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Lezione di Diritto alla Navigazione 26/10/2017

Nella precedente lezione abbiamo affrontato il tema dell'armatore sforzandoci di analizzarne l'origine e il
contenuto e di fornire altresì una stessa definizione di armatore che fosse, da un lato, il più possibile aderente
alla formulazione che riscontriamo all'art.265 del codice della navigazione; da altro lato, affrontando la
prospettiva di mutazione che questa figura sta avendo e di cui il legislatore ne ha avuto cognizione. Adesso
trattiamo il tema della responsabilità dell'armatore. Storicamente tale tema ha una costante che si rinviene
nella particolare suggestione e curiosità che la responsabilità dell'armatore ha suscitato nei vari periodi, ciò
perché, come si può agevolmente dedurre dalla lettura degli artt. 274 e 275 del codice della navigazione, si
tratta di una responsabilità che, se da un lato sembra piuttosto chiara e cristallina, allorché l'art. 274 prevede
infatti una responsabilità che, secondo le categorie del codice civile, potremmo definire vicaria, ossia la
responsabilità del soggetto che si erge a dominus dell'attività e dunque una responsabilità per le obbligazioni
contratte dai preposti, da altro lato, invece, l'art. 275 prevede espressamente una limitazione di tale
responsabilità. È stato proprio questo il tema per il quale diverse schiere di studiosi si sono, nelle diverse
epoche e sulla base di diversi assetti di interessi e valori giuridici, politici, sociali ed economici, cimentati al
fine di, da un lato, capirne la ratio in relazione alla limitazione cui è soggetta e in quale misura, da altro lato,
cercare di giustificare la validità della stessa limitazione cui è soggetta.
Una valutazione di carattere storico è certamente utile in relazione a questa tematica per comprendere come
si è giunti al moderno sistema di responsabilità dell'armatore e dunque anche della relativa limitazione. Per
quanto riguarda le fonti storiche, partendo dal diritto romano, non si ravvisano degli schemi o delle norme
giuridiche che contemplano e configurano esattamente una responsabilità dell'armatore, così come oggi la
conosciamo o così come si è plasmata durante l'epoca medievale. Nel diritto romano era poco chiara la
distinzione fra proprietà della nave ed esercizio, quindi non vi era una marcata differenza tra la figura del
proprietario e quella dell'armatore; per cui la preoccupazione dei giuristi romani non era tanto quella di
individuare un soggetto responsabile diverso dal proprietario, quanto, piuttosto, quella di garantire la
posizione dei soggetti aventi diritti sul carico, sulla merce, per eventuali danneggiamenti che la stessa potesse
subire, pertanto l'elemento rilevante era la responsabilità per la custodia indipendentemente dal soggetto
proprietario o esercente. La giustificazione alla base di questa particolare costruzione del diritto romano
risiedeva nel fatto per cui i traffici marittimi erano piuttosto contenuti e, oltretutto, vi era la
compartecipazione di più soggetti nella spedizione, non soltanto strettamente legata all'investimento ma
anche, va segnalato che, questi stessi soggetti, proprietari del carico, solevano seguire quest'ultimo. Durante
il medioevo, con l'aumento dei traffici commerciali, inizia a prefigurarsi la necessità e l'idea di trovare delle
forme che possano tutelare il soggetto che si preoccupa specificatamente della gestione dell'esercizio della
nave ma, anche qui, non esiste ancora esattamente uno schema che può essere qualificato quale antesignano
storico della moderna responsabilità dell'armatore (e relativa limitazione). Qualche timido segnale può
rinvenirsi in un testo già citato, ossia "Il Consolato del Mare" nel quale viene fissato un principio individuato,
da alcuni studiosi di storia del diritto, quale antenato della limitazione della responsabilità: si tratta di una
prescrizione in base alla quale il soggetto che non partecipa alla spedizione, fisicamente, non può essere
chiamato a rispondere delle conseguenze, chiaramente in termini negativi di danno, che derivano dalla
