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Σκόλια alfabetici

Edizione commentata

P.Oxy. XV 1795 (I sec. d.C.), pubblicato nel 1922 da B. P. Grenfell e A. S. Hunt,1 presenta i resti di
una silloge costituita da quartine intercalate dall’epifonema extra metrum αὔλει μοι e imperniate per la
maggior parte su temi cari alla predicazione diatribica (l’elogio della virtú, il biasimo della ricchezza, le
riflessioni sulla morte). Non è possibile stabilire in alcun modo se alla medesima raccolta appartenessero
anche le analoghe strofe conservate da P.Oxy. I 15 (III sec. d.C.) edito dagli stessi studiosi nel 1898,2 come
alcuni hanno proposto: in caso affermativo avremmo attestata la fortuna di tale florilegio per piú di due
secoli. Non si può tuttavia escludere che i componimenti per l’eleganza dello stile, per talune particolarità
metriche, lessicali e morfologiche, infine per il loro contenuto risalgano all’epoca alessandrina, come hanno
osservato I.U. Powell3 ed E. Bignone4 in netto contrasto con il negativo giudizio estetico espresso da P.
Maas5, da K.F.W. Schmidt6 e ancor prima da G. Fraccaroli7.
Le strofe tetrastiche sono composte in esametri zoppi o miuri8, un tipo di verso, attestato una volta
sola in Omero (Il. XII 208) e usato κατὰ στίχον sia nella Podagra di Luciano (vv. 313-325), una
composizione parodica strutturata a mo’ di tragedia, sia in un mimo del III sec. d.C., noto con il titolo di
Πειραζομένη (fr. 13, 13-17 Cunningham), che a buon diritto possono essere annoverati tra i παίγνια o
ἀκροάματα, cioè tra quegli spettacoli, ricordati già da Senofonte (Conv. II 2; cfr. Hier. I 14), che servivano
per animare le riunioni dei simposiasti. L’altra peculiarità di questi componimenti è costituita dalla loro
disposizione secondo l’ordine alfabetico della parola incipitaria delle singole strofe secondo una
consuetudine che non ha precedenti nella cultura greca ma che ha ampi riscontri nelle civiltà orientali9.

Tale sistemazione a catena alfabetica rispecchia a livello editoriale l’effettiva prassi esecutiva di
questi carmi durante il simposio ellenistico, nel quale si continuò a rispettare, sia pure in forma rinnovata,
l’usanza che a tutti i presenti imponeva di recitare, accompagnati dal suono dell’αὐλός, pericopi gnomiche o
di cantare brani lirici in una sorta di agone secondo le direttive imposte dal simposiarca10. Questa norma -
caduta in disuso verso la fine del V sec. a.C. per far posto a discussioni filosofiche, ad altri tipi di
ἀκροάματα (recitazioni di brani tragici, rappresentazioni mimiche con evoluzioni di danzatori ed esibizioni
di flautiste) o a prove di abilità, quali ad esempio la soluzione di γρῖφοι o di intricate questioni erudite11 - si
conservò soltanto nelle aree periferiche e presso gli strati sociali inferiori, come attestano tra i numerosi
florilegi tràditi dai papiri sia l’antologia conservata da P.Berol. inv. 1327012 sia queste collezioni, delle quali
viene proposta nelle pagine che seguono un’edizione commentata, corredata da un apparato di loci similes,
da una traduzione e infine da una nota bibliografica per approfondire i problemi non trattati nel commento o
nella presente introduzione.

1
The Oxyrhynchus Papyri XV, 1922, pp. 113-116.
2
The Oxyrhynchus Papyri I, 1898, pp. 38-39.
3
Collectanea Alexandrina, Oxford 1925, p. 200.
4
Nuovi spunti di poesia ellenistica in Orazio, «RFIC» n.s. VII, 1929, pp. 457-458.
5
«BPhW» XLII, 1922, pp. 581-582.
6
«GGA» CLXXXVI, 1924, p. 10.
7
«BFC» V, 1898-1899, p. 114.
8
T. F. Higham, A Review of “Mouse-tailed”, alias “Miuric” Hexameter Verse, in Greek Poetry and Life. Essays
Presented to Gilbert Murray, Oxford 1936, pp. 299-324.
9
R. Marcus, Alphabetic Acrostics in the Hellenistic and Roman Periods, «JNES» VI, 1947, pp. 109-115; M. L. West,
Near Eastern Material in Hellenistic and Roman Literature, «Harv. St.» LXXIII, 1969, p. 134.
10
M. Vetta, “Identificazione di un caso di catena simposiale nel Corpus teognideo, in Lirica greca da Archiloco a
Elitis. Studi in onore di Filippo Maria Pontani, Padova 1984, p. 113.
11
Clearch. fr. 63 Wehrli apud Athen. X 457c-f; Plut. Quaest. Conv. I 1, 5, 614d.
12
F. Ferrari, P.Berol. inv. 13270: i canti di Elefantina, «SCO» XXXVIII, 1988, pp. 181-189.
]κεφαλὴ στεφανω[ ]ν
]ν μετὰ τοῦ μέλαν[ος ]
]κω καὶ κλωνία [ ]ν̣ω
]ω μετά μου δύο κ[ ]υς.
αὔλ<ε>ι μο[ι.

1-4 P.Oxy. 1795 frr. (a), (b)

1 A.P. XI 19, 3 (Straton) :καὶ στεφάνοις κεφαλῆς πυκασώμεθα καὶ μυρίσωμεν 4 Theogn. 1055-1056: αὔλει
/ μοι, cf. Ar. Eccl. 890-892; Eup. fr. 81; Ameipsias fr. 21 PCG; Men. fr. 145, 17 CGFP

1 possis στεφανω[θεῖσα vel στεφάνω[ι πεπύκασται cf. A.P. XI 19, 3 (Straton) 4 μετ᾿ ἐμοῦ edd. pr. αυλι P,
αὔλει μοι legendum esse, non αὔλιμοι, agnovit Wilamowitz «Gött. gel. Anz.» CLX, 1898, p. 696

... il capo incoronato ... /... con il nero (vino?) ... / ... e ramoscelli ... / ... con me due (bei ragazzi?) .../
Suonami l’aulo.

Secondo i primi editori i due frammenti minori di P.Oxy. 1795 conservano ciò che resta della parte
superiore della presumibile prima colonna di una silloge costituita da quartine ordinate alfabeticamente e
separate una dall’altra da un epifonema con il quale si invita l’auleta a suonare il suo strumento in risposta
all’intervento poetico appena pronunciato (Theogn. 1055-1056; Ameipsias fr. 21 PCG apud Athen. XI 783a;
cfr. Antisthenes apud Diog. Laert. VI 6).
Le cattive condizioni in cui ci sono pervenuti i due frustuli papiracei consentono a mala pena di
riconoscere il senso generale del testo, rendendo pertanto arduo ravvisarne i particolari, per cui ogni
intervento congetturale rischia di risultare arbitrario.
Nonostante siano leggibili soltanto alcune parole isolate, si può indovinare, però, che l’argomento
della prima quartina fosse attinente alle seconde mense, quando i partecipanti si apprestavano a dare inizio al
simposio13. Il nesso κεφαλὴ στεφανω[ allude infatti all’uso di cingersi il capo con corone (Xenophan. fr. 1,2
PETFr: πλεκτοὺς δ᾿ ἀμφιτιθεῖ στεφάνους, Anacr. frr. 38, 2-3 e 104 Gent.; Eur. Alc. 796: στεφάνοις
πυκασθείς, Iph. Aul. 1529-1531: στέφανον ... ἀμφιθεῖναι; A.P. XI 19,3 (Straton): στεφάνοις κεφαλὰς
πυκασώμεθα, Anacreont. 18, 5ss. e 32, 14-15 W.); mentre al v. 2 μέλαν[ος può essere considerato epiteto
del vino (cfr. Hom. Od. V 265). Interessante è il diminutivo κλωνία (cfr. A.P. XII 256, 8 [Meleager]) che
probabilmente allude all’atto dell’iniziale libagione rituale in onore degli dèi durante la quale i simposiasti
tenendo in mano ramoscelli di alloro o di mirto intonavano all’unisono il peana propiziatorio (Hesych. α
2096 L.: αἴσακος· ὁ τῆς δάφνης ἂν κατέχοντες ὕμνουν τοὺς θεούς, cfr. Et. Magn. 38, 48). Infine non è
escluso che il numerale δύο preceduto dal sintagma μετά μου possa riferirsi ai καλοὶ παῖδες (cfr. Philox.
Leuc. fr. 836b,1s. PMG) seduti vicino al simposiasta piuttosto che a giovani schiavi addetti alla mescita del
vino (cfr. Hipp. fr. 21 Degani).

13
Men. fr. 209 PCG: τὰς τραπέζας αἴρετε, / μύρα, στεφάνους ἑτοίμασον, σπονδὰς ποίει.
]οις φανερῶ<ι> γὰρ ι.[ ]ω[...]ου
].οι καὶ σ<ε>ίσατε τω[ ].[.....]
]κ̣ων ἀνέμων ι̣ [ ]εσας
]ς περὶ δάκτυλον[ ]η̣ς̣
αὔλ<ε>ι μο[ι.

5-8 P.Oxy. 1795 frr. (a), (b)

6 μοι vel λοι edd. pr.

... manifesto invero ... / e scuotete ... / ... dei venti ... / ... un dito .../ Suonami l’aulo.

Gli scarsi lemmi rimasti non aiutano affatto a riconoscere il senso generale di questa quartina. Ignoto
è infatti il soggetto di σ<ε>ίσατε e oscuri risultano sia l’accenno ai venti sia il valore del nesso περὶ
δάκτυλον. Talvolta l’immagine metaforica dei venti impetuosi serve a descrivere icasticamente gli effetti
travolgenti della passione amorosa (cfr. Sapph. fr. 47 V.; Ibyc. fr. 286 PMGF). Con la doverosa prudenza
imposta dal cattivo stato di conservazione del frustulo papiraceo si può avanzare l’ipotesi che qui la
menzione dei venti faccia parte del motivo topico del simposio invernale (cfr. Alc. fr. 338 V.; Xenophan. fr.
13 PETFr; Hor. carm. I 9,1 ss.; epod. XIII), durante il quale si partiva da considerazioni sulle cattive
condizioni atmosferiche per giungere a riflessioni sulla caducità del vivere e sui mali che solitamente
accompagnano l’uomo nella sua esistenza. In questo caso la locuzione περὶ δάκτυλον avrebbe la medesima
valenza del nesso alcaico δάκτυλος ἀμέρα (fr. 346, 1 V.; cfr. A.P. XII 50, 5-6 (Asclepiad.) e Mimn. fr. 8, 3
PETFr: πήχυον χρόνον; Catull. V 5: brevis lux; Hor. carm. I 11, 6: spatio brevi).
π]λοκάμους λευκ[ούς
]θ̣ανεῖν ὅτι πα[
]ε γούνατα ν.[
]σ̣σο̣ θε[
].[

9-12 P.Oxy. 1795 fr. (a)

in universum vd. Sapph. fr. 58, 14-15 V.: λεῦκαί τ᾿ ἐγένο]ντο τρίχες ἐκ μελαίνας ... δ᾿ [ο]ὐ φέρουσι 9 Anacr.
fr. 36, 1-2 Gent.: πολιοὶ μὲν ἡμὶν ἤδη / κρόταφοι κάρη τε λευκόν Anacr. fr. 77 Gent.: εὖτέ μοι λευκαὶ μελαίνῃς /
ἀναμεμείξονται 9-10 A.P. XI 54, 3-4 (Palladas): ἀλλ᾿ ἐγὼ εἰ λευκὰς φορέω τρίχας εἴτε μελαίνας, / οὐκ ἀλέγω,
βιότου πρὸς τέλος ἐρχόμενος 11 Alcm. fr. 26, 1-2 PMGF: οὔ μ᾿ ἔτι, ... / γυῖα φέρην δύναται

11 possis μ]ε γούνατα νῦ[ν

... bianche chiome ... / morire ... / ginocchia ... / ...../ <Suonami l’aulo>.

L’argomento di questi versi sembra piú agevole da individuare poiché il nesso πλοκάμους λευκούς,
il vocabolo γούνατα e l’infinito θανεῖν rinviano inequivocabilmente al topos tradizionale della vecchiaia con
i mali che ad essa si accompagnano (cfr. Soph. Oed. Col. 1211 ss.). Sia pure con notevoli differenze
stilistiche l’argomento è sovente riproposto dai poeti lirici. Alcmane, ad esempio, con nostalgico rimpianto
per la giovinezza confessa al coro delle fanciulle gli acciacchi della senilità incombente con l’esplicito
riferimento alle proprie membra indebolite: οὔ μ᾿ ἔτι ... γυῖα φέρην δύναται (fr. 26, 1-2 PMGF); e con
termini molti simili Saffo descrive la propria età avanzata πά]ντα χρόα γῆρας ἤδη / λεῦκαί τ᾿ ἐγένο]ντο
τρίχες ἐκ μελαίναν / ... γόνα δ᾿ [ο]ὐ φέροισι (fr. 58,14-15 V.). Anche Mimnermo a piú riprese affronta
questo tema con toni melanconici (cfr. frr. 1; 7 e 8 PETFr), mentre con una vena di raffinata ironia esso è
trattato da Anacreonte il quale cosí inizia un suo celebre componimento: πολιοὶ μὲν ἡμὶν ἤδη / κρόταφοι
κάρη τε λευκόν, / χαρίεσσα τ᾿ οὐκέτ᾿ ἥβη / πάρα (fr. 36 Gent.).
[Θ.................... .... .... . ..... .... .... .... .... .....]
μηδ᾿ ἀδικ<ε>ῖν ζήτει, μηδ᾿ ἄν ἀδι[κῆι, πρ]οσερίση<ι>ς
φεῦγε φόνους καὶ φεῦγε μάχας, φ[εῖ]σ̣αι̣ δ̣ι̣α̣φ̣ρ̣ο̣ν̣ε[ῖ]ν̣.
εἰς δ᾿ ὀλίγον πονέσεις καὶ δεύτερον οὐ μεταμέλη<ι>.
αὔ[λ<ε>ι μοι.

