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ISTITUZIONI DI DIRITTO

DELL’ UNIONE EUROPEA

Villani

Riassunto
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CAPITOLO 1:

ORIGINI,EVOLUZIONE E CARATTERI DELL’ INTEGRAZIONE


EUROPEA

I PRIMI MOVIMENTI EUROPEISTI

Uno dei primi promotori del progetto di unire gli Stati europei fu il conte
Richard Coundenhove - Kalergi, il quale fondò nel 1924 un’associazione
denominata Unione paneuropea ,avente lo scopo di preservare l’Europa, da
una parte, dalla minaccia sovietica e dall’altra dalla dominazione economica
degli Stati Uniti.
Fondamentalmente furono 3 le concezioni che ispirarono tale
progetto:

1. visione di tipo confederale, avanzata da Aristide Briand, il cui


progetto prevedeva la creazione di una organizzazione politica tra
gli Stati partecipanti, che abbia obbiettivi comuni a tutti ma che non
metteva in discussione la sovranità di ognunoPERMANENZA DEI
NAZIONALISMI
2. visione di tipo federalista, visione che accomunava tre autori:
SPINELLI, ROSSI E COLORNI. Secondo tale impostazione,
espressa nel Manifesto di Ventotene, l’obiettivo immediato era un
unione politica europea secondo cui i Paesi europei, al fine di
assicurare la pace, avrebbero dovuto rinunciare alla propria
sovranità, e secondo cui si sarebbe dovuti giungere ad una nuova
entità, la Federazione europea, dotata di un proprio esercito, di una
propria moneta, di proprie istituzioni e di una propria politica
estera.(NO NAZIONALISMI)
3. visione funzionalista e graduale, che nonostante il comune obiettivo
con la seconda concezione, si proponeva di costruire
PROGRESSIVAMENTE una situazione di integrazione tra i Paesi 3
europei ( non immediata), attraverso forme di coesione e solidarietà
tra gli stessi.(Jean Monnet)

LE ORGANIZZAZIONE EUROPPE DEL SECONDO DOPOGUERRA

Una delle prime organizzazioni europee fu L’ OECE, Organizzazione


europea di cooperazione economica, creata nel 1948 sotto la spinta di
George Marshall, il quale nell’enunciare un piano di aiuti per la
ricostruzione dell’ Europa sconvolta dalla guerra, chiedeva di creare un
istituzione che si prendesse il compito di amministrare tale aiuti;
richiesta accolta dai Paesi dell’Europea occidentale e concretizzatasi
appunto nell’OECE.
Quest’ultima è un organizzazione internazionale di carattere
intergovernativo, cioè destinata a operare mediante organi; così come lo è
anche l altra organizzazione europea creata in quegli anni e cioè il
CONSIGLIO D’EUROPA del 1949.

LA NASCITA DELLA COMUNITA’ EUROPEA DEL CARBONE E DELL’


ACCIAIO

La CECA nasce come una comunità sopranazionale e non più quindi come un
organizzazione internazionale. La novità è principalmente  il
trasferimento dei poteri sovrani da parte degli Stati membri a enti,
appunto le comunità sopranazionali.
All’origine della Ceca vi è la celebre dichiarazione di Robert Schuman, che
contiene LA PROPOSTA, rivota anzitutto alla Germania (in relazione allo
storico contrasto Francia - Germania), ma anche agli altri Stati Europei
che intendevano aderirvi, DI METTERE IN COMUNE, sotto un Alta
Autorità, l’insieme della produzione di carbone e di acciaio, assicurando
allo stesso tempo la loro libera circolazione, al fine di favorire una
solidarietà tra i due Stati principalmente coinvolti. L’apparato
organizzativo sarebbe stato formato da un’Alta Autorità , composta da
personalità indipendenti che avrebbero avuto poteri sia esecutivi che
normativi nei confronti dei Paesi aderenti ma soggetta a un controllo
giurisdizionale a livello europeo, da un Assemblea comune, composta dai 4
rappresentati dei popoli degli Stati mebri, dal Consiglio speciale dei
ministri e dalla Corte di Giustizia.
Questa proposta fu accettata da sei Stati e nell’ Aprile del 1951 essi
firmarono il trattato istitutivo della CECA, che prevedeva la creazione di
un mercato comune dei prodotti carbo-siderurgici, delle condizioni di
concorrenza da rispettare come l’eliminazione e il divieto dei dazi e delle
restrizione quantitative alla circolazione di tali prodotti tra i Stati
membri, degli aiuti e sovvenzioni statali.

IL FALLIMENTO DELLA COMUNITA’ EUROPEA DI DIFESA(CED) E


IL RILANCIO DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA: LA
CEE E LA CEEA (Euratom)

Gli stessi Stati che sottoscrissero il Trattato CECA ne firmarono, nel


1952, un altro a Parigi, istitutivo della CED ossia la Comunità Europea di
Difesa, che comportava la creazione di un esercito europeo, di un
apparato istituzionale di un meccanismo di reazione a qualsiasi
aggressione contro uno Stato membro. Tale trattato non entrò però mai
in vigore poiché non fu ratificato dalla Francia; tale fallimento, portò al
rilancio del processo di integrazione che condusse alla firma, a Roma, nel
marzo del 1957,
del Trattato Istitutivo della COMUNITA’ ECONOMICA EUROPEA, LA
CEE, e della COMUNITA’ EUROPEA DELL ENERGIA ATOMICA , la CEEA
(Euratom).
La CEE ha natura prevalentemente economica e commerciale, come la
CECA, ma a differenza di quest’ultima non ha un intervento settoriale ma
generale. Stabilisce quindi un unione doganale, l’eliminazione dei dazi,
delle restrizioni quantitative e di ogni altro ostacolo agli scambi di merci
tra gli Stati membri, nonché degli ostacoli alla libera circolazione di
persone, servizi e capitali tra gli stessi. La CEE quindi si propone di
intervenire soprattutto in quei segmenti dell’economia più deboli, in quelle
fasce sociali fragili e in zone di geografiche in ritardo di sviluppo.
Quanto alla CEEA, essa nasce con lo scopo di contribuire ad elevare il
tenore di vita degli stati membri e far sviluppare gli scambi con gli altri
paesi.
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IL CARATTERE SOPRANAZIONALE DELLE COMUNITA’ EUROPPE:
IL PARZIALE TRASFERIMENTO DI POTERI LEGISLATIVI

La differenza principale tra le comunità di cui si è appena parlato


(CECA,CED, CEEA) e le comuni organizzazioni internazionali è proprio il
loro – CARATTERE SOPRANAZIONALE
Entrambe nascono dalla conclusione di un accordo tra gli Stati membri con
il quale si stabiliscono degli scopi comuni ma:

ORGANIZZAZIONI COMUNITA’ SOPRNAZIONALI:


