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MOSHI MOSHI
Feltrinelli
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione nella collana “I Narratori” giugno 2012
Per la trascrizione dei nomi giapponesi è stato adottato il sistema Hepburn, secondo il quale le vocali
sono pronunciate come in italiano e le consonanti come in inglese. Si noti inoltre che:
ch è un’affricata come la c nell’italiano cesto
g è sempre velare come in gatto
h è sempre aspirata
j è un’affricata come la g nell’italiano gioco
s è sorda come in sasso
sh è una fricativa come sc nell’italiano scelta
w va pronunciata come una u molto rapida
y è consonantica e si pronuncia come la i italiana.
Il segno diacritico sulle vocali ne indica l’allungamento.
Seguendo l’uso giapponese, il cognome precede sempre il nome (fa qui eccezione il nome
dell’autrice).
Per il significato dei termini stranieri si rimanda al Glossario in fondo al volume.
Un regista ormai scomparso e che amavo molto, Ichikawa Jun, ha girato un film
dal titolo Zawa zawa Shimokitazawa.
È un film che ho guardato non so quante volte a casa dei miei, sola e a notte
fonda, quando cercavo il coraggio per trasferirmi a Shimokitazawa. Volevo che il
mio corpo assorbisse Shimokitazawa: solo allora mi sarei sentita sicura.
Nel film c’è una scena in cui la pianista Fuzjko Hemming parla di quel quartiere.
Il suo racconto comincia nel momento in cui la si vede camminare e fare spese al
mercato di fronte alla stazione.
“Se alcune volte l’aspetto caotico di questo quartiere, costruito senza alcun
criterio, al solo fine di guadagnare spazio, appare gradevole, è forse perché di fatto
ricorda la parte bella dell’inconscio delle persone, la loro disordinata
scompostezza. Un po’ come quando gli uccelli mangiano i fiori, o un gatto salta
dall’alto verso il basso con un movimento perfetto. Partiamo sempre dal torbido,
quando cominciamo qualcosa di nuovo. Poi però arriva il momento in cui tutto inizia
a scorrere limpido, e in tranquillità prende a seguire il suo corso naturale.”
Quando vidi quella scena per la prima volta ne fui toccata, pensai che avesse
ragione, e mi scese una lacrima. Da allora l’ho rivista molte altre volte, l’ho
imparata a memoria e ho raccolto tutto il coraggio di cui avevo bisogno.
Quindi è questo il senso di pace che si prova quando qualcuno dice con chiarezza
ciò che avevamo capito solo vagamente? pensai.
Il peso enorme degli avvenimenti che sino ad allora aveva vissuto Fuzjko... grazie
a loro le sue belle parole assumevano, nelle immagini filmate, un significato così
intenso, riuscivano a scuotere l’animo delle persone, a infondere coraggio, ad
aiutarle a restare in piedi.
Desiderai fortemente poter fare lo stesso, in modo diverso. Volevo esercitare
quella splendida magia a vantaggio di qualcuno che non fossi io.
Nella notte, mentre pensavo a queste cose, il cuore si alleggeriva e riuscivo
finalmente a respirare a fondo. Probabilmente fu proprio quello, alla fine, a
sostenermi.
Lo stato di prostrazione che seguì la perdita di mio padre non fu per niente
violento. Il dolore che provavo somigliava a un pugno che il mio corpo riceveva
lentamente. Ogni volta mi accorgevo che penetrava un po’ più a fondo e cercavo in
qualche modo di rialzare la testa.
Diventai più razionale, mentre fisicamente avevo l’impressione di essere un po’
più solida e piccola. Per difendermi, cominciai a immergermi sempre più nei miei
pensieri.
Fiori, luce, speranze e divertimenti presero tutt’a un tratto ad apparirmi lontani,
chiusa com’ero in un’oscurità ostile, cupa e profonda. Lì dove mi trovavo, solo
quella forza feroce in fondo al mio stomaco aveva un significato, mentre le cose
belle e lievi non avevano spazio.
Immersa nell’oscurità mi sforzai il più possibile di muovermi, respirare e tenere
gli occhi fissi su ciò che avevo davanti.
Così facendo, alla fine, tornai a vedere anche la luce.
Ma non solo la luce.
L’oscurità era sempre lì, persisteva con la sua ostilità feroce e selvatica.
Si aprì uno spiraglio e fui in grado di comprendere, in parte, la bellezza delle sue
oscillazioni; fu allora che colsi anche il senso più profondo delle parole di Fuzjko.
Se non erro, la mia vita a Shimokitazawa è cominciata all’incirca un anno dopo
che mio padre si ritrovò coinvolto suo malgrado in un doppio suicidio nei boschi di
Ibaraki, insieme a una donna – una lontana parente, si disse – della quale né io né la
mamma sapevamo nulla.
Quella donna aveva intrecciato con lui una relazione intima dopo averlo
avvicinato con il pretesto di chiedergli un consiglio, lo aveva invitato a casa sua e gli
aveva sciolto del sonnifero nel sakè. Poi mio padre, condotto con l’auto in un bosco
pressoché deserto alla periferia di un centro abitato, era morto per
un’intossicazione da monossido di carbonio causata da una formella di carbone
accesa che lei aveva portato con sé. Naturalmente era morta anche lei. L’auto era
chiusa, non c’erano dubbi sulla dinamica dei fatti.
Per dirla in parole povere, mio padre aveva tutta l’aria di aver commesso un
suicidio di coppia, ma in realtà era stato “assassinato”.
Non voglio dilungarmi su quanto ci fosse di realistico in questa storia, su cosa ne
pensassi precisamente, né su tutto quello che io e mia madre abbiamo dovuto
vedere e sentire.
Lo choc è stato molto maggiore di quanto fossi in grado di sopportare, e non ho
ancora fatto ordine dentro di me.
I ricordi di quel periodo sono intermittenti, come tutto il resto. Forse non riuscirò
mai a voltarmi indietro completamente. Se la vita è un accumularsi di cose che, per
quanto ci si sforzi, proprio non si possono spiegare, allora questo avvenimento
basterebbe da solo a esaurire il mistero di una intera esistenza.
“Da un po’ di tempo a questa parte capita spessissimo che stia fuori tutta la notte
dopo un concerto fuori zona, o che torni al mattino presto, vero? Che si sia trovato
un’amante? Però non penso proprio che papà avrebbe il coraggio di abbandonare la
famiglia, che faremmo in tal caso? Be’, possiamo solo continuare a vivere come
sempre, senza stare a pensarci troppo, perché tanto non serve a niente.
Aspettiamolo e tornerà.” Io e la mamma ci ripetevamo questi discorsi in
continuazione, come se niente fosse, e la chiamata improvvisa della polizia ci lasciò
esterrefatte.
Piansi, urlai, persi il controllo. Per un po’ le provammo tutte, davvero tutte. Noi
due insieme, ognuna per conto proprio, qualche volta cercando di sostenerci a
vicenda.
Mio padre lavorava nel mondo della musica, ed era naturale che di tanto in tanto
gli capitassero delle avventure con altre donne. Avevamo la bizzarra convinzione
che la nostra famiglia si sarebbe potuta disgregare se lo avessimo sottoposto a un
controllo eccessivo, e quindi, in un certo senso, accettavamo che vivesse le sue
giornate come voleva; adesso ce la prendevamo con noi stesse, per avergli lasciato
tutta quella libertà.
Quando non era in tournée, era lui a scegliere se rientrare all’alba, e se aveva
fatto una promessa a mia madre o a me, per piccola che fosse, l’annotava
sull’agenda o sul dorso della mano e la manteneva sempre. Anche oggi, se ripenso
alle mani di mio padre, rivedo quegli appunti scritti a penna.
Se ne ricordava sempre, che fosse “comperare il latte” o “andare a mangiare
gyōza tutti insieme la prossima settimana”: prima ancora che membro di una band
era un ottimo padre. Per questo eravamo del tutto serene.
E quando morì in quel modo, anche dopo averne celebrato i funerali,
continuammo a non capire. Ci volle davvero molto tempo perché ci rendessimo
conto che lui, ormai, non c’era più.
Anche la donna era morta, quindi non ci sarebbe stato modo di processarla, e
tutto finì così, senza che potessimo spiegarci niente, nella confusione dei nostri stati
d’animo. Se pure avessimo indagato su quella donna – a cui a quanto pare ero
legata da vincoli di sangue – e avessimo preteso da lei un risarcimento in denaro,
non sarebbe cambiato niente. E poi non avrei neanche voluto incontrarla.
Pare che l’avessero data in adozione subito dopo la nascita, e che prima di morire
non avesse più nessuno, perché se n’era andata da casa da un bel pezzo.
Sono venuta a conoscenza di tutto questo quando, in realtà, non avrei voluto
nemmeno sentirne parlare. Mia madre e io non avevamo preso nessuna iniziativa in
tal senso.
Non ho guardato a lungo il suo cadavere, ma l’ho vista in una fotografia di quando
era ancora viva: era una donna dalla carnagione chiara, straordinariamente bella,
somigliava a una volpe, oppure a un serpente. Pure quello fu uno choc. Pensai che
mio padre si fosse lasciato sedurre dal suo fascino. Ovviamente per mia madre lo
choc sarà stato maggiore.
La vita di ogni giorno deve andare avanti anche in momenti come quello, e così è.
Se si trattava semplicemente di camminare per strada, tra me e gli altri non c’era
differenza, ero del tutto normale, e la cosa mi meravigliava. Dentro di me ero a
pezzi, eppure quella che si rifletteva nelle vetrine era la mia immagine di sempre.
A un anno circa dalla morte di mio padre, la mamma sembrava essersi più o meno
ripresa, e così mi dissi che anche per me era giunto il momento di rifarmi una vita.
Dopo l’università avevo studiato cucina in una scuola di specializzazione, poi mi
ero diplomata e, mentre davo una mano a un’amica nel suo ristorante, cercavo un
lavoro vero e proprio, ma le circostanze mi avevano costretto a interrompere le
ricerche. C’era anche il progetto di aprire un locale con una compagna della scuola
di cucina, ma ormai non era più il caso, era andato tutto a monte.
Decisi di lasciare l’appartamento dei miei genitori e di prenderne uno in affitto più
piccolo al piano superiore di una pensione gestita dalla madre di un’amica. Prima ci
abitava lei, ma mi disse che l’avrebbe lasciato perché si sposava e andava a vivere
in Inghilterra. Non ebbi alcuna esitazione. Era a sette minuti dalla stazione di
Shimokitazawa.
Poi iniziai a lavorare in un ristorante chiamato Les Liens, che si trovava a un
minuto di cammino lungo la stessa strada, Chazawa dōri, proprio di fronte a casa
mia. Si trattava di un piccolo locale, dove dovevo dare una mano in tutto,
dall’occuparmi del riscaldamento al pulire i pavimenti e alla preparazione delle
bevande, così che d’un tratto le mie giornate si fecero piene d’impegni. Quando
finalmente l’aria pesante e dolorosa pareva essersi un po’ mitigata, quella vita per
conto mio mi sembrò perfetta. Ero riuscita a superare il pensiero di papà, e potevo
ricominciare a vivere.
Bere un tè, alzarmi al mattino: tutte cose che finalmente riuscivo ad assaporare
con entusiasmo. Cambiare ambiente è incredibile. Adesso potevo permettermi di
non pensare all’assenza di mio padre al risveglio. A casa dei miei, invece, il pensiero
affiorava lentamente ogni mattina, con la stessa naturalezza dell’inchiostro
simpatico, causandomi turbamento.
L’appartamento che avevo preso in affitto occupava per intero il piano superiore
di una vecchia casa indipendente, per cui era sufficientemente spazioso, ma non in
maniera esagerata. Era semplice, due stanze alla giapponese che si riempivano di
luce proveniente da occidente e una cucina dell’ampiezza di due tatami. La luce del
sole era così intensa che d’estate, per quanto si tenesse acceso il condizionatore,
non si rinfrescava affatto.
Nella stanza da bagno la vasca era vecchia e piccola, rivestita di piastrelle e
l’unica parte tutta luccicante era la doccia, perché era stata aggiunta da poco. Si
sentiva in continuazione l’odore penetrante tipico delle case vecchie, il tatami era
completamente scurito dall’uso, i fornelli erano di vecchia fattura e ogni volta che
usavo il forno a microonde che avevo portato con me c’erano continui cali di
tensione. Ovviamente anche l’asciugacapelli potevo usarlo senza accendere la luce,
tanto che mi sentivo dire da chiunque venisse a trovarmi: “Incredibile che esistano
ancora posti del genere”. Era un ambiente modesto, con un sapore antico.
Ciononostante, a me, che volevo cercare di mettere un po’ di soldi da parte,
andava più che bene, sia per le dimensioni sia per la tranquillità, e perché era vicina
al posto dove lavoravo. La madre della mia amica non abitava nell’appartamento
dei proprietari al piano terra, ma lo dava in affitto. Sotto la mia stanza c’era un
negozietto di vestiti usati e un piccolo caffè con il solo bancone e un arredamento
stravagante. Il caffè non era buono e i biscotti erano poco cotti, per cui io non ci
andavo quasi mai, ma la proprietaria era una graziosa ragazza con un bel sorriso;
di giorno era piuttosto frequentato e quindi dava sicurezza, mentre di notte potevo
camminare rumorosamente, ascoltare musica o fare il bucato, che di sotto nessuno
mi avrebbe rimproverato: anche questo era un punto a favore.
Ma quel periodo spensierato durò poco. Un giorno mia madre mi capitò in casa
all’improvviso.
Fu un pomeriggio che l’estate torrida sembrava aver allentato tutt’a un tratto la
presa, e il cielo si era fatto lontano. Il vento era diventato freddo, e pioveva a
piccole gocce, come quando si è prossimi all’autunno.
Terminato il turno del pranzo, ero tornata a casa per una piccola pausa. Mia
madre mi chiamò sul cellulare e disse che in quel momento si trovava a
Shimokitazawa.
Non era infrequente che mi venisse a trovare, per cui le dissi, come sempre:
“Sono in casa. Ci prendiamo un tè?”. Si presentò con alcuni sacchetti di carta e una
grande borsa modello Birkin di Hermès, bella piena. Mi disse:
“Yocchan, io da sola, in quella casa, proprio non ci voglio stare. Posso restare a
dormire da te? Solo per qualche tempo”.
In cuor mio pensai che era davvero una seccatura, ma riuscii a non farlo
trapelare dall’espressione. Mi trattenni pensando che anche per mia madre era
stato un periodo difficile. Avevamo dentro ancora una grande confusione, ed era
difficile esprimerla a parole.
Ma a quello proprio non riuscivo a credere.
Il lavoro mi impegnava molto, rientravo solo per dormire. Inoltre la mia casa era
ben diversa da quella dei miei a Meguro, un appartamento grande e nuovo,
composto da tre stanze, soggiorno e cucina.
Ma questo a mia madre non sembrava importare.
In quella casa volevo voltare pagina. Adesso che mi ero finalmente abituata al
lavoro, mi sarebbe piaciuto cominciare una relazione, invitare più spesso gli amici
per fare quattro chiacchiere; volevo vivere, insomma, sebbene un po’ in ritardo,
tutte le esperienze divertenti che si possono fare solo quando si sta per conto
proprio. Le proposi di tornare a Meguro, promettendole che sarei rimasta un po’
con lei, ma mia madre rispose:
“Non ho niente contro Jiyūgaoka, ma quella casa e quel quartiere mi fanno
tornare in mente tuo padre. Non ce la faccio. Shimokita mi piace, voglio stare qui.
Lì mi sembra di soffocare. Tutto è immobile. Ho capito che è stato il tuo spirito
positivo, Yocchan, a sostenermi”.
L’appartamento di Meguro, nella zona di Jiyūgaoka, fu un dono dei miei nonni
paterni al figlio e a sua moglie in occasione della nascita della loro bambina (cioè
io). Anche se per un po’ restava disabitato, non ci sarebbe stato nessun affitto da
pagare. Restavano soltanto le spese condominiali, mentre per quanto riguardava le
riunioni dei proprietari, salvo casi eccezionali, avvenivano più o meno una volta al
mese. Allontanarsi per un breve periodo, quindi, non avrebbe costituito alcun
problema.
Mia madre disse:
“Proverò ad aspettare sei mesi. Se non dovessi cambiare idea, venderò
l’appartamento”.
“Allora potremmo provare almeno a prendere in affitto un posto più grande, non
pensi? Se ci metti un po’ di soldi possiamo farlo.”
“Ma così tutto finirebbe per diventare troppo rigido, darei troppa importanza alla
situazione, ed è ancora troppo presto. In questo periodo voglio muovermi con
discrezione, senza alzare neanche un granello di polvere. Con discrezione.
Trattenendo il respiro. Sento che se non agissi così, potrebbe essermi fatale.”
In circostanze come quella riusciva a pronunciare parole inspiegabilmente
convincenti, era una sua caratteristica.
“Qui si sta bene. Quando guardo Chazawa dōri dalla finestra mi accorgo che
tante cose perdono consistenza poco alla volta. Ti prego, Yocchan, non potresti
vedermi come se fossi una tua amica? Immagina che un’amica con il cuore infranto
sia venuta a stare per un po’ a casa tua.”
Mentre parlava, guardavo il disegno vivace della T-shirt che aveva indosso.
Doveva averla comperata al negozio di abiti usati al piano di sotto. L’avrà misurata
e se la sarà tenuta addosso. Era una mise in tutto e per tutto da Shimokitazawa,
non si addiceva affatto a una signora di Meguro.
Le risposi:
“È impensabile, altro che ‘ti prego’. E poi la tua situazione è di gran lunga più
grave di un ‘cuore infranto’, non posso mica prenderla con tanta leggerezza”.
“Che pensino pure che non reggo il distacco dalla mia bambina, non m’importa. Io
a Meguro, senza tuo padre e per giunta anche senza il tuo sorriso, non posso
proprio viverci, adesso. Fino a quando non avrò fatto chiarezza non riuscirò a
pensare ad altro.”
Mi girava la testa, non ci capivo più niente. Avrei dovuto riconsiderare tutto ciò
che avevo sognato sino ad allora, e non sarebbe stato semplice.
Perché mai, con tutti i posti che c’erano, dovevamo abitare in due in quella
vecchia stanza, come se durante un viaggio ci fossimo fermate in un alberghetto
senza pretese? Io l’avevo scelta perché volevo contenere le spese, e per il semplice
motivo che quell’alloggio a buon mercato, gestito dalla madre di un’amica, era così
vicino al bistrot dove lavoravo da poterlo vedere dalla finestra.
Mia madre mi disse che avrebbe contribuito alle spese, il che significava – ne ero
certa – pagare più della metà dell’affitto; inoltre sicuramente avrebbe fatto le
pulizie e il bucato. Dove sarebbe finita la mia indipendenza!?
Mi sforzai di dirglielo in modo delicato.
Ma mia madre non fece una piega, sembrava che stessi parlando a vuoto. Poi
disse, decisa:
“Le tue parole hanno tutte un senso, mi pare. Hanno un motivo e una logica”.
Risposi:
“Certo che ce l’hanno. È evidente, no?”.
Scosse il capo.
“Adesso voglio fare cose senza senso. Voglio dimenticarmi di essere un’adulta.
Prendi il matrimonio, o la vita di ogni giorno: sono tutte cose apparentemente
dotate di senso, una concatenazione di previsioni. Dev’essere stato per questo che
a tuo padre è venuta voglia di fare qualcosa di insensato, e alla fine ne è stato
risucchiato ed è morto in quel modo. Anch’io voglio fare qualcosa che non abbia
senso. Non posso pensare di ritornare ai tempi in cui ero giovane, ma ora che non
ho più neanche l’obbligo di provvedere alla tua educazione voglio provare a
ricominciare daccapo, a svuotare la testa, facendo finta di essere ospite per un po’
a casa di un’amica.”
La cosa sorprendente fu che, avendo provato ad ascoltarla con animo aperto, mi
resi conto che non c’era davvero nulla di sbagliato nel discorso di mia madre. Ogni
sua parola entrò nel mio cuore, in profondità.
Mio padre faceva parte di una band di discreto successo, di cui era il tastierista.
Capitava anche che qualche conoscente lo chiamasse per registrare in studio, ed
era continuamente in tournée con altri gruppi musicali. Era sempre impegnato e
guadagnava abbastanza bene.
Se gli proponevano di insegnare in qualche scuola di musica accettava subito, poi
però diceva che non gli piaceva farlo per mestiere, che preferiva andare in tournée,
e in effetti era quella la sua vita. Era sempre in giro a collaborare con qualche altra
band, per cui da un po’ di tempo ci si riusciva a vedere brevemente nelle poche
occasioni in cui ci riunivamo a casa, motivo per cui la nostra famiglia era molto
vicina a dividersi.
Ogni famiglia, del resto, attraversa tante fasi diverse. Proprio quando io e mia
madre avevamo iniziato a ritagliarci del tempo ciascuna per sé, quando ci eravamo
tranquillizzate pensando che con un po’ di pazienza tutto sarebbe tornato come
prima, fu come se mio padre ci fosse stato improvvisamente strappato via. Mia
madre, cresciuta come una signorina di buona famiglia, e io, sua figlia, eravamo
rimaste completamente inermi di fronte all’evento, e non riuscimmo a reagire al
colpo.
Mio padre non era di temperamento particolarmente vivace, aveva le sue
fragilità; neanche la sua salute era perfetta, e sebbene non gli capitasse di
ammalarsi spesso, appariva come una persona per la quale lo stare in vita non era
così scontato.
Credo che fosse un’eredità della mia nonna paterna, una donna perbene, senza
alcuna difficoltà economica ma mai davvero felice. Mio nonno morì quando mio
padre era ancora giovane, ma da vivo non era quasi mai in casa, perché aveva
un’amante. Sono tutte cose che ho saputo solo dopo la scomparsa della nonna.
Al pensiero che quel sangue così carico di esperienze dolorose scorra anche nelle
mie vene, sento il collo irrigidirsi. Mio padre sembrava una persona tranquilla e
matura, ma dentro di sé avrebbe voluto rimanere un eterno studente. Ogni volta
che uscivamo insieme voleva che ci prendessimo a braccetto, era viziato per
natura, cercava sempre di darsi un’aria allegra. D’aspetto dolce e un po’ delicato, di
poche parole, non lo dava troppo a vedere, ma s’incupiva per un nonnulla. Credo
che se fosse dipeso da lui avrebbe voluto vivere in maniera precaria per chissà
quanto tempo, e qualsiasi cosa succedesse tendeva a prenderla alla leggera. Questo
atteggiamento infantile era anche il lato interessante del suo carattere.
“Però, mamma, se è così puoi andartene davvero da qualcun altro, da qualche
amica, no? Io sono venuta qui apposta per vivere da sola. Per essere indipendente.
Non posso mica farmi viziare per sempre dalla famiglia.”
“Ma tuo padre non apparteneva agli altri come a me. Per quello ho solo te al
mondo. Be’, forse anche la donna che è morta insieme a lui lo condivideva con noi,
ma non credo che sarei riuscita ad andarci d’accordo, e in ogni caso è morta. E poi
gli amici si prenderebbero cura di me in un modo diverso. La sola amica su cui
potrei davvero contare si è sposata e ha seguito suo marito per lavoro a San
Francisco. Certo, a casa sua c’è una grande stanza per gli ospiti, per cui ci potrei
anche andare, ma non voglio procurarle fastidio. Se a un certo punto la vita con te
dovesse farsi difficoltosa, allora magari potrei trasferirmi da lei per un mesetto, ma
so già che si tratterebbe solo di uno svago, e sarebbe così anche se dovessi restarci
anni. Se sto in Giappone, invece, d’ora in avanti qualsiasi cosa deciderò di fare
influirà sulla mia vita. Non ho idea di cosa potrebbe accadere in futuro, quindi
voglio fare economia. Finché si tratta dell’affitto di questa casa non mi pesa per
niente. Se sto da te, posso andarmene quando voglio, senza perdere tempo. È
perfetto così. È inutile che stiamo a pensarci. Siamo sole. Non abbiamo denaro
sufficiente per vivere nel lusso. Non mi va di pensare a tutto subito, è da sciocchi,
mi sembrerebbe di sbagliare in ogni caso. Al domani penseremo domani.”
Con un pizzico di ammirazione mi domandai quando mia madre avesse iniziato a
pensare in questo modo.
Se mio padre aveva una percezione del tutto superficiale della vita, mia madre,
invece, era sempre stata una persona precisa. Riusciva sempre a pianificare, e non
aveva mai agito in maniera tale da ritrovarsi in situazioni senza via d’uscita.
Figlia unica, aveva perso i genitori quando io ero bambina.
La sua casa natale, una gigantesca fattoria con un pascolo, era stata venduta
ormai molto tempo fa. Non credo proprio che ne abbia ricavato una grande somma
di denaro, visto che si trovava in un punto dell’Hokkaidō in cui non c’era
praticamente nulla, ma mia madre, casalinga a tempo pieno, custodiva
oculatamente quella piccola eredità. L’idea di venire a stare per un po’ da me non
era, dal punto di vista economico, una scelta così avventata. In fondo, in quel modo,
sarei riuscita anch’io a mettere da parte qualcosa.
Ma sapevo anche, invece, di non essere ancora pronta al distacco dalla famiglia.
Avevo bisogno di un posto in cui ritornare, per questo desideravo che mia madre
stesse nella nostra casa.
Dentro a una cornice così infantile, ero entusiasta e determinata a stare per
conto mio, e per certi versi non ero preparata. Sognavo di vivere da sola tenendo
conto soltanto dei lati positivi.
L’idea di dover condividere quel mio piccolo spazio con qualcuno, per giunta con
un genitore, mi dava troppo fastidio. E poi avevo deciso, fantasticando tra me e me,
che se anche avessi trovato un fidanzato non saremmo andati a vivere insieme, ma
avremmo fatto la spola tra casa dell’una e casa dell’altro, in più ero ancora
impegnata con gli studi...
In realtà, perché potessi conquistarmi l’indipendenza, sarebbe stato più giusto
che si arrabbiasse, magari gridasse e se ne andasse via. Se fossi stata un ragazzo
forse avrei fatto in modo che accadesse così.
Ma in quel momento mia madre stava appoggiata sui gomiti al davanzale come
un’adolescente, lo sguardo rivolto distrattamente alla pioggia che come un velo
cadeva su Chazawa dōri.
Era una scena davvero commovente.
La razionalità che con insistenza si era insinuata nella mia mente si dileguò in un
istante.
La sua figura, in quel momento, comunicava il sincero desiderio di rimanere lì e
soltanto lì. Non era la figura distinta di una donna adulta, era avvolta da una foschia
come di sogno. Una foschia fatta di possibilità, di futuro, di solitudine, incerta come
la giovinezza.
Le dissi:
“Perché dici che non ce la fai? Per papà?”.
“Ma no. Come dire... è quell’imperativo ingannevole che se non viviamo la vita
come si deve finiremo tutti male. Ho sempre fatto tutto il possibile per vivere in
modo impeccabile, convinta che altrimenti sarebbe successo qualcosa di tremendo,
eppure alla fine le cose tremende che si sono verificate hanno superato ampiamente
le aspettative, mi sembra. È terribile doversi consolare pensando che perlomeno
tuo padre ci ha fatto il favore di morire prima di contrarre qualche debito. Non
dimenticare che ha dilapidato praticamente tutti i suoi risparmi, e a noi non è
rimasto niente. Ma era una brava persona, e credo che avrebbe preferito morire
piuttosto che procurare problemi a me e a te, Yocchan. A modo suo era un puro.
Parecchi anni fa, prima che rimanessi incinta di te, ci fu un periodo in cui le cose
non andavano molto bene. Mi chiese il divorzio, dichiarandosi inadatto alla vita in
famiglia, e forse avrei fatto bene a concederglielo. Invece discutemmo, decidemmo
di avere te, e da allora non sfiorammo mai più l’argomento. Dopo la tua nascita non
facevamo altro che ripeterci quanto fosse bello il matrimonio. Non penso affatto
che la sua morte se la sia cercata. Però adesso ho voglia di oppormi con decisione a
quella visione del mondo che mi è stata inculcata, secondo cui ‘i problemi si
risolvono se gli adulti si comportano da adulti’.”
Non riuscii a controbattere, avevo perso la cognizione dei miei stessi pensieri, e
borbottai:
“E va bene. Per ora è così, quindi proviamo a vedere tutto al rovescio. Mia madre
è venuta da me in vacanza, punto. Non c’è problema”.
Mi sentii immediatamente sollevata.
Non potevo ferire la mamma in maniera così spietata, e poi semplicemente mi ero
resa conto di non avere altra scelta. Sarebbe arrivato il momento in cui non ci
saremmo più sopportate. Ci avremmo pensato allora.
Sentii mancare in me la forza che aiuta a pianificare il futuro. In quel momento
avevo davanti agli occhi mia madre, la quale sosteneva di voler stare da me. Sapeva
solo quello, e probabilmente dopo due giorni mi avrebbe detto che sarebbe tornata
a casa sua. Ciononostante ero risoluta a fare quello che avevo deciso, e non volevo
sentire ragioni. E così avevo tirato fuori quella singolare determinazione.
“Ma sì. Chi se ne importa. Mi hai convinto.”
Con una voce che non sembrava poi così felice, mia madre rispose:
“Bene. Grazie”.
Mi conosceva come le sue tasche e sapeva che non sarei riuscita a dirle di no.
Sicuramente pensava: “Questa conversazione è una gran perdita di tempo”. In
parte non mi rassegnavo all’idea di essere praticamente un libro aperto per lei, ma
lasciai stare. Era colpa mia, non possedevo la forza necessaria per oppormi.
