono più solo un
consenso ottenuto con fatica, ma lo standard accettato, la
verità di cui nessuna persona ragionevole dubiterebbe.
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 45

Dramma moderno: spettacolo e realismo

Comparata alla storia dell’intera tradizione drammati-


ca, quella del cinema è veramente molto breve. Tuttavia
è composta da un numero considerevole di metodi e di
idee spesso presi, più o meno direttamente, da altre for-
me esistenti. Considerando l’attuale situazione del film è
necessario comprendere questo retaggio, facendolo, però,
ci confrontiamo subito con una difficoltà terminologica.
Ad esempio, possiamo dire che i primi film attinsero for-
temente dal dramma romantico popolare, in primo luogo,
e dal music-hall, in secondo. Nella tradizione generale il
primo era probabilmente dominante, e il secondo usato
solo per un particolare tipo di commedie. Più tardi, il film
romantico e melodrammatico cominciò ad essere messo
in discussione dalle nuove idee del naturalismo, del rea-
lismo e dell’espressionismo, ed è proprio dalle modalità
di quest’ultimo che le opere più serie del cinema furono
fatte. I romanzi, di certo, erano direttamente adattati dai
film, ma attraverso metodi che li inserivano nelle categorie
del racconto o del melodramma, oppure in uno dei generi
formulati in seguito.
Questo schema molto semplice credo sia ragionevol-
mente accurato, ma, mentre le classificazioni possono es-
sere utili per scrivere la storia del film, esse necessitano
di ulteriori e approfondite analisi lì dove cercassimo di
capire il retaggio reale del film nei termini di convenzioni
particolari, così da accettarle o rifiutarle. In Inghilterra si
dice, generalmente, che i primi film presero il loro carat-
tere dal dramma del xix secolo, dai suoi elementi spetta-
colari e melodrammatici e che il loro progressivo perfe-
zionamento comportò un crescente successo del realismo.
Il termine realismo, ad esempio, è così variamente usato
ed è, essenzialmente, così complesso nei suoi rifermenti,
che qualsiasi spiegazione adottata come etichetta è quasi
di sicuro superficiale. Nella critica cinematografica vige
un solido conformismo in virtù del quale si mette, da una
46 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

parte, il film spettacolare, al quale è stato abitualmente as-


sociato il nome di Hollywood, e dall’altra, in opposizione
e, normalmente per screditarlo, quello realistico – Brief
Encounter13, The Third Man14, Ladri di biciclette15, Le jour
se lève16 oppure qualcuno della tradizione documentaria
britannica. E poiché in Inghilterra la tradizione realista,
come si è capito, è molto potente, uno sperimentatore può
trovare in questo conformismo un ostacolo molto serio se
la sua esperienza lo spinge verso altre convezioni, non-rea-
listiche. Eppure, spettacolo e realismo possono essere intesi
diversamente. Ed è su questo punto che voglio concentra-
re, prima, la comune distinzione tra realismo e spettacolo
e, poi, l’idea di spettacolo in sé.
La parola spettacolo, in questo contesto, può anche es-
sere riferita ai metodi del teatro del xix secolo. La “pro-
duzione spettacolare” che aveva nutrito il Drury Lane o
l’Adelphi17 si caratterizzava per l’enfasi e l’uso estremo di
straordinari effetti scenici. Di sicuro tutta la storia del te-
atro è ricca di esempi del genere, di esplorazioni inquiete
che tendono a questo fine, eppure la si potrebbe travisare
sostenendo che la “produzione spettacolare” sia un’in-
venzione del xix secolo. In realtà, spettacolo era inteso nei
termini di una pratica questa sì ottocentesca. C’erano stati
importanti sviluppi tecnici nel teatro e li si impiegava per
produrre effetti di una grandezza per noi oggi, forse, inim-
maginabile.
Il teatro del xix secolo poteva mettere, e mise, in scena
questi effetti, per esempio, quello di bruciare e fare sal-
tare in aria un vascello; una battaglia campale con can-
noni e odore di polvere da sparo; una battaglia navale in
una grande vasca sul palcoscenico con modellini di na-
vi da guerra che sparavano e sbuffavano fumo; incidenti

13 [Breve incontro, 1945, di David Lean.]


14 [Il terzo uomo, 1949, di Carol Reed.]
15 [1948, di Vittorio De Sica.]
16 [Alba tragica, 1939, di Marcel Carné.]
17 [Storici teatri londinesi.]
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 47

ferroviari con le schegge dei rottami, il sibilo delle fughe


di vapore, lo scoppio dell’incendio e il trasporto dei feriti
accanto ai binari; corse dei cavalli; incendi; terremoti; il
mare agitato; annegamenti e salvataggi; pubbliche esecu-
zioni (con il condannato appeso al cappio); il magnifico
ingresso di un re attraverso centinaia dei suoi sudditi; un
panorama della città di Atene, e così via. I fantasmi aveva-
no i loro mobili (a volte c’erano dei veri scheletri nell’ar-
madio), mentre draghi e sirene non offrivano particolari
difficoltà per essere inclusi come dramatis personæ. I ri-
flettori, e poi il gas, producevano effetti trasformativi del
chiaro di luna, dell’alba, del crepuscolo e del tramonto;
anche tempeste di neve e nubifragi facevano parte del re-
pertorio. La Trappola del Vampiro, il Foglio del Tuono e
la Corsa del Tuono, la Rottura del Vetro e la Macchina del
Vento davano il loro contributo. Tutto questo era Spetta-
colo e, chiaramente, lo scopo di una parte considerevole
del dramma era la rappresentazione di questi effetti, spes-
so fine a se stessi, ed è per questo motivo che si trova-
no molte opere scritte e costruite chiaramente per dare
l’occasione di mettere in scena un incidente ferroviario o
un naufragio. Il metodo era anche applicato a opere che
producevano effetti dalla portata imprevedibile: uno dei
più famosi naufragi (iniziava in un mare aperto e agitato, e
finiva con un incendio spettacolare) si era verificato nella
produzione della prima scena de La Tempesta. Il tutto era
molto popolare e dal successo garantito.
La relazione tra questo tipo di produzione teatrale
e quella, immediata e continua, dei primi film, è ovvia.
Spesso i nuovi dispositivi venivano rapidamente applicati
e usati nel palcoscenico: la lanterna magica, già nel 1859,
era stata usata per proiettare una scena in una produzione
teatrale, e negli anni Novanta del xix c’erano nuovi dispo-
stivi come lo Spectatorium e il Grafoscopio aereo. È chia-
ro che gli effetti drammatici erano già familiari al pubblico
quando la macchina da presa venne inventata, così non ri-
maneva altro che realizzarli in modi nuovi e, spesso, anche
48 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

più spettacolari. I primi film sono pieni di effetti di questo


tipo e ora, mezzo secolo dopo, sarebbe difficile, non si sa-
rebbe in grado, in una grande città, ogni sera dell’anno,
girarsi attorno e vedere una rappresentazione spettacolare
del tipo naufragio, incidente ferroviario, incendio, terre-
moto, battaglia navale, di quelle che avrebbero sbalordito
(e presumibilmente avrebbe ammirato) il signor Augustus
Harris del Drury Lane.
Su questo punto la mia posizione, molto in generale,
non è particolarmente complessa perché sono del parere
che sia proprio la relazione di questo tipo di spettacolo
con il realismo a non essere mai stata adeguatamente va-
lutata. A me appare evidente che lo scopo di questo ge-
nere di produzioni teatrali fosse quello di fare una rappre-
sentazione realistica, come di solito viene intesa. Quando
un’opera storica era allestita con scrupolosa attenzione
per creare sul palcoscenico la “vera” rappresentazione
di una città, di una strada, di una casa di quel periodo,
attraverso cui i personaggi potevano muoversi in “veri”
costumi d’epoca, il suo scopo generale era chiaro: dare
agli spettatori l’illusione che l’azione stava avendo luogo
nell’ambiente reale a cui l’opera si riferiva. Tali effetti era-
no, spesso, certamente spettacolari, sebbene il loro fine
fosse realistico. In che senso, allora, il realismo è stato in-
teso come un metodo drammatico che si deve distinguere
immediatamente dallo spettacolare?
Nel rispondere a questa domanda molto dipende dal
modo in cui si fa il film oggi. I produttori del “più gran-
de film di tutti i tempi” (sembra ci siano circa venti film
all’anno che portano quest’etichetta) certamente ritengo-
no, se affrontano l’argomento, che ciò che hanno fatto sia
“realistico”, anche se il film si occupa di incidenti su scala
spettacolare (naufragi, indicenti ferroviari), o di paesaggi
spettacolari (l’Antartico, il deserto, un’isola tropicale), o
di attività spettacolari (circhi, caccia grossa), o di ripro-
duzioni storiche spettacolari (Roma imperiale, Palestina
biblica, l’Asia di Gengis Khan). In quest’ultime, si fanno
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 49

spesso degli stupidi errori, ma almeno alcune di esse han-


no la precisione “archeologica” – correttezza dell’architet-
tura e del costume – richiesta, a partire dagli stessi metodi,
dal teatro del xix secolo.
In generale, la pretesa realistica (sostenuta da leoni re-
ali, da iceberg reali, da deserti reali) non è affatto facile
da rifiutare. Il tentativo, però, è stato fatto e gli argomen-
ti usati sono interessanti. Primo, mentre iceberg e leoni
(come anche un centinaio di selvaggi nudi) sono di cer-
to oggetti perfettamente reali, di solito non recitano una
parte significativa nella vita di coloro che li guardano nei
film; la fabbrica, l’ufficio, il treno rappresentano molto di
più l’ambiente quotidiano e, di conseguenza, si sostiene
che un film realizzato in un contesto del genere sia più
realistico di quello che dipende da un ambiente “esotico”
spettacolare. Questo argomento, sicuramente, si basa su
di un diverso significato di realistico: si applica il termine
non tanto al significato convenzionale di verosimiglianza
(così che il leone e l’iceberg sono rappresentati in modo
altrettanto convincente dell’ufficio e del treno), quanto a
quello del materiale, “la storia e il contesto” del film, se-
guendo il criterio che questi devono essere realistici nel
senso di essere parte dell’esperienza quotidiana ordinaria
di quelli da cui, e per cui, il film è fatto.
Secondo, si sostiene che, mentre i leoni e gli iceberg
possono essere realisticamente rappresentati “in se stes-
si”, gli esseri umani che nel film li affrontano sono rap-
presentati in un modo completamente idealizzato – assur-
damente eroico, assurdamente abbronzato, assurdamente
muscoloso. I leoni più realistici nel mondo, si sostiene,
non possono rendere interamente realistico il film se gli
esseri umani in esso non si comportano “in una maniera
realistica”. Allo stesso modo si precisa che nell’epica delle
Mille e una notte, l’architettura e i costumi possono essere
realistici (ciò che gli arabi di quel tempo avrebbero vissuto
e consumato), ma il discorso e l’azione e le emozioni dei
personaggi non sono per nulla realistici: si comportano e
50 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

sentono alla corte di Haroun al-Raschid come farebbero


in un film ambientato in un qualsiasi college americano.
Sicuramente, caso per caso, queste osservazioni reggo-
no. Inoltre, sono probabilmente abbastanza convincenti
da persuadere molte persone che questi film spettacola-
ri non siano realistici, tuttavia, molti dei loro produttori
possono usare la parola per fini pubblicitari. Osservando,
però, come il termine realistico, durante tali giudizi, slitti
di senso – ora non più soltanto o interamente riferito alla
verosimiglianza nella rappresentazione, ma capace anche
di includere le idee di “normalità” e di “probabilità” – si
può ulteriormente osservare quanto sia divenuta compli-
cata l’intera questione del realismo.
Perché, se l’enfasi si sposta dai metodi immediati della
rappresentazione e la si trasferisce nella domanda relativa
al tipo di esperienza incorporata nell’opera, si potrebbe
tranquillamente sostenere che un’opera particolare sia re-
alistica – nel senso che il suo atteggiamento verso l’espe-
rienza era psicologicamente convincente e vero – anche
se i metodi drammatici usati per comunicare questa espe-
rienza non dipendono dalla verosimiglianza della rappre-
sentazione. Ciò è accaduto spesso, fino al punto da arriva-
re a sostenere che Amleto – attraverso il suo personaggio
che parla in versi, come una persona reale non farebbe, e
con l’apparizione del fantasma (un evento, forse, inusuale
nell’esperienza quotidiana come quella di un incontro con
un leone o un iceberg) – sia più “vicino alla vita” (e quindi
realistico) di un film che mostri dei leoni perfettamente fo-
tografati, ma sia carente di “probabilità” nel modo in cui
concepisce le emozioni umane. Una volta che realismo è
stato definito come “produrre un effetto convincente della
realtà psicologica”, abbiamo effettivamente finito del tut-
to di discutere di convenzioni drammatiche e di metodi,
poiché è ovvio che nella storia generale del dramma tale
convinzione è stata prodotta da una grande varietà di me-
todi particolari. Realismo, in questo senso, viene usato per
descrivere la concezione che l’autore ha del suo tema e
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 51

il risultato che si augura di produrre nella mente del suo


pubblico, e non può riferirsi assolutamente ai mezzi par-
ticolari con cui l’esperienza è stata comunicata dall’uno
all’altro. Per quanto mi riguarda penso che realismo, se è
usato esclusivamente come termine critico, sia molto più
soddisfacente, in generale, di “realtà psicologica”, ma poi-
ché gli altri significati sono ancora vivi nella lingua, la dif-
ficoltà consiste nel fatto che bisogna sempre prenderli in
considerazione senza augurarsi che essi scompaiano solo
perché sconvenienti.
Infatti, l’attuale confusione rispetto all’uso del termi-
ne porta a una sua significativa e necessaria rivalutazione.
Non è sufficiente dimostrare che quanti fossero insoddi-
sfatti delle “produzioni spettacolari” hanno sistematica-
mente spostato la base delle loro argomentazioni, sebbene
ne ribadiscano l’utilità. Ciò che è necessario è un altro tipo
di analisi. Rispetto alla questione cruciale dello spettacolo,
non va dimenticato che esso è un elemento nell’espressio-
ne totale del dramma, e che solo in un dato momento si
è separato da essa per essere coltivato come fine in sé. Se
per esempio pensiamo a straordinari effetti speciali, non
possiamo, almeno mi sembra, mai giudicarli in quanto tali:
un leone o un iceberg possono essere drammaticamente
rilevanti proprio come un ufficio o una casa. Solo questo
criterio di pertinenza è vitale. Normalmente il dramma co-
munica attraverso i tre elementi principali della parola, del
movimento e della messa in scena, e il mio punto di vista
è che il miglior dramma usi questi elementi come parti di
un’espressione totale: parola, movimento e messa in scena
hanno un’unità essenziale che controlla la pertinenza di
ogni elemento rispetto all’insieme.
Cercherò di mostrare in seguito che è questa idea di
espressione totale (con la corrispondente condizione di
performance totale) a mancare nel conformismo dram-
maturgico dei nostri giorni. Al momento è sufficiente,
come punto di riflessione essenziale sul “dramma spet-
tacolare”, dire che l’uso di un effetto scenico era in sé il
52 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

segno ineludibile di un dramma oramai andato in fran-


tumi e nel quale l’elemento di un discorso espressivo era
negligentemente trascurato, un dramma in cui l’azione e
l’effetto scenico non erano parti controllate all’interno
di un’espressione totale, ma erano sempre più utilizza-
ti per tentare di mascherare la fondamentale carenza di
drammaticità. Era diventato difficile, o impossibile, per
i drammaturghi concepire lavori teatrali che, come opere
d’arte autonome e sufficienti, offrissero una convincente
comunicazione dell’esperienza. Effetti minori e periferici,
però, potevano ancora essere realizzati e, a causa dei nuo-
vi dispositivi tecnici, l’effetto scenico era ovvio e abitua-
le. Diventava, dunque, consuetudine della maggioranza
dei drammaturghi popolari (ed è rimasta tale per un gran
numero di sceneggiatori) quella di fornire qualcosa che
certamente non poteva essere un’opera d’arte, ma l’occa-
sione per un’azione spettacolare o un’esibizione. Questo
è il punto essenziale – e il realismo, considerato come il
metodo della verosimiglianza, potrebbe, lo abbiamo vi-
sto, essere subito messo al servizio di questo, come di
qualsiasi altro tipo di fine.
La cosa è particolarmente importante perché solo una
volta realizzata, ci permette di fare le necessarie distinzioni
per comprendere quel grande movimento di riforma del
dramma chiamato naturalismo. Il fatto è che la produzio-
ne di contesti di vita reale (l’ufficio, il salotto, l’angolo di
strada) poteva essere, ed era, tanto una parte di spettacolo,
correttamente inteso, quanto la creazione di un naufragio
o di una giungla. Entrambi i tipi potevano essere rappre-
sentati con verosimiglianza, ma la tesi che “sebbene i leoni
siano reali, la gente non lo è” può trovare la sua esatta
controparte nell’argomentazione che così di frequente
bisogna sostenere: sebbene l’angolo di strada e il salotto
siano reali, la gente ancora non lo è.
In entrambi i casi, come ho cercato di dimostrare, que-
sta non è una tesi completa. La questione vitale è capire
se lo spettacolo sia una parte di un’espressione totale con-
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 53

trollata, oppure se venga introdotto solamente per quello


che è. Se è parte dell’espressione totale, allora, bisogna
trovare, dopo tutto, delle ragioni differenti, piuttosto dif-
ficili da sostenere, per mettere al bando i leoni. Allo stesso
modo, nel caso di un “contesto realistico”, la domanda
importante non è se esso sembri la “cosa nella vita reale”
(i leoni lo sono senza dubbio), ma, ancora una volta, se si
tratti di una parte controllata e necessaria di un’espressio-
ne totale, o se è lì per distrarre l’attenzione e mascherare
qualche mancanza più profonda. Dobbiamo stare atten-
ti, però, a non credere che naturalismo significhi sempli-
cemente verosimiglianza. Come il realismo, esso veicola,
nella nostra tradizione più recente, non solo significati
alternativi, ma anche un’interrelazione molto complessa
– e allo stesso tempo confusa – tra di essi. Per rendere
tutto ciò più chiaro e dedurre quali mi sembrino essere le
necessarie conclusioni, dobbiamo tornare ad analizzare il
naturalismo in quanto tale.

