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1972)
trama della loro tesi, ma da quel che ho potuto arguire leggendo il secondo
e terzo capitolo di Contro la questione meridionale, questi ha dato al
Meridione — ed era tempo — quello che, quarantanni fa Greenfield ha
regalato alla Lombardia. Le sue ricerche hanno permesso a Capecelatro e
Carlo di scrivere un vigoroso saggio di storia politica. Non condivido
pertanto la loro idea che sia ora di finirla con la ricerca anche minuta.
Infatti sono molti i pregiudizi da sfatare, ma sono molte anche le ombre da
rischiarare. Gli autori fanno luce su analisi e giudizi dell'epoca finora
trascurati — le opere del Balsamo, del Petino, dello Scrofani, del rinomato e
poco riletto Bianchini — ma a questo punto bisogna chiarire anche da che
parte sta, e quali interessi serve, gente come Santangelo, De Cesare,
Scialoja, Nisco, Ferrara, per non parlare di Pisacane e di Benedetto
Musolino. Credo sia giusto pesare le forze sociali che si mossero sulla scena
di una storia, le cui trascrizioni o sono troppo bianche o troppo nere per
essere accettate come vere. Superato questo passo, ed entrando nel periodo
della storia nazionale, gli elementi che determinarono la colonizzazione del
Sud sono individuati con esattezza: l'egemonia dei gruppi finanziari tosco-
lombardo-piemontesi al governo del paese, l'«azione trentennale dello
Stato» contro il Meridione. Gli autori hanno rifiutato di prendere in
considerazione la funzione espropriatrice delle merci capitalistiche. La
dominazione politica, il drenaggio del capitale finanziario e il
protezionismo antiagrario non sarebbero bastati da soli a squinternare la
società meridionale e a piegarla all'impotenza se allo stadio della
circolazione allargata delle merci capitalistiche si fosse arrivati prima e non
— come avvenne — dopo l'unificazione, per di più in posizione di sbocco e
non di produttore.
La contraddizione metropoli-periferia, così vivamente avvertita dalla
attuale condizione meridionale, spiega a sufficienza i nuovi orientamenti
internazionalisti del marxismo italiano. Il facile successo da quest'ultimo
registrato negli ambienti accademici, dove ha largamente soppiantato le
posizioni tenute dall'idealismo, ne ha impoverito i fermenti vivificatori,
tanto da inchiodarlo a una visione sorpassata ed angusta delle
contraddizioni capitalistiche.
5) — Si avrà una querelle des anciens et des modernes? Non è quello che
conta. Le nuove problematiche vengono su con le nuove classi che si
elevano a soggetti di storia e ripensano il proprio passato. Il lavoro di
Capecelatro e Carlo è nella proiezione politica e culturale di tale istanza,
pertanto estremamente sorprendenti, distorte e posticce appaiono le loro
conclusioni politiche. Ma prima di passare a tale discorso è estremamente
interessante esaminare per sommissimi capi l'analisi che gli autori fanno
della più recente realtà meridionale. Siccome, poi, il lavoro di Ferrari Bravo
e Serafini, e in qualche punto quello di D'Agostini riguardano tale
argomento, vorremmo confrontare queste analisi con quelle di Quaderni
Calabresi. E ciò non perché tra analisi e conclusioni ci sia sempre un nesso,
anzi spesso le conclusioni sono assolutamente arbitrarie, ma in quanto
ognuna di tali analisi porta un contributo serio alla conoscenza della realtà
meridionale.
Per Capecelatro e Carlo, con la fine della seconda guerra mondiale, il
sottosviluppo meridionale passa da una fase «violenta» a una fase
«dinamica»: cioè le forze politiche tentano un controllo del sottosviluppo
per evitare di mettere in pericolo l'equilibrio del sistema.
A parte l'aggettivazione (violento contro dinamico: non sarebbe stato
meglio dire incontrollato e controllato, tanto più che l'urto più recente non
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come un Nord nel Sud, come una reale spaccatura nella società
meridionale? Per non sognare, chiediamoci quante sono queste famiglie
nordiste dove a lavorare nell'industria sia un secondo componente della
famiglia; quanti figli di questi «operai» fanno il garzone al bar,» e quanti
altri prosciugano le magrissime risorse familiari per diventare medici o
maestri, unica via per uscire dal ghetto della precarietà dei redditi.
Non basta rinverdire la teoria economica nell'analisi delle strutture e del
capitalismo, è anche necessario avere il coraggio di vedere quali rapporti di
classe sottostanno a tale struttura. Sviluppo e sottosviluppo, imperialismo e
colonie, metropoli e satelliti, comunque vogliamo chiamare il rapporto
strutturale, esso non avrebbe significato in termini di teoria economica se
non definisse anche un tipico rapporto di classe, se non creasse una
frattura profonda e pericolosa tra proletariato interno e proletariato
esterno.