spedizione poiché costui avrebbe dovuto essere fatto salvo da ogni responsabilità, proprio perché distante e
dunque incapace di gestire la stessa e di essere sostanzialmente soggetto passivo delle obbligazioni. Nel 1681
abbiamo uno dei testi fondamentali (francese) nell'ambito del diritto marittimo e rappresenta il primo
esempio normativo che ha provveduto a codificare la previsione di una responsabilità armatoriale; è un testo,
però, che non fa alcun riferimento alla limitazione della responsabilità, cioè l'armatore è illimitatamente
responsabile delle obbligazioni derivanti dalla navigazione, tuttavia, lo stesso testo dispone che costui può
liberarsi dalle proprie obbligazioni mediante l'abbandono della nave ai creditori. Il suddetto principio viene
accolto a livello della formulazione dell'art. 491 del codice della marina mercantile che prevede, infatti, un
sistema di responsabilità armatoriale illimitata ma con facoltà di liberarsi di queste proprie obbligazioni
mediante l'abbandono della nave ai creditori. Di poco successivo, rispetto al sistema armatoriale francese, è
quello affermatosi in Germania basato sul concetto, definito dagli studiosi, dell'esecuzione; in particolare, tra
il XVIII e il XIX sec. ebbe forte impulso l'idea per cui la responsabilità dell'armatore dovesse essere
necessariamente legata al suo patrimonio marittimo, si realizza per ciò un sistema in base al quale la
responsabilità dovesse essere circoscritta al valore della nave e al nolo: tale aspetto, in parte, condizionerà
la formulazione dell'art. 275 del codice della navigazione. Se da un lato la nostra normativa nazionale ha,
dapprima, fortemente basato la propria codificazione sul sistema francese dell'abbandono (si pensi alla
previsione di cui all'art. 491 del codice della Marina mercantile sul tema dell'abbandono), da altro lato,
invece, già con il codice della navigazione del 1942 s'intravede un timido segnale di vicinanza al sistema
tedesco che esclude una responsabilità illimitata con facoltà di abbandono ma una responsabilità limitata e
commisurata al valore della nave e del nolo. Mentre nell'Europa continentale si sviluppavano questi due
diversi sistemi di responsabilità che riflettevano sostanzialmente due approcci differenti; la normativa
francese del 1681 è stata fortemente influenzata e voluta dell'allora ministro delle finanze Colbert che fece
elaborare questo sistema di responsabilità con facoltà di abbandono al fine di incentivare e proteggere la
flotta nazionale francese. È evidente che, più di ogni altro, il sistema di responsabilità dell'armatore è
intrecciato in modo peculiare all'economia nazionale, ciò perché, aprendo una piccola parentesi dal punto di
vista storico, la flotta battente bandiera di uno stato nazionale comporta la protezione di questa flotta e
conseguentemente ha una certa incidenza a livello di bilancia commerciale e, in particolare, dei pagamenti,
perché i noli che vengono corrisposti agli armatori incidono positivamente sulla bilancia dei pagamenti.
Durante l'Ottocento ma anche agli inizi del novecento, era forte nella produzione normativa in materia di
responsabilità armatoriale anche questa finalità di carattere politico-economico, e quindi rilevava la necessità
di incentivare anche altri soggetti stranieri a investire nella flotta nazionale attraverso nuove navi che
venissero dotate di bandiere battenti la nazionalità di quel determinato stato. Mentre nell'Europa
continentale si svilupparono questi due sistemi, in Inghilterra e negli Stati Uniti avveniva tutt'altro. In
particolare, ciò che si verificò in Inghilterra, a partire dalla prima metà del settecento, costituì, poi, la base
sostanziale della moderna normativa internazionale in materia di responsabilità armatoriale che rinveniamo
attualmente nella Convenzione di Londra del 1976. Fino al 1733 in Inghilterra non esisteva un sistema di
responsabilità armatoriale, nel senso che l'armatore rispondeva illimitatamente per tutte le obbligazioni
derivanti dalla navigazione ma in quell'anno avvenne un episodio singolare: durante la navigazione di un
veliero dal Portogallo all'Inghilterra il comandante, insieme ad altri membri dell'equipaggio, si rese