Dramma moderno: naturalismo

Proprio all’inizio, quando il termine stava per essere


usato in modo decisivo all’interno della tradizione dram-
matica generale, si è offerta l’occasione al fraintendimen-
to. Strindberg, nella sua Prefazione a La Signorina Giulia,
presenta se stesso come un naturalista, eppure, mentre è
chiaro dal contesto cosa voglia indicare, in seguito è di-
ventato sempre più difficile capirlo a causa delle diver-
se interpretazioni che ne sono state date. In Strindberg
significa, in primo luogo, un certo atteggiamento verso
l’esperienza, la rassomiglianza, cioè, un modo diverso di
intendere il realismo (come “realtà psicologica”), cosa di
cui abbiamo già parlato. Egli sceglie, spiega un “tema dal-
la vita reale”, non per qualche ragione teoretica, ma per-
ché è il mezzo con cui dare vita a un reale cambiamento
nel sentire – quello che all’inizio ho chiamato un cambia-
54 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

mento nella struttura del sentire. Strindberg lo spiega in


questi termini:

Un incidente nella vita – e ciò è letteralmente una nuova scop-


erta! – abitualmente è causato da una serie più o meno profon-
da di motivi sottostanti, ma lo spettatore abitualmente sceglie
quello che il proprio intelletto trova più facile da cogliere,
oppure quello che rassicura le sue capacità di discernimen-
to. Si commette un suicidio. Problemi di soldi! Dice l’uomo
comune. – Amore non corrisposto! Dice la donna. – Prob-
lemi di salute! L’invalido. – Speranze infrante! Lo sfortunato.
È abbastanza probabile, però, che il motivo stia in tutte o in
nessuna di queste possibilità e che il morto abbia nascosto il
motivo principale proponendone uno ben differente che dia
maggior lustro alla sua memoria!18

Di conseguenza, allora:

Non credo, dunque, a personaggi semplici sul palcoscenico.


E i giudizi sommari sugli uomini dati dagli autori: quest’uomo
è stupido, questo brutale, questo geloso, questo avaro, etc.,
dovrebbero essere messi in discussione dal naturalista che con-
osce la ricchezza dell’anima complessa e riconosce che “vizio”
è il rovescio molto simile della virtù19.

Questo è, ovviamente, il ricordo di cosa sia diventato


un cambiamento decisivo nel sentire; con la nuova psico-
logia e, in particolare, con il concetto di inconscio, questa
trasformazione nella struttura del sentire ha fondato, e im-
posto, la sua ideologia.
Fino a questo punto, si tratta solo di un cambiamen-
to nel sentire, le convenzioni per esprimerlo e realizzarlo
non sono ancora in discussione. Di certo, però, l’eredità
teatrale dominante era del tutto inadatta e doveva esse-
re rifiutata. I teatri erano impegnati con lo “spettacolo”,
con azioni complicate e, per ciò che concerneva i per-
sonaggi, con certi tipi “convenzionali” stoccati in gros-

18 Ivi, p. 170.
19 Ivi, p. 172.
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 55

se quantità, facilmente riconoscibili. I naturalisti, certo


comprensibilmente, consideravano l’elemento dello spet-
tacolo (così di frequente impiegato fine a se stesso) so-
lo infantile. L’azione complicata, che era effettivamente
molto efficace in teatro, la consideravano inadeguata per-
ché era una falsa complessità: una complessità esterna,
dell’azione fine a se stessa, o creata per il gusto di rap-
presentare dall’esterno una singola, semplificata (quindi,
falsificata) verità interna.
Per questo stesso motivo la convenzione fino ad allo-
ra esistente del “personaggio” era necessariamente ina-
deguata, rappresentava persone come governate da una
semplice “qualità” o da un “difetto”, fissate e contenute
dalla loro “innocenza” o dalla loro “colpa” o dalla loro
“gelosia”, elementi che si manifestavano nell’azione. Strin-
dberg ha cercato di esporre una “molteplicità di motivi” e
quindi, ha preso il “personaggio” nel senso stabilito dalla
pratica del vecchio teatro, e ha proposto di fare del suo
teatro figure “piuttosto ‘prive di personaggio’”: vale a dire
complesse, anziché ridotte a un riconoscibile e convenien-
te elemento dell’azione.
Il cambiamento nel sentire è stato realizzato: le con-
venzioni in precedenza ritenute adeguate sono state rifiu-
tate, ora i naturalisti possono iniziare la ricerca di nuove
convenzioni. Gli slogan familiari del tempo parlano, si-
curamente, di gettare “la vita reale sul palcoscenico”, di
“vita reale invece che di vita teatrale”, di “una verità vi-
vente attuale, invece del rimescolamento di convenzioni e
clichés stantii”. In riferimento a quanto detto sopra sulle
convenzioni, gli slogan non li si deve credere fuorvianti. I
cambiamenti nella struttura del sentire erano, credo, ge-
nuini e il richiamo alla “vita” era, quindi, prevedibile.
Quando la famosa definizione “una fetta di vita” è sta-
ta formulata, ciò a cui si richiamava era abbastanza evi-
dente. Certo, introducendo il termine “fetta” i naturalisti
stavano già introducendo convenzioni. Perché, prendere
una fetta richiede metodo, così che, a dispetto degli slo-
56 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

gan, l’ineludibile affare dell’artista consisteva nel trovare


convenzioni, e non nel ricercare la vita. Infatti, questa era
già in parte realizzata, ma la reiterata crisi della “Vita”, di
cui di tanto in tanto sentiamo ancora l’eco (in particolare
rispetto al film), ha prodotto una consistente confusione.
Ciò perché i naturalisti non pensavano con sufficiente
durezza le convenzioni, oppure, non le pensavano come
convenzioni. Per la terminologia del nuovo movimento
questo ha significato cadere quasi subito in un continuo e
disperato smarrimento.
Sarebbe stato meglio, credo, che un termine come na-
turalismo non avesse abbandonato la questione del cam-
biamento nel sentire, alla quale si attenne Strindberg. Per
questo, ad illustrare meglio la confusione che ne è deri-
vata, una volta che è arrivata a coinvolgere il problema
delle convenzioni, sta in ciò che Strindberg, presentando
se stesso come un naturalista, raccomandava come dram-
ma, cioè un’opera teatrale nella quale certe importanti
convenzioni non realistiche e stilizzate, dovevano essere,
precisamente, i mezzi per esprimere la sua “naturalistica”
realizzazione della complessità. Ad esempio, La Signorina
Giulia usa monologhi, mimica e danza, con la seguente
raccomandazione: “ciascuno di essi”, scrive Strindberg,
“appartiene originariamente alla tragedia dell’antichità
classica. Il monologo è scaturito dalla monodia e il coro
si è sviluppato nel balletto”. Negli ultimi lavori, si pensi
a Verso Damasco, Il sogno, oppure La sonata degli spet-
tri, questo elemento della ricerca di Strindberg orientato
verso nuove convenzioni è marcato con ancora maggiore
chiarezza. E questo, va osservato, al servizio di quel cam-
biamento del sentire che lui ha chiamato “naturalismo”.
Una volta analizzato l’uso del termine in Strindberg,
dobbiamo confrontarlo con quello diventato generale.
Nella discussione sul realismo ho già sostenuto che il nuo-
vo dispositivo tecnico rende possibile non solo lo “spet-
tacolo”, ma anche esattamente la riproduzione realistica.
Questa poteva, da un lato, essere usata in senso “archeolo-
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 57

gico” – la dettagliata e precisa riproduzione di una scena


storica; oppure, dall’altro lato, impiegata in opere sulla
vita contemporanea, tipo quelle che si scrivevano sempre
più, tese a incorporare un’esatta osservazione sociale.
È significativo che la prima produzione di Stanislavskij
e di Nemirovič-Dančenko al Teatro d’Arte di Mosca fosse
lo Zar Fëdor, e che solo più tardi venisse il “socialmente
osservato” Gabbiano20. Al tempo stesso, però, bisogna fare
attenzione nel distinguere il “naturalismo”, nel senso in
cui il termine veniva usato nel teatro di Stanislavskij, dal
“realismo” ingenuo che lo precedeva. L’allestimento “rea-
listico” di un lavoro teatrale poteva essere solamente una
specie di spettacolo, in ogni caso il “realismo” rimaneva
una questione di esterni. Un commento di Stanislavskij
rende chiaro lo sviluppo:

Questa verità immaginaria, a quel tempo (nella produzione


dello Zar Fëdor), la ottenevamo per lo più dall’esterno; era la
verità degli oggetti, dell’arredamento, dei costumi, dei materiali
di scena, dell’illuminazione e degli effetti sonori, dell’immagine
esterna dell’attore e della sua vita fisica esterna21.

Questa realizzazione esterna, però, non era naturalismo


integrale. Ciò a cui Stanislavskij lavorava, principalmente
nella sua produzione di Čechov, era quello che chiamava
un “realismo interiore” di cui quello degli esterni era so-
lamente la manifestazione visibile. L’attore era stato adde-
strato a un “naturalismo emozionale”, a rivivere la verità
del personaggio a partire dai suoi movimenti psicologici
interni, e questo faceva parte di un rivivere più generale,
ossia, il movimento interno dell’intero lavoro teatrale, co-
me voleva il regista. Il naturalismo visivo, quello dei mo-
vimenti e degli oggetti, era solamente il mezzo necessario
per comunicare questo naturalismo interno, in tutta la sua
complessità.

20 [Rispettivamente drammi di Aleksej Tolstoj e di Anton Čechov.]


21 The Seagull produced by Stanislavsky, Dobson, 1952, p. 47.
58 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

Penso che ora sia chiaro cosa avvenisse:

Quello che il pubblico vide sul palcoscenico era ciò che i let-
terati, tra i frequentatori di teatro, avevano così a lungo sog-
nato della vita “reale” e non di quella teatrale, una vita espres-
sa in semplici scontri umani che erano, tuttavia, anche scenici
nella loro concezione (Nemirovič-Dančenko)22.

I “letterati”, come li chiama Nemirovič-Dančenko, era-


no diventati completamente insoddisfatti delle crudezze
del vecchio dramma, quello che cercavano era un nuovo
metodo che potesse adeguatamente esprimere la comples-
sità e il dettaglio che, come vedremo, erano già stati realiz-
zati nel romanzo. Il metodo era fondato, o si credeva do-
vesse esserlo, nel “naturalismo”, com’era stato definito. La
capacità tecnica del realismo era stata sfruttata, ma dallo
sviluppo di nuovi metodi di produzione e azione, era stato
ottenuto di più di un semplice “realismo meccanico”, il
cui principio giuda era la realizzazione di un “naturalismo
emozionale” che avrebbe comunicato il “movimento psi-
cologico nascosto, interno” trovando la sua controparte
esterna nel discorso, nel movimento e nella messa in scena
naturalistici23.
Abbiamo associato, allora, due significati del “natura-
lismo”, ma, mentre è importante distinguerli tra di essi,
è forse ancora più importante distinguerli entrambi dagli
altri significati del naturalismo che da allora si sono af-
fermati. La qualità che distingue i primi due è data dal

22 Ivi, p. 119.
23 Il naturalismo, come qui è definito, è una teoria completa e particolare, in
se stessa adeguata a contenere e costruire elementi che sono stati pensati
per essere separati da essa: elementi, per esempio, come il “simbolismo”
di Ibsen e Čechov, che può sembrare solamente il ritrovamento, in un og-
getto naturale (anatra selvaggia, gabbiano, il suono del taglio di un’ascia),
della manifestazione esterna di un’emozione “interna, nascosta”. Produrre
con questi metodi creava una particolare totalità dell’effetto, propriamente
chiamata naturalistica, e una convenzione come quella del “simbolismo”
era solamente una parte di tale effetto totale, non era una convenzione di
per sé.
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 59

fatto di essere esplicitamente radicati in nuove modalità


del sentire. In Strindberg, la convenzione drammatica che
ne risulta può essere altamente stilizzata; in Stanislavskij e
Čechov, il “naturalismo esterno” è importante solo perché
è un modo di manifestazione del “naturalismo emoziona-
le”. Entrambi, quindi, sono ben distinti da un naturalismo
strettamente inteso nei termini delle stesse convenzioni.
In realtà, questo è un errore elementare e comune, anche
se ormai è così diffuso da poter essere ragionevolmente
assunto come significato principale.
In base a quest’ultimo, c’è una virtù autosufficiente
nella verosimiglianza esterna. Uno scenario drammatico
deve essere naturalisticamente “giusto” – il genere di ca-
mera in cui un certo tipo di persone vivrebbe. I movimenti
di un attore sul palcoscenico devono produrre un effetto
come “quelli della vita reale” – il genere di cosa che a una
certa persona, in questa situazione, apparirebbe naturale
fare. Infine, il discorso drammatico deve essere “come la
conversazione” – il genere di cose che certe persone, in
questa situazione, naturalmente direbbero e il modo in cui
le direbbero. E difficilmente lo si potrebbe sottolineare
con maggior forza, questi principi rimangono, sul palco-
scenico (e, di certo, nella maggior parte dei film), dei dog-
mi; così che, alla fine, li troviamo impiegati senza alcuna
considerazione della struttura del sentire alla quale essi si
riferiscono, e in tal modo finiamo con lo scoprire che na-
scono, naturalmente, dal particolare tipo di esperienza che
il drammaturgo sta cercando di comunicare.
I metodi del naturalismo drammatico come sono im-
piegati da Čechov e da Stanislavskij sono convenzioni in
senso proprio, sarebbe a dire, metodi ideati per realizzare
un nuovo modo di sentire al quale è stato attribuito un
sufficiente assenso. Ora noi possiamo trovare insoddisfa-
centi queste tesi, ma, alla fine, le dobbiamo riconoscere
come autentiche. Il dogma generale del naturalismo, tut-
tavia, si trova in un caso del tutto differente: lo troviamo
applicato indiscriminatamente all’interno di nuovi lavori
60 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

teatrali, al dramma religioso ortodosso, ai melodrammi di


tipo essenzialmente ottocentesco, alle fantasie e persino
(eccetto pochi ammirevoli sopravvissuti di una vecchia
tradizione) alla farsa. Inoltre, vediamo i metodi del natu-
ralismo essere impiegati in nuove produzioni di vecchie,
e molto differenti, forme di dramma; qualsiasi stagione di
performances shakespeariane fornirà prove adeguate.
Se vogliamo ragionare chiaramente sulle nostre con-
venzioni, dobbiamo sempre ricordare i tre significati del
naturalismo così come li ho distinti: un particolare atteg-
giamento verso l’esperienza; una convenzione particolare,
come in Stanislavskij, per realizzare “il movimento psico-
logico nascosto, interno”; e, infine, quello che abbiamo
appena esaminato, che può essere propriamente chiamato
il conformismo naturalista. Queste distinzioni sono parti-
colarmente importanti quando andiamo a considerare il
naturalismo nel film. Mi sembra che ci sia stato un impor-
tante perfezionamento dell’arte filmica attraverso l’uso del
secondo tipo di naturalismo (Stanislavskij). Il suo punto
più alto è rappresentato dall’opera di Pudovkin nel cine-
ma russo degli anni Venti del Novecento. Un film come
La madre è un esempio della resa di un “movimento psi-
cologico nascosto, interiore”, attraverso mezzi che Pudo-
vkin eredita direttamente da Stanislavskij e che, grazie alla
grande flessibilità del suo medium, possiamo dire migliori.
Ci sono state altre opere importanti in questa tradizione,
in Francia (La Bête Humaine)24, in Italia (Ladri di biciclet-
te), in America (Panic in the Streets25), e, di certo, in In-
ghilterra. Non credo che questo tipo di film sia del tutto
soddisfacente e credo, incidentalmente, che i primi film
russi di tale genere non siano stati superati nella loro mo-
dalità. La tradizione, però, è seria e importante e, forse, è
comprensibile che a molti registi possa sembrare il meto-
do vitale per realizzare nuove opere creative.

24 [L’angelo del male, 1938, di Jean Renoir.]