Andai alla finestra e mi sedetti accanto a mia madre.
E così, a quell’età, aveva deciso all’improvviso di ricominciare daccapo. Non
aveva la pressione di un figlio da crescere né il bisogno di lavorare sodo. Pensavo a
tutte queste cose. Come se non bastasse, l’ombra di un rimpianto grave e cupo
aleggiava sempre su di noi.
In un certo senso non saremmo mai più tornate come prima, qualsiasi cosa
avessimo fatto, anche provando a vivere lì. Era una consapevolezza che potevamo
solo accettare. Se qualche volta ci capitava di trascorrere del tempo serenamente,
come se avessimo dimenticato ogni cosa, in fondo restava sempre quell’ombra.
Ormai avevamo capito – e faceva male – che vivere significava procedere
portandosi tutto dietro. Anche dopo aver sofferto, dopo avere versato lacrime come
sangue, cariche di dolore, non provavamo alcun sollievo. Semplicemente
sopportavamo, fingendo che tutto andasse bene.
Nella casa dei miei, che per come erano disposte le stanze sembrava perfetta per
ospitare una famiglia, i nostri ruoli erano fin troppo definiti, e non saremmo riuscite
a parlarci liberamente, questo lo sapevo anch’io.
“La nostra famiglia ti sembrava troppo rigida?” mi chiese la mamma.
“No, paragonata alle altre non mi sembrava rigida, forse perché papà era un
musicista.”
Mio padre rincasava a notte fonda, si sentiva sempre musica, quando venivano i
suoi amici si stava in piedi tutta la notte a fare baldoria e piccoli concerti a volume
basso; qualche volta è capitato che gli chiedessero di collaborare all’estero a
qualche spettacolo dal vivo e io andassi insieme a lui e alla mamma, giustificando
l’assenza a scuola con “collaborazione di mio padre a un evento dal vivo all’estero”.
Thailandia, Shanghai, Boston, New York e poi Parigi. Siamo andati anche in Corea
del Sud e a Taiwan. Erano tutti viaggi al risparmio, ma in ognuno c’era la musica,
qualche volta mi lasciavano salire sul camion, capitava di fare amicizia con i figli di
altri membri della band che mi erano vicini per età e anche di prendermi qualche
cotta: è stata un’infanzia divertente, come in una comunità hippy.
Mia madre disse:
“Allora ero io a essere rigida”.
“Forse un po’ sì. Ma se nessuno lo è, una famiglia non può funzionare. E poi, sai,
io credo...”
Inghiottii la saliva e le dissi ciò che non volevo dirle, ma che avevo sempre
pensato, sin da quand’ero bambina.
“...credo che a papà, se non ci fossimo state noi, probabilmente sarebbe capitato
qualcosa, sarebbe morto ancora prima.”
Mia madre mi guardò sbalordita. Non lo disse a parole, ma in quello sguardo si
scorgeva, chiaro, un “allora lo pensi anche tu?”.
Invece mi disse:
“Grazie”.
Chazawa dōri era sempre poco trafficata, e le auto procedevano a un ritmo del
tutto naturale, come pedoni. Dall’altro lato della strada si vedeva il bistrot dove
lavoravo, Les Liens. Vicino alla vecchia finestra del caffè Mikenekosha, al secondo
piano, brillava la luce soffusa di una lampada. Sotto una pioggia leggera, era come
se tutto volesse fondersi nella sera.
Mi domandavo se adesso mia madre sarebbe venuta a trovarmi ogni giorno dove
lavoravo all’ora di pranzo. Non mi sarei mai immaginata che avremmo vissuto in
quel modo. Avrei lasciato tutto com’era, non avrei preparato asciugamani apposta
per lei né le avrei comperato un bicchiere: avrei fatto in modo che si sentisse di
passaggio.
Avrebbe continuato a usare il futon per gli ospiti, come aveva fatto sempre
quando si fermava a dormire. Per mia madre, adesso, questo futon da quattro soldi
(con qualche sforzo, però, la trapunta l’avevo presa di piuma d’oca) era più
confortevole del costoso materasso di Tempur che aveva a casa sua.
Probabilmente anche stasera, quando rincaserò a pezzi per la stanchezza e
troverò mia madre, ne sarò tremendamente seccata. È naturale, va bene così. Farò
in modo di sentirmi seccata quanto voglio.
“E poi, sai, quando sono a casa viene fuori il fantasma di tuo padre.”
Disse la mamma all’improvviso e tutto d’un fiato, come se niente fosse. Risposi:
“Non è vero!”.
Continuò normalmente:
“Sì che è vero. Certe volte mi sveglio al mattino e lo vedo che dorme come al
solito sull’altro lato del letto, altre me lo ritrovo seduto sul divano”.
“Mamma, non è che la tristezza ti ha fatto perdere qualche rotella? Sbaglio o non
hai mai creduto a queste cose? Quando mi spaventavo guardando Gakkō no kaidan
e altri programmi del genere alla televisione tu non mi davi mai retta, dicevi che ti
sembravo una stupida.”
“Appunto, proprio perché sono io a dirlo dovresti crederci. Io stessa lo considero
impossibile. Stavo impazzendo sul serio, per questo sono venuta qui. Nessuno si
trasferisce volentieri nel misero appartamentino della propria figlia.”
Disse mia madre, senza un filo di emozione nella voce. Poi aggiunse:
“Ti va del tè? Me ne prepareresti un po’, Yoshie?”.
“Che tipo di tè vuoi?”
“Tè nero. Bere del tè a questa finestra è un po’ come essere in un caffè, non
trovi? Posso comperare un tavolino? Da queste parti non c’è un negozio che vende
mobili antichi restaurati? Ieri l’ho visto mentre passeggiavo lungo Inokashira dōri e
me ne sono innamorata. Sono stata a guardare per un sacco di tempo. Era
piacevole: c’era un giovanotto in maniche corte che con tutta la forza delle braccia
aggiustava i mobili, limando e passando la vernice. Un gran figo.”
“Ah, sì. Ho capito di quale negozio parli. Bello, vero? Economico, tra le altre
cose. E poi le anticaglie in questa casa stanno bene. Se lo comperi tu con i tuoi soldi
va bene. Lo potremmo usare anche per mangiare. E potresti tenermi d’occhio
mentre lavoro... Ma guarda cosa mi fai dire, comunque... Preparo del tè intanto.”
Le dissi queste cose facendo finta di niente, quando invece avrei voluto
domandarle dove mai avesse imparato a dire “un gran figo”. Come una persona che
è appena arrivata in un paese straniero e cerca di prendere dimestichezza con la
lingua, così mia madre stava provando a sentirsi a suo agio in questo quartiere
pieno di giovani.
“Mamma, dove hai messo il darjeeling che hai portato da casa?”
“In frigo.”
“Ok.”
Mentre aprivo il frigo pensai: “Ma che razza di conversazione è? Non siamo più a
Meguro!”. Non sono proprio riuscita a rendermi indipendente.
Ma andava bene così, in fondo. Adesso è adesso, qui è qui. Oggi non dura che per
oggi, pensai.
Quella avrebbe potuto essere l’ultima volta che vivevamo insieme, ma avrebbe
anche potuto non esserlo. E magari anche mia madre... Al solo pensiero sentii una
stretta allo stomaco. A giudicare dal suo aspetto, dentro di sé doveva essere ormai
agli sgoccioli, e avrebbe potuto sparire da un momento all’altro, come aveva fatto
papà. E se così fosse stato, mi sarei ritrovata sola un’altra volta, in un istante,
senza poter mai più vivere insieme a lei.
Piuttosto che farsi venire un esaurimento nervoso e magari morire perché è
convinta di vedere il fantasma di mio padre, oppure, ammesso e non concesso che il
fantasma esista, sapendo che ci vive insieme, è decisamente meglio che abiti qui,
vicino a me.
Seduta su un cuscino vicino alla finestra, mentre si stringeva le ginocchia con le
braccia, mia madre aveva l’aria di una persona che non può essere lasciata sola.
Anche per me quello era un quartiere nuovo. Trascorrere delle ore
apparentemente piacevoli insieme a mia madre era un po’ come ricominciare a
vivere.
Andai a sedermi lì con lei, portando il tè sul vassoio.
Poi, con un “Senti...” la invitai a parlare.
“Che c’è?”
Aveva risposto con un’espressione di sorpresa sul viso.
“Parlami del fantasma di papà. M’interessa.”
“Quello che ti ho detto poco fa è tutto. In casa, qualche volta vedo tuo padre,
normalmente. E non capisco più niente. Lui non parla e non mi guarda negli occhi
più di tanto, semplicemente se ne va gironzolando a destra e a sinistra. Come
quando era vivo. Come sempre, quasi che tutti e due fossimo aria. È così normale
che finisco per non capire più niente.”
Il tono con cui parlava era talmente normale che anch’io finii per pensare
semplicemente “Ah, sì? Ma pensa un po’...”.
Continuai:
“Però scusa, se fosse davvero così allora in questo momento papà potrebbe
vagare per casa tutto triste perché tu non ci sei. Non è sbagliato lasciarlo da solo?
Mettiamo che non riesca a raggiungere il nirvana, non è un peccato che non ci sia
nessuno lì per lui?”.
La mamma abbassò lo sguardo e scoppiò a ridere, come se non potesse
trattenersi. Poi disse:
“Vuoi dire che se non c’è nessuno potrebbe suicidarsi? Potrebbe venire ucciso?”.
Non ha tutti i torti, pensai. Ormai non c’era più niente di cui aver paura.
Mia madre riprese:
“Yocchan, perché dovrei preoccuparmi se tuo padre è triste dopo che si è ucciso
insieme a un’altra donna? E poi credo che non ci sia morte meno indicata di quella
per raggiungere il nirvana. In ogni caso non lo raggiungerà, che lo si lasci stare o
no”.
“In effetti... Allora ascolta, perché non celebriamo una cerimonia di purificazione,
per aiutarlo a raggiungere il nirvana?”
“Un giorno o l’altro lo farò. Per adesso ce l’ho ancora con lui. Non me ne intendo
di queste cose, però penso che siano inutili se non si è ancora perdonato qualcuno
con tutto il cuore, no?”
Io non ce l’avevo con lui, perché era mio padre. Mi era semplicemente dispiaciuto
che avesse finito per percorrere quella strada così triste, simile alla notte più
scura.
A me, che ormai non ero tanto spesso a casa, e a mia madre, che non amava più
mio padre come prima, mancava la capacità di riportarlo da noi. I bambini piccoli
riescono a tenere insieme le famiglie come se fossero colla. Ma io ormai ero
grande. Non possedevo la forza necessaria a contrastare l’attrazione per una
donna appassionata e sensuale.
Ciononostante, per me era una grande sofferenza non poter più incontrare mio
padre. Negli ultimi tempi ci eravamo visti poco, però quando succedeva lui riusciva
sempre a farmi sentire quanto mi voleva bene: il nostro rapporto era fatto così.
Ma la sua relazione con mia madre era quella di un uomo con una donna, quindi
era naturale che per lei le cose non fossero così facili. Facevamo parte della stessa
famiglia, eppure le nostre posizioni erano nettamente diverse, e su quel punto non
saremmo mai riuscite a venirci incontro. Mio padre era come un ologramma che
emanava due immagini diverse di sé, e da quando era morto (e, stando a quanto
diceva la mamma, era diventato un fantasma) questa differenza si era fatta ancora
più evidente.
Soltanto quando ero bambina uscivamo in tre mentre, una volta cresciuta, mi
capitava di andare in giro con l’uno o con l’altra, ma le occasioni in cui eravamo
tutti insieme si limitavano agli incontri al termine dei concerti.
Dopo avere scoperto, più d’una volta, qualche scappatella – cose di poco conto,
che probabilmente non erano arrivate neanche a un rapporto fisico –, mia madre
aveva deciso di non prestare troppa attenzione né all’attività musicale né alle
relazioni di mio padre, e ce ne andavamo via subito dalla live house, tornavamo a
casa e cenavamo noi due sole, senza partecipare ai festeggiamenti.
Forse se avesse bevuto alcolici sarebbe morto prima, chissà. O magari sarebbe
riuscito a tenere di più le cose sotto controllo? Me lo domando sempre, ma non ho
risposte. Mio padre era una persona malinconica, che non beveva quasi per niente.
Però gli piacevano le situazioni in cui si beveva, e per questo, quando c’era qualcosa
da festeggiare, succedeva sovente che rientrasse all’alba. Per il resto del mondo
forse lui era semplicemente il tastierista mingherlino di una band, sostituibile in
qualsiasi momento, ma per me era l’unico papà che avessi.
La sua era una normale band di cinque elementi, ma poiché volevano suonare
tanti generi diversi, chiamavano numerosi collaboratori. Kalimba, marimba,
strumentisti che provenivano dal mondo del jazz, quena. Anche qualche ballerino.
Così facendo, i membri aumentavano e i costi per le esibizioni si dividevano tra più
persone. Mio padre amava sinceramente la musica, tanto da essere disposto a fare
anche altri lavori senza viverlo come un sacrificio. Gli era capitato persino di
sentirsi dire che il suo atteggiamento serioso aveva nuociuto a una performance,
ma lui era il tipo che non lasciava niente al caso quando si trattava di musica. Anche
quest’aspetto mi piaceva.
Sentirlo parlare con mia madre che aveva aspettato fino a notte fonda che
rincasasse dopo aver suonato, anche da grande, mi dava lo stesso senso di
sicurezza che provavo da bambina.
Quando lui entrava, mia madre spuntava in salotto dalla camera da letto e
sottovoce gli raccontava cosa avevamo mangiato al ritorno dal concerto, gli
chiedeva com’era andata e chi era andato a sentirlo. Mio padre le rispondeva e
finalmente sembrava tranquillo.
“Al termine di una lunga giornata, parlare un po’ con la mamma di qualche
sciocchezza”: era questa, per mio padre, la cosa più importante di tutta la giornata.
Non ho dubbi, me l’aveva detto proprio lui. Non faceva che dire che quella era la
parte migliore del loro matrimonio. Non ci crederai, ma al mondo non sono poi
molte le persone con cui si può parlare di sciocchezze, mi diceva.
Ed è proprio questo che mio padre non è riuscito a fare quando è stato ucciso, e
forse gli sarà mancato. E se se ne andasse in giro con l’intenzione di lasciarle detto
qualcosa? Chissà se queste cose succedono. In fondo lui quel giorno non sapeva che
sarebbe morto. Be’, sicuramente quelli che lo sentono sono una minoranza, ma
certo non si aspettava che la persona accanto a sé l’avrebbe ucciso. Mi domando se
avesse paura, se non pensasse, da qualche parte dentro di sé, che si sarebbe
salvato.
Non che credessi alla storia del fantasma, ma il suo dolore doveva essere stato
insostenibile.
Non sono che una bambina, mi piace quando i ragionamenti seguono una logica
perfetta, e quindi non sono in grado di capire fino in fondo, ma so che non sempre le
persone restano uguali sino alla fine. Non sempre riescono a mantenere ideali
positivi e impeccabili. Quando questi vengono meno si sentono a pezzi, fingendosi
razionali per nascondere il malessere, e a malapena riescono a sopravvivere.
Il rapporto di mio padre con la musica, il fatto che dicesse di stare bene con me e
che il legame con mia madre fosse stabile al punto da non desiderare nulla di più,
oppure che le aspettative della moglie nei suoi confronti, sempre vaghe e offuscate,
lo facessero sentire sotto pressione, come legato con un filo di seta, ecco, tutte
queste cose, dentro di lui, dovevano essere in qualche modo legate a quella morte.
La mamma è una persona molto forte, per questo faceva fatica a starle vicino.
Il solo a soffrire, il solo a capire cosa provava, era mio padre. Io non ci sarei mai
riuscita. E forse lui, della sofferenza, non ne poteva più.
Com’era prevedibile, in seguito alla morte di mio padre, la mamma non riusciva a
bere né a mangiare nulla. Se ne stava sempre distesa, e quando si alzava
mormorava in continuazione “non è vero, non può essere vero”, anche se sembrava
che stesse zitta.
Non riuscendo a crederci, non gli aveva nemmeno preparato l’altarino ma aveva
semplicemente messo una fotografia nella stanza in cui mio padre teneva il
pianoforte verticale, le casse di cui andava tanto orgoglioso e gli amplificatori
valvolari. Il fatto che non lasciasse morire i fiori dimostrava che non era così fuori
dalla realtà, ma comunque mia madre non riusciva a credere che stesse succedendo
per davvero.
Diceva sempre di sentire che sarebbe anche potuto tornare a casa.
Per me i suoi resti, il funerale e tutti gli impegni che riguardavano la sepoltura,
insieme con la fotografia che avevo visto della donna che era morta con lui, avevano
assunto un carattere di realtà nuovo e inequivocabile. Per questo non provavo la
stessa sensazione di incredulità di mia madre.
Eppure, sia nel sonno che da sveglia non facevo altro che ripetermi: “Come è
potuta succedere una cosa del genere?” o “Ma perché non ci ha detto niente?”. Ero
stata fredda nei confronti di mio padre? Forse lui avrebbe voluto dirmi qualcosa e
io, senza accorgermene, ero andata oltre, mi ero addormentata? Ci pensavo
continuamente, poi me ne rammaricavo, poi ci ripensavo, infine dimenticavo, e il
ciclo ricominciava.
In seguito alla scomparsa di mio padre, per qualche tempo non ho avuto appetito.
Una domenica pomeriggio, io e la mamma ce ne stavamo chiuse ognuna nella sua
stanza, perché tutto ci sembrava opprimente. Avevo lo stomaco vuoto, ma nessuna
voglia di mangiare.
Se pure mi fossi messa a cucinare qualcosa, persino il kayu e le zuppe mi
sarebbero sembrati pesanti. Avevo comperato delle verdure perché volevo farle in
insalata, ma poi quel verde mi era parso abbagliante, e la voglia di mangiarle era
passata.
Mentre strofinavo la schiena calda di mia madre, che nel letto piangeva e tirava
su col naso, le dissi:
“Senti, mamma. Non c’è qualcosa che ti andrebbe di mangiare? Proviamo a bere
o a mangiare, anche solo un po’. Altrimenti ci indeboliremo ancora di più”.
Mia madre rispose all’istante:
“Una granita”.
Era un’estate caldissima. Bastava uscire e sentire l’asfalto bollente per avere
l’impressione di cuocere al vapore, neanche di sera si respirava, visto che non
rinfrescava affatto.
Senza rendermene conto, mi ritrovai a pensare che proprio a causa di quel caldo
avevano dovuto raffreddare il cadavere di mio padre.
Guardai l’azzurro intenso del cielo oltre la finestra e mi fu subito tutto chiaro. Lui
non c’era più, era una realtà.
Feci alzare mia madre e mi infilai in un taxi insieme a lei, ancora praticamente in
pigiama. Ci dirigemmo a Shimokitazawa. Avevo in mente il ristorante Les Liens, in
cui ero stata tante volte con i miei amici, e che serviva la miglior granita che avessi
mai assaggiato.
Non appena aprii la porta del locale, il vento fresco del condizionatore si mescolò
al calore, e una sensazione indefinita si impossessò del mio corpo. Senza esitare
andammo a sederci nell’angolo più interno, vicino alla finestra, e insieme tirammo
un sospiro.
La luce estiva penetrava attraverso il vetro e scottava sul braccio destro. Mia
madre guardava fuori in silenzio. Ovunque andassimo, avevamo l’aspetto di due
persone infelici, miserabili, abbandonate.
La cuoca – che adesso chiamo Michiyo, ma di cui allora non conoscevo il nome –
arrivò sorridente, col suo portamento aggraziato e impeccabile, e ci disse:
“Avete tutto il tempo che desiderate”.
Ordinammo granita al mango, alla pesca bianca e al ribes.
I pezzetti di ghiaccio erano minuscoli, la frutta ottima. Quella dolcezza mi entrò
nel cuore e nello stomaco, sembrava cibo del paradiso. Mi resi conto che la mia
mente si stava prendendo una pausa, che stava assaporando una ventata di
freschezza, dopo tutto quel tempo passato a farsi domande e a darsi risposte, a
provare rimorso, in un moto vorticoso e continuo, senza posa.
Anche il vento caldo che di tanto in tanto entrava dalla porta spalancata era
gradevole.
Mia madre mormorò:
“Ho come la sensazione che mi si sia aperto lo stomaco”.
Gli interni erano rimasti quelli originali del vecchio edificio, per cui sembrava
proprio di trovarsi in un bistrot di una stradina di Parigi; era un po’ come se
stessimo viaggiando, e la cosa ci piaceva. Per molto tempo non avevamo mandato
giù quasi nulla che non fosse caffellatte, o biscotti, o una zuppa già pronta.
Ordinammo una grande insalata con cereali e la dividemmo. Era guarnita con pane
francese abbrustolito, tantissimo prosciutto crudo e cereali. C’erano anche piccole
pannocchie fresche, pomodorini, gombo e cereali in quantità, mescolati a una
lattuga freschissima.
Con aria assente, come parlando a se stessa, mia madre disse:
“È incredibile, sento che è buono. Per la prima volta dopo tanto tempo gusto i
sapori. Il corpo continua a vivere anche se l’anima è morta”.
Dopo la granita divorammo l’insalata, poi bevemmo del caffè e finalmente ci
rasserenammo. Pensai che erano mesi che non provavamo momenti sereni.
Guardavo distrattamente fuori dalla finestra. Il fluire del tempo nel ristorante era
naturale, era un tempo solo mio, che nessuno poteva togliermi.
Mi ero dimenticata persino dell’esistenza di un tempo così.
Non avevo fatto altro che pensare che mancasse qualcuno, che forse avrei potuto
incontrarlo se fossi andata da qualche parte, che solo così avrei potuto sentirmi
meglio.
Non ci siamo messe a piangere lì sul momento, ma la sensazione di piacere
dovuta al nutrimento improvviso di tutte le cellule del nostro corpo fu limpida e
fresca, come quando si aprono i finestrini di un’auto in corsa e si lasciano volar via
le lacrime. Come l’attimo in cui ci si mette a sedere, una volta arrivati a
destinazione, dopo un viaggio lungo e stancante.
Michiyo non sapeva che cosa ci fosse capitato, né provava a consolarci,
semplicemente ci stava porgendo in un piatto tutto quello che aveva, con onestà.
Nel ristorante era questa l’aria che si respirava. In quel luogo si avvertiva la
presenza di qualcosa di più reale di qualsiasi altro posto.
Da allora, ogni volta che io e la mamma ci sentivamo più fragili, andavamo lì.
Dividevamo un’insalata o ci rinfrescavamo con una granita, e alla fine riuscimmo a
superare in qualche modo quell’estate infernale. Entrambe avevamo perso peso e
quasi faticavamo a stare in piedi, ma quando eravamo lì gustavamo quello che il
menu offriva, come una madre e una figlia felici.
I momenti in cui fissavo il pavimento o le finestre del locale, nei pomeriggi estivi o
nei cieli rosati del tramonto, me li porto ancora adesso nel cuore, come qualcosa di
irripetibile e meraviglioso.
Finì l’estate, finì la stagione delle granite, arrivò l’autunno e poi anche l’inverno, e
noi continuavamo a visitare Les Liens.
Quando i fiori del ciliegio all’angolo dell’edificio che ospita il ristorante, lo
Tsuyuzakikan, sbocciarono, mamma e io avevamo ormai ripreso a mangiare
normalmente. Malgrado ciò, se capitava che non avessimo appetito, o che non
riuscissimo a stare in casa, prendevamo un taxi o un auto-bus facendoci forza a
vicenda e ripetendo come una parola d’ordine:
“Quell’insalata ai cereali però potremmo riuscire a mangiarla. Andiamo!”.
Stando così le cose, non ebbi il minimo dubbio quando decisi di iniziare a lavorare
presso Les Liens, una volta andata a vivere da sola; volevo che la mia vita ruotasse
intorno a quel lavoro, e fu del tutto naturale prendere in affitto una camera proprio
lì vicino.
Sapevo già che la paga sarebbe stata bassa, e che avrei avuto molto da fare,
essendo Shimokitazawa un quartiere turistico.
Ma avrei forse trovato una distrazione migliore di quella? Sì, per me la cosa più
importante era distrarmi.
L’eccitazione di non poter immaginare chi entrerà. Quella di muovere il corpo e la
mente all’unisono. La tensione di sapere che il ristorante è un essere vivente, un
organismo che cambia a seconda dei miei comportamenti. Per me era tutto
perfetto. Ero consapevole del significato che quell’apprendistato avrebbe avuto per
il mio futuro.
Avrei smesso di pensare cose come “Siccome sono un po’ stanca potrei anche non
dare l’acqua ai fiori per oggi”, o “La pasta dei bigné non mi è venuta molto bene, ma
si può usare lo stesso”.
Avevo cominciato a capire che se non poniamo rimedio ai nostri piccoli errori,
presto questi si ritorcono contro di noi. Il cibo è legato alla sfera degli istinti umani,
e per questo tutto viene fuori in modo molto più immediato. Anche se all’inizio ci si
tiene qualcosa dentro, a un certo punto affiorerà in superficie in una forma diversa.
La sola cosa che si possa fare è agire con cura, seriamente e con discrezione,
lasciando perdere l’individualità e i pensieri troppo complicati.
A volte penso che se mio padre avesse apprezzato di più la buona tavola, allora
avrebbe avuto qualche motivo di divertimento in più, e questo magari lo avrebbe
aiutato a restare al suo posto nel mondo.
Il cibo non lo interessava un granché, ma quando ero io a preparare qualcosa,
mio padre mangiava con gusto. Tutto, fino all’ultima briciola, al punto da far
ingelosire la mamma.
Un giorno verrò in un ristorante gestito da te, mangerò un menu completo da solo
e farò in modo di bere anche il vino, diceva. Devo vivere sino ad allora, diceva. Ma
poi...
Qualche anno fa in cucina ero meno brava di adesso, e questo mi dispiace.
Per mio padre, la mia cucina sarà sempre quella, purtroppo.
D’altra parte, però, sento il desiderio puro e semplice di preparare dei piatti che
possano piacere anche a persone che, come mio padre, mangino poco. Piatti che
facciano tornare la voglia di vivere per il solo fatto di essere serviti in quel
ristorante, e che facciano pensare che mangiare non è poi così male.
Anni fa, mentre mangiava un ōmuraisu preparato da me, mio padre mi disse:
“Finora avevo sempre mangiato tanto per mangiare, senza un interesse
particolare. Quando però tua figlia cresce, e ti prepara cose così, allora è diverso.
Mangiare, in fondo, non è poi così male”.
Una sera, qualche tempo dopo, Aratani si presentò al ristorante, l’aria un po’
imbarazzata.
Non ci eravamo nemmeno scambiati il numero di cellulare.
Quel giorno c’era un gran da fare, ero in un bagno di sudore, e quando lo vidi, per
un istante, mi vergognai di essere ridotta così male. Ma soprattutto provai una
profonda tenerezza. Potrei definire soltanto “serenità” quella sensazione che
proviamo quando qualcuno arriva così, in modo del tutto naturale; è una sensazione
che si prova solo quando si è innamorati, quando si esclude che possa accadere
qualcosa di brutto.
Come al solito, Aratani prese posto al bancone, si tolse gli auricolari dell’iPod,
ordinò un confit d’oca e un bicchiere di vino bianco, e rimase lì seduto ad aspettare.
Pensai di nuovo che non lo conoscevo un granché. Non sapevo cos’avesse fatto
sino ad allora, cos’avrebbe fatto in futuro, non sapevo niente. Tornai bruscamente
alla realtà: ero sul posto di lavoro. È vero, a me non piacciono quei ristoranti in cui i
dipendenti si mettono a parlare fitto, al bancone, solo con i clienti abituali. Anche se
ce ne sono, è importante far sentire tutti i clienti a proprio agio. Dissi a me stessa
che non era il caso di stringere amicizia con Aratani, e mi sforzai di comportarmi
normalmente. Michiyo, che aveva capito tutto, mi lanciava sorrisetti ogni volta che
andavo in cucina a prendere un piatto.
Alla fine, quando gli portai il caffè, con fare disinvolto Aratani mi disse:
“Ti va di fare la strada insieme? Ti accompagno a casa”.
“Mi va, ma forse non lo sai... casa mia è a un minuto da qui. Non devo nemmeno
arrivare alla stazione.”
Indicai la finestra. Si vedeva il mio appartamento con le luci accese, segno che
mia madre era già rientrata. Zero atmosfera.
Aratani disse:
“Allora beviamo una cosa insieme prima di andare a dormire?”.
“Puoi aspettare solo mezz’ora? Devo riordinare.”
“Certo. Facciamo così: ti aspetto in quella specie di enoteca sulla strada.”
“Ok.”
Avevamo l’intimità di due persone che si frequentano da anni, ma non era così. In
cuor mio giurai che, comunque si fossero messe le cose con Aratani, non avrei mai
usato mio padre come esca per convincerlo a passare più tempo insieme a me.
Anche se era stato mio padre a portarmi quell’affetto, da quel momento in poi
avrei fatto in modo di tenere le due cose separate.
Quando Michiyo, ancora sorridente, mi accompagnò all’uscita, erano ormai
trascorsi quarantacinque minuti: per mettere tutto a posto c’era voluto più tempo
del previsto. Non sono il tipo che trascura le pulizie soltanto perché ha una specie
di appuntamento.
Aratani, appena appoggiato a uno sgabello, stava leggendo un libro, e intanto
mangiava formaggio e beveva vino rosso.
“Ti ho fatto aspettare, scusami” gli dissi.
“È normale, è un ristorante. E poi ti ho invitata senza preavviso.”