2-4 P.Oxy. 1795 fr. (c)

2 Democrit. 68 VS fr. 62: ἀγαθὸν οὐ τὸ μὴ ἀδικεῖν, ἀλλὰ τὸ μηδὲ ἐθέλειν Men. fr. 721 PCG: τὸ μηδὲν
ἀδικεῖν πᾶσιν ἀνθρώποις πρέπει, al. Philem. fr. 97 PCG: ἀνὴρ δίκαιός ἐστιν οὐχ ὁ μή ἀδικῶν / ἀλλ᾿ ὅστις ἀδικεῖν
δυνάμενος μὴ βούλεται, vd. etiam [Men.] sent. 37-38 Jäkel; Ps. Phocyl. 21: μήτ᾿ ἀδικεῖν ἐθέλοις, μήτ᾿ οὖν
ἀδικοῦντας ἐάσῃς 3 Ps. Phocyl. 151 φεῦγε διχοστασίην καὶ ἔριν πολέμου προσιόντος, cf. Theogn. 51; Soph. Oed.
Col. 1234-1235; vd. etiam Eur. Suppl. 949-952

2 ἀδι[κῆι, πρ]οσερίσηις suppl. edd. pr. 3 φ[<ε>ῖ]σαι διαφρονε[ῖ]ν suppl. edd. pr., coll. Hesych. δ 1441 L.;
post δ potest legi υ et de α dubitant edd. pr., unde δύο φρονεῖν coni. Young 4 πονέσεις de qua forma cf. Mayser,
Gramm. griech. Pap. I/1, p.129; Blass-Debrunner § 74; Gignac, Grammar of the Greek Papyri II, p.283s. μεταμελῆι
(nova futuri forma) edd. pr.

... cerca di / non commettere torti; non venire a lite se subisci un torto; / sfuggi le stragi; sfuggi le risse; evita
di essere in discordia; / per poco soffrirai e poi non te ne pentirai. / Suonami l’aulo.

La quartina con la quale ha inizio la pressoché integra seconda colonna di P.Oxy. XV 1795 è
connotata da un tono serio, proprio di composizioni poetiche imperniate su argomenti etici con evidenti
implicazioni pedagogiche (cfr. Theogn. 147-148; 395-396; 465). In particolare l’incipit del v. 2 invita
perentoriamente a non voler commettere ingiustizie, un’asserzione che ha numerosi precedenti a partire dal
V sec. a. C. Democrito infatti aveva già asserito che “è cosa veramente buona non il fatto di non commettere
ingiustizia, bensí il non volerla commettere” (68 VS fr. 62; cfr. fr. 89). Tale concetto ricorre sovente in
Menandro (frr. 284; 398; 497; 498; 790, 3 Körte), in Filemone (fr. 97 PCG = [Men.] Sent. 37s. Jäkel: ἀνὴρ
δίκαιός ἐστιν οὐχ ὁ μὴ ἀδικῶν / ἀλλ᾿ ὅστις ἀδικεῖν δυνάμενος μὴ βούλεται) e in tempi piú vicini a questa
silloge nello Pseudo-Focilide (v. 21: μέτ᾿ ἀδικεῖν ἐθέλοις, cfr. Ael. Aristid. II 270 Behr).
La gnome seguente (“non venire a contesa qualora tu subisca un torto”), strettamente legata
all’asserzione precedente dall’anaforico μηδέ, è senz’altro piú interessante per la relativa novità dell’assunto.
Siamo molto lontani dal principio consono all’etica tradizionale di ricambiare il male con il male,
icasticamente espresso da Archiloco: “so una sola cosa: ricambiare con terribili mali chi commette torto nei
miei confronti” (fr. 126; cfr. fr. 23, 14s. IEG). Al tempo stesso, però, è possibile riconoscervi una forte
assonanza con la condanna socratica della legge del contrappasso formulata nel Critone platonico (49cd:
οὔτε ἄρα ἀνταδικεῖν δεῖ οὔτε κακῶς ποιεῖν οὐδένα ἀνθρώπων, οὐδ᾿ ἂν ὁτιοῦν πάσχῃ ὑπ᾿ αὐτῶν),
paradossalmente contraria alla morale corrente che ammetteva o meglio imponeva la ritorsione14.
Le insistenti allitterazioni e anafore evidenziano le successive raccomandazioni ad astenersi dal
commettere azioni che indurrebbero altri a restituire i torti subíti. Se una vaga somiglianza può essere
rilevata con un passo euripideo (Suppl. 949-952: ὦ ταλαίπωροι βροτῶν, / τί κτᾶσθε λόγχας καὶ κατ᾿
ἀλλήλων φόνους / τίθεσθὲ παύσασθ᾿, ἀλλὰ λήξαντες πόνων / ἄστη φυλάσσεθ᾿ ἥσυχοι μεθ᾿ ἡσύχων),
certo piú calzante è il confronto con Ps.-Phocyl. 151: φεῦγε διχοστασίην καὶ ἔριν πολέμου προσιόντος
(cfr. [Diog.] epist. 33,2 Hercher).

14
Cfr. Aesch. Choe. 123: τὸν ἐχθρὸν ἀνταμείβεσθαι κακοῖς, cfr. Sapph. fr. 5, 6 V.; Sol. fr. 1, 5-6 PETFr; Theogn.
871s.; Pind. Pyth. II 83-84; Aesch. Sept. 1049; Cho. 123; Soph. Ant. 643s.; Ion 1046; fr. 1092 TrGF; Plat. Resp. 332d;
Arist. Et. Nic. V 5, 1132b 26-27; etc. Si veda M. W. Blundell, Helping Friends and Harming Enemies, Cambridge 1989.
Anche se meno sicura è l’esatta valenza dell’explicit15, esso prepara con una sapiente variatio
l’enunciato finale della strofe, riconducibile ad una massima attribuita ad Antistene “il piacere legittimo è
quello che deriva dalle fatiche e dallo sforzo di volontà” (frr. 126 e 127 Giannantoni = frr. 113 e 110
Decleva Caizzi). Nel finale infatti si ammettono le difficoltà e le sofferenze, sia pure brevi, cui si può andare
incontro nell’ottemperare ai precetti enunciati, tuttavia non si manca di rassicurare l’uditorio sui benefici che
certamente se ne possono trarre.

15
Si intravede un possibile διαφρονεῖν inteso dagli editori nel senso di “essere in discordia” sulla scorta della glossa
esichiana, δ 1441 L.: διαφρονέων· ... καὶ ὁ ἐν διαφορᾷ τινι γεγονώς.
<Ε>ἶδες ἔαρ, χειμῶνα, θέρους· ταῦτ᾿ ἐστὶ διόλου·
ἥλιος αὐτὸς [ἔδυ], καὶ νὺξ τὰ τεταγμέν᾿ ἀπέχει.
μὴ κοπία ζητεῖν, πόθεν ἥλιος ἢ πό̣θε̣ [̣ ν] ὕδωρ.
ἀλλὰ π[ό]θεν τ[ὸ] μύρον καὶ τοὺς στεφάνου[ς] ἀγοράση<ι>ς.
αὔλ<ε>ι μο[ι.

5-8 P.Oxy. 1795 fr. (c)

6 Hom. Il. XVIII 241: ἠέλιος μὲν ἔδυ 7 Hor. carm. I 11,1 tu ne quaesieris Verg. Aen. I 743: (hic canit) unde
imber et ignes 8 Anacreont. 8, 5 ss. W.: ἐμοὶ μέλει μύροισιν / ... / ἐμοὶ μέλει ῥόδοισιν / καταστέφειν κάρηνα

5 ιδιες P 6 ἔδυ suppl. edd. pr. 7 υδυρ P, corr. edd. pr.

Conosci la primavera, l’inverno, l’estate: queste stagioni esistono sempre; / lo stesso sole tramonta e la
notte occupa la parte che le è stata assegnata./ Non voler indagare donde il sole o donde l’acqua viene, / ma
donde ti procurerai l’unguento e le corone. / Suonami l’aulo.

Il conciso richiamo al perenne avvicendarsi delle stagioni e all’immutabile alternarsi del giorno con
la notte (cfr. Lucret. V 416 ss.; V 737 ss.: it ver ... / ... inde .. sequitur et comes una / pulvurulenta Ceres ... /
inde autumnus adit ... / ..... quo minus est mirum si certo tempore luna / gignitur et certo deletur tempore
rursus / cum fieri possint tam certo tempore multa) precede la bonaria esortazione a mettere da parte le vane
ricerche nonché le speculazioni erudite sull’origine dei fenomeni celesti e meteorologici (cfr. Hor. epist. I 12,
14 ss.; Verg. Georg. II 475 ss.; Prop. III 5, 22 ss.; [Tibull.] III 18 ss.) per occuparsi invece di faccende piú
pratiche, legate alla contingente realtà del momento, quali ad esempio dove acquistare l’occorrente per
partecipare all’imminente simposio.
La quartina presenta sotto questo aspetto qualche analogia con un epigramma conviviale di
Automedonte (A.P. XI 50, 5-6), dove si invita a limitare il proprio sapere lasciando ad Epicuro il compito di
indagare sull’origine del cosmo. Ed ancora Lucillio polemizza con la deplorevole consuetudine di affrontare
temi eruditi durante le bevute promettendo di invitare l’amico Aulo ad un simposio, che si svolgerà seguendo
nuove norme: οὐ μελοποιὸς ἐρεῖ κατακείμενος, οὔτε παρέξεις / οὔθ᾿ ἕξεις αὐτὸς πράγματα γραμματικά
(A.P. XI 10, 3-4). Ma già Orazio aveva sapientemente variato questo tema in un’ode nella quale
ironicamente rimprovera un ignoto convitato per la sua pedantesca dissertazione poco consona all’occasione:
quantum distet ab Inacho / Codrus pro patria non timidus mori, / narras et genus Aeaci / et pugnata sacra
bella sub Ilio: / quo Chium pretio cadum / mercemur, quis aquam temperet ignibus, / quo praebente domum
et quota / Paelignis caream frigoribus, taces (carm. III 19, 1 ss.).
Gli esempi riportati, se da un lato testimoniano un frequente ricorso a motivi diatribici, messi in
evidenza tra gli altri da E. Bignone16, dall’altro confermano i profondi mutamenti intervenuti nella scelta
degli argomenti trattati nei simposî dei periodi successivi all’età classica. Già alla fine del V sec. a. C. infatti
erano diventate estremamente rare le occasioni in cui un simposiasta fosse in grado di suonare uno strumento
improvvisando un canto (cfr. Ion FGrHist 392 fr. 13; Cic. Tusc. I 4) e ci si accontentava di ripetere brani
lirici già noti o di recitare passi di famose tragedie. Quindi nel simposio, che durante il IV sec. perde la
funzione culturale di primo piano17, si preferisce affrontare la soluzione di difficili problemi grammaticali,
filosofici, mitici o cosmogonici (cfr. ex. gr. A.P. XI 347 [Philipp.]), ritenuti una volta poco adatti alla
circostanza (Xenophan. fr. 1, 19 ss. PETFr; Ibyc. fr. S 151,10 ss. PMGF).
Non è dunque fortuito sotto questo profilo che Apollonio Rodio nelle Argonautiche faccia cantare ad
Orfeo una cosmogonia empedoclea durante il convito degli eroi organizzato prima di dare inizio alla
spedizione (I 496-511) o che Virgilio, emulando il poeta alessandrino, arricchisca la descrizione del
banchetto offerto da Didone ad Enea col noto canto di Iopa: hic canit errantem lunam solisque labores, /

16
1929, pp. 457-477; cfr. J. F. Kinstrand, Bion of Borysthenes, Uppsala 1976, p. 192.
17
M. Vetta, “Poesia simposiale nella Grecia arcaica e classica”, in Poesia e simposio nella Grecia antica. Guida storica
e critica, a cura di M.V., Roma-Bari, 1983, pp. XXXI ss.
unde hominum genus et pecudes, unde imber et ignes, / Arcturum pluviasque Hyadas geminos Triones, / quid
tantum Oceano properent se tingere soles / hiberni vel quae tardis mora noctibus obstet (Aen. I 742-746)18.
Il fatto che gli Egiziani distinguessero soltanto tre stagioni (Diod. I 11) non è indizio sufficiente per
avallare l’ipotesi dell’origine epicorica della strofe poiché anche i Greci accanto alla quadripartizione
canonica dell’anno (Alcm. fr. 20 PMGF; cfr. Eur. fr. 990 TrGF) ne conoscevano una scansione tripartita che
solitamente escludeva l’autunno19, come attesta tra gli altri Eschilo quando fa ricordare all’eroe civilizzatore
Prometeo di essere stato lui ad insegnare agli uomini i primi rudimenti dell’astronomia, perché questi
potessero regolare le loro attività sulla base di quelle conoscenze (Prom. 454-458).
Dopo aver ribadito in termini essenziali il perenne avvicendarsi delle stagioni sottolineato dalla
locuzione ταῦτ᾿ ἐστὶ διόλου20, si passa nel preambolo alla constatazione del naturale susseguirsi della notte
al giorno21 con l’inedito nesso νὺξ τὰ τεταγμέν᾿ ἀπέχει che precede l’espressione d’ascendenza epica ἥλιος
αὐτὸς ἔδυ (Hom. Il. XVIII 241). Senza alcuna forzatura formale segue l’esortazione a desistere dalle fatiche
imposte dalle ricerche sulle origini dei fenomeni celesti formulata con tono didattico dal μὴ κοπία ζητεῖν
(cfr. Epicur. Ep. III p.59 Usener: μὴ κοπιάτω φιλοσοφῶν), mentre l’anaforico πόθεν, usuale nella letteratura
cosmogonica (cfr. Verg. Aen. I 743: unde imber et ignes), viene ripreso per il topico invito finale a procurarsi
profumi e corone per partecipare all’imminente simposio.

18
R. D. Brown, The Structural Function of the Song of Iopas, «Harv.St.» XCIII, 1990, pp. 316-334, vd. p. 321 nt.7.
19
O. Longo, Le quattro stagioni, «QS» XXVII, 1988, pp.27-50, vd. p. 30 ss.
20
Per l’avverbio con valore temporale si veda ex. gr. Asclep. A.P. V 158, 3.
21
Esiodo (Theog. 747-758) ricorda l’alternarsi del giorno e della notte narrando che le divinità del Giorno e della Notte
si incontrano e si scambiano i rispettivi ruoli in una alternanza continua, salutandosi quando passano il limitare della
dimora, che non li ospita mai entrambi insieme.
Κρήνας αὐτορύ[το]υς μέλ[ιτ]ος τρ<ε>ῖς ἤθελον ἔχειν
πέντε γαλακτορύτους, οἴνου δέκα, δ[ώδε]κα μύρου,
καὶ δύο πηγαίων ὑδάτων, καὶ τρεῖς χ̣ι̣ο̣νέ̣ ω
̣ ν·
παῖδα κατὰ κρήνην καὶ παρθένον ἤθελον ἔχειν.
αὔλ<ε>ι μο[ι.

