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gesti

gesti
1. Definizione
Si può definire gesto
qualsiasi movimento fatto
con le mani, le braccia o le
spalle. Ma esistono gesti
pratici (quelli che si fanno
per afferrare o per costruire
un oggetto, aprire una porta,
appoggiarsi a un tavolo) e
gesti comunicativi.
Un gesto è comunicativo
quando la forma che
assumono le mani e il loro
movimento sono prodotti per
comunicare. Un gesto
comunicativo dunque (d’ora
in poi semplicemente gesto)
è un segno: una coppia
significante-significato in cui
il significante è una
particolare forma e
movimento delle mani o
delle braccia o delle spalle e il
significato è una conoscenza
di formato proposizionale o
un’immagine mentale visiva.
2. Tipi di gesti
Vi sono tipi diversi di gesti
(Efron 1941; Ekman &
Friesen 1969; McNeill 1992;
Kendon 2004): gesti deittici
(➔ deittici) con cui si indica
un oggetto o una persona con
l’indice o con la mano aperta
(Kita 2003; Kendon 2004);
iconici (dal gr. eikṓn
«immagine»), che
raffigurano nell’aria la forma
o imitano i movimenti di un
oggetto, un animale, una
persona; batonici (dal fr.
bâton «bastone»), in cui le
mani si muovono
ritmicamente dall’alto in
basso per scandire ed
enfatizzare le sillabe
accentate in una frase;
simbolici o emblematici, che
in una determinata cultura
hanno un significato e una
traduzione, in parole o frasi,
culturalmente condivisa: ad
es., muovere avanti e
indietro la mano con l’indice
e il medio a V davanti alla
bocca, che significa
«fumare» o «sigaretta»; o
muovere su e giù davanti al
busto la mano con le dita in
su riunite (o mano a
tulipano; Poggi 2006), che
significa «ma che dici?!».
3. Criteri di distinzione
dei gesti
3.1 Creativi e codificati
Un’importante distinzione
fra i gesti è quella tra gesti
creativi, cioè inventati dal
parlante per scandire e
illustrare il suo parlato, e
codificati, cioè memorizzati
stabilmente in un lessico
gestuale (Poggi 2006). Nei
primi, il legame fra
significante e significato è
estemporaneo (ad es.,
quando vogliamo descrivere
la forma di un terrazzo e ne
disegniamo nell’aria il
profilo, inventando in quel
momento i movimenti da
fare con le mani); negli altri è
codificato, cioè condiviso con
altri parlanti e
immagazzinato in memoria
una volta per tutte, proprio
come accade nel lessico per
le parole.
Esempi tipici di gesti creativi
sono quelli con cui si
raffigurano azioni, persone,
oggetti per illustrare la
narrazione. Questi gesti sono
necessariamente iconici, cioè
assomigliano a ciò che
significano: se non lo fossero
l’interlocutore non potrebbe
capirli, visto che è la prima e
unica volta che vengono
prodotti.
I gesti simbolici, invece, che
hanno una traduzione in
parole e frasi canonica e
condivisa, sono un caso
tipico di gesti codificati
culturalmente; si imparano
da piccoli vedendoli fare, e
un non vedente, a meno che
non gli si insegni come
atteggiare le mani, non ne
compie. Anche altri gesti
sono codificati (cioè chi li fa
può fidare che vengano
compresi da altri), ma
codificati biologicamente: ad
es., alzare i pugni chiusi per
l’esultanza, gesto tipico
dell’atleta che taglia il filo di
lana, determinato
dall’attivazione fisiologica di
forti emozioni positive,
quindi comprensibile in tutte
le culture.
3.2 Gesti consci, inconsci e
taciti
Certi gesti, specialmente
quelli simbolici, si fanno in
modo intenzionale e
consapevole, al punto che se
qualcuno dopo ci chiede che
gesti abbiamo fatto, ce li
ricordiamo. I gesti batonici,
invece, in cui la mano va su e
giù per enfatizzare il parlato,
si fanno quasi senza
accorgersene: l’intenzione
comunicativa è tacita, cioè
l’abbiamo ma non sappiamo
di averla. Altri gesti infine
sono inconsci, cioè si fanno
ma essendo convinti di non
farli.
