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Fabrizio Mastrofini

La mappa non è il territorio


Platone e la periferia romana

La via dei filosofi c’è. È a Roma, oggi, in periferia. E Platone si muove da Atene per
venire a conoscere la sapienza che alberga nella Città Eterna. Storie e personaggi
si intersecano, disegnando un intreccio che ripropone gli eterni interrogativi sul
senso della vita. Su tutto aleggia una domanda: che utilità ha la filosofia?

Fabrizio Mastrofini (Roma, 1958), giornalista e saggista, vive e lavora a Roma.


Ha pubblicato 17 libri, tra cui Ratzinger per non credenti (Laterza, 2007),
Comunicare l’impresa sociale (Carocci 2010), Preti sul lettino (Giunti, 2010).

Contatto:
Fabrizio Mastrofini
Mail: fmastrofini@libero.it;
INDICE

Prologo ................................................................................................. 3

Primavera ............................................................................................. 5

Estate ................................................................................................... 9

Autunno...............................................................................................15

La disputa............................................................................................16

Prologo dell’ inverno ............................................................................20

Inverno ................................................................................................22

Ad Atene ..............................................................................................28
Prima lezione sulla temperanza............................................................28
Secondo discorso sulla temperanza ......................................................31
Discorso finale .....................................................................................34

Ogni lettore potrà farsi da sé l’idea se i riferimenti sono casuali oppure reali.
Prologo

Via Pier Andrea Odraccas è molto frequentata dai filosofi e anche dalle filosofe. I
più sofisticati investigatori dei misteri reconditi dell’animo umano, capaci solo
loro di interrogarsi sul significato di affetti e passioni, si intersecano e si
intrecciano lungo questa strada ed anche nelle vie adiacenti, più larghe, dove è
maggiore il passaggio. Discutono e disquisiscono davanti a tutti, a cielo aperto,
interrogano i passanti e volentieri ne ascoltano le opinioni; si preoccupano di
individuare soluzioni alle domande esistenziali ancora irrisolte.
Talmente famosa è la strada che un giorno vi giunse Platone, proveniente da
Atene. Nella sua terra aveva sentito parlare di Via Odraccas; altri viaggiatori
filosofi gli avevano riportato notizie, frammenti di dibattiti, voci però precise; tutto
indicava che a Roma fosse fiorita una scuola filosofica di alto livello. E chi lo
avrebbe mai detto? Così alla fine Platone si era deciso a mettersi in viaggio, da
solo come sempre. Era riuscito ad arrivare in quel coacervo di razze e situazioni
denominato Stazione Termini, a Roma. Qui aveva ammirato la babele di
situazioni e di genti che si estendeva negli edifici pubblici, per le strade, in mezzo
al traffico, nel suk di negozi. Una situazione raccapricciante, degna di una città
orientale. Da solo, senza guida, aveva imboccato l’autobus giusto, percorrendo la
via dei Profumi Zafferati, la strada della multiculturalità che nemmeno il regno di
Persia aveva mai visto così grande. Finalmente dopo aver guadato autobus
affollati e maleodoranti, strade sfasciate e sconnesse, torri medioevali in completa
rovina, campi incolti, depositi di vetture rottamate, binari malconci, ipermercati
svettanti, finalmente si era avvicinato a via Pier Andrea Odraccas.
«Davvero è tanta la voglia di disquisire e interrogarsi se tutta questa faticosa
strada occorre compiere per arrivare fin qui!», aveva esclamato, ammirato, il
Sommo filosofo appena sceso dall’autobus, anzi dal jumbo-bus.
Mentre si aggirava per le vie cercando la Via, ché la targa era talmente sbiadita da
non potersi vedere a primo sguardo, ebbi la ventura di incrociarlo. Cercavo di
tornare a casa dopo aver comprato qualcosa di appena commestibile dal noto
indù del luogo, un esattore al lavoro di rapina in uno dei tanti commerci al
minuto. Il Sommo Platone era inconfondibile: lo avevo veduto nelle fotografie, nei
busti commemorativi, identico a come era nella realtà. Impossibile da non
riconoscere con il suo abbigliamento forestiero, lo sguardo perso, l’aria saggia.
«Sei tu, o Platone, il Sommo, che qui ti aggiri sperso?» gli dissi.
«Ora arrivai quassù alla ricerca della via della sapienza. E tu chi sei, che parli con
nobile intento, linguaggio pulito, nel mio idioma?»
«Crisostomo mi chiamano qui, o Platone, perché usa tra noi dilettanti di sapienza
cambiare i nostri nomi veri e cercarne altri che corrispondano al desiderio di
lasciar da parte le passioni umane ed indagare le movenze del vero e del bello».
«Mi incuriosisci, o Crisostomo, guida dei miei passi incerti. Che accadde dunque?»
«Sappi Sommo Platone, che dopo lunga ricerca questa zona venne scelta per
praticare la vera arte dell’interrogare, porre domande, cercare intensamente le
risposte. Il centro storico della città non sembrava adatto. Troppe rovine antiche,
troppi luoghi nobili, chiese monumentali, uffici imponenti, banche ed attività
commerciali. Poco si addicono alla vera sapienza. Dunque non restava che la
periferia. E quale se non questa? Non abbiamo marciapiedi e dunque le strade
non sono agevoli. Metafora della nostra faticosa ricerca, a slalom tra automobili
in corsa, pozzanghere, rifiuti. E poi persone qui vivono di tutte le fatte, di risme
differenti, giovani ed anziani, belli e meno belli, donne e uomini, alti e bassi,

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magri e difformi, di tante provenienze geografiche. Siamo avvezzi ormai a
sopravvivere nel luogo dell’incrocio culturale, dove la vera dignità cittadina
incontra l’universo intero. Dove la minuta criminalità imperversa e la rozzezza dei
modi si fa arte di ben vivere».
«Andiamo dunque, senza indugio. Portami tra questi amanti del sapere, desidero
davvero conoscerli e parlare con loro. Andiamo?»
«Vieni con me, o Sommo, sarà un piacere ed un onore guidarti».

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Primavera

Trasportato in casa l’appena mangiabile rifornimento alimentare, rifocillato il


Sommo Platone, scattata una fotografia per rendere indelebile il nostro incontro,
abbiamo cominciato con ordine a parlare di via Pier Andrea Odraccas. Era un
famoso botanico, dicono le targhe della Via, Accademico dei Lincei, classificò 70
mila specie di funghi. Insomma un luminare, il cui nome svetta in queste strade
piene del profumo dei limoni, dell’alloro, dei mandarini, copiosi sugli alberi.
«Siamo in mezzo alla natura – dico – e guardare le piante aiuta a comprendere gli
esseri umani. Noi asfaltiamo, lastrichiamo, costruiamo, ci difendiamo dalle
intrusioni con telecamere e cancelli. E tuttavia restiamo immersi nella natura, col
cielo luminoso sopra di noi e queste piante che saldamente ricordano la nostra
origine nella terra».
«L’Uno è e non può non essere, come diceva un mio contemporaneo, mi sembra
assai noto anche in questa tua epoca, rispose Platone. Ci dimentichiamo spesso
che la terra e gli esseri umani compongono una unità poliedrica. L’unità si fonde
nella molteplicità, la nutre e se ne nutre».
Così discorrendo percorrevamo la nostra strada in lungo e largo, più volte ché in
effetti la via è corta. Tuttavia in siffatto modo intendevo far prendere
dimestichezza a Platone, certamente avvezzo a meno sconnessi fondi stradali.
Era primavera piena in quel tempo, le giornate si allungavano, la luce del mattino
si spandeva notevole sui palazzi bassi.
«Ricordo che arrivai qui in primavera in una una giornata piena di sole e
malinconia come questa» confidai a Platone.
«Certamente è la stagione che più si addice alla ripresa del movimento, dopo la
quiete invernale e la pausa della natura e delle creature. Ora la virta rifiorisce e
per noi esseri umani arriva il tempo di pensare al futuro. Dimmi tuttavia quale
impressione hai avuto, chi furono i primi filosofi con cui hai avuto contatto?»
«Diversi sono stati. Ora te li enumero. Prima però devi sapere che da noi la
filosofia è l’arte del tempo libero. Seguiamo alla lettera quell’antico detto Primum
vivere, deinde philosophari, attribuito a Thomas Hobbes, pensatore saldo e
soprattutto concreto».
«Concordo, nobile Crisostomo. Vuol dire dunque che qui ogni pensatore svolge
prima di tutto un lavoro, si sporca le mani?»
«Sommo Platone, non attribuirmi, ti prego, qualità che non mi appartengono.
Modesto sento l’animo mio, soprattutto in confronto a te, così famoso nel mondo,
che hai sentito il bisogno di affrontare un lungo viaggio per venire a conoscere le
nostre poche e povere idee. Avrei dovuto venire ed invece me ne è mancato il
coraggio perché davvero sei tu il Maestro tra noi».
«Lasciamo da parte per ora il discorrere di questo tema, dimmi del resto».
«Dunque, Sommo Platone, è proprio così. Qui ognuno ha il suo lavoro, di mani o
di intelletto, a seconda delle capacità. E con il lavoro mantiene se stesso e la
famiglia, se la possiede. Il tempo libero è dedicato al discorrere di filosofia, al
nostro reciproco interrogarci senza sosta, dilettandoci di quell’arte del discernere
che fa la differenza tra esseri umani ed animali e piante».
«E tra tanti chi fu il primo che conoscesti?»
«Ora te li illustro e con buona fortuna possiamo incontrarli. Il primo in assoluto
fu una donna, dal nome semplice ed altisonante insieme. Wanda si chiama ed è

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una giovane donna: sorprendente che vi alberghi tanta filosofia. Ciò la rende
attraente per la mente, al di là di ogni tentazione. La conobbi mentre stavo
trattando l’affitto della mia dimora. Era necessario presentarsi al condominio e
dunque andare dalla rappresentante di questa piccola e virtuosa comunità locale.
Così ebbi la fortuna di entrare nella sua casa. Trovai avvincente tutto fin
dall’ingresso, chiuso da un cancello. Era un cancello di foggia antica. Così entrai
non in una casa qualunque bensì in una casa filosofica. Il padre, Ciro il saggio, è
di bassa statura, cappelli incolti e candidi, barba lunga, pingue, dall’occhio vispo
e sapiente. Mi spiegò la nobile funzione del cancello, per sbarrare la strada ai
ladri delle idee altrui. Trovali l’iniziativa nobile e filosoficamente astuta. Tra una
sbarra e l’altra potevano forse passare oggetti, giammai le idee coltivate con tanta
ragionevolezza e cura. Si dedicavano padre e figlia all’arte dell’amministrazione
dello stabile, nutriti dalle teorie pratiche di Aristotele che mettevano in atto alla
lettera. Così quel palazzo passava in un baleno dalla potenza all’atto, era riempito
di principio attivo. Non era un semplice agglomerato di pietre, cemento, calce e
mattoni. Tutt’altro, c’era un qualche cosa di vivente. Così l’ho percepito».
«E davvero, mio Crisostomo, trovi tante qualità racchiuse dentro un oggetto
inanimato?»
«Sommo Platone, per noi la ricerca della sapienza nasce da qui. Tu sai che noi
romani privilegiamo l’arte della pratica. Siamo famosi come costruttori di strade,
di città, ponti ed accampamenti. Oggi siamo giustamente più celebri ancora
perché nel costruire opere pubbliche riusciamo a dilazionare i tempi ed innalzare
a dismisura i preventivi originari intascando denari di tutti. Sappiamo bene
moltiplicare quegli enti chiamati consigli di amministrazione, dimostrando
l’insensatezza di gran parte della logica medioevale. Siamo infatti nutriti di logica
aristotelica: se un uomo deve vivere e filosofare può lecitamente arricchirsi nel
mercato statale».
«Dimmi ancora, saggio Crisostomo, di questi esempi filosofici».
«Ebbene sia come dici. Ti racconto di quel pingue uomo e della gustosa figlia.
Della madre e moglie taccio, perché dai due conoscerai la vera natura della terza.
La ragazza svolge molteplici attività che la nobilitano assai. Ragioniera, avvezza
coi numeri, adusa ad effettuare dichiarazioni dei redditi anche per i commercianti
della zona. A loro chiede denaro in cambio di tanta adeguata prestazione. Tutti i
soldi che guadagna, spende; quando si trova in stato di necessità usa il sistema
del farsi fare credito, naturalmente lasciando i debiti in sospeso e rinviando per
mesi e per mesi. E quando il creditore la insegue, di nuovo promette e rinvia,
come il vero maestro filosofico di fronte al discepolo insistente. Il vero maestro
batte l’aria, guarda fisso il suo allievo, sospira, lo esorta a pensare alla domanda e
immergersi nella vera sapienza. Un esemplare di donna, dunque, così sagace e
così adatta alle vette somme della speculazione filosofica. La sera d’estate a
finestra aperta senti l’audace ragazza discutere con fornitori e creditori, con le
aziende della luce e del gas. Suoni che riempiono l’aria e portano in questa via
una ventata di concretezza. Questa ragazza è uno di quei filosofi che davvero
possono cambiare il mondo mentre anche tu, mio Sommo Platone, anima del mio
animo, hai solo preferito interpretarlo».
«Differenti sono le esperienze e le impostazioni di noi filosofi. Come forse sai ho
cercato di fare la mia parte per cambiare il mondo, nei limiti del possibile,
durante la gioventù. Tuttavia ad un certo punto mi feci l’idea che tutte le città
soggiacevano a un cattivo governo, in quanto le loro leggi, senza un intervento
straordinario e una buona dose di fortuna, si trovavano in condizioni pressoché