25 [Bandiera gialla, 1950, di Elia Kazan.]
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 61

Il mio punto di vista, per ragioni che spiegherò, è che


si sbagliano, ma non voglio sembrare come colui che ne-
ghi la genuina serietà di questo tipo di approccio. È da
registi e critici che credono in questo metodo che è venuta
la più significativa opposizione alla cruda “spettacolarità”
del film, e al tempo in cui queste opere crude e degra-
danti ancora occupavano i nostri cinema, questo tipo di
opposizione era importante. Io, però, devo insistere sulla
distinzione di questa tradizione da opere di un tipo mol-
to diverso che a prima vista la ricordano molto da vicino.
Già ho esposto il mio punto di vista: c’è una differenza
vitale tra il film che usa le convenzioni naturalistiche per
esprimere un “movimento psicologico nascosto, interno”,
e quello nel quale una concezione “ordinaria”, relativa-
mente cruda dell’esperienza è resa come una realtà appa-
rente tramite una convincente rappresentazione di dettagli
esterni. Qualsiasi regista competente può, oggi, riprodurre
una realtà apparente di questo tipo – una casa, una stra-
da, un modo di vita generale, l’aspetto di un certo tipo di
persona; la prova, però, di questa distinzione essenziale
dei tipi di naturalismo che sto sollecitando, è sempre data
dal riscontro di una realtà creata, di cui si possa vedere
la necessaria e genuina relazione che svela il movimento
emozionale interno, con quella che chiamerei una “falsa
realtà”, che rappresenta la maggioranza dei casi, e nella
quale la forza del convincimento dei dettagli esterni ope-
ra come un sostituto della realtà effettiva basata su di un
consistente e genuino sentire.
In ogni caso particolare, ovviamente, un giudizio criti-
co richiederebbe analisi e dimostrazioni dettagliate, come
del resto si potrebbero ricavare importanti distinzioni an-
che all’interno dello stesso film. Ad esempio, è solo in cer-
te sequenze di La Bête Humaine, o di Panic in the Streets,
che trovo un naturalismo genuino, mentre molte altre mi
sembrano essere false nel senso che ho descritto. Inoltre,
trovo la “realtà” di The Third Man o di Brief Encounter
quasi interamente esterna. Ciò che in questa sede mi pre-
62 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

me, però, è definire ciò che io credo essere un principio


utile e davvero essenziale, piuttosto che suggerire giudizi
particolari. Perché se non vediamo che “naturalismo” e
“realismo” sono collegati a, e determinati da, un tipo di
sentire particolare e convincente, e quindi rimangono in
se stessi solo varietà differenti di “spettacolo” perseguite
in quanto tali, ebbene non solo confonderemo opere che
sono buone e cattive, ma, di certo, falliremo la compren-
sione della vera natura delle nostre reali difficoltà.
Il naturalismo, com’era inteso e praticato da Stanisla-
vskij, da Čechov o da Pudovkin, rimaneva pur sempre un
movimento minoritario, confuso, per le ragioni che ho
indicato, all’interno di un movimento più grande e appa-
rentemente simile, a cui mancavano, però, principi seri
e determinati. Questo dovrebbe essere riconosciuto, ma
non è un riconoscimento su cui adagiarsi. Perché, anche
quando ne abbiamo riscontrato la serietà, dobbiamo, mi
sembra, accettare che le limitazioni, anche del migliore
naturalismo, sono oramai diventate troppo evidenti per
essere trascurate. Vorrei indicare brevemente questi limi-
ti, tornando al punto da cui Stanislavskij e Čechov hanno
cominciato.

Limiti del naturalismo

Sicuramente non ci può essere più alcun dubbio sul


fatto che i metodi del dramma di metà Ottocento doves-
sero essere abbandonati. Ciò che Nemirovič-Dančenko
chiamava l’“impertinente menzogna teatrale” era diven-
tata troppo ovvia. È anche probabilmente vero che uno
scrittore come Čechov abbia correttamente inteso (e al-
lo stesso tempo espresso) il cambiamento nella struttura
del sentire che poi, generalmente, si è verificato. C’era
una crescente diffidenza verso lo schema morale stabilito,
con le sue semplici, fiduciose etichette del Vizio e della
Virtù; affianco a questa diffidenza c’era un crescente inte-
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 63

resse per il flusso di coscienza reale e dettagliato – infat-


ti “flusso”, come metafora, era investito da una tensione
crescente in quanto termine più adeguato per indicare la
realizzazione dell’esperienza di quanto non lo fosse l’idea
di “situazioni” separate, o di “compartimenti” particolari,
in cui collocare le differenti tipologie del sentire. In quan-
to parte di questo clima, e chiaramente collegata anche
alle trasformazioni della società, l’importanza del sentire
“quotidiano” della gente “ordinaria” era naturalmente
messa in evidenza. Inoltre, si riteneva che le maggiori cri-
si umane avvenissero in questo tipo di contesto, e non in
uno di “grandi, drammatici eventi”:

Dobbiamo solo essere complessi e semplici come lo è la vita.


La gente cena, e allo stesso tempo ha fatto la propria felicità o
distrutto la propria vita (Čechov)26.

È in una piccola stanza, intorno al tavolo, vicino al fuoco,


che si decidono le gioie e i dolori degli uomini (Maeterlinck,
1889)27.

Inoltre, se questa era la situazione, ne conseguiva che


un’importante parte dell’esperienza umana maggiore fos-
se, essenzialmente, oscura. L’attenzione era concentrata
sul “dramma nascosto dell’anima” che mai nella vita giun-
ge a un’articolata espressione: “viviamo, come sogniamo,
da soli”.
Era questa la struttura del sentire che si è cercata di re-
alizzare drammaticamente, e si potrebbe vedere con molta
facilità quanto le convenzioni del tipo di naturalismo alla
Stanislavskij/Čechov derivino da essa, quasi sicuramente
come una specie di sostanza. Il nuovo sentire, certamente,
era già influenzato dal romanzo – e questo è un punto vi-
tale – sebbene i principali risultati per ciò che riguardava
il racconto di finzione, non fossero ancora stati raggiun-

26 Lettera del 4 maggio 1889.


27 The Double Garden, p. 123.
64 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

gi. Dobbiamo subito osservare, tuttavia, che il problema


delle nuove convenzioni nel romanzo era molto differente
da quello, del tutto simile, affrontato nel dramma. Il ro-
manziere lavora, essenzialmente, con parole disposte in un
certo ordine. All’interno di questa sequenza verbale egli
può descrivere un’azione visibile; può descrivere un luo-
go; può descrivere l’apparenza del suo personaggio, tanto
da un punto di vista generale quanto da uno particolare.
Sicuramente, tutte queste funzioni possono anche essere
performate dal dramma e rese visibili sul palcoscenico, at-
traverso il modo con cui il regista dirige i suoi attori, il suo
scenografo e il suo produttore. Il discorso dei personaggi,
gli altri effetti sonori che il romanziere registra in parole,
pure possono essere immediatamente realizzati sul pal-
coscenico. Ci sono, però, pochi romanzi che si riducono
agli elementi appena menzionati, la maggior parte di essi
si avvale di un ulteriore elemento che spesso, infatti, è di
grande importanza: la capacità dell’autore, all’interno del-
la sua sequenza verbale, di commentare un’azione, un per-
sonaggio e un tema, di analizzarlo e, inoltre, senza nessuna
difficoltà tecnica, di farlo sia quando questi fattori sono
visibili, sia quando non hanno una controparte esterna e
visibile, e rimangono sconosciuti, nascosti, o addirittura
inconsci.
Questa facoltà di commentare e analizzare era, infatti,
il principale metodo tecnico a disposizione del romanzo
per assimilare i cambiamenti nel sentire di cui abbiamo già
parlato. Anche lì dove l’azione e i personaggi del romanzo
fossero stati presentati in un modo generalmente naturali-
stico, il romanziere era in grado, in qualsiasi momento ri-
tenesse opportuno, di usare questa penetrante facoltà per
indicare qualunque profondità o relazioni lui scegliesse.
Ora, è ovvio che in un lavoro teatrale naturalistico, una
facoltà di questo tipo è inutilizzabile. Ed era questo che
faceva disperare Yeats, i lavori teatrali sulla “gente mo-
derna ed educata” che, diceva, quando sperimenta ogni
tipo di emozione forte, tende a dire molto poco, invece
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 65

di guardare fuori della finestra o di fissare il fuoco. Ed


è precisamente a questo punto che il romanziere, senza
difficoltà, entra in gioco. Una donna fissa silenziosamente
il fuoco e il romanziere scrive “parole e figure che si for-
mano nella sua mente”: questo tipo speciale di “azione”
può essere poi il soggetto del resto del romanzo, se solo
il romanziere lo ritenga necessario. A questo punto, cosa
può fare il drammaturgo naturalista? Può, di sicuro, as-
sicurarsi di non procedere oltre, sarebbe a dire, si limita
alle azioni e ai sentimenti che non vanno “troppo in pro-
fondità per le parole”. Questo è il conformismo naturali-
sta in un gran numero di lavori teatrali. Il naturalismo di
Čechov e di Stanislavskij, però, aveva basato la sua intera
esistenza, tutte le sue rivendicazioni su di una verità supe-
riore, sulla messa in scena della struttura reale del sentire,
proprio su questo riconoscimento di una realtà “nasco-
sta”. Così, mentre il dramma nel conformismo naturalista
poteva procedere senza difficoltà, riproducendo le sue
azioni e i suoi sentimenti di superficie con un’aggiunta
verosimiglianza di dettaglio, il dramma del “naturalismo
emozionale” genuino, quello del “realismo interiore”, si
è confrontato con la sua qualità distintiva come con una
difficoltà tecnica apparentemente insuperabile.
Subito, e quasi istintivamente, i produttori del nuovo
dramma attinsero con intensità crescente ai metodi del
romanzo. I lavori teatrali iniziarono a essere pubblicati
con l’inserimento di brani che fungevano da commenta-
ri e analisi, proprio come quelli dei romanzi. Allo stesso
modo, Stanislavskij prese un lavoro di Čechov e vi fab-
bricò un “cartellone” nel quale parole e azioni furono
riempite non solo dall’aggiunta di qualche dettaglio, ma
da un commento esplicativo. Tali inserti si chiamavano
ancora, vagamente, “didascalie”, ma bastava solo passare
attraverso uno qualsiasi di questi testi teatrali o cartelloni,
per rendersi conto che solamente alcuni di questi dettagli
erano genuine “indicazioni per la regia”, indicanti ciò che
poteva realmente essere portato sul palcoscenico, mentre
66 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

per una buona parte di essi non c’era un’equivalente rea-


lizzazione. Per fare un breve esempio, che potrebbe essere
ripetuto molte volte, ne Il gabbiano di Čechov, a un certo
punto si legge nel testo: “Masha (balla pochi passi di valzer
senza rumore): La cosa principale, Madre, è non vederlo”.
Stanislavskij, a questo, aggiunge nel suo cartellone:

Masha sospira di nuovo, valzer fino alla finestra, si ferma ac-


canto ad essa, guarda fuori nell’oscurità e di nascosto si as-
ciuga le lacrime che le scendono giù per le guance. Una pausa
(parte la musica). Pauline smette di fare il letto e guarda pen-
sierosa la figlia. (Evidentemente ha ricordato il suo amore per
Dorn)28.

La parentesi di Čechov è una didascalia, e Stanislavskij,


in primo luogo, la espande, ma poi aggiunge, nella sua pa-
rentesi, un commento che potrebbe certamente trovarsi in
un romanzo, ma per il quale sembra non ci possa essere
un equivalente drammatico all’interno della forma natura-
listica. Si è sostenuto, di certo, che si trattava di un modo
speciale di dirigere l’attore il quale, avendo ricevuto il sug-
gerimento dell’esistenza di un sentimento nascosto, sareb-
be stato più in grado di “vivere la parte”. Certo! Questa
tesi, però, è debole. Un’emozione per la quale non può
essere trovato un equivalente in atto (nella parola o nel
movimento), difficilmente può essere rilevante in termini
drammatici, tuttavia, nella concezione del lavoro teatrale
in genere, la rilevanza di queste emozioni sembra essere
pressante. Non vorrei negare che un produttore del ca-
libro di Stanislavskij, o un attore altrettanto grande, nel
rendere reale un’emozione nascosta, non facesse una cosa
passabile, ma sono convinto che, in quanto convenzione,
provata per più di una sessantina di anni, il metodo su cui
essa si basava era destinato ad essere visto come inadegua-
to, poiché inevitabilmente attratto dalle frontiere della va-
ghezza e del “significato voluto”. Più di ogni altro singolo

28 The Seagull produced by Stanislavsky, cit., p. 252.


FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 67

fattore è questo, credo, il responsabile del senso di incom-


pletezza e di frammentazione che, come ora incomincia
ad essere ampiamente percepito, occupa anche il miglior
dramma naturalistico29.
Ad un attore, in una situazione del genere, viene chie-
sto troppo o troppo poco. Troppo, nel senso che gli viene
chiesto d’interpretare sentimenti di cui il drammaturgo e
il produttore non possono avere un’immagine, in termini
drammatici. Troppo poco, nel senso che gli viene impedito
l’uso concertato delle sua capacità di parlare, gesticolare e
muoversi; è costretto, in certi punti, a rinunciare alla pa-
rola (“nessuna parola è stata trovata per esprimere cosa ci
fosse nel suo cuore”), e al movimento (in questi punti di
crisi l’azione essenzialmente crolla, non c’è un equivalente
in termini di movimento, il sentimento rimane nascosto).
Credo che i più riflessivi degli attori del nostro tempo
siano consapevoli di questo, ed è giusto che lo siano, per
questo gli viene chiesto di portare il fardello più pesan-
te (e, per questo, impossibile). Paradossalmente, questa
difficolta si manifesta non tanto nel conformismo, qui è
del tutto trascurabile, quanto solo nel migliore dramma
naturalista. Nella routine delle emozioni stereotipate e su-
perficiali, si reperiscono con facilità gli elementi in azione,
ma quando le emozioni si approfondiscono e diventano
più complesse, la mancanza fondamentale di una conven-
zione la si sente con sempre maggiore chiarezza. Si sarà
d’accordo nel ritenere che sia abbastanza facile alludere
a un sentimento profondo e complesso: un attore farà ciò
che potrà, sperando che il pubblico gli suggerirà il resto.
Eppure nessun attore o produttore o drammaturgo che sia
anche un artista, nel senso della fedeltà dovuta alla verità
immaginativa, potrà essere soddisfatto, dal suo punto di

29 Per una trattazione più completa di questo caso rinvio al mio Drama from
Ibsen to Eliot (Chatto and Windus, 1952), in particolare ai saggi su Ib-
sen, Čechov e Shaw. Rinvio anche alla mia analisi della produzione che
Stanislavskij ha fatto de Il gabbiano contenuta in Drama in Performance
(Muller, 1954).
68 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

vista, di dubbi effetti di questo tipo, soprattutto quando


pretendono un successo incondizionato.
Fortunatamente un numero piccolo, ma influente, dei
migliori drammaturghi è rimasto del tutto insoddisfatto.
Un drammaturgo, è ovvio, vuole esprimere un’esperienza
in modo tale che possa essere esattamente comunicata a
un pubblico partecipe. Può ascoltare con rispetto parole
come queste di Nemirovič-Dančenko:

I punti più importanti che l’autore desidera mettere a fuoco


non possono essere cercati nel dialogo dei personaggi. Sono
sepolti nei loro sentimenti, negli scontri emotivi con altri
personaggi. Il dialogo che l’autore ha scritto è solamente un
pallido riflesso di queste emozioni, la loro manifestazione es-
terna, ne lascia fuori ancora una grossa quantità, e gli attori
che desiderino riprodurre sul palcoscenico ciò che l’autore ha
scritto devono, naturalmente, concentrare la loro attenzione,
non tanto sulle parole stesse, quanto sulle emozioni che esse
nascondono. Prima di tutto devono capire l’opera che sono
in procinto d’interpretare, devono cogliere cosa l’autore ab-
bia desiderato esprimere attraverso il suo lavoro, quale idea
gli abbia inserito. Devono capire per intero le esperienze emo-
tive dei personaggi e, inutile dirlo, non sempre riescono a farlo
facilmente e subito30.

Il drammaturgo, se è un uomo paziente e se le ha cor-


rettamente intese, potrà ascoltare con rispetto tanto le dif-
ficoltà inerenti alla situazione, quanto l’evidente sincerità
con cui questo tipo di tentativo le affronta, ma non è mai a
nulla di simile che, però, darà il suo assenso.
Se ciò che ha scritto è solo un “pallido riflesso” di ciò
che cerca di esprimere, allora, difficilmente ne può essere
soddisfatto. Se le sue parole non esprimono, ma “nascon-
dono” sentimenti, sente di aver fatto realmente qualcosa?
Saprà che, in altri periodi, le parole che un drammaturgo
scriveva contenevano in se stesse e nell’azione che pro-
muovevano, l’esperienza che si desiderava comunicare

30 The Seagull produced by Stanislavsky, cit., p. 132.


FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 69

fino al limite dei poteri a lui concessi. Saprà che nel suo
tempo esiste una forma, nel romanzo, che gli permettereb-
be, attraverso tali parole, di comunicare ciò che in questo
momento è incomunicabile. Saprà, finalmente, che le os-
servazioni conclusive “inutile dirlo, non sempre riescono...
capire per intero le esperienze emotive dei personaggi...
facilmente e subito”, sono allo stesso tempo una sardonica
verità. Anche Čechov, dopo la grande produzione de Il
gabbiano, conosceva questo sentimento. “La tua rappre-
sentazione è eccellente, disse a Stanislavskij, solo tu non
fai recitare i miei personaggi. Io non l’ho mai scritto”. O
ancora: “Era molto eccitato, e ci disse che il iv atto non
proveniva dal suo dramma”31.
Un risultato del genere non è un incidente isolato,
piuttosto, sembra inevitabile vista la natura del caso. A di-
spetto di tutte le iniziative prese, e nonostante la sincerità
e l’inventiva del tipo di performance naturalista promossa
da Stanislavskij, da allora divenuta dominante nell’intero
teatro europeo, diversi drammaturghi si sentirono costret-
ti a concludere che le convenzioni attraverso cui la nuova
struttura del sentire avrebbe potuto essere espressa, non
erano state ancora fissate in modo soddisfacente.