9-12 P.Oxy. 1795 fr. (c)

9-11 Eur. Bacch. 705-711: δροσώδης ὕδατος ἐκπεδῇ νοτίς· / ... / κρήνην ἐξανῆκ᾿ οἴνου θεός· / ... /... /
γάλακτος ἐσμοὺς εἶχον· ... / γλυκεῖαι μέλιτος ἔσταζον ῥοαί, cf. Eur. Bacch. 142-143: ῥεῖ δὲ γάλακτι πέδον, ῥεῖ δ᾿
οἴνῳ, / ῥεῖ δὲ μελισσᾶν νέκταρι 9 Hes. Op. 595-596: κρήνης δ᾿ ἀενάου καὶ ἀπορρύτου ἥ τ᾿ ἀθόλωτος / τρὶς ὕδατος
προχέειν, τὸ δὲ τέτρατον ἰέμεν οἴνου 12 A.P. V 295, 2 (Leont.): ἤθελον ... ἔχειν

9 αὐτορύ[το]υς μέλ[ιτ]ος suppl. edd. pr. 10 πεντη, ε suprascriptum P δ[ώδε]κα suppl. edd. pr. 11 τρις P,
τρῖς dub. Diehl χιονενων P, χιονίνων dub. Diehl

Tre fonti sempre sgorganti miele vorrei avere / cinque che versino latte, dieci di vino, dodici di unguento,/ e
due sorgenti di acqua e tre di neve fusa; / un fanciullo presso ogni fonte e una fanciulla vorrei avere. /
Suonami l’aulo.

La quartina si richiama innanzi tutto a Hes. Op. 592-596, in cui il poeta ascreo descrive un simposio
agreste all’ombra di un antro presso una fonte di acqua perenne: ἐπὶ δ᾿ αἴθοπα πινέμεν οἶνον, / ἐν σκιῇ
ἑζόμενον, κεκορημένον ἦτορ ἐδωδῆς, / ἀντίον ἀκραέος Ζεφύρου τρέψαντα πρόσωπα· / κρήνης δ᾿ ἀενάου
καὶ ἀπορρύτου ἥ τ᾿ ἀθόλωτος / τρὶς ὕδατος προχέειν, τὸ δὲ τέτρατον ἱέμεν οἴνου. La fantastica situazione
immaginata in questi versi rievoca tuttavia anche famose rappresentazioni di società ideali o di mitiche
epoche, ricorrenti nella letteratura utopica, quando la natura benevola offriva spontaneamente agli uomini i
propri frutti22. Tra i precedenti piú antichi si possono annoverare sia il celebre Od. VII 114-137 con
l’accurata descrizione del meraviglioso e sempre fertile giardino di Antinoo nell’isola dei Feaci, sia la
rappresentazione esiodea della città dei giusti (Op. 225-237), che rinvia ad un brano precedente dedicato
all’antica età dell’oro quando la terra dava ai mortali, senza che questi la lavorassero, i suoi prodotti in
abbondanza (Op. 117-118: καρπὸν δ᾿ ἔφερε ζείδωρος ἄρουρα / αὐτομάτη πολλόν τε καὶ ἄφθονον). Sono
però i comici del V sec. a.C. che riprendono la tematica favolistica della vita ai tempi di Crono sollecitati
dalla contemporanea libellistica. Cratino pose infatti come motivo conduttore di una sua commedia, i
Πλοῦτοι (fr. 176 PCG), la spontaneità del cibo, come avrebbero poi fatto Ferecrate nei Minatori (fr. 113
PCG) e nei Persiani (fr. 137 PCG), Teleclide negli Anfizioni (fr. 1 PCG), Metagene nei Persiani di Turi (fr.
6 PCG), Nicofonte nelle Sirene (fr. 21 PCG), mentre Cratete nelle Θηρία (frr. 16 e 17 PCG) prospettava una
fantastica società meccanicistica in cui i cibi si sarebbero cotti da soli e le stesse suppelletili, non piú gli
schiavi, avrebbero provveduto a sbrigare le faccende domestiche, mentre i bagni avrebbero avuto impianti
predisposti all’autoregolamentazione dell’acqua calda corrente.
Piú pertinente al testo della strofe è però l’accostamento con Eur. Bacch. 142s. e 689ss. Nell’ultimo
brano euripideo si descrive l’inizio di un rito orgiastico prima che i pastori con la loro presenza lo
interrompano: le menadi scalfendo il terreno con tirsi, con canne e con le unghie fanno scaturire
miracolosamente polle d’acqua (δρσσώδης ὕδατος νοτίς), una fonte di vino (v. 707: κρήνη οἴνου)23 e rivoli
di latte (γάλακτος ἐσμοί), mentre il miele cola copiosamente dai tirsi (γλυκεῖαι μέλιτος ῥοαί). È un
evidente esempio della potenza di Dioniso, il dio che con la sua bevanda aiuta a dimenticare gli affanni, a

22
L. Bertelli, “L’utopia greca”, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, a cura di L. Firpo, Torino 1982, pp.
463-581.
23
Ctesia racconta che nell'isola di Nasso a volte sgorgava vino dolce da una fonte, come segno tangibile del favore di
Dioniso (688 FGrHist Fr. 45, 140 καὶ ἐν Νάξῳ κρήνην, ἐξ ἧς οἶνος ἐνίοτε ῥεῖ καὶ μάλα ἡδύς).
liberarsi dalle censure inibitorie del vivere quotidiano e ad evadere dai consueti canoni sociali, favorendo in
tal modo il pieno godimento degli effimeri piaceri durante i simposî e le feste in suo onore.
La quartina con un dettato limpido, impreziosito dall’altisonante composto αὐτόρυτος di ascendenza
pindarica (Pyth. XII 17; cfr. Soph. Ant. 950; A.P. IX 669, 3 [Marian.]) e dalla neoformazione γαλακτόρυτος,
svolge con sostanziali variazioni un tema costantemente presente nella lirica da Alcmane (fr. 56 PMGF) alle
Anacreontee (cfr. 22 W.), dagli anonimi carmi conviviali (carm. conv. 17-18/900-901 PMG) agli epigrammi
raccolti nell’Anthologia Palatina (cfr. V 83 e 84): il motivo del desiderio irrealizzabile, spesso intrecciato
con quello erotico (cfr. Hipp. fr. 120 Degani: εἴ μοι γένοιτο παρθένος καλή τε καὶ τέρεινα; carm. conv.
21/904 PMG; A.P. V 295 [Leont.]). La funzione del κρητήρ, che oltre a designare metaforicamente il
simposio (Anacr. fr. 56,1 Gent.; Theogn. 493; Telestes fr. 6/810, 1 PMG) ne configura lo spazio per la
posizione centrale cui è posto tra i convitati24, viene assolta dalle κρῆναι. Queste, simili all’iperbolica coppa
dalla quale Macedonio vorrebbe sgorgasse perennemente vino (A.P. XI 58, 1 ss.: ἤθελον οὐ χρυσόν .../ ἀλλ᾿
ἵνα μοι τροχόεσσα κύλιξ βλύσσειε Λυαίῳ· / χείλεος ἀενάῳ νάματι λουομένου), anticipano l’espressione
chiave ἤθελον ἔχειν, ripetuta per ben due volte (alla fine del primo e dell’ultimo verso) per connotare il
topos su cui è incentrato il componimento (cfr. A.P. V 295, 2 [Leont.]). Al tempo stesso esse inevitabilmente
spostano lo spazio conviviale dall’androne ad uno scenario naturale25 piú consono alle celebrazioni di riti
orgiastici in onore di Dioniso (cfr. Eur. Bacch. 689 ss.).
Il motivo viene amplificato poi dall’insistente meticolosità con cui vengono specificate le diverse
fonti da cui si vorrebbe attingere i componenti per preparare le bevande in proporzioni debitamente ricordate:
miele, latte, acqua sorgiva e acqua nivea, μύρον, vino. Adeguatamente miscelati questi elementi erano alla
base di gradevoli pozioni, poiché l’assunzione di vino puro era considerata una pericolosa usanza barbara
(cfr. Anacr. fr. 33 Gent.) che poteva condurre alla pazzia. Il vino col miele (μελιτίτης οἶνος, μελικράς,
Dioscorid. V 7) o con il latte (γαλακτώδης οἶνος, Hippocr. Epid. VII 101) è attestato soprattutto nei testi
medici, mentre l’idromele (μελίκρατον), la mistura di latte e miele nota già da un passo dell’Odissea (X
519), poteva servire nelle libagioni per i morti (cfr. Eur. Or. 115). Passi comici attestano la consuetudine di
mescere il vino con acqua nivea (Strattis fr. 60,3; Alexid. fr. 145,10, Dexicrates fr. 1 PCG: εἰ δὲ μεθύω καὶ
χίονα πίνω καὶ μύρον / ἐπίσταμ᾿ ὅ τι κράτιστον Αἴγυπτος ποιεῖ; cfr. Sim. fr. eleg. 6 W.; A.P. V 169, 1
[Asclepiades]); del vino profumato (μυρίνης)26 infine ci parlano Difilo (fr. 17,10 PCG), Posidippo (fr. 36
PCG), Filippide (fr. 40 PCG), Plutarco (Sept. Sap. Conv. 3) e in particolar modo Pollux VI 17: μυρίνης
οἶνος, μύρῳ κεκραμένος· οἱ δὲ τὸν γλυκὺν οὕτως οἴονται κεκλῆσθαι. Né sono dimenticati i piaceri erotici
all’ultimo verso quando, con il richiamo al fantastico simposio κατὰ κρήνην, si esprime il desiderio di essere
in dolce compagnia di ragazzi e di fanciulle analogamente al finale di Anacreont. 42, 14 ss. W.: πολυκώμους
κατὰ δαῖτας / νεοθηλέσιν ἅμα κούραις / ὑπὸ βαρβίτῳ χορεύων / βίον ἥσυχον φεροίμην, cfr. carm. conv.
21/904, 2 PMG: κἀγὼ παῖδα καλὴν τὴν μὲν ἔχω, τὴν δ᾿ ἔραμαι λαβεῖν).

24
Xenophan. fr. 1, 4 PETFr; cfr. F. Lissarrague, Un flot d’images. Une esthétique du banquet grec, Paris 1987; tr. it.,
Roma-Bari 1989.
25
Identica è la funzione della fonte perenne da cui attingere acqua per miscelare il vino durante un convito agreste in
Esiodo (Op. 595-596).
26
L’allusione potrebbe, però, riguardare l’usanza di profumarsi nei simposî (cfr. ex. gr. Xenophan. fr. 1, 3 PETFr; Men.
fr. 209 PCG: τὰς τραπέζας αἴρετε, / μύρα, στεφάνους ἑτοίμασον, σπονδὰς ποίει).
Λύδιος αὐλὸς ἐμοὶ τὰ δὲ Λύδια παίγματα λύρας
κα̣[ὶ] Φρύ̣γ[̣ ιο]ς κάλαμος τὰ δὲ τ̣α̣ύρ̣̣ε̣α τύμπανα πονεῖ·
ταῦτα ζῶ̣ν̣ ᾆ<ι>σα̣ί̣ τ᾿ ἔραμαι, καὶ ὅταν ἀποθάνω
αὐλὸν ὑπὲρ κεφαλῆς θέτε μοι, παρὰ ποσ<σ>ὶ δὲ λύρη[ν.
αὔλ<ε>ι μοι.

13-16 P.Oxy. 1795 fr. (c)

13 Theogn. 533-534: χαίρω δ᾿ εὖ πίνων καὶ ὑπ᾿ αὐλητῆρος ἀείδων, / χαίρω δ᾿ εὔφθογγον χερσὶ λύρην
ὀχέων, vd. etiam Anacreont. 2 W. 14 Eur. Iph. Aul. 576 ss.: βάρβαρα συρίζων, Φρυγίων / αὐλῶν ... καλάμοις /
μιμήματα πνείων, cf. Telestes fr. 810 PMG Catull. LXIII 22 tibicen ubi canit Phryx curvo grave calamo Tibull. II 1,
86: Phrygio tibia curva sono

13 τά τε Keydell qui post κάλαμος interpunxit (apud Heitsch) 15 ερομαι P, corr. edd. pr. 15 ὅταν ultima
syllaba producta alibi non invenitur 16 ποσι P λυρη[ P, λύρα[ν edd. pr.

L’aulo lidio e gli scherzi della lira lidia / e la canna sonora frigia e i timpani di pelle bovina per me
suonano. / Ora che son vivo queste arie amo cantare e quando sarò morto / l’aulo sopra il mio capo
deponete e ai miei piedi la lira. Suonami l’aulo.

Non poteva mancare, adeguato all’atmosfera eudaimonistica dell’occasione, il richiamo alla musica e
ai piaceri che essa procura nella finzione di una disincantata enunciazione delle ultime volontà espresse da
un melomane, un esempio che trova il suo corrispettivo in un umoristico αἶνος conviviale in prosa
conservato in un’antologia di tradizione papiracea (P.Tebt. I 2a v). Nell’aneddoto si racconta che un
pederasta avrebbe raccomandato agli amici che alla sua morte ne bruciassero le ossa, le frantumassero e le
pestassero perché potessero essere usate come lenimento per quanti soffrissero alla regione anale27.
Nell’irenico simposio e nel poco morigerato κῶμος che poteva seguire a quello, i momenti edonistici
erano sovente contrassegnati da esperienze musicali, da esecuzioni di armonie che ricordavano nel nome i
lontani luoghi d’origine. Appunto a tali melodie e agli strumenti con i quali erano suonate è rivolto
l’entusiastico elogio il cui dettato è sottolineato soprattutto nella prima parte da mimetiche quanto insistite
allitterazioni, assonanze, omeoteleuti e anafore miranti a rievocarne a livello fonetico-espressivo le
peculiarità timbriche e coloristiche.
Innanzi tutto è celebrato l’αὐλός, lo strumento prevalente nei conviti (cfr. Theogn. 531s.; Ephipp. fr.
7 PCG; Xen. Conv. III 1) e nei κῶμοι (cfr. Pratinas fr. 1/708, 6-9 PMG), preceduto come in Pindaro (Ol. V
19) dall’etnico λύδιος per evidenziare le caratteristiche armoniche delle festose composizioni che con esso si
solevano accompagnare (cfr. Plat. Resp. III 398e; Arist. Pol. VIII 1342b 31 ss.); in serrata coordinazione sono
menzionate poi gli scherzosi motivi eseguiti con la lira (cfr. [Hom.] Hymn. Merc. 423 e 54 ss.)28 connotati
con il termine παίγματα d’ascendenza euripidea (Bacch. 161; cfr. παιγμοσύνη in Stesich. fr. 55/232, 2
PMGF).
Alle molli musiche lidie sono accostate quelle frigie, appassionanti e orgiastiche, in origine destinate
agli ambienti cultuali dionisiaci e cibelici (cfr. ex. gr. Catull. LXIII 21 ss.), ma da tempo introdotte anche nei