INTERNAZIONALE  partecipazione dei cittadini
CLASSICHE: alla vita della Comunità
 gli Stati membri sono mediante il Parlamento
rappresentati dai propri europeo e il Comitato
governi nei vari organi economico e sociale
dell’organizzazione  trasferimento parziale di
 assenza della sovranità dagli Stati
partecipazione dei popoli di membri alle Comunità, i cui
tali Stati organi hanno il potere di
 gli atti di queste adottare atti obbligatori e
organizzazioni hanno come applicarli all’interno della
destinatari gli Stati comunità, senza alcuna
membri, i quali daranno poi mediazione da parte degli
esecuzione agli obblighi stati membri (CARATTERE
che nascono da tali atti. DI DIRETTA E
IMMEDIATA
APPLICABILITA’)
 i destinatari dei diritti e
degli obblighi che derivano
dagli atti comunitari non
sono solo gli Stati membri
ma anche i loro cittadini
Sentenza VAN GEND and LOOS: 6

 Lo scopo del trattato CEE è quello di creare organi investiti di


poteri sovrani da esercitarsi nei confronti degli Stati membri e
dei loro cittadini
 La Corte di Giustizia deve garantire l’uniformità
nell’interpretazione dei trattati da parte dei giudici nazionali
 Il diritto comunitario può essere fatto valere dai cittadini
davanti ai giudici nazionali

Sentenza COSTA/ENEL:

 Sancisce il primato del diritto comunitario su quello interno


incompatibile anche se successivo
 I giudici nazionali e la P.A. devono dare applicazione al diritto
dell’unione in luogo delle norme interne in contrasto con esso
 Tale impostazione è stata accolta anche dalla Corte
Costituzionale italiana

IL PARZIALE TRASFERIMENTO DI POTERI GIUDIZIARI E DELLA


SOVRANITA’
MONETARIA

Tale trasferimento dagli Stati membri alle Comunità europee non riguarda
solo la potestà legislativa ma anche quella giudiziaria.
Nelle comunità sono presenti una pluralità di competenze, tra le quali
quella attribuita alla CORTE DI GIUSTIZIA, detta “pregiudiziale” o di
“rinvio”.
Essa è regolata nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea
(TFUE), dall’ art 267 secondo il quale, nel caso si presentasse un dubbio
circa l’interpretazione o la validità del diritto comunitario, la Corte di
giustizia non può decidere circa il caso concreto o risolvere la questione
presa in considerazione, ma deve limitarsi solo a pronunciare la
CORRETTA INTERPRETAZIONE della norma comunitaria e decidere se
l’atto sia valido o meno.
Al giudice nazionale spetterà poi decidere dell’applicabilità della norma al 7
caso in questione uniformandosi alla pronuncia della Corte.
Le sentenze della Corte Di Giustizia sono obbligatorie solo per il giudice a
quo, ma hanno cmq valenza generale e fanno quindi giurisprudenza, perciò
nel caso si ripresenti la medesima questione non c’è bisogno di un ulteriore
rinvio.

L’ ALLARGAMENTO DELLE COMUNITA’ E DELL’ UNIONE EUROPEA

Attualmente il quadro dell’ integrazione europea si è arricchito e


ampliato. Per quanto riguarda gli Stati membri, da 6 il numero degli Stati
appartenenti alle Comunità e all’ Unione europea si è ampliato agli attuali
27 Stati. Le differenze che sussistono tra gli Stati preesistenti e quelli
nuovi hanno reso necessario introdurre negli atti di adesione delle
“clausole di salvaguardia” che possono essere usate per evitare di
applicare delle disposizioni a nuovi Stati membri.
Possono essere infatti previste delle deroghe all’applicazione del diritto
dell’Unione per i nuovi Stati entranti tenendo conto delle loro difficoltà
ad adeguarsi ai preesistenti standard europei ma anche per tutelare gli
interessi degli Stati già membri.

GLI SVILUPPI DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA: IN PARTICOLARE


L’ATTO UNICO EUROPEO DEL 1986

Essenzialmente, è dagli anni 80 che si è messo in moto il processo che ha


condotto poi all’attuale Unione europea. Uno dei passaggi più significativi
fu la sottoscrizione dell’ATTO UNICO EUROPEO, entrato in vigore il 1°
luglio del 1987 e che fa seguito ad un Trattato, approvato dal Parlamento
europeo nell’ 84, e noto come ”Trattato Spinelli”. Esso stabiliva che il
Parlamento e il Consiglio dell’ Unione esercitino congiuntamente il potere
legislativo e che una legge potesse essere adottata solo se approvata da
entrambi. Nonostante tale trattato fu un insuccesso, esso fece comunque
da base all’Atto unico europeo, il quale:
- istaurò una cooperazione europea in materia di politica estera,
basata sull’informazione reciproca , sulla cooperazione e sul 8
coordinamento tra gli stati.
- dava la possibilità al Consiglio si adottare un atto anche contro la
volontà del Parlamento:(trattatoSpinelli).
- fissava una data precisa entro cui la CEE avrebbe dovuto adottare
le misure necessarie per il completamento del mercato interno
attraverso la realizzazione di 4
fondamentali libertà di circolazione: 1) merci 2) persone 3) servizi
4) capitali.
- ha creato un’unione doganale mediante l’abolizione di dazi doganali e
fissando una tariffa comune nei riguardi degli scambi con paesi terzi.
La fissazione di tale termine fu prevista per il 31 dicembre del 1992 
Termine che fu rispettato.

IL TRATTATO DI MAASTRICHT DEL 1992 E LA NASCITA


DELL’UNIONE EUROPEA

La struttura portante dell’odierna Unione europea è rappresentata dal


Trattato di Maastricht del 7 febbraio del 1992 ed entrato in vigore il 1°
novembre 1993. Esso riunisce tutte le tre originarie Comunità europee
(CECA, CEE E CEEA) e si fonda su tre pilastri: il primo, rappresentato
dalle Comunità europee, il secondo consiste nella politica estera e di
sicurezza comune (PESC), il terzo è relativo alla giustizia e affari interni
(GAI).
Con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht convivono ben 4
trattati:

1) il TUE contenente la disciplina della PESC e della GAI;


2) il Trattato della Comunità Economica Europea poi ridenominata
Comunità Europea;
3) il Trattato dell’Euratom;
4)ilTrattatoCECA.
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- nel primo pilastro operano pienamente le istituzioni, i procedimenti, il
sistema delle fonti e il carattere sopranazionale proprio della Comunità.
- negli altri due pilastri prevale invece il carattere intergovernativo, nel
quale operano soprattutto gli Stati membri, rappresentati dai rispettivi
governi. Sviluppo fondamentale, con tale
Trattato, è il passaggio a una moneta unica europea, l’Euro;
Tale trattato inoltre mostra una spiccata sensibilità per i diritti della
persona istituendo una cittadinanza europea, consistente in uno status
giuridico spettante ad ogni cittadino di uno Stato membro dell’Unione.
Altre due innovazioni del Trattato sono:
- una nuova procedura di adozione degli atti comunitari denominata
”codecisione”, la quale comporta che l’atto sia adottato solo se sul suo
testo si registra la comune volontà sia del Parlamento europeo che del
Consiglio.
- l’accettazione di un modello di integrazione europea non
necessariamente uniforme per tutti gli Stati membri denominato a
“integrazione differenziata” o flessibile (per esempio il Regno Unito ha
scelto di rimanere fuori dall’accordo sulla politica sociale).