Direzioni del dramma odierno

Il dramma in Inghilterra, negli ultimi cinquant’anni, ha


avuto tre caratteristiche principali: primo, la maggior par-
te del teatro ispirata al conformismo naturalista penso non
sia mai stata così potente e sicura come lo è oggi; secon-
do, la parte minore di questo tipo di teatro ha dato molte
opere importanti; e terzo, un diverso tipo di minoranza,
diventata preminente negli ultimi venti anni, ha cercato
di respingere del tutto il naturalismo. Il mio giudizio sui
primi due aspetti sta in ciò che ho già sostenuto, ma il

31 Ivi, p. 81.
70 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

terzo solleva nuove questioni di considerevole importan-


za. Il rifiuto del naturalismo è una tradizione vivente in
Inghilterra, sia nel teatro di minoranza e nel dramma, sia
nella critica. Questa circostanza è così favorevole da aver
fatto crescere un’illusione generale che ha avuto successo.
Un numero di drammaturghi ha rifiutato, apparentemen-
te, il discorso naturalista e sta scrivendo lavori teatrali in
versi. Un numero di produttori e di scenografi ha rifiuta-
to i contesti e le atmosfere “come la vita”, e ha prodotto
eccitanti stilizzazioni della messa in scena. Un numero di
attori ha iniziato a sentire che la “scuola del comporta-
mento” – “guarda come la gente mangia, beve, cammina,
fa l’amore e indossa le giacche” – è inadeguata alla loro
arte. Dalla somma di questi segni si è arrivati a dire che il
naturalismo è finito, tanto che è addirittura imbarazzante
parlarne ancora.
Ora, non voglio negare il valore di questi esperimenti,
ma insisterei che la loro “somma” è puramente accademi-
ca: c’è stata, in pratica, un’integrazione piccola o nulla. È
in questo punto esatto che la questione vitale si mostra. Il
dramma in versi, con il signor Eliot in testa, è andato ac-
quisendo una forma adeguata di discorso drammatico, ma,
in teatro, questa forma è, in generale, parlata come se fosse
ancora una “conversazione probabile” e, infine, ciò che si
annulla è accompagnato da movimenti di cui Stanislavkij
ha ideato il tipo generale: non “movimenti probabili” di un
personaggio in un dato momento, ma nessun movimento
controllato dalle parole, come se questo le incorporasse.
I movimenti degli attori, cioè, non hanno una relazione
necessaria con le parole; la relazione è imposta – lui è a
un party, vorrebbe bere o accendersi una sigaretta – e la si
deve ottenere mentre le parole sono pronunciate. Il pre-
supposto che sorregge l’imposizione è quello familiare al
naturalismo: la preoccupazione è rappresentare la “vita re-
ale”, invece di comunicare un’emozione drammatica.
Così, vediamo che i problemi del discorso drammatico
non possono essere risolti in isolamento. La loro soluzione
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 71

è recitativa: la possibilità di trovare movimenti che cor-


rispondano al discorso. Se davvero siamo in procinto di
rifiutare il naturalismo, dovremmo anche rifiutare il suo
tipo di movimento perché contribuisce alla creazione della
verosimiglianza, e trovare, invece, il tipo di movimento de-
terminato solamente dalla forma completa dell’emozione
drammatica. Questo accade nel teatro contemporaneo, ed
è ciò che abbiamo difficilmente cercato di dimostrare, di
certo, come confermerà qualsiasi performance del tipo The
Cocktail Party32, non ci siamo ancora riusciti. Una soluzio-
ne dipenderà dalla scoperta, da parte degli attori, di mezzi
non-naturalistici di movimento così convincenti da essere
accettati come convenzione. In caso contrario, forme con-
venzionali di discorso saranno solamente un abbellimento
del naturalismo e verranno continuamente affossate dai
movimenti naturalistici che le accompagnano.
Ciò che mi sembra necessario, è che i drammaturghi
in collaborazione con gli attori continuino a pensare in
termini di scrittura per la parola e il movimento come ad
una forma drammatica integrata33. Impareremo qualcosa
del genere dalla tradizione; impareremo probabilmente
qualcosa del movimento, dal balletto moderno, sebbene
non abbia alcun riferimento con la parola recitata; in ogni
caso, però, se il metodo diventerà una convenzione, que-
sta sarà una convenzione contemporanea. Il punto essen-
ziale è che una soluzione di entrambi i problemi, quello
della parola e quello del movimento – ambedue come al-
ternative al naturalismo – non si può ottenere isolandoli.
Dovremo scrivere per un discorso recitato, anziché scrivere

32 [Dramma di Thomas S. Eliot del 1949.]


33 A proposito dell’integrazione verbale e dei ritmi fisici – discorso dram-
matico e movimento drammatico – vale la pena ricordare che l’unità di
misura del verso ritmico è chiamata piede. L’origine di questo uso della
parola (pouz in greco, pes in latino) deriva, nella prassi greca, dal control-
lo esercitato sui movimenti del piede nella danza drammatica attraverso il
ritmo delle parole dell’attore che parlava: la misura verbale era espressa
dai movimenti del piede, e un verso di due piedi era chiamato base, il cui
significato letterale è passo.
72 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

“discorso” (cioè “conversazione probabile”) seguito da


“recitato” (cioè “comportamento probabile”), in modi
non necessariamente determinati dalla concezione dram-
matica originale.
Dovremo anche scrivere per la messa in scena in quan-
to parte necessaria dell’intera concezione drammatica. Do-
vremo essere in grado di integrare l’elemento della messa
in scena (spettacolo) pensandolo non come “un luogo pro-
babile”, ma come un medium in più, in relazione diretta
e necessaria con quelli della parola e del movimento, per
comunicare l’intera concezione drammatica. Non so dire
se i recenti esperimenti dei produttori e degli scenografi,
da questo punto di vista, saranno di qualche utilità, ma il
criterio, ancora una volta, deve essere quello dell’integra-
zione. La più avanzata messa in scena sperimentale, senza
che sia controllata da questo principio generale, non sarà
nulla di più di una nuova varietà di “spettacolo”, come la
visualizzazione di un naufragio o di un angolo di strada
realistico. Tanti scenografi contemporanei molto bravi, in-
fatti, sono stati spettacolari solo in questo senso, a causa
della loro mancanza di qualsiasi relazione, necessaria o in-
tegrata, della parola e del movimento.
Tutti gli esperimenti che vadano nella direzione del
rifiuto del naturalismo, allora, sono apprezzabili, ma
l’avanzamento generale decisivo difficilmente si può ot-
tenere fino a quando i metodi più promettenti non saran-
no presi nella forma complessiva dell’opera drammatica
e vi troveranno unità. Ciò che è accaduto è che queste
trasformazioni nel sentire hanno forzato il cambiamen-
to di metodi particolari, così che noi vediamo le nuove
convenzioni a portata di mano, ma poiché la pressione
del conformismo naturalista è ancora così formidabile e
continua, si tenta di assorbirle solo come novità interes-
santi, mentre in realtà si sono conservati i vecchi principi
generali. Le nuove convenzioni sono, allora, solamente
mitigazioni del naturalismo, anziché una vera e propria
alternativa ad esso.
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 73

Ho discusso tutti questi argomenti, in quanto connessi


al dramma nella sua interezza, nel capitolo finale di Dra-
ma in Performance, lì dove una dimostrazione più detta-
gliata era possibile34. Ho chiamato l’idea di scrivere per
la parola, il movimento e la messa in scena, come parti
di una forma drammatica controllata, espressione totale.
È quest’idea, credo, che il naturalismo, seguendo la pre-
cedente dissoluzione del dramma romantico, non ci ha
permesso di vedere. Un lavoro teatrale scritto partendo da
quest’idea di espressione totale contiene, nella sua conce-
zione essenziale, la performance totale necessaria per esse-
re comunicata in teatro. Sarebbe a dire, non solo la parola,
ma anche il movimento e la messa in scena sono ideati
dal drammaturgo così da comprendere le convenzioni
adeguate agli attori e agli scenografi, così che il dramma
scritto contenga qualsiasi cosa debba essere performata:
la performance stessa è la comunicazione di tutto ciò. Era
verso questa soluzione, penso, che il dramma avrebbe do-
vuto lavorare una volta diventata chiara l’insoddisfazione
dei drammaturghi per i “testi incompleti” (“le parole un
pallido riflesso” ecc.). La sua definizione, in pratica, ne
sono certo, è inevitabile, sebbene le difficoltà immediate
siano considerevoli. Ciò che ora voglio indicare è il posto
di questa idea nel film, dove le opportunità per la sua rea-
lizzazione sono notevoli.

Film come espressione totale

La macchina da presa stessa è, penso, uno degli agenti


più efficaci per il tipo di effetto totale controllato che ho
raccomandato. Perché ogni film è una performance totale,
non solo nel senso che è inseparabile dal lavoro perfor-
mato (come, dal mio punto di vista, non lo può essere il
miglior dramma), ma anche perché ogni elemento nella

34 Drama in Performance, Muller, 1954.


74 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

sua performance è, o è capace di essere sotto il diretto con-


trollo della concezione originale. Scrivere adeguatamente
per il film è, essenzialmente, scrivere per la parola, il movi-
mento e la messa in scena in quanto parti necessariamen-
te connesse a un insieme, e il controllo della penna sulla
concezione totale deve diventare direttamente il controllo
sulla macchina da presa. Non dico che questo non possa
essere fatto in teatro – è un problema di metodi di produ-
zione e del modo in cui intendiamo la natura della perfor-
mance. Per una varietà di ragioni, però, il controllo è in
qualche modo più semplice da concepire nel film: il fatto
che esso sia una performance finita – registrata e definitiva
– è, forse, il fattore più importante.
Gran parte della tradizione del film, come del teatro, è
rappresentata dal conformismo naturalista, con una gran-
de e incomprensibile enfasi posta sullo spettacolo. L’uso
genuino della convenzione naturalista, in una piccola parte
di film, è stato un importante elemento di perfezionamen-
to della tradizione. Nel rifiuto del naturalismo c’è stata
una chiara linea sperimentale, feconda, in qualche modo,
come il corrispondente movimento in teatro. Sicuramente,
in questo lavoro sperimentale, non c’è mai stata la stessa
enfasi sul linguaggio come negli esperimenti generali – per
esempio, il dramma in versi. Infatti, il più grande fallimen-
to del film come forma complessiva, è dipeso dal suo uso
della parola drammatica. Perché, sebbene dall’introdu-
zione del sonoro la maggior parte dei film dipendesse da
un’eccessiva specializzazione del dialogo che gli consen-
tiva di trascurare gli elementi significativi del movimento
e della messa in scena, quasi tutti questi dialoghi, anche
in film che erano visivamente interessanti, erano di tipo
naturalistico – tentare l’approssimazione piuttosto che la
precisa, fantasiosa intensità di cui la parola drammatica è
capace. Quando non era questo, il dialogo si è trovato a
essere una retorica sentimentale, oppure solo didascalie
parlate – cose dette per spiegare la situazione e il suo svi-
luppo.
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 75

Il film espressionista tedesco degli anni Venti è il ti-


po di film che ha realizzato quasi del tutto l’ideale di un
dramma concepito nella sua interezza, nel quale azione,
movimento e messa in scena sostengono una relazione vi-
tale continua e necessaria. Credo che questa forma fosse
limitata, in quanto arte, dal fatto che la sua struttura del
sentire, per esprimere la quale furono trovate adeguate
convenzioni, era un caso speciale che aveva bisogno di
condizioni psicologiche inusuali nel pubblico per essere
pienamente comunicata. Come principio, tuttavia, l’in-
tegrazione in questi film è notevole, eppure mi è sempre
sembrato significativo che gli esempi di maggior successo
provenissero dal film muto. Perché, se si guarda al dram-
ma espressionista nel suo complesso, si vede una nuova,
eccitante convenzione del movimento e della messa in
scena, raggiunta a costo di un radicale abbandono della
parola. Nella normale rappresentazione espressionista le
parole pronunciate sono (forse come diretto risultato della
teoria, almeno così alcuni suoi fautori hanno sostenuto)
frammentarie, disgiunte, tipizzate – l’urlo, l’esclamazione,
lo slogan, piuttosto che la pienezza della parola dramma-
tica. E certamente questo uso delle parole poteva essere
realizzato, senza grande perdita, nei sottotitoli del film
muto. Ci sono certamente altre ragioni per spiegare per-
ché non ci sia stato quasi nessun buon film espressionista
durante il periodo del sonoro, ma è chiaro che l’uso del
sonoro, in particolare per il discorso drammatico, poteva
presentare agli espressionisti problemi molto difficili, tali
da poter rovinare l’integrazione convenzionale che aveva-
no raggiunto.
Ho detto che scrivere adeguatamente per il film è scri-
vere per la parola, il movimento e la messa in scena, ma
questo punto può essere frainteso se non lo si considera
nel contesto del principio d’integrazione di cui ho parla-
to. Per esempio, si potrebbe osservare che quando ho di-
scusso il dramma naturalista e il romanzo, sono arrivato al
punto in cui il personaggio, secondo le leggi della proba-
76 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

bilità, poteva dire o fare praticamente nulla, sebbene que-


sto fosse il momento della crisi. Il dramma naturalista, ho
sostenuto, non poteva realmente superare quei momenti,
mentre il romanzo sì: “parole e figure che si formano nel-
la sua mente”. La frase, come modello di una situazione,
ovviamente, può aver indirettamente influenzato la pro-
duzione di film perché di certo è chiaro che, in tale mo-
mento, il film aveva una gamma di possibilità maggiori di
quelle del dramma (poteva, per esempio, associare certe
immagini e scene), e poteva anche, attraverso l’uso della
voce narrante, eguagliare la capacità del romanzo nel com-
mento, analisi e descrizione del sentimento sommerso, e
così via. Tranne che in modi descrittivi abbastanza ovvi,
quest’ultimo metodo non è stato quasi mai utilizzato; il
primo – immagini associate – di certo è stato ampiamente
usato, ma rimane, essenzialmente, il tipo di azione separa-
ta che Stanislavskij ha reso famosa.
Ora, penso che il buon film naturalista, in molti casi,
poteva essere migliorato usando convenzioni narrative di
questo tipo, invece di mirare solamente alla descrizione, e
puntando anche all’analisi e al commento. È questa capa-
cità, suppongo, che ha portato alcuni scrittori a definire
il film una specie di romanzo. Ora, la distinzione formale
è chiara: il romanzo rimane interamente verbale, il film,
anche con l’aggiunta della voce narrante, è performance e
imitazione – cioè, dramma. Questa specie di distinzione,
però, è meno importante di ciò che emerge quando la con-
venzione della voce narrante è considerata con maggiore
attenzione. Tale punto illustra molto bene ciò che io inten-
do per integrazione. Se questa “narrazione” è impiegata
come una cosa in sé, capace di comunicare materie che la
performance agita non può, allora, mentre da un lato può
essere un importante perfezionamento del film naturalista,
dall’altro può difficilmente favorire qualsiasi integrazione
drammatica. Usata in accordo con il principio dell’inte-
grazione, questa voce dovrebbe essere parte dell’azione,
non un elemento laterale. Cioè, dovrebbe seguire e soste-
FILM E TRADIZIONE DRAMMATICA 77

nere una relazione necessaria con il movimento e la mes-


sa in scena che difficilmente potrebbe essere naturalista
perché il movimento e la messa in scena esprimerebbero
ciò che anche la voce esprime, al contrario (come, infatti,
ancora accade) non sarebbero altro che semplici “immagi-
ni di accompagnamento”.
Questo esempio illustra il principio generale che io
credo debba governare la produzione del film dramma-
tico: il principio dell’espressione integrata e della perfor-
mance, nella quale ciascuno degli elementi usati – parola,
musica, movimento, messa in scena – sostiene, al momen-
to dell’espressione, una relazione diretta, necessaria e con-
trollata con qualsiasi altro elemento che sarà poi utilizzato.
Tutti saranno diretti verso un unico fine, cioè una conce-
zione unitaria espressa attraverso vari mezzi direttamente
collegati tra di loro.

Conclusioni

Quest’ultima riflessione è generale, vuole indicare il


contesto delle proposte avanzate. Ho detto che il natu-
ralismo era una risposta ai cambiamenti avvenuti nella
struttura del sentire che, in un dato caso, non poteva es-
sere completamente espressa. La struttura del sentire, così
come l’ho definita, è profondamente radicata nella nostra
vita, non può essere solamente estratta e riassunta, forse, è
solo nell’arte – da qui la sua importanza – che può essere
realizzata e comunicata in quanto esperienza completa.
In apparenza, la motivazione di questo saggio sembra
tecnica: una risposta alle difficoltà data da un medium
particolare e una ricerca di nuove convenzioni. Un’enfa-
si tecnica è, quindi, inevitabile. Ma se si accetta ciò che
ho detto circa il significato completo della convenzione,
la ricerca tecnica può essere vista come la forma neces-
saria di una trasformazione più grande: una ricerca nei
mezzi di comunicazione che formano tanto l’esperienza
78 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

che è all’origine di tale problema, quanto la base di que-


sto nuovo tipo di approccio. Se si possono ottenere delle
nuove convenzioni, alla fine ciò che conterà per noi e per
il pubblico, sarà l’esperienza comunicata. L’artista, però,
non ha solo da sentire se stesso, deve, nella misura in cui è
un artista, cercare modi per realizzare e comunicare, com-
pletamente e definitivamente, l’esperienza in movimento.
Solo quando abbia trovato questi modi, la visione perso-
nale potrà essere confermata pubblicamente.
Cinema e socialismo