Un esempio di un gesto
simbolico inconscio è citato
da Ekman (1985) nel suo
libro sulle bugie. Una
studentessa sostiene un
colloquio con un professore,
che la tratta in modo
provocatorio. Lei non può
rispondere a tono, perché ciò
le potrebbe nuocere, ma
senza che lei se ne renda
conto la sua mano, poggiata
sul ginocchio, assume la
forma del pugno chiuso col
dito medio teso: un gesto
insultante.
3.3 Motivati e arbitrari
Un gesto si dice motivato
quando il suo significato si
può indovinare dalla sua
forma o movimento.
Possiamo distinguere due
tipi di gesti motivati: iconici
e naturali. In un gesto
iconico (ad es., muovere le
braccia come ali per
significare «uccello»), la
relazione tra la forma o il
movimento del gesto e le
immagini visive che fanno
parte del suo significato è di
somiglianza: le une imitano
le altre.
In un gesto naturale (come
scuotere le braccia in alto
per l’esultanza) la relazione è
di determinismo meccanico:
qualcosa nel significato del
gesto determina in maniera
necessaria la sua forma,
luogo o movimento. Ad es., il
gesto deittico di indicare col
dito richiede all’interlocutore
di prestare attenzione a un
oggetto, concreto o astratto,
collocato, spazialmente o
mentalmente, nel luogo
indicato da un immaginario
prolungamento dell’indice.
Un gesto è invece arbitrario
quando chi non l’ha mai visto
non può indovinare cosa
voglia dire. Molti gesti
simbolici, almeno così come
ci appaiono oggi, sono
arbitrari: ad es., strisciarsi la
mano sotto il mento, che
vuol dire «chi se ne frega» e
la mano a tulipano («ma che
vuoi?» o «ma che dici?»).
Spesso tuttavia, come è stato
mostrato per le lingue di
segni dei sordi (Radutzky
1981), i gesti arbitrari sono
nati come iconici e poi hanno
perso la loro iconicità.
3.4 Autonomi e coverbali
Alcuni gesti sono autonomi,
cioè si possono usare anche
in totale assenza di parlato, e
sostituirlo completamente:
esempio tipico i gesti
simbolici e i segni delle
lingue di segni dei sordi, che
sono un tipo particolare di
gesti simbolici. Se per i segni
dei sordi è ovvio che possano
e debbano sostituire il
parlato, ciò avviene a volte
anche per i gesti simbolici
usati dagli udenti.
Interessanti a tale proposito
le sequenze gestuali di alcuni
film italiani, come Così parlò
Bellavista di Luciano De
Crescenzo, con i dialoghi
‘manuali’ di Antonio
Casagrande nei corridoi della
pretura; o quelli da un lato
all’altro di una strada
trafficata in Mimì
metallurgico ferito
nell’onore, con Giancarlo
Giannini e Mariangela
Melato, e in Maledetto il
giorno che ti ho incontrato,
con Carlo Verdone e
Margherita Buy.
Altri gesti invece non si
possono usare se non
contemporaneamente al
parlato, al punto che se li
vediamo fare da una persona
pensiamo o che sta parlando
con l’auricolare, o che parla
da solo. Sono i gesti che
servono ad arricchire o
ribadire le informazioni del
parlato, per questo chiamati
coverbali. La caratteristica di
non poter occorrere se non
contemporaneamente al
parlato è particolarmente
evidente nei gesti batonici,
che servono proprio a
scandire ed enfatizzare il
parlato. Ma anche i gesti
iconici e deittici in genere si
accompagnano alle parole.
Secondo alcuni autori
(McNeill 1992), il gesto
coverbale costituisce, con le
parole prodotte
simultaneamente, un tutto
unico. Ad es., se nel
raccontare un cartone
animato dico «Gatto
Silvestro sale su per la
grondaia» muovendo verso
l’alto le mani artigliate, come
se si aggrappassero a un tubo
in verticale, gli aspetti del
movimento descritto si
distribuiscono fra il gesto e le
parole. Il verbo sale e la
preposizione su veicolano
l’idea di verticalità del
movimento, mentre la forma
delle mani che si aggrappano
è in grado di rendere, oltre
alla direzione, il modo del
movimento.
4. Natura e cultura nei
gesti
I gesti sono parte integrante
della comunicazione in tutti i
casi in cui il destinatario può
vedere il parlante, come
nell’interazione faccia a
faccia o in televisione. In
tutte le culture infatti si
gesticola, ma vi sono culture
più e meno gestuali.