Non credo poi che sia da sottovalutare il ruolo della piccola e media
industria nella identificazione delle aree metropolitane. Se gli oligopoli
compiono direttamente, attraverso le loro filiali, l'opera di espropriazione
coloniale, la piccola e media industria metropolitana, che molto più della
grande industria contribuisce a creare quel tessuto diffuso di attività da cui
nasce il pieno impiego, la compie attraverso le sue merci competitive, ed è
poi questo tessuto diffuso di piccole e medie attività che marca la
distinzione tra sviluppo e sottosviluppo, in quanto moltissimi paesi
sottosviluppati potrebbero oggi impiantare centri siderurgici altrettanto
colossali che i paesi sviluppati, ma poi non avrebbero dove collocare e come
impiegare la produzione.
Nel caso nostro, la dipendenza economica del Meridione non si lega
soltanto all'assenza dei giganti della metalmeccanica, ma anche e
soprattutto a quei settori che gli autori considerano tuttora concorrenziali,
ma che concorrenziali sono solo nel circuito metropolitano. Non basta aver
consapevolezza del fenomeno, bisogna anche spiegarcelo. La verità è che la
subordinazione economico-politica del Meridione è ancora più violenta di
quanto non fosse un secolo fa perché, oltre alla competizione tra settori
capitalistici, l'antica spaccatura nell'ambito degli interessi proletari si è con
il tempo accentuata. Il problema delle «mani adatte» e quello finanziario,
rispolverati per giustificare la mancata industrializzazione del Meridione,
son fin troppo chiaramente la copertura di un disegno antimeridionale.
Incentivare nel Meridione la nascita di una piccola e media industria non
rappresenta un problema insormontabile né dal punto di vista tecnico, né
da quello finanziario. Ma se un progetto del genere andasse in porto, a chi
venderebbe poi una parte rilevante della propria produzione la piccola e
media industria settentrionale? E le tensioni sociali che una crisi di
sovrapproduzione creerebbe al Nord, non sarebbero più grosse di
qualunque Avola o Reggio Calabria?
Accanto alla logica del capitale, ci sono le forze del lavoro ad impedire
qualunque operazione che possa rassomigliare a una ridistribuzione delle
fonti di occupazione e di reddito nel quadro italiano. E' altresì illusorio
immaginare che una volontà socialista, un potere proletario, insediatosi a
Roma possa sormontare un simile ostacolo. La nostra ipotesi è che il
proletariato meridionale non può contare che su se stesso. Non
sottovalutiamo certamente il problema delle alleanze, ma il proletariato
meridionale trova i suoi alleati naturali nell'ambito del sottosviluppo.
L'alleanza con la classe operaia si colloca per adesso nella prospettiva
storica di una ricostruzione politica che investa non le istituzioni proletarie
tradizionali, come pensa la sinistra extra, ma la base operaia, nei suoi
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valori, nel contenuto della idea stessa della lotta di classe. Fra l'altro tale
difficile ricomposizione passa oggi attraverso una revisione
dell'agnosticismo nei confronti dello sviluppo incontrollato delle forze
materiali della produzione e del collegamento automatico tra ricchezza
sociale prodotta in una determinata area e ricchezza distribuita nella
stessa. L'internazionalismo proletario ha oggi anche il segno di una nuova
definizione dei rapporti nei quadro della ineguaglianza fra le economie.
L'ipotesi di un Sud compenetrato nello sviluppo è anche di Ferrari Bravo e
Serafini: «Il Mezzogiorno come area complessivamente omogenea nella sua
arretratezza (salvo ridottissime zone senza rilievo generale) non esiste
veramente più». Certamente l'esodo e il crollo della rendita hanno rotto il
vecchio circuito interno meridionale (contadini-rendita), e allargato il
diametro dei canali per l'estrazione del surplus. C'è stato anche uno
spostamento del polo magnetico dei flussi migratori (e quindi
espropriatori) dal nuovo mondo al centro della «vecchia» Europa. Ma per
questo «l'omogeneità» della situazione meridionale è saltata? Se tale
omogeneità andiamo a cercarla nella esistenza di una struttura positiva, sia
pure arretrata, come la vecchia società a base fondiaria, non possiamo che
registrarne la scomparsa. Ma se l'omogeneità può concretizzarsi in una
struttura negativa, quale è l'esistente disgregazione, allora ci si accorge che
l'evoluzione (involutiva) non ha inciso il rapporto preesistente tra
metropoli (sviluppata) e colonia (sottosviluppata). Tale evoluzione non è
fenomeno meridionale ma è avvenuto all'unisono con i mutamenti prodotti
nel quadro mondiale del sottosviluppo ad opera dei movimenti nei sistemi
metropolitani. D'altra parte gli autori registrano «il permanere di tale (la
vecchia) situazione di dipendenza», avvertendo il sopraggiungere di
«alcuni elementi qualitativamente nuovi, tali da spostare l'intera trama
della questione meridionale».