Non avevamo molto di cui parlare, a eccezione di mio padre, e per questo ci
mettemmo a chiacchierare di musica, delle band indipendenti che piacevano ad
Aratani, che in verità si avvicinavano molto più al club che al rock, di cui non sapevo
assolutamente nulla. La mia esperienza musicale si limitava ai rudimenti del jazz e
a qualche classico del rock inglese o americano. A casa mia c’era sempre così tanta
musica che non ascoltavo mai un pezzo con l’idea di memorizzarne il titolo.
“Ce l’hai un idolo, Yoshie?”
“Se proprio devo dirne uno... forse Paddy McAloon.”
Alla mia risposta non disse niente, e su di noi calò il silenzio.
Ma non ero il tipo da mettermi a spiegare tutto per filo e per segno. Sapevo bene
che qualche volta gli uomini fraintendevano i miei silenzi e finivano per
compiacersene, ma non potevo farci niente. Avevo appena finito il turno, ero stata
invitata all’improvviso: proprio non mi andava di preoccuparmi anche di questo. Già
per lavoro dovevo preoccuparmi in continuazione. Mi venne voglia di bere qualcosa
e lo proposi ad Aratani, che ordinò una caraffa di buon vino bianco.
Dissi:
“A Shimokita si beve bene. Le persone che passano qui fuori hanno facce
rilassate, si vede che si sentono a loro agio, anche se magari non abitano neanche
in zona. A Tōkyō non ce ne sono mica tanti di posti così”.
Aratani sorrise, e rispose:
“È vero, sono d’accordo. A guardarli in faccia sembra che siano tutti degli eterni
giovani. A Shinjuku la gente è un po’ più stanca. Non che sia necessariamente un
male...”.
Notai che era arrossito all’improvviso, e mi sembrò di guardare un gattino che si
stiracchia.
Ciò che aveva detto, e il modo in cui l’aveva detto, mise in movimento qualcosa
nel mio cuore.
Mi dissi che avevo appena scoperto un nuovo aspetto di Aratani, oltre al suo modo
di mangiare, a cui mi sarei potuta affezionare: dovevo solo riuscire a darmi tempo.
Fu solo dopo aver incontrato qualche altra volta Aratani che mi decisi a chiamare
Yamazaki.
Non si era mai presentata davvero l’occasione, e con il poco tempo che avevo a
disposizione avevo finito per rimandare e rimandare, ma poi mi decisi un giorno che
non dovevo lavorare, e gli telefonai.
Il motivo principale fu che Aratani lo nominò, dopo un po’ che non lo faceva, e mi
venne voglia di incontrarlo, visto che l’ultima volta risaliva al funerale. La band di
cui mio padre era leader, alla fine, si era sciolta, e non c’era più nessun evento live.
E così, da un momento all’altro, non ero più riuscita a incontrare Yamazaki, che era
sempre stato presente per qualche motivo, e adesso mi mancava.
Credo che fosse la persona a cui mio padre si sentiva più legato. Nonostante
conoscesse chiunque nell’ambiente musicale, forse solo con Yamazaki riusciva a
essere veramente se stesso.
Yamazaki era molto più giovane di lui, ma aveva un aspetto decisamente vecchio.
Direi che somigliava al tenente Colombo. Quand’ero bambina, io e la mamma lo
chiamavamo proprio così. Ogni tanto portava un trench identico a quello del vero
Colombo, e allora noi ci guardavamo sghignazzando. Fisicamente era snello e alto.
Aveva gli occhi limpidi, dolci come quelli di un cucciolo, dello stesso castano chiaro
dei capelli ondulati, riccioli morbidi e folti, e sul palcoscenico si presentava sempre
con i vestiti di tutti i giorni. Mio padre diceva che lui aveva le sue fissazioni, e non
avrebbe mai indossato abiti di colori o modelli che non gli piacevano. Per questo,
forse, ci sembrava che fosse vestito sempre allo stesso modo.
Inoltre aveva una moglie di straordinaria bellezza. Ogni volta che arrivava a un
concerto, sia i membri della band sia il pubblico s’infiammavano.
La mamma diceva sempre: “Il mio charme è ben poca cosa, al confronto”. E io
pensavo: “I confronti è meglio lasciarli stare, è tutto tempo sprecato”. Era bella,
almeno quanto Ishida Ayumi 4 o Asaoka Ruriko,5 e poi era magra, sicura e disinvolta
nel modo di muoversi. Si diceva che in passato avesse fatto la modella. E si diceva
pure che a Yamazaki fosse bastato un solo sguardo per innamorarsene, e che
l’avesse sposata dopo un lunghissimo corteggiamento.
Quando lo vidi arrivare nel vecchio kissaten “3.4”, quello che si trova dietro al
Tōkyū Hands di Shibuya, mi ricordai dei frequenti appuntamenti con mio padre, ai
tempi del liceo, e sentii il cuore in gola.
Con la differenza d’età che passava tra di noi non è che ci fossero poi tanti
argomenti di conversazione, eppure era venuto apposta fin lì per incontrarmi, il che
doveva pesargli un po’. Malgrado ciò fui contenta di vederlo, e mi dissi che avevo
fatto bene a chiamarlo.
Ma così non va bene, pensai. Qualsiasi cosa faccia o chiunque veda, così non va
bene. Sto vivendo all’ombra di mio padre, come uno che è appena stato lasciato.
Sto cercando mio padre, lui è sempre con me. Se non sto attenta, finirò per andare
avanti in questo modo tutta la vita, davvero. Ma come ho fatto a ridurmi così? Ci
sarà qualcuno in grado di dirmi se guarirò mai?
Ma non era il momento di pensarci: ormai l’avevo chiamato, e dovevo fargli quelle
domande, nonostante la tensione.
Yamazaki mandò giù in un sorso il caffè che aveva ordinato, molto denso, e mi
chiese:
“Che c’è, Yocchan? Di cosa volevi parlarmi?”.
Io stavo bevendo un ginger tea pieno di zenzero fresco grattugiato. L’ambiente
odorava del legno massiccio delle vecchie sedie consumate e dei tavoli, di polvere
secca, di libri antichi. In una sfera piena d’acqua nuotavano dei pesciolini rossi. Era
un vero kissaten dei tempi di mio padre e di Yamazaki. Non era proprio un caffè.
Posti come quello mi riportavano all’infanzia, mi erano cari, mi facevano stare
bene.
“Si tratta della donna che è morta insieme a mio padre. Se ne sai qualcosa, vorrei
che me ne parlassi. Non dirmi che c’è di mezzo un patto tra lui e te. Vorrei che mi
dicessi ciò che puoi.”
Notai le pieghe sulla sua giacca, e la pelle rilassata dietro al collo: era da un po’
che non m’incontravo con un uomo di mezza età, e fui presa da un moto di nostalgia.
Avrei voluto trattenere quella sensazione nel cuore.
Quand’ero bambina, forse perché avevano entrambi molto tempo a disposizione,
mio padre e Yamazaki mangiavano spesso a casa nostra. Veniva anche sua moglie,
bella e taciturna, e tutti gli adulti cenavano insieme. A me, che ero figlia unica, dava
una grande felicità potermi addormentare ascoltando quelle voci allegre. Rividi
tutto chiaramente, con malinconia.
Yamazaki disse:
“Mi metti in difficoltà. In effetti, Imo mi ha fatto promettere di non dirvi nulla,
perché non voleva che vi preoccupaste”.
“Direi che più di così non possiamo preoccuparci. E poi è tutto finito, ormai.”
Mormorò:
“E allora perché non lasci tutto com’è? In fondo la vita di ogni giorno ha ripreso a
girare. Non credi che sia arrivato il momento di lasciare Imo tranquillo, ciascuno
nel suo cuore?”.
Assunse un’espressione che non gli avevo mai visto prima, e capii.
Capii che la persona di fronte a me aveva perduto sia la band che aveva amato
per tanti anni sia un caro amico.
Risposi:
“Ha ripreso a girare, e per questo mi sembra di essere stata abbandonata. Mia
madre è venuta a stare da me, nella casa di Meguro non c’è più nessuno. Mi dico
che devo fare qualcosa, ma puntualmente vado in confusione. E mi dà ansia anche il
fatto che a mia madre, invece, non capiti mai. Ma ogni volta che provo a riflettere
mi rendo conto di non sapere niente, e mi ritrovo a pensare e ripensare sempre alla
stessa cosa. E così mi è venuta voglia di incontrarti”.
“La posizione di tua madre è radicalmente diversa dalla tua, Yocchan. E pensate
a cose completamente diverse. È triste, mi dispiace.”
Solo il tenente Colombo poteva parlare così.
“Me lo avevano detto che tua madre se n’era andata di casa per venire a stare da
te. Il fatto che tu la lasci restare senza dirle niente non c’entra con la pietà filiale,
credo, no?”
“Già. Eppure mi rimane una strana sensazione, come se ci fosse ancora qualcosa
che potrei fare per lei.”
Lo avevo messo alle strette. Rifletté per un po’ in assoluto silenzio, poi disse:
“A dire la verità, ti capisco. Se avessi la tua età e mi trovassi nella stessa
situazione, forse direi le stesse cose. Anzi, mi meraviglierei se tu riuscissi a vivere
come se niente fosse. Per questo, al tuo posto, la penserei allo stesso modo.
Penserei che voglio fare qualcosa, che devo fare qualcosa. Ma il tuo papà non
ritornerà. Forse si può solo andare avanti con questa consapevolezza, con la
sensazione rabbiosa di non farcela più. Succede anche a me di singhiozzare nel
letto, al mattino, quando apro gli occhi e penso: ‘Eh? Ma non abbiamo ancora
provato per il concerto di questo mese? Devo telefonare a Imo’”.
I suoi occhi rotondi e lucidi erano fissi su di me. Imo era il diminutivo con cui
Yamazaki chiamava mio padre, e mi faceva male ogni volta che lo sentivo, era una
stretta al cuore, come se lui fosse lì accanto a me.
“Capisco cosa vuoi dire, Yamazaki. È quello che ho cercato di fare per tutto
questo tempo, e forse mi sono semplicemente stancata.”
Annuì.
“Cosa ti hanno detto di quella donna? Che era una figlia avuta in giovane età dal
marito di... ehm... della sorella minore di tuo padre?”
“No. Mi hanno detto che era una nipote dello zio.”
“Mah, comunque non è né l’una né l’altra cosa. In realtà si tratta di una bambina
che la sorella di tuo padre ha avuto quando era molto giovane, e da cui si era
separata. Tua nonna l’aveva data in adozione, ma a lei non l’aveva detto. Le aveva
detto che era morta, o forse che se ne sarebbe occupata lei, non lo so con
precisione. Fatto sta che tua zia non ne era a conoscenza. O magari sì, ma fingeva
di aver dimenticato, di non sapere.”
“Eh?”
Ma che diceva? Se le cose stavano così, allora il grado di parentela tra me e
quella donna era ben più stretto di quanto pensassi.
“Una volta data in adozione si ritrovò in un ambiente non molto buono, e così
andò via di casa non appena poté. Ma pare che anche in seguito la sua vita non sia
stata semplice.”
“Forse papà era preoccupato per lei. Ma non erano consanguinei? Voglio dire, si
tratta della nipote, no?”
“Da parte sua quello è stato un errore. Ma credo che si sia ritrovato a
frequentarla senza rendersene conto, all’inizio. Probabilmente l’avrà saputo solo
dopo aver raggiunto una certa intimità. Mah, quella donna era inquietante, se devo
essere sincero. Io l’ho vista una volta soltanto, come immagino che Aratani ti abbia
detto. Qualcosa di lei faceva venire i brividi, e per tutto il concerto non sono
riuscito a togliermela di testa. Aratani e io siamo i soli a ricordarci di lei, di quel
turbamento, come se ci fossimo trovati di fronte a un vero fantasma.
Alla fine del concerto scomparve, senza partecipare ai festeggiamenti, e non la
vidi più. Per questo non arrivai mai a pensare che potesse trattarsi proprio della
donna di cui tuo padre mi aveva parlato, e finché Aratani non me lo disse non me ne
resi conto.
Al di là di questo, però, avevo intuito che tuo padre si fosse cacciato in qualche
guaio, e ne avevamo anche parlato, ma pochissimo. Mi disse che aveva qualche
problema, si vedeva con una donna ma non era soltanto uno sfizio, e poi le aveva
anche prestato dei soldi. Ma aggiunse che era tutto a posto, che non aveva alcuna
intenzione di separarsi dalla sua famiglia. Non erano bugie.”
Alle sue parole m’investì di colpo una sensazione di sollievo misto a rimorso, ero
sconvolta. Mi sembrò di aver ricevuto una dichiarazione d’amore da un morto, e più
di prima ebbi l’impressione di trovarmi in una strada senza uscita.
“Forse tuo papà si è lasciato coinvolgere suo malgrado. Ho sempre avuto la
sensazione che in certe situazioni non sapesse proprio come venirne fuori. Per
quanto tu e tua madre foste solari, per quanto calore gli abbiate dato, era come se
non riuscisse a diventare un tutt’uno con voi. Che scemo, però. Si è fatto una
famiglia proprio perché desiderava scrollarsi tutto questo di dosso, e alla fine l’ha
buttata via. Io di figli non ne ho, quindi non posso capire fino in fondo, ma se ne
avessi una come te, Yocchan, credo proprio che vorrei continuare a vivere per
vederti crescere.”
Mentre parlava, Yamazaki teneva gli occhi fissi sulle unghie curate delle sue
grandi mani.
Risposi:
“Voglio credere che anche lui la pensasse così”.
Replicò all’istante:
“Sì, fai bene. Devi crederci, assolutamente. Io lo so con quanto amore parlava di
te. Non faceva altro che dire che eri anche troppo in gamba, per essere la figlia di
uno come lui. In questo senso il tuo era un papà normalissimo, come se ne vedono
ovunque. Non era affatto il tipo da ubriacarsi e uccidersi insieme a una donna. Di
persone del genere ne conosco un bel po’, quindi so quello che dico. Ma poi alla fine
quella gente lì non muore, e ad andarsene è proprio uno serio come Imo...”.
Per me questo era molto importante. Lo era perché a dirmelo non era una
persona qualunque, ma un amico di mio padre.
“Credo che abbia giocato col fuoco, e che abbia finito per scottarsi suo malgrado.
Era certo che non gli sarebbe successo niente. L’ho vista una volta soltanto, eppure
ho avuto la sensazione che quella donna sapesse come confondere le idee alla
gente. Più la si osservava e più non la si capiva. Visto che anche lei è morta, non
subirà nessun processo, ma penso proprio che se fosse sopravvissuta l’avrebbero
messa ai lavori forzati per chissà quanti anni, e io avrei testimoniato volentieri. Ma
anche così lui non sarebbe tornato. Ce l’ha fatta proprio grossa. Scusami se parlo
con tanta franchezza. Aver suonato nella stessa band è come aver fatto sesso
insieme tante volte.
Si condivide un linguaggio che sembra appartenere al corpo soltanto, parole
invisibili e mute. È per questo che da quando è successo mi sento come se qualcuno
si fosse preso la mia donna e me l’avesse portata via. Perché non si è confidato più
apertamente con me? Io ero tranquillo perché pensavo che se Imo fosse stato
davvero nei guai sarebbe sicuramente venuto a parlarmene, e quindi mi ripetevo
che andava tutto bene. Non sai quanto mi sia sentito in colpa per la mia
superficialità.”
In fondo ai suoi occhi brillò una lacrima.
Mi meravigliai sentendolo parlare di “fare sesso” con mio padre, ma non lo trovai
strano.
Io stessa provavo qualcosa di simile. Tre corpi attaccati l’uno all’altro, la
memoria fisica della convivenza in uno stesso luogo... i nostri respiri quando
incrociandoci cedevamo il passo all’altro per non scontrarci, le mani che si
sfioravano quando ci passavamo una tazza, l’odore degli abiti appesi, la sensazione
tattile della pelle delle scarpe quando capitava di calpestarle uscendo di casa, i
segnali della presenza di uno di noi: essere una famiglia vuol dire tutto questo. Lo
condividevamo e non ci dispiaceva affatto. Perché, allora, mio padre l’aveva buttato
via?
Quando ne parlavo, lo facevo volutamente con un tono leggero, a prescindere
dalla persona che mi trovavo di fronte. A volte era un amico, altre si trattava di
qualcuno che mi aveva contattato dopo aver saputo dell’incidente, altre ancora
erano i vicini di casa.
E naturalmente anche con Yamazaki era stato così. Avevo cercato di parlargli in
maniera razionale, cercando di non mostrarmi né troppo spensierata né troppo
angosciata. Se non facessi così verrebbe voglia di morire anche a me. A volte era
come se il fango che turbinava dentro di me, in profondità, affiorasse in superficie
solidificandosi, e sentivo davvero la pancia infiammarsi e farmi male, mentre il
respiro diventava affannoso. Se pure avessi detto tutto questo a qualcuno (con la
mamma queste cose ce le dicevamo spesso, comunque), una soluzione vera e
propria non ci sarebbe stata, per cui ci provavo esprimendomi con toni lievi, come
se volessi alleggerirmi un po’, distogliere per un momento lo sguardo.
Ma il fatto stesso che Yamazaki fosse lì, che potessi parlargli in modo così
straordinariamente semplice, la sensazione che qualcuno si trovasse in una
posizione tanto simile alla mia, qualcuno che aveva condiviso mio padre prima, e la
sua assenza poi, fece sì che tutto ciò che volutamente tenevo nascosto, nella
finzione di vivere una nuova vita, balzasse fuori all’improvviso.
Battei forte il pugno sul tavolo e scoppiai a piangere all’istante.
Piangevo, piangevo, e non riuscivo a smettere. Versai tutte le mie lacrime.
Yamazaki non mi strinse le spalle né mi accarezzò la testa. Restò semplicemente
al mio fianco, facendomi sentire la sua presenza fisica.
Come sono sciocca: non faccio altro che piangere davanti a uomini che mi
ricordano mio padre. È come se mi prostituissi, pensai. Era proprio come andare a
letto con tanti uomini diversi avendo, però, mio padre come fine ultimo. Ma ignorai
il ragionamento e continuai a piangere. Gli occhi gonfi, il naso che mi colava,
sollevai il viso e ritrovai Yamazaki. Era lì, come se niente fosse, con la sua
espressione gentile un po’ velata dalle lacrime, e aspettava.
Con la sua bella mano diede dei colpetti sul dorso della mia e disse:
“Era una brava persona. È triste per tutti e due che non ci sia più”.
Mi limitai ad annuire.
Mi faccio pena, pensai. Vivevo strisciando, non riuscivo proprio a rimettermi in
piedi. Non passava la notte, i rimpianti restavano lì dov’erano, c’erano cose che
volevo dirgli e non lo avrei più potuto fare. Erano trascorsi due anni, ma non mi ero
mossa d’un passo, e forse non ci sarei mai riuscita.
Ciononostante, la mattina successiva avrei impastato il pane, messo a bollire
l’acqua, tagliato le verdure per l’insalata e fatto le pulizie. Il mio corpo si sarebbe
mosso in maniera automatica, e con un sorriso avrei accolto i clienti. Solo questo mi
riusciva.
Così come mia madre era determinata a stare senza far niente, io non potevo
agire altrimenti.
Non ci rimaneva altro: continuare a vivere portando avanti ciascuna la propria
battaglia. Non potevamo lasciarci morire ma, se proprio dovevamo vivere, allora
era il caso di darci da fare. Il giorno successivo sarei andata al ristorante e
quell’ambiente, poco per volta, mi avrebbe consolato. Talvolta mi sembrava di non
poterne più, e la stanchezza mi procurava una sorta di blocco. Malgrado ciò, quella
cucina piccola ma perfetta, la postura rassicurante di Michiyo, i piatti che
nascevano dalle sue mani come per magia, e i sorrisi dei clienti quando li servivo,
erano coraggio che mi entrava dentro goccia a goccia, giorno dopo giorno. A
uccidere gli uomini sono altri uomini, ma anche la salvezza dipende dalla loro forza.
“Pare che quella donna avesse tentato il suicidio anche con altri uomini. Non
riesco a capire perché sia andato a invischiarsi proprio con una come lei, forse si è
trovato semplicemente al posto sbagliato nel momento sbagliato.”
“Quindi mio padre non è stato l’unico, eh? Me l’aspettavo.”
Proprio come nel mio sogno.
“È stato Imo a parlarmene. Disse che in passato aveva cercato di uccidersi
insieme a qualcuno, fallendo, e che da allora era entrata e uscita dagli ospedali
parecchie volte. Io gliel’avevo detto che avrebbe fatto bene a lasciarla perdere una
così... Ma tuo papà diceva di non preoccuparmi, che lui non si sarebbe mai
suicidato. Forse non era riuscito a tirarsene fuori.”
“Non avrei mai detto che mio padre fosse così incauto, così poco intelligente.”
Lo dissi con una punta di moralismo, che Yamazaki captò. La sua espressione,
quando gli venivano in mente le parole giuste, era proprio da tenente Colombo.
“No, nei rapporti tra uomini e donne l’intelligenza non c’entra.”
Restai a guardarlo stupita, con gli occhi ancora pieni di lacrime.
“Sì, forse è così. Però non capisco lo stesso.”
“Nemmeno io riesco a capire. Ma è così. La ragione non c’entra niente. Pare che
le avesse dato anche un bel po’ di soldi. Per il tipo di donna che era, doveva avere
un sacco di debiti. Tuo padre avrebbe preferito morire piuttosto che chiedere
denaro in prestito.”
Le sue parole mi rattristarono, ma le condividevo pienamente.
Quando mio padre è morto, sul suo conto non c’era quasi niente, ed era stato
disdetto persino il fondo che gli sarebbe dovuto servire per aprire uno studio tutto
suo.
Sei stato uno stupido, papà: cosa c’eravamo a fare, noi? Tornai a ripetermi nella
testa le stesse parole che mi ero già detta molte volte. Non ti bastava la luce? Non
potevi vivere soltanto del tepore della quotidianità? È possibile che ti sia
impantanato in quello squallore, cupo e sporco, che il tuo cuore se ne sia lasciato
contagiare a tal punto da mettere a repentaglio la vita?
Al momento di salutarci, Yamazaki disse:
“Imo non faceva che pensare a te, Yocchan, non dimenticarlo mai. In genere non
parlo così, ma... Sai, le cose non saranno andate perfettamente, ma non possiamo
neanche dire che fosse tutto sbagliato”.
Sentendo ciò, ebbi la sensazione che mio padre fosse lì vicino, tanto vicino da
potermi quasi rispondere. Fu come se avesse parlato prendendo in prestito la voce
di Yamazaki.
“Sì, è vero. Sto cercando di capire cosa sia successo razionalizzando tutto. Lo so
che mio padre mi voleva molto bene.”
“Ma certo. Al paese, mia madre, che va per i novanta, ogni anno a primavera si
mette a cuocere cavolacci e pepe di Sichuan. E ogni anno, con in bocca quel sapore
a me tanto caro, penso – e sicuramente anche lei – che potrebbe essere l’ultima
primavera che mangio lo tsukudani. Ma quella è la ragione. Una volta che avremo
raccolto un bel po’ di cavolaccio e di pepe del Sichuan, mia madre li farà cuocere
per ore e ore, e a quello che verrà dopo non penseremo. Basterà bollirli per bene,
non c’importerà di tutto il resto. Sarà buono come sempre e io, senza rattristarmi,
le dirò che il suo tsukudani è delizioso, che è il migliore di tutti, che sono felice di
averlo potuto assaggiare anche quest’anno. Le dirò che più ne mangio e più mi
viene voglia di mangiarne, e che non vi rinuncerei per niente al mondo. Forse anche
tu dovresti assaporare con più avidità questo genere di felicità, Yocchan. Imo ha
fatto una fine tremenda, e hai tutto il diritto di lamentarti, ma non è che stai
cominciando a spaventarti anche per tua madre? A prendere troppo sul serio
persino il tempo che trascorri con lei?”
Mi venne voglia di sciogliermi nella serenità delle sue parole.
Le avevo desiderate più di ogni altra cosa. Mi distesero nel corpo, mi addolcirono
il cuore.
Non riuscii a dire a mia madre che mi ero vista con Yamazaki. Quindi non le
parlai nemmeno del contenuto della nostra conversazione. A dire il vero, per un
attimo ero stata tentata dall’idea di dirglielo, ma quando quella sera la vidi, sdraiata
in mezzo ai cuscini che canticchiava, mentre leggeva tutti i manga che aveva
comprato da Village Vanguard (erano i volumetti tascabili di Marginal di Hagio
Moto,6 che lei adorava), mi mancò il coraggio, e alla fine rinunciai.
Se ne stava a pancia in su con i suoi manga, e a un certo punto, piangendo,
mormorò:
“Aah, sarebbe bello vivere in una grotta...”.
La guardai e mi commossi: non aveva mai fatto male a nessuno, eppure...
È così, eravamo proprio in una grotta alla fine del mondo, e potevamo vivere
tranquillamente, a modo nostro, anche se non riuscivamo a stare al passo con la
vita. Anche se eravamo soltanto due, e mio padre ci aveva abbandonate.
Per quanto mia madre e io fossimo platealmente indifferenti ai pettegolezzi, per
qualche tempo avevamo avuto la sensazione che tutti ci additassero quando
passeggiavamo per Jiyūgaoka. La famiglia di quello che si è suicidato con un’altra
donna. Così ci sembrava che ci chiamassero.
È per questo che non le dissi niente.
Ma lei era pur sempre mia madre, e infatti me lo domandò spontaneamente.
“Yocchan, è successo qualcosa? Non hai una bella cera. Oggi era il tuo giorno
libero, no? Che hai fatto? Sai cosa pensavo? La prossima volta che non hai da
lavorare potremmo andare da Isetan – è parecchio che non ci andiamo –, fare spese
e poi mangiare qualcosa lì. Ti compro dei vestiti invernali.”
“Va bene. Però non è che possiamo continuare a vivere così per sempre.”
Con un’espressione stupita, mia madre chiese:
“E perché?”.
“Ma scusa, sembriamo delle rifugiate.”
Rise.
“Mah, su questo hai ragione. Per caso sei tu la mamma? Cos’è tutta questa
serietà? Sicuramente tante cose cambieranno: potresti iniziare a lavorare in un
altro locale, o magari andare all’estero. Quando sarà il momento ne parleremo.
Non sarà né oggi né domani, è un discorso che faremo poi. Potresti anche sposarti,
a me non dispiacerebbe. A tua madre adesso resti soltanto tu, Yocchan, e se vivessi
vicino a te potrei occuparmi dei nipotini. Anzi, secondo me mi divertirei.”
“Non mi sembra di averti detto che voglio vivere vicino a te.”
“Be’, ma sicuramente avrai bisogno di una mano. Per una donna continuare a
lavorare è molto difficile. Molte, tra quelle che conosco, a un certo punto sono
crollate. Un aiuto sarà necessario. Per come sei fatta, penso proprio che non
lascerai il lavoro nemmeno quando ti sarai sposata e avrai avuto dei bambini.”
“Forse hai ragione. Voglio continuare a lavorare come aiutante di Michiyo, e mi
piacerebbe anche portare avanti l’attività dopo di lei: la stimo molto. In realtà non
c’è una grande differenza d’età tra noi, e forse non dovrò mai prendere il suo posto,
però sono sicura di voler continuare a collaborare con lei nel ristorante. Ho una
vera adorazione, credimi. Per la sua cucina e anche per lei.”
“Quando sul lavoro si incontra una persona così la si deve seguire a tutti i costi,
perché è davvero una cosa rara.”
“Se pure dovessi lavorare qualche anno, credo proprio che lo farei, pur di
aiutarla. Per continuare a stare in quel ristorante mi occuperei di qualsiasi cosa,
anche solo del servizio, o delle pulizie, o delle questioni amministrative. Questo, per
me, supera persino il desiderio di cucinare in prima persona.”
“Sono sicura che lo dici perché lo pensi davvero. In effetti l’insalata che ho
mangiato lì è davvero l’insalata della vita. Ero distrutta, avevo voglia di morire e
nessun posto dove andare, il cuore a pezzi, eppure quell’insalata non mi ha
respinto. Lì dentro sono riuscita a vedere la parte più tenera e piccola di me, quella
in cui pulsava ancora un po’ di vita.”
“Grazie, era il complimento più bello che potessi fare al ristorante.”
“Ormai nei fai proprio parte, se dici così. È arrivato il momento che anche io
cominci a fare qualcosa. Il solo passeggiare mi è venuto a noia. E ho fatto la
casalinga per troppo tempo.”
Ma cosa intendeva dire? Voleva forse mettersi a lavorare part-time da Ōzeki? O
magari in qualche caffè? In un bar, con il turno serale? O nel negozio di abiti di
seconda mano?
Avrei voluto chiederglielo, ma me lo sono tenuto per me.
Pensai che qualsiasi cosa si fosse inventata, avrebbe ricevuto un appoggio
incondizionato da me. Solo due anni prima mia madre era talmente annichilita che
non si sarebbe neanche sognata di dire che voleva fare qualcosa.
“Passando alle cose serie, Yocchan, ti sei messa con qualcuno?”
“Ma no, perché?”
“Intuito femminile.”
E ti pareva, pensai.
“C’è qualcuno con cui sono entrata un po’ in confidenza, niente di più. Però non
siamo ancora arrivati al dunque. E forse è troppo presto anche per me.”
“Disfunzione erettile?”
“No, è abbastanza diverso, sebbene per certi versi ci si avvicini. Ogni volta che
mi emoziono, che mi entusiasmo, ogni volta che sono lì lì per sentirmi felice, avverto
la presenza di un’altra me stessa, intenta a fissarmi con freddezza da qualche luogo
gelido, come le onde impetuose del Mar del Giappone in inverno. Ora come ora,
cose come scoprirsi a vicenda, raccontarsi, confidarsi, emozionarsi insieme a un
ragazzo della mia età mi appaiono soltanto come una specie di stupido gioco.”