GLI SVILUPPI SUCCESSIVI

Innovazioni significative sono state apportate dal Trattato di Amsterdam


del 1997, entrato in vigore nel 1999, in cui si proclamano i principi di
libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto,
inserendo come obiettivo la promozione di un elevato livello di
occupazione.
Sono state apportate modifiche al secondo pilastro, ma soprattutto viene
realizzata una parziale “comunitarizzazione” del terzo pilastro nel senso
che materie appartenenti ad esso vengono sottratte al TUE e passano
nell’ambito del Trattato CE. Il terzo pilastro riduce quindi il suo ambito di
applicazione alla sola cooperazione di polizia e giudiziaria in materia 10
penale.
Con il Trattato di Roma del 2004 si voleva creare una Costituzione
Europea: il testo venne elaborato da una Convenzione composta dai
rappresentanti dei governi, della Commissione, del Parlamento europeo e
dei parlamenti nazionali, determinando un processo partecipativo
trasparente e aperto come mai era accaduto in passato. L’ultima parola,
però, rimaneva cmq nelle mani dei governi e per questo la Costituzione non
entrò in vigore dato che era necessaria la ratifica di tutti gli Stati
membri.
Ratifica che non è avvenuta.

IL TRATTATO DI LISBONA DEL 2007

A differenza della Costituzione Europea che aveva come obiettivo quello


di unificare in un unico trattato quello sull’Unione Europea e quello sulla
Comunità Europea, il Trattato di Lisbona conserva la separazione in 2
distinti Trattati ma interviene per modificarli.
Il Trattato sulla Comunità Europea viene ridenominato “Trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea” (TFUE), in conformità
dell’unificazione della Comunità Europea e dell’Unione Europea nella sola
UNIONE EUROPEA (TUE).
Va notato che la suddivisione in 2 Trattati ha prodotto un quadro
normativo spesso confuso e disordinato, in quanto la disciplina di talune
materie è contenuta in parte nel TUE in parte nel TFUE.
Al Trattato di Lisbona sopravvive cmq quello della CEEA (Euratom) anche
se con delle modifiche per raccordarlo a quelle introdotte dal TUE e dal
TFUE.
CONTENUTI:
- abolizione della struttura in 3 pilastri;
- il settore della PESC rimane soggetto a regole specifiche che ne
sottolineano il carattere prettamente intergovernativo; 11
STRUTTURA:
- istituzione di un Presidente dell’Unione eletto per un mandato di 2 anni e
mezzo dal Consiglio Europeo;
- istituzione di un Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e
la politica di sicurezza, avente l’incarico di Presidente del consiglio degli
“Affari estri” e di Vicepresidente della Commissione;
- vengono aumentati i poteri del Parlamento europeo in materia di bilancio
e di adozione degli atti dell’Unione, diventando, la codecisione, la
procedura legislativa ordinaria (accrescimento della legittimità
democratica);
- viene garantito il valore giuridico della Carta di Nizza dei diritti
fondamentali;
- definitivo abbandono di un’ottica meramente economica e mercantile
dell’Unione;

CAPITOLO 2:

OBIETTIVI, PRINCIPI e CARATTERI DELL’ UNIONE EUROPEA e


DEI TRATTATI SUI QUALI SI FONDA

GLI OBIETTIVI DELL’ UNIONE EUROPEA

Gli obiettivi dell’ Unione Europea sono indicati dall’articolo 3 del Trattato
UE nel quale confluiscono gli obiettivi che in passato caratterizzavano i
tre “pilastri”.
 par. 1: “l’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il
benessere dei popoli”
Il rispetto di tali valori è condizione imprescindibile per l’ingresso di nuovi
Stati membri.
 par. 2: creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza
frontiere interne in cui sia assicurata la libertà di circolazione delle
persone con controlli riguardanti le frontiere, l’asilo, l’immigrazione,
la prevenzione e la lotta alla criminalità.
Necessario contemperamento tra le esigenze di libertà, di circolazione e 12
quelle di sicurezza mediante la cooperazione giudiziaria e di polizia.
 par. 3: instaurazione di un mercato interno fondato sullo sviluppo
sostenibile, sulla crescita economica, sulla stabilità dei prezzi e sulla
concorrenza che miri alla piena occupazione, al progresso sociale e
ad un miglioramento della qualità dell’ambiente.
Libera circolazione di merci, servizi, persone e capitali.
 par. 4: “l’Unione istituisce un’unione economica e monetaria la cui
moneta è l’euro”.
Art. 3 TFUE: la politica monetaria è competenza esclusiva dell’Unione.
Art. 119 TFUE: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie
sane,nonché una bilancia dei pagamenti sostenibili, e con una politica
economica basata sul coordinamento tra gli Stati membri e l’Unione
attraverso la definizione di obiettivi comuni.
Art. 126 TFUE: Gli Stati devono evitare disavanzi pubblici eccessivi.
 Par. 5: enuncia gli obiettivi dell’Unione nelle relazioni internazionali
 pace, sicurezza, solidarietà e rispetto reciproco tra i popoli,
eliminazione della povertà e la tutela dei diritti umani (rispetto dei
principi sanciti della Carta delle Nazioni Unite).
Volontà dell’Unione di creare una politica estera unitaria e farsi
portatrice di interessi di carattere generale, anche mettendo a
disposizione delle Nazioni Unite le proprie capacità militari ai fini del
mantenimento della pace.
Art. 121 TFUE: meccanismo di sorveglianza multilaterale sul rispetto di
tali indirizzi da parte degli Stati membri.

GLI OBIETTIVI DELLA POLITICA ESTERA E DI SICUERZZA


COMUNE (PESC)

Tali obiettivi sono enunciati dall’ articolo 11 del TUE, nel quale, nel quadro
della PESC, si intende dare vita ad una politica estera unitaria, ponendosi
sulla scena internazionale come un soggetto politico unico e facendosi
portatore di quei valori di pace, di democrazia , dello stato di diritto e del
rispetto dei diritti umani.
L’Unione quindi, riconferma l’obbligo di astensione dalla minaccia e dall’uso
della forza, prescritto già dalla Carta delle Nazioni Unite e pone a
disposizione delle stesse Nazioni Unite le proprie capacità militari ai fini 13
di operazioni di mantenimento della pace o, eventualmente, di imposizione
della pace.

GLI OBIETTIVI DELLA COOPERAZIONE DI POLIZIA E


GIUDIZIARIA IN MATERIA PENALE

Tali obiettivi sono indicai dall’articolo 29 del TUE e tendono ad evitare


che l’eliminazione dei controlli nei movimenti delle persone tra gli Stati
membri possa tradursi in un deficit di sicurezza. In questo senso si
istituiscono forme di collaborazione tra le autorità di polizia e quelle
giudiziarie dei vari Stati membri, al fine di prevenire e reprimere
eventuali reati.