Il primo pubblico del cinema fu quello della gente


delle grandi città del mondo industrializzato. Tra le stes-
se persone, nello stesso periodo, il movimento operaio e
quello socialista crescevano di forza. C’è una relazione si-
gnificativa tra questi tipi differenti di sviluppo? Molti lo
hanno pensato, ma in modi diversi e a volte interessanti.
Uno di questi, diventato abbastanza comune, sul per-
ché la Sinistra vedesse film, dipendeva dal fatto che fosse
intrinsecamente popolare, cioè un’arte democratica. A un
primo livello, questa tesi formulava che il film fosse riusci-
to ad aggirare, a scavalcare, il classismo dell’istituzione te-
atrale e tutte le barriere culturali che l’educazione selettiva
aveva eretto attorno all’istruzione superiore. Inoltre, un
secondo livello più sofisticato di questa argomentazione
prevedeva che il film, come il socialismo stesso, fosse vi-
sto come il precursore di un nuovo tipo di mondo, quello
moderno: basato sulla scienza e la tecnologia; fondamen-
talmente aperto e mobile; quindi, non solo un medium
popolare, ma anche dinamico e, forse addirittura, rivolu-
zionario.
Oggi, dopo quasi un secolo di sviluppo prevalente-
mente capitalista del cinema, che senso ha questa tesi? È
semplicemente da gettare in quella pattumiera della storia
in cui la Sinistra, in quel periodo, gettava fiduciosa tanti
oggetti contemporanei, e nella quale oggi – non sempre
80 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

scalciando e lottando – trova se stessa e così tante delle


sue idee? Vale la pena sviluppare un altro sguardo, altre
nuove analisi.
In primo luogo, cos’è popolare? La chiave per com-
prendere la storia culturale degli ultimi duecento anni è
il controverso significato di questa parola. Non si tratta
solo del cinema: un secolo prima, era la stampa a esse-
re guardata con fiducia ancora maggiore da democratici
e radicali come un’espansione, il medium liberatorio che
spingeva oltre i mondi chiusi e controllati del potere sta-
tale e dell’aristocrazia. Nella stessa direzione si muove-
va la lunga lotta per ripristinare la legittimità del teatro
popolare, dato che un provvedimento legislativo del xvii
secolo aveva ristretto la pratica legittima del dramma a po-
chi teatri alla moda. Quel che venne fuori con forza dai
teatri “illegali” – e negli spettacoli dei pub, nei circhi, nei
music hall – era effettivamente, all’interno di queste con-
dizioni, una forma popolare, un insieme di forme vivaci e
divertenti anche se limitate dal fatto di essere escluse dalle
vecchie arti. Quando, nel 1843, il provvedimento venne
abrogato, furono contemporaneamente rimossi per intero
anche gli ostacoli a un’altra forma popolare emergente – il
giornale. In un tempo in cui il nostro movimento operaio
e tanti della Sinistra gridano con rabbia contro i “media”,
è difficile ricordare questa storia, i fatti, però, sono quelli
che abbiamo visto e spesso sono temuti dai ricchi e dai
potenti perché mostrano pratiche popolari liberatrici, o al
limite, che vanno nell’interesse popolare: i media in quan-
to mezzi – se questa frase non è stata ancora usata – di una
rivoluzione culturale.
Ciò che spesso non è stato notato a Sinistra, però, e
forse non lo è ancora oggi, è che c’erano altri soggetti in-
teressati all’essere popolare, oltre ai radicali e ai democra-
tici. Quello che si era supposto essere un monopolio, nel
senso preciso di un “Popolo” che lotta per i suoi diritti e
le sue libertà, si rivelò essere qualcosa di molto diverso e,
in quelle condizioni, fu inevitabile che lo fosse. Certamen-
CINEMA E SOCIALISMO 81

te radicali e democratici combatterono per le nuove forme


e le nuove libertà. Ma anche gli imprenditori commerciali,
capitalisti nuovo stile, diedero la loro versione delle possi-
bilità insite nelle nuove tecnologie, nei nuovi pubblici che
si erano formati nel corso dell’intero processo; e anche lo-
ro, come accade oggi, alla testa delle nostre nuove tecno-
logie, s’impegnarono nella lotta contro le restrizioni impo-
ste dalle leggi di stato, lottarono e manovrarono per quella
che oggi chiamiamo deregolamentazione. Sicuramente
non avrebbero vinto in ogni singola istanza se non aves-
sero avuto alle loro spalle la pressione e l’evidenza di una
domanda popolare solida. Ciò che vediamo nel caso del
cinema delle origini è, in questo senso, del tutto tipico di
una più generale storia culturale. Ha dovuto conquistarsi
la sua strada combattendo con controlli e regolamenti, e
non sempre ha avuto successo. Si consideri la sentenza del
1915 della Suprema Corte degli Stati Uniti con la quale si
rifiuta di riconoscere al cinema le libertà costituzionali già
garantite alla stampa:

Non può essere nascosto che la visione di film sia un affare


puro e semplice... Sono solamente rappresentazioni di eventi,
di idee e sentimenti visti e conosciuti: vivaci, utili e divertenti,
senza dubbio, ma capaci di fare il male maggiore, avendo il
potere di farlo a causa della loro attrattiva e del modo di esi-
birla.

È perché il cinema era popolare, in senso generale, che


doveva essere sottoposto a qualche specie di controllo,
com’era accaduto in precedenza con la stampa e come sa-
rebbe avvenuto dopo con la radio, la televisione e il video.
Così, i socialisti si sbagliano quando suppongono di
avere, in una società post-feudale, qualsiasi tipo di mono-
polio dell’interesse popolare, o che solo loro e i loro alleati
hanno contestato sia lo stato, sia il potere capitalista sta-
bilito, nella lotta per le nuove libertà. Il modo onesto per
vedere la storia culturale reale, la quale corre strettamente
in parallelo con quella parte della storia politica che con-
82 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

cerne elezioni e partiti, è quello consapevole del fatto che


le nuove condizioni e le nuove tecnologie rendono pos-
sibili direzioni completamente alternative dello sviluppo,
alternative che ora noi vediamo più chiaramente, ma che,
per un lungo periodo di tempo e ancora oggi in molti casi,
sono praticamente sovrapposte perché sembrano avere un
comune nemico: il vecchio potere regolativo della Chiesa
e dello Stato; con le relative abitudini chiuse, vincolanti
e spesso soffocanti di una società gerarchica tradiziona-
le e consolidata; l’organizzazione positiva di tale moralità
ricevuta è rappresentata – nel caso del cinema – dalla de-
nuncia, in Gran Bretagna, del National Council of Publics
Morals del 1916:
I film stanno avendo una profonda influenza sulla prospettiva
mentale e morale di milioni di nostri ragazzi... Lasciamo le
nostre fatiche con la profonda convinzione che nessun prob-
lema sociale del giorno chieda una più seria attenzione.

Toni familiari, nemici familiari? Forse troppo familiari.


Infatti, mentre all’interno di questa storia era inevitabile
che ci fosse una sovrapposizione tra le nuove direzioni
alternative, non c’è nulla da guadagnare, anzi c’è molto
da perdere se continuiamo a ritenere che all’interno della
retorica del ‘popolare’ ci sia un reale terreno comune.
Al contrario, dobbiamo vedere quanto fosse situato
bene questo nuovo capitalismo – all’inizio marginale – sia
per sviluppare e sia per sfruttare un genuino medium po-
polare. Nel caso del film, possiamo vederlo contempora-
neamente nelle istituzioni e nella maggior parte dei conte-
nuti. Dopo l’originaria fase dei baracconi, i primi cinema
furono chiamati teatri, ma il fattore chiave della tecnologia
subito diede loro una vantaggiosa trasformazione. Il pro-
cesso di riproduzione tecnica, per quanto strutturalmente
simile a quello tecnologico che aveva trasformato la stam-
pa, poteva essere usato in nuovi modi: per aggirare i pro-
blemi dell’istruzione superiore; per aggirare i vecchi limiti
dei linguaggi nazionali durante l’epoca del muto; ma so-
CINEMA E SOCIALISMO 83

prattutto per garantire la rapida distribuzione di prodotti


relativamente standardizzati in un grande contesto sociale
e in una vasta area geografica. Una volta collocati questi
vantaggi all’interno della storia industriale, tanto di quel-
la delle origini quanto di quella successiva, si capisce che
non sorprende per nulla trovare una simmetria tra questa
nuova forma popolare e le forme tipicamente capitalisti-
che dello sviluppo economico. Una volta definito il fattore
base di una produzione centralizzata e di una distribuzio-
ne rapida e molteplice – così differente, sotto questi aspet-
ti, dalle primissime tecnologie culturali – non sorprende
vedere lo sviluppo di relative forme monopoliste – più
precisamente, corporativiste – dell’organizzazione econo-
mica, e tutto ciò, inoltre, in una nuova fase significativa
che derivava dal fatto che le proprietà del medium fossero
distribuite su una scala paranazionale. Furono fatti molti
tentativi per preservare fino alla fine queste corporazioni
domestiche, ma la scala paranazionale spazzò via molte di
esse. La strada per Hollywood era in un certo senso scrit-
ta, ma va ricordato ancora una volta che la sola altra forma
organizzata capace di produrre questo tipo di uso delle
opportunità offerte dai film delle origini, è stata quella dei
soviet del “socialismo reale”.
Quando rivediamo qualsiasi fase della storia culturale,
non dobbiamo mai supporre che la tecnologia predeter-
mini particolari forme sociali ed economiche. Tutto ciò
che possiamo dire, a questo livello, è che riscontriamo una
certa simmetria nei processi ed è questa che dava allo svi-
luppo reale delle forme un decisivo e importante, sebbene
non definitivo, vantaggio competitivo. Inoltre, all’interno
della versione capitalistica del ‘popolare’ ci sono state,
come dice la gente, contraddizioni. Alcune di queste le
possiamo capire se guardiamo i maggiori contenuti del ci-
nema delle origini.
Nel farlo, però, incontriamo una difficoltà: molti stu-
denti di film, comprensibilmente concentrati sull’unicità
e l’originalità del loro medium, sanno sorprendentemente
84 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

poco del teatro popolare da cui esso, in quella fase, at-


tingeva con forza. Alcune persone comparano ancora il
nuovo medium alle vecchie forme del romanzo borghe-
se o della pittura accademica, quando invece dovrebbero
davvero guardare ai diretti precedenti del melodramma e
dello spettacolo teatrale, che avevano lo stesso pubblico
metropolitano. Spesso incontro delle difficoltà a convin-
cere le persone che molto prima dei film epici, nei teatri
di Londra si allestivano delle battaglie navali in un ma-
re reale e incidenti ferroviari con locomotive. Il ricordo
è molto chiaro. L’allestimento di questi spettacoli era un
elemento centrale del divertimento teatrale popolare, di
sicuro la macchina da presa e le riprese in esterni, in fin
dei conti, li hanno migliorati, ma decisamente non come
nuovi contenuti.
Si consideri il melodramma: si trattava originariamente
di una rappresentazione con canzoni e musica fatte per
aggirare le regole del dramma ufficiale e limitare il discor-
so parlato. Un intrigo violento e romantico, degli eredi
dispersi da tempo e dei segreti rivelati drammaticamente,
sono stati inseriti in quelle vecchie storie. Molti dei primi
film erano dei rifacimenti diretti di questo materiale. Ma
c’era anche un altro elemento del melodramma che sostie-
ne la nostra questione del “popolare”. È vero che in alcuni
melodrammi, il che non vuol dire in tutti, l’eroe o l’eroina
caratteristica è povera, e che lui o lei è vittima di qualche
ricco o potente: il titolare dell’ipoteca o l’aristocratico uf-
ficiale sono, tendenzialmente, dei tipici cattivi. Così si può
dire, sebbene sconsideratamente, che il melodramma era
radicale e che, nello stesso senso, i poveri eroi, eroine e
vittime di tanti film delle origini formano una base popo-
lare radicale.
Le cose, però, non sono così facili. Un altro elemento
chiave di questo tipo di melodramma è che, dopo molti
colpi di scena e situazioni apparentemente senza speranza,
la povera vittima è salvata e il povero eroe o eroina vivono
felici e contenti per sempre. Non è difficile capire perché
CINEMA E SOCIALISMO 85

queste soluzioni siano popolari. Purtroppo, però, è un


problema provare a collegare queste fughe di individui,
spesso magiche o fortunatamente casuali, a qualcosa che
potrebbe essere definito, nella facile diapositiva del “po-
polare”, una coscienza socialista o genuinamente radicale.
Le soluzioni sono individuali ed eccezionali, e anche i lupi
si scoprono avere, all’interno dello stesso sistema, parenti
che sono buoni cani domestici o anche cani da guardia.
Un peccato sociale o una rabbia sociale vengono subito
messi a fuoco e quindi, attraverso il meccanismo dell’intri-
go, spostati. Inoltre, con il passare del tempo, il radicali-
smo più duro del primo melodramma sbiadisce altrettanto
costantemente di quello, del tutto simile, propugnato dai
primi giornali della domenica, la formula dell’individuo
vittima innocente viene riprodotta, ma con qualche nuova
definizione di cattivo. Ho perso il conto dei film melo-
drammatici moderni nei quali vari innocenti non meglio
specificati sono vittime di capi e dirigenti sindacali e so-
cialisti, e anche loro hanno diritto alla loro fuga individua-
listica.
Così che questa versione rozza del “popolare” è, nella
migliore delle ipotesi, a doppio taglio. Dobbiamo, allora,
guardare a un tipo di argomento molto diverso che sappia
spazzare via la retorica del popolare e che, allo stesso tem-
po e con qualche difficoltà, sappia distinguersi nettamente
da esso. Questo argomento è quello, interessante, secondo
il quale il film in sé in quanto medium è intrinsecamente
o, al limite, potenzialmente radicale. All’interno di questa,
possono essere raggruppate altre riflessioni. In primo luo-
go c’è quella relativamente semplice del movimento come
tale – si tratta dell’elemento più ovvio del film – che ha
un’associazione necessaria con il radicalismo. Molte arti e
forme tradizionali erano identificate come essenzialmente
statiche: ovvi prodotti di forme sociali immutabili e con-
servatrici. Strettamente collegata a questa tesi c’era la ri-
vendicazione che il film fosse intimamente aperto contro
le forme chiuse di altri media. Questi argomenti alla fine
86 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

venivano collocati nei rifiuti convenzionali di ciò che si


chiamava ‘naturalismo’ e ‘realismo classico’. Ritorneremo
su questi concetti confusi e confusionari, ma in primo luo-
go dobbiamo guardare direttamente a ciò che nel medium
poteva suscitare questi argomenti iniziali.
L’analisi formale di qualsiasi nuovo medium o forma,
infatti, è così difficile che, in una primissima fase, non
sorprende che persone diverse selezionino come decisivi
gli argomenti più diversi in base alle proprie supposizio-
ni iniziali. Lì dove la critica moderna vede movimento e
apertura, la Suprema Corte di Giustizia vedeva “solamen-
te rappresentazioni di eventi, idee e sentimenti visti o co-
nosciuti”. Non è utile cercare di scegliere tra di esse. La
macchina da presa, con la sua capacità di registrare il mo-
vimento, può diventare analitica o sintetica. Proiettare una
sequenza di film al rallentatore equivale, analiticamente, a
introdurre un nuovo modo di vedere i nostri movimenti
più abituali, ed ha sempre rappresentato un importante
uso del medium: come nei primi esprimenti sulla corsa de-
gli orsi, attraverso le straordinarie sequenze scientifiche e
spettacolari sulla formazione delle nubi e la crescita delle
piante, fino ai molti e svariati usi drammatici – la corsa
degli innamorati e la ruota della morte. Allo stesso tempo,
il potere di associare e combinare, attraverso il taglio e il
montaggio del film in sé, movimenti differenti all’interno
di una sequenza apparentemente unica, produce molti tipi
nuovi di sintesi possibili, arrivando così a offrire nuove
dimensioni dell’azione rappresentata. Questo per dire che
da sempre nel film ci sono sia cornici che flussi. Come
possano essere usati entrambi è da sempre una possibilità
tecnica aperta.
Tutto ciò ha prodotto i suoi effetti sulla questione cen-
trale – e così critica per qualsiasi discussione socialista
sul cinema – della riproduzione. Si potrebbe dire che sia
un’ovvia illusione quella di supporre che il film, sempli-
cemente, non sia un medium riproduttivo straordinaria-
mente potente. Molto più della stampa, o dei meccanismi
CINEMA E SOCIALISMO 87

interni chiari ed evidenti del teatro, il film può riprodurre


ciò che viene ampiamente percepito come una semplice
rappresentazione, come se fosse visto con i nostri occhi.
È per questo che milioni di persone hanno provato pia-
cere nel vedere ciò che percepivano essere dirette rap-
presentazioni di eventi, luoghi e persone distanti oppure
sconosciute. Inoltre, questo piacere – nel momento cultu-
rale di straordinaria importanza rappresentato dall’inizio
della fotografia – è trovato nella riproduzione di luoghi e
persone familiari. Proprio come le persone continuano a
chiamare, eccitate, per dire che qualcuno o qualche luogo
che loro conoscono è in tv – o addirittura, nella beatitudi-
ne dell’inesperienza, che ci sono proprio loro – così, tanta
gente sceglie di andare a vedere un film solo perché lì,
qualcuno o qualche luogo che loro già conoscono alla per-
fezione, è riprodotto nella magica luce dello schermo. Di
certo, lasciando da parte le idee di importanza e prestigio
che possono essere indotte da questo tipo di riproduzione,
qualcosa d’altro succede in tutto ciò. Si tratta fondamen-
talmente dell’esternalizzazione del valore dell’immagine,
ma ciò che conta, ai fini del ragionamento, è quanto diffu-
samente il film sia stato valutato come una forma accettata
di riproduzione diretta.
Allo stesso tempo, e certamente sin dall’inizio, le pro-
prietà di un medium possono essere usate per produrre
effetti diversi o addirittura opposti. Delle semplici illusio-
ni possono essere direttamente riprodotte e, una volta svi-
luppate le tecniche, meravigliosamente costruite. Illusioni
complesse possono diventare luoghi comuni. Inoltre – e
qui una specifica enfasi socialista introduce l’argomento
– attraverso queste modalità si possono mostrare, o dimo-
strare, relazioni che, per quanto reali, sono tuttavia nasco-
ste e occluse. Al livello più semplice, già un melodramma
teatrale del xix secolo poteva mostrare, in scene successi-
ve, una povera famiglia di minatori e il lusso di Londra da
cui la moglie e la madre sono fuggite vie o sono state se-
dotte. Alla fine, la relativa simultaneità di azioni che sono
88 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