“Ah, alla mia età sto provando la stessa sensazione, ma all’ennesima potenza.
Capisco esattamente come ti senti. Non è che io voglia pensare di essere l’unica ad
aver sofferto, né è mia intenzione guardare gli altri dall’alto in basso, però non
posso fare a meno di percepire come superficiale qualsiasi cosa mi venga detta, e
da chiunque.”
Dopo questa conversazione ci sentivamo un po’ giù di morale, e quindi decidemmo
di andare a bere qualcosa in un bar che si trovava lungo Chazawa dōri, a cinque
minuti di cammino da casa.
Era un locale tutt’altro che economico, per cui ci concedemmo soltanto un
cocktail preparato con la frutta fresca. Era dolce e buono che sembrava di sognare,
e mentre lo sorseggiavamo al bancone di legno tirato a lucido, sotto una luce
soffusa, sentimmo la forza risvegliarsi nella gola, e il peso che ci gravava sulle
spalle iniziò a ridursi.
Quando arrivò il momento di rientrare, guardai la figura di mia madre di spalle
mentre pagava, e provai una sensazione strana. Mi sembrò invecchiata, eppure
sempre uguale.
Fuori faceva piuttosto freddo. Ormai si sentiva il profumo dell’inverno che
arrivava leggero, mescolato al vento. Il soprabito leggero di mia madre era un
trench nero comprato a Chicago. Camminandole accanto, sentivo l’odore della pelle
invecchiata. Un odore conosciuto da qualche parte, l’odore tipico delle cose
antiche.
Il tempo scorre. L’ora è ora, e non vorrei arrendermi ai brutti sogni. Ma qualche
volta ci si deve arrendere, è fisiologico. Io non sono ancora completamente adulta,
non abbastanza da potermi arrendere e poi riuscire a vedere quanto di buono c’è
nel mondo che mi circonda.
Mia madre mi camminava accanto a piccoli passi, colpita dal vento, con
l’espressione di sempre.
Un po’ brilla, mi dissi che eravamo capitate lì all’improvviso mentre eravamo in
viaggio, che ce ne stavamo andando a zonzo, senza una destinazione, e che mai,
nella vita, mi sarei dimenticata di quella sera così bella a Chazawa dōri.
Dato che lavoro in un ristorante, la cosa più normale sarebbe che il mio fidanzato
– chiamiamolo così –, venendomi a prendere alla fine del turno, mi accompagnasse
fino a casa. Ma abitando così vicino, non aveva senso. Perciò ci fermavamo sempre
a bere qualcosa prima di rientrare.
E chiacchieravamo un po’. Più o meno fino all’ora dell’ultimo treno per Shinjuku.
Anche quella volta andò così. Io e Aratani decidemmo di bere due coppe di sakè e
di sgranocchiare qualcosa in un bar sotterraneo nei pressi della stazione.
Anche quel locale stava per chiudere, ma Aratani conosceva il proprietario, che ci
fece entrare volentieri per bere “soltanto un bicchierino”. Una volta dentro si
aveva l’impressione di essere tornati all’epoca Shōwa. Quasi nessuno, tra i clienti,
era giovane, e c’erano uomini e donne di mezza età un po’ alticci che mangiavano il
dolce. Posti come questo confermavano quanto Shimokitazawa fosse accogliente.
“Non ho mai visto una donna mangiare con tanto gusto del bakurai.”
“È naturale che apprezzi le cose buone: lavoro o no nella ristorazione?”
Il bakurai è una pietanza di colore arancione che si ottiene mescolando konowata
e ascidie, e in questo locale è una vera specialità, preparata artigianalmente. È così
gustosa col sakè che quando li provai insieme mi sembrò di risvegliarmi da un
sonno. I gestori si davano un gran da fare, e il luogo era così vivace che non
sembrava neanche di trovarsi sottoterra. Nonostante avessi i crampi alle gambe
dalla stanchezza, promisi a me stessa che non sarei mai stata da meno.
“Aratani, sai che mio padre mi appare in sogno?”
“È naturale.”
Apprezzai molto la prontezza con cui mi rispose.
“Non è molto bello. È come se volesse dire qualcosa, lasciarmi qualche parola...
E a quanto pare mia madre vede il suo fantasma, quando si trova nella nostra
vecchia casa. Riesci a crederci? Magari la sua anima non è ancora riuscita a
separarsi completamente dal corpo. In tal caso non saprei che fare, non riesco a
pensare ad altro.”
Con aria indifferente, Aratani rispose:
“Le live houses sono luoghi inquietanti, e fatti del genere si verificano spesso. I
componenti delle band musicali non sono sempre persone in grado di vendere dischi
e condurre una vita regolare, lunga e felice, questo lo sai. C’è chi muore di
overdose, chi per alcolismo, chi si trascura fino ad ammalarsi. Alcuni abbandonano
la musica per dedicarsi a qualcos’altro, alcuni soffrono moltissimo perché non sanno
cosa fare, ce n’è per tutti i gusti. E poi ci sono le groupies che si suicidano... Non
che succeda in continuazione, ma succede. A volte muoiono proprio sul
palcoscenico, altre volte il cantante le vede morire giù, in mezzo al pubblico. Capita
anche questo”.
“Ma... è spaventoso.”
“Se ci credo o no, non l’ho ancora deciso. Ma penso di capire quelli che durante i
concerti sentono la presenza di qualcuno che seguiva la loro band e che poi è
morto. Capisco quello che provano. E qualche volta mi sembra quasi di vederlo
anch’io. Può capitare persino che uno dei componenti di un gruppo muoia e lo si
sostituisca, ma quando si guarda verso la sua postazione si ha l’impressione di
continuare a vedere quello di prima. Può succedere, anche se si tratta soltanto di
un abbaglio. In ogni caso, che sia così o meno, faccio sempre eseguire un rituale di
purificazione. Tengo anche un altarino, uno discreto. Per chi gestisce un’attività è
fondamentale. A volte mi sembra di portare da solo tutto questo peso. Non parlo
degli spiriti, mi riferisco alla responsabilità di purificare un luogo in cui convivono
innumerevoli esseri umani, innumerevoli stati d’animo.”
“Capisco.”
Ascoltandolo, sentii il cuore farsi semplicemente più leggero. Quando qualcuno ce
li spiega nel modo giusto, anche i moti del proprio animo diventano comprensibili.
“Per questo capisco quello che dici, Yocchan. La cosa più importante è che i vivi
riescano a mettersi l’anima in pace. È ancor più importante delle esequie. Perciò
credo che dovresti visitare la tomba, oppure andare sul luogo del ritrovamento.”
“A Ibaraki? Laggiù? In quel posto così triste, così spaventoso?”
Mi aveva lasciata di stucco.
Io ormai ero convinta che nella vita non sarei mai più riuscita a visitare neanche
lo splendido acquario di Ōarai, dove in passato mi ero divertita così tante volte
quando ero andata con i miei genitori.
Mio padre amava gli acquari, quindi se dovevamo andare da qualche parte tutti
insieme, sceglieva immancabilmente una località in cui ce ne fosse uno.
Quel giorno tremendo alla stazione di Tōkyō tutti erano allegri, c’era chi si
metteva in viaggio e chi tornava, le persone s’incontravano con chi li stava
aspettando con il sorriso sulle labbra. Solo io e la mamma ci sentivamo avvolte
nelle tenebre più cupe. La luce estiva ci abbagliava, e avevamo l’impressione di
bruciare.
Mi facevano male le tempie a furia di pensare quanto sarebbe stato bello poter
tornare indietro ai giorni in cui, da quella stessa stazione, prendevamo l’autobus
che ci portava tutti e tre all’acquario di Ōarai. Stavo andando nello stesso luogo, ma
perché stavolta doveva essere tanto difficile?
Aratani disse:
“Qualsiasi cosa tu decida di fare, verrò con te. In questo periodo al locale la
situazione è tranquilla, quindi posso concedermi un po’ di vacanza”.
“Non serve. Ancora non sono sicura di poterlo fare. Però ci penso. Per la
purificazione come si deve fare?”
“Nel mio caso è una cosa molto formale, visto che mi rivolgo a un santuario della
città in cui sono nato, ma nel tuo caso credo che basterebbero dei fiori, niente di
più. Ci penserò su anch’io. Ma oltre alla riflessione anche l’aspetto rituale è
importante. Credo sia il modo migliore per convincersi, per mettere un punto
fermo. Io non lo faccio solo per i morti. Sicuramente anche lo staff e i componenti
della band si sentono più tranquilli, almeno a livello di percezione. Se non lo facessi,
tutto per loro resterebbe nebuloso, e non si risolverebbe mai niente.”
“Grazie. Io non me la sento ancora, però non voglio più fare brutti sogni, e questa
potrebbe essere una soluzione. Forse dovrei andare in analisi.”
“Qualsiasi decisione tu prenda, non avere fretta. Se cerchi di saltare le tappe, ti
ritroverai al punto di partenza.”
“Aratani, come hai imparato a parlare così? Sei ancora giovane, eppure...”
“Quando sin da bambini ci si occupa di un genere di musica che non vende
granché, è naturale entrare in contatto con la frustrazione e la malinconia. Si
incontra un numero infinito di persone, e infinite volte ci si separa. La nostra è una
live house piccola ma con una lunga tradizione alle spalle. Ci vengono a suonare
quelli che ancora non vendono, o che non vendono più, o che hanno venduto in
passato, e di tanto in tanto si esibiscono per noi. È un posto da cui passano tutti, a
un certo punto della loro carriera. Alcuni, come tuo padre, che hanno raggiunto una
certa stabilità, vengono regolarmente a suonare da noi, e sono quelli che mi fanno
stare più tranquillo. Io sono un tipo tradizionale, non faccio niente di speciale. Ma
ne ho viste tante di cose... troppe persino da raccontare.”
“È per questo che sei così maturo.”
“Ho assistito a situazioni talmente complicate che ho una voglia incredibile di
vedere le cose ben nette, definite. Proprio come sei tu, Yocchan.”
Risi.
“Sarebbe come dire che, dopo un po’ che si guarda una pozzanghera piena di
fango, la bellezza delle ninfee diventa accecante?”
Rise anche Aratani.
“Non ho detto proprio così, comunque... Ho ascoltato i tuoi cari Prefab Sprout.
Mi piacciono. Tuo padre e i suoi hanno preso da loro il nome per la band?”
“Non lo so, non gliel’ho mai chiesto, in verità. Ma una cosa è certa: a mio padre
piacevano, e a casa metteva sempre i loro dischi. Credo che la presenza massiccia
di voci femminili li abbia influenzati abbastanza. Ho molti loro cd che ormai sono
fuori catalogo, posso prestarteli quando vuoi.”
Sentii un tepore avvolgermi il cuore.
Tutt’intorno, l’abbraccio del quartiere. E l’atmosfera del locale.
Il tono della vita che scorre incessante in questo posto, sicuramente uguale a
com’era nell’epoca Shōwa. Le fondamenta, insostituibili pur nella loro semplicità,
che chi lavora qui ha costruito pazientemente, giorno dopo giorno, seguendo gli
insegnamenti del proprietario, e alle quali poi ha dato il colore, una mano dopo
l’altra, insieme ai clienti.
Anche il nostro tempo insieme aveva cominciato a crescere allo stesso modo.
Nasceva un sentimento senza fare rumore, senza che noi fossimo ancora andati a
letto insieme, proprio come due compagni di classe, come gli innamorati delle
telenovele coreane. Sembrava che il quartiere ci stesse insegnando l’importanza di
non avere fretta. Mentre ovunque, nel resto del Giappone, ci si sentiva dire
solamente: “Sbrigati!”. Lì, almeno, potevo prendermela calma, potevo disperarmi,
intristirmi, lasciarmi andare. Gli esseri umani hanno tutti i loro punti deboli, difetti
difficili da superare. E allora va bene così. In fondo, siamo tutti diversi.
In quel momento fu come se le pareti, i piatti, le rughe sui volti rossi dei clienti, mi
stessero dicendo parole che non ero più abituata a sentire.
Percepii l’invito di Aratani a non avere fretta come un riferimento alla nostra
relazione, e mi sentii sollevata, dal momento che io, di affrettarmi, proprio non
volevo saperne.
Sul vecchio bancone erano allineati piatti e bicchieri sporchi. Era una scena
tutt’altro che bella, eppure accompagnò come l’omaggio di un fiore la mia ritrovata
serenità.
Poco dopo venni a sapere che la mamma, da un giorno all’altro, aveva cominciato
a lavorare part-time.
Una sera ero uscita per una breve pausa e avevo deciso di prendere un tè in un
kissaten tradizionale che si trovava nei paraggi. Quando fui lì, trovai la mamma – un
grembiule alla giapponese addosso – che lavorava.
“Mamma? Che fai? Stai tenendo d’occhio il locale?”
Non avendo visto Eri, la proprietaria, pensai che la mamma le stesse facendo il
favore di sostituirla nel kissaten.
Mi rispose senza scomporsi:
“No no. Lavoro part-time dall’altro ieri. Tu rientri sempre tardi la sera. Anni fa
avevo imparato la cerimonia del tè così, come passatempo. Devo solo riprendere la
mano”.
“Non... lo sapevo.”
Ero stupefatta. Aveva compilato un curriculum, come si fa di solito? Si sarà
presentata a qualche colloquio?
“Allora potresti portarmi un tè allo yuzu e alle alghe konbu.”
Mi sedetti.
“Anche uno snack?”
Mi portò un piccolo vassoio con alcuni tipi di spuntini. Cinque o sei diversi dolci
molto graziosi erano sistemati uno accanto all’altro nei loro piatti.
“Ah, vada per i cracker di riso.”
Ero imbarazzata, mi sembrava di essere tornata bambina, quando giocavo a
“mamma e figlia”.
Lei invece restò impassibile, andò dietro al bancone e con fare sicuro si mise a
preparare il mio tè. In quel momento tornò Eri.
“Oh, Yocchan. Ho preso tua madre a lavorare part-time, hai visto?”
Il sorriso che mi rivolse fece sì che tutti quei pensieri smettessero di avere
importanza.
Eri si mise subito al lavoro, e nel locale prese a circolare un’aria tranquilla,
indifferente al mio stato d’animo. L’atmosfera, in questo posto, è così da decenni, si
arricchisce poco per volta, senza interruzione. I contenitori del tè sono sistemati
con ordine sugli scaffali, e la gente seduta ai tavoli fa quello che vuole, in tutta
calma. Il rumore dell’acqua che bolle e la musica delicata nella sala sono percepiti
dai clienti come un unico suono.
Ma sì. Ero più tranquilla all’idea che lavorasse, piuttosto che saperla a casa ad
annoiarsi, intenta magari a passarsi lo smalto sulle unghie tutta sola, ad andarsene
a zonzo o a leggere libri. Però sentii una leggera fitta di gelosia, perché, mentre
parlava a bassa voce con Eri dietro al bancone, mia madre sembrava stare bene,
sembrava quella di una volta.
Voleva forse dire che se si fosse ripresa non ne sarei stata felice? Questo
sospetto infantile mi fece trasalire. L’avevo imprigionata sul tatami della mia stanza
perché fosse mia madre, e mia soltanto. Lì, invece, la mamma era di tutti.
Quando mi portò il tè lo assaggiai tranquillamente. Era dolce, delizioso.
È così... il tempo passa, tornai a pensare.
Dovevo darmi da fare anch’io, mio padre era morto, e non potevo continuare a
fuggire. Era il momento di smetterla di compatirmi perché era accaduto tanto
presto: era andata così e basta. Al mondo c’erano sicuramente persone a cui era
successo di peggio. Tutt’a un tratto è accaduto qualcosa che nessuno poteva
prevedere, facendomi perdere il controllo, ma questo può sempre succedere.
Vedere mia madre che, dopo tanto tempo, si dava da fare con il sorriso sulle
labbra, fu per me una consolazione. Sentii che avevamo recuperato qualcosa.
Qualcosa di simile allo scintillio del tempo in cui ce la mettevamo tutta per essere
una famiglia. Insieme a quella bellezza triste che appartiene al dolore della perdita.
In quell’istante desiderai con tutta me stessa di dimenticarmi poco alla volta di
mio padre. Se si trattava di rievocare, di celebrare un funerale, avrei potuto farlo
anche a decenni di distanza. La visione di mia madre che lavorava con impegno
ebbe l’effetto di riportarmi alla realtà. Con le composizioni di fiori sul tavolo, il
vapore dei bollitori, la teiera color argento traboccante d’acqua, quel posto mi
faceva capire che stavo vivendo quella realtà, e che non avevo motivo di essere
impaziente.
Ma non fu così che andarono le cose. Dentro c’era un’altra me stessa, cupa,
insistente, tetra, che continuava a presentare il conto.
Fu in uno di quei giorni che la signora si presentò a Les Liens, proprio quando il
turno del pranzo stava per finire.
“Vorremmo soltanto qualcosa da bere, si può?”
Dietro all’uomo dalla carnagione scura che aveva pronunciato queste parole, una
donna che non avevo mai visto guardava fisso nella mia direzione.
“Il ristorante chiude alle tre, va bene lo stesso?”
L’uomo rispose:
“Certamente”.
Percepii un lieve accento, non saprei dire di quale zona.
La donna, che doveva essere sua moglie, aveva occhi grandi e belli, e un’ombra
malinconica sul viso. Fisicamente, però, era piuttosto solida, probabilmente faceva
un lavoro che la teneva in forma. Avevano con sé una guida di Tōkyō, il che mi fece
pensare che fossero in viaggio.
Ordinarono del caffè, scambiarono qualche parola sottovoce e poi chiesero una
fetta di torta di mele da dividere.
Dopo aver portato loro la torta, prima andai a pulire sul davanti e poi raggiunsi
Michiyo in cucina per dedicarmi ai preparativi per la cena, quindi non ebbi modo di
osservarli attentamente. Sentii il rumore di una sedia e uscii immediatamente,
pensando che volessero pagare. La donna contò le banconote con cura e me le
porse. La ringraziai, convinta che sarebbe finita lì.
Mi disse:
“Mi chiamo Nakanishi. Vengo da Ibaraki”.
Ibaraki...
“Siamo venuti a Tōkyō per presenziare a una funzione in ricordo di un parente,
ma volevo parlarle... di suo padre. Mi bastano cinque minuti. C’è mio marito che
aspetta qui fuori, e poi non voglio rubarle altro tempo. Desideravo soltanto
parlarle.”
“D’accordo.”
Nervosa, annuii e chiesi a Michiyo il permesso. Guardandomi in faccia, acconsentì
e non disse altro.
La signora iniziò a parlare, senza sedersi.
“L’uomo che è lì fuori è il mio secondo marito. Il primo è stato quasi ucciso. Da
quella donna.”
Davanti ai miei occhi, il buio completo. Mi bastò un attimo per capire che, nel
bene o nel male, tra di noi esisteva un legame.
“Nel mio caso, però, il doppio suicidio fallì, e l’episodio si concluse con la nostra
separazione. Quella donna provava da tempo a coinvolgere un uomo per poi
ammazzarlo. Nel quartiere era famosa. Lavorava in uno snack-bar e portava i
clienti a tentare il suicidio insieme a lei. Non aveva solo un bel viso, c’era qualcosa
in lei che attraeva gli uomini fragili e perbene. La colpa era soprattutto degli uomini
che si lasciavano attrarre, ma lei era irresistibile. Il mio ex marito per un po’ ci ha
vissuto insieme ma poi, parecchio tempo fa, si è ammalato ed è morto. Gli ha
succhiato via la vita, ne sono sicura. Persone del genere esistono.”
“Non lo sapevo...”
Provai una strana emozione all’idea che di fronte a me ci fosse qualcuno che
aveva vissuto la mia stessa esperienza.
Pensai persino, con molta freddezza, che fosse colpa di mio padre se si era
lasciato coinvolgere, era stato un irresponsabile. Ma non riuscivo a spiegarmi come
potesse una donna, un essere umano, trasformarsi in una specie di buco nero. La
sua esistenza era così lontana da me che non potevo immaginarla se non con
difficoltà, eppure qualcosa ci univa. Un legame di sangue, senza ombra di dubbio.
“Per questo motivo, se non ha niente in contrario, mi piacerebbe far visita alla
tomba di suo padre.”
“Non è necessario. Quando ci sarà la funzione commemorativa, pregherò anche a
nome suo.”
Se mia madre avesse saputo di questa donna, sarebbe impazzita di rabbia.
“Non riesco a darmi pace. All’idea che qualcuno sia morto mi sento responsabile
anch’io.”
Gli occhi della signora erano pieni di lacrime.
“Se può, mi dica soltanto dove si trova la tomba. Voglio giungere le mani e
bruciare dell’incenso. Mi basterebbe questo. Mi farebbe sentire meglio.”
“No... Io stessa sono ancora molto confusa, e ci sono tante cose a cui non riesco a
pensare. Dirle dov’è il cimitero non è un problema, ma... La prego, per il momento
lasci stare noi familiari.”
“Capisco cosa state passando. Mi limiterò a visitare la tomba con discrezione e
me ne andrò. Mi farà stare meglio. Però mi raccomando, se state pensando a una
cerimonia fatemelo sapere, perché conosco qualcuno che potrebbe fare al caso
vostro.”
Mi guardava fisso. I suoi occhi bagnati di pianto erano belli. Non provai nessuna
strana sensazione. Sapevo che era sincera, e intuii che doveva essersi ormai
liberata di quei problemi, e probabilmente era felice.
“Anche se dovesse trovarsi a passare da Ibaraki, lasci che faccia qualcosa per lei.
Abito a Kashima. Mi sento in colpa per il fatto che suo padre sia morto e il mio ex
marito sia sopravvissuto. Se quella volta mio marito se la fosse portata all’altro
mondo, tutto questo non sarebbe successo.”
“Non è vero. Mio padre ha commesso una sciocchezza.”
“Non dica così. Il mio ex marito non è riuscito a completare l’opera, e la sfortuna
si è accanita su suo padre. Me ne vergogno. Da quando l’ho letto sui giornali non mi
sono data pace, e mi sono detta che la sola cosa che potessi fare era visitare la sua
tomba. Per questo mi sono permessa di venire qui.”
Le dissi qual era il cimitero cittadino che ospitava la tomba di mio padre. Tornò
accanto all’uomo dalla carnagione scura e si incamminò in direzione della stazione.
Mio padre... Mio padre, che si fidava di tutti, che si faceva venire il mal di pancia
ogni volta che qualcuno si confidava con lui. Mio padre, che dava sempre l’idea di
essere il più sfortunato di tutti. Con una punta di malinconia mi dissi che era proprio
così.
Avevo riflettuto all’inverosimile su tutto, ma quando si trattava di mio padre mi
sembrava sempre di non poter arrivare fino in fondo. Non sarebbe mai tornato
indietro, e allora perché desideravo così tanto fare qualcosa per lui?
Era come un amore a senso unico. Volevo fare qualcosa, qualsiasi cosa. Non
m’importava che lui lo sapesse: volevo aiutarlo.
Quando arriva l’inverno, le luci dello Tsuyuzakikan riscaldano ancor più che nelle
altre stagioni.
È come se riempissero ogni spazio di quell’edificio pericolante, lasciandosi
assorbire dall’aria invernale. Amavo molto quel palazzo, in cui si trovava anche Les
Liens. Il fatto che nello stesso angolo di quartiere coesistessero abitazioni private e
ristoranti conferiva al tutto un senso di delicata armonia. Una volta viste quelle
vecchie finestre in vetro, o le scale dove riecheggiava qualsiasi rumore, chiunque le
ricorderebbe con nostalgia.
E a completare l’atmosfera del luogo c’erano – ed erano divenuti, ormai, un vero
e proprio marchio distintivo – le coppie che vi abitavano con i loro modi di fare, i
ciliegi, le insegne tutte colorate.
Nei giorni grigi, con il cielo nuvoloso, mi era sufficiente guardare le luci dello
Tsuyuzakikan per sentire il calore invadermi il petto lentamente. Era un palazzo
vecchio, ma in qualsiasi stagione dell’anno ero orgogliosa di lavorarci.
Recandomi al lavoro, quella mattina, trovai Michiyo giù di tono. Seduta al
bancone con gli occhi bassi, stava riordinando delle fatture, ma era evidente che
aveva qualcosa di strano.
“È successo qualcosa? Hai una brutta cera.”
Disse sottovoce:
“Pare che demoliranno tutto qui. Dobbiamo chiudere entro la fine dell’anno”.
“Eh??”
Ero così sbalordita, che tirai fuori ad alta voce tutto quello che mi venne in
mente:
“Che fine farà il ristorante? E io?”.
Per tutto quel tempo avevo pensato che ogni giorno sarebbe stato identico al
precedente: oggi, domani, dopodomani, l’anno prossimo. Non sarebbe andata così,
ma bisogna sempre arrivare a questo punto, per capirlo.
Michiyo rispose con voce calma:
“Non ci ho ancora pensato, l’ho saputo solo oggi. Avevo sentito che stava
diventando troppo pericolante perché lo si potesse tenere in piedi ancora a lungo,
ma non mi aspettavo che questo giorno sarebbe arrivato sul serio”.
“Pensavo che questo fosse una specie di patrimonio culturale, che lo si dovesse
proteggere.”
Non avevo ancora digerito l’incredibile notizia, e borbottavo parole a vanvera.
Ciononostante, mi meravigliai del fatto che avevo già iniziato ad abituarmi all’idea.
L’abitudine nasce nell’istante stesso in cui si viene a conoscenza di una realtà. Poi
matura. È così per tutte le cose.
“Lo pensavo anch’io, ma evidentemente ci sbagliavamo. Il signor Tsuyuzaki non
c’entra niente, pare che il proprietario del terreno abbia le sue ragioni. Ormai la
decisione è stata presa.”
“Oh...”
Mi limitai ad annuire. Michiyo mi guardò fisso, poi disse:
“A me, però, piace questo quartiere e mi piacciono anche i clienti: voglio
continuare a gestire un ristorante a Shimokitazawa. Mi prenderò una vacanza,
andrò in Francia e al mio ritorno, dopo sei mesi, riaprirò da qualche parte nelle
vicinanze. Non credo proprio che riuscirò a trovare un locale economico come
questo – in fondo quando l’ho preso in affitto mi avevano fatto presente che prima o
poi sarebbe stato demolito –, quindi il nuovo ristorante sarà più piccolo. Ho già dei
risparmi, è tutto a posto. E poi... Yocchan...”.
“Sì?”
Con il cuore in gola, aspettai che continuasse.
“Se per te va bene, Yocchan, vorrei che mi seguissi nel nuovo ristorante. Forse
potrò pagarti di meno, però farò il possibile. Per adesso, durante la pausa, ti darò
l’equivalente di due mesi di paga come ringraziamento.”
“Davvero? Voglio dire... non mi riferisco ai soldi... Ti seguirò senz’altro nel nuovo
ristorante. Mi piace la tua cucina, Michiyo, e mi piace Shimokitazawa. Se non ti
sono d’intralcio, vorrei accompagnarti anche nella ricerca di un nuovo locale.”
Michiyo sorrise.
“Grazie. Innanzitutto, fino a quando non chiuderemo, liberiamo la mente e
continuiamo a lavorare bene, ok?”
“Michiyo... Il viaggio lo farai con il tuo fidanzato? Con qualche amico?”
“No, da sola. Tanto per cominciare, un fidanzato non ce l’ho neanche. Come
potrei adesso? Be’, i primi e gli ultimi tempi mi fermerò a casa di un’amica a Parigi.
Vorrei starci un mese o due.”
“Ti andrebbe di portare anche me? Non ho abbastanza risparmi per stare due
mesi, però posso venire per il periodo che riguarda di più il ristorante. Voglio
sapere come si evolverà la tua cucina. Non parlando il francese potrei essere una
palla al piede, ma ti prego ugualmente di pensarci su.”
Dissi tutte queste cose senza riflettere sulle conseguenze. Per un istante
dimenticai mio padre e mi sentii piena di energie.
“D’accordo. Stavo appunto pensando di fermarmi prima dalla mia amica a Parigi e
poi di fare un viaggio al risparmio, nel Nord o nel Sud della Francia. Vorrei andare
in Bretagna, ma mi interessa anche la Provenza. Ovunque si possa arrivare.
Potremmo fare insieme quella parte di viaggio. Per quanto riguarda Parigi, se mi
dici quanto puoi spendere, ti farò prenotare un albergo adatto alle tue tasche. La
casa della mia amica è troppo piccola per starci tutt’e due.”
Poi, ridendo, aggiunse:
“Cercheremo di mangiare il più possibile, ma senza spendere troppo, e poi
penseremo al menu del nuovo ristorante!”.
“Grazie.”
Mi piaceva pensare che si trattava di un passo in avanti, non indietro. Altrimenti
ci sarei rimasta male.
Michiyo disse:
“Ero triste, perché questo edificio mi piace molto. E poi pensavo che tu ti saresti
rassegnata. Invece mi sento un po’ sollevata. Mi hai dato coraggio, ti ringrazio. Mi
piaceva anche questo bancone, e quella finestrella. E il vecchio bagno. Non
dureranno a lungo, ma trattiamoli bene. Facciamo in modo che questa costruzione
se ne vada soddisfatta dal mondo. Io sono dispiaciuta, certo, ma sono anche
orgogliosa di tutto quello che questo posto mi ha dato. È come se mi avesse
regalato gli ultimi momenti di una lunga storia”.