Questi elementi nuovi vengono definiti comprensivamente con il termine
«sviluppo», intendendo per sviluppo «il governo della società» da parte del
capitalismo. Ciò è per certi aspetti vero, nel senso che il capitalismo,
sviluppandosi, allarga il cerchio e approfondisce il pozzo del suo potere.
Tale è il carattere di tutta la storia del capitalismo. Nell'ambito di tale
processo — crescendo la sua intensità — mutano ovviamente i meccanismi
atti a perpetuare il processo.
Per inciso c'è da osservare che l'identificazione di sviluppo con sviluppo
capitalistico pone un problema politico. Se è in fatti vero — come gli autori
acutamente osservano — che furono proprio le forze di sinistra a riproporre
la questione meridionale in termini di sviluppo capitalistico, non è però
vero che oggi sia questa la proposta di tutta la sinistra. La sinistra
meridionale — e mi pare anche quella latina-americana — quando usa il
termine sviluppo, sottindende il termine liberazione: rispetto anche a
quelle suscettività economiche di cui il dominio capitalistico impedisce la
valorizzazione. Ritengo pertanto male impostata la critica a Baran.
Siamo però ancora ai concetti periferici dell'analisi di Ferrari Bravo e
Serafini. Il tema di fondo, cui già si è fatto cenno, è rappresentato da una
interpretazione in chiave sottosviluppante dell'azione d'intervento
straordinario e della pianificazione.
L'indagine ruota intorno a questo punto focale: il Meridione arretrato
fornisce illimitatamente la manodopera a basso prezzo richiesta nella
nuova fase di sviluppo capitalistico in Italia (schema di Lewis). Lo Stato,
quale istituzione politico-giuridica, non si colloca in posizione neutra
rispetto all'esodo ma ne dirige e controlla i movimenti attraverso strumenti
di volta in volta predisposti. Nella più recente fase dello sviluppo si rende
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classe. Non così invece se dalla logica operaista si sale a quella popolare e
proletaria nella sua eccezione «periferica». Quella massa infatti se non ha
niente da dire contro il potere e lo sfruttamento della Fiat, avrebbe invece
un suo ruolo non secondaria quando la si opponesse al parassitiamo del
potere e dell'assistenza nel Meridione.
Il problema ci porta direttamente al tema centrale delle elaborazioni di
Donolo, che individua nella polarizzazione demografica nei centri urbani
meridionali la nuova ubicazione delle maggiori contraddizioni maturate nel
Sud. E' necessario a questo proposito osservare che la richiesta di identità
storica e politica, riconosciuta dallo stesso Donolo, nasce evidentemente da
una specificità meridionale dello scontro di classe. Il proletariato
meridionale ha un nemico immediato e visibile da combattere. Se questa
controparte viene identificata con chiarezza, il problema si concretizza,
come già si è osservato, nella esigenza che il proletariato meridionale non
sia ridotto a comportarsi come la coda spezzata dal corpo della «classe
operaia centrale», ma si elevi a protagonista della propria liberazione dal
sistema capitalistico.
La controparte visibile è quel «nuovo strato di professionisti», di
impiegati, di gestori del potere statale e dei suoi apparti, di politici di tutte
le estrazioni, la cui presenza garantisce la stabilità del sistema italiano e
attraverso cui passa l'espropriazione che il «centro» opera ai danni della
«periferia».
Il Meridione, nell'esprimere una richiesta di sviluppo esprime una
richiesta di socialismo, poiché non esiste al tra via per tagliare il rapporto
«dipendente». La nostre richiesta di uscire dalla «deprivazione relativa»
sta nella coscienza che non è possibile, né soprattutto conveniente a
Meridione percorrere con cento anni di ritardo la via occidentale al
benessere, fondamentalmente squilibrata, forte mente alienante, in se
stessa disumana. Il socialismo meridionale, nella misura in cui è rimasto.
«ottuso ruralismo» ha una sua profonda richiesta di umanesimo e di
internazionalismo da difendere.
In effetti il «separatismo» di cui mi incolpa Zito nelle scritto già ricordato
è per la verità molto di più: è una separazione netta fra due vie al
socialismo, forse del tutto due modi di intendere il socialismo,
probabilmente non inconciliabili alla distanza, ma che per adesso si
muovono su piani diversi.
Nicola Zitara
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