In Italia alcune regioni
mediterranee, come la
Campania (Carpitella 1981) e
la Sicilia (Cocchiara 1977),
sono depositarie di un
repertorio gestuale molto
ricco, in parte ereditato dai
greci (De Jorio 1842). I loro
gesti sono più diversificati,
più ampi e più frequenti
rispetto, ad es., a quelli degli
inglesi (Kendon 2004): ciò
vale anche per i gesti creativi,
ma la ricchezza della
gestualità italiana si vede
specialmente nei gesti
simbolici.
5. I gesti simbolici
italiani
Gli italiani udenti,
nell’interazione quotidiana,
usano spesso i gesti
simbolici. Sono gesti
simbolici, ad es., lisciarsi il
mento col dorso della mano
per dire «niente affatto» o
«non me ne importa nulla»;
mettersi l’indice sulle labbra
per chiedere silenzio. Questi
gesti si contano a centinaia
(Poggi 2002) e costituiscono
un lessico gestuale
complesso e sofisticato.
Ricca e articolata è anche la
‘fonologia’ dei gesti simbolici
italiani, che è chiamata
anche chirologia (o
cherologia, dal gr. khéir
«mano»).
5.1 Chirologia
È possibile descrivere e
classificare i gesti simbolici
italiani in termini dei
parametri formazionali
individuati nello studio delle
lingue di segni:
configurazione della mano,
luogo di articolazione,
orientamento del palmo e del
metacarpo, movimento.
Ogni parametro può
assumere un certo numero di
valori, per cui in quel sistema
ogni gesto è caratterizzato
univocamente dalla
combinazione dei valori che
assume rispetto ai vari
parametri. E ogni valore di
ciascun parametro è
distintivo, nel senso che
cambiando quel valore il
gesto non ha più significato,
o ha un significato diverso:
proprio come calo è una
parola diversa da caro, ed
entrambe si distinguono
dalla non-parola camo.
Ad es., nel gesto simbolico
che significa «se
l’intendono» o «c’è del
tenero», o semplicemente
«c’è un rapporto» (fig. 1), il
valore assunto relativamente
al parametro formazionale
forma della mano è indici
delle due mani tesi,
l’orientamento è a palme in
giù e metacarpo verso
l’ascoltatore, il luogo in cui
viene prodotto è lo spazio di
fronte al parlante, e il
movimento è di avvicinare e
allontanare ripetutamente gli
indici paralleli.
Analizzato in base a questi
parametri, il sistema
chirologico dei gesti
simbolici italiani risulta ricco
e articolato quasi come
quello della Lingua italiana
dei segni (LIS). Gli udenti
italiani usano 39 forme della
mano, 6 orientamenti, 35
luoghi. Il movimento è un
parametro molto complesso,
in cui si possono a loro volta
distinguere vari parametri
fra cui direzione, velocità,
durata e tensione muscolare.
5.2 Grammatica dei gesti
simbolici italiani
I gesti simbolici italiani,
come tutti i gesti simbolici
usati in una certa cultura
dagli udenti, non assurgono
allo status di lingua come
invece è assodato per le
lingue di segni dei sordi,
perché mentre una lingua di
segni ha un lessico (cioè un
sistema di parole) e una
sintassi (cioè un sistema di
regole per combinare le
parole formando frasi), un
sistema di gesti simbolici
comprende un lessico, ma
non una sintassi. Quindi nei
gesti simbolici non ci sono
vere e proprie categorie
grammaticali, come nome o
verbo, ma tuttavia è possibile
distinguere gesti olofrastici e
articolati, cioè gesti-frase e
gesti-parola, a seconda che
abbiano il significato di una
frase intera o solo di una
parte di frase. Ad es.,
muovere l’indice e il medio a
V davanti alla bocca vuol dire
«fumare» o «sigaretta» (fig.
2), cioè porta il significato di
una sola parola, mentre
battere le mani ha il
significato di una frase
intera, «ti lodo», «ti informo
che valuto positivamente il
tuo operato», comprensiva,
oltre che di un intero
contenuto proposizionale,
anche del performativo, cioè
l’intenzione del parlante.