I PRINCIPI FONDANTI DELL’UNIONE EUROPEA

Art. 2 TUE <<L’ Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità,umana,
della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, rispetto dei diritti dell’
uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto, principi che
sono comuni agli Stati membri>>.
Sia l’Unione che gli Stati membri sono tenuti al rispetto di tali principi.
Il primo principio enunciato è quello di libertà. Tale termine va riferito
alla sua dimensione politica e va inteso come garanzia di rispetto
dell’autonomia dei cittadini nei confronti dei poteri pubblici.
Il principio di democrazia : implica il rinvio ai principi basilari delle
democrazie occidentali e si rifletteva sul Parlamento europeo nell’obbligo
di consultazione, ossia nello strumento che gli consentiva la
partecipazione al processo legislativo. Il principio di democrazia non
poteva però dirsi adeguatamente realizzato essendo palesemente
insufficiente la mera consultazione al Parlamento. Il problema del deficit
democratico è stato quindi risolto con il procedimento della codecisione,
nel quale il potere legislativo è esercitato in condizioni di parità, dal
Consiglio e dal Parlamento.
Il principio dello stato di diritto comporta la necessità che nell’Unione,
tutti i soggetti e gli attori coinvolti, siano subordinati al rispetto del
diritto, risultante dagli stessi Trattati.
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IL MECCANISMO SANZIONATORIO NEL CASO DI VIOLAZIONE
GRAVE E PERSISTENTE DI TALI PRINCIPI

Art. 49 TUE: Ogni Stato europeo che rispetti e promuova i valori dell’art.
2 TUE può chiedere di diventare membro dell’Unione.
L’osservanza di questi valori è un requisito essenziale per l’ammissione
all’Unione.
L’art. 7 TUE ha instituito un meccanismo di controllo sulla condotta degli
Stati membri che può condurre, in caso di accertamenti di violazioni, a
sanzioni nei confronti degli Stati. La disposizione non riguarda però
violazioni dei principi sporadiche, ma violazioni gravi e persistenti (colpo
di Stato, politica razzista, ricorso alla tortura, soppressione della libertà
di stampa, ecc.), e può condurre a sanzioni sospensive di diritti inerenti
alla qualità di membro dell’Unione. Inoltre occorre che, a seguito
dell’accertata violazione, e di una proposta da almeno 1/3 degli Stati
membri o dalla Commissione, sia il Consiglio a deliberare, previo parere
conforme del Parlamento europeo. E’ cmq garantita la possibilità per lo
Stato membro preso in questione, di contraddire quanto detto ed esporre
le proprie ragioni prima che il Consiglio e il Parlamento deliberino.
Le sanzioni previste, possono consistere nella sospensione di alcuni dei
diritti derivanti dal trattato UE, compreso il diritto di voto nel Consiglio,
ferma restando la necessità per lo Stato in questione di continuare a
rispettare gli obblighi connessi alla qualità di membro.
La procedura regolata dall’Art.7 TUE non è soggetta ad un adeguato
controllo giudiziario dato che la Corte di Giustizia può pronunciarsi solo
sulla legittimità procedurale dell’atto adottato dal Consiglio e non anche
sul merito.
Solo per vizi formali quindi lo Stato può impugnare davanti alla Corte la
constatazione concernente la propria violazione.
Il Trattato di Lisbona ha poi introdotto una modifica al par. 1 dell’Art. 7
TUE stabilendo una difesa più avanzata dei valori stabiliti dall’Art. 2 TUE,
mediante una procedura di preallarme volta a verificare l’esistenza di un
evidente rischio di violazione grave e a prevenire la stessa commissione
della violazione.
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I PRINCIPI DEMOCRATICI

Art. 10 par.1 TUE: “Il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia


rappresentativa e i cittadini sono direttamente rappresentati, a livello
dell’Unione, nel Parlamento europeo”.
Gli Stati membri sono rappresentati nel Consiglio europeo dai rispettivi
Capi di Stato o di governo e nel Consiglio dai rispettivi governi, a loro
volta democraticamente responsabili dinanzi ai loro Parlamenti nazionali o
dinanzi ai loro cittadini.
I principi di democrazia sono perseguiti attraverso un rafforzamento del
ruolo del Parlamento europeo rispetto a prima del Trattato di Lisbona: la
codecisione infatti è divenuta la procedure legislativa ordinaria.
Il Parlamento però resta privo di un vero potere di iniziativa (che spetta
alla Commissione), e resta sostanzialmente estraneo a qualsiasi potere
decisionale nell’ambito della PESC.
Art.12 TUE: “i Parlamenti nazionali contribuiscono attivamente al buon
funzionamento dell’Unione”.
Essi, da un lato, esercitano nell’Unione una rappresentanza indiretta,
controllando, stimolando e orientando l’azione dei rispettivi governi
all’interno delle istituzioni europee; dall’altro, esprimono direttamente la
propria rappresentatività popolare operando nei rapporti con le istituzioni
europee, senza alcuna mediazione dei loro esecutivi.
I Parlamenti nazionali esercitano la rappresentanza indiretta attraverso i
poteri di controllo e indirizzo sui rispettivi governi in merito alle posizioni
che questi ultimi assumeranno all’interno del Consiglio; ma esercitano
anche una rappresentanza diretta, senza mediazione dei propri governi,
con riguardo al procedimento (ordinario o semplificato) di revisione dei
Trattati.
Art. 5 par.3 TUE: i Parlamenti nazionali vigilano sul rispetto dei principio
di sussidiarietà e proporzionalità.
Art. 10 par.4 TUE: “i partiti politici contribuiscono a formare una
coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini
dell’Unione”.
Art. 11 par.4 TUE: sancisce anche un potere di iniziativa legislativa
popolare.
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IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI FONDAMENTALI

L’art. 6 par.2 del TUE è dedicato ai diritti umani, diritti riconosciuti dalla
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e
risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.
In una prima fase la Corte di Giustizia, nel valutare la validità di un atto
comunitario, si era rifiutata di tenere conto dell’eventuale violazione dei
diritti umani, mentre in una seconda fase, a seguito soprattutto delle
posizioni assunte dalla giurisprudenza interna (italiana e tedesca in
primis), ha affermato che i diritti umani fondamentali fanno parte dei
principi giuridici generali dell’Unione. Perciò atti europei emanati in loro
violazione sono illegittimi e suscettibili di essere annullati dalla Corte di
Giustizia.
L’inserimento dei diritti fondamentali, nel diritto dell’Unione è avvenuto
dunque in via “pretoria” grazie alla giurisprudenza per così dire creativa
della Corte.
L’adesione dell’Unione alla Convenzione comporta che i suoi atti siano
sindacabili dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.

IL RISPETTO DELL’IDENTITA’ NAZIONALE DEGLI STATI


MEMBRI

L’art 6 TUE prosegue dicendo: <<3. L’ Unione rispetta l’identità nazionale


dei suoi Stati membri. 4. L’ Unione si dota dei mezzi necessari per
conseguire i suoi obiettivi e per portare a compimento le sue politiche>>
Il par 3 ha un significato prevalentemente politico, ossia quello di
salvaguardare anzitutto la sovranità degli Stati membri, escludendo ogni
trasformazione dell’UE in una entità federale. Inoltre, esso comporta che
l’Unione non possa , in principio, intervenire a modificare l’assetto
costituzionale degli Stati membri. Il concetto poi di identità nazionale
comprende anche, oltre alla sovranità e alla costituzione dello Stato, il
complesso della cultura, della civiltà, delle tradizioni, dell’arte di ciascuno
Stato.
Il par 4 ha un valore programmatico, ed esprime l’impegno politico degli 17
Stati membri a fornire all’Unione tutti i mezzi necessari, in primis quelli
finanziari.