Diceva cose naturali in maniera naturale, e mi lasciarono una sensazione di
freschezza straordinaria.
Era da un po’ che non sentivo nessuno pronunciare con tanta passione parole del
genere. Parole che vengono da chi sa capire un luogo fino in fondo. Al giorno d’oggi
le persone così sono sempre di meno, e incontrarne una, di tanto in tanto, dà un
senso di tranquillità.
“Ti aiuterò anch’io” dissi.
Con una persona così posso andare ovunque, e non avrò mai rimpianti.
Era bello poter pensare una cosa del genere. Se avessi pensato solamente che
lavare i piatti è pesante, che non mi piace alzarmi presto al mattino, che lavorare in
piedi è stancante e preparare tutto in anticipo è una faticaccia, probabilmente non
mi sarei sentita così. La mia unica preoccupazione sarebbe stata quella di rendermi
indipendente il prima possibile, e avrei messo su un ristorante destinato a fallire.
Dentro di me sapevo di potermi dare da fare, ed è per questo che ero riuscita a
comprendere quanto Michiyo fosse brava.
Da quando ero arrivata nel quartiere ero diventata a poco a poco più sincera con
me stessa, una persona con i piedi per terra. Prima mi guardavo intorno come una
turista, adesso riuscivo a distinguere ciò che mi portavo dietro, ogni impronta dei
miei piedi lasciata sul terreno.
Camminavo ogni giorno, ogni giorno lasciavo delle impronte, e il quartiere
prendeva forma dentro di me. Così saremmo cresciuti tutti e due, e qualcosa di me
sarebbe rimasto, anche dopo la mia morte... Era un modo di amare, e l’avevo
appena imparato.
Lì, e non nel quartiere dov’ero nata.
Allora, non camminavo ancora con le mie gambe. Se ci fossi ritornata adesso
avrei provato malinconia, nostalgia. E sarebbero arrivati anche il senso di
oppressione e la cupezza.
Prima o poi, messo da parte il pensiero di mio padre, sarei riuscita a considerare
quel quartiere come mio. Prima o poi quel giorno sarebbe arrivato, ne ero certa.
A Shimokitazawa mia madre e io non mentivamo. Respiravamo al giusto ritmo.
Se solo avessimo potuto ricominciare daccapo lì, con papà, tutti e tre insieme.
Era un sogno che non si sarebbe mai realizzato.
Stavo per scoppiare a piangere, e guardai fuori dalla finestra. Su Chazawa dōri la
gente camminava placidamente.
Giorno dopo giorno ce l’avevo messa tutta, senza cedere al sudore, al mal di
schiena, alle mani screpolate. Avevo ottenuto fiducia, e sapevo in che direzione
orientare il resto della mia vita. Mamma aveva rinunciato a fare la signora per
essere se stessa, ed era serena. Se fossimo vissute lì, adesso, con mio padre,
sarebbe nato qualcosa di limpido, di nuovo.
Perché nella vita è sempre soltanto il corpo a riprendersi?
Ma no, forse è proprio questa la cosa straordinaria. Il corpo ci viene in aiuto.
Anche oggi mia madre si trova al kissaten tradizionale per il suo lavoro part-time.
Per muoversi come non ha mai fatto, farsi venire fame, stancarsi. Procede poco per
volta, di pari passo con il suo metabolismo. Si lascia alle spalle mio padre.
È una cosa crudele, ma nella nostra vita di adesso lui non c’è. Fra sei mesi
assorbirò gli stimoli di un paese in cui non sono mai stata e mi metterò in cammino
verso sapori nuovi.
Non tutto cambierà, certo. Resteranno i ricordi a me più cari: colori, odori, gusti
e tanti luoghi diversi.
Ma il mio corpo non li potrà assaporare. Non sentirò mai più l’odore della schiena
di mio padre. Potrò solo ricordarlo.
Perché la vita è così crudele?
Me ne resi conto solo allora, e ne fui colpita.
Si perde soltanto, niente torna indietro.
In compenso, adesso conoscevo l’odore di Chazawa dōri sotto la pioggia.
Conoscevo l’atmosfera particolare della strada con i negozi all’uscita sud nelle
giornate serene, l’umore del quartiere quando ci si fa largo tra la folla vociante dei
ragazzi in direzione della stazione.
Sei mesi prima non conoscevo nemmeno Aratani. Lui forse sapeva qualcosa di me,
ma io di lui non sapevo nulla.
Avevo fatto l’impossibile per dimenticare mio padre, per cercare di essere
positiva, ma il mio corpo, indifferente a tutti quegli sforzi, aveva deciso di diventare
parte di questo tempo. Ormai non me la sentivo più nemmeno di incolpare papà se
si era lasciato trascinare all’altro mondo. Avrei dimenticato, e qualcosa mi sarebbe
rimasto. Questo qualcosa, poi, l’avrei custodito nel mio corpo, in profondità. Non
superiamo le cose alla stessa maniera, è inevitabile che si produca uno scarto, che
resti dell’amaro in bocca.
In che modo avrei potuto farmelo passare?
Non mi andava di rivedere ancora quella signora e condividere qualcosa con lei.
Si trattava di una formalità, lo so, ma non riuscivo proprio a immaginarmi me e mia
madre sedute nel folto desolato di quella foresta a pregare. La scena di me,
Yamazaki e la mamma all’acquario di Ōarai mi risultava molto più realistica. Se
vogliamo parlare di commemorazioni, be’, la nostra quotidianità lo era. Non
esisteva preghiera più autentica.
Per noi quell’episodio aveva rappresentato l’occasione di smettere di sprecare le
nostre vite, il nostro tempo. Piuttosto che sforzarci di capire e, fingendo di esserci
riuscite, metterci a pensare a mille cose, avevamo deciso di tessere ogni giorno una
tela che fosse soltanto nostra.
Un pomeriggio che ero persa in questi pensieri, m’incontrai con Aratani a
Shinjuku.
Avevamo un appuntamento del tutto convenzionale: l’avrei accompagnato a fare
spese da Conran. Era talmente convenzionale che mi sentivo a disagio,
considerando che era un bel po’ che non mi capitava una cosa del genere. In piedi,
vestita di tutto punto, mi sentivo inconsistente, come una comparsa in fondo a un
palcoscenico.
Mi trovavo al primo piano dell’edificio. Quando vidi arrivare Aratani in mezzo alla
gente, il soprabito leggero che sventolava sul pavimento tirato a lucido, sentii un
tuffo al cuore.
Mi piaceva davvero tanto il suo viso. Da qualsiasi angolazione lo guardassi non
c’era niente di sbagliato, in lui. Andavo matta per gli occhi e la bocca, che ne
rivelavano il coraggio e il controllo. Il mio cuore, in linea con la mia età, lo
desiderava. Se fosse stato il periodo giusto me ne sarei innamorata follemente,
angustiandomi chissà quanto.
Lo guardavo con una strana malinconia, come un uomo sposato guarda una
giovane donna che gli piace molto. Per la me stessa di allora non andava bene, ma
in un altro momento, in un altro luogo, l’avrei amato da impazzire. Si sarebbe
potuto dire che la stessimo prendendo così come veniva, senza impegno, e alcune
volte le cose che riescono meglio sono proprio queste, però mi sentivo un po’
mortificata. Pensai che doveva essere come incontrare il primo amore quando si è
ormai in là con gli anni, e ricominciare a vedersi. Il sentimento non cambia, ma
sarebbe stato meglio se fosse accaduto quando il corpo era ancora giovane, quando
ci si sarebbe potuti frequentare a occhi chiusi, senza pensare al domani.
Senza immaginare quanto fosse complicato il mio stato d’animo, Aratani sorrise e
affrettò il passo non appena mi vide.
“Qualche tempo fa, quando c’è stato un black-out, sono inciampato e ho versato
del caffè sul divano. Quindi voglio approfittare per comprarmene finalmente uno
migliore. Quell’altro non era niente di speciale, di vinilpelle, me l’ero portato da
casa dei miei.”
“È la prima volta che mi nomini la tua famiglia, credo. Dove vive? Vicino a
Shinjuku?”
“Dunque... A Nippori. Mio padre e mia madre hanno divorziato quando ero
all’università, e lei è tornata dalla sua famiglia a Kōbe. Mio padre è rimasto nella
vecchia casa, si è risposato, e adesso ci vive con quell’altra donna.”
“Ma pensa. I miei genitori quando ero bambina abitavano a Yanaka. È vicino a
Nippori, no?”
“Che coincidenza... Ti ricordi qualcosa di quel periodo?”
Ad Aratani brillavano gli occhi.
Ero dispiaciuta di non ricordare nulla. Risposi:
“No, ero solo una bambina”.
“Ma pensa... Da quelle parti si sta proprio bene, mi piace tanto. È pieno di templi,
di salite e discese. La prossima volta potremmo andarci a fare due passi.”
Si capiva che amava i luoghi in cui era cresciuto.
“Chissà se c’è ancora l’appartamento in cui abitavamo noi. Proverò a chiederlo a
mia madre.”
Credevo che fosse subentrato a suo padre nel lavoro senza troppi sforzi e invece,
per quanto sia triste bisogna riconoscere che una vita fatta soltanto di cose belle
non esiste per nessuno. La nostra situazione era finita in tragedia, ma i miei non
hanno mai divorziato, la famiglia non si è smembrata, e in un certo senso noi ci
volevamo più bene.
Per l’appartamento di Aratani scegliemmo insieme un bel divano blu di un tessuto
resistente. Meglio un colore scuro, così lo sporco non si vede. Facevamo discorsi da
coppia.
“Visto che l’ho pagato molto meno di quanto pensassi, stasera ti invito a cena.”
“Ma no, l’abbiamo scelto insieme. Io non ho fatto proprio niente.”
“Insisto. Mi fai sempre mangiare cose deliziose.”
“Le prepara Michiyo.”
Mi misi a ridere.
Aratani, che amava mangiare, disse sorridendo:
“Vicino a casa mia c’è un ristorante coreano straordinario. Ti va di andarci?”.
“Va bene. Stasera mia madre lavora fino a tardi...”
Con un’espressione sorpresa, mi domandò:
“Tua madre lavora? E dove?”.
“Nel kissaten di fronte al fioraio. Serve il tè e si prende cura della tartaruga che
tengono nel locale.”
Scoppiò a ridere.
“La prossima volta ci vado facendo finta di niente. Incredibile. Se uno ha voglia di
vedere la signora e la signorina Imoto basta che vada da quelle parti, e le troverà.”
“Non si può mai sapere, siamo veloci nella fuga. Abbiamo pochi mobili, possiamo
levare le tende da un momento all’altro.”
Mi fermai a ridere con lui. Poi ripresi:
“Però sai, è strano. Visto che dovevo fare qualche compera, ho preso il
portafoglio e sono uscita per andare al Seven Eleven, mi segui? Bene, mentre
camminavo per Chazawa dōri, ho avuto una strana sensazione. Era come se fossi in
viaggio, mi sembrava di andare a tentoni come quando si va a comprare qualcosa in
un luogo di villeggiatura, ma anche di essere libera come si è in situazioni come
quella.
Sai, una volta, quando ero ancora molto piccola e vivevamo già a Meguro, ho
preso un autobus con mio padre e sono andata fino alla strada con i negozi
dell’uscita sud di Shimokita. C’era così tanta gente che chiesi a mio padre se per
caso fosse un matsuri, e lui rispose di no, che la domenica lì era sempre affollato.
Poi mi prese per mano e ci mettemmo in cammino. Le decorazioni dei negozi si
muovevano al vento, le voci delle persone si accavallavano e risuonavano come una
musica e, mentre sorseggiavamo il nostro tè, mi sembrava di assistere a una festa
in un paese straniero. Mio padre comprò alcuni dischi e mi regalò un piccolo
portafoglio.
È il semplice ricordo di una domenica come tante, ma il clima e quell’atmosfera di
festa si erano combinati nel modo giusto, mio padre era di buonumore, quel
portafoglio l’ho usato per tanto tempo, e alla fine è diventato un ricordo importante.
Adesso mi capita di alzare gli occhi al cielo e sentirmi esattamente come allora.
Come se stessi viaggiando. Magari dipende dal fatto che le persone che vedo non
sono mai le stesse. Eppure adesso lì ci abito, e anche se me ne vado in giro con la
testa tra le nuvole, mi capita di incontrare qualcuno che conosco, no? Si tratta di
semplici saluti, brevi conversazioni, ma mi danno sicurezza.
Ma più importante ancora è che nel tempo del mio corpo è inciso il contatto con
la mano di mio padre, che quel giorno stringeva la mia, ed è come se il quartiere
intero portasse gli stessi segni. Il quartiere ci è stato a guardare, ed è grazie a
questo che mi è rimasto il ricordo.”
“Capisco. Vuol dire che resterà uguale anche se ti allontanerai per un po’. Ciò che
è inciso nel corpo non scompare.”
“Credo che non scomparirebbe nemmeno se dovessi perdere la memoria. Non lo
ha cancellato la morte di mio padre. I luoghi possiedono questa forza, se noi li
amiamo. E se pure chi li ha amati dovesse morire, la loro atmosfera sopravvive
nelle incisioni sottili come le scanalature di un compact disc.”
La casa di Meguro, per me, era stata anche il luogo di un’adolescenza piuttosto
sofferta.
Era il periodo in cui proprio non potevo soffrire mia madre, con la sua ingenua
convinzione che io l’amassi incondizionatamente, e non sopportavo che mi toccasse,
in cui invidiavo le case dove il padre rientrava ogni sera alla stessa ora, come si
invidia l’erba del vicino. Era tutto concentrato in quel luogo e in quel momento. Era
troppo difficile, per me, confrontarmi con la mia età, e le mie giornate lì erano quasi
sempre grigie. Forse era questo uno dei motivi per cui non sentivo quel luogo
veramente mio.
Certo, un giorno avrei potuto rompere con Aratani e non rivolgergli più la parola,
magari dopo aver sofferto molto tutti e due, e a quel punto anche il quartiere di
Shimokitazawa mi sarebbe apparso grigio. Se Michiyo avesse deciso di riaprire ad
Aoyama, io mi sarei spostata lì. Tutto passa, tutto cambia.
Una delle cose di cui si perde la misura, vivendo in città, è la forza del singolo
individuo.
Mettiamo che in una grande libreria di un grande palazzo ci sia un commesso
particolarmente bravo. Se a un certo punto lo spostassero in un’altra succursale,
sicuramente sarebbero in molti a restarci male. Ma, come mi ha detto una volta
mia madre, se un nuovo commesso si presenta con il giusto tempismo, allora la
libreria potrebbe continuare ad andare avanti senza che cambi nulla. Forse chi
abita in città tende a dare per scontato proprio questo. Se pure io non dovessi
esserci più, il mondo non cambierebbe, il mio ristorante non fallirebbe, il quartiere
continuerebbe a vivere.
Ma è umano anche sentire che a questo ragionamento manca qualcosa.
Da qualche tempo, precisamente dalla morte di mio padre e dallo scioglimento
della sua band, credo, avevo iniziato a interrogarmi sulla forza degli individui. Sul
fatto che alcune volte le sostituzioni sono impossibili, e si deve rinunciare. Su tutte
le cose che un giorno finiranno, inevitabilmente, anche se dovrà passare molto
tempo prima di allora. E, dunque, sulla voglia di assaporare il presente.
La ragione non aiuta assolutamente a comprendere il vero significato
dell’espressione “niente si ripete”, eppure, quando qualcuno va via dal quartiere, si
ripercorrono con affetto le giornate insostituibili trascorse insieme. Forse le
persone possono acquisire consapevolezza solo a quel livello. All’idea che il pianeta
Terra potrebbe sparire, ci si può solo domandare quando verrà quel momento, ma il
pensiero che potrebbe capitare a Shimokitazawa fa venire i brividi. Dev’essere
così.
Se da quel piccolo ristorante thailandese sempre pieno andasse via Miyuki, se non
ci fossero più le sue braccia affusolate ad agitare le padelle vicino alla finestra,
sparirebbe per sempre il gusto tipico della loro cucina. Forse persino le piante sul
davanti si seccherebbero. Se a suo marito Tecchan dovesse capitare qualche
incidente, se morisse all’improvviso, sicuramente i suoi piatti assumerebbero un
sapore più desolato e più triste. Quando nei tramonti d’estate mi arrivano odori e
rumori di stoviglie da quel ristorante così pieno di colori, mi viene nostalgia della
Thailandia, anche se non ci sono mai stata. E quando nell’oscurità della sera vedo le
gialle luci soffuse del locale, provo un desiderio indefinito di ritornarci. Una volta
entrati, si è accolti dai loro sorrisi e, come per una strana alchimia, la malinconia
del tramonto si trasforma in una identica dose di felicità. È l’armonia di quella
coppia con il mondo a produrre questa magia straordinaria.
E se Hacchan andasse via dalla sua libreria di libri usati, tutti smetterebbero di
sbirciare all’interno per vedere come sta ogni volta che ci passano davanti.
È un po’ come se fosse la casa del libraio, con il pavimento di legno pieno di roba
che non trova mai una collocazione, e la galleria in cui sono esposti sempre quadri
bizzarri. Dev’essere per questo che, quando ci si sente tristi e soli, viene voglia di
farci un salto.
Se Eri non se ne prendesse cura ogni giorno con tanto amore, probabilmente la
tartaruga del suo locale morirebbe subito, e sembrerebbero morte anche le teiere
e le tazze dimenticate da qualche parte.
Anche per Les Liens è così. Se Michiyo iniziasse a cucinare senza passione, le sue
mani esperte non produrrebbero più quell’insalata così famosa, diventerebbe
acquosa, e il ristorante si traformerebbe in un posto brutto e vecchio.
E se Chizuru chiudesse il bar dove va sempre mia madre, il malumore delle
persone di mezza età, che a quel punto non avrebbero più un posto dove andare,
conferirebbe al quartiere un’atmosfera tetra.
Vuol dire che alla base di tutto ci sono i singoli individui. Ed è una realtà
inquietante, di cui forse non sarei voluta venire a conoscenza.
A quel punto anche le mie responsabilità mi furono chiare. Se avessi lavorato
ancora a lungo, a un certo punto la gente avrebbe cominciato a venire per vedermi
sorridere. Sarei stata trattata come una persona di famiglia, sebbene non lo fossi
davvero. Sarebbero venuti a cercare la cucina di Michiyo e il mio servizio.
Era un’enorme responsabilità, e mi diede le vertigini. Come facevano tutti a
fingere di non vedere qualcosa di così straordinario...?
Seduti sul tatami dell’ottimo ristorante coreano vicino a casa di Aratani, stavamo
mangiando, in un’atmosfera molto rilassante, un delizioso piatto di jjigae e kimchi
con della lingua al sale, quando mi venne voglia di fargli una domanda.
Ogni volta che mangiavamo insieme, mi limitavo a spiluccare stuzzichini e
contorni, mentre lui mangiava un piatto dopo l’altro in grande quantità. Quando io
ero ormai sazia, lui era ancora all’antipasto. Se mai dovessimo andare a vivere
insieme, prima o poi diventerebbe un ciccione, pensavo, ma ci eravamo baciati solo
una volta, quindi non era molto realistico. E poi eravamo arrivati a quel punto senza
che io riuscissi a capire se lui era innamorato di me.
“Aratani?”
“Che c’è? Vuoi passare al galbi?”
Parlava in modo del tutto naturale, guardando il menu. Lo trovai buffo.
Non era insolente, era solo un ragazzo di buona famiglia.
“Poco fa mi hai detto che non posso ancora innamorarmi o qualcosa del genere.
Era un modo per lasciarmi? O intendevi forse dire che non stiamo neanche
insieme?”
“Che strano, se me lo chiedesse un’altra mi darebbe fastidio, ma se me lo chiedi
tu no. Perché?”
“Non lo so.”
Con un’espressione seria in viso, ripeté:
“Perché? Non l’ho detto con quelle intenzioni. Semplicemente ho sentito che
qualcosa non andava. Ma non mi riferivo a una separazione, o a niente di simile”.
Dopodiché arrossì un poco per l’imbarazzo e mi fece tenerezza.
“All’improvviso ho avuto l’impressione che se avessimo fatto l’amore tu poi mi
avresti odiato.”
“Non credo proprio che potrei. Se pure un giorno dovessimo lasciarci per qualche
motivo, non potrei mai odiarti, Aratani. È solo che in questo momento non me la
sento di vivere una grande passione. In nessun senso.”
“E allora la prossima volta resta a dormire. A casa tua io non potrò mai fermarmi,
quindi...”
Rise.
Come faceva ad affrontare argomenti così imbarazzanti con tanta disinvoltura?
Ma sì, era uno di quei tipi che piace alle donne, probabilmente ne aveva sempre
qualcuna intorno. Era abituato. Come ci è finita una frana come me insieme a uno
del genere? Lo guardai con una punta di malinconia.
Il ristorante, a conduzione familiare, era frequentato a sua volta soprattutto da
famiglie. In cucina c’erano suocera e nuora, in sala i due uomini, che con la voce
alta e sicura si ripetevano gli ordini a vicenda. Era come stare in una grande casa,
al caldo, e fuori la strada e il buio della sera.
Lì in mezzo, riuscii per un momento a scacciare dalla testa il mio triste passato.
Avevo una specie di fidanzato, con mia madre andava tutto bene, nel lavoro stavo
per fare un passo in avanti: pensai distrattamente che, forse, mi avviavo verso un
periodo felice. C’era il profumo della carne arrostita, il vociare delle persone, il
senso di liberazione tipico di quel momento della giornata in cui si riescono a
lasciare alle spalle istantaneamente i problemi quotidiani, e tutto questo, poco per
volta, mi riempì il cuore.
Aratani era allegro.
“Arrostiamo l’agnello! Qui hanno la carne di agnello migliore di qualsiasi altro
ristorante.”
Ridendo, risposi:
“Penso che saprò arrostirla a puntino. Ogni giorno osservo molto attentamente
Michiyo”.
Ordinammo quell’agnello delizioso, aspettammo insieme che lo portassero, lo
arrostimmo con tutto l’impegno e lo mangiammo senza pensare ad altro.
Intanto, la mia anima si nutriva della felicità scaturita da quel semplice processo.
Per la prima volta dopo tanto tempo mi stavo divertendo. Provavo molta
gratitudine. Ringraziavo in cuor mio Aratani per avermi trovato, nonostante stessi
vivendo “senza guardare nessuno, senza fare rumore”.
Anche mia madre stava lentamente cambiando.
Lavorando a contatto con la gente, sembrava che avesse assunto all’improvviso
una postura più corretta. Una sera, dopo tanto tempo, la vidi che si faceva una
maschera. E per di più era una maschera idratante di Guerlain, piuttosto cara, che
utilizzava molto in passato.
“Uh, mamma! Che nostalgia vederti con la maschera! L’hai comprata?”
“Macché, sono andata a prenderla a Meguro. Mi sono resa conto che rischiavo di
farla scadere, quindi ho fatto una corsa!”
E così adesso riusciva persino a tornare a casa per prendere una maschera di
bellezza.
Ridendo, aggiunse:
“Ho pensato che, adesso che finalmente mi sono ripresa, devo stare attenta
anche alla pelle, nella routine quotidiana. Nello spirito sono una ragazzina, ma la
pelle è quella di una donna di mezza età!”.
“Mi sembra l’atteggiamento giusto, no?”
“Ieri ho speso una fortuna dall’estetista. Al terzo piano del Tomod’s qui vicino c’è
un salone molto grazioso, ci vanno tutte le signore bene della zona.”
“Che bello, sembri quella di una volta, mamma!”
“Alla fine ho fatto un trattamento con una macchina che modella i lineamenti del
viso, si chiama ‘Miracle’. Non trovi che abbia il viso più sottile?”
La mamma era fiera di sé.
“Ora che me lo fai notare, in effetti la mandibola sembra più contenuta.”
Quel che era certo è che non aveva affatto l’aspetto di una donna che si sta
lasciando andare.
“Visto?” disse, sorridente. “Anche se dobbiamo fare economia, una volta ogni sei
mesi bisognerà che lo faccia.”
“Insomma, tutto bene, no? Hai fatto bene a trovarti quel lavoro part-time.”
“Quelli che lavorano con me sono tutte brave persone, e quando ho molto da fare
i clienti aspettano pazientemente. Certo, è pur sempre un lavoro, quindi viene
anche gente antipatica, ma Eri sa il fatto suo, e riusciamo sempre a lavorare
serenamente. Gli altri impiegati part-time sono tutti lì da molto tempo, e anche il
proprietario è un’ottima persona.”
La mamma non parlava mai di papà, ma questo non voleva dire che se ne fosse
dimenticata, lo sapevo benissimo. Trovavo incredibile la forza con cui era riuscita a
rimettersi in piedi. Ebbi la sensazione che avesse fatto del tempo un uso migliore di
me, che ero rimasta a piangere senza riuscire a prendere neanche una decisione.
Doveva essere quella la differenza tra perdere un genitore e perdere un marito.
Dopo qualche tempo, una sera che mi trovavo in casa perché non dovevo
lavorare, la mamma rientrò e mi disse all’improvviso: “Vado a Meguro a prendere il
mio macchinario per il viso che fa quel vapore che sembra nebbia!”. E così, dopo
tantissimo tempo, tornammo insieme nella nostra vecchia casa.
Era desolata, come tutte le case in cui non abita più nessuno.
Prima ancora di pensare a mio padre, nell’istante stesso in cui girai la maniglia e
percepii quel senso di abbandono, mi sembrò di essere sprofondata in un incubo.
All’ingresso c’era quell’odore a me familiare della casa, insieme a tutti gli altri segni
della nostra presenza. Ma ormai tutto si era fermato.
La mamma entrò di colpo, aprì la finestra e accese la luce.
Io andai dove una volta c’era la mia stanza e presi alcuni manuali di cucina e
romanzi da portare con me. Poi misi in ordine libri e abiti estivi che a Shimokita
ormai non ci stavano più e li sistemai sugli scaffali e nell’armadio.
Mentre facevo queste cose, mi sembrava di avere sempre qualcuno o qualcosa
alle spalle.
Girai lo sguardo più volte in direzione del pianoforte, domandandomi se il
fantasma di mio padre si sarebbe fatto vedere, ma niente. Nessun segnale. Era
vuoto ovunque.
Ma davvero avevo vissuto per così tanto tempo in quel posto? Le mie mani, i
piedi, gli occhi ricordavano perfettamente ogni angolo di quella stanza. L’odore, la
distanza dalla maniglia della porta, come correre in corridoio senza sbattere da
nessuna parte, andare in bagno senza accendere la luce. Ogni cosa era avvolta in
un’ombra densa e indecifrabile, e mi mancava tanto da avere la nausea, ma
nonostante tutto, ormai, quel luogo non mi apparteneva più. Strati di ricordi vi si
erano sedimentati, e l’aria, adesso, era pesante e irrespirabile. Su qualsiasi cosa
posassi lo sguardo, la vedevo come filtrata attraverso centinaia di immagini della
memoria che mi apparivano condensate, sovrapposte le une alle altre. Così non
poteva andare, mi sembrava di essere in una bara. Ora capivo fin troppo bene
cos’avesse spinto mia madre a correre da me: vivere qui da sola era opprimente.
E adesso stava in piedi vicino alla porta, dopo aver riempito una borsa di
cosmetici.
“Senti, Yocchan, avevo pensato che dopo tanto tempo sarebbe stato bello
mangiare francese qui insieme, ma con tutti questi ricordi mi è passata la voglia.
Quando ci sono venuta di giorno e da sola non è stato così. Evidentemente mi sono
troppo rilassata all’idea che ci fosse qualcuno a farmi compagnia, e poco per volta
ho iniziato a sentirmi triste e stanca.”
Ti capisco, ripetevo dentro di me, annuendo.
La mamma propose:
“Perché non ce ne torniamo indietro e mangiamo del curry?”.
“D’accordissimo!” risposi ridendo. “Oggi è aperto?”
Quando nominavamo il curry, sapevamo già tutte e due di cosa stessimo parlando.
C’era un ristorantino molto rinomato che all’interno ricordava un rifugio di
montagna, e si trovava a cinque minuti a piedi da casa.
“Sì, prima ho controllato l’insegna. È aperto. Tu quale vuoi, Yocchan? Io oggi lo
prendo ai funghi.”
“Io quello piccante alle verdure. Porzione grande.”
Dopo averle risposto, capii che stavo già meglio.
“Come faranno a fare un curry così buono in quel ristorante? E nessuno lascia
mai un chicco di riso! Mettono roux a volontà, che pare traboccare dal piatto, e già
così si ha una sensazione di abbondanza. E poi le melanzane, sempre dolci e
deliziose. Non a caso le hanno messe anche nel nome del locale!”
Mentre parlava, la mamma sorrideva. Quanto tempo era che non la vedevo
sorridere in questa casa? pensai con il cuore colmo di gratitudine. Era così bello
rivedere finalmente il suo sorriso con quelle pareti bianche sullo sfondo.
“Allora chiamami quando hai finito. Io sono di là a pulire.”
“Ok.”
Anche se quella conversazione era stata del tutto banale, per noi due,
indistintamente, aveva rappresentato un momento decisivo. Non l’avevamo
previsto, era successo all’improvviso. Volevamo tornare laggiù, volevamo girare
l’angolo e andare in quel ristorante. Volevamo sentirci serene, come ogni volta che
vedevamo l’insegna. Avremmo aperto la porta, saremmo entrate in quell’ambiente
piccolo e tranquillo, proprio come la stanza di un’amica, e guardando la coppia
taciturna che preparava il curry e i camerieri imbranati che facevano del loro
meglio per servire i clienti ci saremmo rilassate.