Così fra i gesti-frase è
possibile distinguere, in base
al performativo, gesti di
domanda (per es., muovere
su e giù davanti al busto la
mano con le dita in su
riunite «che vuoi?»), di
richiesta (mano a palmo in
giù con le dita che si
abbassano ripetutamente
«vieni qui»), di minaccia
(scuotere l’indice teso «guai a
te!»), di lode (applauso
«bravo!»).
5.3 Semantica dei gesti
simbolici italiani
Si possono distinguere i gesti
simbolici italiani a seconda
che diano informazioni sul
mondo (cioè su oggetti,
persone, eventi, proprietà,
relazioni di spazio e di
tempo), sull’identità del
parlante (sesso, età, radici
etniche e socio-culturali,
ruolo, status, personalità) o
sulla mente del parlante
(credenze, scopi, emozioni
del parlante relativi a ciò di
cui sta parlando).
Vari gesti degli udenti danno
informazioni sul mondo:
persone («indiano»,
«comunista»), animali
(«cavallo», «asino»), oggetti
(«forbici», «sigaretta»),
azioni («camminare»),
proprietà fisiche e mentali
(«magro», «stupido,
testardo»), momenti del
tempo («ieri», «dopo»),
quantità («due»). Poiché
però non vi è distinzione
grammaticale fra nomi e
verbi, lo stesso gesto può
significare sia l’oggetto che
l’azione: «sigaretta» o
«fumare», «forbici» o
«tagliare».
Tra i gesti che danno
informazioni sull’identità del
parlante, uno usato molto
spesso da uomini politici è
mettersi la mano sul cuore,
che significa «io lo dico
sinceramente»: un gesto di
autopresentazione della
propria onestà morale. Gesti
come alzare il pugno chiuso
alzato («sono comunista») o
la mano tesa («heil Hitler!»
= «sono nazista»), o i pollici
e indici delle mani che si
toccano a formare un
triangolo («sono
femminista») esprimono
un’appartenenza ideologica.
Proprio perché i gesti degli
udenti non sostituiscono il
parlato ma lo accompagnano,
molti danno informazioni
sulla mente del parlante.
Alcuni informano sul grado
di certezza delle conoscenze
che si comunicano (scuotere
l’indice teso a palmo avanti
«no», stringersi nelle spalle
«sono perplesso, non lo so»)
o sulla loro fonte (schioccare
pollice e medio «cerco di
ricordare», muovere su e giù
gli indici e medi paralleli con
entrambe le mani alzate, a
palme in avanti
«virgolette» (fig. 3), cioè
«quello che dico è una
citazione, ne prendo le
distanze»).
Altri informano sugli scopi
della frase, del discorso o
della conversazione: sul
performativo dei propri atti
di comunicazione (indice
teso alzato «attenzione»,
mani alzate a palme avanti,
vicino alle spalle «chiedo
scusa»); sui legami logici tra
le frasi del discorso (pollice e
indice aperti dal pugno e un
po’ curvi, con rotazione sul
polso significano «quindi»,
cioè «pongo una relazione
causale fra questi due fatti»);
sulla presa del turno (alzare
la mano «chiedo la parola»,
mano aperta a palmo in su
come a porgere qualcosa
«parla pure»).
Altri gesti infine comunicano
le emozioni del parlante. Ad
es., il gesto con l’indice e
medio aperti a V, mano
alzata a palma in avanti è
parafrasabile con «Victory!»,
espressione di esultanza;
coprirsi la faccia con le mani
esprime vergogna; l’indice
puntato sulla guancia con
movimento di avvitamento,
parafrasabile come «mhm,
buono!», esprime tipi diversi
di piacere fisico o quasi-
fisico: si può riferire a un
cibo prelibato, ma anche a
una bella ragazza, o persino,
metaforicamente, a un libro
o un film veramente ‘ghiotto’.
6. Figure retoriche nei
gesti
Di un gesto, come di una
parola o di una frase,
possiamo avere un uso
retorico, cioè diverso da
quello letterale. E questo vale
sia per i gesti creativi,
inventati
estemporaneamente, che per
quelli codificati.