IL PROCEDIMENTO DI REVISIONE DEI TRATTATI

Secondo l’art.48 par. 2 TUE, ogni Stato membro, la Commissione o il


Parlamento europeo, possono sottoporre al Consiglio europeo progetti
intesi a modificare i Trattati su cui è fondata l’Unione.
La possibilità di revisione dei Trattati rappresenta un’assoluta novità
poiché, sino al Trattato di Lisbona, il processo di integrazione era
considerato come un punto di non ritorno consacrato formalmente nell’art.
2 TUE il quale indica come obiettivo quello di “mantenere integralmente
l’acquis comunitario” nel senso che l’azione dell’Unione non poteva in
nessun caso rimettere in discussione quanto fino ad ora conseguito.
La previsione contenuta nell’art.48 par.2 TUE rappresenta quindi un
inversione di tendenza.

PROCEDURA DI REVISIONE ORDINARIA

Il Consiglio europeo, previa consultazione del Parlamento europeo e della


Commissione, nonché della Banca Centrale europea, in caso di modifiche
istituzionali al settore monetario, può approvare a maggioranza qualificata
delle modifiche ai Trattati. Viene così costituita una “Convenzione sul
futuro dell’Unione europea”, incaricata di preparare un testo base per la
successiva conferenza intergovernativa. Le eventuali modifiche, infatti,
saranno accettate solo dopo aver convocato una conferenza dei
rappresentanti dei governi degli Stati membri, nella quale si svolge un
negoziato multilaterale tra gli Stati, diretto a stabilire di comune accordo
(all’unanimità) le modifiche proposte. Tali modifiche entrano in vigore una
vota che siano state ratificate da tutti gli Stati membri conformemente
alle loro norme costituzionali.
La revisione è un fenomeno abbastanza complesso: il Consiglio ha un ruolo
decisivo, in quanto prende la decisione politica di convocare la conferenza
intergovernativa e successivamente approva il progetto di accordo
adottato dalla stessa conferenza. Ma la novità più importante è 18
rappresentata dalla Convenzione, che è un organo collegiale composto da
personalità autorevoli, rappresentati dei governi e dei Parlamenti degli
Stati membri, del Parlamento europeo, della Commissione, che da vita ad
un metodo non più esclusivamente intergovernativo ma più partecipato,
democratico e articolato.
In realtà cmq l’ultima parola spetta alla commissione intergovernativa che
ben potrebbe stravolgere il testo approvato dalla Convenzione.

Ci sono poi procedure di revisioni semplificate previste da disposizioni


specifiche in determinate materie:

Una prima è disciplinata dall’art.48 par.6 TUE riguardo alle modifiche alla
parte terza del TFUE, concernente le politiche e le azioni interne
dell’Unione.

Una seconda è disciplinata dall’art.48 par.7 TUE riguardo al passaggio


dalla votazione all’unanimità del Consiglio, alla votazione a maggioranza
qualificata; così come il passaggio da una procedura legislativa speciale a
quella ordinaria (codecisione).

PROCEDURA DI REVISIONE SEMPLIFICATA:

Il progetto può essere presentato da qualsiasi Stato membro, dal


Parlamento europeo o dalla Commissione e sottoposto al Consiglio europeo.
Quest’ultimo, previo parere del Parlamento e della Commissione, può
decidere all’unanimità di modificare le disposizioni.

E’ necessaria cmq la ratifica degli Stati membri.

Tale procedura non può essere utilizzata per estendere le competenze


attribuite all’Unione dai Trattati (art.48 par.6, 3°comma).

PROCEDURA DI REVISIONE DELEGATA:


Particolare procedura di revisione semplificata che consente alle 19
istituzioni europee di adottare atti diretti ad integrare o sviluppare il
contenuto di particolari disposizioni. In alcuni casi addirittura, senza il
bisogno di una ratifica da parte degli Stati membri, come per esempio in
caso di modifica dello Statuto della Corte di Giustizia (art.281 TFUE).
A tale procedura si lega anche la possibilità di attribuire all’Unione delle
competenze “sussidiarie”, ampliando i suoi poteri mediante un
procedimento che si esaurisce sul piano esclusivamente europeo.

L’ AMMISSIONE DI NUOVI MEMBRI

La procedura di ammissione all’ UE è regolata dall’ articolo 49 TUE il quale


prevede due fasi. La prima fase si svolge nel quadro delle istituzioni
europee, la seconda coinvolge, invece, gli Stati membri. Il procedimento
prende avvio dall’ iniziativa dello Stato che intende aderire all’ Unione
europea.
Essa prevede due requisiti per l’adesione: il primo di natura geografica, in
quanto lo Stato candidato deve appartenere all’ Europa, e il secondo di
natura politica, nel senso che lo Stato deve rispettare e promuovere i
valori, enunciati dall’art. 2 TUE, sui quali si fonda l’Unione. Il primo
criterio viene constatato da parte delle istituzioni dell’Unione, il secondo
implica un giudizio, una valutazione (discrezionale) ad opera sempre di tali
istituzioni.
Sull’ammissione il Consiglio deve deliberare all’unanimità; la sua pronuncia
fa seguito al parere (obbligatorio ma non vincolante) della Commissione e
all’approvazione del Parlamento. Tuttavia mentre il parere della
Commissione è obbligatorio, il che significa che il Consiglio è tenuto
giuridicamente a consultarla (anche se il parere della Commissione non
vincola il Consiglio che può discostarsene), il parere del Parlamento è
configurato come conforme; ciò significa che l’atto del consiglio può
essere adottato solo se coincide con la volontà espressa dal Parlamento.
La seconda fase si conclude con la stipulazione di un contratto tra lo
Stato aderente e gli Stati membri, contenente le condizioni di ammissione
e gli adattamenti dei Trattati. L’ingresso dello Stato richiedente
nell’Unione ha luogo solo al momento in cui entra in vigore l’accordo di
adesione; e tale entrata in vigore è subordinata alla ratifica degli Stati 20
contraenti.
Le due fasi del procedimento tendono a sovrapporsi e a concludersi
simultaneamente.