responsabile del furto di alcune merci che erano caricate sulla stessa nave. I proprietari, in quella circostanza,
citarono in giudizio l'armatore chiedendone la responsabilità, ossia che costui fosse tenuto a corrispondere
il risarcimento per il danno subito e, nonostante le estreme difese, l'armatore alla fine fu condannato. In virtù
di ciò, tutta la classe armatoriale inglese reagì, di conseguenza, esercitando pressioni sulla classe politica e
nel 1734 fu, in tal senso, varato un primo provvedimento normativo che fissò un principio generale di
limitazione della responsabilità armatoriale legato, infatti, al valore della nave prima dell'evento. Questo, al
di là della normativa rispettivamente francese e tedesca, fu un primo esempio di sistema della limitazione
della responsabilità armatoriale strettamente legato al valore della nave prima della verificazione
dell'incidente (in quel caso si trattava di furto). Un altro evento si verificò sempre in Inghilterra ed ebbe ad
oggetto, ancora una volta, un furto ma di preziosi (di gioielli ed altri monili di alto valore) ed anche qui il
governo inglese reagì con un ulteriore provvedimento che rafforzò il principio di limitazione della
responsabilità armatoriale attraverso la previsione in base alla quale la responsabilità dell'armatore venisse
espressamente esclusa per talune fattispecie, ossia incendio e perdita di beni preziosi. L'istanza che, in
quell'epoca, venne avanzata fu quella di tutelare il soggetto armatore innanzi a comportamenti posti in
essere dal comandante e dal relativo equipaggio sui quali l'armatore non aveva alcuna possibilità di incidere
in termini positivi, non essendo comunque persona che si trovasse a bordo. Da un lato, non è possibile
dichiarare responsabile un soggetto che non può in alcun modo incidere ed interrompere il nesso di causalità
tra un'azione ed un effetto e quindi è necessario tutelarlo, d'altra parte, però, è altresì necessario installare
un sistema di responsabilità e dunque di individuare un soggetto che, nei confronti dei terzi, venisse ritenuto
pienamente responsabile, per cui la composizione di queste due esigenze (tutela dell'armatore e tutela dei
terzi che fossero eventualmente entrati in contatto con la nave e con l'equipaggio a bordo) trova la sintesi in
questa soluzione, cioè da un lato si prevede un sistema di responsabilità dell'armatore, però da altro lato la
si limita, nel senso che si individua un valore ben preciso e in quel caso fu proprio il valore della nave.
Negli Stati Uniti si svilupparono altri eventi ed è importante comprendere come questi abbiano inciso nella
costituzione di un ordinamento piuttosto singolare sotto il profilo del diritto alla navigazione ma anche sul
versante del diritto aeronautico, in quanto, molto spesso, si pone al di là della normativa positivamente
prevista o anche della normativa internazionale anticipando modificazioni in seno agli strumenti
internazionali oppure si dota di proprie disposizioni normative che, spesso, sono particolarmente favorevoli
all'attenzione del cittadino e dell'intera collettività rispetto alle norme internazionali. Per quanto riguarda, in
particolare, la responsabilità armatoriale, nel 1848 si verificò un caso di incendio a bordo di una nave e il
vettore fu ritenuto responsabile perché aveva omesso di approntare sistemi antincendio; è interessante la
pronunzia della Corte Suprema statunitense che interpretò in modo estremamente restrittivo, ossia in modo
più favorevole ai terzi, le norme in materia di responsabilità armatoriale o del vettore in quel caso
specifico. Anche qui, la reazione dell'ordinamento americano non si fece attendere e nel 1851 fu varato
il Limitation of Liability Act tuttora in vigore seppur ampiamente rivisitato. Questa normativa esclude la
responsabilità dell'armatore nel caso in cui questi abbia una presunta consapevolezza relativamente alla
verificazione del danno e, volendo compararla al testo della Convenzione di Londra, emergerà che il sistema
americano è molto più gravoso per l'armatore rispetto al sistema tracciato nel suddetto testo di diritto
internazionale.