spazialmente distanti o separate, può essere direttamente


riprodotta. Come cosa, però, riproduzione o illusione?
Vederle entrambe, più o meno contemporaneamente, è
in un certo senso un’illusione, mentre, allo stesso tempo,
vederle come elementi fondamentalmente correlati di un
tipo specifico di società, è riprodurre, in questa nuova
forma, un’interconnessione o un contrasto reale, ma non
comunemente visibile.
Una volta che il taglio e il montaggio costruttivi sono
diventati tecniche comuni, tale penetrante interazione del-
le riproduzioni poteva essere colta come un modernismo,
addirittura un modernismo rivoluzionario. Si sosteneva
che nuovi concetti potevano formarsi con un’interazione
pianificata di immagini. Quando io ero studente si usava
dire che il montaggio e la dialettica erano forme stretta-
mente collegate allo stesso movimento rivoluzionario del
pensiero. Per essere sicuri avevamo visto quella che sem-
brava essere la stessa cosa fatta in mille film dalle ideologie
più svariate. Quello era un periodo nel quale si credeva
ancora diffusamente che il nuovo fosse inevitabilmente il
radicale. Ma comunque, come vedremo in seguito, questa
capacità di muoversi oltre i limiti spaziali fissati, di con-
nettere o collidere azioni altrimenti separate, di investire
momenti e frammenti con il potere di un immaginario so-
stenuto e integrato, questa capacità di costruire un nuovo
flusso di conoscenze, o di alterarlo, rappresenta infatti la
gamma di maggiori potenzialità per l’innovazione.
Arrivati a questo punto, però, dobbiamo guardare con
maggiore chiarezza a quello che è stato chiamato Natura-
lismo. Sarei più colpito dal radicale rifiuto contempora-
neo del Naturalismo, se non avessi sentito praticamente
gli stessi rifiuti da parte delle più ortodosse persone del ci-
nema e del teatro, che sicuramente non sanno cosa voglia
dire. Il Naturalismo, infatti, ha stretti legami storici con il
socialismo. Come movimento e come metodo, si preoccu-
pava di mostrare che le persone sono inseparabili dai loro
ambienti sociali reali e fisici. Contro l’idealistica versione
CINEMA E SOCIALISMO 89

dell’esperienza umana, nella quale la gente agisce in base


alla provvidenza o a un’innata natura umana o all’interno
di regole immateriali ed eterne, il naturalismo insisteva sul
fatto che le azioni sono sempre specificamente contestua-
lizzate e materiali. L’intento di mettere nella narrativa, o
sul palcoscenico o nel film un ambiente realistico, ha si-
gnificato introdurre ed enfatizzare quest’autentica forza
plasmante. La fetta di vita, cioè, non era un aiuto casua-
le; l’analogia è molto più con il microscopio, nel quale le
complesse formazioni della vita possono essere esaminate
intensamente. Il principio guida del Naturalismo, che tutta
l’esperienza deve essere vista all’interno del suo ambiente
reale – sarebbe a dire, più specificamente, che i personaggi
e le azioni sono formate dagli ambienti, come i socialisti
ancora dicono abitualmente – è stato inteso come un at-
tacco radicale a tutte le forme idealistiche trasmesse.
Cosa è successo? Quello che era già avvenuto e doveva
rivelarsi decisivo. Le prime scenografie realistiche, come
ne seguiranno a migliaia nel cinema, non erano costruite
per esplorare la formazione e lo sviluppo di una vita, era-
no costruite come una delle forme speciali di spettacolo:
riproduzione realistica, infatti, precisamente il set, l’am-
bientazione in cui, nella maggior parte dei casi, le azioni
umane erano comprese in modi molto diversi – in base a
presupposti innati o idealistici – allora rotolò via. Per una
sottile ironia, il Naturalismo venne inteso come la cosa che
aveva combattuto: una mera riproduzione, oppure una ri-
produzione nel senso di una cornice, una copertina per le
stesse vecchie storie idealizzate e stereotipate.
In pratica c’erano cose che il teatro naturalista, anche
nei suoi interessi, non poteva fare. Quanto più offriva la
sua realtà quotidiana, tanto meno riusciva a spostare il
pensiero inespresso o le azioni oltre i contesti assegnati.
Come al solito, venne intrappolato in stanze nelle quali
le persone guardavano fuori dalla finestra o ascoltavano
le urla dalla strada. Eppure, il film poteva da subito su-
perare queste limitazioni. Il pensiero inespresso poteva
90 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

essere visivamente rappresentato, o restituito come voce


fuori campo. La macchina da presa poteva essere posi-
zionata ovunque. Tutto ciò che non riusciva ad accadere,
di qualsiasi dimensione fosse, era l’esplorazione intensa,
l’impulso diagnostico che rappresentavano il vero proget-
to Naturalista. Invece c’era un’appropriazione del termine
nel senso di un’inerte riproduzione esterna o – in base alla
struttura – di una noiosa “realtà quotidiana” che dove-
va scoraggiare, così che il libero gioco della mente poteva
espandersi senza combattere fino a comprendere l’intera
arte, o almeno, questa era la versione da relazioni pubbli-
che; in realtà ciò che si intendeva era deliberata privatizza-
zione, voce egocentrica, gioco di gruppo agiato e loquace,
versione borghese di leggenda e fantasia.
Cosa ci fanno i socialisti in questa compagine? Alcuni
di essi, effettivamente, iniziano ad interessarsene quando
le cose prendono a mischiarsi. Il problema più difficile per
ciascuno di noi è distinguere tra tendenze culturali radi-
calmente differenti che, all’interno dell’intera formazione
del cinema capitalista, in pratica sono venute a sovrappor-
si. Lasciatemi iniziare, se necessario anche in modo rozzo,
con una soltanto di queste distinzioni: nel nostro tempo
il dissidente borghese non è necessariamente un radica-
le, sebbene spesso si presenti così. La maggior parte della
grande arte degli ultimi cento anni – nel film, nel modo
più chiaro – è, infatti, lavoro di artisti dissidenti borghesi.
Ma è come l’anti-capitalismo; si parte da qui per arrivare
al socialismo, oppure si va indietro fino a vari ordini so-
ciali pre-capitalistici idealizzati: gerarchici, organici, pre-
industriali, pre-democratici. Non so chi sia stato il primo a
fare la battuta sui principali personaggi dei film sovietici,
cioè i trattori, ma molto probabilmente era un dissidente
borghese, anche quello che si chiama modernista, il tipo
più ovvio di reazionario. Certamente il cinema rivoluzio-
nario sovietico è stato stupidamente e arbitrariamente fer-
mato nel suo sviluppo, ma non perché si muoveva in un
mondo nel quale uomini e donne realmente lavoravano.
CINEMA E SOCIALISMO 91

In modo simile, non si arriva al film socialista mostrando,


come una questione di propria competenza, le idiozie e le
frustrazioni della vita borghese, anche se fai vedere, come
nella classica formula dissidente-borghese dell’arte del xx
secolo, un individuo scelto che scende e si allontana.
Arrivati a questo punto si apre una crisi nel teatro Na-
turalista in cui qualcuno guarda dalla finestra un mondo
nel quale, lui o lei, si stanno spegnendo. L’arte borghe-
se dissidente, inclusa quella di grande interesse e valore,
spesso di ferma qui, in un momento di squisita nostalgia
o di desiderio. Lo sviluppo più significativo, però, è da-
to dalla crescente convinzione che tutto ciò di reale che
può essere guardato da quella finestra sia un riflesso: uno
schermo, si potrebbe dire, per indefinite proiezioni; tut-
te le azioni cruciali del mondo in un gioco della psiche o
della mente. Le immagini potenti che ne derivano sicura-
mente non sono Naturaliste, naturalistiche o classicamen-
te realiste. Quando Strindberg, proprio in questo punto
di crisi, cambiò il suo atteggiamento mentale verso ciò che
rendeva la gente infelice, iniziò a scrivere lavori teatrali
di grande forza e che, nel 1890, erano contemporanei dei
primi film, così se oggi li riandiamo a leggere, sono effetti-
vamente sceneggiature di film: coinvolgono la fissione e la
fusione di identità e personaggi; l’alterazione di oggetti e
paesaggi da parte delle pressioni psicologiche dell’osserva-
tore; proiezioni simboliche di stati mentali ossessivi: tutti,
in quanto processi materiali, al di là della portata anche
del suo teatro sperimentale, ma tutti, in quanto processi
artistici, eventualmente realizzabili nel film; all’inizio, co-
me nell’espressionismo, in un cinema d’esplorazione; in
seguito, come tecnica utilizzabile nell’ordinaria ammini-
strazione dei film horror o di omicidi e in quel tipo di anti-
fantascienza commerciale presentata come fantascienza.
All’interno di questi potenti sviluppi – per non parlare
del fatto che gran parte del cinema stava ristrutturando la
narrativa in forme riproduttive e dal flusso chiuso ancora
più potenti, ponendo nuovi temi e problemi, ma al con-
92 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

tempo mostrando come a queste cose debbano essere of-


ferte risoluzioni interessanti, piacevoli, anche eccitanti e in
movimento – i socialisti, si potrebbe concludere con senti-
mentalismo, è probabile che si siano sentiti isolati. L’intera
pressione esercitata da un ordine sociale e culturale è an-
che migliore se è usata per persuaderci che probabilmente
ci stiamo sbagliando. Ma allora cosa vuol realmente dire,
in pratica, sbagliarsi? Cosa significa celebrare i film socia-
listi quando abbiamo e troviamo modi per farne di nuovi?
Ci sono diversi livelli di risposta. Il mio principale
obiettivo nel ri-enfatizzare il significato storico del Na-
turalismo era quello di preparare la risposta che sto per
dare, e cioè che, su di un’area molto più grande di quel-
la che abitualmente riconosciamo, ci sono realtà sociali
che reclamano per sé un’attenzione seria, dettagliata e
diagnostica. Nel caso principale del socialismo, in tutte
le questioni di cultura, è che le vite della maggior parte
delle persone sono state, e lo sono tuttora, completamente
ignorate da molte arti. Può essere importante contestare
queste arti selettive all’interno dei loro termini, ma il no-
stro principale impegno è verso quelle aree dell’esperien-
za rimaste fino a ora in silenzio, o frammentate o positi-
vamente travisate. Inoltre, come socialisti, non dobbiamo
commettere lo straordinario errore di credere che la mag-
gior parte delle persone diventino interessanti quando
iniziano a impegnarsi in azioni politiche e industriali di
un tipo preliminarmente riconosciuto. L’errore meritava
lo scherno di Sartre secondo il quale per molti marxisti le
persone nascevano solo quando accedevano a un impie-
go capitalista. Per questo, se vogliamo prendere sul serio
anche la vita politica dobbiamo entrare nel mondo in cui
le persone vivono se stesse come possono, e quindi vivo-
no necessariamente all’interno di un complesso sistema di
lavoro, amore, malattia e naturale bellezza. Se noi siamo
seriamente socialisti, dovremo, allora, spesso andare a cer-
care all’interno di questa sostanza reale – sempre, nei suoi
dettagli, così sorprendente e spesso vivida – e attraversare
CINEMA E SOCIALISMO 93

il sociale profondo, le condizioni storiche e i movimenti


che ci permettono di parlare, a piena voce, della storia
umana.
Non voglio dire che solo il Naturalismo possa fare una
cosa del genere; in molte situazioni ci sono modi differenti
e spesso migliori. Voglio dire, però, che dopo tre secoli
di arte realista e dopo quasi uno di film, ci sono anco-
ra vaste aree della vita della nostra popolazione che sono
state scarsamente guardate con serietà. A volte si dice che
non possiamo fare film socialisti all’interno di qualsia-
si convenzione Naturalista, fino a quando non avremo il
socialismo e lo potremo guardare. Non è questa la mera
riproduzione di una passività realmente esistente, o anche
l’accettazione di ciò che è fisso e immobile? In primo luo-
go, questo significa trascurare le lunghe storie dei nostri
popoli in cui movimenti e lotte, particolari vittorie e scon-
fitte, raggiunsero le proprie crisi di movimento. Così, di
una gran parte delle nostre storie se ne sono appropriati
artisti e produttori nemici, o indifferenti che si sono con-
vertiti allo spettacolo, solamente per questo c’è abbastan-
za lavoro per parecchie generazioni di registi. Nel nostro
tempo ci sono crisi di movimento di questo tipo, simili vit-
torie e sconfitte, e potrebbe essere una qualità particolare
di un socialismo serio, che queste possano essere viste per
quello che sono: non con il breve entusiasmo o la dispe-
razione di semplici tifosi, ma con un impegno inalterabile,
in e attraverso qualsiasi argomento o diagnosi, verso la vita
della classe operaia che continua, con uomini e donne re-
ali, oltre la vittoria e la sconfitta.
Questo non è stato, e non sarà, l’intero contenuto del
film socialista, sebbene in molti paesi abbia avuto una ten-
denza ricca e duratura. C’è, infine, un’altra area importan-
te, particolarmente rilevante per quanti ci vivono, quella
delle cosiddette società avanzate, spesso ne produciamo
noi stessi le immagini, ma in realtà non sono altro che
immagini annacquate. È qui che la tendenza più creativa
dell’arte Modernista – spesso al suo meglio nel film – può
94 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

trovare delle connessioni con tipi di impegno sociale che


spesso, sotto pressione, sono diventati antagonisti. Voglio
dire che il processo centrale di fabbricazione dell’imma-
gine, che la fa finita con il flusso chiuso della tanto enfa-
tizzata arte modernista ortodossa, è in sé, ora, un impor-
tante fattore di consapevolezza e di accesso a essa. Una
qualche base sociale reale di tutto ciò sta nella sfiducia
diffusa nei confronti di quelli che, troppo semplicemente,
vengono chiamati media. Adesso molte persone vedono e
sanno di essere travisate, ma troppo poche – e nessuno di
noi completamente – conoscono in realtà come ciò acca-
da. Una scontrosa diffidenza nei confronti degli stereotipi
contemporanei è tutt’al più difensiva e spesso invalidante.
Sarebbe meglio gridare rabbiosamente contro di essi, pur-
troppo, però, nessuno può passare la sua vita ad urlare.
Infatti, lungo tutto il percorso ci sono dei processi di
produzione in cui possiamo intervenire: dalle più sem-
plici forme di classificazione, passando attraverso la ma-
nipolazione della trama e il montaggio selettivo fino ad
arrivare alle forme più profonde e ai problemi di auto-
presentazione, auto-riconoscimento e auto-ammissione.
Qui le speciali proprietà del film, in particolare quella di
riunire aree che altrimenti rimarrebbero separate come
quelle della realtà e i modi fondamentalmente differenti di
osservarla, emergono con evidenza e dimostrano di poter
essere ulteriormente sviluppate. Un lavoro di questo tipo
può essere fatto cominciando dalla radice o dal ramo. È
una delle tragedie del modernismo, in rivolta contro le im-
magini fisse, i flussi convenzionali e le sequenze dell’arte
ortodossa borghese, quella di essere stato pressato e tenta-
to da quella che era la sua stessa condizione d’isolamento,
e di essersi trasformato nell’affermazione dell’autonomia,
del soggettivismo e del formalismo del proprio mondo.
Non è stato sempre così, e non è necessario andare
avanti così. La rivolta contro le immagini fisse e la sequen-
za convenzionale può essere connessa con queste aree di
realtà condivisa, dove siamo tutti incerti, attraversati da
CINEMA E SOCIALISMO 95

verità differenti, esposti a condizioni e relazioni diverse e


mutevoli, e all’interno di strutture del sentire – idee non
formate e impegni che, naturalmente, continuano – che
possono essere raggiunte in comune: comune nel senso
che abbiamo spesso guardato a esse come a cose del pas-
sato, quando al contrario le persone, isolate o separate,
avrebbero dovuto vedere nella formazione della loro men-
te, nella modellazione del loro sentire, nelle trasformazioni
delle loro percezioni, anche dei percorsi storici, piuttosto
che qualcosa del tutto personale.
Questo vuol dire cominciare dalla radice: le immagini
profonde che ci preoccupano e che in un senso reale sono
la nostra storia. In pratica nel film, come penso anche nel
romanzo, sono disponibili forme che sono già parti di quel
lungo processo di formazione del popolare che sarebbe
troppo facile rifiutare perché solamente espressione di
un’arte commerciale. Chi, ad esempio, potrebbe trovare
delle forme più pronte di quelle già conosciute del film
giallo, della spy story, del thriller, del giornalismo investi-
gativo per esplorare un’indicazione sbagliata che occulta
o contraddice la verità in funzione di interessi reali forte-
mente contrapposti? Che le verità comunemente rivelate
o presentate dagli abituali meccanismi siano arbitrarie o
banali, o che siano tracciate con sicurezza per arrivare allo
straniero pericoloso o all’agente nemico o rude, non per
questo devono essere viste come un ostacolo. È per que-
sto motivo che tutte queste forme si manifestano in una
cultura radicalmente dislocata che nasconde molte delle
verità su se stessa. Il falso eroe che rivela tutto, ma che
in effetti non rivela nulla – se non la sua presunta acutez-
za e il ripristino temporaneo di ciò che può passare per
un ordine – è semplicemente l’accettazione della forma,
non richiede, e a un livello più serio non può pretender-
lo, la sua reale definizione. Ci sono crimini e inganni che
accadono ovunque intorno a noi e che realmente hanno
bisogno di essere scoperti, non attraverso la vuota retorica
di uno sconosciuto politico di turno, ma nei modi com-
96 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

plessi e sorprendenti nei quali essi realmente avvengono e


all’interno di un ordine sociale di cui qualsiasi investigato-
re serio ne verrà a conoscenza a titolo di partecipante e di
osservatore idealizzato.
Questo vuol dire cominciare dal ramo, o meglio, dalle
ramificazioni che dovremmo occupare. Lo so, sicuramen-
te è più facile a dirlo che a farlo. Tutti abbiamo imparato,
sentendone il polso, le realtà materiali di questa lunga ap-
propriazione capitalistica del popolare, e le sue scarse e
inquietanti indifferenze verso tutto ciò che è veramente
differente. Eppure, ci troviamo in una situazione davve-
ro strana e, forse, promettente. Tutto ciò che è grande at-
tualmente è contro di noi, ma all’interno di questo ordine
sociale e culturale davvero molto potente e al contempo
eccezionalmente instabile, ci sono forze in movimento di
cui nessuno può prevedere l’esito. Una generazione forte
e attiva di registi, o futuri registi, di film e video è più viva
ed entusiasta di ciò che sta iniziando e vuole fare oggi,
di quanto non potesse esserlo in precedenza e, forse, in
un tempo più congeniale. La risposta a un’azione così evi-
dente e travolgente come lo sciopero del carbone1, già in
questa fase iniziale, è più incoraggiante nei film e nei video
che in qualsiasi altra delle nostre arti.
Nel frattempo l’economia del cinema è radicalmente
cambiata e, nella sua coesistenza con la televisione e con
le nuove forme e istituzioni della distribuzione è davvero
molto lontana dall’essere il vecchio monopolio, sebbene
vecchi e nuovi oligopolisti continuino ancora a occuparne
il territorio. La situazione è questa: solo pochi dei film che
abbiamo visto nel corso di questo festival sono stati pro-
dotti in condizioni agevoli. Il socialista, comunque, cosa si
aspetta, nel nostro tipo di mondo, cosa crede di ottenere
più facilmente, per lui o per lei, dei fratelli e delle sorelle