IL RECESSO DALL’UNIONE EUROPEA

Il Trattato sull’Unione europea non conteneva alcuna disposizione in


merito ad un eventuale diritto di recesso unilaterale degli Stati membri.
L’art 53 TUE tuttora esprime la volontà di dare alla costruzione europea
una durata permanente.
Il Trattato di Lisbona, per la prima volta, ha attribuito agli Stati membri
un diritto di recesso volontario subordinato solo a condizioni
procedimentali che non impediscono ad uno Stato membro di ritirarsi se
lo vuole.
L’art 50 TUE infatti dichiara che:
 ogni Stato può recedere dall’Unione conformemente alle proprie
norme costituzionali
 lo Stato deve notificare la sua intenzione al Consiglio europeo
 l’Unione negozia le condizioni di recesso, tenendo conto del
quadro delle future relazioni con l’Unione
 il recesso segna il momento in cui cessa l’applicazione de dei
Trattati allo Stato interessato
 se non si raggiunge un accordo l’applicazione dei Trattati cessa
cmq trascorsi 2 anni dalla notifica della decisione di recedere
 nulla esclude che tale Stato possa in futuro rientrare nell’Unione,
ma in tal caso va applicato il procedimento di ammissione regolato
dall’art. 49 TUE

CAPITOLO 3:

I PRINCIPI DELIMITATIVI TRA LE COMPETENZE DELL’ UNIONE E


DELLA COMUNITA’ EUROPEA E QUELLE DEGLI STATI MEMBRI

LE COMPETENZE DI ATTRIBUZIONE
Le competenze dell’ Unione sono delimitate, rispetto a quelle esercitabili 21
dagli Stati membri, in base ad alcuni principi, i quali circoscrivono anche,
la misura delle competenze che le norme dei Trattati conferiscono a
ciascuna istituzione.
Il primo principio, definito come PRINCIPIO DELLE COMPETENZE DI
ATTRIBUZIONE , dispone che l’Unione agisce nei limiti delle competenze
che gli sono attribuite dai Trattati istitutivi per realizzare gli obiettivi da
questi stabiliti.
L’Unione dispone solo delle funzioni e dei poteri che gli Stati membri gli
hanno volontariamente attribuito.
I poteri dell’Unione europea non sono “originari” bensì “derivati” ,
sottolineando il carattere non federale dell’Unione e la volontà di
salvaguardare la sovranità degli Stati membri. Qualsiasi competenza non
attribuita dai Trattati all’Unione rimane quindi agli Stati membri (art.5
par.2 TUE).
Il rispetto del principio di attribuzione è giuridicamente sanzionato; ciò
significa che se le Comunità o le sue istituzioni ove agissero al di là delle
competenze che gli sono state conferite, gli atti emanati verrebbero
considerati illegittimi, perché viziati da incompetenza e per questo
annullabili dalla Corte di Giustizia.

LE COMPETENZE “SUSSIDIARIE”

L’ articolo 352 TFUE ha ridimensionato il suddetto principio delle


“competenze di attribuzione” conferendo nuovi poteri detti “ competenze
sussidiarie”, senza bisogno però di una formale modifica dei Trattati. Tale
articolo contiene una clausola di flessibilità la quale dichiara che quando
un’azione dell’Unione è necessaria per raggiungere uno scopo della stessa,
senza che i Trattati prevedano i poteri d’azione richiesti a tale scopo, il
Consiglio, all’unanimità, su proposta della Commissione e dopo aver
consultato il Parlamento, può attribuire nuove competenze all’Unione. Tale
attribuzione deve essere quindi subordinata al consenso di tutti gli Stati
membri.
Tuttavia ci sono dei limiti all’impiego di tale procedimento, in quanto l’Art.
352 TFUE prevede che un determinato scopo rientri già nelle competenze
dell’Unione, ma che quest’ultima non sia stata provvista dai Trattati dei 22
poteri d’azione necessari per realizzarlo.
Un ulteriore limite all’impiego del procedimento deriva dal divieto di
applicazione dello stesso in materia di PESC.
Tali limiti hanno però una scarsa efficacia pratica, in quanto gli scopi
dell’Unione che risultano dagli articoli 2,3 e 4 del TUE sono già di per sé
ampi e generali.
I c.d. POTERI IMPLICITI

Il principio delle competenze di attribuzione risulta limitato dalla


giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale fa riferimento alla
cosiddetta “teoria dei poteri impliciti”. Secondo tale teoria l’UE deve
ritenersi provvista, non solo dei poteri ad essa conferiti espressamente
dai Trattati istitutivi, ma anche dei poteri “impliciti”, ossia di quei poteri
funzionali a quelli espliciti, che siano necessari per garantire che questi
siano esercitati nella maniera più efficace. Esiste poi una versione più
avanzata di tale teoria, secondo la quale tali poteri possono essere
ricavati direttamente dagli scopi dei Trattati: l’Unione, così, è fornita dei
poteri (impliciti) occorrenti per raggiungere i predetti scopi.
Esemplare di tale giurisprudenza è la sentenza AETS del 31 marzo 1971,
con la quale la Corte affermò la competenza della Comunità a concludere
accordi internazionali in materia di trasporti. Secondo la Corte, tale
competenza non deve essere espressamente prevista dal Trattato ma può
desumersi anche da altre disposizioni dei Trattati e da atti adottati in
forza di queste disposizioni dalle istituzioni dell’Unione.

LE CATEGORIE DELLE COMPETENZE DELL’UNIONE EUROPEA

Il principio di attribuzione non esaurisce la disciplina relativa alle


competenze dell’Unione. Occorre infatti stabilire se il conferimento di
tali competenze escluda quella degli Stati membri o al contrario le due
competenze coesistano. Prima del Trattato di Lisbona mancava una
disciplina organica in materia.
Il Trattato di Lisbona ha colmato poi tale lacuna individuando
3 categorie di competenze dell’Unione (artt. Da 2 a 6 del TFUE): esse
sono le competenze esclusive, le competenze concorrenti, e quelle di
sostegno, coordinamento e completamento dell’azione degli Stati membri, 23
alle quali si aggiungono quelle in materia di PESC.
Materie di competenza esclusiva: (art.3 par1 TFUE)

o Solo l’Unione può emanare atti obbligatori.


o Gli Stati membri possono farlo solo se autorizzati dall’Unione o
per dare attuazione agli atti dell’Unione.
- Esse sono:
- 1) l’unione doganale;
- 2) le regole di concorrenza necessarie al funzionamento del
mercato interno;
- 3) la politica monetaria;
- 4) la conservazione delle risorse biologiche del mare;
- 5) la politica commerciale comune;

- Tali materie hanno carattere tassativo per cui ulteriori materie


potrebbero essere stabilite solo modificando i Trattati.

Materie di competenza concorrente: (art.2 par.2 TFUE)

- In tali materi sia l’Unione che gli Stati membri possono adottare
atti giuridicamente vincolanti.
- Gli Stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui
l’Unione non ha esercitato la propria.
Esse sono:
- 1) il mercato interno;
- 2) la politica sociale;
- 3) la coesione economica, sociale e territoriale;
- 4) l’agricoltura e la pesca (esclusa la conservazione delle risorse
biologiche del mare);
- 5) l’ambiente;
- 6) la protezione dei consumatori;
- 7) i trasporti;
- 8) le reti trans europee;
- 9) l’energia;
- 10) lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia;
24
- Tale elenco, a differenza di quello delle competenze esclusive, è
esemplificato e non esaustivo
- L’Art. 4 TFUE poi detta una disciplina più “sbilanciata” a favore
degli Stati membri in particolari settori (ricerca; sviluppo
tecnologico e dello spazio; aiuti umanitari;) nei quali l’azione svolta
dall’Unione non preclude quella degli Sati membri che può essere
cmq esercitata.
Materie di sostegno coordinamento o completamento: (art.2 par.5
TFUE)
- L’azione dell’Unione consiste in un opera di assistenza all’azione
degli Stati membri, la quale non impedisce l’esercizio delle
competenze statali e che non può comportare un’armonizzazione
normativa degli Stati membri.
- Esse sono:
- 1) la tutela e il miglioramento della salute umana;
- 2) l’industria;
- 3) la cultura;
- 4) il turismo;
- 5) istruzione, formazione professionale, gioventù e sport;
- 6) la protezione civile;
- 7) la cooperazione amministrativa (art.6 TFUE);
- Tali competenze non riguardano in toto tali materie, ma solo
“nella loro finalità europea”, ossia nella misura in cui riguardano la
dimensione europea e non quella meramente interna dei suddetti
settori.