Un esempio di gesto creativo
iconico che utilizza una
metafora è quello di un uomo
politico, Gianni De Michelis,
che, mentre dice «com’è
perfettamente evidente»,
apre le mani voltando le
palme in alto. Il gesto è
metaforico, perché dà il
significato di qualcosa di
chiaro, evidente, attraverso
l’idea di qualcosa che si apre,
come la corolla di un fiore, e
diviene visibile a tutti. Un
uso ironico del gesto è quello
di Antonio Di Pietro,
pubblico ministero nel
processo Mani pulite (1992 e
anni seguenti), che, non
convinto di ciò che afferma
l’imputato, nell’ipotizzare ciò
che lui invece pensa sia la
verità dice: «A me sembra –
e ne chiedevo a lei conferma
…» e muove in avanti le
mani a palme in su,
protendendosi e quasi
inchinandosi, in un gesto di
esagerata cortesia. La
richiesta di conferma,
letteralmente, comunica
«sono disposto ad accettare
sia una conferma che una
smentita della mia ipotesi»,
ma il gesto, nella sua
esagerazione, risulta ironico,
e attraverso il rovesciamento
antifrastico dell’ironia fa
capire che una smentita non
sembrerebbe credibile,
mettendo in dubbio
l’attendibilità dell’imputato.
Nei gesti simbolici operano
varie figure retoriche:
metafora, sineddoche, ironia,
iperbole. Un gesto
metaforico è quello di
battersi la mano sul petto,
col palmo in giù e le dita che
si toccano (fig. 4): vuol dire
«mi sta sullo stomaco», cioè
letteralmente «non lo
digerisco». Ma ciò che non si
digerisce non è un cibo, bensì
una persona: significa,
metaforicamente, «non lo
sopporto»; se digerire vuol
dire accettare qualcosa da un
punto di vista fisiologico, qui
l’accettazione è sul piano
psicologico.
Un esempio di ironia si ha
invece nel gesto di battere le
mani, che si usa in senso
letterale per approvare e
lodare, ma anche in senso
ironico per esprimere, al
contrario, un sarcastico
elogio, cioè una critica, una
forte disapprovazione. Altri
gesti utilizzano la figura
dell’iperbole: per comunicare
«sono triste» l’indice sfiora
la guancia dallo zigomo in
giù, come a raffigurare una
lacrima che scende, e quindi
il pianto. Qui, piangere è
un’esagerazione –
un’iperbole appunto –
rispetto a essere triste. In
altri casi i gesti
rappresentano una forma o
un’azione in maniera
esagerata, come nei gesti
osceni di descrizione,
commento o minaccia, che
raffigurano elementi attivi o
passivi dell’atto sessuale.
Un’altra figura retorica usata
spesso nei gesti simbolici
italiani è la sineddoche: si
rappresenta una certa cosa
per significarne un’altra che
vi è collegata. Nel gesto
prigione, si rappresenta la
parte (le dita della mano
poste davanti alla faccia a
mimare le sbarre, fig. 5) per
intendere il tutto (la
«prigione»). E poiché questo
gesto può anche significare
«malvivente», utilizza così
un’altra sineddoche, in cui il
contenente (prigione)
rappresenta il contenuto
(«qualcuno che in prigione
c’è, c’è stato, o ci dovrebbe
stare»). Un altro gesto che
utilizza la sineddoche è
toccarsi il dorso del polso
sinistro con l’indice destro
(fig. 6), che significa «che ora
è?» o anche «è tardi,
sbrigati»: qui, dal luogo (il
polso) si passa all’oggetto
(l’orologio), dall’oggetto alla
sua funzione («sapere
l’ora»), e dalla funzione
all’azione che ne risulta
(«sbrigarsi»).
L’applicazione dei
meccanismi retorici ha due
importanti funzioni per il
lessico dei gesti, così come
per quello delle parole. Da un
lato contribuisce al
cambiamento storico del
significato dei gesti, perché
l’operare di una figura
retorica fa cambiare il
significato del gesto, al punto
che il nuovo significato
soppianta il vecchio. In
alcuni casi il significato
letterale si perde, offuscato
dal significato metaforico:
quando vediamo fare, per es.,
il gesto mi sta sullo stomaco,
pensiamo subito a
un’intolleranza caratteriale,
non alimentare. In altri casi
invece significato letterale e
retorico coesistono, come nel
gesto di battere le mani che
mantiene, insieme al suo
significato di elogio ironico
(e quindi di critica), quello
letterale di una lode sincera.