Ci avevamo pensato entrambe, provando intimamente una grande sorpresa. Ma
poi ognuna di noi si era detta che l’altra, magari, trovandosi lì dove aveva abitato in
passato, avrebbe preferito mangiare in un ristorante nei paraggi, come ai vecchi
tempi. Quindi ci eravamo trattenute dal proporlo. E invece avevamo pensato in
maniera identica. Parlando del posto in cui eravamo andate ad abitare, avevamo
recuperato il senso di un tempo soltanto nostro, era evidente. L’aria pesante tornò
limpida. Credo che sia stato proprio quello l’istante in cui abbiamo deciso di
lasciare la nostra vecchia casa. Non ci apparteneva più. Sentivamo chiaramente
che lì non avevamo più niente da fare.
Ci affrettammo a uscire con i bagagli. Quando mi infilai le scarpe la mamma disse,
come se le fosse venuto in mente proprio allora:
“Senti, lo so che non dovrei, però...”.
Annuii e le risposi. Non so come, ma avevo capito. Ci stavo pensando anch’io.
“La fotografia di papà, vero? Prendila, ce la portiamo.”
“Come hai fatto a capire?” domandò strabuzzando gli occhi.
“Penso anch’io che sia meglio.”
Fece un cenno di assenso ed entrò nella stanza.
Poi uscì tenendosi stretta la cornice con la foto di papà che stava vicino
all’amplificatore.
“Gli offriremo dei fiori ogni giorno nell’altra casa. Cos’ha da invidiare a questa, in
fondo?” disse.
“Sì, faremo così.”
C’era ancora una fotografia di noi tre insieme sul televisore nella mia stanza. Ma
era la prima volta che una fotografia di papà da solo entrava nell’appartamento mio
e della mamma.
“Ma certo, non ha proprio niente da invidiare a questa. Be’, di cose da invidiare
ne ha già parecchie, ma quel che è fatto è fatto.”
La mamma rise di cuore, rimproverandomi bonariamente di fare sempre la
spiritosa. Poi chiuse la porta. Girò la chiave, e ci lasciammo davvero alle spalle la
casa in cui avevamo vissuto, e in cui molto probabilmente non avremmo vissuto mai
più. Magari ci saremmo tornate altre volte, ma ripensandoci in futuro avremmo
ricordato quel momento specifico come il momento dell’addio.
Tornando a casa, dopo aver mangiato un ottimo curry, ci fermammo nel vicino
negozio di fiori, dove una signorina molto simpatica ci diede, insieme al suo bel
sorriso, un bouquet. Lo infilammo in una bottiglia da latte dell’epoca Shōwa che
avevamo comprato da un antiquario di Chazawa dōri e lo posizionammo vicino al
ritratto di mio padre. Poi versammo un po’ di olio profumato nel diffusore e
accendemmo lo stoppino. La piccola luce della candela si rifletteva tremolante sulla
parete, mentre il profumo di lavanda riempiva la stanza.
Guardai la foto di mio padre circondata da tutte queste cose, e mi dissi che anche
il suo trasferimento a Shimokita si era concluso.
Qualcosa era finito, era tornata la calma.
“Senti, mamma. Non dico subito, ma pensi di vendere l’altra casa? O magari di
affittarla?”
“Mmm... Sono più orientata ad affittarla. Quella mia cara amica dovrebbe
tornare fra un anno circa da San Francisco, e potrei venderla o affittarla a lei e suo
marito. Conoscendo la situazione, terrebbero quasi tutti i mobili e sarebbero anche
disposti a pagare un affitto elevato. Dice che nelle sue condizioni economiche
almeno questo, per noi, può farlo, e in ogni caso avrebbe cercato a Meguro. Nel
frattempo mi limiterò a raccogliere le mie cose poco alla volta, e magari mi
cercherò un posto tutto per me qui a Shimokita. Non ho ancora pensato ai dettagli,
ma vado in questa direzione.”
“Be’, direi che è un’ottima soluzione. Così nessuno soffrirà. Nemmeno papà.”
“Tranquilla, papà ce lo siamo portato qui oggi. Fatta eccezione per la parte di lui
che proprio non posso perdonare, la parte fondamentale della sua anima, ormai, si
trova qui.”
Se la mamma, che era sua moglie, può parlare con tanta sicurezza, vuol dire che
posso crederci.
E poi tornai a sognare il telefono.
La casa di Meguro adesso era vuota.
A parte i segni sulle pareti, non vi restava nessuno dei miei ricordi. Non c’era
neanche il pianoforte. La luce proiettava il quadrato della finestra sul pavimento.
Io stavo in piedi, immobile. Mi domandavo se il trasloco fosse stato ultimato. Così
presto? Era durato un attimo. Ma dove mi trovavo? Dov’erano i miei bagagli?
Ancora non si sapeva?
Riflettevo su queste cose distrattamente.
A quel punto suonò il telefono. Lo tirai fuori dalla borsa e provai a rispondere.
“Pronto?”
“Pronto” disse mio padre.
“Tranquillo, la tua fotografia è già a Shimokitazawa” gli risposi. E intanto
piangevo a dirotto.
“Papà! Papà, tu non ce l’hai con me, vero?”
Nessuna risposta.
Piangevo e non riuscivo a smettere, e non riuscivo nemmeno più a stare in piedi.
Appoggiai le mani sul pavimento. Il pavimento del soggiorno su cui mi ero rotolata
tante volte da bambina. A breve arriverà un tappeto nuovo, insieme a mobili che
non ho mai visto.
Dissi:
“Voglio vederti. Perché mi chiami al telefono?”.
L’altra me stessa intervenne per criticarmi: “Ci sarà pure qualcosa di meglio da
dire, no?”. Ma nel sogno finivo sempre per espormi troppo, una buona a nulla.
All’altro capo del telefono sentivo la solita presenza di mio padre, non poteva
avercela con noi.
Sì, papà voleva telefonarci. Quando stava per morire, la sola cosa che voleva era
telefonarci. Ne ero sicura.
Aprii gli occhi all’improvviso e mi sollevai di scatto nel buio della stanza.
Nell’aria si sentiva ancora l’aroma dell’olio essenziale, e la candela era accesa. Lì
vicino c’era la foto di mio padre. Mio padre, sorridente. Forse quando scattammo
quella fotografia lui si vedeva già con quella donna, però viveva ancora con noi.
Sono stati quel buon profumo e i colori dei fiori ad aprirmi la strada verso il
sogno... pensai, senza capire bene cosa volesse dire, assonnata com’ero. Mi
tranquillizzai, mio padre ormai non doveva più preoccuparsi di niente. Non so
perché, ma era stata tutta una questione di tempi. Doveva essere quel giorno, o mai
più.
Accanto a me vidi mia madre che dormiva serenamente. La bocca socchiusa, era
in viaggio attraverso il mondo dei sogni. Una persona importante, io, ce l’avevo
ancora.
Ritrovata la calma, tornai supina. Nel dormiveglia ebbi la sensazione che il
telefono fosse vicino a me, e mentre lo cercavo caddi in un sonno profondo.
Sentivo che finalmente alcune mie paure mi avevano abbandonato, d’ora in avanti
avrei potuto vivere una vita più serena. Sotto e sopra la mia trapunta di piuma
d’oca c’era solo un soffice tepore.
A spaventarmi non era solo il fatto che mio padre se ne andasse in giro. A farmi
più paura era l’idea che la mamma lo cancellasse del tutto dal proprio cuore.
Adesso lo sapevo.
Dopo qualche tempo, quella signora venne di nuovo al ristorante, stavolta da sola.
Era ora di pranzo e avevo molto da fare, per cui dovetti mettercela tutta per non
mostrarmi seccata.
Proprio adesso che le cose si erano in parte rimesse a posto e non sognavo più
mio padre, lei veniva a ricordarmelo. Volevo dimenticare persino che esistesse un
posto chiamato Ibaraki.
“Mi dispiace. Le mie visite non le fanno piacere, immagino.”
Con l’aria di chi vuole scusarsi, ordinò il pranzo.
Era vero che non avessi piacere di vederla, ma quella donna aveva a cuore mio
padre e, anche se stavo lavorando, non potevo fare a meno di pensare che era
venuta fin lì apposta, quindi servii il pranzo con il sorriso sulle labbra. Mangiava in
modo grazioso. Dava l’impressione di consumare con gusto. Non lo faceva
controvoglia, nonostante fosse venuta per altri motivi.
Guardando una persona mentre mangia si capisce quello che prova. Non c’è posa
o galateo che tenga: all’occhio di una come me, che guarda la gente mangiare ogni
giorno, non sfugge nulla.
C’era anche la possibilità che la sua visita alla tomba di papà ci abbia aiutato,
seppur da lontano, a toglierci parte del peso che portavamo nel cuore. Il mondo
gira in direzioni che non possiamo neanche immaginare.
Quando alla fine le portai il caffè, mi sforzai di affrontare l’argomento.
“Grazie di essere andata in visita alla tomba di mio padre, l’altra volta. Io e mia
madre proprio non ci riusciamo, quindi le sono particolarmente grata.”
Dal volto della donna la tensione svanì in un momento, e mi rivolse un sorriso
sereno.
Credo che fosse convinta di non piacermi. Forse ne ero convinta anch’io, ma il suo
sguardo era sincero, e il mio cuore si arrese alla certezza delle sue buone
intenzioni.
“Con tutto quello che ho passato anch’io, non ce la facevo a lasciar correre. Mi
dispiace di averle causato brutti ricordi. Poi...”
Mentre parlava, tirò fuori da un grande zaino un piccolo sacchetto. All’interno
c’era un altro sacchetto, molto bello, in piqué.
“Me lo ha dato una persona che conosco.”
Di quel genere di cose non capivo nulla, quindi tirai a indovinare.
“Cos’è? Sale?”
La signora annuì. Ci avevo preso.
Con un sorriso, disse:
“Esatto. La persona che me l’ha dato ha una sensibilità sciamanica piuttosto
sviluppata, e mi è stata di grande aiuto, quindi sono tornata per darle un consiglio.
Sarà soltanto un palliativo, ma il giorno in cui deciderà di andare a visitare la tomba
o il luogo dove è morto suo padre, lo porti con sé, mi raccomando”.
Avrei voluto dirle che non avevo nessuna intenzione di andarci, ma non lo feci.
A quella donna era stato portato via il marito, le era stato quasi ucciso, poi
avevano divorziato e alla fine lui era morto. La sua esperienza doveva essere stata
tremenda. Era straordinario che si mostrasse così gentile e offrisse il suo aiuto a
una persona che non aveva mai visto, dopo essere riuscita, in parte, a ritrovare la
serenità e forse anche un poco di felicità. Provai una profonda stima per lei.
In fondo le probabilità che quel sale glielo tirassi dietro erano altissime.
Come se avesse indovinato i miei pensieri, la signora disse:
“Ti starai domandando perché lo faccio. Non posso sapere cosa provi davvero,
ma sento di poterti capire più di chiunque altro al mondo. È come se fossimo unite
in profondità. Non vogliamo odiare, ma finiamo per farlo. Non vogliamo dare la
colpa a nessuno, ma lo facciamo. Vorremmo prendere le cose alla leggera, ma ci
ritroviamo sempre a un punto morto”.
Annuii senza dire niente, perché era tutto vero. Poi le domandai:
“Io non mi sono mai rivolta a qualcuno per chiedere un consiglio in merito a
queste cose che... che non si vedono. Ma cos’ha detto quella persona a proposito
del mio caso?”.
La signora abbassò lo sguardo.
Poi, come facendosi coraggio, mi disse:
“Ha detto: ‘Quella donna sa rivelare la fascinazione che la morte esercita
segretamente sulle persone, e lo fa poco per volta, andandoci a letto insieme’”.
Fu come se qualcosa mi avesse trafitto il cuore da parte a parte.
Ogni volta che ci ripensavo era come se mio padre si allontanasse un po’ di più.
“Il fatto stesso che fosse alla ricerca di qualcuno con cui morire dimostra che
ormai lei non apparteneva più a questo mondo. Non dobbiamo provare compassione
per lei, ma neanche odiarla. Dipende tutto da noi, ha detto. Anche se io non lo
capisco fino in fondo.”
Aveva detto queste ultime parole con un accento leggermente diverso. Per un
attimo mi irrigidii, pensando che la donna morta doveva avere lo stesso accento.
“Per chi resta, però, la vita va avanti.”
In quel momento, qualcuno mi chiamò da un altro tavolo e dovetti allontanarmi.
“Sì. Grazie. Lo conserverò con cura, e lo spargerò nel luogo in cui mio padre è
morto, il giorno che ci andrò.”
Così dicendo, presi il grazioso sacchetto che conteneva il sale.
Dopo aver sorseggiato con calma il suo caffè, la donna se ne andò sorridente. Una
signora di mezza età uguale a tante altre, con la schiena curva e i polpacci torniti,
vestita in modo semplicissimo.
Una persona che forse non avrei incontrato mai più, ma unita a me in un legame
che una vita intera non avrebbe potuto spezzare.
Ma cosa diavolo è la vita?
Non sapevo davvero cosa pensare.
Quello che deve succedere, succede sempre tutto in una volta. E se i miei
comportamenti avevano un significato, doveva nascondersi proprio lì da qualche
parte, vago come una schiuma che affiorava dal mio incoscio.
Dall’ultima volta, le distanze tra me e Aratani si erano accorciate. Raccontarci a
vicenda ciò che ci stava a cuore doveva averci tranquillizzato. Mi ero pentita
sinceramente di avere disprezzato, in alcune occasioni, la reticenza di Aratani. Era
molto più maturo di quanto immaginassi, e mi voleva bene davvero.
Devo confessare che dentro di me ce l’avevo anche un po’ con lui perché credevo
che fosse interessato a me come “povera ragazza a cui è morto il papà”. Ma col
tempo mi convinsi che non era così. Conoscendolo, capii che si era sentito attratto
da me.
E così svanì anche la mia arroganza nei suoi confronti.
A dormire da lui non ero ancora andata, e nemmeno sentivo un desiderio
irrefrenabile di baciarlo in strada o negli ascensori, come fanno i liceali. Ma, se
camminavamo o stavamo seduti, ci succedeva sempre più spesso di ritrovarci mano
nella mano o attaccati l’uno all’altra.
All’orario di chiusura, come sempre, veniva a sedersi al bancone. Vedendolo, mi
dicevo che anche quello non sarebbe durato a lungo, e intanto mi facevo coraggio e
concludevo la mia giornata di lavoro, dopodiché uscivamo insieme.
Les Liens si preparava a chiudere.
Un giorno, mentre riordinava le mensole, Michiyo mormorò:
“E così niente più granite d’estate”.
Ero dispiaciuta anch’io. Proprio perché l’estate precedente era stata la peggiore
della mia vita, riuscivo a ricordare perfettamente quanto fossero fresche quelle
insalate, e fredde le granite. Mi regalavano un po’ di vita ogni volta che ne
mangiavo.
Ma per quanto il giorno della chiusura si approssimasse, in realtà si trattava solo
di un’interruzione, Michiyo e io saremmo andate avanti, avremmo riaperto il
ristorante. Ci dicemmo che non c’era alcun motivo di essere tristi, pulimmo tutto
per bene e ce ne andammo.
Quando ci salutammo, mentre chiudeva a chiave, Michiyo disse che eravamo
anche troppo commosse, considerato che non era ancora l’ultimo giorno.
Anche se sapevo che l’edificio sarebbe stato demolito, negli ultimi tempi ero
diventata ancora più scrupolosa nelle pulizie. Volevo che il pavimento fosse più
lucido, le finestre più lustre. Un po’ come quando ci si confronta con una persona di
cui si ha molta stima. Pulivo immaginando che in tutta la mia vita non l’avrei fatto
mai più.
Arrivai a pensare che sarebbe stato bello se con mio padre mi fossi comportata
allo stesso modo. Nel suo caso, sapevo che ormai non c’era più, e mi capitava più
spesso di cedere alla rassegnazione.
Aratani mi aspettava nel bar di Chizuru. Quella sera voleva bere assolutamente la
loro birra scura Higuma koi, e quando andai nel seminterrato lo scorsi, oltre il
suono assordante del rock anni settanta, seduto a un tavolo di fronte a mia madre.
Era un locale particolare, tutto fatto di vetro lavorato a mano, come un mosaico
composto da un Gaudí ubriaco. C’era una lucertola gigante attaccata al soffitto.
Internamente ricordava il mondo azteco, o forse spagnolo, con grandi tavoli di
legno pieni di parti concave e convesse. La musica era sempre a tutto volume,
ciononostante era un posto tranquillo e all’antica.
Quella sera, però, non feci caso all’arredamento e ai clienti. La vista di loro due a
me così familiari, uno di fronte all’altra, mi aveva dato fastidio.
Be’, sì, in fondo quello era il locale preferito di mia madre, quindi non dovevo
stupirmi, prima o poi sarebbe successo, o almeno così cercavo di convincermi
mentre, ostentando indifferenza, mi avvicinavo a loro col sorriso sulle labbra.
“Ah, Yocchan! Quindi è questo Aratani, eh?”
“Com’è che ve ne state qui a bere soli soletti?”
Dopo una giornata di lavoro avevo male alle gambe, e la voce mi uscì
leggermente seccata. Non credevo di essere così infantile. Ma a scioccarmi più di
tutto fu il fatto che, vedendoli insieme, non mi sentii sopraffatta da una gioia
incondizionata. Mi meravigliai che il mio primo pensiero fosse: “Questa non ci
voleva”.
Chiaramente imbarazzato, Aratani rispose:
“Scusa, è che ci siamo incontrati per caso e senza rendercene conto ci siamo
ritrovati a chiacchierare...”.
Mi misi a ridere.
“Ma certo, può succedere, no?”
Era arrivato il cameriere, quindi mi misi a sedere accanto a mia madre e ordinai
il solito.
“Una Red Fox e degli edamame, per favore.”
Poi mi tolsi il soprabito.
Il locale stava aperto fino a notte fonda, e mi era capitato anche di venirci da sola,
o di mangiarci con la mamma, quindi non era una novità.
La mamma disse:
“Aratani, sono contenta di aver potuto parlare con te”.
E mandò giù d’un sorso il suo cocktail. Poi aggiunse:
“Allora vi lascio. Non voglio fare da terzo incomodo”.
Ammirai in cuor mio la mamma per il tempismo con cui aveva calcolato la sua
uscita di scena. Poi le dissi:
“Macché. Torniamo insieme, no?”.
“No, largo ai giovani. E poi in televisione danno un programma che voglio vedere.
A dire la verità oggi pomeriggio mi sono portata il televisore grande dalla casa di
Meguro. Mi ha aiutato Hacchan.”
Rise.
“In quella stanza così piccola? E di quello che c’era che ne hai fatto?”
“L’ho portato a Meguro e l’ho lasciato lì.”
“Fai tutto di testa tua... Me l’aveva regalato un’amica.”
“Ma alla mia età la vista si abbassa, quel televisore così piccolo non andava bene,
e poi, scusa, aveva ancora il tubo catodico! Comunque lo vedrai con i tuoi occhi
quando torni. La stanza è così piccola che qualsiasi cosa acquista intensità, sembra
di stare al cinema. Ah, e poi ho portato anche un piccolo impianto stereo.”
“Sempre meno spazio. Resterà un po’ di posto per dormire, almeno?”
Parlavo così, ma in realtà ero contenta. La mamma si stava godendo il presente.
Poco per volta stava mettendo insieme il vecchio e il nuovo appartamento, e così
facendo accettava il passato.
“Ti aspetto a casa, al caldo. E se non dovessi rientrare, non fa niente!”
“Mamma!”
Senza curarsi delle mie proteste, andò a pagare. Pagò anche la mia parte. Poi se
ne andò via salendo le scale allegramente.
“In fondo se andiamo tutti negli stessi locali a un certo punto ci si deve incontrare
per forza” dissi, dopodiché, finalmente tranquilla, iniziai a bere.
“Hai una bella mamma.”
“Ma no, è imbarazzante. Hai mai visto una mamma che se ne va in giro a bere la
sera tardi? So già che quando tornerò non saprò nemmeno dove mettermi a
dormire, tra il televisore e l’impianto stereo.”
“Infatti. Peccato che se ne sia andata. Tieni.”
Aratani tirò fuori dalla borsa un oggetto avvolto in un pezzo di stoffa.
Tornai a provare una sensazione che avevo già provato di recente.
“Non l’ho potuto dire a tua madre.”
“Cosa?”
Aprì il pezzo di stoffa e tirò fuori una specie di amuleto.
Senza volerlo, dissi:
“Di nuovo?”.
“Di nuovo cosa?”
Allora gli parlai del sale che avevo ricevuto dalla signora.
Aratani annuì e rifletté per un momento.
“Ricordi quando ti ho parlato del suicidio e del rituale di purificazione? Allora mi
sono rivolto a un conoscente di mio padre, in un santuario vicino a casa. Quando hai
detto che forse un giorno saresti andata a Ibaraki, sono tornato al santuario e mi
sono fatto dare questo. Ho pensato che tenendolo con te ti saresti sentita meglio.”
Senza pensare, dissi: “Anche tu, Aratani!”.
“Ma no, non voglio dire che devi farlo per chissà quale ragione, semplicemente ho
pensato che potrebbe alleviarti il carico. Scusami, so che non sono affari miei, e ho
finito per essere invadente.”
Persino il tono della sua voce era simile a quello della signora, il che mi mise di
cattivo umore.
Mi scusai con lui.
“Mi dispiace, ho detto cose che non pensavo. Grazie, comunque.”
Aratani arrossì imbarazzato. Si era adombrato, ma io sapevo quanto fosse
tenero.
Mi piaceva sempre di più.
Non sapevo cosa mi bloccasse ancora.
L’amaro della birra si confondeva con le profondità della notte. Mi misi a pensare
come una bambina che volevo dimenticare dov’ero e cosa stessi facendo per andare
a casa di Aratani insieme a lui. Il pensiero di mio padre continuava a pungere come
una spina, ma la trasformazione della mamma si stava riflettendo su di me e
anch’io, dentro, stavo cambiando poco per volta.
Forse Aratani e io ci saremmo gradualmente avvicinati, non saremmo più riusciti
a separarci, avremmo trascorso qui tutte le nostre giornate. Tante cose sarebbero
successe, avremmo litigato, pianto, poi io sarei andata in Francia e sarei ritornata.
Mi sarei rimessa a lavorare, un giorno dopo l’altro, e magari a un certo punto
saremmo andati a vivere insieme, ci saremmo sposati, avremmo avuto un
bambino... Tutto era possibile, ma il futuro non si può prevedere. Una macchina
avrebbe potuto investirmi e uccidermi non appena avessi messo un piede fuori dal
bar. A Parigi avrei potuto incontrare il grande amore e non fare mai più ritorno qui.
Andando al lavoro, la sera successiva, Aratani si sarebbe potuto trovare
improvvisamente una donna bellissima alle calcagna, per la quale mi avrebbe
lasciato profondendosi in mille scuse. E allora è meglio fare tutto ciò che si può
senza risparmiarsi. Molto meglio, ne sono sicura.
Ma se tra noi le cose si fossero fatte subito più serie, sarebbe stato tutto troppo
semplice, e qualcosa di irrisolto mi sarebbe rimasto dentro. C’entrava mio padre, e
non potevo continuare a fingere di ignorarlo.
Se fossi andata avanti per la mia strada, avrei potuto vivere tutto alla luce del
sole, senza imbarazzi per nessuno. E allora avrei dovuto distogliere lo sguardo di
tanto in tanto, perché ci sarebbero stati sicuramente anche momenti bui, non tutto
sarebbe andato come previsto. Niente era certo.
Capii che proprio nella parte più grande e più nascosta nelle profondità
dell’imprevisto, sarei riuscita a individuare una versione in miniatura delle ragioni
che avevano portato alla morte di mio padre.
Ma ormai ero stanca anche di capire.
Era troppo faticoso. Volevo fare di testa mia, farmi sorreggere da lui in quel
preciso istante, stargli attaccata e chiudere gli occhi. Ma c’era ancora un velo a
separare la me normale, che avrebbe potuto attuare questo proposito, da quella più
profonda.
In presenza di quel velo non potevo fare nulla, perché il mio istinto mi diceva che
in seguito me ne sarei pentita. Non sapevo perché, ma era così. Non ero né troppo
cauta né troppo riflessiva. Semplicemente, quel velo era davanti ai miei occhi in
modo del tutto naturale.
Forse volevo stare ancora così, non ci sarebbe stato niente di male, non volevo
pensare a ciò che avrei potuto perdere, Aratani non sarebbe sparito. Fa che sia
così, fa che aspetti ancora un poco, dicevo tra me e me, carezzando di nascosto la
superficie dell’amuleto che mi aveva regalato.
Ma non sapevo nemmeno che cosa avrebbe dovuto aspettare.
Quando rientrai, il bel televisore a cristalli liquidi era nella malconcia stanza col
tatami e mia madre, come se si trovasse davanti allo schermo di una sala
cinematografica, aveva il volto tutto illuminato.
“Sono tornata. Impossibile non notarlo, quel televisore.”
“Uh? Sei tornata?”
“Non avrei dovuto?”
La mamma rispose sinceramente.
“No no, sono contenta. Volevo che vedessi com’è diventata lussuosa questa
stanza.”
Mentre mi preparavo una tisana, la mamma disse:
“Carino il tuo ragazzo!”.
“Eh, sì. È intelligente, e ha gusto per la musica, anche se non ci piacciono proprio
le stesse cose. Poi è raffinato, qualche volta è buffo: in definitiva è una brava
persona. Ti ha detto che gestisce quella live house a Shinjuku?”
“Sì, me l’ha detto. Me la ricordo. L’odore, la musica ad alto volume, il gin tonic
troppo forte nei bicchieri di plastica. All’epoca non mi piaceva granché. E tuo padre
era quasi offensivo a pretendere da sua moglie un look da signora piena di soldi,
mentre durante i live si divertiva come un ragazzino. Se fosse capitato oggi ci sarei
andata vestita così e me la sarei spassata ballando fino allo sfinimento. In fondo ero
giovane anch’io, allora. Giovane e seria. Forse pensavo di dover essere io,
comportandomi da adulta, a compensare l’impressione di leggerezza del lavoro di
tuo padre.”
Annuii in silenzio. Poi dissi:
“Piuttosto, che stai guardando?”.
Ci pensavo da prima.
Era un film che mi sembrava di avere già visto, ma doveva essere passato così
tanto tempo che non mi ricordavo niente. Yakushimaru Hiroko 1 e Matsuda
Yūsaku... 2
“ È Tantei monogatari. Qualche tempo fa, passando davanti al Lady Jane, mi è
venuta voglia di vedere Matsuda Yūsaku, così l’ho comprato e adesso lo stavo
guardando. È un bel film, vero? Recitano entrambi in modo superbo. Adoro questo
film, mi piace davvero tanto. Ah, perché non sono venuta ad abitare in questo
quartiere quando Matsuda Yūsaku era ancora vivo? Forse qualche sera l’avrei
incontrato in strada, per caso. E poi chissà che cosa gli avrei fatto.”
“Questo film sono andata a vederlo al cinema con papà quando ero bambina. Però
ero troppo piccola e non ci ho capito niente.”
“Sì, infatti, a tuo padre piaceva Matsuda Yūsaku. Forse era un po’ il suo idolo.”
Parlava con calma, come quando papà era ancora vivo.
Forse anche quello era un segno.
I film procedono nella sola direzione della scena con bacio finale, portandosi
dietro tutta la passione.
Scrissi una mail ad Aratani per chiedergli tempo, visto che le cose si erano
evolute troppo in fretta, e io non sapevo più cosa pensare. La sua risposta fu:
“Chiama quando vuoi, ti aspetto. Continuerò a venire al ristorante come sempre.
Ormai non posso più vivere senza la vostra cucina”.
Questo lato di lui mi piaceva, e mi fece sorridere.
Mi piaceva, niente di più. Però non mi sembrava ancora il momento di dirglielo, e
continuai a essere felice quando Aratani, una volta ogni tre giorni circa, veniva al
ristorante. Ci scambiavamo qualche bacio e magari ci prendevamo per mano, ma
senza andare oltre. Aratani era deciso ad aspettare, mentre io non ero ancora nelle
condizioni mentali adatte per dirgli qualcosa di definitivo. Ero tutta presa dai
preparativi in vista della chiusura. E Aratani, che lo sapeva, ebbe l’accortezza di
non coinvolgermi in conversazioni troppo impegnative.
Ma da qualche parte, dentro di me, sapevo che lui si era abituato. Non era tanto
per me, ma per tutto l’insieme: non si sarebbe messo certo a correre dietro ad
altre donne.
Ero confusa, mortificata, per niente contenta.
In un colpo solo mi ero tolta sia il peso di tenere nascosto qualcosa a mia madre,
sia l’ansia degli ultimi giorni di lavoro al ristorante, quando dovevo stare attenta a
non ammalarmi. E infatti quella notte mi venne la febbre. Sembrava una di quelle
febbri da crescita, salì all’improvviso e dopo neanche tre ore scese del tutto.
Bevvi molta acqua e me ne restai tutto il tempo nel futon. La mamma mi preparò
una bevanda bollente di miele e limone, che mandai giù tremando. Mentre quel
sapore aspro si faceva strada dentro di me, fissai le macchie del vecchio tatami.
Sono i classici particolari che si notano di più quando si ha la febbre. Ciononostante,
non sentii alcun desiderio di ritornare nella mia stanza della vecchia e pulitissima
casa. Era la casa della mia famiglia, e quel tempo, ormai, era finito.
La mamma disse:
“Come al solito ho voglia di vedere Matsuda Yūsaku. Tengo il volume basso, non
preoccuparti”.