IL PRINCIPIO DI SUSSUDIARIETA’

Un ulteriore principio che limita la sfera d’azione della Comunità rispetto


agli Stati membri è quello di Sussidiarietà. Esso è previsto dall’ articolo 5,
2°comma del TUE e dichiara che secondo tale principio, l’Unione può
intervenire nei settori che non sono di sua esclusiva competenza, soltanto
se e nella misura in cui, gli obbiettivi dell’azione prevista non possono
essere realizzati dagli Stati membri, ma possono essere meglio realizzati
a livello del’Unione.
Tale principio non riguarda la ripartizione di competenze tra l’Unione e gli 25
Stati membri, ma il loro esercizio in quanto distingue le materie che sono
di esclusiva competenza dell’UE, e quindi dove il principio non opera, e le
altre materie di competenza concorrente e per le quali il principio di
sussidiarietà delimita l’esercizio delle competenze, da parte dell’Unione o
degli Stati membri, in quelle materie appartenenti alla competenza sia
della prima che dei secondi.
Quindi il principio di sussidiarietà è limitato alle sole materie di
competenza concorrente tra Stati e l’Unione
Bisogna dire che lo stesso principio è diretto essenzialmente a porre un
argine ad un eccessivo attivismo dell’UE; esso infatti è formulato in
maniera chiaramente restrittiva richiedendo, che sussistano due
condizioni fondamentali:

L’ insufficienza o inadeguatezza dell’ azione degli Stati membri a


raggiungere un obbiettivo.
Il valore aggiunto dell’ intervento europeo, tenuto conto delle
dimensioni o degli effetti dell’azione in questione.

Il rigore di queste due condizioni è confermato inoltre dal PROTOCOLLO


N.2, che stabilisce l’obbligo per le istituzioni europee di giustificare le
proprie proposte in base al principio di sussidiarietà, in modo da garantire
l’informazione dei Parlamenti nazionali e attribuirgli poteri di vigilanza
significativi.
Tale Protocollo infatti stimola una partecipazione dei Parlamenti nazionali
all’eventuale impugnazione di atti europei che violino il principio di
sussidiarietà.
Il principio di sussidiarietà, si collega in secondo luogo allo scopo che le
scelte e le decisioni siano assunte nel modo più trasparente possibile e nel
modo più vicino alle esigenze e alle determinazioni dei cittadini. Si parla al
riguardo di un “principio di prossimità”.
Il principio di sussidiarietà comporta un notevole margine di
apprezzamento discrezionale per quanto riguarda sia il profilo
dell’insufficienza dell’azione statale sia quello relativo al valore aggiunto
offerto dall’intervento dell’Unione europea.
Tale principio ha provocato una diminuzione del numero delle proposte 26
normative da parte della Commissione ponendo un freno all’eccedenza
legislativa.

PRINCIPIO DI PROPORZIONALITA’

Art.5 par.4 TUE:


<<Il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto
necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati>>
Essendo un principio generale del diritto dell’Unione, esso vincola sia
l’Unione che gli Stati membri, con la conseguenza che violazione di tale
principio può comportare un’infrazione sottoponibile al giudizio della
Corte di giustizia.
Inoltre esso comporta una valutazione circa la congruità dei mezzi
impiegati rispetto all’obiettivo perseguito e implica che tali mezzi devono
essere limitati a quelli occorrenti a raggiungere l’ obiettivo in questione.
Ciò significa che anche questo principio, in quanto riferito all’Unione, è
teso a porre dei limiti alla sua azione, ma a differenza del principio di
sussidiarietà, quello della proporzionalità opera nell’intero campo di
applicazione del TUE, comprese le materie nelle quali l’Unione ha una
competenza esclusiva.
L’Art. 5 par. 4 TUE non fa espresso riferimento solo al contenuto
dell’azione ma anche alla sua forma, cioè ai tipi di atti adottabili,
stabilendo pertanto che le misure normative devono essere graduate
rispetto all’obiettivo e devono avere la minore obbligatorietà possibile.
L’azione dell’Unione deve essere quanto più possibile semplice, coerente
con le misure e necessariamente efficace.
Risulta che le misure legislative dell’Unione devono essere prese soltanto
per quanto necessario, anche riguardo agli oneri amministrativi e
finanziari.
Così, se non è indispensabile un regolamento, dovrà emanarsi una
direttiva. Inoltre deve aggiungersi che, qualora sia possibile, il
raggiungimento di un determinato obiettivo di interesse europeo può
anche prescindere dall’emanazione di un atto.
A differenza del principio di sussidiarietà, in quello di proporzionalità
sono esclusi poteri di controllo dei Parlamenti nazionali.
27
LE SITUAZIONI PURAMENTE INTERNE AI SINGOLI STATI

Vi è un altro limite alla competenza dell’Unione nei confronti degli Stati


membri, ossia l’impossibilità giuridica, per l’Unione, di intervenire in
situazioni che siano puramente interne ad un singolo Stato membro e che
cmq sfuggono all’ambito di applicazione del diritto Europeo.
Il diritto europeo è applicabile solo in situazioni “transnazionali” ossia, in
situazioni che mettano in rapporto almeno due Stati membri e possono x
esempio riguardare le 4 libertà fondamentali, libertà di circolazione delle
merci, persone, servizi e capitali. (Per le merci ci si riferisce a quelle
esportate da uno Stato membro all’altro , per le persone ci si riferisce a
parsone che siano cittadini di un paese membro diverso da quello nel quale
esercitano la libertà di circolazione o di stabilimento, oppure a persone
che si spostano da uno Stato membro all’ altro per offrire o ricevere
servizi, o ancora a persone che pur non spostandosi affatto svolgano
servizi diretti verso uno Stato membro diverso la proprio). Se quindi, non
ci sono spostamenti intracomunitari, gli Stati restano liberi di applicare
la propria normativa.
Per quanto riguarda le possibilità di intervento dell’Unione negli Stati
membri, la Corte di giustizia sembra tendere a voler cmq ampliare tale
intervento, applicando per esempio il c.d. articolo 30 CEE (oggi 34 TFUE),
a normative tecniche di uno Stato membro, che riguardano la
fabbricazione, la presentazione o l’etichettatura di date merci. Tale
articolo disponeva che “non dovessero esserci restrizioni quantitative
all’importazione di merci, ma non disponeva che le merci importate
avessero lo stesso trattamento di quelle di origine nazionale. Perciò il
suddetto articolo è applicabile solo nel casi in cui le differenze di
trattamento tra merci importate e merci di origine nazionale, anche se
presenti, non ostacolino l’importazione”. La Corte ha ritenuto applicabile
questa disposizione in casi in cui ha riconosciuto un effetto restrittivo
dell’importazione di merci a danno delle stesse.
Un altro esempio è la circolazione dei lavoratori subordinati, situazione in
cui la Corte nella sentenza UECKER e JACQUET, ha negato il diritto a dei
coniugi stranieri(i coniugi delle signore Uecker e Jacquet) di lavoratori
cittadini di uno Stato membro, a lavorare nello stesso Stato, qualora essi
non abbiano mai esercitato il diritto di circolazione all’interno della 28
Comunità, o qualora non provenga da un altro Stato membro.
Anche riguardo alle persone è possibile che le situazioni interne ricadano
nel diritto dell’Unione nel momento in cui ciò è previsto da norme del
trattato in vista di dati obiettivi, come la parità di trattamento tra
lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile.
In conclusione si può dire che in alcune importanti materie le situazioni
puramente interne ad uno Stato membro sono sottratte alla competenza
dell’Unione e all’applicazione del suo diritto e restano riservate allo Stato
membro in questione. Da ciò però non può dedursi alcuna regola generale
perché lo stesso diritto dell’Unione ben può regolare situazioni interne
seppur in via indiretta.
Ci riferiamo alle ipotesi in cui le norme europee sulla libera circolazione
delle merci e delle persone vietino ad uno Stato membro di applicare
restrizioni nei confronti di merci e persone provenienti da un altro Stato
membro. Le suddette restrizioni rimangono così applicabili ai soli cittadini
dello Stato in questione comportando una “discriminazione a rovescio”.
In tali ipotesi può intervenire il giudice, specie quello costituzionale, o il
legislatore nazionale per estendere ai propri cittadini la normativa, più
favorevole, applicabile ai cittadini di altri Stati membri, così eliminando la
discriminazione a rovescio.