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disperate. In tal modo, a lode della buona filosofia, fui costretto ad ammettere che
solo da essa viene il criterio per discernere il giusto nel suo complesso, sia a
livello pubblico che privato. I mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l’umanità
finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme
cariche dello Stato, oppure finché la classe dominante negli Stati, per un qualche
intervento divino, non si fosse essa stessa votata alla filosofia».
«Sagge parole, Maestro mio. Mi vergogno per non essermi ricordato della tua
esperienza ed avere ceduto alla polemica».
«Andiamo, dimmi se potrò incontrare di persona tali filosofici abitanti della
contrada. Mi incuriosiscono molto».
In quel dipresso da lontano una figura sgraziata si avvicinava, assai simile ad un
poliedro nella forma eppure di fattezze umane e movenze femminili.
Inconfondibile davvero, Wanda stava dirigendosi verso di noi a velocità di
crociera, pensierosa nel viso e chissà quali meditati pensieri dovevano
attraversarla ed impegnarne tutte le energie mentali.
Così appena arrivata a tiro di parola, la apostrofai.
«Gentile Wanda, vorrei presentarti il Sommo Platone qui accanto a me. Da
lontano è venuto per conoscerci, per verificare le qualità filosofiche della strada e
della vita che qui conduciamo. Permetti dunque di scambiare con lui qualche
frase».
«Ecco un altro abusivo dunque venuto a turbarci», rispondeva lesta. «La vita era
tranquilla qui prima che lei arrivasse a sconvolgerla con le sue pretese. Perché
desidera avere il preventivo del bilancio del condominio che amministro così
onestamente? Perché desidera conoscere le delibere in base alle quali invio le
richieste di pagamento? Perché vuole che spieghi come amministro? Lo faccio e
basta. Se proprio lo desidera, ma tanto è inutile, chieda un appuntamento, venga
da me la sera, porti il denaro per ripagarmi delle fotocopie. Qui amiamo la
tranquillità, andiamo d’accordo, gli altri mi consentono di imbrogliare un po’ per
arrotondare i miei proventi e potermi giocare dei soldi alle corse. Altri interessi
non ho. Non leggo giornali, non leggo libri, del resto della città non me ne curo.
Vorrei un fidanzato ma senza bellezza esteriore nessuno trovo e per questo mi
sento perennemente inquieta, maldisposta verso gli altri, imprigionata in un
contenitore non adatto alla bellezza interiore che nessuno purtroppo riesce a
vedere. Lei qui è solo un abusivo, ha cominciato i lavori in casa prima di
diventarne proprietario e adesso arriva portando sconosciuti ed estranei. Mi lasci
stare, mi lasci in pace lei e la sua superiorità filosofica».
Così la filippica della giovane apprendista, pronunciata con tono solenne,
acutamente pure, con voce stridula; un comizio in strada, appassionato ed
intelligente, adeguato al circondario, sagace, tagliente per l’intensità della bordata
parolaia, capace di toccare le corde più profonde, degno di miglior destino. Ero
commosso per l’accoglienza calorosa aveva riservato al Sommo filosofo in visita
proprio lì da noi.
«Forse, risposi, cara giovane collega filosofa, siamo partiti tra di noi con il modo
sbagliato». Così risposti conciliante, Platone Sommo annuendo vigorosamente con
la testa, partecipe e soddisfatto. Ma quella, ancora giovane, troppo giovane
filosofa, rinvenne un senso recondito che le mie parole non avevano e proruppe
ancor di più.
«Lei altro non è se non un abusivo, stavamo bene prima, lei è geneticamente
diverso. E poi la smetta di mandarmi dei pizzini nella cassetta della posta del
condominio. Se vuole un appuntamento me lo chiede, solo per appuntamento

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ricevo e per nessun altro motivo al mondo. Solo per appuntamento! Cosa crede
che qui siamo tutti a sua disposizione, signor mio?».
Era presa dal démone della bile, nulla si poteva fare finché non fosse terminato
l’attacco di collera. E così cortesemente mi congedai mentre ancora inveiva
urlando, strepitando, sbattendo i piedi per terra.
«Sono persone nobili di animo – dissi rivolgendomi a Platone accanto a me. Oggi
forse qualche démone ha preso lei, di solito così calma. È una famiglia che ha
grande cura per le cose del cielo. Pensa che quando portano la spesa in casa, al
terzo piano senza ascensore, calano un gancio da un argano sito sul balcone della
loro modesta e onesta dimora. Così ci dicono che la fatica quando è inutile non
deve venire compiuta. Ci illuminano sulla servitù che dobbiamo imporre agli
oggetti. Ed infine, innalzando la materia vile che serve a nutrire il nostro corpo,
ricordano a tutti noi l’importanza di guardare in alto, abbandonando le cose della
terra».

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Estate

Platone andò via, con la promessa di ritornare. Non poteva visitare tutto in una
volta a causa della molta ricchezza filosofica di questa strada e delle vie
circostanti. Il Sommo Platone se ne rese conto immediatamente. Così promise di
tornare dopo avere assolto gli impegni che aveva in patria e soprattutto
l’insegnamento. Non possibile lasciare gli allievi per un periodo troppo lungo.
Inoltre, mi confidò, aveva davvero bisogno di meditare su quanto visto finora. E
poi tornare proprio perché una delle caratteristiche di Via Pier Andrea Odraccas è
di mutare ed arricchirsi di persone seguendo il variare delle stagioni. La Via è un
esempio vivente della poliedricità infinita. È una metafora perfetta
dell’integrazione tra uno e molteplice e siamo al cuore della filosofia platonica. Noi
Odraccani, autoctoni i più, nuovo acquisto io stesso, lo avevamo compreso.
L’intuizione ci rende onore e mette il Sommo Platone in grado di conversare e
ragionare un poco allo stesso livello anche se non era del tutto merito nostro
bensì della stessa città in cui vivevamo, talmente dispersiva, talmente poliforme e
caotica da far sentire acutament ela nostalgia di un principio ordinatore.
Nonostante tutte le speranze della periferia, intorno il resto della città proseguiva
nei suoi ritmi, indifferente alla discussione filosofica avvenuta in quei momenti
della Primavera. Nell’ora decima la Via dove avevo avuto la fortuna e la ventura di
abitare si riempiva delle grida dei bambini usciti dalla scuola vicina,
accompagnati dalle loro mamme o dalle tate straniere. Tra questi ragazzini
irruenti e ancora inutili al mondo spiccava il figlio della mia vicina, proveniente
dalla Dacia, con questo Dario, un vivace ragazzetto molto promettente,
insofferente verso la scuola e ancor di più verso lo studio, grande e grosso a
undici anni, già il doppio della madre, capace soltanto di reclamare a gran voce il
desiderio di passare all’età adulta ed affrancarsi da ogni matriarcato. Il desiderio
di autonomia sprizza da tutti quei ragazzini e ragazzine che sciamano per via,
incuranti di tutto, a riempire l’aria dei loro suoni sgargianti. Intorno l’Urbs scorre
indifferente, col traffico caotico di sempre, gli strombazzamenti, i criminali
impuniti che passano col rosso, tutti a correre ignorando, non essendo filosofi,
che alla fine della loro strada c’è sempre la morte ed arrivare prima degli altri con
la macchina, dovunque si vada, non serve ad evitare per tutti lo scoccare del
medesimo destino esistenziale.
Comunque sia eravamo arrivati all’estate dunque, al tempo delle ferie e del caldo
che invita a calmare il ritmo, periodo da dedicare a se stessi ancora di più, alla
lentezza dei gesti; tempo della meditazione, per ritemprare energie e individuare
nuove idee e nuovi progetti per il futuro.
Un giorno di inizio estate meditavo nel giardino della casa, guardando il cielo,
interrogandomi sul significato di quella vita, sul perché e come quella periferia
poteva diventare fonte di ispirazione. E soprattutto sul perché ci fossi andato a
cadere dentro, per quali avventure o disavventure della vita. Ero assorto dentro di
me, nei pensieri a volte cupi, altre volte semplicemente lasciando scorrere il flusso
dei ricordi. Un rumore appena accennato mi distolse, mi fece riemergere dalla
profondità di quel flusso ad occhi aperti, dal desiderio di completezza che mi
aveva pervaso, dalla sensazione di tutto potere, di tutto cogliere, tutto
comprendere, nell’unità con la terra e con il cielo. Mi sembrava in quel momento
di cogliere il significato della vita. Il significato dell’affastellarsi delle generazioni,

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del progresso delle diverse società che si compie facendo scorrere le generazioni,
alcune normali, altre apparentemente inutili, tutte inserite nella storia del
mondo. Sappiamo che ne è di Socrate, ma dei suoi vicini di casa? Di quelli che lo
hanno conosciuto bambino chi se ne ricorda? Conosciamo Napoleone o
Metternich, o i tanti che hanno fatto una parte nella storia del mondo. E quelli
che hanno fatto la loro parte senza passare alla storia? Quelli che hanno vissuto e
sono morti, lavorando, sposandosi, facendo figli, morendo contenti o scontenti,
presto o tardi, tutti costoro senza più alcuna memoria, tutti ugualmente hanno
composto la storia del mondo. Così meditavo e sentivo di afferrare il nodo di
quella matassa del senso, quando un rumore persistente e leggero mi distolse.
Era un ticchettio leggero, insistente, ripetuto. E così mi resi conto che ero proprio
profondamente assorto. Mi riscossi per cercare la fonte del runore, girando
intorno lo sguardo. E fu così che vidi Platone sorridendo, poi serio
nell’apostrofarmi. «Amico Crisostomo, salute a te. Hai tempo e spazio per un
viaggiatore non annunciato?».
Un balzo feci, precipitandomi verso il Maestro. «Grandioso averti di nuovo qui di
nuovo, Sommo Maestro. Perché non mi hai avvisato? Comunque anche inatteso
sei sempre il benvenuto da me e qui da tutti noi. Ti aspettavo e speravo davvero
di poterti rivedere».
«Sono venuto appena possibile perché ora ad Atene abbiamo una pausa negli
studi in Accademia ed era il momento opportuno per parlare di sapienza con te e
con i fantasmagorici abitanti di questa strada».
«Accomodati, Sommo Platone, così possiamo discorrere con tutto agio dell’arte
della sapienza e delle persone che sanno applicarla. Questa volta parliamo, l’altra
volta abbiamo camminato. Ora ti racconterò la storia di una persona, la cui vita è
una continua iniziazione alla filosofia».
Presi fiato, per raccogliere le idee, per raccontare una vicenda lunga e complessa,
come ero venuto a conoscerla e far emergere la problematica filosofica sottesa.
Sapevo inoltre che era necessario rispettare la particolare visione greca, la
difficoltà a distinguere tra soggetto ed oggetto, pietra miliare della filosofia dei
tempi moderni. Ebbi un’idea, allora, e così cominciai.
«L’estate, in Via Pier Andrea Odraccas, è il tempo della filosofia. Ed è la signora
qui del terzo piano a rappresentarla al meglio. Vive con il marito in uno spazio
ristretto, due stanze appena, piene di mobili, ingombre di oggetti e ricordi. In
passato ha vissuto qui con le due figlie, ora maritate. Si chiama Apollonia, è una
donna bella, autentica matrona romana, con lungo peplo ed avrebbe anche
un’ancella se non fosse esageratamente morigerata ed abituata a risolvere da sé
ogni cosa. Abita qui da tempi lontani. Tuttavia le sue virtù non sarebbero bene
rappresentate se non ci fosse una caratteristica peculiare: si tratta di una donna
veramente completa, del tutto a suo agio quando contempla la realtà fuori di sé,
sia gli ampi orizzonti sia la realtà vicina e vicinissima, attenta ai dettagli ed alla
visione d’insieme. Caratteritiche rare da trovare condensate in una sola persona e
per di più si dedica sempre agli altri, è sempre attenta alle esigenze altrui. La
trovi d’estate in finestra, partecipe di tutto quello che possa accadere nella vita e
nella vita delle persone. Continuamente presente. All’inizio avevo provato un
senso di fastidio, nuovo come ero della zona e delle abitudini. Avevo dimenticato
la filosofia per un momento. Qui l’ho ritrovata grazie ad Apollonia alla finestra
della cucina; dall’alto del suo regno ho compreso come sia necessario acquisire
uno sguardo totale per contemplare la realtà in maniera complessiva ed anche le
persone che ne fanno parte. Relativizzando tutto nello stesso tempo perché

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dall’alto le persone sembrano più piccole, meno importanti. È una lezione di vita,
ci aiuta a considerarci meno fondamentali, meno efficaci, meno efficienti, più
simili a formiche che corrono. È un invito a fermarci e riflettere».
«Bene mi dici, mio caro Crisostomo. Un racconto davvero interessante. Anche ad
Atene abbiamo molte donne così come descrivi la nostra romana matrona. Però
certo non tanto acute nello scandagliare».
«La grande capacità filosofica di Apollonia è pari alla sofferenza che ha vissuto.
Devi sapere che Apollonia ha affrontato vivaci contrasti perché in zona alcuni non
comprendono il significato profondamente filosofico dello stare alla finestra. Così
la scambiano per una persona impicciona, per usare un termine della vita
quotidiana, certo non atto alla statura intellettuale di questa donna, una delle
poche del pantheon dei pensatori dei nostri tempi moderni. Così ha affrontato dei
contrasti. Tuttavia la sua pazienza e capacità di soffrire è alta. Come dimostra la
vicenda che ti racconto appresso».
«Continua, caro Crisostomo, non vedo l’ora di saperne di più».
«Dunque devi sapere che Apollonia ha un marito. Un uomo buono e anche timido;
veste dimesso, svolge un lavoro umile e spesso ha turni di notte. Così la fatica
fisica lo tempra e gli ha fornito una grande umanità. A volte soprattutto d’estate,
il pomeriggio, inonda il circondario con la musica vintage da lui preferita, ad
altissimo volume per almeno un’oretta. Abbiamo un concerto gratis, di un buon
uomo che vive all’ombra della capacità filosofica della moglie e se ne nutre. Infatti
qualche tempo fa l’ho visto con un cane al guinzaglio. Ci siamo fermati a parlare,
gli ho fatto i complimenti per l’animale. E me ne ha raccontata la triste storia.
- È stato un incontro, mi ha detto. Una notte tornavo a casa dopo il turno di
lavoro e quasi stavo per investirlo con la macchina; sono sceso ed ho visto questa
povera bestia, spaventata tanto, per fortuna incolume, senza collare, senza
identificazione; sicuramente abbandonato per strada da qualche proprietario
sventurato come se ne trovano tanti in questa città che smarrisce il rispetto per i
viventi; così l’ho preso e portato con me -».
Che brava persona!, ho commentato ad alta voce apprezzando quel nobile gesto.
E pazienza se Apollonia ha una grande paura dei cani. Il marito ha salvato un
vivente, un gesto che da solo rende la persona meritoria presso tutti gli déi, mio
Sommo Platone e certamente anche tu avresti tenuto un comportamento simile».
«Bene davvero dici, mio Crisostomo. Il rispetto per i viventi è alla base della mia
filosofia. Lo trovi in alcuni dialoghi, nella vicenda delle anime che salgono e
risalgono la scala della complessità dell’esistenza, dalle forme più semplici a
quelle più composite. E nella storia che mi racconti c’è proprio tutto l’auriga del
mio mito, nella capacità di governare l’istinto e la ragione, individuando di volta
in volta il comportamento retto, umano, segnato e pervaso dall’atteggiamento di
pietà, che voi nel mondo romano direste di compassione e attenzione insieme, di
rispetto».
«Torniamo a parlare di Apollonia, donna di grandi qualità e tuttavia incapace a
sopportare i cani, anzi ne ha una grande paura. Così dopo aver visto il marito
tornare con il trovatello ha impostato un dibattito filosofico con lui, con il marito
non con l’animale, cercando di esporre le ragioni per cui esseri umani e animali
non sono adatti a vivere insieme nella stessa casa. Vicini magari ma insieme sotto
lo stesso tetto, proprio no. Devo dire da quanto mi ha raccontato chi era presente
che si è trattato di una stimolante argomentazione filosofica. Certo Apollonia è
molto superiore al marito per scienza argomentativa e capacità dialettica. Tu,
Sommo Platone, più di ogni altro puoi apprezzare l’abilità dialettica così avrei

