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R. Harré e L. van Langenhove, The Dynamics of Social Episodes, in R. Harré e L.
van Langenhove (eds.), Positioning Theory: Moral Contexts of Intentional Action, Oxford,
Blackwell, 1999, pp. 1-13, qui p. 1.
2
Ibidem.
3
L. van Langenhove e R. Harré, Introducing Positioning Theory, in R. Harré e L. van
Langenhove (eds.), Positioning Theory, cit., pp. 14-31, qui p. 14.
4
La trattazione più utile e chiara a me nota di questo importantissimo assunto teorico è
in D. Stojnov e T. Butt, The Relational Basis of Personal Construct Psychology, in R.A. Nei-
meyer e G.J. Neimeyer (eds.), Advances in Personal Construct Psychology: New Directions
and Perspectives, Westport (CT) e London, Praeger, 2002, pp. 81-112.
5
R. Harré e L. van Langenhove, The Dynamics of Social Episodes, cit., p. 2.
6
W. Hollway, Gender Difference and the Production of Subjectivity, in J. Henriques,
W. Hollway et al. (eds.), Changing the Subject: Social Regulation and Subjectivity, Londra,
Methuen, 1984, citato in L. van Langenhove e R. Harré, Introducing Positioning Theory,
cit., p. 16.
7
Sono grata a Guido Paduano per questo spunto di riflessione, che merita di esse-
re approfondito e sistematizzato ben al di là di quanto mi sarà possibile fare in questa
nota. Credo comunque sia importante osservare che questa, che più che una concettua-
lizzazione, andrebbe definita come una percezione della natura del personaggio letterario,
rappresenta una conseguenza abbastanza ineludibile di una serie di caratteristiche forma-
li della comunicazione letteraria: da Omero in poi (nella tradizione occidentale; ma una
conoscenza anche superficiale di testi letterari di altre culture, dal Mahabharata al Genji
Monogatari conferma che la diffusione di questa peculiarità strutturale è coestensiva al
campo letterario), la rappresentazione artistica della realtà sociale si fonda sulla distinzione
tra primo e secondo piano, tra protagonisti e comprimari, e tende a conferire ai personaggi
appartenenti alla prima categoria una rilevanza che porta a percepirli come largamente
indipendenti dal loro contesto. E questa focalizzazione ossessiva e mai problematizzata
sull’individuo rappresenta un aspetto di non trascurabile rilevanza di quella che si po-
trebbe definire l’«ideologia letteraria», vale a dire la visione del mondo che le forme della
comunicazione letteraria, del tutto a prescindere dagli stili e dai referenti, trasmettono
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Che hanno un ruolo di primo piano rispettivamente nelle teorie psicologiche di
Winnicott, Kelly e Lacan.
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Nel capitolo Confirmation and Disconfirmation, (R.D. Laing, Self and others, Lon-
don, Tavistock, 1961), Laing esplora con grande finezza la fenomenologia e le implicazioni
dei due concetti, ma non ne fornisce in alcun punto una definizione precisa. La migliore
approssimazione è probabilmente «a tangential response [...] fail[ing] to endorse what [the
subject] is doing from his point of view» (ivi, p. 103).
13
R.D. Laing, Self and others, cit., p. 102.
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S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Prima serie di lezioni [1917], Torino, Borin-
ghieri, 1978, p. 157.
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Il termine, e la sua definizione, «a type of speech in which the ties of union are cre-
ated by a mere exchange of words», sono di Bronisław Malinowski (B. Malinowski, The
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I i 41-65; I iii 381-402; II i 281-307.
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Si tratta appunto della «seconda rivoluzione cognitiva» (su cui si veda sotto la nota
22), che identifica nelle pratiche discorsive la forza principale che dà forma non solo alle
relazioni interpersonali ma anche alla soggettività individuale. Nella bibliografia vastissima
che ha prodotto, i lavori più rigorosi e più interessanti sono con ogni verosimiglianza quelli
degli esponenti del Discourse and Rhetoric Group (DaRG) dell’università di Loughborou-
gh, il cui principale rappresentante è probabilmente Michael Billig.
19
«Many, if not most, mental phenomena are produced discursively. By this we do not
mean that the discursive activities cause mental phenomena to come into existence. Many
mental phenomena, like attitudes or emotions, are immanent in the relevant discursive
practices themselves» (L. van Langenhove e R. Harré, Introducing Positioning Theory, cit.,
p. 16), Come molte tra le idee fondanti del costruzionismo sociale, anche questa è stata an-
ticipata di diversi decenni dalla linguistica: in un suo celeberrimo articolo del 1958, Emile
Benveniste afferma: «c’est dans et par le langage que l’homme se constitue comme sujet;
parce que le langage seul fonde en réalité, dans sa réalité qu’est celle de l’être, le concept
d’“ego”» (E. Benveniste, De la subjectivité dans le langage, in «Journal de psychologie»,
1958, ristampato in Id., Problèmes de linguistique générale, I, Paris, Gallimard, 1966, pp.