27
Ferrari 1988, pp. 188-189; Pordomingo 2001, pp. 1077-1093.
28
Theogn. 973-978: οὐδεὶς ἀνθρώπων, ὃν πρῶτ᾿ ἐπὶ γαῖα καλύψῃ / εἰς τ᾿ Ἔρεβος καταβῇ, δώματα Περσεφόνης, /
τέρπεται οὔτε λύρης οὔτ᾿ αὐλητῆρος ἀκούων / οὔτε Διωνύσου δῶρ᾿ ἐσαειράμενος. / ταῦτ᾿ ἐσορῶν κραδίην εὖ
πείσομαι, ὄφρα τ᾿ ἐλαφρά / γούνατα καὶ κεφαλὴν ἀτρεμέως προφέρω; mel. adesp. fr. 1009 PMG: ἑπειτα κείσεται
βαθυδένδρῳ / ἐν χθονὶ συμποσίων τε καὶ λυρᾶν ἁμοιρος / ἰαχᾶς τε παντερπέος αὐλῶν (a proposito del fatto che
dopo la morte non si può godere dei simposî e delle musiche eseguite con la lira e con gli auloì).
simposî29, con la menzione del κάλαμος frigio, simile ma non identico all’αὐλὸς λύδιος (Paus. IX 12, 5) e
noto per il registro profondo del suo suono (Eur. Iph. Aul. 576 ss.; cfr. Tibull. II 1, 86; Catull. LXIII 22),
nonché dei timpani fatti di pelle bovina (Herodot. IV 76, 4; Eur. Cycl. 63-65 e 204-205; Herc. 889-890; Hel.
1347; Bacch. 58-59 e 152-153; Men. fr. 145, 11 CGFP; Apoll. Rhod. I 1139; Diogen. fr. 1 TrGF; Catull.
LXIII 21; Hor. carm. I 18, 13; Polyaen. Stratagemata VII 5, 1).
In effetti principalmente nelle festevoli riunioni conviviali era ammessa l’esecuzione di arie
trasgressive, come ci confermano talune significative testimonianze. Da Ateneo (XIV 625c) siamo informati
che Pitermo avrebbe sperimentato l’armonia ionica nella composizione dei suoi σκόλια (carm. conv. 27/910
PMG), mentre Pindaro ricorda l’invenzione del βάρβιτος fatta da Terpandro dopo aver frequentato i simposî
dei Lidii30.
Con il verbo πονέω, nel quale è possibile ravvisare non solo il generico concetto di suonare
enucleabile dal contesto, ma anche quello del faticoso labor limae, interessante reminiscenza di note
enunciazioni programmatiche di poetica alessandrina (cfr. Theocr. VII 51: τὸ μελύδριον ἐξεπόνασα), si
chiude emblematicamente il preambolo il cui assunto è ripreso dall’incipitario ταῦτα del verso successivo.
Dopo il modulo espressivo ᾆσαι ἔραμαι, formalmente simile all’anacreontico ἔραμαι συνηβᾶν (fr.
23 Gent.; cfr. carm. conv. 21/904, 2 PMG), vengono infine serenamente esposte le ultime volontà
testamentarie dell’anonimo musico, il quale dapprima professa il profondo amore per i canti e poi chiede che
alla sua morte vengano sepolti con lui (θέτε, cfr. Hom. Il. XXIII 83) come arredo funebre l’ αὐλός e la lira,
l’uno sopra il capo, l’altra presso i suoi piedi, nell’inespressa speranza di essere dilettato da quegli strumenti
anche nella vita ultraterrena.
[Notevole per la comprensione della seconda parte della quartina i reperti archeologici della cosiddetta
"Tomba del musico" a Dafne presso Atene, attualmente nel Museo Archeologico del Pireo, su cui vd. E.
Pöhlmann, Excavation, Dating and Content of Two Tombs in Daphne, Odos Olgas 53, Athens, ibidem, pp. 7-
24; A.A. Alexopoulou - A.-A. Kaminari, Multispectral Imaging Documentation of the Findings of Tomb I
and II at Daphne, ibidem, pp. 25-60; M.L. West, The Writing Tablets and Papyrus from Tomb II in Daphni,
ibidem, pp. 73-92; S. Psaroudakes, The Daphne Aulos, ibidem, pp. 93-121; C. Terzes, The Daphne Harp,
ibidem, pp. 123-149; S. Hagel, Aulos and Harp: Questions of Pitch and Tonality, ibidem, pp. 151-171; A.A.
Alexopoulou - I. Karamanou, The Papyrus from the 'Musician's Tomb', in Daphne: ΜΠ 7449, 8517-8523
(Archaeological Museum of Piraeus), «GRMS» 2, 2014, pp. 23-49; D. Najock, Restringing the Daphne
Harp, «GRMS» 3, 2015, pp. 3-17; I. Karamanou, The Papyrus from the 'Musician's Tomb', in Daphne: ΜΠ
7449, 8517-8523, «GRMS» 4, 2016, pp. 51-70]

29
Telestes fr. 810 PMG. Vd. in generale M. A. Petretto, L'aulos, «Sandalion» 16-17, 1993-1994, pp. 107-124. Per
ulteriori approfondimenti vd. S. Perrot, A Lydian Pipe and the Lydian Tunes of the Lyre serve me. The Anonymous
Aulodia (POxy, 1795) and the Genre of Aulody, in L. Bravi - L. Lomiento - A. Meriani - G. Pace (edd.), Tra Lyra e
aulos. Tradizioni musicali e generi poetici, Pisa-Roma 2016, pp. 246-263.
30
L. E. Rossi, La dottrina dell’ethos musicale e il simposio, in La musica in Grecia, a cura di B. Gentili - R.
Pretagostini, Roma-Bari 1988, pp. 238-245.
Μέτρα τί[ς] ἂ̣ν̣ πλούτου, τίς ἀνεύρατο μέτρα πενίας,
ἢ τίς ἐν ἀνθρώποις χρυσοῦ πάλιν εὕρατο μέτρον;
νῦν γὰρ ὁ χρήματ᾿ ἔχων ἔτι πλε[ί]ονα χρήματα θέλει,
πλούσιος δ᾿ ὁ τάλας βασανίζεται ὥσπερ ὁ πένης.
αὔλ[<ε>ι μοι.

17-20 P.Oxy. 1795 fr. (c)

17-19 Sol. fr. 1, 71-73 PETFr: πλούτου δ᾿ οὐδὲν τέρμα πεφασμένον ἀνδράσιν κεῖται· / οἲ γὰρ νῦν ἡμέων
πλεῖστον ἔχουσι βίον, / διπλάσιον σπεύδουσι, cf. Theogn. 227-229; Pind. Nem. XI 47: κερδέων δὲ χρὴ μέτρον
θηρεέμεν 17 Eur. fr. 578, 6 TrGF: χρημάτων μέτρον 19 Eur. Suppl. 238-239: οἱ μὲν ὄλβιοι ... πλειόνων τ᾿ ἐρῶσι
ἀεί Eur. fr. 580, 3-5 TrGF: πάντες ... / ... χρημάτων ὕπερ / μοχθοῦσιν 20 Ps. Phocyl. 43: χρυσὸς ἀεὶ δόλος ἐστὶ καὶ
ἄργυρος ἀνθρώποισιν

17 fortasse scribendum τίς ἁν Diehl, Young, ἀν ... ἀνεύρατο edd. pr. tmesis in hoc ordine rara, cf. Hom. Il.
XXIII 709; Od. V 260; Eur. Herc. Fur. 1055s.; Pind. Nem. IX 8 πλούτου παλι P, πλούτου, τίς corr. edd. pr. 18
εὕρατο de qua forma cf. Blass-Debrunner § 81; Gignac, Grammar of the Greek Papyri II, p.343 20 βασανίσ[.]εται P,
βασανίσδεται edd. pr.

Chi mai scoprí la misura della ricchezza, chi mai scoprí la misura della povertà / o chi tra gli uomini scoprí
la misura dell’oro? / Ora chi possiede ricchezze ancor di piú vuole averne; / è ricco, ma il disgraziato è
messo a dura prova come un povero. Suonami l’aulo.

Il sapiente spartano Aristodemo, contemporaneo di Periandro, avrebbe amaramente asserito che


l’uomo è considerato per quello che possiede (Diog. Laert. I 32 χρήματ᾿ ἀνήρ). Alceo, nel riportare la
massima, aggiunge a mo’ di commento che nessun povero è valente e onorato (fr. 360 V.). Il detto, che
ricalca analoghe affermazioni di Esiodo (Op. 313: alla ricchezza si accompagna onore e gloria; cfr. Theog.
973s.) o di Pitermo (carm. conv. 27/910 PMG: tranne l’oro il resto è nulla), rovescia di fatto il coerente
rapporto dei primari valori etici aristocratici, tra i quali la ricchezza era considerata un segno tangibile
dell’onore dovuto a chi si fosse dimostrato ἐσθλός, un concetto ribadito da Pindaro quando, ripetendo la
massima di Aristodemo, la qualifica come vicina al vero (Isthm. II 11)31. Se diventare ricchi era diventata la
principale ambizione per quanti intendevano sottrarsi all’indigenza, ritenuta il peggiore dei mali32,
contemporaneamente venivano celebrati personaggi mitici o storici, Mida Cinira Gige e Creso, quali modelli
paradigmatici di quella invidiabile condizione sociale che con la ricchezza si poteva raggiungere. Al tempo
stesso apprezzamenti enfaticamente critici nei confronti di questo comune modo di pensare vengono esternati
da Archiloco (fr. 19 IEG)33 e da Tirteo (fr. 9, 6 PETFr). Tuttavia le loro affermazioni non sembrano l’esito di
un totale rifiuto della ricchezza, generalmente riconosciuta e accettata come sommo bene dalla morale
comune (cfr. Theogn. 697-718), bensí proposizioni di una diversa priorità degli ideali, sollecitate da piú

31
A. Privitera, Pindaro. Istmiche, Milano 1982, p.159. In una prospettiva diversa si pongono alcuni elogi della
ricchezza, che antiteticamente asseriscono l’acquisizione della nobiltà attraverso la ricchezza (Theogn. 1117-1118:
Πλοῦτε, θεῶν κάλλιστε καὶ ἱμεροέστατε πάντων, / σὺν σοὶ καὶ κακὸς ὢν γίνεται ἐσθλὸς ἀνήρ. D’altra parte si veda
altresì la parodica invocazione ipponattea a Pluto, fr. 44 Degani e l’allocuzione al dio in Theogn. 523-526). Ancora sul
dio cfr. Hes. Theog. 969-974; [Hom.] Hymn. Cer. 489; carm. conv. 2/885 PMG; Timocreon fr. 731 PMG e l’omonima
commedia aristofanea
32
Hes. Op. 631-634 e 686; Sem. fr. 8, 9 ss. Pell.-Ted.; Sol. fr. 1, 41 ss. PETFr; Theogn. 173ss.; Bacchyl. ep. I 159-161
Maehler; Eur. fr. 235 TrGF.
33
Sulle conseguenze negative derivanti dall’aspirazione alla ricchezza e al potere si sofferma Sofocle nell’Edipo Re (vv.
380 ss.). La medesima critica avanzata da Archiloco sarà ripresa poi da Euripide nello Ione (vv. 621ss.) e nell’Oreste
(vv. 1155-1156: Non c’è cosa migliore di un amico sincero, né la ricchezza, né il potere; cfr. fr. 7 TrGF tratto
dall’Egeo).
convinte adesioni a modelli di vita che a loro volta privilegiavano altre qualità: la giovinezza o
probabilmente il piacere per Archiloco34 e la virtú guerresca per Tirteo. In altri termini la presa di distanza da
quello che comunemente era ritenuto il bene per eccellenza può essere ricondotto al piú ampio dibattito
mirante ad identificare in termini relativi quale fosse la cosa migliore, la cosa piú bella, la cosa piú
importante (ex. gr. Sapph. fr. 16, 1 V.; carm. conv. 7/890 PMG; Theogn. 255s.; Plat. Leg. I 631c; II 660e-
661a)35.
C’è però da aggiungere che già con Esiodo (Op. 320-325; cfr. Sol. fr. 1, 7-8 PETFr; Theogn. 145 ss.;
197-202; 753; Ps.-Phocyl. 5s. Derron: μὴ πλουτεῖν ἀδίκως; cfr. v. 43: χρυσὸς ἀεὶ δόλος ἐστὶ καὶ ἄργυρος
ἀνθρώποις) si avverte la necessità di precisare che la ricchezza deve essere acquisita in modo legittimo e nel
pieno rispetto delle norme divine perché possa essere accettabile e duratura36.
Come si può intuire essa è considerata un bene ambiguo (cfr. Sapph. fr. 148, 1 V.: La ricchezza
senza la virtú è uno scomodo vicino; Democrit. 68 VS fr. 77: δόξα καὶ πλοῦτος ἄνευ ξυνέσιος οὐκ
ἀσφαλέα κτήματα37) o addirittura un pericolo, qualora chi la possieda non ne riconosca la giusta misura38 e
voglia possederne in eccesso (Theogn. 596: πλὴν πλούτου παντὸς χρήματός ἐστι κόρος; 605-606; 1171-
1176). Cosí, mentre il saggio non cede alla cupidigia e si accontenta di quello che gli serve, gli altri, accecati
dai fallaci piaceri che l’opulenza potrebbe procurare loro, vengono stoltamente indotti a confonderla con la
felicità, come insegna il noto aneddoto erodoteo dell’incontro tra Solone e Creso39.
In effetti questo tema fu particolarmente sentito nel periodo di Solone e Teognide, quando si
verificarono gravi sconvolgimenti politici che modificarono profondamente il tessuto sociale delle poleis
arcaiche. Proprio il poeta ateniese, con la consapevolezza di chi avverte l’irrimediabile compromissione dei
valori tradizionali dovuta al sopraggiungere di nuove realtà sociali ed economiche, in un verso di una sua