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davvero desiderato la tua presenza ed assistenza nello spiegarmi alcuni sottili
passaggi. Ad esempio quando Apollonia ha detto che avere un cane in casa è
come vivere attanagliata dalla paura continua dello scatenarsi della ferinità
intrinseca in ognuno. Un concetto di alto livello di cui solo Apollonia è capace,
unendo argomentazione epidermica e gnoseologia fondata sugli assunti
psicologici di un cognitivismo-comportamentale fondato sul ricorso ai simboli più
profondi soggiacenti nella psiche»
«Cosa intendi esattamente, mio caro amico Crisostomo? Forse fai riferimento ad
aspetti specifici della ricerca filosofica che si svolge qui a Roma e sui quali non
sono tanto aggiornato. Se è così dimmi pure liberamente».
«Dunque la nostra cara amica filosofa Apollonia si è dovuta confrontare con le
passioni dentro di lei. Vedi cosa scatena un piccolo animale in un sensibile animo
di donna. Così ha deciso di lasciare la casa per fare chiarezza dentro di sé,
recandosi ad abitare con la figlia. Su via Pier Andrea Odraccas è scesa una
cortina innaturale, una specie di stupore ha pervaso un poco tutti noi. Senza la
nostra filosofa in finestra a scrutare le passioni nobili e i gesti quotidiani, ci siamo
sentiti tutti più orfani. A nulla sono valse le grida dei figli, le suppliche. Niente da
fare. Anche il marito si è esacerbato, lui che è tanto buono di animo ed alla fine
una sera lo ha detto anche lui: se non vuole tornare, sia rispettata dunque la sua
volontà! Così abbiamo trascorso molte settimane, nel silenzio, nella
preoccupazione, nella tristezza. Certo non tutti erano tristi. La Scuola filosofica
dei Numeri Pari di Via Odraccas un po’ gioiva, trovandosi così senza la principale
antagonista nel dibattito culturale. Anche per loro, alla lunga, la mancanza si
faceva sentire: non c’era più gusto a dibattere, a disputare; la cultura deve
nutrirsi di confronto anche intenso o acceso».
«Cosa mi stai dicendo ora, caro Crisostomo? Introduci un nuovo elemento, prima
a me sconosciuto! Hai parlato adesso di una Scuola dei Numeri Pari. Dunque di
cosa si tratta? Perché mi tieni nascosto un elemento di tale importanza?».
«Consentimi la sorpresa, Sommo Platone. È un elemento che rende Roma ancora
più vicina ad Atene. Abbiamo due distinte scuole filosofiche, a sinistra i Numeri
Dispari: guardano al cielo stellato, all’eternità, all’immensità del cosmo; a destra i
Numeri Pari ricordano la concretezza delle realtà terrestri con cui continuamente
fare i conti».
«Davvero ricca di sorprese Via Odraccas! Tanto simile all’Atene che conosco bene».
«Sommo Platone, è l’esempio pittorico raffigurato proprio nella Scuola di Atene, la
differenza nella gestualità tra te che indichi il cielo e Aristotele che indica la terra.
La differenza tra due filosofie riassunta lì in un gesto, qui nelle personalità e
situazioni che andrò raccontando».
«Ripeto: davvero ricca di sorprese Via Odraccas! Continua!».
«Dunque nella vicenda di Apollonia è intervenuto alfine un leguleio a farla
riflettere. Vedi, Sommo Platone, come al dunque le vie dell’alta riflessione
speculativa che guarda alle realtà sovrasensibile debba sempre unirsi alla
considerazione del valore delle realtà terrene. Oppure, per usare un’ altra
maniera, vediamo in questa vicenda come il leguleio abbia avuto il ruolo del tuo
auriga di grande memoria, portando alla razionalità la passione scatenatasi in
Apollonia. Fatto sta che da questa persona, di cui nulla sappiamo, alfine arrivò il
consiglio giusto. Il consiglio di tornare in casa, affrontare da vicino e una volta per
tutte le sue paure e riuscire a vivere, in attesa che il ricorso alla giustizia facesse
il suo corso. Così alfine Apollonia si è messa sulla strada di separare la sua
strada da quelle del marito, dopo tanti anni di vita comune».

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«E come è andata a finire?»
«Sommo Platone, la discussione filosofica è sedimentata in mesi e mesi di dialogo
quotidiano e minuto. Alla fine anche l’animale ne è stato contagiato. Me lo ha
raccontato Apollonia stessa in gran segreto. Pare che quell’animale fosse dotato di
parola, sicuramente la reincarnazione in quella forma di un sapiente del passato
che aveva compiuto scelte erronee. Così l’animale ha preso da parte il padrone e
lo ha implorato di lasciarlo andare, liberando Apollonia dal travaglio filosofico e
tutta la famiglia. Aiutare a riflettere, avrebbe detto il cane, era proprio il compito
stabilito dal dio nell’averlo mandato in terra. Ed ha chiesto anche di venire
liberato dalla forma canina. – Uccidimi, ti imploro – è stata l’espressione esatta
dell’animale – perché così potrò tornare a scegliere una nuova forma, migliore,
avendo compreso gli errori compiuti! – ed insisteva assai, l’animale, mentre il
marito di Apollonia non se la sentiva di sopprimere un vivente, neanche su
richiesta esplicita di questo. Ha preferito invece lasciarlo libero, portandolo in
campagna, per scegliersi di nuovo il destino migliore. Lo ha fatto con dolore e
rammarico, appena lenito dall’idea che era quella la precisa volontà della bestia.
Una storia commovente ed istruttiva, dove ragione e passione si fondono così
bene, non trovi?».
«Difficile, caro Crisostomo, parlare così di getto. Perché mi solleciti? Mancano
ancora tanti elementi».
«Eppure le passioni, quelle sì sono universali. Anche tu avrai vissuto in tal modo,
soprattutto negli anni della fanciullezza e dell’adolescenza. Facendo ricorso a
quell’epoca, cosa puoi dirmi? Ti sollecito, Sommo Platone, a dare a noi filosofi
dilettanti di quest’epoca e di questa zona i tuoi illuminati consigli e
insegnamenti».
«Dunque ti dirò, poiché tieni tanto all’argomento. Ti parlerò del dare consigli e del
ruolo dell’anima in questo. Sei pronto?»
«Ti ascolto, Sommo Platone».
«Ti farò allora degli esempi, tratti dalla vita quotidiana e dalla politica. E non ti
sembri che stiamo andando fuori dal nostro discorso, perché così non sarà.
Dunque il primo dovere di chi dà consigli a un uomo infermo che segue una dieta
nociva alla salute è quello di cambiar sistema di vita; le altre indicazioni verranno
solo se egli accetta con convinzione queste disposizioni. Se, invece, non vuole
lasciarsi convincere, un vero uomo e un medico stimabile rifuggirà dal fornire
altri consigli, perché chi continuasse a fare ciò sarebbe tutto l’opposto di un vero
uomo e di un esperto di medicina. Lo stesso vale anche per lo Stato, sia quello in
cui uno solo ha il potere, sia quello dove molti comandano. In effetti, se lo Stato
procede sulla retta via, come si deve, e ha bisogno di qualche utile consiglio,
sarebbe una scelta intelligente darglielo, dato che si tratta di gente per bene. Ma
chiamerei uomini senza dignità chi accettasse di dare suggerimenti a quei politici
che sono completamente fuori strada per quanto riguarda la giusta forma di
governo e non vogliono rimettersi in carreggiata per nessun motivo, ed anzi
obbligano i loro consiglieri a non modificare la costituzione e a lasciarla com’è,
pena la morte, forzandoli a prendere decisioni finalizzate alle loro voglie e ai loro
desideri, per vedere in qual modo questi possano essere soddisfatti sempre più
agevolmente e prontamente. Viceversa, chiamerei vero uomo chi non accetta di
dare consigli in queste condizioni. Attenendomi saldamente a tale criterio, quando
uno chiedesse il mio parere sui problemi più importanti della sua vita – ad
esempio l’acquisto di beni materiali o la cura del corpo e dell’anima - se mi risulta
che egli vive giorno dopo giorno secondo una regola e, una volta orientato, è

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disposto a seguire le indicazioni che gli si danno, ben volentieri gli darei consigli,
e con lui non mi fermerei ad un rapporto superficiale. Invece non andrei mai di
mia spontanea iniziativa a consigliare uno che non sente affatto il bisogno dei
miei suggerimenti e che, chiaramente, quand’anche li ricevesse non ne farebbe
tesoro in alcun modo; neppure se fosse mio figlio lo forzerei in tal senso. Non
credo che sia lecito costringere a un certo comportamento il padre e la madre,
anche se la condotta che essi hanno scelto non dovesse andarmi a genio, a meno
che non siano stati colpiti da una malattia mentale. Non ha senso, infatti, né
rendersi odiosi con continui ammonimenti, né diventare loro succubi a suon di
lusinghe, soddisfacendo a desideri per i quali io stesso non vorrei vivere. È
questa, dunque, la mentalità che ogni uomo di senno dovrebbe avere riguardo
alla sua città. Faccia sentire la sua voce se lo Stato non gli pare ben
amministrato, se pensa che le sue parole non cadranno nel vuoto, e se in tal
modo non rischia la vita. Ma non ricorra alla violenza per costringere la patria a
mutar regime, tanto più se questo suo miglioramento dovesse avvenire al prezzo
di esili e stragi di cittadini. Stia calmo piuttosto, ed auguri prosperità a se stesso
e alla collettività. Ti è chiaro ora il mio pensiero?»
«Mi è chiaro».

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Autunno

Platone non torna in autunno. La notizia è arrivata per lettera, un testo che
conservo gelosamente, accanto alle altre missive di quel periodo così intenso,
tenute insieme anche grazie ai ricordi delle preziose conversazioni avute con
Platone. Il filosofo si era dimostrato capace di farsi prendere per mano
nell’esplorare via Odraccas ed i suoi abitanti. Parlando, camminando, esplorando
i luoghi, soprattutto mettendomi in ascolto delle sensazioni e delle impressioni,
sforzandomi di guardare con gli occhi nuovi di Platone quel dedalo che ben
conoscevo, alla fine avevo capito che per il filosofo greco questa nostra strada era
un po’ come Atlantide. Un continente sconosciuto ed archetipico dove le persone
diventano una rappresentazione che le trascende. Le persone e i luoghi si
trasformano, assumono una veste archetipica, rinviano a quei mondi infiniti
dentro di noi, modelli di idee preesistenti, indicatori di quel desiderio di unità che
fa parte del bagaglio degli esseri umani.
L’entusiasmo mi porta a precorrere i tempi. Non devo farlo. Andiamo con ordine.
Dunque cominciamo col trascrivere la prima lettera di Platone, peraltro molto
breve. Eccola.

«Platone a Crisostomo con l’augurio di felicità.


Caro amico in questi mesi autunnali non riesco a venire di nuovo a Roma. Gli
impegni dell’Accademia sono pressanti e gli allievi hanno bisogno del maestro. Ho
molto riflettuto e penso che questa volta possiamo utilizzare la via epistolare per
comunicare tra noi, in attesa di rivederci ancora. Scrivimi e ti risponderò.
Manteniamo il dialogo così, in una maniera insolita anche per me».

La delusione era cocente. In più la lettera mi venne consegnata in una giornata di


pioggia, quando è indispensabile rimanere in casa e il mondo si fa grigio, fuori e
un poco dentro di noi. Tempo di pensieri, autunno dunque. Così mi accinsi a
scrivergli. In questo modo.

«Crisostomo a Platone, salve e tanta fortuna. Ripensavo a quanto ci siamo detti


sul comportamento retto di chi ha a cuore il destino della sua anima immortale.
Sto cercando di applicare quanto imparo da te ai miei vicini filosofi ed al
circondario. In questo modo cerco di trovare un aiuto nella ricerca della vera
sapienza, perché comprendo l’importanza di esplorare le emozioni e arrivare in
qualche modo più vicino nella ricerca della verità, senza farmi sviare. Mi dicevi,
Sommo Platone, che l’anima è immortale e che subisce un giudizio e paga pene
gravissime se ha commesso crimini in vita, una volta separata dal corpo. Per
questo motivo si deve credere che essere vittima di gravi torti e ingiustizie è un
danno minore che l’esserne causa. Tuttavia l’uomo che per aridità spirituale è
amante delle ricchezze non vuole neppur sentir nominare questa verità e se pure
se le sente ripetere, ne fa a suo piacimento oggetto di riso e senza scrupolo
continua ad arraffare dove gli capita tutto ciò che ritiene di poter mangiare o bere
o usare per la soddisfazione di quel piacere di bassa lega e senza grazia che
impropriamente chiamiamo afrodisiaco. Ma, in verità, egli non è che un cieco, è
incapace di vedere come al seguito del desiderio di ammassare venga l’empietà,
male che sempre s’accompagna a ciascuna ingiustizia. E fatalmente l’uomo

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disonesto debba tirarselo dietro, mentre s’aggira per questa terra e poi ancora
quando fa ritorno sotto terra in un viaggio che da ogni punto di vista è del tutto
miserevole e spregevole. Se ben ricordo così una volta mi dicesti e ho fatto tesoro
di queste tue indicazioni. Tornano utili per parlarti della filosofa Carolina. È una
donna che non passa inosservata. Cordiale e aperta, sempre generosa di parole,
pratica, si autosostenta con lavori umili, molto umili, per mascherare la sua alta
levatura intellettuale. È una donna con una storia. Proviene da una famiglia che
ha sofferto. Lei stessa si è separata dal primo marito, con dolore e patimenti. Ha
scelto di dimorare in periferia per un contatto vero con i problemi. Conosce tutto
e tutti, perché ha tatto, disponibilità, nobiltà d’animo. La sua agorà è il locale
della parrucchiera, dove si ferma e si intrattiene per ore, esortando alla filosofia
ed alla considerazione del vero significato delle cose terrene. Ed è rispettata ed
ascoltata. Donna resistente alle incomprensioni. Donna sola, attenta agli altri,
adusa ad evitare fraintendimenti perché conosce l’animo umano e sa come il
serpente della tentazione e della maldicenza possa annidarsi in chi cerca la
sapienza ed il cielo. Mi ha raccontato una volta del tenace dibattito filosofico con
Apollonia. Anche Apollonia mi ha raccontato la sua versione. Ed ora sono in
grado di ricostruirlo per te, Sommo Platone. Dimmi con un tuo scritto in risposta
a questo mio se ti interessa e se posso mandartelo. Sarà una lunga missiva e
pertanto te ne chiedo prima permesso».
La risposta affermativa giunse rapida grazie ai corrieri postali, capaci di
percorrere la distanza Roma-Atene e viceversa nel giro di pochi giorni. La
sapienza può attendere, certo, però quando viene richiamata e innescata, va
veloce come il vento!