1 [Williams si riferisce al grande sciopero dei minatori britannici contro le


privatizzazioni dell’allora Primo Ministro inglese Margaret Thatcher, du-
rato dal marzo del 1984 fino al novembre del 1985.]
CINEMA E SOCIALISMO 97

che lo hanno preceduto? È comprensibile che tutti i corti


si siano basati su: il popolare nel nostro territorio; il me-
dium in quanto intrinsecamente aperto e mobile, prima
di aver imparato che gran parte delle dislocazioni e delle
contraddizioni possono essere, con grande forza, disloca-
zioni e contraddizioni di noi stessi; l’esplorativo e lo spe-
rimentale come predeterminati a essere dalla nostra parte.
Una volta che abbiamo avuto modo di conoscere questi
corti, sappiamo di aver imparato qualcosa e siamo inco-
raggiati ad andare avanti a cercare la nostra strada.
Postfazione
Il dramma come azione sociale
di Fabrizio Denunzio

In un’intervista ad Aggro World, anni dopo,


parlò del periodo trascorso con Inoshiro Sen-
sei come di un ritorno a se stessa, di un recu-
pero del proprio corpo [...]. DL pervenne alla
radicale conclusione che il proprio corpo
apparteneva a lei stessa. Ciò, all’epoca in cui
pensava ancora al ninjitsu.
Thomas Pynchon, Vineland

Raymond Williams: il dramma, il cinema e la tv

Nel 1974 l’Università di Cambridge conferisce la cat-


tedra di “Drama” a Raymond Williams. Il sociologo – ori-
ginario del Galles (vi era nato in un piccolo villaggio del
sud-est il 31 agosto del 1921 da famiglia proletaria), con
Richard Hoggart ed Edward P. Thompson padre simbo-
lico dei cultural studies, assieme a Stuart Hall figura di ri-
ferimento dell’intera new left inglese – la manterrà fino al
1983, data del suo ritiro ufficiale dalla prestigiosa scena
accademica (finirà i suoi giorni in una contea dell’Essex il
26 gennaio del 1988).
Basterebbe questo titolo per dimostrare la centralità
che occupa nella sua vasta ed eterogenea produzione la
riflessione sul dramma, scandita, fino al 1954, da tre libri:
Drama from Ibsen to Eliot (1952), Drama in Performance
(1954) e Film e tradizione drammatica, prima parte di Pre-
face to film (scritto con Michael Orrom e uscito sempre
nel 1954, e qui tradotto per la prima volta in italiano).
L’interesse per la forma drammatica non si ferma qui:
nel corso degli anni Sessanta Williams ritorna su queste
opere, trasformando il testo del 1952 in Drama from Ibsen
to Brecht (1964) e arricchendo Drama in Performance con
100 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

i capitoli v (transizione dal periodo della Restaurazione a


quello del teatro Vittoriano), vii (dramma sperimentale
di Eliot, Brecht e Beckett) e viii (Il posto delle fragole di
Ingmar Bergman) in una nuova edizione del 1968 (Wil-
liams 1968, p. v).
Infine, bisognerebbe ricordare l’insieme degli interven-
ti non sistematici sul dramma tra gli anni Settanta e Ottan-
ta che accompagnano le maggiori opere monografiche: si
pensi solo a Le forme della televisione (terzo capitolo di
Televisione del 1974; Williams 2000, pp. 63-92) e a Forme
(sesto capitolo di Sociologia della cultura del 1981; Wil-
liams 1983, pp. 165-199).
Da questa rapida ricognizione, possibile grazie a lavori
specialistici come quello di John Higgins a cui abbiamo
fatto costante riferimento (Higgins 1999, pp. 21-45), biso-
gna elaborare una prima osservazione teorica di carattere
strettamente mediologico che puntualizza un aspetto de-
cisivo che purtroppo sfugge all’occhio attento dello spe-
cialista: tanto nell’intervento del 1954 quanto in quello del
1974, Williams pensa il dramma in stretta connessione col
cinema, prima, e con la televisione, poi.
Questa relazione, se da un lato ci spinge a constatare
l’impossibilità di analizzare una qualsiasi forma di espres-
sione e comunicazione (in questo caso il dramma) nella
sua autonomia, con la conseguente necessità di riportarne
costantemente lo sviluppo al resto del sistema dei media
(in particolare a quello egemone rispetto al periodo sto-
rico considerato, in questo caso al cinema negli anni Cin-
quanta e alla tv negli anni Settanta), dall’altro ci permet-
te di verificare quanto le pratiche soggettive di consumo
culturale annesse a tale sistema, fungano da base empirica
per l’elaborazione di dispostivi teorici animati dall’esigen-
za di rigore e di oggettività. Nel caso di Williams questo
significa aver innestato nello studio oggettivo del dramma,
le esperienze soggettive fatte in qualità di spettatore cine-
matografico e televisivo.
Nel primo caso vuol dire riandare al periodo di forma-
POSTFAZIONE 101

zione svolto a Cambridge, a quando, cioè, sul finire degli


anni Trenta, per il giovane studioso la frequentazione delle
sale rappresentava non solo la condizione necessaria per
poter essere ammesso ai circoli socialisti (a tale fine, ri-
sultava obbligatoria quanto meno la visione di classici del
muto come Il gabinetto del dottor Caligari, 1919, di Robert
Wiene e Metropolis, 1927, di Fritz Lang), ma una vera e
propria piattaforma di socializzazione (Pinkney 1989, pp.
8-10).
Nel secondo caso significa riandare in quell’apparta-
mento di Escondido, San Francisco, California, a quando,
nel 1972, durante le pause dall’insegnamento (era stato in-
vitato per un semestre a tenere corsi all’Università di Stan-
ford) e l’impegno politico (una marcia contro Nixon), se
ne stava con la moglie tutto il giorno a vedere, appassio-
nandosi, la tv commerciale americana, così diversa da quel-
la pedagogica inglese della BBC, e intanto ne informava i
lettori del periodico “The Listener” (Menduni 2000, p. 7).
La vitalità della forma drammatica così com’è oggetti-
vamente concettualizzata da Williams sta, allora, proprio
in questo corpo storico dell’esperienza soggettiva di spet-
tatore che anima dall’interno delle sue strutture cogniti-
ve il concetto, al punto che non è più possibile parlare di
semplice dramma teatrale, ma di “partecipato” dramma
cine-televisivo.

Williams e la sociologia del dramma

Il lavoro degli specialisti è sempre importante. Tony


Pinkney, ad esempio, parla di una “‘Lukácsian’ phase”
(Pinkney 1989, p. 9) di Williams, o meglio, di un rapporto
contraddittorio e ambivalente del sociologo con gli studi
letterari del filosofo marxista. La struttura logica di questa
contraddizione è così formulata da Pinkney: se da un lato
Williams difende il realismo classico ne La lunga rivolu-
zione, dall’altro afferma che bisogna dedicare la massima
102 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

attenzione possibile alla critica dell’avanguardia moderna


formulata da György Lukács in Il significato attuale del
realismo critico. Inoltre, per quanto si dichiari apertamen-
te in disaccordo con le tesi lukácsiane esposte in Saggi sul
realismo e Il romanzo storico, Williams è animato da pro-
fonda nostalgia per il realismo nel capitolo settimo della
seconda parte de La lunga rivoluzione (Williams 1979, pp.
308-323).
Queste sottili analisi dello specialista ci servono per
avviare una riflessione di ordine diverso: in primo luo-
go, perché vanno riferite al dramma; in secondo luogo,
perché, da questa prospettiva, a essere produttive sono le
differenze e non le contraddizioni. Ciò vuol dire che il ri-
ferimento a Lukács è importante, non perché in Film e tra-
dizione drammatica il sociologo vi si riferisca direttamente
o in modo contradditorio, ma perché al giovane pensatore
ungherese si deve la prima sociologia del dramma del No-
vecento. Quindi, diventa possibile valutare il contributo
dato da Williams alla riflessione sociologica sulla forma
drammatica assumendo quella lukácsiana come una sorta
di configurazione generale storico-sociologica dell’oggetto
di ricerca con cui avviare una comparazione e determinare
differenze e variazioni.
Detta altrimenti, Per una sociologia del dramma mo-
derno (Lukács 1976, pp. 187-214), capitolo introduttivo
della monumentale opera in tre volumi Il dramma moder-
no uscita in ungherese nel 1911, pubblicato da Lukács in
traduzione tedesca sul prestigioso “Archiv für Sozialwis-
senschaft und Sozialpolitik” (xxxviii) nel 1914, deve es-
sere considerato non solo il termine di paragone di Film
e tradizione drammatica – e con questo accettiamo, ma
lavoriamo in una direzione diversa l’illuminante tesi Pin-
kney sulla “fase lukácsiana” di Williams – ma soprattutto
il punto di vista di un’intera epoca storica e di un intero
ambiente culturale sul dramma. In questo modo la com-
parazione tra i due testi diventa, in realtà, il confronto tra
due modi con cui la società e la cultura europea hanno
POSTFAZIONE 103

valutato il dramma tra gli anni Dieci e gli anni Cinquanta


del Novecento.
E che fosse un’intera epoca e un’intera cultura a par-
tecipare alla gestazione e al destino de Il dramma moder-
no, è testimoniato dalla fitta corrispondenza del giovane
Lukács con i maggiori rappresentanti dell’intellettualità
mittle-europea del periodo: lo scrittore e poeta Paul Ernst
nella lettera del 31 agosto del 1910 dice di essere “del tut-
to estasiato” dalla lettura del “manoscritto sul dramma”
(Lukács 1984, p. 151); Friedrich Gundolf, critico lette-
rario e accademico tra i più influenti, scrive il 20 giugno
1914 che si “rallegra molto pensando al momento in cui
potrò lavorarci a fondo” (ivi, p. 344); Georg Simmel, tra i
padri della sociologia tedesca, dice il 22 luglio 1909: “non
voglio sottacere che le prime pagine lette mi sono risulta-
te per il metodo assai simpatiche. Il tentativo di penetrare
fini ai condizionamenti più interni e sublimi deducendo
da quelli esterni e più grossolani, mi sembra fecondo e
interessante (ivi, p. 85); Karl Mannheim, futuro fondato-
re della sociologia della conoscenza, nella lettera del 25
luglio 1914, si dichiara in attesa di disposizioni in merito
ai capitoli dell’opera che spetterebbe a lui tradurre in te-
desco (ivi, p. 346).
Qual è, allora, il senso del dramma che questa epoca
(grosso modo quella che va dagli ultimi decenni dell’Otto-
cento alla prima decade del Novecento) e questa cultura
(austro-ungaro-tedesca, al contempo letteraria e filosofica,
profondamente intrisa di spiritualismo) vedono realizzarsi
nel lavoro di Lukács?
Nell’Introduzione sociologica il giovane autore unghe-
rese fissa almeno tre punti fondamentali per ogni anali-
si della forma drammatica moderna, i cui estremi storici
sono rappresentati dalla tragedia illuminista settecentesca
di Lessing e dalla rivoluzione operata a partire dalla se-
conda metà dell’Ottocento da Ibsen, Strindberg e dal na-
turalismo: 1) il dramma moderno rimane il dramma della
borghesia perché “è il primo genere di dramma sorto da
104 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

un cosciente contrasto di classe; il primo, il cui fine fosse


quello di dare espressione al modo di sentire e di pensare
di una classe in lotta per la libertà e per il potere e dai suoi
rapporti con le altre classi” (Lukács 1976, p. 200); 2) il
dramma moderno è la prima forma di dramma emanci-
pata dalla dimensione religiosa (ivi, p. 191); 3) il dramma
moderno “è il dramma dell’individualismo”, non solo per-
ché la borghesia fa dell’individuo produttivo il suo agente
sociale originario, ma in quanto “l’individualismo comin-
cia a diventare drammatico” (ivi, p. 206).
Il modello sociologico di dramma moderno che si può
formalizzare partendo da questi tre elementi è il seguente:
borghese (perché nasce dalla lotta per la libertà e da quel-
la per il riconoscimento agite da una precisa classe sociale
nei confronti di tutte le altre, aristocrazia e proletariato),
laico (perché emancipato dal passato magico-religioso) e
individualista (perché, nell’epoca della vittoria della bor-
ghesia laica e progressista, è la condizione stessa dell’indi-
viduo a essere diventata drammatica). Era questa imma-
gine di sé che la società e la cultura del tempo vedevano
rappresentate nella concezione lukácsiana del dramma.
Ora, se borghesia, laicità e individualismo possono
essere pensate metaforicamente come quelle “costole so-
ciali” di cui parlava l’amatissimo amico di Lukács, Leo
Popper, a proposito de Il dramma moderno, in una lettera
del 23 novembre 1908 (Lukács 1984, p. 56), quale, per
proseguire il suo ragionamento, “la carne” che le avvolge?
Se l’ossatura sociologica della forma drammatica moderna
il pensatore ungherese l’ha costruita nell’Introduzione, la
“carne” la piazza nel resto dell’opera. Se la prima è gran-
de teoria astratta, la seconda è osservazione concreta della
prassi drammatica teatrale, per questo motivo il vecchio
Lukács, ricordando le esperienze di questo periodo, dirà:
“vedendo i testi diventar vivi sul palcoscenico, ho impa-
rato moltissimo sul piano drammaturgico, per quanto ri-
guarda la tecnica e la forma drammatica e anche il lavoro
degli attori” (Lukács 1983, p. 36).
POSTFAZIONE 105

A questo livello, dunque, vale l’analisi ‘interna’ delle


singole drammaturgie o dei movimenti artistici che le han-
no prodotte, una per tutte, a titolo d’esempio, quella di
Strindberg. Ora, per quanto Lukács (Lukács 1980, pp. 33-
47) riconosca nell’opera dell’autore svedese uno dei con-
tributi più rivoluzionari dato alla definizione del genere
per il modo in cui ha trasformato la funzione del dialogo
(scarno, evocativo, con zone di silenzio, dotato di signifi-
cato solo nell’interazione), il tratteggio delle figure (per-
sonaggi confusi e poco coerenti) e l’organizzazione dello
spazio scenico (piccoli interni domestici poco illuminati),
nonostante tutto ciò il dramma strindberghiano non riesce
mai ad essere realmente drammatico perché in esso la rap-
presentazione del mondo in quanto conflitto “è sempre e
soltanto un episodio della sua vita”. Questa valutazione
negativa dipende dal fatto che per il giovane pensatore un-
gherese “il vero dramma è solo la lotta di coloro che si si-
tuano al centro e ne sono le figure principali; il mondo che
li circonda non viene necessariamente incluso in questa
lotta”. L’essenza del dramma sta in un conflitto capace di
dare senso e significato all’intera condizione umana. Detta
di sfuggita, il giovane Gramsci critico teatrale non la pen-
sava diversamente: “Il dramma, perché sia veramente tale
[...] deve essere la rappresentazione di un urto necessario
tra due mondi interiori, tra due concezioni, tra due vite
morali” (Gramsci 1996, p. 337).
Visto nella sua interezza “organica” di “costole sociali”
e di “carne”, il modello sociologico di dramma moderno
elaborato dal giovane Lukács può così essere definitamen-
te formulato: borghese, laico, individualista e dai ‘conte-
nuti’ fortemente conflittuali.
Rispetto a questa configurazione storico-concettuale,
quali differenze e variazioni presenta la sociologia del
dramma di Williams?
L’argomentazione principale del sociologo gallese sta
nel rifiutare ogni ragionamento “per essenza” poiché da
questo derivano una serie di leggi che fissano in una forma
106 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

immutabile il dramma e non ne permettono di cogliere la


reale configurazione e lo sviluppo effettivo: “nel dramma,
dobbiamo riconoscere di trovarci di fronte a opere e non
a un’essenza” (supra). Venuta meno questa, sarebbe a dire
la definizione univoca di cosa sia il dramma, viene meno
anche l’insieme di leggi che da essa derivano. Con mol-
ta attenzione Williams, nel paragrafo d’apertura di Film
e tradizione drammatica, passa in rassegna e confuta tutte
quelle definizioni “essenzialistiche” a vocazione “univer-
salistica” che hanno voluto il dramma essere univocamen-
te: conflitto, personaggio e funzione.
La differenza da Lukács è così determinata: mentre
quest’ultimo ricerca prevalentemente un concetto im-
mutabile di dramma, e trova nel conflitto la sua essenza,
Williams, al contrario, sembra animato da una ricerca più
inquieta. Consapevole che il lavoro teorico è un lavoro di
classificazione e che non può, quindi, fare a meno di de-
finizioni e argomentazioni “stabili”, ebbene, nonostante
ciò, cerca una ‘categoria’ che sappia restituire non solo la
struttura del dramma, ma anche la sua mutevolezza, legato
com’è questo all’azione dei corpi, delle voci e della scena.
Tale categoria è la performance. È per tale motivo che alla
parte destruens – il rifiuto del ragionamento per essenza –
ne affianca una construens:
A questo punto si noterà che il dramma stesso rimane indef-
inito. Se non è semplicemente un’opera teatrale o una tras-
missione radiofonica, come categoria è del tutto riconoscibile?
Ho già sostenuto che nessuna semplice definizione al mondo
farebbe al caso. Allora, in generale, non è possibile definire
questo tipo di azione?
Direi ancora una volta che l’unica definizione reale si trova
nelle opere stesse, anche se una descrizione dei tipi di azioni
che chiamiamo dramma è possibile. Penso sia chiaro, prima di
tutto, che l’elemento della performance sia uno dei più impor-
tanti per ottenere questo tipo di riconoscimento [...]. Dal mio
punto di vista, quando troviamo l’elemento della performance
abbiamo già fatto tanta strada per comprendere ciò che, in un
senso più generale, è il dramma (supra).
POSTFAZIONE 107

Se Lukács procede per essenza, Williams lo fa per azio-


ne. Se la prima è tutto sommato una sociologia del dram-
ma idealistica perché anche di fronte all’osservazione della
prassi teatrale (si pensi a quella strindbergheriana) prevale
l’esigenza del concetto aprioristicamente definito (il dram-
ma moderno è poco drammatico perché non si adegua
mai all’idea di conflitto come espressione universale della
condizione umana), nel secondo abbiamo a che fare con
una sociologia pragmatica del dramma poiché lega intera-
mente il suo sistema di classificazione all’azione scenica.
Se la prima è a suo modo una sociologia storico-ideali-
stica del dramma che vede nella borghesia, nella laicità e
nell’individualismo i suoi elementi principali, la seconda
è una sociologia interamente comunicativa del dramma
perché fa di ciò che corpi, voci e messe in scena esprimo-
no i suoi oggetti di riflessione. Questo, naturalmente, non
significa perdere la dimensione del conflitto, tutt’altro.
Bisogna semplicemente vedere dov’è andata ad annidarsi.