34
V. Di Benedetto, Sofocle, Firenze 1983, p. 16. L’indifferenza nei confronti della ricchezza di un regno asiatico a
favore del primato dato alla giovinezza è ribadito in Eur. Herc. 642 ss., in un passo che ha forti analogie con il fr.
archilocheo. Sulla scia della relatività dei valori si pone anche Anacr. fr. 4 Gent.: e io vorrei né il corno di Amaltea né
regnare centocinquanta anni su Tartesso.
35
B. Snell, Dichtung und Gesellschaft, Hamburg 1965, tr. it., Roma-Bari 1971, pp.86s.; E. Fabbro (cur.), Carmina
Convivalia Attica, Roma 1995 pp. 113-115.
36
Anche tra le massime dei Sette Sapienti si trovano ammonimenti a non arricchire in malo modo e a fuggire l’ingiusta
ricchezza: Sept. Sap. Apophthegmata IV 4 [Thales]: μὴ πλούτει κακῶς; Sosiades Sept. Sap. Praecepta 217, 46 Mullach
πλούτει δικαίως; cfr. A. Santoni, Temi e motivi di interesse socio-economico nella leggenda dei Sette Sapienti,
«ASNP» XIII 1983, pp.113-119. Tra i poeti corali Bacchilide (Ep. I 159 ss.) considera lo splendore dei beni materiali
un dato che non qualifica i valenti, in quanto la ricchezza è posseduta anche dai vili. D’altro canto Pindaro esalta la
ricchezza soltanto se commista alla virtú e se derivata dal destino (Pyth. V 1 ss.). In Eur. Hipp. 1013 ss. il protagonista
dichiara la propria scala dei valori (primeggiare nell’atletica, avere buona sorte in compagnia degli amici) rifiutando in
pari tempo ciò che solitamente sono considerati beni supremi da conseguire (potere e ricchezze) in quanto estranei alla
sua natura di persona virtuosa. Anche in altre tragedie euripidee ricorre la condanna della ricchezza, perché essa non è
un bene stabile e duraturo (cfr. Herc. 511-512; Ion 485 ss.; El. 941-944; Phoen. 555-558).
37
“Fama e ricchezza senza intelligenza sono beni insicuri”. Si tratta di una formulazione intellettualistica del dettato
saffico, che è invece improntato ad autentici principi aristocratici sulla ricchezza materiale (cfr. Pind. Ol. II 52-53: ὁ
μὰν πλοῦτος ἀρεταῖς δεδαιδαλμένος / φέρει τῶν τε καὶ τῶν καιρὸν, Ricchezza istoriata di virtù offre l’opportunità di
ogni sorta di cose; Pind. Pyth. V 1-2: ὁ πλοῦτος εὐρυσθενής, ὅταν τις ἀρετᾷ κεκραμένον καθαρᾷ, Possente è
ricchezza se mista a pura virtù).
38
Il monito a seguire le norma del μέτρον ἄριστον e quella complementare del μηδὲν ἄγαν è consono alla norma etica
arcaica, secondo la quale è necessario attenersi ai limiti imposti dalla propria condizione e non indulgere ai desideri
eccessivi per non cadere nell’ ὕβρις, cfr. Theogn. 614: οἱ δ᾿ ἀγαθοὶ πάντων μέτρον ἴσασιν ἔχειν; Pind. Ol. XIII 47-48:
ἕπεται δ᾿ ἐν ἑκάστῳ / μέτρον· νοῆσαι δὲ καιρὸς ἄριστος; Pyth. II 34 χρὴ δὲ κατ᾿ αὐτὸν / αἰεὶ παντὸς ὁρᾶν μέτρον;
Nem. XI 47: κερδέων δὲ χρὴ μέτρον θηρεέμεν, Isthm. VI 71: μέτρα μὲν γνώμᾳ διώκων, μέτρα δὲ καὶ κατέχων.
Inoltre il poeta tebano, quando vuole esaltare le doti di qualche laudando, ne enfatizza la capacità di governare la
ricchezza, vale a dire di usarla con senno, senza indulgere alla tracotanza (Pyth. VI 47 e schol. ad loc.). Anche Eschilo
in Ag. 750-757 ripete il medesimo concetto, ribadendone la natura di antico precetto sapienziale: παλαίφατος δ᾿ ἐν
βροτοῖς γέρων λόγος / τέτυκται, μέγαν τελε-/σθέντα φωτὸς ὄλβον / τεκνοῦσθαι μηδ᾿ ἄπαιδα θνῄσκειν; / ἐκ δ᾿
ἀγαθᾶς τύχας γένει / βλαστάνειν ἀκόρεστον οἰζύν (cfr. Sept. 769-771).
39
Herodot. I 30-33; cfr. Eur. Med. 1228-1230; fr. 96 (tratto dalla Alcmena); fr. 142 (tratto dalla Andromeda); fr. 324
TrGF (elogio dell’oro, tratto dalla Danae). Si veda anche. E. Pellizer, Il tocco di Mida. L’immaginario della ricchezza e
il tema della cosa più bella, in La peripezia dell’eletto, Palermo 1991, pp.100-106.
elegia, ricordato da Aristotele (Pol. I 8,1256b 26 ss.) e da Plutarco (de cupid. divit. 4, 524c), cosí sentenzia:
Non esiste tra gli uomini alcun limite manifesto della ricchezza; e poi aggiunge: infatti quanti tra noi oggi
possiedono i piú ampi mezzi per vivere il doppio si affannano per averne. Chi potrebbe saziarli tutti? Gli dèi
concessero ai mortali profitti e da questi si manifesta la rovina accecante, che ora l’uno ora l’altro possiede
quando Zeus la manda per punire (fr. 1, 71-76 PETFr). L’assunto divenne ben presto un punto di
riferimento ineludibile per le successive discussioni sull’argomento, dal momento che anche Theogn. 227-
232 riprende questi versi dandone un senso meno inquietante attraverso talune significative sostituzioni
lessicali40. E da questo assunto prende le mosse anche questa quartina che nell’intonazione generale però
risente della predicazione epicurea e cinica41.
Le tre insistite interrogative retoriche pongono infatti il problema irresolvibile dell’equa misura dei
beni materiali, un tema che compare pure sia nelle tragedie euripidee (cfr. Phoen. 553-554: che cos’è il di piú
se non un nome; al saggio basta ciò che è sufficiente42) sia nello Ierone senofonteo (4, 6s s.), nel quale il
tiranno siracusano propone di valutarne la giusta misura avvalendosi del criterio dell’utilità e non di quello
della quantità (cfr. Plut. Sept. Sap. Conv. XIV 157a ss.)43.
L’intrusione nell’enunciato iniziale di un concetto polarmente antitetico non è un’inessenziale
variazione tematica, ma ha la funzione di ampliare la problematica soloniana arricchendola delle proposte
suggerite dalle posteriori meditazioni, che tendono a riconoscere nella povertà un inedito valore positivo
come nel celebre discorso di Penia nel Pluto aristofaneo44. Infatti in quel contesto socio-culturale nacquero
correnti di pensiero che asserivano il rifiuto della ricchezza superflua o la pratica della indigenza più
assoluta, per raggiungere l’autosufficienza (αὐτάρκεια) che portava al controllo delle passioni e
all’indipendenza dai piaceri, così da dimostrare la superiorità della saggezza sulle ricchezze. Ancora più
radicali, sotto questo profilo, erano i cinici, come Antistene e Diogene, che predicavano la povertà assoluta45.
L’immediato richiamo all’oro e all’impossibilità di riconoscerne l’equa misura riporta il filo del discorso
all’intenzione iniziale consentendo cosí di continuare la metapoiesi dell’enunciato soloniano, in particolare
dell’espressione οἳ γὰρ νῦν ἡμέων πλεῖστον ἔχουσι βίον, / διπλάσιον σπεύδουσι (fr. 1, 72-73 PETFr), che
fa riferimento a una verità sapienziale (non c’è sazietà per il guadagno), attribuita a Pittaco46 e riecheggiata

40
F. Ferrari, Uso e riuso del canto simposiale: Teognide e l’elegia greca arcaica, in Teognide. Elegie, a cura di F. F.,
Milano 1989, pp. 27-30.
41
Bignone 1929, p. 473.
42
Nella sostanza, l’affermazione gnomica si adegua alla massima delfica del μηδὲν ἄγαν, e al tempo stesso rievoca
Aesch. Ag. 378-380: ἔστω δ᾿ ἀπή-/μαντον, ὥστ᾿ ἀπαρκεῖν / εὖ πραπίδων λαχόντι, che precede immediatamente (381-
384) l’evidente richiamo soloniano del citato passaggio dall’eccesso di ricchezza alla sazietà e quindi alla colpa e alla
punizione. Sui passi eschilei vd. V. Di Benedetto, L’elogio della povertà, in L’ideologia del potere e la tragedia greca.
Ricerche su Eschilo, Torino 1978, pp. 180-192, in particolare p.186s. Cfr. altresì Democrit. 68 VS frr. 283: Povertà e
ricchezza sono nomi che indicano il bisogno e la sazietà: ricco non è chi ha bisogno, né povero è chi non ha bisogno di
nulla; e 284: Se non avrai desiderio del molto, il poco ti sembrerà molto: il desiderio moderato, infatti, dà alla povertà
la medesima forza della ricchezza.
43
P. Desideri, L’impossibile misura della ricchezza, «AIS» 3, 1982-1984, pp.21-32. Ancora nell’ultima battuta
dell’opuscolo senofonteo, quando si esalta come bene supremo la felicità senza invidia, è percepibile l’eco di Aesch.
Ag. 471 κρίνω δ᾿ ἄφθονον ὄλβον.
44
In Aristofane si tratta di uno sviluppo di un argomento del dibattito politico del V sec. riguardante il pericolo
costituito dall’avidità dei poveri per la sicurezza della polis. Sulla povertà anche nelle tragedie euripidee vengono
proposti giudizi che correggono l’opinione tradizionale, secondo cui essa è peggiore dei mali per l’uomo. Si tratta
comunque di posizioni etico-politiche che portavano a privilegiare la classe media, come elemento della salvezza dello
stato e delle isituzioni democratiche. In effetti da un lato l’avallo etico del desiderio di ricchezza avrebbe significato
esporsi al rischio di legittimare non solo l’insaziabilità dell’acquisizione di beni sempre maggiori, anche in modi
ingiusti, ma anche il desiderio di impadronirsi del potere assoluto nei nuovi ricchi; dall’altro la riproposizione pura e
semplice dell’opinione tradizionale sulla povertà avrebbe indotto quanti ne erano afflitti a liberarsi da quella condizione
diventando facile preda dei demagoghi, che erano i responsabili dell’instabilità politica, in quanto fomentatori delle
guerre civili
45
Sul diffuso fenomeno di psicologia sociale, in conseguenza del quale la ricchezza era diventata quasi un titolo di
demerito cfr. C. Mossé, La fin de la démocratie athènienne, Paris 1962, p. 155.
46
Si veda anche Democr. 68 VS fr. 219: ῥημάτων ὄρεξις, ἢν μὴ ὁρίζηται κόρῳ, πενίης ἐσχάτης πολλὸν ἀλεπωτέρη·
μέζονες γὰρ ὀρέξεις μέζονας ἐνδείας ποιεῦσιν (La cupidigia di ricchezze, se non trova un limite nella sazietà, è molto
più tormentosa della povertà: perché quanto più grandi sono i nostri desideri, tanto maggiori sono i bisogni che noi
sentiamo). L’idea, qui sottesa nell’assunto, che la ricchezza smisurata porta alla rovina era stata esplicitata già da Sol. fr.
da Eur. Suppl. 238-239: οἱ μὲν ὄλβιοι / ἀνωφελεῖς τε πλειόνων τ᾿ ἐρῶσ᾿ ἀεί47. Il nesso χρήματ᾿ ἔχων,
benché soloniano (fr. 18, 8 PETFr), induce però a ritenere che l’anonimo abbia tenuto presente la
rielaborazione teognidea, la quale meglio sembra attagliarsi all’intento della composizione, con la
sostituzione dell’originario κέρδεά τοι θνητοῖς ὤπασαν ἀθάνατοι con il χρήματά τοι θνητοῖς γίνεται
ἀφροσύνη. La stoltezza qui rimane tuttavia sottaciuta a causa dell’estrema concisione del dettato che
procede per frasi apodittiche e asindeticamente giustapposte; ad essa, però, si allude nell’amara
considerazione finale che ricorda per molti aspetti un concetto espresso da una massima democritea
falsamente attribuita al filosofo di Abdera (68 VS fr. 302, 24-26 [n. 184]: διηνεκὴς ἐπὶ πᾶσιν ἀνθρώποις ἡ
τοῦ πλούτου ἐπιθυμία. μὴ κτηθεῖσα μὲν γὰρ τρύχει, κτηθεῖσα δὲ βασανίζει ταῖς φροντίσιν,
ἀποκτηθεῖσα δὲ ταῖς λύπαις, La brama di ricchezze è in tutti gli uomini incessante: esse logorano col
desiderio chi non le possiede; torturano con le preoccupazioni chi le ha; procurano dolori a quanti le
perdono.

Νεκρὸν ἐάν ποθ᾿ ἴδη<ι>ς καὶ μνήματα κωφὰ παράξῃς,


κοινὸν ἔσοπτρον ὁρᾶ<ις>· ὁ θανὼν οὕτως προσεδόκα.
ὁ χρό[ν]ος ἐστὶ δάνος, τὸ ζῆν πικρός ἐσθ᾿ ὁ δανίσας,
κἂν τότ᾿ ἀπαιτῆσαί σε θέλη<ι>, κλαίων [ἀ]ποδιδοῖς.
αὔλ<ε>ι μοι.

21-24 P.Oxy. 1795 fr. (c)

21-22 Comp. Men. et Phil. II 166-174 Jäkel. ὅταν εἰδέναι θέλῃς σεαυτὸν ὅστις εἶ, / ἔμβλεψον εἰς τὰ
μνήμαθ᾿, ὡς ὁδοιπορῖς / ... / κοινὸν τὸν Ἅιδην ἔσχον οἱ πάντες βροτοί. / πρὸς ταῦθ᾿ ὁρῶν γίνωσκε σαυτὸν ὅστις εἶ
21 Mosch. fr. 7,5 TrGF: τὸ σῶμα κωφοῦ τάξιν εἴληφεν πέτρου 22 GVI 1364: ἄνθρωπος τοῦτ᾿ ἐστί· τίς εἶ βλέπε καὶ
τὸ μένον σε· / εἰκόνα τήνδε ἐσορῶν σὸν τὸ τέλος λόγισαι, GVI 985, 11: [κ]οινὸς γὰρ θνητῶν ἐστι θ[ε]ὸς Θάνατος,
cf. GVI 1905,15; Lys. Epitaph. 77: οὐ γὰρ ἐλανθάνομεν ἡμᾶς αὐτοὺς ὄντες θνητοί· ὥστε τί δεῖ, ἂ πάλαι
προσεδοκῶμεν πείσεσθαι, ὑπὲρ τούτων νῦν ἄχθεσθαι, ἢ λίαν οὕτω βαρέως φέρειν ἐπὶ ταῖς τῆς φύσεως συμφοραῖς,
ἐπισταμένους ὅτι ὁ θάνατος κοινὸς καὶ τοῖς χειρίστοις καὶ τοῖς βελτίστοις; 23 Eur. Suppl. 534-535: οὔτι γὰρ
κεκτήμεθα / ἡμέτερον αὐτὸ πλὴν ἐνοικῆσαι βίον [Plat.] Ax. 367b: ὡς χρέος ... τὸ ζῆν Lucret. III 971: vitaque
mancipio nulli datur, omnibus usu GVI 1049, 7: πνεῦμα λαβὼν δάνος οὐρανόθεν τελέσας χρόνον ἀνταπέδωκα, cf.
St. Pont. III 143, 9-10: ἀποδοὺς / τὸ δάνιον πεπόρευμε

21 πόθ᾿ de qua aspiratione vd. Mayser, Gramm. griech. Pap. I/1, p. 174 ss.; Schwyzer, Griech. Gramm. I, p.
305 24 κἄν ποτ᾿ edd. pr. ἀποδίδοις Diehl, Young, Heitsch, ἀποδιδοῖς edd. pr., probb. Powell, Manteuffel, Page, cf.
Mayser, Gramm. griech. Pap. I/2, p. 88; Schwyzer, Griech. Gramm. I, p.688; Blass-Debrunner § 95,2; Mussies, The
Morphology of Koine Greek, p. 288

Quando ti capita di vedere un cadavere e di passare accanto a muti sepolcri / stai vedendo, come in uno
specchio, la comune sorte: chi morí questo si aspettava. / Il tuo tempo è un debito, chi ti concesse di vivere è
uno spietato creditore / e quando vuole esigerlo, glielo renderai tra le lacrime. / Suonami l’aulo.