La disputa
È autunno. Una giornata romana, fine ottobre caratterizzata da cielo sereno,
intenso, quasi cobalto e temperatura mite. Viviamo un momento di calma nelle
strade del quartiere, una pausa insolita di fine mattina, una fase di riposo, uno
stacco, un sospiro lungo e profondo, rilassante, nella corsa frenetica che ognuno
corre per rispettare gli impegni. Apollonia arriva dal fondo della strada, veloce,
circospetta, come al solito tesa ed attenta verso tutto e tutti; Carolina esce dal
portone, con la borsetta penzoloni in una mano, con l’aria scanzonata, distratta,
padrona di sé, sicura del mondo, del suo mondo, con i tacchi alti, si sente
dominatrice, proprietaria della terra. Apollonia va con le scarpe basse, un piede
velocemente dietro l’altro, pensa alle vette del cielo, alle altezze che l’anima
raggiunge quando contempla l’infinita immensità.
Carolina si trova di fronte Apollonia. Il cielo incontra la terra. E si dividono lungo
la linea di spartizione di differenti modalità di sapienza di due donne sapienti.
«Tuo marito – comincia Carolina – mi è venuto a cercare».
«Ma che dici, non ci credo, non può essere».
«O ha un sosia oppure era lui, con quello sguardo sfuggente e affamato di scienza
e donna, con gli occhiali spessi. Mi è venuto a cercare».
«Ti dico che non ci credo».
«Devi credermi, se te lo dico, che interesse avrei. Non vuoi chiedere? Lo riferisco
uguale»
Nessuna intende cedere. Nemmeno un millimetro. La vera sapienza che possiede
entrambe sta considerando la consistenza dell’avversaria, la dimestichezza con le
parole e le argomentazioni. La strada intanto si trasfigura, non è più quella che

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conosciamo, mezza asfaltata, mezza selciata, tutta sconnessa. Potresti
ribattezzarla via Beirut e invece è via Odraccas, periferia romana, dove Roma
diventa il centro di tutte le città del mondo. Dove la sapienza delle due donne
riassume al suo interno la sintesi di Oriente e Occidente, della razionalità e della
satrapia. La terra vuole irrompere nel cielo, Carolina vuole divampare; Apollonia
sta contenendo l’impeto, alza il suo sguardo e vede lì disegnate nel blu cobalto le
grandi divinità che la guardano e apparecchiano la disputa. Capisce che deve
accettare il confronto.
«Ebbene sia come desideri. Dimmi pure. Cosa voleva da te mio marito?»
«Gli dei siano ringraziati! È venuto a parlarmi perché è scontento e solo; ha
proposto di unire le nostre uniche individualità in un nuovo sodalizio filosofico ed
umano. Era incontenibile, desiderava a tutti i costi un mio sì immediato. Mi è
sembrato giusto riferirlo: bada a lui, non può andare in giro a fare proposte
filosofiche così, senza averne titolo, parlando anche a nome tuo. Non è legittimo,
tra noi non si usa».
«Non è vero – risponde l’altra. Non credo mio marito sia tanto audace con te. Si
trova bene con la mia filosofia e la nostra casa è un mondo ordinato ed
organizzato. Le giornate vengono scandite dalle preghiere agli dei e dalla
meditazione sulle profondità dei misteri del firmamento. Non c’è spazio per
l’irruzione di una mondanità senza senso come quella che proponi e disveli in
maniera così brutale ed oscena. Non credi?»
«Non credo anzi non capisco cosa dici».
«Forse mio marito ha voluto metterti alla prova, per vedere se la tua filosofia
rende capaci di resistere alle lusinghe. Non resisti e dunque vieni da me. Che
cosa desideri davvero?».
Silenzio tra loro. Per un lungo momento, poi Carolina scoppia, fa emergere tutto
l’impeto, l’accecante afflato filosofico.
«Molto male te ne verrà. Hai voluto burlarti. Hai voluto approfittare di una donna
fragile e sola! Male te ne verrà. Male si riverserà su tutta la tua famiglia. Giocare
sulla fragilità, lo sai, approfittarti, brutalizzare la mia ricerca interiore così...
ebbene sei una donna inqualificabile. Cosa eri nella vita precedente, cosa tornerai
nella prossima? Che bisogno avevi, cattiva donna, con un cattivo cattivissimo
uomo, che bisogno avevi di cercare delle prove? Pensi a me come un’arpia,
predatoria, bramosa, avida. No. Sei infima, anche se stai alla finestra tutto il
giorno e dici di contemplare con distacco le cose di quaggiù. In realtà sei una
meschina ed inetta dilettante della somma arte del pensiero. Indegna di vivere qui
tra noi, non vedi i problemi di quell’essere che ti si accompagna, ignobile con
ignobile. Povera me, aveva ragione il mio maestro a mettermi in guardia dalla
scuola dei numeri dispari, dove si annida malignità, dove la maldicenza è
stabilmente in agguato!»
Intanto una piccola folla si era radunata intorno. Il panorama era cambiato.
Nuvole nere ora si addensavano ed il cielo era diventato grigio, con decise
striature scure. Carolina aveva il viso in fiamme, i capelli agitati in disordine
estremo, tutta la figura scossa da un tremito profondo, i lineamenti tirati, le mani
strette a pugno, la borsetta stava per diventare una clava calata sull’avversaria
perché quella disputa la scuoteva profondamente, fino in fondo all’animo e le
dava calci nel cervello.
Apollonia stava calma.
«Un dèmone grande ti prende adesso, vedo – disse pacata. Poi alzando la voce:
«un dèmone davvero ti attanaglia. Sappi che non ti credo. Nella scuola dei numeri

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dispari conta la fedeltà, conta la bontà, nessuno potrà mai crederti. Insieme
siamo, insieme resteremo! Ora ti saluto, perché la vera sapienza rifiuta questa
disputa insensata e tanto basta!»
E detto così andò via, lasciando senza parole la sua avversaria e tutto il gruppo
dei sostenitori radunato lì intorno.
È stato un grande esempio, Sommo Platone. Una disputa senza paragoni come
non se ne vedeva da molto tempo. La filosofia ha disvelato tutta la potenza
argomentativa. E si spiega alla luce di quanto accadde in seguito con l’arrivo del
cane. Qualche problema c’era al terzo piano di via Odraccas, zona del regno di
Apollonia e della sua famiglia. Guardare fuori, guardare al cielo, per riuscire
sempre di più a guardarsi dentro: ecco il compito della filosofia del futuro, che
Apollonia deve ancora comprendere. Strada irta di pericoli e difficoltà, porta ad
attraversare un inferno quotidiano, avendo per bussola la propria saggezza, le
risorse interiori più intime, una visione etica del mondo e la risorsa della filosofia
a fronte dei problemi. Le passioni forti che quel giorno squassarono l’aria hanno
mostrato a tutti in un colpo solo la consistenza filosofica e il grande valore umano
delle due donne, attaccate allo stesso osso, una desiderosa di strapparlo all’altra;
l’altra incredula di poter affrontare e fronteggiare un pericolo da cui si riteneva
del tutto immune. E lui, intanto, il marito di Apollonia, elemento centrale e
nascosto, premio della vincitrice, meditava già la sua fuoriuscita, la decisione di
aprire una terza strada filosofica, grazie al cane trovatello, al soccorso dato a
quell’orfano e profugo animale. Dando vita alla terza strada, della pietà e della
misericordia, la compassione verso gli altri esseri viventi, indicando la strada di
una filosofia planetaria. Quella che ancora non abbiamo raggiunto. Ed ora,
Maestro mio, termino questo racconto ed aspetto con ansia la tua opinione.
Crisostomo saluta dunque Platone.

Platone a Crisostomo, salute.


La tua lettera è stata per me motivo di grande gioia. Hai esplorato, senza dirlo,
ma accennando, aspetti reconditi ed importanti dell’animo umano. La Sibilla,
come dice l’antico poeta, non dice ma accenna. Così hai fatto nel racconto. Hai
mostrato quanto la filosofia non ci metta al riparo dai dilemmi, dalle rivalità, dalle
gelosie e dalle miserie di noi esseri umani. Non ripara però fornisce una marcia in
più se riusciamo a entrare nel vero spirito della sapienza, o meglio della ricerca
della sapienza. Ho riflettuto che dietro il racconto si cela qualcosa di simile
all’allegoria degli uomini incatenati in una caverna. Chiedevi un parere, alla fine
della tua lettera. Ecco dunque il mio, dopo aver letto e riletto la disputa tra
donne, entrambe impegnate in una realtà fittizia che credono vera e poco capaci,
dominate dalle passioni, di alzarsi alla contemplazione di qualcosa di più. L'idea
del bene è il limite estremo del mondo intellegibile e si discerne a fatica perché ci
troviamo immersi nelle attività quotidiane che impegnano ed assorbono energia.
E siamo impegnati a tenere a duifenderci sempre dagli altri e dalle loro richieste
di entrare a forza nel nostro mondo interiore. Tuttavia anche così possiamo
scorgere l’idea del bene e quando la si è vista attraverso l’esperienza e la
riflessione su di essa, allora bisogna dedurre che il bene è per tutti causa del
giusto e bello: nel mondo visibile ha generato la luce e il suo signore, in quello
intelligibile è lei stessa a elargire verità e intelletto e chi vuole avere una condotta
saggia sia in privato sia in pubblico deve contemplare questa idea. Allo stesso
tempo non mi pare ci sia qualcosa di strano se uno, passando dagli spettacoli
divini alle cose umane, fa delle brutte figure e appare del tutto ridicolo, in quanto

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si muove a tentoni e prima di essersi ben abituato all'oscurità di quaggiù è
costretto a difendersi dalle ombre della giustizia, del sensato e dell’insensato o
dalle immagini che queste ombre proiettano e a contestare il modo in cui esse
sono interpretate da coloro che non hanno mai veduto la giustizia in sé. Voglio
dirti, caro Crisostomo, in attesa di incontrarti e parlarne di persona, che al centro
del nostro pensare e del nostro impegno possiamo e dobbiamo porre l’educazione
degli altri e di noi stessi prima di tutto. L’educazione, la pratica della filosofia, la
ricerca della sapienza, non sono da instillare, come un liquido o un materiale che
versi in un contenitore. In questo caso una serie di nozioni con cui riempire la
testa di un allievo. L’educazione non è come la definiscono certuni che si
professano filosofi e si sentono invece papi o re: sostengono di instillare la scienza
nell'anima che non la possiede, quasi infondessero la vista in occhi che non
vedono. Non si tratta di infondere la vista, perché presupponiamo che ciascuno
abbia la possibilità di vedere; allo stesso modo non si tratta di porre dei
contenuti, perché sappiamo che ognuno di noi possiede intelligenza e raziocinio.
Tuttavia questi da soli non bastano. Si tratta invece di fare in modo che ognuno,
rivolto alla sapienza, sia in realtà capace di andarla a cercare nella giusta
direzione, per riuscire a orientarlo dalla parte della ricerca del vero sapere.

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Prologo dell’ inverno

Finalmente Platone è tornato a Via Odraccas, fucìna filosofica senza pari, come
lui stesso mi disse nella lettera con cui annunciava il viaggio. Si era in inverno,
tempo adatto per una nuova tappa della riflessione in questo nascosto però
sapiente quadrante di Roma. Tempo opportuno, perché era un inverno
insolitamente mite, adatto ai viaggi per conoscere altre figure di rilievo. In
particolare era il tempo di far incontrare a Platone un filosofo uomo, rara avis in
quella via pullulante di genio femminile. Prima è necessario spiegare qualcosa di
più circa le condizioni del nuovo incontro invernale ed i motivi di fondo.
Infatti quei mesi con Platone, a volte di persona, altre volte per lettera, stavano
producendo dei cambiamenti nella sua filosofia e nell’approccio che avevamo
insieme. Incontrarlo significava uno stimolo nuovo a leggere ed approfondire,
interrogando autori antichi e moderni, investigando le ricerche altrui sul senso
della vita e sul senso della sapienza. A volte si dice che dopo Platone e dopo
Aristotele i problemi filosofici sono rimasti i medesimi e non si può prescindere
dalle loro risposte o dai loro interrogativi irrisolti.
Ebbene non credo sia vero e neppure Platone lo crede. Il mondo è più vasto della
filosofia, anche quando si tratti della sapienza più ampia e onnicomprensiva e
così il vero pensatore deve collocarsi nell’ampio, amplissimo orizzonte
dell’universo. Platone era affascinato, ad esempio, dalla quantità di conoscenza
che si poteva trovare in via Odraccas e il viaggio da Atene a Roma e ritorno oltre a
riempirlo di stupore lo metteva in una condizione esistenziale nuova, pronto come
non mai a capire e ad apprendere.
Una sera si era introdotto un elemento nuovo nella conversazione. Un elemento
scientifico: Platone era interessato alle costruzioni, alla logistica di quella Roma
dalle dimensioni molto diverse rispetto alla sua Atene. Metropolitane, intasamenti
di traffico, inquinamento, ritmi di vita, influenze di tutto l’assetto urbano sulle
concrete persone e via dicendo. Così parlando di quell’infinitamente grande,
andammo inevitabilmente a scivolare verso l’infinitamente piccolo e a disquisire
degli atomi e della struttura degli elementi e della materia. Mi citava allora
Democrito e i suoi, che conosceva per via diretta molto meglio di me; nulla però
sapeva del superamento delle leggi newtoniane operato dalla meccanica
quantistica. E così ci vollero diverse appassionanti ore a chiarire, spiegare e
discettare, da Newton ad Einstein, entrando nei misteri e negli aspetti ancora
poco chiari delle leggi che regolano l’universo; diverse da quelle gravitazionali che
sembra valgano per i corpi di un certo ingombro ma non per il mondo atomico e
subatomico. Ecco dunque qualcosa di nuovo, ancorché sconosciuto ai più, che si
verifica a livello dell’infinitamente piccolo e quando abbiamo a che fare con la
velocità della luce e con le distorsioni temporali.
Ne parlammo tutta la notte e alla fine Platone convenne che molto di nuovo si era
aggiunto e di tanto allargato il campo della conoscenza. L’uomo saggio, aggiunse,
segue quel che Socrate aveva posto a precetto generale del suo agire: so di non
sapere, vero sigillo della filosofia, vero antidoto al fondamentalismo e al desiderio
di malsano potere sugli altri e sul mondo.
Tornando poi a più vicini discorsi, Platone convenne sulla povertà della
contemporanea conoscenza della filosofia antica presocratica, avendo perso quasi

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tutto e non essendoci rimasti che frammenti. Mi disse che in effetti quelle poche
nozioni a noi giunte, erano poca cosa rispetto alla ricchezza di un modo di
pensare del tutto diverso dall’odierno, fin nell’impostazione del linguaggio. «A
nulla serve, mi disse, ricostruire da pochi frammenti teorie e vicende, se prima
non si mettono al centro almeno due aspetti peculiari del modo di pensare
dell’uomo greco».
«A quali ti riferisci in particolare?»
«Il primo è la mancanza di distinzione tra soggetto ed oggetto che nasce invece
nella filosofia moderna ed è alla base di tante teorie. E la seconda è di natura
mentale e grammaticale, riguardando il linguaggio del nostro mondo greco, pieno
di particelle di negazione e di quella assimilazione tra l’essere e l’esistente che ha
prodotto una metafisica con estimatori e detrattori, irriconoscibile in altre
culture».
«Sommo Platone, per ore e giornate intere vorrei ascoltarti su questi e tanti altri
aspetti del vivere e del pensare. Desidero però riportarti al motivo di questa tua
visita ed ai personaggi che ancora ci attendono qui. Attraverso di loro confido di
poter entrare in modo più deciso nella sapienza e approfittare della tua lucida
considerazione».