In Italia, il sistema tracciato dal codice della Marina Mercantile si evince dall'art. 491 sull'abbandono, ed
prevista, cioè, la possibilità per l'armatore, ritenuto responsabile delle obbligazioni derivanti dall'esercizio
della navigazione, di liberarsi di tale responsabilità attraverso l'abbandono. Agli inizi del XX sec. il tema della
responsabilità dell'armatore ed altri settori del diritto marittimo furono interessati da un movimento
internazionale volto alla realizzazione di un'uniformità dal punto di vista disciplinare. Nel 1924 si ha una
prima Convenzione, ossia quella di Bruxelles sulla limitazione della responsabilità armatoriale, coeva alla
convenzione sulla polizza di carico sempre adottata a Bruxelles. L'interesse e la volontà di creare delle regole
uniformi di diritto marittimo interessò anche la questione della responsabilità armatoriale. La Convenzione
di Bruxelles del 1924 si basa essenzialmente sul sistema inglese di metà settecento, cioè, l'armatore può
liberarsi della propria responsabilità corrispondendo un risarcimento che sia limitato al valore della nave. La
particolarità della convenzione si ravvisa nell'elenco di tutti quei casi in cui l'armatore può procedere a questa
limitazione ma vi sono anche altri casi in cui non può procedere tra i quali rientra l'ipotesi in cui i danni,
realizzati nei confronti dei terzi, sono conseguenti ad un'operazione di soccorso, questo è un tema piuttosto
delicato che comporterà anche una rivisitazione del testo convenzionale. La Convenzione del 1924 è tutt'ora
in vigore con la successiva Convenzione di Bruxelles del 1957 e con quella di Londra del 1976 che non hanno
previsto alcun regime di abrogazione rispetto alla prima, se mai si possa parlare di abrogazione di una
convenzione di diritto internazionale. Ad esempio il Brasile è parte soltanto della Convenzione di Bruxelles
del 1957 e non della precedente ma neanche della successiva del 1976. La prima Convenzione di Bruxelles
non ebbe particolare successo nella comunità internazionale nonostante fosse stato il primo esempio di
codificazione internazionale su un argomento piuttosto delicato. Diversi furono gli stati abbastanza riottosi
alla sua applicazione quali, ad esempio, la Francia o il nostro stesso Stato, diversi furono i giudizi negativi e di
forte contrasto relativamente all'adozione di questa convenzione; la motivazione di fondo è da ricercare nella
lontananza del sistema oggetto della convenzione rispetto a quelli che sono i principi guida continentali. I
primi commentatori dell'epoca suggerirono al governo italiano di non aderire e ratificare la Convenzione
perché lontana alla normativa e ai relativi principi in materia di responsabilità armatoriale dell'ordinamento
italiano. Seguì la Convenzione del 1924, la Convenzione di Bruxelles del 1957 che, rispetto alla precedente,
reca con se un'importante modifica che fu poi mantenuta nella Convenzione di Londra del 1976. Mentre la
precedente convenzione del 1924 individuava come parametro di responsabilità il valore della nave, la
Convenzione di Bruxelles del 1957 individua, invece, quale parametro di responsabilità, il tonnellaggio della
nave. Tale modifica fu realizzata sulla base di una semplice considerazione e cioè sulla necessità ed
opportunità di meglio garantire e tutelare condizioni di giustizia nei confronti dei terzi danneggiati, poiché
era frequente l'ipotesi per cui, riscontrata dopo la fine della seconda guerra mondiale, i terzi subissero dei
danni e delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla navigazione e molto spesso la nave era una nave
piuttosto vetusta e dunque il valore della stessa era sicuramente residuale e tale da non poter soddisfare le
pretese dei terzi. Perciò si ritenne che il sistema del tonnellaggio (prevedeva un determinato risarcimento
all'epoca corrisposto e stimato in franchi oro per ogni tonnellata) potesse meglio garantire la posizione
assunta dai terzi. È opportuno, comunque, comprendere, ancora una volta, la funziona e la struttura della
responsabilità armatoriale. Si tratta di una categoria che si pone in contrasto con un principio fondamentale
che, non solo è presente nel nostro ordinamento ma è un principio di portata trasversale ed acquisito a livello
sociale, cioè quello per cui il debitore debba rispondere illimitatamente delle proprie obbligazioni con tutto
il proprio patrimonio. Tale principio lo ravvisiamo positivamente all'art. 2740 c.c. ed ha relativi equivalenti in
molti altri ordinamenti. Trascurando i parametri relativi al valore della nave e al tonnellaggio, il problema che
ha davvero appassionato gli studiosi attiene all'opportunità di prevedere o meno una limitazione della
responsabilità: perché, ad esempio, l'armatore non debba anche rispondere oltre ai parametri relativi al
valore o al tonnellaggio della nave? Perché, invece, non può valere nei suoi confronti il principio di cui all'art.