1, 11 ss. PETFr e da Bacchyl. XV 59 ss.: Ὕβρις, ἃ πλοῦτ[ο]ν δύναμίν τε θοῶς / ἀλλότριον ὤπασεν, αὖτις / δ᾿ ἐς
βαθὺν πέμπει φθόρον, Tracotanza tutto a un tratto dona a uno la ricchezza e il potere altrui per portarlo all’estrema
rovina. Questi giudizi non riguardano comunque la ricchezza ereditaria (cfr. Il. XXIV 535-536; Od. XIV 205-206), che
a differenza di quella acquisita, appare antica e pertanto simile allo stato naturale (cfr. Arist. Rhet. 1387a 15).
47
Riguardo al fascino che le ricchezze esercitano sugli uomini si veda ancora Eur. frr. 580 e 642 TrGF.
Nelle forme dell’epigramma funerario, dei cui stilemi cosí ampiamente si avvale, il poeta si sofferma
a meditare sulla morte, il comune esito dell’esistenza umana, che con il suo sopraggiungere livella ogni
condizione di prestigio raggiunta in vita48.
L’invito iniziale ripete un popolare motivo della diatriba ellenistica, riproposto con intonazioni
diverse da alcuni poeti dell’Anthologia Palatina. Crinagora, ad esempio, rielaborando uno spunto leonideo
(A.P. VII 472) cosí conclude un fittizio carme epitimbico: κεῖσο κατὰ πρεμνοῖο παρ᾿ ἀτραπόν. ὄφρα <μάθῃ
τις> ἀθρήσας τί πλέον φειδομένῳ βιότου (A.P. IX 439, 5-6). Tra le numerose variazioni (ex. gr. A.P. VII
383 [Philipp. Thessalon.]) spicca per la sua compiutezza il seguente brano del Confronto tra Menandro e
Filistione (II 166-174 Jäkel) attribuito al commediografo ateniese: ὅταν εἰδέναι θέλῃς σεαυτὸν ὅστις εἶ, /
ἔμβλεψον εἰς τὰ μνήμαθ᾿, ὡς ὁδοιπορῖς. / ἐνταῦθ᾿ ἔνεστ᾿ ὀστᾶ τε καὶ κούφη κόνις / ἀνδρῶν βασιλέων
καὶ τυράννων καὶ σοφῶν / καὶ μέγα φρονούντων ἐπὶ γένει καὶ χρήμασιν / αὑτῶν τε δόξῃ κἀπὶ κάλλει
σωμάτων. / κᾆτ᾿ οὐδὲν αὐτοῖς τῶνδ᾿ ἐπήρκεσεν χρόνος· / κοινὸν τὸν Ἅιδην ἔσχον οἱ πάντες βροτοί. / πρὸς
ταῦθ᾿ ὁρῶν γίνωσκε σαυτὸν ὅστις εἶ. Il tema trova ampie risonanze anche nelle epigrafi tombali tra le quali
una, rinvenuta a Smirne (GVI 1364), nella parte iniziale rivela strette assonanze con questa quartina:
ἄνθρωπος τοῦτ᾿ ἐστί· τίς εἶ βλέπε καὶ τὸ μένον σε· / εἰκόνα τήνδε ἐσορῶν σὸν τὸν τέλος λόγισαι.
Non di rado a questa riflessione segue l’invito a godere delle brevi gioie del presente sia negli
epigrammi49 sia sulle coppe istoriate con scene conviviali al cui centro compare un defunto nell’atto di
accennare a passi di danza50. L’iconografia vascolare si rifà come è stato notato, ad un’usanza saldamente
attestata negli ambienti greci e romani tra il I sec. a. C. e il I sec. d. C. ed è magistralmente descritta in una
scena del Satyricon petroniano (XXXIV 8-10) quando durante la sontuosa cena Trimalcione fa introdurre
nella sala una larva argentea e coglie l’occasione per declamare alcuni versi sulla reale essenza dell’uomo:
heu nostros miseros, quam totus homuncio nil est / sic erimus cuncti postquam nos auferet Orcus. / ergo
vivamus, dum licet esse bene.
I temi epicurei del memento mori e del conseguente carpe diem (ex. gr. Lucret. III 912-915)
sembrano, però, avere una diversa e remota origine. Racconta infatti Erodoto (II 78) che in Egitto durante i
banchetti veniva portata alla presenza dei convitati una statuetta in legno raffigurante un cadavere deposto in
una bara e a ciascuno veniva ripetuto: ἐς τοῦτον ὁρέων πῖνέ τε καὶ τέρπευ· ἔσεαι γὰρ ἀποθανὼν τοιοῦτος.
L’informazione erodotea, ripetuta per due volte da Plutarco (Sept. Sap. Conv. II 148a; Is. et Osir. XVII 357f)
è confermata da altre fonti (Sil. Ital. XIII 474-476; Lucian. Luct. 21) e sembra avallata da antichi canti
risalenti al Medio Regno, composti verisimilmente per specifiche occasioni conviviali51.
Sulla nullità dell’uomo dopo la morte fanno riflettere non solo i cadaveri e i loro muti sepolcri (cfr.
Catull. XCVI 1; IG XII 8,441, 26 κωφοὶ τάφοι) volgendo lo sguardo ai quali come in uno specchio i viventi
possono riconoscere la loro futura e inanimata immagine, ma anche la consapevolezza di non essere i perenni
possessori della propria vita. Già Euripide aveva ricordato che i morti devono essere sepolti e restituiti alla
terra dal momento che i corpi non ci appartengono, ma ci vengono temporaneamente concessi per la durata
della nostra esistenza: οὔτι γὰρ κεκτήμεθα / ἡμέτερον αὐτὸ (scil. σῶμα) πλὴν ἐνοικῆσαι βίον, / κἄπειτα
τὴν θρέψασαν (scil. γῆν) αὐτὸ δεῖ λαβεῖν (Suppl. 534-535). Questo spunto, successivamente compendiato
nell’immagine della vita - prestito ([Plat.] Ax. 367b: ὡς χρέος ... τὸ ζῆν), appare nelle iscrizioni tombali,

48
J. Labarbe, Aspects gnomiques de l’épigramme grecque, in L’épigramme grecque, Entretiens de la Fondation Hardt
14, Vandoeuvres-Genève 1968, pp. 362 ss. Cfr. anche Pind. Nem. VII 19-20: ἀφνεὸς πενιχρός τε θανάτου παρά /
σᾶμα νέονται.
49
W. Ameling, Φάγωμεν καὶ πίνωμεν, «ZPE» LX, 1985, pp.35-43. In realtà l’invito a non privarsi dei piaceri,
combinato al tema del memento mori, è sfruttato già dai poeti arcaici (Alc. fr. 38 V.; Theogn. 973-978; 1007-1012; cfr.
Amphis fr. 8 PCG: πῖνε, παῖζε· θνητὸς ὁ βίος, ὀλίγος οὑπὶ γῇ χρόνος· / ἀθάνατος ὁ θάνατός ἐστιν, ἂν ἅπαξ τις
ἀποθάνῃ). Analoghe considerazioni si ritrovano anche in Asclepiade (A.P. V 85 e XII 50), in Stratone (A.P. XI 19) e in
Orazio (carm. I 4, 13-20; cfr. M. Fantuzzi, Caducità dell’uomo ed eternità della natura: variazioni di un motivo
letterario, «QUCC» n.s. XXVI, 1987, pp.101-110).
50
Cfr. K. M. Dunbabin, Sic erimus cuncti ... The Skeleton in Graeco-Roman Art, «JDAI» CI, 1986, pp. 185-225.
51
M.L. West, M. L. West, Near Eastern Material in Hellenistic and Roman Literature, «HSPh» LXXIII, 1969, pp. 130-
131; P. Grimal, Sine amico visceratio leonis ac lupi vita est, in Spettacoli conviviali dall’antichità classica alle corti
italiane del ‘400, Viterbo 1983, pp. 23 ss.
nelle consolazioni filosofiche e nei poeti come Lucrezio, che in un suo celebre verso cosí icasticamente
sintetizza il concetto: vitaque mancipio nulli datur, omnibus usu (III 971)52.
La sconsolata riflessione sull’ineluttabilità della morte, espressa con la metafora dello spietato
creditore che senza alcun preavviso esige il suo prestito, ripropone profondamente rinnovato nella forma un
motivo ricorrente dai tempi omerici fino agli epigrammi dell’Anthologia Palatina (ex. gr. A.P. XI 62, 1-2
[Palladas]) senza tener conto delle riprese nei poeti romani (ex. gr. Hor. carm. I 4, 13-14: pallida mors aequo
pulsat pede pauperum tabernas / regumque turris; cfr. carm. II 18, 29 ss.), nelle iscrizioni tombali greche
(GVI 2035, 8; cfr. 1905, 15) e latine (Bücheler, Carm. epigr. 971,22: haec eadem et magnis regibus
acciderunt)53.
Nell’Iliade infatti Ettore consola la moglie Andromaca pregandola di non rattristarsi e dicendole che
nessun uomo, valoroso o vile, può evitare la Moira dal momento che è nato (VI 488-489; cfr. Od. XXIV 28).
Poi ancora i poeti lirici sfruttano il concetto quando con tono disincantato o con sincera commozione parlano
dell’infelice esistenza umana per evidenziare le frustrazioni che vanificano le illusorie aspirazioni degli
insensati mortali (ex. gr. Sim. frr. 19 e 20 IEG; Bacch.III 78ss.; A.P. X 105, 2 [Sim.]; etc.) e fra i tragici
Euripide, memore dei versi simonidei, torna insistentemente sull’argomento nelle scene consolatorie di
alcune sue opere, come in Andr. 1271-1272, dove con queste sagge parole Teti esorta l’affranto Peleo: πᾶσιν
γὰρ ἀνθρώποισιν ἤδη πρὸς θεῶν / ψῆφος κέκρανται κατθανεῖν τ᾿ ὀφείλεται, oppure in Alc. 782 ss., quando
Eracle esorta a comprendere l’intima essenza del vivere umano poiché βροτοῖς ἅπασι κατθανεῖν ὀφείλεται,
/ κοὐκ ἔστι θνητῶν ὅστις ἐξεπίσταται, / τὴν αὔριον μέλλουσαν εἰ βιώσεται54, e aggiunge con tono
gnomico l’invito a partecipare al simposio (vv. 787-789): ταῦτ᾿ οὖν ἀκούσας καὶ μαθὼν ἐμοῦ πάρα, /
εὔφραινε σαυτόν, πῖνε, τὸν καθ᾿ ἡμέραν / βίον λογίζου σόν, τὰ δ᾿ ἄλλα τῆς τύχης55.

Ξέρξης ἦν βασιλε[ὺ]ς ὁ λέγων Διὶ πάντα μερίσαι,


ὂς δυσ<ὶ> πηδ̣α̣λ[ί]ο[ι]ς μόνος ἔσχισε Λήμνιον ὕδωρ·
ὄλβι<ο>ς ἦν ὁ Μίδας, τρὶς δ᾿ ὄλβιος ἦν̣ ὁ̣ [Κ]ι̣ν̣ύρ̣ [α]ς̣·
ἀλλὰ̣ τ̣ίς̣ ̣ ε̣ἰς̣ ̣ Ἁ̣ίδ
̣ ̣α̣ ὀβολοῦ πλέον ἤλυθεν ἔχων;
αὔλ<ε>ι μοι.

25-28 P.Oxy. 1795 fr. (c)

25 Aesch. Pers. 5. Ξέρξης βασιλεύς Theocr. XXI 31: πάντα μερίζευ (in hexam. eexeunte) 26 Herodot. VIII
118: αὐτὸς (scil. Ξέρξης) δ᾿ ἐπὶ νεὸς Φοινίσσης ἐπιβὰς ἐκομίζετο ἐς τὴν Ἀσίην Iuven. X 185: Sed qualis rediit
(Xerxes)? ... una nave 27 Tyrt. fr. 9, 6 PETFr: πλουτοίη δὲ Μίδεω καὶ Κινύρεω μάλιον, cf. Plat. Resp. 3, 408b 28
Theogn. 725-726: τὰ γὰρ περιώσια πάντα / χρήματ᾿ ἔχων οὐδεὶς ἔρχεται εἰς Ἁΐδεω, cf. Aesch. Pers. 842: τοῖς
θανοῦσι πλοῦτος οὐδὲν ὠφελεῖ; Prop. III 5,12s.; al. Ps. Phocyl. 109s. πλουτῶν μὴ φείδευ· μέμνησ᾿ οὔτι θνητὸς
ὑπάρχεις / οὐκ ἔνι δ᾿ εἰς Ἅιδην ὄλβον καὶ χρήματ᾿ ἄγεσθαι [Men.] Sententiae 87 Jäkel ἀπῆλθεν οὐδεὶς τῶν βροτῶν

52
Per il concetto della vita intesa come debito si veda anche Soph. El. 1173 e la documentazione raccolta in Bignone
1929, p.473. Sulla diffusione del topos consolatorio presso i tragici si veda M. G. Ciani, La consolatio nei tragici greci.
Elementi di un topos, «BIFG» 2, 1975, pp. 107 e 125. Affini a questa espressione sono le circonlocuzioni designanti il
morire formate con il verbo ἀποδίδωμι (cfr. Pind. Nem. VII 44; Horap. I 35).
53
R. Lattimore, Themes in Greek and Roman Epitaphs, Urbana 1962, pp. 253-254.
54
cfr. Sim. fr. 16/521 PMG.
55
Per la diffusione del topos cfr. Pind. Isthm. VII 40-42: τερπνὸν ἐφάμερον διώκων / ἔκαλος ἔπειμι γῆρας ἐς τε τὸν
μόρσιμον / αἰῶνα. θνᾴσκομεν γὰρ ὁμῶς ἅπαντες; Eur. Herc. 502-507: θανεῖν γάρ, ὡς ἔοικ᾿, ἀναγκαίως ἔχει. / ἀλλ᾿,
ὦ γέροντες, σμικρὰ μὲν τὰ τοῦ βίου, / τοῦτον δ᾿ ὅπως ἥδιστα διαπεράσατε / ἐξ ἡμέρας ἐς νύκτα μὴ λυπούμενοι. /
ὡς ἐλπίδας μὲν ὁ χρόνος οὐκ ἐπίσταται / σῴζειν, τὸ δ᾿ αὑτοῦ σπουδάσας διέπτατο, Bacch. 910-911: τὸ δὲ κατ᾿
ἦμαρ ὅτῳ βίοτος / εὐδαίμων, μακαρίζω (V. Di Benedetto, Euripide: teatro e società, Torino 1971, pp. 272 ss.).
πλοῦτον φέρων GVI 1655, 3-4: [εἰ] δ᾿ ἀργυρίου καὶ χρυσοῦ αὐτὸ πρίασηαι, / [οὐ]δεὶς ἂν πλουτῶν εἰς Ἁίδου κατέβη
A.P. XI 168, 5-6: (Antiphanes) τεθνήξῃ, πλουτοῦσαν ἀφεὶς μεγάλην διαθήκην, / ἐκ πολλῶν ὀβολὸν μοῦνον
ἐνεγκάμενος

26 δυσ P, de forma seriore δυσί cf. Mayser, Gramm. griech. Pap. I/2, p. 73; Blass-Debrunner § 63; Gignac,
Grammar of the Greek Papyri II, p. 189 27 de forma vulgari ὄλβις pro ὄλβιος cf. Schwyzer, Griech. Gramm. I, p. 472;
Gignac, Grammar of the Greek Papyri II, pp. 24 ss.