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Inverno

Così dunque si annunciava quell’inverno: mite. La presenza di Platone lo rendeva


particolarmente interessante perché mancava ancora un tassella alla galleria dei
filosofi di Via Pier Andrea Odraccas. Mancava il più formidabile dei
rappresentanti della sapienza, un uomo positivo il cui apporto diventava ogni
giorno fondamentale. Apparteneva alla schiera della Scuola dei Numeri Pari: di
una persona concreta si trattava, aperto al cielo eppure saldamente radicato sulla
terra. L’avevo appositamente lasciato per ultimo, perché a Platone avrebbe dovuto
ricordare le sue esperienze giovanili a Siracusa.
Si trattava infatti di un uomo fattosi da sé, versato in molti settori, che cercava
sempre di compensare le mancanze dovute alla storia personale. Tra noi si era
creato un clima di reciproca fiducia, sebbene appartenessimo ai diversi versanti
di quella strada ispirata alla sapienza. Da parte mia coltivavo il desiderio di
aiutarlo. Infatti avevo notato subito le sue mancanze più grandi. Quella carenza
di educazione che lo faceva sembrare rozzo e scortese fin dal linguaggio e
l’evidente incapacità di mantenere amicizie di alto livello. Ed in alcuni momenti si
sentiva agire in lui la mancanza di unità ed armonia interiore. Pensavo fosse
certamente un uomo santo in mezzo agli empi, un uomo saggio e dotato di
ragione. Una persona siffatta non sarà mai possibile ingannarla del tutto
sull’anima delle persone che sono così diverse da lui ma non ci si può
meravigliare se gli accade quel che càpita anche ad un buon pilota di nave, che
non viene sorpreso dall’avvicinarsi della tempesta però non può prevederne
l’intensità e deve soccombere alla sua improvvisa violenza.
«Dimmi dunque, caro Crisostomo, del tuo vicino la cui storia hai lasciato alla fine
di questo viaggio».
«Sommo Platone, spero nell’aiuto degli dèi per poter descrivere in modo esatto
così grande concentrazione di scienza. Ma non voglio illuderti. È un uomo che
cerca in tutti i modi di elevarsi. Ecco, vorrei descriverlo esattamente».
«Vai pure avanti, mio caro».
«Partiamo allora dalla casa. Come vedi è una villetta con un ampio giardino
intorno ed una terrazza. Eppure la trovi sempre chiusa, anzi sbarrata, con le
persiane serrate anche quando lui si trova in casa. È in stato di riflessione
costante, nel silenzio, perché quando torna dal lavoro sente il bisogno di ritirarsi
in se stesso per recuperare energie psichiche».
«Ecco un elemento interessante, caro Crisostomo, tuttavia non mi hai detto il
nome di questo nostro filosofo».
«Lo soprannominiamo Oreste, perché dentro di lui alberga lo spirito della giustizia
e il desiderio di lasciare una traccia significativa nel mondo. È esuberante,
generoso, sempre pronto a parlare di se stesso, a prospettare soluzioni anche
quando non vengono richieste perché si vede che c’è un movimento interiore
dell’animo che lo spinge naturalmente verso gli altri».
«Mi ricordi Sofocle con la sua Antigone, spirito nobile e generoso, interessato al
bene degli altri ed al senso di giustizia».
«Immediatamente hai compreso, Sommo Platone, la caratteristica di questo mio
Oreste. Ignorante, nel senso della educazione formale e scolastica e tuttavia
sapiente per quella immediata spinta di interesse verso gli altri. Soffre i retaggi di
un passato che indovino oscuro e intende riscattare se stesso e la sua dimora».

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«In che modo dunque? La sua anima cosa avrà scelto nella grande pianura al
momento della reincarnazione nel grande ciclo della vita e della morte?».
«Sommo Platone non saprei dirlo con certezza. Vorrei lo dicessi tu, alla fine di
questo racconto. Racconto che intende svelare la sofferenza di Oreste, perché
credo sempre di più che questa sia un presupposto della sapienza: solo chi soffre,
aprendosi al sapere, riesce a migliorare; se chiude la strada, si dirige verso il
rancore e l’odio»
«E tu cosa pensi?»
«Penso che l’interesse che nutro verso Oreste, e vorrei trasmetterti, indichi come a
volte le due strade si aprano davanti a lui e persegua una o l’altra, senza rendersi
conto di quale scegliere una volta per tutte. Molto dipende da chi incontra.
Tuttavia ancora una volta non vorrei anticipare il racconto».
«Allora procedi secondo il modo più opportuno».
«Sempre volentieri. Della casa ti ho detto, di quanto sia evidente quel vivere
rinchiuso, quasi prigioniero di se stesso. A tal proposito si racconta una vicenda,
forse vera, forse mitica, comunque eloquente. Pare che in quella casa, prima,
abitasse una famiglia di sofferenti con un figliolo affetto da turbe mentali; un
ragazzo fattosi uomo che a volte urlava, ululava, si dava alla disperazione senza
motivo, gettando i genitori nello sconforto. Via Odraccas dunque ha visto da
vicino la sofferenza più terribile: quella fisica trascorre e si calma, la sofferenza
emotiva è forte, assai più forte, la tieni sotto controllo ma quando è sistemica le
medicine tolgono certamente da una parte il dolore e tuttavia allo stesso tempo
riducono lucidità e serenità di giudizio. Per lunghi anni a quanto pare la
situazione sarebbe andata avanti, causando gravi sofferenze alla famiglia ed alle
persone vicine, tanto da segnare a dito quella abitazione come la casa dei malati,
la casa dei matti, per tenersene tutti lontani, gettando anatemi odiosi. Con gli
anni i genitori sono deceduti ed è rimasto solo quel ragazzo, oramai adulto, in
balia di se stesso. Sembra, dai racconti frammentari raccolti, che altri parenti lo
abbiano fatto ricoverare, non essendo possibile alcuna forma di civile convivenza.
E così l’abitazione divenne abbandonata, ancora più in rovina se possibile. A
questo punto entra in scena Oreste, venuto da lontano, dall’altra estrema
periferia, con un forte desiderio di riscatto sociale, di farsi benvolere da tutti e in
tutti i modi, con il bisogno forte di lasciarsi il passato alle spalle, dunque
desideroso di autonomia. E oramai già adulto. Così prese una decisione molto
difficile, dopo ampia ed attenta riflessione».
«Vicenda appassionante. La sua anima mi sembra protesa verso l’interiorità,
verso quel mucchietto di polvere che sembra insulsa e senza valore ed invece è
desiderata assai da quanti hanno a cuore la sapienza e non l’apparenza.
«Bene dici, Sommo Platone, anche a me è venuta la stessa considerazione.
Proseguo con il resto della storia. Mettiamoci comodi però perché è una lunga
avventura nell’Italia di oggi e nell’animo umano allo stesso tempo».
«Ti ascolto, attento e partecipe».
«Oreste decise di affrontare direttamente la questione. Ne andava del suo futuro.
Era sulla strada della sapienza, si rendeva conto che l’autonomia individuale è un
presupposto per la stabilità di ogni persona e per l’equilibrio tra la vita e le opere,
perché l’equilibrio interiore si nutre attraverso un sano distacco dagli oggetti
senza tuttavia poterne fare a meno del tutto. E oggi la sua casa è davvero
minimalista, c’è l’indispensabile per vivere e nulla di più, nessun lusso, nessun
libro, niente di superfluo, ed il buio è per proteggersi dallo sguardo indiscreto
degli altri e privilegiare il luogo interiore, lo sguardo interiore. Oggi Oreste è molto

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avanti; quando ha cominciato il percorso si sentiva incerto e titubante, tuttavia
spinto dentro dalla necessità di andare avanti ed imparare lentamente, come
appunto sa fare il vero sapiente. E in più non aveva maestri, solo una voce dentro
di sé. Così quella stessa voce lo ha portato a dover conoscere quel giovane
proprietario così malato che tuttavia possedeva ancora la piena proprietà della
casa, sebbene ridotta ad un vero rudere, tanto malandata e trascurata. I due si
sono incontrati in ospedale, si sono parlati a lungo, hanno insieme condiviso
sofferenze, gioie e paure, ansie del futuro e domande sul presente. Al termine del
lungo percorso di contatto umano, di pacificazione interiore, di ricerca di
significati, Oreste ha ottenuto la vendita ed è diventato il proprietario. Con i soldi
versati in cambio dell’acquisto ha garantito al malato un’epoca di serenità e
stabilità, perché sapeva che quella mente poteva trovare pace attraverso la via
della sicurezza e della stabilità economica. E sono sicuro che Oreste è stato
generoso, non tirato, come poi dicono le malelingue e le calunnie di chi porta
dentro di sé invidia e gelosia».
«Il vero filosofo è certamente sensibile alle problematiche delle persone che vivono
attorno a lui. Mi ricordo di Socrate che anche in punto di morte dava disposizioni
per i piccoli debiti, tenendo a lasciare dietro di se tutte le situazioni in ordine. È il
presupposto del vero sapiente: essere attento a tutto e tutti e non perdersi dietro
le astrazioni».
«Sagge parole davvero. Ed infatti come ti ho detto Oreste è bene incamminato
sulla strada retta, nonostante abbia delle cadute a causa della solitaria
esperienza di vita e dei limiti culturali di una formazione poco approfondita, che
sta cercando di superare».
«Dimmi di più, caro Crisostomo».
«Sono le passioni a dominare in questi casi. Bene tu lo hai descritto con il mito
dell’auriga, che esattamente coglie la realtà di queste persone vicine alla sapienza
ed allo stesso tempo lontane nel momento in cui danno ascolto alle sirene che
acuiscono tormenti interiori. Come posso descrivere questi momenti?»
«Non credi che il modo migliore sia raccontarmi degli episodi?»
«Hai ragione. Te ne racconto due».
«Inizia con il primo allora».
«Il primo riguarda me. Un giorno arriva Oreste con camminata decisa, a testa
bassa, si dirige verso di me che stavo in strada a consulto con un luminare, un
vero organicus, come diciamo noi romani, non un mechanicus, bensì un’artista
accordatore delle automobili, i veicoli che servono a trasportare lentamente da
una parte all’altra della città. Ebbene arriva e mi dice: – Perché hai parlato con
Apollonia? Lo sai che mi è nemica. Se parli con un mio nemico diventi nemico. E
poi mi hanno detto che ci sei uscito a lungo, addirittura l’hai invitata a casa tua a
discorrere e preparare un trattato di etica. Perché lo fai? Perché ti metti contro di
me, eppure ti stimo. Rispondo: – Amico sei stato male informato. E lui insiste: –
Penso proprio di no, sbagli. Ed io ad aggiungere: – Insisto: hai ricevuto
un’informazione errata. E poi la mia attitudine è nel cercare di mantenere buoni e
positivi rapporti con tutti. La conversazione si è chiusa lì perché eraa troppo
posseduto dal démone di vedere nemici ovunque. Allora ho scoperto un mondo
dentro il mondo. Vuoi che te ne parli?»
«Naturalmente. È affascinante».
«Il collegamento è col secondo episodio. Un giorno mentre sto in casa sento un
gran vociare. Impossibile non ascoltare tanto ad alta voce si svolgeva il
contraddittorio. Apollonia e Oreste discutevano. Anzi no, urlavano. Oreste

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strepitava più che poteva: – Non mi devi dire niente! Non c’è niente di male,
l’allarme suona a casa mia, è fatto per questo! Tu a me non devi dire niente,
niente, niente!!!! –. Urlava a più non posso, Sommo Platone, con una veemenza
impressionante, minacciando, ingiungendo, deridendo, sottolineando la sua
correttezza e dirittura. Il motivo del contrasto: l’allarme di casa che aveva
suonato. Un falso allarme, naturalmente, un contatto, un qualcosa portato o
mosso dal vento che aveva scosso i sensori e l’equilibrio del vicinato. In inverno,
si sa, la filosofia attecchisce di meno ed arriva, con il freddo, più veloce il
nervosismo e lo squilibrio, che dalla natura si trasferisce agli esseri umani. È un
meccanismo che noi sapienti, cercatori di saggezza del lato Sinistro della via,
bene conosciamo e padroneggiamo. Apollonia da parte sua era mite, con lo
sguardo basso come al solito, però certo un poco sorniona perché diceva
sottovoce qualcosa. Poi alzando la voce eruppe in una frase memorabile, da
manuale di aneddotica filosofica e che ti invito a tenere a mente».
«Dimmi pure, mi affascina la sapienza stradale che vedo qui realizzata,
peripatetica nei fatti e nelle movenze».
«Ebbene disse: – E tu allora che porti qui in casa donne di facili costumi, eh, che
esempio di sagace sapienza conferisci a tutti noi? –. A quella osservazione Oreste,
come riporta bene il suo nome, venne preso dalla furia della vendetta,
smaniando, agitandosi, urlando a gran voce frasi apotropaiche di antichissimi
scongiuri. Tanto che dal balcone di sopra uscì il padre di Wanda, con la camicia
fuori dai pantaloni, scarmigliato completo, la barba incolta, pingue come è,
preoccupato, tirato in volto. E fuori dai denti decise di usare il tipico dialetto del
luogo – Ahò! – urlò per sovrastare Oreste – Se scendo te faccio smette’! Anvedi! –
E Oreste di rimando, dopo un attimo di silenzio nello stesso linguaggio colorito
rispondeva – E scenni, scenni pure, te aspetto, ahò! –. E sono stato parco nell’uso
degli esclamativi, Sommo Platone. Tuttavia come iniziò venne meno il fuoco della
battaglia, segno che gli déi benigni avevano deciso di intervenire a sedare i focosi
animi, ché qui la sapienza certo non faceva una bella figura».
«Illuminante davvero, caro Crisostomo. Però mi dicevi che hai scoperto un mondo
dentro un mondo. Chiariscimi».
«Sommo Platone, con il massimo rispetto, devo dire che tra i grandi miti che hai
forgiato, nella vicenda raccontata vediamo i due che soprattutto spiegano e
raccontano al meglio la realtà degli esseri umani. Il primo se permetti è l’auriga e
l’importanza del cavallo nero dentro ognuno di noi. C’è un istinto sempre pronto a
scatenarsi e a volte l’auriga non riesce a contenerlo».
«Esatto. È la legge di Adrastea. Qualunque anima, trovandosi a seguito di un dio,
abbia contemplato qualche verità, fino al prossimo periplo rimane senza dolori e
se sarà in grado di far sempre lo stesso, rimarrà immune da mali. Ma quando
l’anima, in conseguenza di qualche disgrazia, divenuta gravida di smemoratezza e
di vizio, si appesantisca e per colpa di questo peso perda le ali e precipiti a terra,
allora la legge vuole che questa anima non si trapianti in alcuna natura ferina
durante la prima generazione; ma prescrive che quella fra le anime che più abbia
veduto si trapianti in un seme d’uomo destinato a divenire un ricercatore della
sapienza e del bello o un musico, o un esperto d’amore; che l’anima, seconda alla
prima nella visione dell’essere s’incarni in un re rispettoso della legge, esperto di
guerra e capace di buon governo; che la terza si trapianti in un uomo di stato o in
un esperto d’affari o di finanze; che la quarta scenda in un atleta incline alle
fatiche, o in un medico; che la quinta abbia una vita da indovino o da iniziato;
che alla sesta le si adatti un poeta o un altro artista d’arti imitative, alla settima