2740 c.c. valido per tutti gli altri soggetti imprenditori ed altre persone fisiche? A tali quesiti le risposte fornite
furono diverse e molteplici e, non di rado, si assisteva a delle iniziative finalizzate all'eliminazione proprio di
questo copioso beneficio, così definito da alcuni autorevoli commentatori statunitensi. Ad esempio,
un'interessante polemica, vedendo protagonista l'Inghilterra qualche decennio fa, aveva rimarcato questa
contrarietà e diversità della responsabilità armatoriale rispetto a quelli che sono oggigiorno principi ormai
pienamente acquisiti quali l'uguaglianza e la giustizia sociale, cioè, in sostanza, non si riusciva, ancora, a
comprendere il perché, nonostante l'evoluzione di diritti e di principi ed anche, materialmente, del
commercio, bisognasse mantenere fermo il sistema di limitazione della responsabilità. Certamente era
corretto giustificare una responsabilità armatoriale limitata al valore della nave o anche al tonnellaggio della
stessa in un'epoca in cui ancora la navigazione si presentava come un'attività estremamente rischiosa ma
soprattutto un'attività in relazione alla quale l'armatore non aveva una diretta disponibilità del bene stesso,
si pensi, ad esempio, alle grandi navigazioni oceaniche del settecento per le quali le navi, partite dai porti
inglesi, solevano fare ritorno dopo due o tre anni e dunque l'armatore poteva non avere alcuna notizia del
proprio mezzo per diversi mesi, se non addirittura per diversi anni. Certamente, in quell'epoca la limitazione
della responsabilità poteva trovare una sua giustificazione ed un suo fondamento che creasse un'effettiva
separazione tra ciò che veniva rischiato dall'attività di navigazione della nave e ciò che rimaneva,
sostanzialmente, il patrimonio terrestre. Ancora, poteva trovare una sua giustificazione, sino alla prima metà
del secolo scorso, sulla base della necessità, attraverso un principio di limitazione di assoluto favore nei
confronti dell'armatore, di incentivare la flotta battente la bandiera nazionale ma, anche questo aspetto,
soprattutto oggi, risulta secondario. La ricerca di una sua ratio si è necessariamente dovuta orientare verso
altri ambiti. È, però, opportuno, adesso, affrontare la normativa di diritto positivo contenuta agli artt. 274 e
275 del codice della navigazione. Il primo art. si occupa di fissare la regola generale in base alla quale
l'armatore risponde delle obbligazioni contratte o assunte dal proprio equipaggio o dal comandate ad
eccezione delle obbligazioni di carattere pubblicistico gravanti sul comandante e delle obbligazioni legate alle
operazioni di assistenza e di salvataggio. La regola formulata dall'art. 274 sembrerebbe una regola piuttosto
semplice che, peraltro, affonda le proprie radici nella previsione di cui all'art. 2049 c.c., la quale prevede che
il committente risponda delle azioni dei propri preposti; la norma, peraltro, esclude le obbligazioni legate
all'assistenza e al salvataggio così come la responsabilità armatoriale è esclusa per le obbligazioni legate alla
funzione pubblicistica del comandante. La norma, in realtà, non è posta in favore dell'armatore ma attiene
alla netta separazione che intercorre tra le obbligazioni privatistiche dell'equipaggio e quelle che hanno una
valenza pubblicistica su cui l'ordinamento mantiene un sistema di responsabilità a carattere
prevalentemente personale. L'art. in esame esclude la responsabilità dell'armatore nell'ipotesi in cui le
obbligazioni derivino da fatto doloso o colposo del comandante o dell'equipaggio. Tale aspetto normativo