Stavolta era A Homance che si era messa a guardare su quello schermo gigante.
Nella mia testa febbricitante, la giovane Tezuka Satomi 3 era bella come un
angelo.
Le luci intermittenti della televisione nella stanza buia mi fecero tornare in mente
un viaggio fatto tutti e tre insieme. Mi sembrò di rivivere quella volta che mi ero
addormentata nella stanza di un ryokan, mentre papà e mamma sonnecchiavano
davanti alla televisione.
Ripensandoci, forse per la prima volta da quando era successo quello che era
successo, versai lacrime “normali”.
Non fu un pianto disperato, non fu odio, né dolore, né risentimento, neanche
rimorso.
Scendevano una dopo l’altra, inarrestabili: erano le lacrime di chi ha appena
scoperto di non essere più un bambino, e ripensa con nostalgia a un tempo che è
passato.
Anche se quando piangevamo cercavamo di nasconderlo, sia la mamma che io ci
eravamo abituate, ormai. Così tanto che quella volta, pur essendosene accorta, non
disse nulla. Non c’era né freddezza né calore. Eravamo nella stessa stanza e
provavamo le stesse emozioni.
Mi dissi che ero fortunata a capirlo, adesso.
Lo ero in un modo diverso da quando, con il mio ragazzo, mi ero entusiasmata in
quel ristorante di carne arrostita. A un livello più profondo, lo sentivo, mi stavano
dando tregua.
Aprii gli occhi, guardai l’orologio, pensai di essere in ritardo ma poi ci ripensai, e
mi resi conto che il ristorante, ormai, non c’era più. Mi sembrava strano non aver
niente da fare fino all’anno nuovo. Ero frastornata, era come se il mio corpo volesse
ancora andare a lavorare. Come se avessi dimenticato chissà dove una parte di me.
La mamma era già uscita, e sui fornelli aveva lasciato dell’okayu per me. Doveva
essere perché avevo avuto la febbre e avevo pianto.
Il cielo invernale era di un bell’azzurro, il vento sibilava.
I l tatami della stanza era abbagliante, come se una luce bianca vi si fosse
riversata sopra.
Con in bocca il sapore dolce dell’okayu, guardai giù dalla finestra il ristorante con
tutte le luci spente, e mi sentii triste. Non era un semplice giorno festivo: quel posto
non sarebbe mai più ritornato a vivere. Fra pochi giorni sarebbero arrivati quelli
della società edile e avrebbero portato fuori tutti gli elettrodomestici dalla cucina.
Quelli ancora buoni li avremmo lasciati per qualche tempo a casa di Michiyo. Per il
viaggio in Francia, era andata a finire che Michiyo sarebbe partita a metà gennaio
e io a febbraio, e avremmo cominciato incontrandoci a Parigi per mangiare
ostriche. Di cose da fare ne avevo, tra il passaporto da rinnovare e la valigia da
andare a prendere a casa, ma per il momento volevo starmene così, senza pensare
a niente.
Il cielo era infinito, sembrava voler arrivare dappertutto, come i tentacoli di un
polpo.
All’improvviso mi dissi che era giunta l’ora di andare a Ibaraki. Col mio sale e il
mio amuleto, prima di mezzogiorno, finché ancora c’era luce. Con quel bel tempo, e
frastornata com’ero, forse sarebbe stata la volta buona.
Misi insieme un semplice bagaglio e uscii di casa, dopo aver inviato a mia madre,
che probabilmente era al lavoro, questo messaggio: “La febbre è scesa, quindi vado
a Ibaraki per quella commemorazione. Non dovrei restare per la notte”.
Arrivai alla stazione di Tōkyō, presi il biglietto per il pullman, al piano sotterraneo
comprai onigiri e tè, e quando mancavano quindici minuti alla partenza mi sedetti
su una panchina. Guardando la rotonda e i pullman che partivano per diverse
destinazioni, e l’andatura rilassata di chi si metteva in viaggio per chissà dove,
all’improvviso provai una gran tristezza. Non era successo niente, però scappai in
lacrime, respiravo a fatica, mi sentivo perduta. Non sapevo che fare, il pullman
sarebbe partito a momenti e io dovevo calmarmi, ma più mi dicevo così e più la
tristezza prendeva il sopravvento. Fui assalita dalla sensazione inspiegabile di aver
perso tutto.
La mamma, dovevo telefonare alla mamma. Nel tirare fuori il cellulare, mi
accorsi che in memoria c’era una chiamata ricevuta. Pensai che fosse Aratani, e
invece era Yamazaki. Come per riflesso, richiamai.
“Pronto.”
La voce di Yamazaki riuscì a tranquilizzarmi anche in quell’occasione.
“Buongiorno. Mi hai cercato?”
Avevo la voce nasale e in più stavo piangendo come una fontana, ma mi sforzai di
esprimermi educatamente.
Senza scomporsi, Yamazaki disse:
“Mi domandavo cosa avessi deciso di fare per Ibaraki, e così ti ho chiamato. Oggi
il tempo è bello, è la giornata perfetta per una gita. Ah, non voglio dire che
dobbiamo andare oggi. Semplicemente me ne sono ricordato”.
Piangendo risposi:
“Andiamoci oggi. A dire la verità, in questo momento mi trovo alla stazione di
Tōkyō e sto per salire su un pullman diretto a Suigō Itako. Solo che mi sento triste,
mi sono messa a piangere, vorrei un compagno di viaggio”.
“Eh? Adesso? Ma soprattutto... Stai piangendo? E tua madre?”
“Si è rifiutata. Mi ha detto di no, non c’è stato verso di convincerla.”
Non appena lo dissi la tristezza e la voglia di piangere diventarono più intense e
mi misi a singhiozzare. Yamazaki tacque per un po’. Per un intervallo abbastanza
lungo, si sentì soltanto il mio pianto. Poi Yamazaki, fatti passare alcuni minuti, disse
con voce allegra:
“Va bene, andiamo. Oggi non ho niente da fare, mi fa piacere. Yocchan, stai per
prendere il pullman? Io sono in auto. Ti vengo dietro?”.
Che persona straordinaria, pensai. Poi risposi in tutta sincerità:
“D’accordo, ti aspetto. Potresti chiamarmi quando arrivi a Suigō Itako e Kashima,
magari?”
Adesso sarebbe andato tutto bene.
“Credo che si farà tardi, però.”
“Va bene, allora farò un bagno da Sante.”
“Ho capito. Programmerò il navigatore su questa destinazione. Quando arrivo ti
chiamo.”
Per un momento il suo spirito d’iniziativa mi lasciò frastornata. Rischiavo di
prendermi una cotta per lui. Il mio cuore, che fino a poco prima aveva perso di vista
la strada da seguire, adesso aveva ritrovato calore. Entusiasta, salii sul pullman.
Mi resi conto che avrei voluto davvero la mamma con me.
Avevo sempre pensato che dopo i vent’anni si potesse fare qualsiasi cosa da soli,
ma mi sbagliavo di grosso. Era l’ennesima conferma che avevo ancora tutto da
imparare. Eppure quel senso di sconfitta aveva un che di rassicurante. La tensione
si era sciolta, allentata, potevo solo ricominciare daccapo, ero a terra e avevo
voglia di guardare in alto.
Il pullman partì, entrò in autostrada, e nel tempo di un pisolino arrivò a
destinazione. Quel posto era un campo esposto al vento e senza niente intorno...
L’ultima volta che c’ero andata il paesaggio non si vedeva, ma adesso sì. Si vedeva
anche il vento, che attraversava un cielo profondo, altissimo e terso. Vedevo la
distesa d’erba, scintillante di luce dorata. Osservandolo con animo calmo, quel
paesaggio era completamente diverso.
Da lì presi un taxi e mi diressi verso il luogo dell’appuntamento.
La stazione termale si trovava in un punto dal quale si vedeva il mare, appena
entrati sulla statale. Come una normale turista, infilai il mio grosso bagaglio
nell’armadietto, e poi mi unii alle vecchiette del posto e mi lavai. Restai per un
tempo interminabile nella grossa vasca all’aria aperta a guardare la vastità del
cielo azzurro, le onde del mare che si sollevavano impetuose, lontano oltre gli
alberi. Era tanto che non vedevo spazi così grandi, così ampi, e sentii allargarsi il
cuore. Avevo fatto bene a venire qui.
Perlomeno avevo capito che in quel periodo Yamazaki mi andava più a genio di
Aratani. Ed era stata una liberazione. Ero stata fortunata anche a rendermi conto
che Aratani non mi sarebbe mai così piaciuto da volerlo sposare. Quella sera,
quando non era riuscito a resistere, Aratani mi aveva mostrato il suo lato migliore,
eppure a me non era piaciuto. Mi dicevo che se avesse aspettato un altro po’,
magari, le cose sarebbero andate diversamente.
Conosceva troppo le donne perché potessi fidarmi di lui fino in fondo. Pensavo che
se il mio corpo l’avesse desiderato per primo, avrei rischiato di mettere da parte il
cuore.
In fondo perché la mamma stava guardando Tantei monogatari? E il film, per
giunta, non la serie televisiva. Non era forse già lì dentro, la risposta?
Uscii dopo circa un’ora, e nel cellulare trovai il messaggio: “Sono arrivato ma non
rispondi, quindi faccio un bagno. Ci vediamo nella hall”.
Mentre sonnecchiavo nella hall, arrivò Yamazaki che era appena uscito
dall’acqua. Sembrava una riunione di famiglia.
“Ciao, Yocchan.”
Dalla mia posizione distesa guardavo nel profondo degli occhi grandi e rotondi di
Yamazaki: era quello il luogo in cui avrei trovato rifugio, ne ero certa. Ero
governata da quella singolare tranquillità. Non era razionale, ma vedevo uno spazio
vuoto in cui mi sarei potuta immergere agevolmente. Ero sicura di non sbagliarmi.
Non c’entrava con quante volte l’avevo incontrato, cos’era successo, quello che
aveva fatto per me. Non mi sbagliavo, ero attratta da lui. Anche se aveva una
moglie bellissima, anche se non avrebbe mai saputo ciò che provavo.
Mi alzai e dissi:
“Scusa se non ti ho risposto al telefono. E scusa anche se ti ho fatto venire fin
qui”.
“Dopo il bagno ci vorrebbe proprio una bella birra, ma devo guidare.”
Rise. Poi aggiunse:
“Oggi non avevo niente da fare, e poi sono venuto perché mi andava, quindi non
preoccuparti. Però...”.
Quanti anni aveva Yamazaki? Intorno ai quarantacinque, forse. Nonostante fosse
più giovane di mio padre, gliene avevo dati sempre di più per via del suo
temperamento calmo. A guardarlo bene aveva una pelle giovane, mentre i vestiti
che portava erano sempre da vecchio. Doveva essere per quello.
“... Come dire... C’è qualcosa nel vento, oggi, nel cielo, che mi ha fatto venire
voglia di visitare la tomba di Imo, quindi ti ho chiamato. Non avevo pensato
minimamente di venire fin qui, ma va bene. In una giornata piena di sole come oggi,
un’anima può trovare finalmente pace, non credi?”
Guardando il profilo di Yamazaki – quello sì che era da signore di mezza età –
mentre parlava, mi sentii ancora più serena. Quindi era proprio così, era stato il
cielo, ci avevo pensato anch’io.
“È vero. È la giornata ideale per portare a termine qualcosa.”
Basta farsi viziare, basta appoggiarsi agli altri. Decisi di comportarmi da pari a
pari.
“Qualcosa che, altrimenti, non ci lascerebbe andare avanti. L’amuleto e il sale
che porto in borsa si stanno facendo sempre più pesanti. Ma quando la mamma mi
ha piantato in asso mi sono sentita più triste di quanto avessi immaginato. Quindi
sono felice che tu sia venuto. A essere sinceri, l’idea di andare fin lì da sola mi dava
i brividi. Ti ringrazio, davvero.”
“Yocchan, in così poco tempo sembri essere diventata adulta.”
“È solo che sono capitate delle cose, e ho capito di essere una bambina.”
Il posto in cui quella donna e mio padre si erano suicidati si trovava nei pressi di
un piccolo villaggio, in una foresta distante dalla statale.
Parevano rovine disabitate... una piattaforma di legno marcia e cadente, edifici
con i vetri rotti, usati forse solo d’estate. Vicino a un gruppo di case di villeggiatura
con le tavole da surf lasciate appoggiate e abbandonate, una strada senza abitanti,
senza passanti, priva di pavimentazione, la cui visuale era compromessa dai rami
degli alberi che poco alla volta sono arrivati fin lì dalla foresta. Era in fondo a quella
strada.
A trovare la coppia (non vorrei parlare di coppia, ma devo) era stata la moglie di
un illustratore che abitava poco lontano da lì. Loro due erano tra i pochi a essersi
trasferiti lì e a viverci tutto l’anno. L’auto era rimasta ferma a lungo in fondo a
quella strada senza uscita, e quindi la signora ci si era avvicinata durante la
passeggiata con il cane.
Era una donna molto gentile, sinceramente dispiaciuta per noi, e aveva anche
preparato del tè caldo per la mamma e per me, che eravamo sotto choc. Qualche
giorno dopo le facemmo recapitare dei dolci per ringraziarla, e in quell’occasione ci
scrisse una lettera molto delicata. L’illustratore fece uno splendido disegno che
allegò alla lettera.
Anche in quel giorno tragico c’era stata una piccola luce, pensai ricordandomi di
loro. Intanto il vento soffiava attraverso la foresta, mentre la vecchia Mini Cooper
di Yamazaki si avventurava all’interno. L’auto era già abbastanza instabile, ma
sullo sterrato ballava ancora di più. In salita sembrava di essere sulle montagne
russe.
Poi restammo in silenzio.
Mano a mano che gli spiegavo la strada, mi sentivo mancare il respiro e mi girava
la testa. Ci sto davvero andando? mi domandavo.
Naturalmente l’auto di mio padre non era più lì, e quella scena tremenda non
l’avrei più rivista. Ci sarebbe stata soltanto la strada senza uscita, vuota, coperta
dal fogliame secco.
Che posto terribile, delle persone erano morte lì. Mio padre non era stato felice
lì, in quel luogo la sua vita era terminata. La sua musica, le sue esecuzioni
meravigliose, il tempo passato con noi, era stato tutto risucchiato in quello squallido
buco nero: ecco che posto era.
Dissi a Yamazaki che eravamo arrivati, e lui spense il motore.
Scesi dall’auto e dissi:
“Se lasciassi qui l’amuleto, a chi ci abita potrebbe fare impressione, non credi?”.
“Ma no, non credo. E se lo sotterrassimo?”
“Lo sotterriamo a bordo strada?”
Yamazaki tirò fuori dal cofano dell’auto – non so perché ce l’avesse – una vanga.
Non una pala, proprio una vanga.
“Quella... Quando... Per cosa l’hai usata?”
Rise.
“Parecchio tempo fa mia moglie ha piantato dei tuberi a casa dei suoi genitori. Ce
l’ho da allora.”
“Tua moglie sta bene?”
“Abbiamo divorziato due anni fa. Se n’è andata di casa. Ehi, non è stato per una
mia scappatella! Non che non ce ne siano state di scappatelle... ma comunque lei
era una donna difficile. Voleva dei figli ma non riusciva ad averne. Si è trovata un
ragazzo giovane, ha divorziato da me, ha sposato lui e alla fine, in età matura, ha
avuto un bambino.”
Sentendo ciò, a dire il vero, fui un po’ contenta. Ma trattandosi di lui, sicuramente
doveva avere già un’altra donna accanto.
“Davvero? Be’, con una donna così bella certe cose possono capitare. È un
peccato, però. Stavate bene insieme. Lo pensava anche mia madre.”
“Imo se n’è andato, io ho divorziato: in questi due o tre anni sono cambiate tante
cose. Quasi ci si stupisce di riuscire a vivere normalmente.”
“Io ho ancora mia madre, ma mi sento come se avessi perso tutto.”
“È perché pensi con le parole, Yocchan. Parecchie risposte non vengono mai
fuori, nemmeno a furia di girarci intorno. Ma per te trascorrere il tempo così è
normale, e non ti chiedi mai se sia infantile, o sbagliato. Eppure c’è un altro modo di
trascorrere il tempo. Si può anche stare fermi a guardare nel vuoto, senza pensare
a niente, in attesa che tutto passi. Forse tua madre ha scelto questa seconda
strada.”
Nella sua voce risuonava un’emozione sincera. Tacqui, perché aveva colto nel
segno.
“Guardandola ti preoccupi e pensi di dover riflettere al posto suo. Ma nessuno
può riflettere al posto di qualcun altro, per quanto vicini si possa essere. In fondo
questo è il tuo lato tenero, il tuo lato buono. Tu dai sempre il massimo, in qualsiasi
occasione, ti preoccupi degli altri costantemente, ti muovi e pensi per loro senza
sprecare un momento, e questo eccesso di coraggio, a un certo punto, sfocia nel
pianto.”
“Quando mi metto a riflettere sprigiono una tale energia che la si potrebbe
utilizzare per mettere in moto i treni. Però stavolta non avrei potuto davvero fare
nient’altro. Non avevo mai pensato così tanto, prima d’ora.”
“No, Yocchan, tu cerchi di pensare al posto degli altri sin da quando eri bambina.
Sia Imo che tua madre appartenevano a quella categoria di persone che pensa a
cose fatte, e sei sempre stata tu a pensare per conto loro. Ma loro non ci facevano
troppo caso. All’epoca ricordo di aver pensato spesso che per i figli unici la vita è
dura. Eri sempre preoccupata, dicevi ai tuoi genitori di non fare qualcosa o il giorno
dopo avrebbero avuto la febbre, di non mangiare troppo o si sarebbero sentiti
male... Credo che sia arrivato il momento di pensare solo a te stessa.”
“Grazie, Yamazaki.”
Gli ero grata per le sue parole, gli ero grata dal profondo del cuore per essermi
stato a guardare tutto quel tempo.
Scavammo insieme una buca. Mi sentivo in colpa a sotterrare quell’amuleto, ma
agli dèi non avrebbe potuto dare più fastidio dell’idea che lì fosse morto qualcuno.
Be’, ma per gli dèi, in fondo, niente è un fastidio. Neanche eventi più gravi, come un
doppio suicidio o un omicidio. Questo pensiero mi fece sentire leggera.
Rivolgendo un ringraziamento ad Aratani, sotterrai l’amuleto che mi aveva
regalato.
Poi, senza pensare, tirai fuori un oggetto che tenevo con me.
Il telefono cellulare di mio padre.
Lo stesso che avevo visto tante volte in sogno.
Quella mattina mio padre l’aveva dimenticato. Dopo la sua morte, il telefono era
rimasto in carica. I poliziotti se l’erano portato via dicendo che dovevano
controllarlo. Naturalmente nella memoria c’erano molti messaggi e chiamate di
quella donna, e oltre a quelli videro anche i banali scambi di messaggi con me e con
la mamma. Se quella mattina non l’avesse dimenticato a casa, forse a un certo
punto avrebbe potuto chiamarci, forse ci saremmo accorte che c’era qualcosa di
strano e saremmo riuscite a intervenire per fermarli. Quest’idea ci aveva
tormentato a lungo. Infine, una sera, la polizia ci aveva riconsegnato il telefono
avvolto in un sacchetto di plastica. La mamma l’aveva gettato sul pavimento
dell’ingresso e, piena di rabbia, l’aveva calpestato più e più volte, rompendolo. Poi,
con la faccia a terra, aveva pianto a dirotto. Osservando l’impeto della sua
reazione, non ero riuscita a trattenere le lacrime. Mentre piangevo urlavo, perché
non era giusto che mia madre avesse dovuto vedere i dati contenuti lì dentro, e non
era giusto che la nostra vita fosse stata esposta allo sguardo altrui.
Quel cellulare ridotto in pezzi era morto almeno quanto mio padre, ma mentre lo
raccoglievo mi resi conto che non sarei riuscita a disfarmene, e così lo tenni con
me.
Lo sotterrai insieme all’amuleto. Senza sapere perché, mi sentii un po’ in colpa
nei confronti di papà, ma volli farlo lo stesso. Sapevo che se avessi continuato a
tenerlo avrei sofferto ancora di più. Di ricordi materiali, in fondo, ce n’erano tanti.
Non me ne serviva uno così triste.
Volevo sotterrarlo, così, in sogno, magari mio padre avrebbe smesso di cercarlo.
Poi, senza un motivo preciso, rimisi le foglie secche al loro posto, coprendo tutto.
Dolcemente, con gentilezza, gli rivolsi un pensiero. Papà, adesso lo spirito del
cellulare arriverà da te, così potrai telefonarci quanto vuoi.
Prima, Yamazaki aveva detto:
“Non è il cellulare di Imo, quello? Da quanto non lo vedevo... Come mai è così
rovinato? Fa venire i brividi!”.
E poi, ridendo, aveva aggiunto:
“Puoi anche evitare di ricoprire tutto con le foglie, non è mica un trappola per
animali!”.
L’aveva detto in modo buffo, e fece ridere anche me. Accompagnate dal vento, le
nostre risate risuonarono leggere tra gli alberi.
Aprii il sacchetto, divisi il sale con Yamazaki, e come in un rituale di purificazione
lo spargemmo tutt’intorno. Poi giungemmo le mani in preghiera.
Papà, la tua foto è a Shimokitazawa, la tua anima è libera. Credo che la mamma
sia ancora un po’ arrabbiata, ma in fondo nessuno ce l’ha davvero più con te. E
prego anche per lei, signora, anche se non la conosco, prego per lei, donna bella e
infelice, per il suo tragico destino, causato forse da uno scherzo pessimo di mia zia,
bella anche lei in gioventù. Prego anche se di lei non so niente, anche se non
m’interessa, anche se non voglio sapere niente. Prego perché non torni a cercare il
suicidio in una nuova vita. Capisco il desiderio di morire, ma per chi resta è una
cosa terribile. La nostra vita, ormai, è cambiata per sempre.
“Mi sento un po’ meglio.”
Le parole di Yamazaki mi fecero aprire gli occhi di scatto.
Non stava chiedendo a me, diceva che era lui a sentirsi meglio, quindi mi
tranquillizzai.
Così come era giusto che mia madre non venisse, non potevo neanche pretendere
una cosa del genere da lui.
Mi alzai in piedi dicendomi che avrei visitato la tomba, ma lì non sarei più tornata.
E così feci un inchino in direzione della casa dell’illustratore, le cui luci brillavano in
lontananza.
Prego perché possiate vivere a lungo e felicemente. Grazie di tutto.
“Anch’io sono riuscita in parte a mettermi l’anima in pace. Ogni volta che pensavo
a questo posto mi tornavano in mente le pattuglie della polizia e l’auto ferma, e mi
deprimevo. Adesso ho sovrapposto a quell’immagine il paesaggio di oggi, e ho la
sensazione di essermi tolta un peso.”
Mentre parlavo ero calma, ma lo stesso iniziai a versare lacrime copiose.
Mentre stavo per allontanarmi per sempre da quel luogo, mi tornò in mente
all’improvviso il tepore del tè che ci aveva preparato la moglie dell’illustratore. Ce
l’aveva porto con un sorriso, dicendo: “Ecco” con una voce cristallina, mentre alle
sue spalle il marito ci guardava in silenzio. In quegli occhi profondi si rifletteva il
ricordo di chi ha visto tanto, il ricordo del tempo vissuto al fianco di sua moglie.
Sicuramente anche loro erano scioccati e sconvolti, eppure si erano presi cura di
noi senza farcelo capire, fingendo di essere tranquilli. La mamma e io bevemmo il
tè e non pensammo ad altro. Non ne avremmo mai dimenticato il sapore. Era il
gusto della gentilezza disinteressata, che non si aspetta ricompense.
“Lo spero per te.”
Così dicendo, Yamazaki guardò l’orologio.
“Sono già le quattro. Non siamo riusciti a visitare l’acquario di Ōarai. Va bene lo
stesso, in fondo siamo andati alle terme.”
“No, andiamoci.”
Il cuore mi batteva all’impazzata. Stavo arrossendo, ne ero sicura.
“Ci andiamo domattina, sarà la prima cosa che faremo.”
“Yocchan, ma cosa stai dicendo? Imo mi ammazza.”
“Ormai è morto, non ti può ammazzare.”
“Torna apposta per ammazzarmi.”
Si mise a ridere. Vedendo i suoi denti perfetti, pensai che il suo sorriso era il più
bello che avessi mai visto. Il paesaggio tetro della foresta d’inverno, intorno a noi,
sembrava sfavillare.
“Non deve succedere per forza qualcosa, voglio divertirmi a oltranza. Ora come
ora posso soltanto divertirmi.”
Yamazaki mi ascoltava in silenzio. Infilai le mani in tasca e guardando in alto
verso il cielo dissi:
“E se pure dovesse succedere qualcosa, per me andrebbe bene. Io non sono
proprietà di nessuno. E poi vorrei proprio vedere com’è fatta quell’energia
sprigionata dall’unione di un uomo e di una donna che ha ucciso mio padre”.
Mi guardava con occhi severi.
Tacque per qualche istante. Poi disse:
“Yocchan, penso che nessun uomo della mia età direbbe che non gli piaci, che non
ti trova carina, che non vorrebbe portarti a letto. È così che sono fatti gli uomini.
Ma se ti facessi qualcosa, mi odierei domani stesso. Non potrei vivere. Quindi
smettila di parlare così”.
Annuii senza dire niente.
Le lacrime scendevano una dopo l’altra, Yamazaki mi piaceva sempre di più: era
un’ingiustizia.
“Posso innamorarmi di te?”
“Yocchan, non sei nelle condizioni per innamorarti di qualcuno. Quelli che non
sono in grado di capirlo, o che cercano di approfittarsene, sono degli idioti.”
Volevo dirgli che a volte, anche se uno lo capisce, finisce per farlo comunque, ma
tacqui.
“Credo che tu abbia ragione. Forse cerco solo un sostegno. L’uomo di casa è
venuto a mancare all’improvviso, deve essere per quello.”
Yamazaki scoppiò a ridere.
“Che sagoma sei, Yocchan. Mi hai fatto ridere.”
“Allora la prossima volta andiamo all’acquario di Ōarai, va bene? Mi ci
accompagni? Possiamo portare anche la mamma, e magari fermarci per la notte. In
fondo è solo questo luogo qui che vuole dimenticare. A papà gli acquari piacevano
moltissimo, per questo ci voglio andare.”
“Va bene. Quando farà più caldo ci andremo, e inviteremo anche tua madre. Oggi
però rientriamo. Bisogna offrire un banchetto per la purificazione. Adesso torniamo
a Tōkyō, parcheggiamo e lo facciamo. Brindiamo con del sakè e mangiamo
qualcosa. Concediamoci il lusso di mangiare qualcosa di costoso.”
“Allora dividiamo le spese.”
“Mi beccherei un pugno da Imo.”
Yamazaki sorrise.
“Te lo beccheresti comunque, dal momento che siamo insieme, quindi che
importa?”
Così dicendo mi misi a ridere anch’io. Stavo facendo i capricci, mi perdonavo
qualsiasi cosa: ero assolutamente soddisfatta.
Il mio animo, naturalmente, non si era rasserenato.
Per quante volte lo vedessi, il luogo in cui mio padre era morto restava un luogo
desolato e cruento, e la donna che era insieme a lui era ancora un enigma. Non
sapevo nemmeno quale fosse davvero il suo stato d’animo, in quel momento. Ma
forse non dipendeva da quello. In ogni caso, il cielo era limpido e l’aria pulita, la mia
vita continuava, la mamma c’era ancora. È impossibile conoscere i veri sentimenti
di qualcuno. E non è necessario. Di quel giorno, ormai, non restava più niente.
Visitare un luogo triste provoca sempre sofferenza, andare a mangiare qualcosa
di buono con una persona con cui andiamo d’accordo aiuta a sentirsi meglio, tutto
qui. Non era necessario che conoscessi lo stato d’animo di mio padre. C’erano tante
cose che mi piacevano di lui, del resto non m’importava.
Andava bene anche così, con le incertezze, il senso di disgusto, la lentezza, la
confusione, le difficoltà di tutti noi.
Va bene, va bene. Va bene così, comunque vada.
In fondo ero viva, e con me c’era la persona di cui probabilmente ero davvero
innamorata.
Nella penombra che ora aveva avvolto la foresta, mi fu chiaro per la prima volta il
significato di quel modo di pensare. Capii cosa avesse provato mia madre
presentandosi a casa mia e riuscii finalmente a considerarla una persona, non un
genitore.
Era come se il senso di tutto mi fosse piovuto nelle mani all’improvviso, come se
del terriccio fertile, soffice e abbondante, esposto al sole in uno spazio aperto,
avesse assunto la forma della risposta di cui avevo bisogno.
Il ristorante di cui Yamazaki era cliente fisso non serviva solo soba, ma
praticamente qualsiasi piatto della cucina giapponese. Poco per volta ci portarono
stuzzichini preparati con ingredienti pregiati, e alla fine arrivarono degli
straordinari soba fatti a mano. Mi ricordai che Michiyo una volta mi aveva detto
che ristoranti del genere, ormai, ce ne sono così tanti che non si riesce a provarli
tutti. Apparentemente tra i bistrot e i soba non c’è nessuna relazione, ma Michiyo
andava sempre in giro alla scoperta di cose buone, era una vera e propria ricerca.
Mi dissi che dovevo parlarle di quel ristorante, ma mi ricordai che il giorno dopo
non sarei andata al lavoro e rimasi frastornata.
In momenti del genere capivo quanto dipendessi da quel posto.