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un operaio o un contadino, all’ottava un sofista o un demagogo e alla nona un
tiranno».
«Ebbene, Sommo Platone, fra tutti costoro chi abbia vissuto con giustizia riceve in
cambio una sorte migliore e chi senza giustizia una sorte peggiore. Ciascuna
anima non ritorna al luogo stesso da cui era partita prima di diecimila anni
tranne l’anima di chi ha perseguito con convinzione la sapienza o di chi ha amato
i giovani secondo quella sapienza. Tali anime, se durante tre periodi di un
millennio hanno scelto, sempre di seguito, questa vita filosofica, riacquistano per
conseguenza le ali e se ne dipartono al termine del terzo millennio. Ma le altre,
quando abbiano compiuto la loro prima vita, vengono a giudizio, e dopo il
giudizio, alcune scontano la pena nelle prigioni sotterranee, altre, alzate dalla
Giustizia in qualche sito celeste ci vivono così come hanno meritato dalla loro
vita, passata in forma umana. Allo scadere del millennio, entrambe le schiere
giungono al sorteggio e alla scelta della seconda vita; ciascuna anima sceglie
secondo il proprio volere: è qui che un’anima può passare in una vita ferina e
l’anima di una bestia che una volta sia stata in un uomo può ritornare in un
uomo. Giacché l’anima che non abbia mai visto la verità non giungerà mai a
questa nostra forma. Perché bisogna che l’uomo comprenda ciò che si chiama
Idea, passando da una molteplicità di sensazioni ad una unità organizzata dal
ragionamento. Questa comprensione è reminiscenza delle verità che una volta
l’anima nostra ha veduto, quando trasvolava al seguito d’un dio e dall’alto piegava
gli occhi verso quelle cose che ora chiamiamo esistenti e levava il capo verso ciò
che veramente è. Proprio per questo è giusto che solo il pensiero del filosofo sia
alato, perché per quanto gli è possibile sempre è fisso sul ricordo di quegli oggetti,
per la cui contemplazione la divinità è divina. Così se un uomo usa giustamente
tali ricordi e si inizia di continuo ai perfetti misteri, diviene, egli solo, veramente
perfetto; e poiché si allontana dalle faccende umane, e si svolge al divino, è
accusato dal volgo di essere fuori di sé, ma il volgo non sa che egli è posseduto
dalla divinità».
«E l’altro mito?»
«A mio avviso è il mito delle due metà, il maschile ed il femminile di ognuno di
noi, originariamente unite in una sola persona, poi divise dal dio in due persone.
ed è il motivo per cui ognuno cerca nell’amore la riunificazione con la metà
mancante di sé. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è
complementare, perché quell'unico essere è stato tagliato in due. È per questo
che siamo tutti alla ricerca continua della parte complementare. Tutti noi quando
incontriamo l'altra metà da cui siamo stati separati allora veniamo presi da una
straordinaria emozione e non sappiamo più vivere senza di lei nemmeno un
istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non
saprebbero nemmeno dirti cosa s'aspettano l'uno dall'altro. Non è possibile
pensare che si tratti solo delle gioie dell'amore: non possiamo immaginare che
l'attrazione sessuale sia la sola ragione della felicità e la sola forza che spinge a
vivere fianco a fianco. C'è di più: evidentemente l’anima cerca nell'altro qualcosa
che non sa esprimere ma intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme,
Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: –
Che cosa volete l'uno dalI'altro?–. E se, vedendoli in imbarazzo, domandasse
ancora: – Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto
è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte?
Se questo è il vostro desiderio, posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in
modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona

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sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete più due, ma uno,
e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi
felici? –. A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e nessuno
mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha
espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con
l'altra anima. Non più due, ma un'anima sola. La nostra natura originaria è come
l`ho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca
ha il nome di amore. Allora eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra
colpa, il dio ci ha separati in due persone».
«Dici bene, Crisostomo. Dobbiamo temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso
gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati e costretti poi a camminare come i
personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due
lungo la linea del naso, ridotti come dadi a metà. Ecco perché dobbiamo sempre
esortare gli uomini al rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest'ultimo male e
per ottenere le gioie dell'amore che ci promette Eros, nostra guida e nostro capo.
Penso che la nostra specie può essere felice se segue Eros sino al suo fine, così
che ciascuno incontri l'anima sua metà, recuperando l'integrale natura di un
tempo. Se questo stato è il più perfetto, allora per forza nella situazione in cui ci
troviamo oggi la cosa migliore è tentare di avvicinarci il più possibile alla
perfezione: incontrare l'anima a noi più affine, e innamorarcene. Se dunque
vogliamo elogiare con un inno il dio che ci può far felici, è ad Eros che dobbiamo
elevare il nostro canto: ad Eros, che nella nostra infelicità attuale ci viene in aiuto
facendoci innamorare della persona che ci è più affine; ad Eros, che per l'avvenire
può aprirci alle più grandi speranze. Sarà lui che, se seguiremo gli dèi, ci
riporterà alla nostra natura d'un tempo: egli promette di guarire la nostra ferita,
di darci gioia e felicità».
«Esattamente così, Sommo Platone. È la strada della vera sapienza indicata da
due miti fondamentali che dicono qualcosa di profondo sulla realtà di ognuno di
noi»
«Per tornare a Oreste?»
«Voglio dire che lui ancora non ha compreso fino in fondo l’esigenza di riunificarsi
con se stesso. E nella battaglia del lato destro della strada contro il lato sinistro
vediamo che i primi ancora non hanno compiuto il cammino verso la
riunificazione interiore. Trattano l’altro come antagonista e un giorno
comprenderanno che l’antagonista esterno è dentro di loro. Una volta compiuto il
cammino della riunione con se stessi, il dio darà il via libera alla vera sapienza».
«Bene dici, caro Crisostomo, speriamo che così sia rapidamente».

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Ad Atene

Questa volta sono io, Crisostomo, a muovermi recandomi ad Atene a visitare il


Sommo Platone ai piedi dell’Acropoli. Città cosmopolita, piccola certamente
rispetto alla Roma di ieri e di oggi, tuttavia affascinante e complicata, ricca di
suoni, di colori, di odori. L’Accademia svetta tra le istituzioni magnifiche, emana
sapienza già guardandola da lontano e poi via via avvicinandosi. Platone mi
accoglie sulla porta, con affabilità ed è un grande onore ricevere tanta
considerazione. Per me che in fondo provengo da una colonia filosofica,
immeritatamente certo visitata dal grande filosofo.
«Benvenuto mio caro Crisostomo in questa nostra scuola in cui cerchiamo di
allenare le giovani mente a riflettere su se stessi e sul mondo circostante. E a
cercare di innalzarci al di sopra di noi stessi e delle nostre passioni».
«Sommo Platone è un grande piacere ed un onore poterti trovare qui». Era una
magnifica giornata di sole. Il Partenone splendeva nel fulgore del marmo decorato,
l’Acropoli svettava immediatamente sopra di noi. La luce conferiva ai luoghi ed
alle persone una consistenza inconsueta. Tutto sembrava, era, più reale, più
intenso, molto più umano. Il confronto con la periferia romana era istruttivo: la
povertà dei nostri mezzi, la mancanza di marciapiede, le strade sconnesse, quei
palazzi da abusivismo edilizio degli anni Settanta, affastellati e addossati uno
sull’altro, ora alti ora più bassi, facevano risaltare lo sforzo estremo di
filosofeggiare con pochi e ristretti mezzi. L’Accademia Platonica era una scuola
importante, in mezzo agli ulivi e ai giardini, sotto l’Acropoli, immersa nella
sapienza, nella ricerca del Vero e del Bene, prossima al Teatro di Dioniso e alle
tragedie lì rappresentate per educare la popolazione ai tormenti e alle speranze
dell’animo umano. La luce sfolgorante di Roma invece riluceva sulle antenne, sui
tombini intasati, sulle macchine in seconda fila, sulle serrande rovinate. Riluceva
su via Beirut così sconnessa che neanche un mezzo militare ci sarebbe passato
per paura di rovinare le sospensioni. Soprattutto era la ricerca della sapienza a
salvarci, a far desiderare cieli nuovi e modi di vivere portatori di una luce
interiore, la luce della speranza. A questo pensavo, assorto, quando gentilmente
Platone mi rivolse la parola, risvegliandomi da quel torpore.
«Dunque mio caro, apri i tuoi pensieri. Ti sono grato per la gentilezza e la sagacia
con cui mi hai condotto per le strade vicine a Via Odraccas. Adesso è il momento
di confrontare la sapienza e capire dove stiamo andando»
«Sommo Platone ho bisogno della tua guida, della tua sapienza. Prima però voglio
dirti qualcosa di più di me stesso per farti capire esattamente dove si dirige la
riflessione e dove è necessaria la tua parola».
«Ti ascolto. Avevo compreso che dietro la tua ricerca filosofica si cela un desiderio
più profondo».

Prima lezione sulla temperanza


«Vedi, Maestro Platone, sono arrivato in Via Odraccas per le vicissitudini della
vita. Alla mia età non più giovane aspiravo ad una casa più grande che
contenesse i libri accumulati e che formano parte importante del mio mondo, una
casa vicina al centro, più adatta a me. Le scelte rivelatesi erronee del passato mi

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hanno portato in periferia, unico posto da potermi prmettere. Non è tanto la
condizione materiale a pesare quanto la domanda sul senso delle scelte compiute.
Ho fatto bene? Ho sbagliato? È un trasloco interiore ancora non compiuto quello
che sento e mi pesa tanto. Rispetto alla vita di prima, di litigi e rancori, di insulti
e botte, questa via della sapienza è migliore? Certamente lo è però dentro di me
rimpiango la vita di prima: era più mia, potevo sperare di cambiarla standoci
dentro. Con il corpo sono in un luogo, con la mente e con i sentimenti non mi
ritrovo lì del tutto, però. E il contrasto pesa perché allo stesso tempo mi chiedo
chi sono davvero».
«Caro amico la sofferenza ti affligge mentre la ragione sprona a resistere. Non è
così?»
«E come no?»
«Sarebbe ottimo mantenere il più possibile il controllo nelle avversità e non
lasciarti andare alla disperazione perché perderesti il criterio certo per distinguere
bene da male. Ed inoltre nessuna vicenda umana va presa troppo sul serio in
quanto ti impedisce dalle azioni giuste».
«O Platone, illuminami allora! Quali azioni giuste?»
«Di riflettere sull’accaduto e trovare la maniera adeguata di rispondere. Se al
primo colpo ricevuto ti abbandoni ai lamenti, sbagli. Devi abituarti a medicare da
solo e prima possibile le ferite, per risollevarti. Nel caso che racconti vedo l’amor
proprio colpito, l’idea di avere fallito obiettivi nella vita, la paura di scelte
sbagliate e i loro esiti impossibili da prevedere tutti. È necessario medicare le
ferite lasciando da parte i lamenti».
«Lo dici facile, facile non è. La vita di prima certo aveva molte ombre e tantissimi
aspetti negativi. Però in qualche modo sembrava essere la mia, lo è stata almeno
per tanti anni. Dunque riprogrammare è non facile».
«Caro amico allora la sofferenza ha un aspetto che ora vedo meglio. Servono
saggezza ed equilibrio. L’uomo temperante lo sa e lo cerca. Cosa ti fa non essere
temperante? Forse in te si nasconde insidiosa l’idea di una qualche colpa
commessa. Così sei rimasto a lungo in una situazione poco felice. Perché? Chi è
l’essere umano che accetta di permanere nel digiuno potendo saziarsi quanto
basta per vivere bene? Forse la persona che desidera autopunirsi?»
«Forse è così, Sommo Platone. Forse è davvero così».
«Lo è. Della temperanza devi sapere di più. Ti ho visto all’opera e, credimi, se ti
manca la vera temperanza, non è certamente una colpa e neppure sei un
dissoluto o uno scialacquatore che vada criticato o biasimato a tutti i costi. Chi ti
critica sbaglia. Ed anche i tuoi vicini, avviati certamente sulla strada della
sapienza, devono stare attenti a non trasferire su di te o su qualcun altro dei moti
d’animo, dei sentimenti, dei dissapori che soltanto si agitano dentro di loro e non
ti appartengono. Chi vuole essere felice dovrà perseguire la temperanza e non
coltivare il risentimento. Soprattutto devi comprendere che non hai bisogno di
venire castigato per vivere. E le stesse energie positive devono venire sparse nella
città, nella vita pubblica, negli aspetti più riposti del vivere in società come in
famiglia e tra gli amici. Le passioni non devono sfrenarsi bensì stare controllate. E
chiedersi sempre se quando avanzo una critica essa sia rispettosa della persona a
cui è rivolta e se invece non provenga dal recesso negativo del mio animo. Se
viene da lì vivo una vita da ladro, derubo i buoni sentimenti e vìolo le buone
disposizioni altrui. Così mi sembra tu abbia vissuto in mezzo ai ladri
approfittatori della buona disposizione di animo. Non ha giocato alle corse, non
hai dilapidato i tuoi averi, hai sempre cercato un comportamento retto. Certo a