non desta particolare rilevanza o criticità in quanto s'inquadra nel solco dell'ordinamento civilistico. L'altra
norma contenuta all'art. 275, espressamente rubricato "limitazioni del debito dell'armatore", invece, ha
elaborato e fatto proprio il principio di limitazione prevedendo, infatti, che, per le obbligazioni contratte in
occasione e per i bisogni del viaggio, nonché per quelle derivanti da fatti o da atti compiuti dall'equipaggio,
l'armatore può limitare il proprio debito ad una somma complessiva pari al valore della nave e all'ammontare
del nolo e di ogni altro provento del viaggio. È proprio questa la norma che fissa il principio della limitazione
della responsabilità ed è stata sottoposta a plurime analisi, una norma suscettibile ed esposta a molteplici
interpretazioni. Fondamentalmente questa norma, in parte, recepisce alcune indicazioni, proprie del diritto
tedesco, volte a limitare la responsabilità al valore della nave e, ancora, da altro lato, si prevede, poi, al
successivo art. 276 un limite minimo e un massimo per quel che riguarda l'esposizione dell'armatore
relativamente al calcolo del valore della nave stessa. Questi due articoli, ed in particolar modo il secondo
sulla limitazione, nei settant'anni di vigenza del codice, hanno trovato pochissime applicazioni, infatti vi sono
state due o tre sentenze degne di considerazione al riguardo. La motivazione potrebbe essere legata al fatto
per cui il sistema così creato dal codice della navigazione potrebbe fungere da disincentivo, per i terzi
danneggiati, ai fini dell'avviamento della richiesta di risarcimento. In ogni caso, la norma contenuta all'art.
275 è stata oggetto di modifica ad opera del d.lgs. n.111/2012 che ha recepito la direttiva europea n.20/2009
(parte integrante del terzo pacchetto Erika). La direttiva ha istituito l'obbligo per gli armatori di dotarsi di
un'assicurazione. Il decreto, conseguentemente, ha modificato l'art. 275 inserendo un inciso estremamente
importante perché ha creato un distacco tra la norma del codice della navigazione in quanto, oggi, in virtù di
questa modifica, è applicabile soltanto alle navi di stazza lorda inferiore alle trecento tonnellate e, invece, in
tutti i casi in cui vi siano navi di stazza pari o superiore alle trecento tonnellate si applicano le previsioni di cui
al d.lgs. n.111/2012. Tale decreto rappresenta un tentativo di, da un lato, adeguarsi alla normativa
comunitaria e, da altro lato, di evitare, secondo autorevoli commentatori, l'applicazione della Convenzione
di Londra del 1976. Perché? La direttiva n.20/2009, prevedendo l'obbligo di assicurazione in relazione alla
responsabilità armatoriale, poggia le proprie fondamenta sulla Convenzione di Londra del 1976, ciò sulla base
di un implicito ed erroneo ragionamento per cui, a livello comunitario, quasi tutti gli stati europei avessero
già adottato e ratificato la Convenzione di Londra del 1976. L'Italia non la ratificò, in realtà, era stata emanata
una legge del 2009 che autorizzava lo stato a ratificare la convenzione ma lo strumento di ratifica non è stato
mai depositato. Attraverso il suddetto decreto, perciò, oggi è possibile scorgere, da un lato, un sistema di
limitazione che, per le navi aventi stazza pari o superiore alle trecento tonnellate, viene descritto ricopiando,
seppur con diversi accorgimenti e lacune, la Convenzione di Londra del 1976 e, da altro lato, continua, invece,
a permanere il sistema di cui al codice della navigazione per quanto riguarda le navi con stazza lorda inferiore
alle trecento tonnellate.