Quando Yamazaki andò a lasciare l’auto nel parcheggio di casa sua, io lo aspettai
in una libreria di fronte alla stazione. Lo vidi arrivare sorridente – si era in parte
cambiato d’abito – mentre ero vicino allo scaffale delle novità. Era tutto molto
naturale, come se ci frequentassimo da sempre. Però sapevo che si trattava di
un’illusione, perché dal giorno successivo non l’avrei più rivisto per chissà quanto
tempo.
S u l tatami del ristorante di soba bevemmo sakè e mangiammo manicaretti
deliziosi. Con molta sincerità, dissi:
“Teoricamente dovrei essere io a pagare, visto che tu ti sei offerto di
accompagnarmi, però questo posto è carissimo, ed è già tanto se riesco a dividere”.
“Sono io che ho proposto di venire qui, e poi volevo farmi bello, quindi lascia che
stavolta paghi io. Visto che sei un’esperta di cucina ho pensato che fosse meglio
evitare sia i rāmen che lo yakiniku, inoltre mangiare pesce non avrebbe avuto
senso, visto che siamo appena tornati da un posto la cui specialità è proprio quella.
Non mi restava che questo ristorante. La prossima volta mi offri tu qualcosa.
L’acquario, per esempio. Ci sarei voluto andare. Mi piacciono davvero tanto gli
acquari. Di quello lì adoro la vasca con i pescecani. E poi, verso la fine, c’è una
specie di jungle gym, con un design bellissimo. Guardare i bambini che ci giocano
riempie il cuore. Commuove, quasi.”
“Cerchiamo di andarci prima dell’estate, ne ho molta voglia anch’io. Purtroppo a
una certa ora gli acquari chiudono. Dobbiamo arrivare presto. Allora oggi offri tu, e
quando andremo all’acquario lascerai fare a me. E sai cosa ti dico? Mi prendo
anche il nabe di funghi!”
Mentre chiacchieravamo così mi dissi che era stata una fortuna che la mia ultima
conversazione con papà fosse un bel ricordo. È sempre bello parlare di cose buone
da mangiare.
Quando l’ultima porzione di soba arrivò, era così buona che mangiammo senza
dire neanche una parola. Sorbiva senza fare troppo rumore, era molto tenero. In
seguito mi disse che il riuscire a non fare rumore quando mangiava i soba per lui
era una specie di complesso.
“Tua madre sa che abbiamo parlato?”
“Sì, lo sa. Quindi possiamo andare tranquillamente tutti insieme all’acquario.”
“Yocchan, non sai tenerti niente, eh?”
Si mise a ridere.
“Te l’ho detto che non sono matura. Anche adesso ho voglia di fare i capricci.
Vorrei che la giornata non finisse, non mi va proprio di tornare a casa.”
“Di nuovo con questi discorsi?”
“Scusa, hai ragione. Lo so che non è possibile, perché mi conosci da quando ero
una bambina. Sto solo cercando di farmi viziare. Tornerò bambina. Ma vediamoci
ancora.”
Ero come rinata. Provavo la sensazione di sollievo di chi sa di aver fatto tutto il
possibile. Ormai non c’era più da temere, non avevo niente da perdere.
“Prima...”
Si sollevò dal buco dello horigotatsu e si mise a sedere a gambe incrociate,
distendendo il busto. Sorseggiava altro sakè e aveva le guance leggermente rosse,
sembrava quasi truccato. Non perché stesse per dire qualcosa di imbarazzante,
bensì per l’alcol. Anche in quel frangente era tenero. Era più giovane di mio padre,
ancora non era stanco. La pelle era diversa, così come le rughe sulle mani. Mio
padre, invece, era distrutto dalla vita.
“Sì” annuii.
“Hai detto qualcosa come ‘voglio vedere com’è fatta quell’energia che si è
portata via mio padre’, no? Di che si tratta? Di qualche ostacolo insormontabile che
si frappone tra uomini e donne?”
“Esatto. Se quella forza fosse qualcosa a cui proprio non si può resistere, allora
forse riuscirei a perdonare mio padre. Io ancora non l’ho provata, per questo.”
“Imo non aveva un carattere forte, era un sognatore, o, per meglio dire, la realtà
lo metteva a disagio... Era andato dal medico perché aveva mal di pancia, e gli
avevano trovato un piccolo tumore allo stomaco. In quell’occasione si confidò con
me. A quanto pare, se si fosse sottoposto a un’operazione avrebbe potuto vivere
ancora diversi anni. Non era un tumore di quelli che avanzano rapidamente. Se si
fosse operato subito, sarebbe stata possibile anche una guarigione completa. Gli
avevo cercato un buon ospedale. Ma lui non ne aveva parlato in famiglia, vero?
Quando faceva così sembrava un bambino. Credeva sul serio che la cosa sarebbe
stata reale solo nel momento in cui l’avesse detta.”
“Aspetta... Io di questo non sapevo niente. Sono scioccata. Mi chiedo se la
mamma ne fosse al corrente. Devo dirglielo.”
“Sì. Ormai glielo puoi anche dire. O magari lo sa già. È anche per questo che tuo
padre si è lasciato andare su vari fronti, secondo me scappava. Mi disse qualcosa
tipo ‘di ospedali e visite non voglio nemmeno sentir parlare’, neanche fosse un
mocciosetto. Che stupido. Sul serio.”
“Forse si è ammalato per colpa di quella donna.”
“Anche tu l’hai pensato? Anch’io, dal primo istante. Non so come dirlo, in fondo
noi non sappiamo quasi niente di lei, no? Non l’abbiamo mai incontrata, né le
abbiamo mai parlato. Forse è per questo che ci viene da pensarlo. Tu e io, e forse
anche quella signora che ti ha portato il sale, le abbiamo cucito addosso
un’immagine estremamente cupa.
Come una tenebra immensa, o una leggenda. Ma lei aveva qualcosa che lo
lasciava pensare, questo è poco ma sicuro. In realtà, però, era solo un essere
umano con una vita sregolata, e a quell’immagine non corrispondeva che in minima
parte.
L’incomprensibile morte di Imo semplicemente ci ha aperto gli occhi su qualcosa
di grande, di oscuro, dalla natura inafferabile. Ma la vita è fatta soprattutto di cose
del genere. Questo ci spaventa, e sentiamo il bisogno di concetti semplici,
immediati.
È solo perché abbiamo necessità di capire, di convincerci, che pensiamo al sesso
tra quei due come a qualcosa di disperato, selvaggio, più forte della vita. Io ormai
ho una certa età, e forse sono in grado di capirlo meglio di te, Yocchan, ma non
credo che Imo abbia perso la testa per quella donna con tanta facilità.”
Restai in silenzio per qualche minuto.
Viziato, spaccone, mammone, non voleva mostrarsi fragile agli occhi della
mamma, e davanti alla figlia voleva fare sempre il bravo papà. Ripensavo a quel
personaggio e alla sua aura singolarmente cupa.
“Che stupido, mio padre.”
“È vero.”
“Grazie al cielo per lo choc mi è passata ogni forma di desiderio. E anche
l’appetito. Fortuna che quei soba deliziosi li avevo già mangiati.”
Sentivo una stretta in fondo al cuore.
“A me no, mi sono stancato di fare il bravo zietto. Forse posso iniziare a
comportarmi male. Sono attratto da te. Gli uomini sono fatti così, credo. Posso
stare qui a recitare una parte e a ubriacarmi, ma non serve a niente. E poi tu,
Yocchan, hai la testa troppo piena di parole, anche se forse dipende dalla tua età. Io
so che non posso farci niente, ma vorrei svuotartela, non sai quanto. Se devo essere
sincero, è da prima che non so come comportarmi.”
“Credi davvero che gli uomini e le donne siano così diversi tra loro?”
Questa svolta inaspettata mi aveva lasciata a bocca aperta.
“Credo che siano diversi.”
Il tono calmo di Yamazaki mi si impresse con forza nella mente. Più lo ascoltavo,
più mi sentivo rinfrancata, mi calmavo anch’io. Di che fenomeno si trattava?
Intravidi il conto delle varie portate e dei soba: era altissimo. Evidentemente quel
giorno non aveva davvero voluto badare a spese. Certo, se avessimo fatto a metà io
sarei rimasta senza soldi per tornare a casa. Avevo con me la carta di credito, per
cui in un modo o nell’altro me la sarei cavata, ma alla fine ho lasciato che offrisse
lui. Stavo per dirgli, per scherzo, che l’avrei ripagato con il mio corpo, ma poi non
l’ho fatto, perché sarebbe stato come mortificare la purezza delle sue intenzioni.
Fuori tirava un vento freddo. È ancora inverno, pensai.
Tra l’autunno e l’inverno erano successe così tante cose che mi era sembrato un
periodo lunghissimo. Dopo la morte di mio padre i giorni erano passati senza che
me ne accorgessi. Mi sentivo come seduta per terra, con il cuore incapace di stare
al passo, e invece ero arrivata fin qui e all’improvviso la realtà mi era venuta
incontro, il tempo aveva rallentato il suo corso. Era merito soprattutto della
convivenza con mia madre, che faceva di tutto per prendersela calma.
Chiusi per un momento gli occhi circondata dal vento e mi misi a pensare. Non
posso vivere per sempre con la mamma. Un giorno il vento porterà via anche me.
Esposta alle intemperie. In tutto e per tutto uguale a mio padre. Arriverà quel
giorno anche per me... Il presagio della fine mi avvolse in un morbido abbraccio.
Non era né sgradevole né miserabile, avevo la sensazione di espandermi. Il posto
in cui ora si trovava mio padre non era poi così male, non era come nel mio sogno,
non era confinato sotto lo sguardo di quella donna, adesso ne avevo la certezza.
Ero abbandonata alle intemperie, in decomposizione, e poi mi espandevo, volavo
via, ma finalmente capivo ciò che mio padre serbava nel cuore, ed era una
sensazione bellissima.
Yamazaki disse:
“Che facciamo?”.
“A che ora devi rientrare? Io vorrei tornare a casa prima dell’alba.”
“Tua madre potrebbe preoccuparsi.”
Appoggiai il braccio a quello massiccio di Yamazaki.
“Dev’essere perché siamo stati laggiù insieme, ma quando sto con te mi sento
incredibilmente bene. È come se venisse fuori la vera me stessa.”
“Questo me lo diceva spesso anche la mia ex moglie, prima di andarsene di casa.”
“Vuol dire che è la tua indole, allora” risposi ridendo.
O, per meglio dire, ero io a diventare una donna, quando stavo con lui.
La rotonda davanti alla grande stazione era attraversata da un continuo viavai di
bus e automobili, e quasi tutti si portavano dietro grosse valigie. Avevano bevuto un
bicchierino e ora riempivano la notte e la strada con la loro allegria.
“Yocchan, perché ti piaccio? Perché vuoi farlo con me? So che è da idioti chiedere
una cosa del genere, e so anche che è un po’ da sfigati, ma lo voglio sapere.”
Quando qualcosa ti sembra irrazionale, quando non riesci a ragionare
logicamente, proprio non ti va giù, eh? I suoi vestiti emanavano un buon profumo,
come di bacche. Se applicassi la tua logica personale, per il resto del mondo saresti
nell’errore... Finire a letto con la figlia di un tuo caro amico, e pensare che conosci
anche sua madre... Ma non avrebbe avuto alcuna importanza, avevo avuto modo di
percepire il suo coraggio.
“In tutto questo tempo mi è sembrato che la mia vita prendesse colore solo
quando c’eri tu. Gli unici momenti in cui smettevo di preoccuparmi per qualcun altro
erano quelli in cui parlavamo insieme.”
Non riuscii a dirgli che facendo l’amore con il mio ragazzo avevo capito con chi
volevo farlo davvero, e che mi bastava ascoltare la sua voce per tornare a sperare.
Non sarebbe stato giusto neanche nei confronti di Aratani, che mi aveva trovato e
si era comportato in modo corretto.
“Scusami se parlo come una bambina. Ma è così che è andata, sul serio. E poi io
mi sono sempre comportata bene, in questi due anni. Ho consolato la mamma, sono
andata ogni giorno al ristorante, ho fatto il mio lavoro, ho sofferto, sono andata a
dormire presto e mi sono svegliata presto, ho faticato tanto... Tutto questo è
lontanissimo dal processo che ha portato mio padre alla morte, ma è stato come
essere lasciata indietro.
Non voglio allontanare il dolore andando a letto con qualcuno che mi piace, né
abbandonarmi alla tua tecnica affinata dall’esperienza per scoprire cos’ha provato
mio padre, né tantomeno mi sono presa una cotta colossale sapendo di non essere
ricambiata. Voglio solo cercare di concretizzare in qualche modo un sentimento
incomprensibile, nato dalla somma di tutto questo.”
“Va bene, ho capito. Facciamolo.”
Mi misi a ridere.
“Ma che dici?”
Mi ero rilassata come per incanto. Sicuramente c’entrava il fatto che fossimo una
coppia oltre gli schemi, che eravamo due persone attratte l’uno dall’altra.
Camminammo senza dire niente. Le ultime parole che ci eravamo scambiati
erano: “Non ti dà fastidio fare l’amore con me a casa tua?” e “No”. La mia mano
aveva sfiorato la sua per tutto il tempo. Pregavo affinché quel sogno non svanisse
nel nulla, perché quel miracolo non cessasse.
Inviai un messaggio a mia madre:
“Dopo essere andata dove è morto papà mi sono sentita finalmente libera, quindi
vado a bere una cosa prima di rientrare. Farò tardi, ma non temere: non mi sento
più ossessionata!”.
Sapevo che la mamma non s’interessava della mia vita fino a quel punto, quindi
non ero per niente preoccupata che potesse scoprirmi. Da quel momento in poi, per
qualche ora, sarei venuta meno al normale corso delle cose: non so perché, ma il
pensiero mi mise di buon umore. Non ero sola, non mi stavo addentrando in una
tenebra desolata, volevo dimenticare ciò che facevo di solito, le mie responsabilità,
il passato, le relazioni sociali.
Se pure lo stato d’animo di mio padre fosse stato centinaia di volte più pesante del
mio, a me sembrava di esserne appena riuscita a cogliere un minuscolo frammento.
Il senso di sollievo fu enorme. Fu come alzarsi in volo e respirare la libertà a pieni
polmoni, fino quasi a bruciare al fuoco della passione ritrovata.
La casa di Yamazaki si trovava al quinto piano di un condominio elegante, dalla
struttura piuttosto originale. La porta si aprì su un appartamento ordinato dal cui
interno arrivò, lento, un gatto con il pelo grigio e liscio.
“Mia moglie se n’è andata ma ha lasciato qui il gatto.”
“Forse lo ha fatto perché non restassi solo.”
“No, all’inizio se l’era portato, però quando è rimasta incinta me lo ha riportato,
dicendo che non se ne sarebbe potuta occupare. Siamo due bestioline
abbandonate.”
Mentre parlava, accarezzava il gatto.
Un giorno o l’altro avrei potuto fargli anch’io qualcosa di terribile, o lui a me. In
quel preciso istante, però, provavo un sentimento di affetto per entrambi. Per
Yamazaki e per il gatto.
“Stranamente ci siamo già fatti il bagno tutti e due, quindi direi di entrare subito
nel vivo.”
“Stranamente?” dissi ridendo.
Poi ci prendemmo per mano e ci dirigemmo verso il letto.
Stendendosi lentamente, Yamazaki disse:
“È possibile che questa sia la prima e anche l’ultima volta, lo penso davvero. Ma
sto facendo sul serio”.
Annuii, ma le sue parole mi rattristarono, e mi venne da piangere.
Ma era diverso, non c’entrava niente con quello che c’era stato tra mio padre e
quella donna. E neanche tra me e Aratani. Il freno, l’ostacolo che cercavo, qui non
c’era. C’erano soltanto certezze, c’erano solo elementi che facevano pensare che
sarebbe andata avanti. Quindi niente, di quello che avevo sempre creduto, esisteva
per davvero.
Nessuna delle mie previsioni si era avverata.
Aratani mi era venuto a cercare, aveva la mia età, non aveva nessun difetto,
eppure non mi ero innamorata di lui. Nessuna previsione, nessuna promessa.
Il sesso con Yamazaki fu differente rispetto a quello con Aratani. Aratani era più
impetuoso, più abile, più spinto, e mi ero meravigliata per il grado di piacere
puramente fisico che avevo provato con lui.
Forse istintivamente lo sapevo, per questo avevo voluto frequentarlo.
Ma con Aratani non sarei andata da nessuna parte: in fondo al piacere c’è una
strada senza uscita. Andando oltre, non c’è nessun paesaggio. E io avevo già visto
la strada che aveva portato mio padre alla morte, ne avevo visto solo la prima
parte, ma mi era bastato.
Yamazaki era un po’ imbranato, quasi come un adolescente, ma allo stesso tempo,
forse perché era stato sposato a lungo, si sentiva che era abituato ad avere una
donna accanto, e nei suoi modi c’era una delicatezza particolare. Ripensando alla
sua ex moglie, così bella, sentii una stretta al cuore, e non riuscii a provare piacere.
Inoltre, contrariamente a quanto mi aspettassi, non mi sentivo affatto appagata
all’idea di aver tradito mio padre e di aver smesso i panni della brava ragazza che
servivano a far stare tranquilla la mamma.
Qualsiasi gesto di Yamazaki faceva breccia nel mio cuore, mi dava un fremito,
tutto qui.
Sentivo che si stava innamorando di me, era chiaro anche se non lo diceva. In
quel momento mi guardava per quello che ero.
Aratani e Yamazaki lo davano a vedere in maniera opposta e io, ancora inesperta
di tante cose, non ero riuscita a capirlo, ma ciascuno di loro mi desiderava a suo
modo. Da un lato c’era l’esperienza, il sesso fondato sull’affinità, dall’altro il sesso
puro e semplice... L’amore adolescenziale, il sesso scrupoloso e impacciato... Tutti
questi elementi si mescolavano dentro di me facendo confusione, ma la realtà si era
impegnata a mettere ogni cosa al suo posto.
Dopo davvero tanto tempo, quando Yamazaki entrò dentro di me, fu come se
fosse successo qualcosa di decisivo. Non potevamo più tornare indietro, e non
l’avrei voluto. Potevo smettere di pensare, adesso.
Non so se anche lui stesse provando le stesse sensazioni.
Era il mio segreto, e l’avrei custodito per sempre.
Tutti quegli spostamenti dovevano averci stancato, fatto sta che per un’ora circa
dormimmo entrambi come sassi.
Quando riaprimmo gli occhi, il mondo era diverso. Tutto era come tornato alla
sua forma originaria. L’incantesimo dell’innamoramento non si era rotto, intorno a
me c’era luce.
Il gatto dormiva raggomitolato al mio fianco, mentre Yamazaki, già sveglio, mi
guardava.
Era l’una e mezzo del mattino, dovevo tornare a casa.
Mi sollevai lentamente e iniziai a rivestirmi. Non avrei voluto andarmene, ma
pazienza. Era ora che l’incantesimo si spezzasse.
Con un’espressione accigliata, Yamazaki disse:
“Pensavo che avrei provato più disgusto per me stesso”.
“Sono un’adulta, se faccio qualcosa è perché lo voglio.”
“Non parlare, Yocchan. Voglio dimenticarmi che sei la figlia di Imo. Sto cercando
di pensare che mi è venuta voglia di farmi una ragazza giovane e carina e l’ho fatto,
tutto qui.”
Mi piacevano persino le sue ginocchia spigolose e i peli sulle dita.
“Non serve a niente, arrivati a questo punto. Proprio a niente.”
Sorrisi, e intanto accarezzavo il gatto.
Sulla porta di casa Yamazaki mi strinse forte. Poi camminammo mano nella mano
fino al grande viale.
Disse:
“Per un po’ credo che non riuscirò a incontrarti. Accidenti, come faccio a
incontrarti?”.
“Aspettiamo che arrivi la primavera. Ti chiamo quando torno dalla Francia. In
base a cosa proverai allora, mi dirai se hai voglia di accompagnarmi all’acquario o
no.”
“Va bene, faremo così.”
“Voglio chiederti un favore.”
Piangevo a dirotto. Quanto bisogna piangere perché le lacrime si esauriscano?
Non ne potevo più di piangere, ero stanca morta. Eppure...
“Fino alla primavera, vorrei che non ti mettessi con nessun’altra donna. Se si
tratta di andarci a letto va bene, ma non fare cose come andare a vivere con
qualcuno.”
“Va bene.”
Mi accarezzò la testa.
Come un padre, come un fidanzato. Come entrambe le figure, che in quel
momento mi mancavano.
Il quartiere era immerso in una notte chiara. Respirai a pieni polmoni l’aria
fredda. Il tepore che mi era rimasto addosso si separava dal mio corpo, lasciandomi
solo la malinconia.
Salii su un taxi e dissi, come pronunciando una formula magica:
“Shimokitazawa, per favore”.
Il luogo da cui vengo, quello verso cui tornare, e che custodisce ciò che ho di più
caro.
La portiera si richiuse, Yamazaki sventolò la mano nel buio della notte. Poi girò su
se stesso e fece ritorno verso quella stanza in cui noi due – non c’era alcun dubbio –
ci eravamo amati.
Ero così emozionata che non riuscivo a pensare a niente. Scesi dal taxi all’altezza
dell’uscita della stazione, su Chazawa dōri.
Nonostante fosse notte fonda c’era un sacco di gente in giro, e in un istante mi
tornarono in mente tutti i momenti trascorsi con Aratani. Evidentemente non ero il
tipo capace di abbandonarsi alle passioni. All’età di mio padre, forse, avrei capito
cosa stesse cercando, ai confini estremi del piacere.
Non avevo capito niente. Di lui e di quella donna... Della loro relazione, della
personalità di lei, dei loro orizzonti, niente. Per quanto triste potesse apparirmi, era
qualcosa che apparteneva solamente a loro, qualcosa per cui avevano pagato con la
vita: questo volevo pensare. Qualcosa che apparteneva solo a mio padre, così come
gli appartenevamo io e la mamma, che eravamo il suo tesoro.
Non si può avere tutto e tutti, ma esiste un modo per conciliare le cose e creare
quel tipo di illusione.
Addio, Aratani, grazie.
Ripensandoci mi sentii un po’ giù di morale, ma avevo ancora addosso il calore del
corpo di Yamazaki. Come un oggetto prezioso lo strinsi a me mentre attraversavo
Azuma dōri fino all’altezza del ristorante Ōsho.
Era ancora illuminato e pieno di movimento, con molta gente che stava ancora
consumando. Li guardai attraverso il vetro e mi tornò il buon umore.
Girai a sinistra e fui di nuovo su Chazawa dōri. Procedetti fino al nostro vecchio
ristorante. Sebbene completamente al buio, l’edificio era ancora in piedi.
Presto sarebbe stato buttato giù e forse avrebbero tagliato anche il ciliegio.
Quella forma di vita così bella, che animava la strada con i suoi colori, sarebbe
sparita. E io non avrei potuto fare niente per impedirlo. Provai a ringraziare il
ciliegio, ma non mi rispose. Lo accarezzai come sempre, ma sentii solo la tristezza
dell’imminente separazione. La prossima primavera non avrei visto i suoi fiori.
Presto non ci sarebbe stata più neanche la pesante porta di legno che aprivo ogni
giorno. Non riuscivo a crederci... Ma, per quanto fosse sorprendente, conservavo
dentro di me ogni sensazione che quel posto mi aveva comunicato. Anche quella era
una cosa soltanto mia, che condividevo in qualche maniera con tutti coloro che
prima o dopo erano passati di lì. E non sarebbe mai venuta a mancare, neanche in
nostra assenza.
Era dentro di me, come il ricordo del tempo trascorso con mio padre, come il suo
codice genetico.
Bada bene, tempo, ché tutto ciò che conservo nella testa, nelle cellule del mio
corpo, in fondo agli occhi, tutto questo non potrai mai portarmelo via! Serrai forte i
pugni.
Adesso sapevo che, per quanto giovane, miserabile e insignificante potessi
apparire, per quanto non potessi condividere ogni cosa con chiunque altro al
mondo, la mia esperienza andava a completare tutte le altre, era quanto possedevo
di più prezioso, e lo avevo capito sotto il cielo stellato di una notte gelida.
Chiusi gli occhi, e il ciliegio che era nel mio cuore lasciò che il vento accarezzasse
i fiori rosa pallido che riempivano i suoi rami.
E sempre nel mio cuore c’era Les Liens, che continuava a esistere, indisturbato,
per l’eternità.
Tutto ciò non sarebbe mai svanito, qualsiasi cosa fosse capitata.
Dovevo solo attendere la primavera, e sui miei occhi si sarebbe impresso il
riflesso di qualcosa di nuovo. La campagna francese e i suoi paesaggi splendidi, cibi
deliziosi e le decisioni sul volto di Michiyo. E magari anche mille nuove espressioni
di Yamazaki... Avremmo provato risentimento l’uno per l’altra, avremmo litigato, ci
saremmo trattati con freddezza, certo, sarebbe stato possibile anche quello. Ma
non avevo più paura. Forse non ci saremmo più incontrati... Ci avrei pensato in
futuro, al ritorno dalla Francia. Fino ad allora non avremmo potuto sapere come
sarebbe andata a finire, e sarei stata io, a partire da quel momento, a costruire la
mia vita giorno dopo giorno.
Non dipendeva semplicemente dal fatto che fossi stata a letto con un uomo che mi
piaceva, e che avevo scelto io stessa. Né che mi sentissi più leggera dopo il rituale
per mio padre.
Se qualcuno mi avesse domandato che cosa avevo fatto in tutto quel tempo, non
avrei saputo cosa rispondere. Mi sembrava solo di aver sognato. Qualcosa mi aveva
trascinato, forse la semplice idea di non poter stare senza far niente.
Affannosamente, priva di una meta, ma ero riuscita a fare qualcosa. Mi ero accorta
che la vita continuava, e nel frattempo mi ero fermata in un posto dove riprendere
fiato senza caricarmi di pesi ulteriori. Ero felice che quel posto fosse proprio
Shimokitazawa.
Adesso ero in una strada, di notte, apparentemente triste e al freddo, ma ero lì, e
in realtà non ero affatto triste.
Qualche isolato più in là Chizuru starà preparando qualcosa di buono. Eri deve
aver rimesso in ordine da poco, e se ne sarà tornata lentamente a casa passando
per la via dei negozi. E Hacchan, che piace così tanto alle donne, avrà chiuso da un
bel pezzo la libreria e sarà a un altro appuntamento galante, chissà con chi. La
coppia del bar si sarà messa come ogni giorno bandana e grembiule per versare e
servire caffè a ripetizione. Michiyo domani dovrebbe chiamarmi per parlare del
viaggio. A quest’ora Miyuki e Tecchan staranno ancora riordinando il locale. E poi
faranno insieme la strada di casa, tagliando per la zona residenziale.
Mi tornarono in mente sorrisi e gesti di molte persone conosciute da quando ero
andata a vivere e abitare lì.
La gente che io e la mamma frequentavamo nel quartiere si apprestava a tirare le
fila di una giornata come tutte le altre.
Un quartiere è così.
Sentii la vita di persone che fino a qualche anno prima non avevo mai visto, la
sentii come il respiro che attraversava quelle strade. Non ero sola. Tanta gente che
non conoscevo entrava e usciva, e costruiva il nostro quartiere.
Aveva ragione Fuzjko: a prima vista è un posto caotico, disordinato e brutto, ma
osservandolo meglio si capisce che disegna un motivo meraviglioso. Uno scenario di
infinita bellezza.
Come un’edera intrecciata alla somma inconsapevole dei desideri, le brutture, le
miserie, l’amore, la straordinarietà, i sorrisi e la ricchezza della gente. Se pure
un’accetta dovesse tagliarla, se pure dovesse bruciare, niente potrebbe portare via
ciò che rimane nel cuore di queste persone, neanche il tempo in cui vivono. Nessuno
può far loro del male.
Adesso anch’io ne facevo parte, e attraverso di me ne faceva parte mio padre.
Era stato Shimokitazawa a insegnarmelo, avvolgendomi in un morbido abbraccio
e offrendomi riparo. Grazie. Se pure dovessi cambiare aspetto, continua
ostinatamente a fiorire, resta per sempre qui...
Unii la mia semplice preghiera a quella di chissà quanti altri prima di me.
Sul campo di battaglia della memoria giacevano le spoglie di tutto quanto si era
piegato a forze invisibili, dei pensieri di ciò che era svanito lasciando soltanto le
emozioni dietro di sé. L’avrei attraversato giorno dopo giorno, imprimendo le orme
dei miei passi come si offrono fiori.
Anche il quartiere in cui sono nata era uguale, ma l’avevo capito solo a
Shimokitazawa, un luogo attraversato dal vento, sempre al centro dei pensieri dei
suoi abitanti, un luogo amato.
Ai piedi portavo delle belle scarpe da donna adulta, ma quando iniziai a
camminare mi sentii leggera come se calzassi le scarpe da ginnastica che avevo
comprato da bambina insieme a mio padre.
Oltre le strisce pedonali c’era mia madre. Alzai gli occhi verso la finestra
illuminata della stanza in cui si trovava. Si vedeva la luce intermittente di quel suo
grosso televisore. Non avevo più un padre, ma avevo ancora una madre. Oggi
l’avrei incontrata di sicuro. Ci restava ancora tanto tempo da trascorrere insieme.
Sto per rientrare mamma. Mamma, tu sei viva. Adesso entrerò e ti saluterò.
Nello stesso istante presi qualcosa tra le braccia, qualcosa che potrei definire
soltanto “una felicità enorme”, fatta di stelle luccicanti che cadono nel cuore.
Non era cambiato niente, la nebbia non si era ancora diradata, eppure il mio
cuore era pieno di qualcosa che somigliava proprio a una risposta.