258-266, qui p. 259, corsivi dell’autore).
20
R. Harré e L. van Langenhove, The Dynamics of Social Episodes, cit., p. 8.
21
Ivi, p. 9.
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L’uso del termine è stato inaugurato da Rom Harré nella sua introduzione a uno sto-
rico numero della rivista American Behavioral Scientist (intitolato appunto «The Second
Cognitive Revolution»), che ha segnato il passaggio da una scienza cognitiva focalizzata
sulla creazione di modelli computazionali del funzionamento della mente all’esplorazione
del ruolo delle pratiche discorsive nell’emergere dei processi mentali: R. Harré, The Second
Cognitive Revolution, in «American Behavioral Scientist», 1992, 36.1, pp. 5-7.
23
B. Davies e R. Harré, Positioning and Personhood, cit., p. 36, corsivi miei. È doveroso
osservare che la nozione di «category» che, come abbiamo visto, gioca un ruolo fondamen-
tale nella definizione, e nella stessa possibilità, del posizionamento, è stata sviluppata, con
funzioni molto simili ma con assai superiore rigore teorico, e con sviluppi ben altrimenti
originali, da Harvey Sacks verso la metà degli anni Sessanta (H. Sacks, Lectures on Con-
versation, ed. by Gail Jefferson, Oxford, Blackwell, 1992; per la sua importanza centrale il
concetto ricorre continuamente nelle Lectures, dove è oggetto di continue elaborazioni e
approfondimenti; è pertanto impossibile citare singole occorrenze; il lettore interessato – e
il tema è di interesse davvero straordinario – è rimandato alla lettura dell’opera). Per questo
è abbastanza stupefacente che i sostenitori della positioning theory non facciano mai riferi-
mento ad alcun aspetto della sua opera, poliedrica, profondissima e veramente illuminante,
né, in genere, ad alcun concetto o autore della branca della linguistica da lui inaugurata,
l’analisi della conversazione.
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iii. the actual sayings with their power to shape certain aspects of the social
world24.
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R. Harré e L. van Langenhove, The Dynamics of Social Episodes, cit., p. 6.
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Si tende a identificare questo modello ermeneutico con l’opera di Stanley Fish (in
particolare con le posizioni teoriche espresse in S. Fish, Is there a Text in this Class?, Cam-
bridge (MA), Harvard University Press, 1982), ma è importante ricordare che esso viene
affermato con almeno altrettanta chiarezza nell’edizione commentata dei Sonetti di Booth:
«My primary purpose in the present edition is to provide a text that will give a modern
reader as much as I can resurrect of a Renaissance reader’s experience of the 1609 Quarto.
[...] Both my text and my commentary are determined by what I think a Renaissance reader
would have thought as he moved from line to line and sonnet to sonnet in the Quarto. [...]
Scholarly glosses [...] have commonly done a disservice both to readers and poems by ig-
noring the obvious fact that verse exists in time, that one reads one word and then another»
(S. Booth, Shakespeare’s Sonnets, Edited with analytic commentary by Stephen Booth, New
Haven and London, Yale University Press, 1977, pp. ix-x, corsivi miei).
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B. Davies e R. Harré, Positioning and Personhood, cit., p. 52.
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Ivi, pp. 38-39.
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«The concept of “positioning” can be used to facilitate the thinking of linguistically
oriented social analysts in ways which the concept of “role” prevented. In particular the
new concept helps focus attention on the dynamic aspects of encounters in contrast to the
way in which the use of “role” serves to highlight static, formal and ritualistic aspects» (ivi,
p. 32).
29
B. Davies e R. Harré, Positioning and Personhood, cit.
30
R. Harré e L. van Langenhove, The Dynamics of Social Episodes, cit., p. 1.
31
J. Luberda, Unassuming Positions: Middlemarch, its Critics, and Positioning Theory,
<http://www.sp.uconn. edu/~jbl00001/positioning/luberda_positioning. htm> (ultimo
accesso: marzo 2009).
32
Trattandosi di un testo in formato html, ovviamente non esistono numeri di pagina.