Serse fu un re che affermava di aver diviso il mondo con Zeus:/ lui invece con un’unica nave, da solo, solcò
il mare Lemnio./ Ricco fu Mida e tre volte ricco fu Cinira./ Ma chi è mai giunto all’Ade con piú di un obolo?
Suonami l’aulo.

Un’attenzione distratta e quasi sprezzante nei confronti dei tradizionali valori sociali, ispirata
dall’adesione a un ideale di vita proteso al raggiungimento di una assoluta libertà interiore e di una genuina
felicità derivante dall’accettazione della propria condizione naturale, senza indulgere alla soddisfazione di
bisogni superflui, si avverte in questi versi che ammoniscono a non affannarsi stoltamente ad accumulare
grandi beni, poiché nessuno mai riuscí a portare nell’Ade quanto aveva potuto acquistare in vita56.
Ad un’analoga conclusione era già pervenuto nel V sec. a.C. il poeta di un componimento all’interno
della Silloge teognidea (vv. 725-726: τὰ γὰρ περιώσια πάντα / χρήματ᾿ ἔχων οὐδεὶς ἔρχεται εἰς Ἁΐδεω)
completando un brano elegiaco di Solone (fr. 18 PETFr), riutilizzato per il suo tenore gnomico57. Però, è nel
periodo ellenistico che il motivo trova ampia eco, come nella raccolta delle sentenze attribuite a Focilide
(109-110: πλουτῶν μὴ φείδευ· μέμνησ᾿ ὅτι θνητὸς ὑπάρχεις / οὐκ ἔνι δ᾿ εἰς Ἅιδην ὄλβον καὶ χρήματ᾿
ἄγεσθαι)58 o a Menandro (Sententia 87: ἀπῆλθεν οὐδεὶς τῶν βροτῶν πλοῦτον φέρων); né manca nei poeti
latini, poiché il pensiero che le ricchezze non ci seguono nella tomba torna in Orazio (carm. II 14, 11 ss.), in
Properzio (III 5,12: haud ullas portabis opes Acheruntis ad undas), in Ovidio (Tristia V 14, 12), in Marziale
(VIII 44,9) ed infine nei poeti dell’Anthologia Palatina (ex.gr. XVI 27, 5: τὰ δὲ ὄλβια κεῖνα λέλειπται) o
nelle epigrafi (GVI 1655, 3-4: [εἰ] δ᾿ ἀργυρίου καὶ χρυσοῦ αὐτὸ πρίασθαι, / [οὐδ]εὶς ἂν πλουτῶν εἰς
Ἁίδου κατέβη). Sovente il tema è argomentato in modo piú articolato e, a chiarimento dell’assunto, si citano
personaggi famosi, di cui resta solo il persistente ricordo delle loro favolose ricchezze, a ribadire con
l’autorevolezza del paradigma mitico o storico l’inutilità dei beni materiali. Fenice di Colofone (fr. iamb. I
22ss. Powell = fr. iamb. 3 D.) fa dire all’assiro Nino: ἐγὼ δ᾿ ἐς Ἅιδην οὔτε χρυσὸν οὔτε ... / ᾠχόμην
ἕλκων)59 e Plutarco (Cons. ad Apoll. XV 110d) nel riportare il seguente frammento tragico: ποῦ γὰρ τὰ
σεμνὰ κεῖνα, ποῦ δὲ Λυδίης / μέγας δυνάστης Κροῖσος, ἢ Ξέρξης βαρὺν / ζεύξας θαλάσσης αὐχέν᾿
Ἑλλησποντίας / ἅπαντας Ἅιδαν ἦλθον καὶ Λάθας δόμους, aggiunge in modo lapidario: τῶν χρημάτων
τοῖς σώμασι διαφθαρέντων (adesp. fr. 372 TrGF).
La digressione sui magni reges è sfruttata altresí da Lucrezio per confutare, secondo moduli
espressivi diatribici60, la credenza nella vita ultraterrena (III 1025 ss.) e tra i potenti del passato ricorda
perifrasticamente, senza mai farne esplicitamente il nome, Serse (vv. 1027-1033): inde alii multi reges
rerumque potentes / occiderunt, magnis qui gentibus imperitarunt. / ille quoque ipse, viam qui quondam per
mare magnum / stravit, iterque dedit legionibus ire per altum / ac pedibus salsas docuit super ire lacunas / et

56
Si veda per es. Aesch. Pers. 842; Pind. Isthm. I 67-68 (comunque l’avaro deve cedere all’Ade la vita con tutte le sue
ricchezze); Anacreont. 36, 10-11 W.: θανεῖν γὰρ εἰ πέπρωται, τί χρυσὸς ὠφελεῖ με;
57
Il distico non fu ritenuto soloniano da F. Jacoby che lo ritenne rispondente alla concezione pessimistica di Mimnermo
(Studien zu den älteren griechischen Elegikern II: Zu Mimnermos, «Hermes» LIII, 1918, p. 302 nt .2). L’autenticità
soloniana è stata ribadita invece da E. Diehl e da A. Masaracchia (Solone, Firenze 1958, pp. 312-314).
58
P.W. van der Horst, The Sentences of Pseudo-Phocylides, Leiden 1978, pp. 192-193.
59
Si veda pure l’antico epitaffio sulla tomba di Sardanapalo, successore di Nino, tradotto in esametri dal poeta
ellenistico Cherilo (Suppl. Hell. fr. 335): Consapevole di essere mortale, cura l’animo tuo, rallegrandoti delle festose
riunioni: non c’è alcun piacere per chi è morto; sono infatti cenere io che regnai sulla grande Ninive. Tutto quello che
ora possiedo sono i cibi che mangiai, gli eccessi a cui mi abbandonai, gli amori che ebbi: tutti gli altri beni li ho
lasciati (cfr. Strab. XIV 5, 9; Diod. II 23, 3; Athen. VIII 336a-337a; Cic. Tusc. V 35, 101; Arrian. An. II 5, 4; Athen.
XIII 530 a-b).
60
G. B. Conte, Il trionfo della morte e la galleria dei grandi trapassati in Lucrezio III 1024-1053, «SIFC» 37, 1965, pp.
114-132.
contempsit equis insultans murmura ponti, / lumine adempto animam moribundo corpore fudit (cfr. Iuv. I 2,
153 ss.). Questo motivo popolare61 ricompare in una satira di Giovenale (X 179-187) a proposito dei beni
ritenuti a torto ineguagliabili dagli uomini: Ille tamen qualis rediit Salamina relicta, / in Corum atque Eurum
solitus saevire flagellis / barbarus Aeolio numquam hoc in carcere passos, / ipsum compedibus qui vinxerat
Ennosigaeum / (mitius id sane, quod non et stigmate dignum / credidit. Huic quisquam vellet servire
deorum?) / Sed qualis rediit? Nempe una nave, cruentis / fluctibus ac tarda per densa cadavera prora. / Has
totiens optata exegit gloria poenas62. Proprio questo passo del poeta satirico latino sembra piú vicino
nell’intento alla nostra quartina; infatti l’espressione ὁ λέγων Διὶ πάντα μερίσαι63 delinea icasticamente la
tracotanza del re persiano che volle considerarsi pari a Zeus con il suo ardito progetto di costruire un ponte
sul tratto di mare che separa l’Europa dall’Asia per far passare le truppe destinate alla conquista della Grecia,
mostrando in tal modo la propria ὕβρις e offendendo il divino ordine dell’universo. La dissennata
aspirazione al dominio del mondo e il temerario disconoscimento dei confini fissati per l’agire dell’uomo è
rivelato dall’empio comando di fustigare il mare, di gettarvi dei ceppi, di imprimervi un marchio, nonché
dalle sacrileghe parole fatte pronunciare contro l’Ellesponto: O acqua amara, il re ti punisce perché lo
offendesti senza aver subito da parte sua alcuna ingiustizia; eppure il re Serse ti varcherà anche contro il
tuo volere: giustamente nessun uomo sacrifica in tuo onore, perché sei soltanto una corrente torbida e
salmastra (Herodot. VII 35).
L’episodio destò un’indignazione cosí viva nei contemporanei che anche Eschilo nei Persiani lo
ricorda nel discorso del defunto Dario (vv. 739-752), il quale ad un certo punto afferma (vv. 749-750):
θνητὸς ὢν θεῶν τε πάντων ᾦετ᾿, οὐκ εὐβουλίῃ / καὶ Ποσειδῶνος κρατήσειν. La presunzione di atteggiarsi
a dio trova un’anticipazione nel coro iniziale, quando viene rievocata la spedizione e la costruzione del ponte
di navi (v. 80 ἰσόθεος φώς). Quindi già il tragediografo ateniese, seguendo l’insegnamento soloniano (frr. 8 e
1, 11 ss. PETFr), descrive Serse come un personaggio assetato di dominio, indotto dalla cupidigia ad
infrangere le norme etico-religiose e destinato per la sua tracotanza a subire la punizione divina64.
Il verso successivo con un lessico molto ricercato65 sottolinea puntualmente il fallimento del progetto
tentato dall’orgoglioso re persiano costretto dopo la sconfitta militare a riparare in Asia in modo
ignominioso, dimostrando a tutti le sue insensate pretese di considerarsi per potere e ricchezze pari al padre
degli dèi e degli uomini.
La versione dell'avvenimento, smentita e dichiarata palesemente falsa da Erodoto (VIII 118; cfr. Dio
Chrys. or. XIV 8), è fatta propria dagli scrittori posteriori come Giovenale (loc. cit.), Giuseppe Flavio (Bell.
Jud. II 3, 358) e Giustino (II 13, 9-10), ed è qui ripresa perché meglio evidenzia la negativa esemplarità di
Serse. Conseguentemente il giudizio cosí drasticamente critico sull’augusto re persiano coinvolge anche i
mitici re di Frigia e di Cipro, Mida e Cinira, solitamente portati ad esempio di una fortunata esistenza almeno
dai tempi di Tirteo (fr. 9, 6 PETFr; cfr. Plat. Resp. III 408b; Galen. De propriorum animum cuiuslibet
affectuum dignotione et curatione V 52; Clem. Alex. Paed. III 6, 34, 4; Iamblich. Protr. 92; Euseb. Praep.
ev. XII 21, 1; Liban. Or. 63, 6; Himer. Decl. 42). Ma questa, che da molti era ritenuta una condizione
invidiabile66 è assurta a paradigma di vita corrotta dalla predicazione diatribica. All’insegnamento etico di
questo movimento di pensiero tardo ellenistico si rifà esplicitamente nella parte conclusiva l’anonimo poeta
quando, alludendo alla credenza che i morti possono portare con sé solo un obolo da consegnare a Caronte
per essere traghettati oltre l’Acheronte e raggiungere l’estrema dimora nell’Ade, ribadisce l’assurdità di
considerare la ricchezza materiale un bene ineguagliabile. Proprio sull’irragionevolezza di tale convinzione
si sofferma con irridente sarcasmo Luciano (Dial. mort. 3 Macleod; cfr. Menipp. 18) quando descrive
Menippo nell’oltretomba che canzona, deride e insulta Mida, Sardanapalo e Creso, apostrofandoli con gli

61
Cfr. Hor. carm. IV 7, 16; ma considerazioni analoghe sono presenti già in Alc. fr. 38ab V.
62
E. Courtney, A Commentary on the Satires of Juvenal, London 1980, pp. 471-473.
63
Per il costrutto si veda Polyb. XXXI 10, 1.
64
V. Di Benedetto, L’ideologia del potere e la tragedia greca. Ricerche su Eschilo, Torino 1978, p. 11 ss. e pp. 37 ss.
Sul significato dell'episodio, ritenuto sacrilego dai Greci, vd. A. Dan, Grecs et Perses sur les détroits: le démon
enchaîné et la démesure du Grand Roi, «AWE» 14, 2015, pp. 191-235.
65
σχίζω nell’accezione di fendere, cfr. [Luc.] Am. 6; la sineddoche δυσὶ πηδαλίοις, l’espressione Λήμνιον ὕδωρ per
indicare la parte settentrionale del mare Egeo, cfr. schol. Theocr. VII 76: νῶτα Λημνίας ἁλός, e soprattutto l’aggettivo
μόνος messo sagacemente in posizione enfatica.
66
Si veda l’aggettivo ὄλβιος, successivamente ripetuto e rafforzato dall’intensivo τρίς, che sottolinea la prosperità
accordata dagli dèi; cfr. C. de Heer, Μάκαρ, εὐδαίμων, ὄλβιος, εὐτυχής, Amsterdam 1969.
appellativi di miserabili, vili, schiavi e fecce a causa della loro vita mal vissuta e perché anche da morti
hanno il pensiero continuamente rivolto ai tesori lasciati sulla terra67.

]στατον.[
]τον ανανομ̣ε[̣

3-4 P.Oxy. 15, col. I, 1-2

3 ανανομ̣ε̣[ primam syllabam productam suspicati sunt edd. pr. μ vel π edd. pr.

P.Oxy. 15, integro soltanto nel margine inferiore, conserva in due colonne i versi finali, di cui si
leggono parole isolate, e piú consistenti brani iniziali di carmi acrostici in esametri zoppi, separati nella
seconda colonna dall’espressione αὔλει μοι. Per la presenza dell’identico epifonema, per l’uguale struttura
metrica e per l’analoga sequenza alfabetica delle strofe esso rievoca l’altro testo riportato da P.Oxy. 1795.
Anche se manca una prova decisiva molti hanno avanzato l’ipotesi, suffragata dalle strette analogie tra le due
sillogi, che entrambi i testi abbiano fatto parte in origine della medesima collezione di σκόλια; d’altro canto
non si può escludere a priori l’esistenza di raccolte formate con il medesimo criterio e composte in tempi
diversi, di cui i due papiri, datati l’uno al I sec. d.C. e l’altro al III sec. d.C.68, sarebbero finora gli unici
testimoni.
Poco o nulla si riesce a comprendere della parte finale di questi due versi che avrebbero dovuto
costituire l’epilogo della strofe. E’ interessante però l’explicit ]τον ανανομε[, che indusse gli editori ad
astenersi dall’identificare la struttura metrica del componimento a causa dell’ininterrotta sequenza di sillabe
brevi. Sebbene Ferrari69 abbia perentoriamente negato che il metro sia identico a quello degli altri carmi
alfabetici, non si può escludere che la prima α di ανανομε[ sia lunga metri causa, come del resto avevano
suggerito Grenfell e Hunt, analogamente a quanto si verifica nel caso di ὅτᾱν ἀποθάνω (P.Oxy. 1795 fr. c l.
14).