Analizziamo, adesso, gli elementi essenziali della La Convenzione di Londra del 1976. Questa presuppone, in
primo luogo, che vi siano una pluralità di soggetti in grado di esercitare il beneficio della limitazione, perciò,
non viene interessato soltanto l'armatore ma anche il noleggiatore, il soccorritore e l'assicuratore. Per
quanto riguarda la figura del noleggiatore, di recente, nel maggio scorso, si è pronunziata la Supreme Court
of the United Kingdom che ha definitivamente sancito la possibilità anche per il noleggiatore di servirsi del
beneficio della limitazione, purché, però, lo stesso si mostri verso i terzi come un soggetto avente i caratteri
dell'armatore. Una novità della Convenzione di Londra del 1976 attiene alla possibilità anche per i soccorritori
di avvalersi del beneficio della limitazione. Questa previsione, così come molte altre, sono state il frutto di
eventi che si sono verificati, quale ad esempio il caso per cui, alla fine degli anni sessanta, durante le
operazioni di soccorso di una nave parzialmente affondata, un soccorritore si era calato in procinto di
effettuare operazioni di salvataggio e, contestualmente, vi fu una significativa esplosione dovuta all'utilizzo
della fiamma ossidrica da parte dello stesso soccorritore; in quel caso l'armatore, che aveva subito i danni,
citò in giudizio il soccorritore chiedendo, quindi, il risarcimento per il pregiudizio subito. Il soccorritore, suo
malgrado, fu ritenuto responsabile senza alcun beneficio di limitazione. All'epoca il caso fece molto scalpore
perché il soccorritore, in generale, rappresenta una figura ben accolta in ambito marittimo e per ovviare a
questo problema fu espressamente introdotto, nella Convenzione di Londra del 1976, la specifica previsione
per cui anche i soccorritori potessero beneficiare della limitazione di responsabilità. La Convenzione, poi,
elenca quattro principali categorie di crediti per cui è prevista la limitazione:
a) danni a persone;
b) danni a cose;
c) danni per ritardo di consegna di carico o bagagli;
d) danni da rimozione.
Per quanto riguarda la prima categoria (a), la Convenzione contiene una previsione di chiusura che fa salva
l'applicazione della normativa nazionale o internazionale che sia più favorevole, come, ad esempio, il caso
della Convenzione di Atene del 1984, così come recepita dal regolamento europeo n.392/2009. La
Convenzione esclude, poi, come crediti, per i quali si possa procedere alla limitazione, quelli derivanti da:
a) inquinamento di idrocarburi;
b) inquinamento conseguente all'esercizio svolto da navi nucleari.
Per quanto riguarda, invece, la perdita del diritto alla limitazione la Convenzione del 1976 prevede che
l'armatore o le altre categorie alle quali è riconosciuto tale limite perdano il relativo diritto, nel caso di dolo
e di colpa intesa, però, non nell'accezione generale ma secondo la previsione della Convenzione ossia la c.d.
"colpa cosciente", cioè quei casi in cui l'armatore ha la possibilità di prevedere che da una determinata
condotta possa ragionevolmente verificarsi il danno. Il tema che ha ad oggetto la condotta dell'armatore da
cui può derivare la perdita del beneficio della limitazione non è molto semplice: nell'ipotesi in cui vi sia un
armatore, ossia un singolo soggetto che esercita una singola imbarcazione con un equipaggio piuttosto
contenuto, ebbene, l'individuazione della condotta colposa o dolosa è alquanto semplice, però, in una diversa
ipotesi, immaginiamo un'organizzazione molto più complessa (ad esempio, grandi compagnie di navigazione
quale il comparto crocieristico o di navi mercantili) in cui non vi è l'armatore inteso nell'accezione classica ma
si ipotizza l'esistenza di una società di capitali, di un consiglio di amministrazione con una pletora di figure
manageriali e dirigenziali, ebbene, in questa seconda ipotesi, l'individuazione della condotta dolosa o colposa
che ha determinato la conseguenza negativa non è sicuramente agevole. In questo secondo caso, molto
spesso, in particolare negli ordinamenti anglosassoni, si è posta la problematica relativa all'identificazione e
alla qualificazione dell'armatore, ci si è chiesti effettivamente chi fosse l'armatore e su quale soggetto
parametrare la condotta dolosa o colposa. In tal senso, potrebbero essere d'ausilio alcuni strumenti
normativi internazionali che prescrivono per le compagnie di navigazione le figure responsabili all'interno del
proprio organigramma. La Convenzione, inoltre, prevede tutta una serie di entità risarcitorie calcolate non
più sul valore del franco oro ma su quello dei diritti speciali di prelievo, infatti tali entità economiche sono
proporzionate e parametrate sulle diverse tipologie di danni.