33
«The central problem [di Middlemarch], in terms of positioning theory, concerns
the positions available for women in a given society» (ibidem). A meno che non intendesse
parlare di posti di lavoro, qui Luberda avrebbe fatto decisamente meglio a usare la parola
«role». Il modello evocato da Eliot, santa Teresa, non occupa affatto una posizione fluida e
negoziabile ma si identifica, in maniera assoluta e definitiva, con un ruolo. Tutto il lavoro di
Luberda è un esempio davvero da manuale di come una prassi analitica sbilenca confonda
i concetti chiave di una teoria e ne annulli le potenzialità euristiche.
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«We need look no further for an example of the significant distinction between role
and position than Dorothea, who, in the moment she discovers the codicil to Casaubon’s
will, undergoes a dramatic change [corsivo mio] that could hardly be described as a change
in role, but rather usefully elaborated as a shift in positions (segue citazione di Eliot)»
(ibidem). Lungi dall’essere un caso focale di «position», l’esempio addotto da Luberda è in
realtà completamente fuorviante (anche se in maniera perfettamente coerente con la prassi
analitica della positioning theory in generale): esattamente come Sanus e Enfermada, Doro-
thea ha un atteggiamento rigido e univoco sia prima che dopo la scoperta. Semplicemente il
testo la mostra nel momento di transizione, che però è puntiforme, e non prevede ulteriori
oscillazioni; e tra l’altro, malgrado l’importanza centrale della componente relazionale e
dialogica per la definizione del concetto di posizione, questo cambiamento non avviene nel
contesto di un dialogo.
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Non stupisce che Luberda debba cercare le ragioni dell’affinità tra positioning theory
e analisi letteraria, che rappresenta il presupposto fondante del suo lavoro, in luoghi molto
improbabili: «positioning theory is itself a positioned discursive practice, one that is prin-
cipally constituted by a metaphor [quella, appunto, implicita nel termine “position”] and
its attendant narrative. Both positioning theory as a discursive practice, then, as well as the
discursive practices it analyzes place a good deal of weight upon metaphor as structuring
principle. This is especially appropriate to literary analysis [...]» (ibidem). Questa modelliz-
zazione frettolosa e semplicistica trascura completamente di prendere in considerazione il
fatto (tutt’altro che marginale) che il pensiero in genere (e quello scientifico in particolare)
è strutturalmente metaforico; la trattazione più sistematica e illuminante di questo assunto
si trova nel lavoro che, negli ultimi tre decenni George Lakoff ha condotto con vari col-
laboratori, a partire da George Lakoff e Mark Johnson, Metaphors We Live By, Chicago,
University of Chicago Press, 1980. Per citare solo un esempio particolarmente familiare
alla generalità dei lettori, la psicologia dinamica si fonda su una metafora energetica, ma
questo non la rende particolarmente affine all’analisi letteraria bensì, semmai, alla fisica.
Analogamente, il veicolo della metafora su cui si fonda la positioning theory è spaziale, e
questo ha l’effetto di renderla affine non all’analisi letteraria bensì alla geometria. Il collega-
mento (reale, e potenzialmente molto produttivo) tra positioning theory e analisi letteraria
è un altro, e sta nella natura (linguistica) e nella scala (al massimo livello di dettaglio) dei
fenomeni osservati. Il fatto (piuttosto incomprensibile) che le applicazioni finora proposte
della positioning theory abbiano sistematicamente ignorato il secondo parametro è la ragio-
ne della scarsissima produttività ermeneutica che, malgrado le sue promettenti premesse
teoriche, la positioning theory ha dimostrato finora.
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«A speech-action can become a determinate speech-act to the extent that it is taken
up as such by all the participants. [...] This way of thinking about speech acts allows for
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there to be multiple speech acts accomplished in any one saying and for any speech-act
hearing to remain essentially defeasible» (B. Davies e R. Harré, Positioning and Person-
hood, cit., p. 34).
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Inaugurata da Harvey Sacks con le sue Lectures (su cui si veda sopra la nota 23),
l’analisi della conversazione è la branca della linguistica pragmatica che studia l’interazione
linguistica faccia a faccia.
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L. van Langenhove e R. Harré, Introducing Positioning Theory, cit., p. 16.
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J. Luberda, Unassuming Positions, cit.
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In primo luogo, naturalmente, dell’oratore. Nei termini (purtroppo largamente de-
sueti, ma ancora estremamente informativi) della retorica antica, è la funzione etopoieti-
ca della retorica a spiegare il funzionamento del posizionamento come cifra dell’identità:
parlando di qualcosa e parlandone in un certo modo (come inevitabilmente si fa) si parla
necessariamente anche di se stessi, anche e soprattutto se ci si sforza disperatamente di non
farlo. Si può trovare un brevissimo accenno al funzionamento di questi meccanismi in C.