Williams e il dramma come sociologia del conflitto


tra alfabetismo e totalità corporea

Il lavoro degli specialisti ha senso lì dove aiuta a fare


emergere aspetti nascosti o in apparenza poco rilevanti del-
le opere indagate, come avviene, ad esempio, con la “fase
lukácsiana” di Williams scoperta da Pinkney. Si capisce
che questa funzione del lavoro specialistico smette di avere
senso di fronte alle affermazioni o alle prese di posizione
più esplicite formulate direttamente dagli autori studiati.
Questo per dire che non si è dovuto aspettare nessuno spe-
cialista per chiarire il rapporto di Williams con Marshall
McLuhan, infatti, è lo stesso sociologo gallese in Televi-
sione ad aver indicato i motivi del suo profondo disaccor-
do con la visione a suo parere deterministico-tecnologica
dei media proposta dal grande autore canadese (Williams
2000, p. 146). In ambito mediologico, siamo del parere che
108 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

l’alleanza tra questi due pensatori faccia procedere meglio


la ricerca di quanto non possa la loro opposizione, e questo
anche al di là della consapevolezza delle divergenze. Ora,
cosa vuol dire sostenere questa alleanza? Rendere manife-
sto ciò che altrimenti rimarrebbe latente nella concezione
performativa del dramma di Williams: il conflitto.
La differenza dalla sociologia del dramma di Lukács
l’abbiamo determinata nel rifiuto del ragionamento per
essenza. Se da un lato la necessità di adeguare il processo
storico del dramma all’essenza concettuale del conflitto
come “universale” della condizione umana rende questo
paradigma sociologico idealistico (nel senso che la realtà si
deve subordinare all’idea), dall’altro, però, aver individua-
to la molla dello sviluppo della forma drammatica nella
lotta di classe portata avanti dalla borghesia, rende questo
stesso paradigma storico. Rifiutare il ragionamento per es-
senza a favore di uno pragmatico perché fondato sulla per-
formance scenica, non comporta automaticamente che si
rinunci alla storicità del conflitto, significa semplicemente
declinarlo in altra forma.
La distanza storica che separa Il dramma moderno da
Film e tradizione drammatica non risiede solo nelle cata-
strofi che hanno segnato la prima metà del Novecento – le
guerre mondiali e i totalitarismi – ma anche nello sviluppo
del sistema dei media che le hanno contrassegnate. Quan-
do Lukács elabora la sua sociologia del dramma nella
prima decade del Novecento lo fa pensando che il teatro
sia ancora la forma egemone di elaborazione delle rappre-
sentazioni collettive, infatti ne difenderà l’immediatezza
e l’autenticità a fronte dell’artificiale immaterialità delle
immagini cinematografiche nelle brevi e folgoranti Rifles-
sioni per un’estetica del cinema (Lukács 1976, pp. 23-28).
Diversamente, Williams elabora agli inizi degli anni Cin-
quanta la sua concezione del dramma avendo partecipato
alle catastrofi del ‘900 e assistito all’irrefrenabile ascesa
dei media, quindi, non solo con la consapevolezza della
perifericità del teatro per ciò che riguarda la creazione
POSTFAZIONE 109

di immaginario sociale (da qui la necessità di pensarlo in


funzione del cinema), ma anche con quella che i conflitti
sociali in genere, quindi non solo quelli di classe, hanno
trovato nelle forme di comunicazione un nuovo spazio
di configurazione. Quindi, se la differenza da Lukács sta
nell’essenza, la variazione si trova nel conflitto diversa-
mente declinato.
E qui subentra l’alleanza con McLuhan perché il me-
diologo canadese è stato il primo a disegnare gli effetti
dei media nei termini figurativi di soggettività in conflitto
(McLuhan 1997). Volendo accettare la partizione generale
di un conflitto originario tra scrittura alfabetica e oralità –
che regolerebbe quello particolare e fenomenico tra media
caldi (libro, cinema e radio) e freddi (fumetti, tv e telefo-
no) – ci si ritrova di fronte alle soggettività in cui esso si
incarna: nel primo caso, l’individualismo, nel secondo, il
tribalismo. Da un lato, l’uomo alfabetico e individualista,
dall’altro l’uomo orale, senza scrittura e comunitario.
Questa partizione è particolarmente interessante per-
ché si fa carico di determinare la dimensione cognitiva
del conflitto, con la soggettività alfabetica caratterizzata
dalla frantumazione delle funzioni e dalla loro conseguen-
te specializzazione, e quella orale, invece, contraddistinta
dal totale coinvolgimento delle corporeità. Per McLuhan,
l’avvento dei media elettrici – caldi o freddi, comportano
tutti nuove forme di partecipazione in profondità – porta
all’implosione della prima e all’emersione della seconda in
seno alla civiltà occidentale.
L’elemento che contraddistingue il dramma a parere di
Williams è quello pragmatico della performance scenica.
Contro tutta quella critica che si ostina a definire il dram-
ma in base alla frantumazione delle diverse azioni di cui
si compone (parola, canto e danza), il sociologo gallese
non solo ricorda l’origine tribale greca del dramma anti-
co in cui nessun elemento era distinguibile dall’altro, ma
invoca, per il dramma moderno e contemporaneo, la loro
integrazione nella forma totale della performance:
110 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

Un artista che lavori alla realizzazione di un dramma dovrebbe


essere in grado, a seconda di come giudica necessario in base
all’esperienza che intende creare, di impiegare nella sua per-
formance le modalità della parola, del canto, della danza, o
dell’immaginario visivo. Il suo compito sarà fare dell’opera in-
tera un’unità [...]. Con performance intendiamo un gran nume-
ro di azioni: differenti modi di parlare, di recitare e di cantare;
diverse modalità di movimento, incluso il movimento comune,
i gesti di molti tipi e di differenti gradi di formalizzazione e la
danza anch’essa con le sue differenti forme, tutte impiegabili
da un individuo solo o da un gruppo, così come del resto il
parlare, il recitare e il cantare; e ancora, modi della rappre-
sentazione visiva nei vestiti dei performers, nella presentazione
della scenografia, nell’uso della luce o delle immagini visive,
statiche o in movimento; infine, le modalità del suono, for-
malizzate nella musica o articolate in tutte le altre possibilità
che non riguardano la voce umana [...]. In quelli che la nostra
tradizione riconosce come i periodi di maggiore sviluppo del
dramma – la Grecia antica, il Medioevo, l’epoca elisabettiana,
il naturalismo moderno – gli elementi verbali, fisici, visivi e
uditivi della performance sono tutti presenti, sebbene ciascuno
di essi vari ampiamente (supra).

Pensata nel lessico concettuale di McLuhan, la per-


formance di Williams ci mostra chiaramente come venga
declinato il conflitto nella forma del dramma moderno:
da un punto di vista storico, la totalità corporea a cui es-
sa rimanda può essere affermata solo in un’epoca in cui i
media elettrici abbiano dispiegato appieno le loro diver-
sificate azioni di coinvolgimento contro quelle classiche
“isolazioniste” e “separative” del libro e della carta stam-
pata, si pensi al ruolo di piattaforma sociale che Williams
assegnava al cinema e al sistema delle sale durante il suo
periodo di formazione a Cambridge e al fatto che, in pieni
anni Cinquanta, senta la necessità di connettere la perfor-
mance totale al film. Da un punto di vista comunicativo, la
corporeità della performance, una sorta di un’unità orga-
nica di parola, danza e canto, viene affermata contro quei
critici che ne sostengono la necessità della frantumazione
e la specializzazione dei singoli elementi, e quindi riversa-
POSTFAZIONE 111

no su di essa la funzione principale della scrittura alfabeti-


ca: “‘scindere’ la parola parlata dai suoi aspetti di suono e
di gesto” (McLuhan 1997, p. 206).
Sebbene Williams in Sociologia della cultura, opera in
cui “canonizza” decenni di ricerche originali, arriverà a
riconoscere che la cultura stampata porta, nel panorama
dell’istruzione, alla creazione di “gerarchie interne signifi-
cative” (Williams 1983, p. 122) e che il passaggio dall’ora-
lità alla scrittura determina “conflitti” (ivi, p.123), è solo
attraverso la lente di McLuhan che questi riescono a con-
figurarsi in tutta la loro forza e in tutta la loro dimensione
politica. Sì perché, solo per fare un esempio, il mediologo
canadese vedeva il passaggio dall’individualismo al “collet-
tivismo [...] marxista” (McLuhan 1997, p. 323) come frut-
to della “ritribalizzazione” causata dall’oralità radiofonica.
Forse si dovrebbe iniziare a ripensare il rapporto di
Williams con il partito comunista inglese e col marxismo
a partire dalle forme di comunicazione e dalle soggettività
che vi si incarnano: dal conflitto tra gli apparati alfabetici
e ordinativi della critica teatrale e le performances corpo-
ree, orali, ribelli e insorgenti della scena drammaturgica
inglese degli anni Cinquanta, così com’è delineato in Film
e tradizione drammatica.
Bibliografia

Abruzzese, Alberto
1973 Forme estetiche e società di massa, Marsilio, Venezia.
2006 L’occhio di Joker. Cinema e modernità, Carocci, Roma.
2007a Sociologie della comunicazione, Laterza, Bari.
2007b La grande scimmia, Luca Sossella Editore, Roma.

Bechelloni, Giovanni
1983 Presentazione a Williams 1983.

Benjamin, Walter
1936 Das Kunstwerk im zeitalter seiner technischen Reproduzierbar-
keit (trad. it.: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica, Einaudi, Torino, 1966).

Gramsci, Antonio
1996 Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, Roma.

Higgins, John
1999 Raymond Williams: literature, marxism and cultural material-
ism, Routledge, London.

Kracauer, Sigfried
1960 Theory of film, Oxford University Press, New York (trad. it.:
Film: ritorno alla realtà fisica, Il Saggiatore, Milano 1962).

Lukács, György
1984 Epistolario 1902-1917, Editori Riuniti, Roma.
1983 Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, Editori Ri-
uniti, Roma.
1980 Il dramma moderno. Dal naturalismo a Hofmannsthal, vol. iii,
SugarCo Edizioni, Milano.
114 IL DOTTOR CALIGARI A CAMBRIDGE

1976 Scritti di sociologia della letteratura, Mondadori, Milano.

McLuhan, Marshall
1997 Gli strumenti del comunicare, EST, Milano.
Menduni, Enrico
2000 Introduzione in Williams 2000.

Pinkney, Tony
1989 Introduction in Williams 2007.

Simmel, Georg
1903 Die Großstaedte und das Geistesleben (trad. it.: La metropoli e
la vita dello spirito, Armando, Roma 1996).

Williams, Raymond
2007 Politics of modernism, Verso, London-New York.
2000 Televisione. Tecnologia e forma culturale e altri scritti, Editori
Riuniti, Roma.
1983 Sociologia della cultura, il Mulino, Bologna.
1979 La lunga rivoluzione. Variazioni culturali e tradizione democra-
tica in Inghilterra, Officina Edizioni, Roma.
1968 Drama in Performance, C.A. Watts & Co., London.
Cartografie

Aimé Cèsaire, Discorso sul colonialismo. Seguito da Discorso sulla negritudine,


Introduzione e cura di Miguel Mellino
Michel Senellart, Machiavellismo e ragion di Stato, a cura di Lorenzo Coccoli
Enzo Traverso, Che fine hanno fatto gli intellettuali? Conversazione con Régis
Meyran
Giacomo Pisani, Le ragioni del reddito di esistenza universale, Prefazione di
Luigi Pannarale
Pierre Macherey, Geometria dello spazio sociale. Pierre Bourdieu e la filosofia, a
cura e postfazione di Fabrizio Denunzio
Pierpaolo Cesaroni e Sandro Chignola (a cura di), La forza del vero. Un semi-
nario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (19781-1984)
Pierre Macherey, Il soggetto produttivo, Postfazione di Antonio Negri e Judith
Revel
Gabriel Tarde, Monadologia e sociologia, Introduzione e cura di Filippo Do-
menicali, Postfazione di Maurizio Lazzarato
Maurizio Lazzarato, Il governo delle disuguaglianze. Critica dell’insicurezza neo-
liberista
Gerald Raunig, Fabbriche del sapere, industrie della creatività
David Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città. Neoliberismo, urbanizza-
zione, resistenze
Reinhart Koselleck, Crisi. Per un lessico della modernità
Emanuela Miconi, Il mondo che verrà. Ebrei e zingari: memorie di vite a parte
Laurent de Sutter, Deleuze e la pratica del diritto
Dmytri Kleiner, Manifesto telecomunista, Saggio introduttivo di Benedetto
Vecchi
Gabriel Tarde, Il tipo criminale. Una critica al “delinquente-nato” di Cesare
Lombroso, Introduzione cura di Sabina Curti
Adelino Zanini, L’ordine del discorso economico. Linguaggio delle ricchezze e
pratiche di governo in Michel Foucault
Massimo Filippi, Ai confini dell’umano. Gli animali e la morte
Fabrizio Denunzio, Quando il cinema si fa politica. Saggio sull’Opera d’arte di
Walter Benjamin
Vittorio Morfino, Spinoza e il non contemporaneo
Franco Berardi (Bifo), Come si cura il nazi. Iperliberismo e ossessioni identitarie
Daniel Bensaïd, Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni
Tommaso Ariemma, L’estensione dell’anima. Origine e senso della pittura
Jean-Luc Nancy, Le differenze parallele. Deleuze, Derrida, Postfazione e cura di
Luca Cremonesi e Tommaso Ariemma
Mariapaola Fimiani, Erotica e retorica. Foucault e la lotta per il riconoscimento
Alain Badiou, Oltre l’uno e il molteplice. Pensare (con) Gilles Deleuze, introdu-
zione e cura di Tommaso Ariemma e Luca Cremonesi
Enzo Traverso, Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica
Massimiliano Melilli, Scritture civili. Conversazioni sul nostro tempo
Sandro Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Mi-
chel Foucault al Collège de France (1977-1979)
Gabriella Romano, I sapori della seduzione. Il ricettario dell’amore tra donne
nell’Italia degli anni ’50, Postfazione di Rosanna Fiocchetto
Margherita Pascucci, La potenza della povertà. Marx legge Spinoza, Prefazione
di Antonio Negri
Gilles Ménage, Storia delle donne filosofe, a cura di Alessia Parolotto, Prefazio-
ne di Chiara Zamboni
Slavoj Žižek, America oggi. Abu Ghraib e altre oscenità
Eesther Cohen, Con il diavolo in corpo. Filosofi e streghe nel Rinascimento
Pippo Russo, L’invasione dell’Ultracalcio. Anatomia di uno sport mutante
Agostino Petrillo, Città in rivolta. Los Angeles, Buenos Aires, Genova
Enzo Traverso, Cosmopoli. Figure dell’esilio ebraico-tedesco
Philippe Mesnard, Attualità della vittima. La rappresentazione umanitaria della
sofferenza
Ubaldo Fadini, Figure del tempo. A partire da Deleuze/Bacon
Ervin Goffman, Stigma. L’identità negata
Alessandro Dal Lago, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre
Bruno Accarino (a cura di), La bilancia e la crisi. Il linguaggio filosofico
dell’equilibrio
Ranajit Guha, Gayatri Chakravorty Spivak, Subaltern Studies. Modernità e
(post)colonialismo, a cura di Sandro Mezzadra
Paolo Virno, Esercizi di esodo. Analisi linguistica e critica del presente
Loïc Wacquant, Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale
Alessandro De Giorgi, Il governo dell’eccedenza. Postfordismo e controllo della
moltitudine
Alessandro Dal Lago, La produzione della devianza. Teoria sociale e meccanismi
di controllo
Andrea Fumagalli, Christian Marazzi, Adelino Zanini, La moneta nell’Impero,
Prefazione di Antonio Negri
Félix Guattari, Piano sul pianeta. Capitale mondiale integrato e globalizzazione,
Introduzione di Franco Berardi (Bifo)
Franco Berardi (Bifo), Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione
Philippe Zarifian, L’emergere di un popolo mondo. Appartenenza, singolarità e
divenire collettivo
Mario Perniola, Philosophia sexualis. Scritti su Georges Bataille
Jacques Derrida, Posizioni. Scene, atti, figure della disseminazione, a cura di
Giuseppe Sertoli
Hannah Arendt, Lavoro, opera, azione. Le forme della vita attiva, Introduzione
e cura di Guido D. Neri
Adelino Zanini, Macchine di pensiero. Schumpeter, Keynes, Marx, Introduzione
di Giorgio Lunghini
Nicola Pasqualicchio, Il sarto gnostico. Temi e figure del teatro di Beckett
Maria Tasinato, Passeggiando con la mimesis. L’illusione teatrale tra antico e
moderno
Finito di stampare nel mese di gennaio 2015
per conto di ombre corte
presso Sprint Service - Città di Castello (Perugia)

Potrebbero piacerti anche