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volte hai perso la pazienza o commesso qualche ingiustizia nel trattare gli altri.
Può accadere tuttavia di fondo mai hai tradito la fiducia ricevuta, al massimo hai
interpretato a modo tuo la vita da svolgere, come ognuno del resto fa, restando
nei limiti del buon vivere e delle leggi».
«Come sai tutto questo?».
«Crisostomo caro non c’era bisogno di un collegamento diretto o di qualche
informatore per saperlo. Pratico la sapienza da tanto tempo e riesco a
comprendere le persone a partire dal loro linguaggio, dal loro sentire, dai gesti,
dalla coerenza tra gli atteggiamenti superficiali, specchio della profondità
dell’animo. So quali sono le disposizioni profonde positive che hai. Chi ha inteso
farti soffrire, trattasi di persone cattive loro, non avvezze alla filosofia, magari
gradevoli fuori, accattivanti anche nei modi, profondamente frustrate e malvagie
nel profondo, invidiose perché incapaci di conoscere ed ammettere l’esistenza
delle loro parti concupiscibili».
«Sì è vero tuttavia difficile ammetterlo».
«Un’impegnativa tesi etica, caro Crisostomo, dice di non subire l’ingiustizia e non
commetterne. Per te però prima viene il non subire perché non devi sentirti in
balìa degli altri. C’è una dimensione cosmica dell’ordine, dell’equilibrio, della
temperanza, che si riproduce nei rapporti e negli equilibri di quaggiù. Mai devi
dimenticarlo e chi voglia portarti verso lo squilibrio è perché sente dentro di sé
disordine interiore, non lo ammette, non lo riconosce, lo attribuisce agli altri.
Poniamo che tu in casa abbia un dissidio, una diversità di opinioni sulle scelte,
sull’educazione, su cosa fare e come fare. Ebbene non può diventare un rovinoso
dissidio che mette in discussione tutti i rapporti; non può trasformarsi in un
gioco di attribuzione di colpe e tutte poi da una parte sola cioè rinfacciare a te
qualunque aspetto della vita quotidiana. Non è accettabile, non è equilibrio.
Liberati da quelli che vogliono far vivere secondo ingiustizia perché loro stessi
vivono così. Non accettarli, allontana chi intende contaminare i rapporti col gorgo
dell’indistinto, dell’indifferenza, della colpa indiscriminata che starebbe tutta e
solo dalla tua parte».
«Lo penso, Sommo Platone, però è difficile. Mi sento legato alle persone e perduto
senza di loro, anche quando capisco di venire trattato del tutto ingiustamente e
per motivi indipendenti dal mio atteggiamento o comportamento».
«Vorrei farti comprendere due aspetti che si celano dietro il tuo sentire. Ecco il
primo. Quelli che amano il sapere, sanno bene che la loro anima, appena la
filosofia comincia a guidarla, è come legata, anzi interamente avvinta al corpo,
costretta a rivolgere lo sguardo alla realtà non da sé sola, con i propri mezzi, ma
come attraverso un carcere, per cui essa è gravata da una profonda ignoranza,
riconoscendo benissimo che sono le passioni umane questo terribile carcere e
che, chi vi si ritrova prigioniero, lo deve solo a se stesso. Quelli che amano il
sapere, ripeto, sanno che la filosofia quando prende a guidare la loro anima, che è
in simile stato, la conforta, cerca di liberarla, facendo vedere come sia illusoria
qualsiasi indagine svolta non solo per mezzo della vista ma anche attraverso
l'udito o con l'ausilio degli altri sensi; la persuade, così, a farne a meno, dei sensi,
se non per quel tanto che le sia necessario servirsi di essi e la esorta a comporsi,
a raccogliersi in sé, a non fidarsi che di se stessa e solo di quella realtà che ella
indaga con le sue facoltà e a giudicare falsa, invece, quell'altra, mutevole e
contingente, che ella esamina con mezzi non suoi; perché questa è sensibile e
visibile, mentre quella è intelligibile e invisibile. L'anima del vero filosofo sa di non
doversi opporre a questa liberazione e, perciò, si tiene lontana, quanto più può,

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dai piaceri terreni, dai desideri, dagli affanni e dai timori, ben sapendo che se uno
si fa vincere dalle passioni, dai timori, dai dolori e dai desideri, il male che ne
potrà ricevere, anche il più grande, come per esempio una malattia o la perdita di
tutti i suoi beni, sarebbe ben poca cosa di fronte al male estremo cui andrebbe
incontro e al quale, purtroppo, non ci si pensa. L'anima di ogni uomo quando
prova un dolore o un piacere intenso per qualche cosa, crede che ciò che le
produce questa intensa emozione, sia l'unica realtà, vera ed evidente, mentre non
lo è affatto. Si tratta, invece, solo della realtà visibile. Non è forse così?»
«Certamente è così. Ed il secondo?»
«Pazienza, arriverà più avanti il momento. È necessaria una preparazione. E per
oggi è abbastanza quanto ci siamo detti. È tempo di mangiare e riposare».

Secondo discorso sulla temperanza


Era il momento di riprendere il nostro conversare. Le parole di Platone mi
avevano scosso in profondità, lasciando balenare qualche aspetto di me stesso
rimasto nascosto, al quale non ero stato capace di arrivare da solo. Come è ovvio
quando si tratta di se stessi, della natura profonda. Possono gli altri vederlo
meglio. Ed è il motivo per cui nei rapporti interpersonali si soffre così tanto:
veniamo colpiti in quelle parti esposte e che noi stessi conosciamo così poco. E
tuttavia si rivelano a chi voglia con cattiveria entrare nell’intimo dell’altro. Così
meditavo quando venne il momento di riprendere a parlare.
«Ricorda, Sommo Platone, che un secondo aspetto devi disvelare. Lo hai
promesso».
«Senza fretta, caro Crisostomo, senza fretta. Dobbiamo arrivare insieme perché la
via della saggezza è difficile e progressiva».
«Procedi come credi meglio dunque».
«Ora il mio discorso vuole dire che una vita vissuta rettamente non deve inseguire
i piaceri e neppure evitare del tutto i dolori; deve invece prediligere quella via di
mezzo che chiamiamo temperanza, un modo che dobbiamo attribuire alla
divinità, ad un’ispirazione superiore a noi, una voce profetica. E dico che
chiunque di noi voglia diventare un essere divino deve inseguire questa
condizione e non essere del tutto incline ai piaceri, come se potesse evitare i
dolori, e non deve permettere ad un altro, giovane o vecchio, maschio o femmina,
di subire questa stessa condizione. E soprattutto se si tratta di un bambino
appena nato: in quella fase della vita, infatti, in ogni individuo si forma il
carattere, e si forma grazie all'abitudine. Nella temperanza non dobbiamo
consentire a qualcun altro, anche molto vicino, di maltrattarci o mancarci di
rispetto. Siamo creature, guardiamo in alto, meritiamo attenzione perché
facciamo del nostro meglio. Nessuno nasce già sapendo vivere, si impara per
strada e riflettendo. E spesso la maniera migliore è nel riflettere insieme agli altri,
ai compagni di strada. Dunque nella via di mezzo non deve esserci attribuzione di
cattiveria o malignità quando onestamente ognuno cerca di trovare un modo per
vivere, impegnato per soluzioni oneste e sincere ai problemi. E per i problemi
della vita e della relazione non ci sono leggi scritte immutabili. Non è vero?»
«Si, Sommo Platone, mi sembra tu dica il giusto».
«Dico che dobbiamo occuparci di ciò che è serio e non di ciò che serio non è: per
natura ciò che è divino è degno di ogni interesse, come un essere beato, mentre
l'uomo è soltanto un giocattolo fabbricato dagli dèi, ed in effetti questa è la sua
parte migliore. In conseguenza di questa concezione, ogni uomo e ogni donna

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devono vivere giocando al meglio possibile questo gioco, pensando il contrario di
ciò che oggi si pensa».
«Come?»
«È necessario trascorrere il più possibile e il meglio possibile la propria esistenza
in pace. Quale sarà allora un retto criterio per vivere? Bisogna vivere in positivo,
consocendo lo stato di semplice passaggio su questa terra, rispettando il volere
delle divinità, respingendo i nemici, guardando al cielo nei momenti di dubbio».
«Capisco bene quanto dici. Però in che modo applicarlo? Vivere è complesso, le
passioni possono rivelarsi dolorose al di là di ogni immaginazione. Mentre il male
fisico si placa con una medicina, l’emozione che provoca affanno, malinconia,
affezione morale, non si placa allo stesso modo e può durare a lungo. A volte
proviamo pietà o pena per un’altra persona, quando le sue insufficienze le
vediamo con chiarezza e vediamo quanto dolore ci si arreca da se stessi, potendo
afferrare uno stato migliore e non essendo capaci di farlo. E non solo si manca la
presa ma si continua a guardare verso il basso, come colui che soffre per l’altezza
raggiunta e invece di volgersi all’alto e proseguire l’ascesa si ferma a rimirare giù
la strada compiuta e si perde precipitando nella voragine da cui è venuto. Dimmi,
Sommo Platone, come fare? Il dilemma mi lacera»
«Ricominciamo daccapo e dopo che avrò fatto questa premessa lo capirai meglio.
Tu sai, credo, che gli esperti di geometria, di calcoli e di simili studi
presuppongono il pari e il dispari, le figure, le tre specie di angoli e altri postulati
analoghi a questi in base alla ricerca che stanno conducendo. Essi danno per
scontati questi elementi, che vengono posti come premesse e non ritengono di
doverne rendere conto né a se stessi né ad altri, in quanto evidenti a chiunque;
poi, partendo da essi, spiegano il resto e alla fine arrivano tranquillamente
all'oggetto iniziale della loro indagine».
«Si, prosegui».
«Allora sai anche che utilizzano figure visibili e costruiscono le dimostrazioni, non
pensando però a queste, bensì ai loro modelli: eseguono i calcoli sul quadrato e
sul diametro in sé, non su quelli che stanno tracciando e così via. E delle stesse
figure che costruiscono e disegnano e che proiettano ombre e riflessi nell'acqua, si
servono a loro volta come di immagini, cercando di cogliere quelle realtà in sé che
non si possono vedere se non con l'intelletto».
«Hai ragione», dissi.
«Questa dunque è la specie che chiamavo intellegibile e che l'anima è costretta a
indagare mediante il ricorso all'ipotesi, senza procedere verso il principio, perché
non può elevarsi al di sopra delle ipotesi, servendosi di immagini delle stesse cose
che corrispondono alle copie del segmento inferiore e che rispetto a queste ultime
hanno acquisito la fama e il pregio dell'evidenza».
«Comprendo», dissi, «che ti riferisci alla geometria e alle arti affini».
«Cerca allora di comprendere che per seconda sezione dell'intellegibile intendo
quella alla quale la ragione stessa attinge grazie alla facoltà dialettica,
interpretando le ipotesi non come princìpi ma realmente come ipotesi, come se
fossero punti d'appoggio e di partenza per arrivare fino al principio di ogni cosa,
che è esente da ipotesi; raggiunto questo principio e attenendosi alle conseguenze
che ne derivano, la ragione ridiscende verso la fine senza usare alcun riferimento
sensibile, ma solo le idee e passando dall'una all'altra conclude nelle idee l'intero
processo».
«Vuoi dire, Sommo Platone, che quella sofferenza di cui ti parlo, apparentemente

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sembra legata ai motivi visibili e tuttavia possono esserci dei motivi invisibili che
la rendono più forte?»
«Proprio così. È difficile, beninteso, tuttavia qui si rivela il compito del vero
sapiente. Chi ha il pensiero rivolto alle realtà essenziali non ha tempo di guardare
in basso alle faccende degli uomini e riempirsi di invidia per queste. Piuttosto
guardando alle realtà essenziali si ordina la propria mente».
«Ciò mi è molto chiaro adesso».
«Allora è il momento di compiere un passo avanti. Passa dalla realtà degli oggetti
e degli accadimenti alla realtà interiore. Quando dici di soffrire per come
interpreti la realtà, ciò ha a che fare con te stesso, non con la realtà. Questa può
essere bella o brutta, molto però dipende da come la rappresenti dentro di te e da
come è il moto del tuo animo. Se ti senti fragile, la febbre può prenderti dopo una
banale infreddatura. Altre volte resti sotto la pioggia e nulla ti accade. Dunque
dipende dalla disposizione interiore. Ti senti fragile perché ti chiedi se le scelte
corrispondono al tuo intimo desiderio».
«Esattamente così, Sommo Platone. Così ho detto infatti. Come uscirne?»
«Guarda dentro di te, non c’è altro rimedio. È un rimedio lento, difficile, lungo,
l’unico tuttavia veramente efficace. È il rimedio del curare la propria interiorità».
«Ti seguo in teoria. In pratica soffro allo stesso modo».
«Allora andiamo nel concreto, caro Crisostomo. Dobbiamo fare tutto il percorso.
Mettiti comodo perché ci vorrà un po’».
«Ecco, ci sono». E ci sedemmo su una panchina guardando l’Acropoli, inondati
dal tiepido sole di quel giorno.
«Dunque, caro Crisostomo, è opportuno considerare la temperanza. È un fattore
di equilibrio. Quando scompare, quando senti crescere una tensione dentro,
allora siamo in presenza di un problema. Mi segui fin qui?»
«Sì, pare anche a me».
«Allora dobbiamo cercare l’origine dello squilibrio che sentiamo. Di solito appare
nei rapporti con le altre persone perché coinvolgono aspetti interiori nostri ed in
grado di turbare serenità e pace».
«Vuol dire anche che non sono veramente stabili, se possono venire turbate».
«Proprio così. Se attribuiamo agli altri il potere di modificare o peggiorare i nostri
atteggiamenti e stati emotivi allora abbiamo già una risposta ed una prima radice
dello squilibrio».
«Lo vedo bene, Sommo Platone. Però mi sento al punto di partenza».
«Abbi fiducia. Ho l’impressione, da quanto hai raccontato, che prima di tutto ci
sia una parte dentro di te che critica le scelte fatte. Non è così forse? I dubbi non
vengono dagli altri ma da dentro noi stessi. Se ti senti sicuro di una scelta allora
procedi. Se tu per primo non ti senti sicuro allora ogni aspetto diventa
problematico: il luogo, le persone, le situazioni. Tutto insomma. Non ti sembra?»
«Sì, mi sembra».
«Dunque la voce critica è interiore. Abbiamo compiuto il primo passo. Il secondo
passo consiste nell’attribuire un nome ed un volto alla voce critica che senti
dentro di te. Vediamo. Hai compiuto delle scelte importanti. La tua vita ha preso
una direzione diversa da quella che credevi. Prima ti sentivi bloccato ed
insoddisfatto. Poi hai intrapreso la strada della sapienza e sei ripartito con nuovi
progetti ed anche con nuovi rapporti. Certo hai preso una strada che forse non ti
aspettavi o non immaginavi tanti anni fa. È normale che ci siano delle domande
da farsi o delle difficoltà ed anche i rapporti nuovi generano dei dubbi. Tuttavia si
tratta del normale flusso della vita. Perché allora porsi interrogativi inquietanti o