Dell’Aversano e A. Grilli, La scrittura argomentativa, Firenze, Le Monnier, 2005, p. 423.
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E, cosa ovvia dal punto di vista logico ma non priva di conseguenze interessanti sotto
quello pratico, specularmente impone di escludere dall’inventario dell’universo, e quindi
dalla possibilità di assumere nei loro confronti una qualsiasi posizione, un numero infinito
di oggetti potenzialmente pertinenti alla definizione della situazione sociale in corso. Per
definizione, ogni atto di posizionamento avviene rispetto a qualcosa e pertanto non rispetto
a qualcos’altro; le implicazioni di questa proprietà sono state esplorate in maggiore detta-
glio nella sezione 2, in relazione al posizionamento di disconferma.
42
Questo aspetto importantissimo delle posizioni, vale a dire la loro natura relazionale
e dialettica, che si richiama in ultima analisi ai dissói lógoi dei sofisti, è al centro del lavoro
di uno dei più interessanti esponenti del gruppo di Loughborough, Michael Billig; si veda
in particolare M. Billig, Arguing and Thinking: A Rhetorical Approach to Social Psychology,
Cambridge, Cambridge University Press, 1987, 19962, p. 2: «Attitudes are not to be under-
stood in terms of the supposed inner psychology of the attitude holder. They have outer,
rhetorical meanings, for to hold an attitude is to take a stance in a matter of controversy.
The meaning of the stance derives both from what is being supported and from what is
being rejected».
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La trattazione più sistematica e illuminante di questo processo si trova nei più recenti
lavori di George Lakoff, che sviluppano le implicazioni linguistiche e cognitive del concet-
to di frame, da G. Lakoff, Moral Politics, Chicago, University of Chicago Press, 1996 a G.
Lakoff, Don’t Think of an Elephant, White River Junction, Chelsea Green, 2004.
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J. Luberda, Unassuming Positions, cit.
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Divario che risulta evidente anche da una serie di ingenuità teoriche davvero im-
barazzanti: «We have adopted three main ways of classifying acts of positioning. On one
dimension of difference what matters is whether individual persons are positioned by in-
dividuals or collectives by collectives. On another dimension what matters is whether an
individual or a collective reflexively positions themselves or whether it is by some other
which [sic] positions and is positioned. The third dimension is whether the positioning
act is symmetrical or asymmetrical, that is, whether each positions the other or whether in
positioning one the other is also positioned in the same act» (R. Harré e L. van Langen-
hove, The Dynamics of Social Episodes, cit., p. 6). Un’analisi minimamente approfondita di
esempi concreti avrebbe dimostrato immediatamente la speciosità di queste distinzioni:
della prima perché la natura sociale del posizionamento implica sempre che un posizio-
namento individuale avvenga sullo sfondo di uno collettivo; della seconda e della terza
perché, come tutti i fenomeni sociali, anche gli atti di posizionamento sono co-costruzioni:
non è possibile posizionare qualcun altro senza al tempo stesso posizionarsi rispetto a lui.
«The most basic distinction is between first and second order positioning. First order
positioning refers to the way persons locate themselves and others within an essentially
moral space by using several categories and storylines. [...] [A] second order positioning
occurs [when] a first order positioning is questioned and has to be negotiated» (L. van
Langenhove e R. Harré, Introducing Positioning Theory, cit., p. 20). Nella trattazione non
viene mai considerata la possibilità, di considerevolissima rilevanza sia teorica che pratica,
che il «second order positioning» avvenga implicitamente: nell’esempio proposto, «Please,
iron my shirts», l’interlocutore può rifiutare di occupare la posizione che gli viene prepa-
rata senza dover dire nulla di sgradevolmente esplicito come «Why should I do YOUR
ironing? I am not your maid» ma, ad esempio, cambiando discorso, prendendola a ridere,
attirando l’attenzione dell’interlocutore su un’immaginaria macchia delle camicie da stira-
re: tutte eventualità che gli autori non considerano perché non analizzano mai nel dettaglio
l’andamento di una microinterazione.
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Un elemento ulteriore di confusione è dato dall’oscillazione, anche a livello di
definizioni teoriche, tra la massima fluidità e impermanenza e una certa, sia pur locale,
solidità: «Once having taken up a particular position as one’s own, a person inevitably sees
the world from the vantage point of that position and in terms of the particular images, meta-
phors, storylines, and concepts which are made relevant within the particular discursive
practice in which they are positioned» (B. Davies e R. Harré, Positioning and Personhood,
cit., p. 35, corsivi miei).
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