67
Si veda anche l’epigramma adespoto in A.P. IX 145, incentrato sull’incontro nell’Ade tra il cinico Diogene e Creso.
68
Meno verisimilmente al II sec., come ha suggerito Maas 1922, p. 582.
69
1988, p. 184 nt. 19.
]ουσι χιόνες
]ον δ᾿ ὑπερέειν
]ν ἥσυχον Ἄρης
]υς οὔτε νεμέσει.

5-8 P.Oxy. 15, col. I

6 possis πίπτ]ουσι vel sim. 9 Νεμέσει Young

... nevicate / ... sovrastare /... tranquillamente Ares / ... né con vendetta./ <Suonami l’aulo>.

Ben poco si evince da quanto rimane e prudentemente gli editori si sono astenuti dal proporne
integrazioni o dal suggerirne l’esegesi. Oscuro resta infatti chi o che cosa sia il soggetto di ὑπερέχειν, mentre
è aleatorio riconoscere nell’ultimo verso il nome della dea Nemesi come suggerisce joung. Tutt’al piú si può
supporre che un paesaggio invernale, imbiancato da abbondanti precipitazioni nevose (ex. gr. Hom. Il. XII
278-286), faccia da sfondo agli ozi di Ares, il dio della guerra.
]ι με νόμοι
]ἄ<ι>σματα λύραι
δ]ένδρον ἐκόμα
]ἐλάμβανε νέα.

9-12 P.Oxy. 15, col. I

... me le melodie / ... lire (accompagnano?) i canti / ... un albero ombreggiava /... una giovane (?) prendeva. /
<Suonami l’aulo>.

Il termine νόμοι significa qui “arie melodiche, motivi musicali” ed esso rinvia alle sequenze
immutabili peculiari del canto, compreso quello di ogni specie di volatili (cfr. Alcm. fr. 40, 1 PMGF; Pind.
Nem. V 25; etc.). Questa accezione è avallata dalla menzione al verso successivo delle lire che
accompagnano con il loro suono gli ᾄσματα (cfr. Plat. Prot. 343c).
Ardua resta comunque l’individuazione del filo concettuale della strofe, dove si leggono frasi
incomplete con i verbi all’imperfetto, di cui l’ultima resta poco perspicua a causa della perdita del contesto.
Si può avanzare cautamente l’ipotesi che fosse riproposta una situazione non insolita nelle composizioni
bucoliche del periodo ellenistico: l’enunciatore, affascinato dall’ascolto della musica, rievoca un lontano
episodio accaduto in uno scenario naturale dominato da un albero frondoso.
Χαίρουσιν [
ποιμῆναι [
καὶ ταύρων ἀ[γέ]λας [
]ἕρπει δ᾿ ἐκ μυχάδων ὠ<ι>δαῖς α[
αὔλει μοι.

1-4 P.Oxy. 15, col. II

4 μυχάτων vel μυχάλων edd. pr., μυκάδων Fraccaroli, «BFC» V, 1898-1899, p. 113

2 Theocr. 11, 60 ποιμαίνειν (in hexametro ineunte) 3 Theocr. XXVII 71 ταυρείας ἀγέλας

Si rallegrano ... / pascolare ... / e mandrie di tori... / dai recessi esce per i canti ... / Suonami l’aulo.

Secondo gli editori del papiro il soggetto della strofe sembra essere il potere fascinatore del canto (p.
38) e con questa opinione concorda sostanzialmente Fraccaroli70, quando afferma che essa “descrive
l’efficacia della musica pastorale sopra gli stessi animali”. In effetti l’infinito ποιμῆναι e il successivo
ταύρων ἀγέλας (cfr. Hom. Il. XI 678: βοῶν ἀγέλας, Soph. Oed. R. 26; Theocr. XXVII 71) rievocano una
scena campestre in cui i pastori si rallegrano, secondo un topos comune del genere bucolico, cantando e
suonando strumenti musicali, spesso in competizione agonale tra loro (cfr. Theocr. VI 1 ss.; Verg. Ecl. V 1
ss.), mentre le mandrie pascolano (ex. gr. Verg. Ecl. I 9-10: ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum /
ludere quae vellem calamo permisit agresti).
Ha posto qualche difficoltà la comprensione dell’hapax μυχάδων. Fraccaroli71, ricordando il verso
teocriteo ᾡπόλος, ὅκκ᾿ ἐσορῇ τὰς μηκάδας οἷα βατεῦνται (I 87), propose di emendare l’oscuro vocabolo in
μυκάδων piú consono al contesto poiché verrebbero menzionate anche le giovenche insieme ai tori. In modo
piú convincente Grenfell e Hunt hanno osservato che il termine potrebbe nascondere la voce μυχάλων
(Blass) o μυχαλῶν (Barrett), una forma attestata dai codici euripidei (Hel. 189: πέτρινα μύχαλα γύαλα) e
da un frammento papiraceo della Niobe, presumibilmente sofoclea (fr. **442, 7 TrGF), o piú verisimilmente
l’ellenistico μυχάτων: si alluderebbe, cioè a qualcuno che esce fuori dai recessi (di una grotta?) attratto dal
suono di dolci melodie.

Ψηφίζει τις ἀεὶ τὰ χρήμα[τ]α μὴ π[


οὐδεὶς ψηφίζει τὸ κακω[
χρήματα γὰρ καιρὸς τε φέρει κα[
εὑρεῖν δ᾿ οὐ δύναμαι τὴν σὴν[
αὔ[λει μοι.

5-8 P.Oxy. 15, col. II

6-7 A.P. XI 168 (Antiphanes): ψηφίζεις, κακόδαιμον· ὁ δὲ χρόνος ὡς τόκον οὕτω / καὶ πολιὸν τίκτει γῆρας
ἐπερχόμενος· / κοὔτε πιὼν οὔτ᾿ ἄνθος ἐπὶ κροτάφοις ἀναδήσας, / οὐ μύρον, οὐ γλαφυρὸν γνούς τοτ᾿ ἐρωμένιον, /
τεθνήξῃ, πλουτοῦσαν ἀφεὶς μεγάλην διαθήκην, / ἐκ πολλῶν ὀβολὸν μοῦνον ἐνεγκάμενος 8 Theogn. 149: χρήματα
μὲν δαίμων .... δίδωσιν, Comp. Men. et Phil. I 83-84. Jäkel: ὁ καιρὸς ἀνθρώποισιν, οἷσπερ ἂν θέλῃ, / ἐλθὼν

70
1898-1899, p. 113.
71
1898-1899, p. 113.
δίδωσιν χρημάτων ἐξουσίαν Comp. Men. et Phil. IV 1-4 Jäkel: πολλῶν ὁ καιρὸς γίνεται παραίτιος / ... / ὁ νῦν
δίδωσιν, οὐ δίδωσιν αὔριον 9 Theogn. 415 (= 1164e): οὐδέν᾿ ὁμοῖον ἐμοὶ δύναμαι ... εὑρεῖν, cf. Theogn. 364: οὐ
δύναμαι, al.

6 possis μήπ[οτε 7 possis κακῶ[ς 8 κα[ιρὸς τε παρελεῖ prop. Blass, de qua forma cf. Mayser, Gramm.
griech. Pap. I/2, p. 176; Blass-Debrunner § 74; Gignac, Grammar of the Greek Papyri II, p. 287, κομίζει Heitsch dub. in
app.

Si fa conto che sempre le ricchezze ... / nessuno mette in conto che malamente ... / le ricchezze opportunità
porta e (opportunità può levare); ... / ma io non riesco a scoprire la tua ... / Suonami l’aulo.

Con i moduli propri della poesia gnomica la parte iniziale dell’enunciato mette in guardia sulla
pressoché unanime quanto fallace convinzione secondo la quale i beni posseduti sarebbero imperituri e
amaramente constata che nessuno mette in conto di perderli all’improvviso.
Eppure la ricchezza è stata sempre considerata un dono concesso dalla divinità, che per disegni
imperscrutabili può sottrarla all’uomo precipitandolo nella piú abietta miseria (cfr. Hom. Od. XIX 75-80).
Essa è in altri termini un bene instabile che si accompagna ora all’uno ora all’altro (Sol. fr. 6, 4 PETFr =
Theogn. 318: χρήματ᾿ ἀνθρώπων ἄλλοτε ἄλλος ἔχει), può essere elargita persino ai malvagi (Theogn. 149:
χρήματα μὲν δαίμων καὶ παγκάκῳ ἀνδρὶ δίδωσιν), anche se soltanto quella che proviene da Zeus appare
duratura (Sol. fr. 1, 9 PETFr). In seguito Teognide cosí sviluppa questa riflessione soloniana: χρῆμα δ᾿ ὃ μὲν
Διόθεν καὶ σὺν δίκῃ ἀνδρὶ γένηται / καὶ καθαρῶς, αἰεὶ παρμόνιμον τελέθει· / εἰ δ᾿ ἀδίκως παρὰ καιρὸν
ἀνὴρ φιλοκερδέι θυμῷ / κτήσεται, εἴθ᾿ ὅρκῳ πὰρ τὸ δίκαιον ἑλῶν, / αὐτίκα μέν τι φέρειν κέρδος δοκεῖ,
ἐς δὲ τελευτὴν / αὖθις ἔγεντο κακόν, θεῶν δ᾿ ὑπερέσχε νόος (vv. 197-202), ribadendo la necessità di
astenersi dall’acquisire ricchezze παρὰ καιρόν (v. 199) in ossequio al dettato proverbiale esiodeo secondo il
quale καιρὸς δ᾿ ἐπὶ πᾶσιν ἄριστον (cfr. Theogn. 401; Pind. Ol. XIII 47-48; Bacch. XIV 16-17). Né da
questa prospettiva si distacca Platone quando asserisce che tutte quante le azioni umane sono governate dalla
divinità, dalla sorte e dall’opportunità (Leg. IV 709b: θεὸς μὲν πάντα, καὶ μετὰ θεοῦ τύχη καὶ καιρός,
τἀνθρώπινα διακυβερνῶσι σύμπαντα). Ma è nel periodo ellenistico che con il mutamento radicale delle
condizioni socio-politiche e in una diversa temperie culturale si rafforza la convinzione che il destino umano
è regolato soprattutto da τύχη e da καιρός, celebrato già da Ione di Chio come il piú giovane figlio di Zeus72.
Cosí al posto del padre degli dèi è l’imprevedibile e capriccioso καιρός a dispensare i beni materiali ai
mortali, come mettono bene in evidenza alcune raccolte tardo ellenistiche (Comp. Men. et Phil. I 83s. Jäkel:
ὁ καιρὸς ἀνθρώποισιν, οἷσπερ ἂν θέλῃ, / ἐλθὼν δίδωσιν χρημάτων ἐξουσίαν, Comp. Men. et Phil. IV 1-4
Jäkel: πολλῶν ὁ καιρὸς γίνεται παραίτιος / ... / ὃ νῦν δίδωσιν, οὐ δίδωσιν αὔριον).
Cosí il saggio, riconoscendo le incerte ed effimere gioie procurate dalle ricchezze, contrappone ad esse valori
stabili e duraturi (virtú, amicizia, lealtà); da qui scaturisce la sconsolante ammissione del poeta di aver
invano cercato nell’interlocutore quella qualità positiva che l’avrebbe distinto dalla moltitudine anonima di
stolti intenti ad accumulare tesori che forse all’indomani avrebbero perduto.

72
Paus. V 14, 9 = Ion fr. 3/742 PMG; cfr. H. Lamer, s.v. kairos, in RE X, 1919, coll. 1508-1521; D. Levi, Il καιρός
attraverso la letteratura greca, «RAL» s. V 32, 1924, pp. 280-281; A. B. Cook, Zeus, II/2, Cambridge 1925, pp. 859-
868.
Ὦ φίλοι μέρο[πε]ς συν[
δεῦτε τρυφῶν ἀνόμου[ς
τοῖς φυσικοῖς χρήσασ[θε
τὰς πρώτας κυ[...]λας ε[
[αὔ]λει μο[ι.

9-12 P.Oxy. 15, col. II

11 φίλοι prima syllaba producta, cf. Hom. Il. IV 155, al. 12 nota critica (antisigma) in marg. sinistra P
Τρύφωνα νόμου[ς Fraccaroli, Boll. Fil. Class. V, 1898-1899, p. 113 ἀνόμου[ς κηλήσεις ἐκτραπόμενοι ex. gr. coni.
Wilamowitz, «Gött. gel. Anz.» CLX, 1898, p. 695 13 χρήσασ[θε καλοῖς ex. gr. coni. Wilamowitz, ibidem 14
paragraphus sub τας P λ vel δ edd. pr., κύλικας prop. Deichgräber (apud Heitsch)

O mortali, ... / qui delle mollezze le inique (lusinghe evitate) / dei naturali (beni) godete ... / le prime ... /
Suonami l’aulo.

Per sottolineare l’intento etico-parenetico del dettato il poeta si rivolge all’uditorio con una generica
allocuzione imperniata su di un termine di alta caratura poetica, μέροπες, usato nei poemi epici come epiteto
di ἄνθρωποι o di βροτοί (ex. gr. Hom. Il. I 250; cfr. Hes. Op. 109; Hom. Il. II 285) e successivamente come
sostantivo ([Musae.] 2 VS fr. 13; Aesch. Choe. 1018; Eur. Iph. Taur. 1236; Ap. Rhod. IV 536; Callim. fr. 298
Pf.; etc.), il cui impiego venne censurato dal commediografo Stratone in una sua opera teatrale nella quale
ridicolizzava la glossomania del suo tempo (fr. 1, 6-7 PCG).
Fraccaroli73 credette di individuare al v. 2 il nome di Trifone, il presunto autore dell’intero
componimento (cfr. A P. IX 488), e poco persuasivamente cosí intese il senso di questi versi: Venite qui, o
popoli, a vedere che bella cosa ha fatto Trifone! Egli ha composto questa poesia seguendo certe leggi e
ponendo in capo a ogni strofe una lettera dell’alfabeto.
Piú convincente appare invece l’esegesi di Wilamowitz74, il quale intravede nella quartina un tema
particolarmente caro alla diatriba ellenistica: la necessità di evitare il lusso e di accontentarsi dei beni offerti
dalla natura75; secondo questa ricostruzione, infatti, all’allocuzione iniziale avrebbero fatto seguito un fermo
monito a non lasciarsi traviare dalle artificiose lusinghe delle mollezze e un caldo invito a ricercare i beni
naturali.

73
1898-1899, p. 113.
74
«GGA» 160, 1898, p. 695.
75
A. Oltramare, Les origines de la diatribe romaine, Lausanne 1926, p. 51.
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