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di fondo o capaci di generare incertezza? Chi ti criticava così tanto, prima? Non
devi rispondere, solo vedere l’importanza della domanda, ti pare?»
«Sì pare anche a me. Cercherò la risposta».
«Bene. La sicurezza, il saggio deve cercarla dentro di sé. Nel silenzio, nella
capacità di stare da solo in alcuni momenti senza gettarsi nella folla per
dimenticare i problemi. Stare per contro proprio è molto difficile e tuttavia
essenziale per non dipendere in maniera eccessiva dal giudizio, dalle opinioni,
dalla vicinanza altrui. Se hai compiuto delle scelte allora le hai ponderate e
valutate. Non devi criticarti aspramente per questo. Che ci siano dei dubbi è
normale tuttavia alla base di ogni capacità di giudizio e di positivo rapporto c’è la
capacità di reggerti in piedi da solo. Non devi avere paura di ritrovarti in
solitudine per qualche momento della vita, perché nessuno lo rimane davvero a
lungo se non lo desidera. Aver paura significa lasciar parlare l’insicurezza. Come
il bambino che vuole tutto e subito e non si dimostra capace di aspettare e si
sente perduto per questo. A volte quel bambino entra di nuovo in scena nella
nostra vita e se non sappiamo riconoscerlo possiamo perdere di vista l’obiettivo
del vivere».
«Quale obiettivo, Sommo Platone?»
«La saggezza. Che non è regola astratta bensì capacità di riconoscere le passioni e
viverle dentro di noi senza buttarle all’esterno. Quando hai raccontato del
contrasto tra Apollonia ed Oreste, ad esempio, del loro vivace confronto, hai detto
di due persone che in quel momento non hanno saputo o voluto tenere dentro di
loro la voce del bambino. E l’hanno lasciato urlare, due bambini a strepitare e
strillare per far vincere chi urla più forte. Due bambini dentro due adulti, ognuno
con la paura di venire sopraffatto dall’altro. Eppure l’altro non mi è indispensabile
per vivere, perché basto da solo per questo scopo. Invece in quel momento non lo
vedo e l’altro mi sembra indispensabile. Così quando hai lasciato la tua dimora
precedente e gli affetti in essa contenuti, hai sentito come se qualcosa ti venisse
strappato. Come se quel luogo di prima e quegli affetti fossero indispensabili,
parte costitutiva della tua stessa identità. Hai dato sfogo al bambino. Non è così,
è piuttosto una esagerazione. Un segno di fragilità che la ricerca della sapienza
deve affrontare e risolvere e colmare. Non credi?»
«Lo credo. Mi hai indicato una strada lunga e faticosa».
«L’unica che conosco, forse l’unica davvero possibile. L’unica persona e l’unica
risorsa che ognuno ha è se stesso. Il dio ci parla di continuo tuttavia dobbiamo
ascoltarlo. Dunque sempre a noi stessi torniamo. Allora possiamo e dobbiamo
imparare ad aspettare perché nel tempo si chiariscono situazioni e rapporti.
Aspettare equivale a fare perché ci vuole più energia a stare fermi che a muoversi.
Ed avere fiducia nella tua capacità di giudizio e nella direzione delle azioni perché
chi soffre sa sempre qualcosa in più. Ed ora basta parole. Godiamoci un poco in
silenzio questo bel sole e il panorama splendido dell’Acropoli che oggi si leva in
tutta la sua bellezza».
«Così sia».

Discorso finale
Cosa devo fare? Perché tornare a Via Odraccas? Non potrei restare ad Atene da
Platone? Erano le domande che insistentemente giravano da qualche tempo nella
mia testa.
«Sommo Platone, ho fatto un sogno» dissi una mattina.

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«Raccontami, perché nei sogni come sai si esprime la volontà degli déi».
«Ho sognato che stavo insegnando Platone in una classe del liceo. All’inizio erano
attenti e cominciavo a spiegare il contesto e alcuni aspetti importanti della tua
filosofia e dell’antica Grecia. Poi però la classe diventava turbolenta. E dall’aula la
lezione si spostava all’esterno, all’aperto, proprio per strada. E mentre stavo per
affontare un nodo di fondo, il tema delle dottrine non scritte, diventava
praticamente impossibile proseguire. Allora mi spazientivo e minacciavo gli
studenti di pesanti ritorsioni se non avessi potuto continuare. E dentro di me
invocavo l’aiuto di una collega insegnante, di cui in quel momento sembrava
urgente ed impellente il bisogno. Lì vicino sulla strada c’era una grande
bancarella con un venditore».
«Un sogno davvero evocativo. La voce del dio ti sta dando indicazioni preziose».
«Sommo Platone ho qualche esperienza di sogni. So che rappresentano una voce
interiore e indicano quello che nella vita consapevole cerchiamo senza trovare.
Rappresentano una sapienza nascosta dentro noi stessi. Aiutami a cercare il
significato».
«Il mio maestro Socrate insegnava la preziosa arte di tirare fuori da se stessi
aspetti ancora inconsapevoli di conoscenza. Dimmi dunque di te. I discorsi degli
ultimi giorni ti hanno toccato in modo forte. Hai scoperto che oltre alla realtà
esiste il nostro modo di rappresentarla».
«Sì è così».
«So che la conoscenza ha compiuto grandi progressi. Sono nate e si sono
sviluppate scienze nuove rispetto ai miei tempi. E non è vero quanto a volte si
dice che dopo Platone e dopo Aristotele il resto della filosofia è una ripetizione e
rielaborazione. Non è così. Sono emersi aspetti nuovi anche se i miti fondativi
della condizione umana non cambiano e rappresentano un modo per raccontare
delle verità in maniera da colpire la fantasia. Il tuo sogno è la conferma. Le
immagini formate nella mente durante la notte sono rimaste coscienti dopo il
risveglio e ti chiedi quale sia il significato».
«Me lo chiedo infatti. Il motivo apparente del sogno riguarda le discussioni e i temi
di questi mesi»
«Certamente. E ti chiedi anche in che modo mettere insieme tutti questi aspetti.
Sono convinto che ognuno di questi studenti, senza volto, si riferisca ai molteplici
aspetti della personalità di ognuno di noi».
«Davvero lo credi?»
«Il sogno parla del dubbio che nutri verso la vita che vivi e le domande che ti fai.
Forse ci sono parti di te stesso incapaci di ascoltarsi, questi studenti che vanno
per conto loro. È la condizione esistenziale degli esseri umani: albergano in
ognuno di noi diversi aspetti e diverse parti di noi stessi, come raccontano i miti
di cui abbiamo parlato. Nel sogno compaiono le dottrine non scritte, un sapere
impossibile da definire una volta per tutte e che ogni persona deve cercare e
trovare. Il non scritto rappresenta la strada individuale che devi riconoscere e
percorrere, la tua strada e di nessun altro, la ricerca della identità,
dell’individualità, dell’autonomia. È difficile e così ondeggi verso il passato, con
l’idea generale di insegnare e tornare ad un’altra epoca in cui i rapporti sono di
tipo infantile – l’insegnante e la sua classe, da cui si deve uscire per diventare
adulti. E poi la precarietà del vivere, di cui mi hai parlato, con la classe che si
trasferisce all’aperto e la bancarella del negoziante. Stai dicendo della precarietà e
del desiderio di guardare indietro. Anche le minacce fanno parte di un bagaglio
punitivo, genitoriale, coercitivo, infantile anche questo e che senti poco utile

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perché tanto le tue parti interiori, espresse dagli studenti, non ascoltano e se ne
vanno».
«Che mondo si apre allora, Sommo Platone? Cosa debbo fare?»
«La periferia in cui tanto soffri, è il luogo dove uno straniero può perdersi, è un
labirinto dove ti aggiri spaesato. È allo stesso tempo, nel medesimo momento,
un’occasione unica per ritrovarsi. Non perdi l’identità se la hai già ben definita.
Perdi quello che non hai mai avuto o avuto poco. Il sogno svela una verità
interiore profonda: la mappa non è il territorio. Ecco l’importante acquisizione che
aiuta a districarsi, fa avanzare la conoscenza postplatonica e postaristotelica, la
profonda verità che diventa faro dei nostri passi. La rappresentazione della realtà
non è la realtà, come la mappa di un luogo è semplicemente una
rappresentazione, ben diversa dal luogo reale. La mappa di Atene aiuta a trovare
la strada da un luogo all’altro, non descrive la città con i suoi palazzi, i
monumenti, le case, gli abitanti, i negozi, la brulicante vivacità del mondo. La
mappa è un aiuto, non dobbiamo scambiarla per la realtà. La realtà è diversa.
Caro Crisostomo, questo è il compito da assolvere: torna indietro a Roma, nel tuo
suburbio filosofico e da lì riparti per una vita retta, ascoltando e dipanando uno
per uno i fantasmi che si agitano dentro di te, chiamali per nome e solo così
saprai sempre chi sei. E aiuta le persone che hai intorno a procedere sulla stessa
strada, se vogliono».
«È questo il tuo mandato, Sommo Platone?»
«Ti racconto una storia, un mito come lo possiamo chiamare e descrive il compito
di ognuno di noi, sempre, in ogni epoca. È un mito, una mappa. Ognuno deve
farlo diventare il proprio spazio di azione, il proprio territorio. Perché siamo noi a
scegliere la vita da vivere. Non sarà un demone a scegliere l’anima, saranno le
anime a scegliere il demone. Ci troviamo nella grande pianura delle anime, con el
tre Parche, l’araldo che guida e dispone, le anime stesse. Chi è stato sorteggiato
per primo, per primo scelga la vita alla quale sarà necessariamente congiunto. La
virtù non ha padrone, e ognuno ne avrà in misura maggiore o minore a seconda
che la onori o la disprezzi. La responsabilità è di chi ha fatto la scelta; la divinità
è incolpevole. Quindi l'araldo depone a terra i modelli di vita, in numero molto
maggiore delle anime presenti. Ce n'erano d'ogni tipo: tutte le vite degli animali e
degli uomini. Tra esse c'erano delle tirannidi, alcune perfette, altre rovinate a
mezzo e finite in miseria, esilio e povertà; c'erano poi vite di uomini illustri, gli uni
per l'aspetto, la bellezza e il vigore fisico in ogni campo, in particolare in quello
agonistico, gli altri per nobiltà di stirpe e virtù degli antenati, ma c'erano anche
vite di uomini oscuri per le stesse ragioni e la cosa valeva anche per le donne. Le
anime non erano disposte in un ordine gerarchico, perché un'anima diventava
necessariamente diversa a seconda della vita che aveva scelto; per il resto i
modelli di vita erano mescolati tra loro: gli uni erano uniti alla ricchezza, gli altri
alla povertà, gli uni alla malattia, gli altri alla salute, altri ancora si trovavano in
uno stato intermedio tra questi estremi. L’uomo deve sapere quale risultato,
buono o cattivo, produce la bellezza unita alla povertà o alla ricchezza, quale
disposizione dell'anima concorre a produrlo, e quale effetto determinano con la
loro reciproca mescolanza la nobiltà e l'oscurità di natali, la condizione dì privato
cittadino e le cariche, la forza e la debolezza, la facilità e a difficoltà ad apprendere
e tutte le altre caratteristiche come queste, insite per natura nell'anima o
acquisite, in modo che un'attenta riflessione sulla base di tutti questi elementi gli
permetta di scegliere, guardando alla natura dell'anima, tra la vita peggiore e la
migliore, chiamando peggiore quella che condurrà l'anima a diventare più

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ingiusta, migliore quella che la condurrà a diventare più giusta. Tutto il resto lo
lascerà perdere, poiché abbiamo constatato che questa è la scelta migliore sia da
vivi sia da morti. Bisogna quindi scendere nell'Ade con questa opinione di
adamantina saldezza, per non lasciarsi attrarre anche laggiù dalle ricchezze e da
simili mali e per non cadere nella tirannide e in altri comportamenti del genere,
compiendo molte azioni di insanabile maivagità che causeranno patimenti ancora
più gravi, ma per saper scegliere sempre la vita mediana ed evitare gli eccessi
dall'una e dall'altra parte, sia in questa vita, per quanto è possibile, sia in tutte
quelle future; così l'uomo raggiunse la massima felicità. Il primo nel sorteggio
andò subito a scegliere la più potente tirannide, non considerando a sufficienza
ogni elemento per la sua stoltezza e la sua ingordigia e non accorgendosi che era
destinato a divorare i suoi figli e incorrere in altre sventure. Quando poi rifletté
con mente lucida, si batté il petto e deplorò la sua scelta: infatti non accusava se
stesso dei propri mali ma il fato, i demoni e tutto fuorché se stesso. Costui faceva
parte di quelli provenienti dal cielo e nella vita precedente era vissuto in uno stato
ben ordinato e aveva praticato la virtù per abitudine, senza l'ausilio della filosofia.
A dire il vero, quelli provenienti dal cielo che si lasciavano sorprendere in simili
imprudenze non erano meno degli altri, in quanto non avevano esperienza di
travagli; al contrario, quelli che salivano dalla terra di solito non facevano una
scelta avventata, poiché avevano sofferto personalmente e avevano visto altri
soffrire. Perciò tra la maggior parte delle anime avveniva uno scambio dei mali e
dei beni, anche per la casualità del sorteggio; se infatti chi viene a questa vita si
applicasse genuinamente alla filosofia e il sorteggio non lo ponesse a scegliere tra
gli ultimi, è probabile che non solo sarebbe felice su questa terra, ma compirebbe
anche il viaggio da qui a laggiù e il ritorno qui per una strada non sotterranea e
aspra, bensì liscia e celeste. Valeva la pena di vedere lo spettacolo delle singole
anime intente a scegliere la propria vita: uno spettacolo compassionevole, ridicolo
e singolare, dato che per lo più sceglievano in base alle abitudini della vita
precedente. Quando tutte le anime ebbero scelto la propria vita, si presentarono a
Lachesi secondo l'ordine del sorteggio; a ciascuna ella assegnava come custode
della sua vita ed esecutore della sua scelta il demone che si era preso. Questi per
prima cosa guidava l'anima al cospetto di Cloto, perché sotto la mano di lei e
sotto il volgersi del fuso sancisse il destino che aveva scelto al momento del
sorteggio; dopo che aveva toccato il fuso la conduceva al filo di Atropo, perché
rendesse immutabile la trama filata. Da lì l'anima andava senza voltarsi ai piedi
del trono di Ananke e lo superava; quando anche le altre anime furono passate
oltre, si avviarono tutte assieme verso la pianura del Lete in una calura soffocante
e tremenda, poiché il luogo era spoglio di alberi e di tutto ciò che nasce dalla
terra. Quando ormai era scesa la sera, si accamparono presso il fiume Amelete la
cui acqua non può essere contenuta in nessun vaso. Poi tutte furono costrette a
bere una certa quantità di quell'acqua ma le anime che non erano protette dalla
prudenza ne bevevano più della giusta misura; e chi via via beveva si dimenticava
ogni cosa. Dopo che si furono addormentate, nel cuore della notte scoppiò un
tuono e un terremoto, e all'improvviso esse si levarono da lì per correre chi in
una, chi in un'altra direzione verso la nascita, filando veloci come stelle. Se diamo
ascolto al mito, considerando l'anima immortale e capace di sopportare ogni male
e ogni bene, terremo sempre la via che porta in alto e praticheremo in ogni modo
la giustizia unita alla saggezza; in questo modo saremo cari a noi stessi e agli dèi
finché resteremo quaggiù e anche dopo che avremo riportato le ricompense della

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giustizia, come i vincitori che vanno in giro a raccogliere premi e godremo della
felicità su questa terra».

Roma, maggio 2014

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