Questa coesistenza di due
significati – in parte collegati
– in uno stesso gesto
costituisce la polisemia dei
gesti. Molti gesti hanno
infatti più di un significato,
come le parole. E questo
fatto risponde a un’altra
importante funzione per il
lessico dei gesti: le figure
retoriche sono fonte di
polisemia, cioè di duplicità di
significati, oltre che di
significati nuovi.
7. Variazioni dialettali
Molti gesti simbolici si usano
in tutta Italia, più o meno
con lo stesso significato. Ma
anche in questo sistema di
comunicazione vi sono
variazioni regionali.
Innanzitutto vi sono alcune
regioni più ‘gestuali’, come la
Campania e la Sicilia, ed altre
meno, come la Sardegna
dell’entroterra, in cui nella
comunicazione quotidiana,
proprio come nella danza
tradizionale, le mani si
muovono poco.
Inoltre, alcuni gesti usati in
certe zone in altre sono del
tutto sconosciuti. Ad es.,
quello piemontese che
significa «vergogna!»: indice
e medio tesi, mano a palmo
in giù, si strofinano su dorso
di indice e medio dell’altra
mano. A Napoli il gesto di
lisciarsi il mento significa
«bello»; in Sicilia, lo scatto
del pollice dagli incisivi in
fuori vuol dire «niente»
oppure «non prenderai un
centesimo».
Talvolta in una certa regione
un gesto ha un significato un
po’ diverso da quello che ha
nel resto d’Italia: lisciarsi il
mento col dorso della mano
in tutto il paese vuol dire
«chi se ne frega», ma a
Napoli a volte è
semplicemente una
negazione: «no», «non»,
«niente affatto».
Infine, in una regione può
esistere una variante di un
gesto diffuso ovunque. Ad
es., indice e medio tesi verso
l’alto, come nel gesto
liturgico del prete che
benedice, significano
«morto», «finito». Ma in
gran parte dell’Italia la mano
si muove dall’alto in basso
disegnando nell’aria una
croce, mentre nelle regioni
meridionali (Salerno,
Calabria, Sicilia) descrive
una piccola rotazione in
senso orario.
8. Due gesti tipici
Due gesti piuttosto frequenti
nella comunicazione
quotidiana in Italia sono fare
manichetto (più noto come
gesto dell’ombrello) e la
mano a tulipano.
Il primo è in realtà diffuso in
tutto il mondo: il gesto fallico
di battere con la mano destra
l’incavo del gomito sinistro
alzando tutto l’avambraccio
sinistro. È un gesto
insultante, parafrasabile
come «tiè! t’ho fregato!», o
meglio «non m’hai fregato!».
Un altro gesto che è in
qualche modo l’emblema
della gestualità italiana,
tanto da essere riconosciuto
dagli stranieri come il gesto
italiano per eccellenza, è
quello della mano a borsa o
mano a carciofo (figg. 7-8),
che ➔ Carlo Emilio  Gadda in
Quer pasticciaccio brutto de
Via Merulana chiama mano
a tulipano: la mano si muove
su e giù a palmo in alto, con
le dita che si toccano le
punte, proprio come i petali
di un tulipano. Si tratta di un
gesto-frase polisemico, cioè
con due letture diverse ma
correlate: una di domanda,
parafrasabile come «che
vuoi?», «che dici?», «e
allora?»; l’altra di critica, o
d’informazione o valutazione
negativa, parafrasabile come
«ma che dici?!», «niente
affatto», «non sono
d’accordo».
Nel significato di domanda, la
mano si muove su e giù in fretta,
compiendo un arco di pochi
centimetri, e si ferma di scatto
dopo al massimo due o tre
ripetizioni; inoltre il gesto è
accompagnato da uno sguardo
interrogativo, con le sopracciglia
aggrottate e un’espressione di
curiosità. Nel significato di critica,
invece, la mano si muove su e giù
lentamente, più volte, per un
tragitto molto lungo, anche fino a
completa flessione ed estensione
dell’avambraccio; la bocca si
atteggia a un sorriso scettico o
ironico, il capo è leggermente
inclinato da una parte, e in genere
non c’è aggrottamento delle
sopracciglia né espressione di
curiosità. Delle due letture del
gesto, il significato di critica
appare più frequente di quello di
domanda, nell’uso quotidiano: un
ricorrente richiamo all’altro a non
prendersi troppo sul serio.

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