Perché ancora oggi vi è la necessità di mantenere una categoria giuridica come quella relativa alla
responsabilità limitata dell'armatore? Diverse sono state le epoche analizzate, diversi sono stati gli interessi
che, di volta in volta, sono venuti a rilevanza e sono stati ritenuti meritevoli di tutela ma, sostanzialmente,
questo principio è rimasto ed è tutt'ora presente. La Convenzione di Londra del 1976 ha raggiunto i
quarant'anni di vigenza e più della metà degli Stati del mondo hanno deciso di ratificarla. Il sistema di
limitazione della responsabilità armatoriale previsto dalla Convenzione di Londra del 1976 rappresenta uno
strumento di contemperamento e di equilibrio tra i diversi interessi, sia quelli dell'armatore sia quelli dei
soggetti terzi, siano essi passeggeri o caricatori, perché i limiti del risarcimento che la Convenzione prevede
sono ritenuti soddisfacenti: ad esempio, nel caso di morte di persone, l'armatore ha la possibilità di limitare
la propria responsabilità fino a circa tre milioni (da tre e cinque milioni, in realtà) di diritti speciali di prelievo.
Occorre notare che si tratta di una somma abbastanza elevata che può ritenersi soddisfacente per la vittima
o per gli aventi causa, anche perché, volendo superare tale limite e pretendere un risarcimento ulteriore da
parte dell'armatore implica la necessità di provare che il danno si sia verificato in conseguenza di una
condotta dolosa o colposa nell'accezione, però, di colpa cosciente. È evidente che tale onere probatorio è
difficilmente superabile, dunque l'assenza di numerosi casi giurisprudenziali è, probabilmente, legata alla
fattispecie per cui la formulazione normativa soddisfa ampiamente la parte danneggiata, la quale si vede
ristorata in relazione al proprio danno, non venendo sollecitata nell'incentivo di pretendere una somma
aggiuntiva. Tuttavia, l'analisi prospettata non ha dato una risoluzione alla problematica originaria in merito
al mantenimento di un sistema anomalo rispetto al principio di cui all'art. 2740 c.c. perché, a tal proposito,
sarebbe sufficiente, così come infatti accade in ambito aeronautico, prevedere una responsabilità anche
illimitata dell'armatore; tuttavia, la ricerca si è spostata verso l'armatore, con particolare riferimento al
sistema di assicurazione presente in ambito marittimo che ha una sua specificità in quanto non comune, ossia
un sistema che si basi sulle organizzazioni mutualistiche di cui fanno parte gli stessi armatori, i quali, pertanto,
risultano, allo stesso tempo, assicurati ed assicuratori, particolarità che non si rinviene, invece, in ambito
aeronautico in quanto i vettori e gli esercenti di aeromobili si assicurano liberamente sul mercato. Di contro,
nel caso della responsabilità armatoriale, l'assicurazione viene fornita dagli stessi armatori che si riuniscono
in diversi clubs su base internazionale e, in tal senso, riescono mutualisticamente a prestarsi una forma, o
meglio, un sistema di assicurazione, non libero sul mercato, che ha sempre dato prova di un'efficiente
funzionamento (ad esempio, l'incidente della Concordia i cui danni ammontano a circa un miliardo di dollari
che sono stati immediatamente corrisposti). Dunque, sono gli armatori stessi a necessitare di un limite ben
preciso ed identificabile da cui possa derivare una quantificazione aprioristica della propria esposizione
debitoria nel caso di incidente e valutando questa, quindi, come un costo da inserire nella normale dinamica
aziendale e, in questo caso, armatoriale. La limitazione, perciò, non affonda più le proprie radici nella
necessità di proteggere l'armatore dai rischi derivanti dalla navigazione ma si ravvisa, piuttosto, la necessità
di limitare all'armatore, più precisamente a esso stesso nella veste di assicuratore, una somma ben precisa
ex ante che possa gestire nella normale dinamica dei costi e dei ricavi.

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