IL PRINCIPIO DI LEALE COOPERAZIONE

Tale principio è stato rinvenuto dalla giurisprudenza comunitaria, in una


disposizione contenuta nell’ articolo 10 del Trattato CE.
Oggi tale disposizione è contenuta nell’Art. 4 par. 3 TUE secondo il quale:
- Gli Stati membri devono adottare tutte le misure affinché
vengano adempiti tutti gli obblighi derivanti dai Trattati e dagli
atti delle istituzione dell’Unione.
- Gli Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi
compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in
pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione.
Il principio di leale collaborazione degli Stati membri nei riguardi
dell’Unione europea, e altrettanto di quest’ ultima nei confronti dei primi,
specifica quali siano gli obblighi degli Stati, i quali riguardano tutti gli
organi, le autorità pubbliche, organi dello stato o altri enti territoriali. La 29
giurisprudenza dell’Unione ha ricavato dall’articolo 10 il principio generale
di leale collaborazione, o cooperazione, degli Stati membri nei riguardi
della Comunità europea.
La Corte, per esempio, ha affermato che dal’articolo 10 deriva l’obbligo
del giudice nazionale di garantire la tutela giurisdizionale dei diritti dei
singoli derivanti dal diritto dell’Unione aventi efficacia diretta. E anche
nel caso in cui il diritto interno vieti l’emissione di provvedimenti a tutela
dei singoli, il giudice è cmq tenuto ad adottarne dei provvedimenti
provvisori.
Un ulteriore conseguenza che viene ricavata dall’obbligo di collaborazione
è l’ obbligo del giudice interno di interpretare il proprio diritto in maniera
conforme al diritto dell’Unione. Ciò deve avvenire soprattutto, quando le
misure adottate dagli Stati per raggiungere un obbiettivo di una data
direttiva, mancano o cmq non sono appropriate. In tal caso l’obbligo
consente di applicare la direttiva “piegando” il diritto dello Stato a
conformarsi in via interpretativa a tale direttiva.
All’obbligo di leale collaborazione è riportato anche il c.d. “principio di
assimilazione” secondo il quale lo Stato membro deve sanzionare le
violazioni del diritto dell’Unione in termini analoghi rispetto a violazioni
comparabili del diritto interno.
Un altro obbligo che la Corte ha dedotto dall’obbligo di cooperazione è
quello, per un Stato membro di adottare provvedimenti necessari per
fronteggiare atti di privati che impediscano l’esercizio delle libertà
garantite dal diritto dell’Unione. A tal proposito si ricordi la causa nella
quale la Francia è stata accusata di non aver adottato provvedimenti
adeguati affinché atti di privati non ostacolassero la libera circolazione
degli ortofrutticoli, incolpandola di essere venuta meno agli obblighi
imposti dall’articolo 30 CE [oggi 34 TFUE] riguardante le restrizioni
quantitative.
La causa Pupino aveva esteso poi l’obbligo di leale collaborazione anche alla
cooperazione di polizia giudiziaria in materia penale.
Il trattato di Lisbona ha inserito un nuovo comma all’Art.4 par.3
stabilendo che in virtù del principio di leale collaborazione, l’Unione e gli
Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente
nell’adempimento degli obblighi derivanti dai Trattati.
Il principio di leale cooperazione ha trovato poi applicazione anche tra le 30
istituzioni europee (art.13 par.2 TUE).

L’ INTEGRAZIONE DIFFERENZIATA O FLESSIBILE

Il diritto dell’Unione non viene applicato agli Stati membri in maniera


uniforme e integrale ma piuttosto in maniera differenziata. Nel senso che
gli Stati non sono soggetti integralmente e uniformemente alla normativa
europea. Questo perché si è lasciata la possibilità agli Stati più
volenterosi di procedere con una maggiore rapidità nel conseguire più
ambizioni obiettivi, lasciando indietro quegli Stati che non avevano le
necessarie capacità.
Tale processo di integrazione differenziata era già stato impiegato
ampiamente dal Trattato di Maastricht del 1992. Relativamente all’Unione
economica e monetaria infatti, esso aveva escluso il Regno Unito e la
Danimarca (su loro scelta) dalla terza fase di tale unione; fase che
condusse alla introduzione dell’ euro come moneta unica, dal 1° gennaio
2002. Il Trattato inoltre prevedeva, quale condizione di passaggio alla
terza fase, ossia l’ingresso nella zona dell’euro, il rispetto di alcuni
“criteri di convergenza”, attribuendo quindi l’impossibilità di farne parte
del Regno Unito e della Danimarca, considerarti quindi Stati membri con
deroga.
Un ulteriore caso di integrazione differenziata può determinarsi in
materia di PESC nell’art.31 par. 1 TUE, il quale stabilisce che in tale
materia la regola generale di votazione del Consiglio è l’unanimità, che può
essere derogata dalla c.d. ”astensione costruttiva”: è previsto infatti che
ciascun membro del Consiglio possa motivare la propria astensione con una
dichiarazione formale. In tal caso esso non è obbligato ad applicare la
decisione ma accetta che essa impegni l’Unione.
Lo Stato deve astenersi in maniera non pregiudizievole per l’attuarsi della
decisione. Si crea cosi un meccanismo di Europa a più velocità.
Le deroghe sono sempre previste riguardo ai nuovi membri in occasione di
successivi allargamenti.

LA COOPERAZIONE RAFFORZATA
Il trattato di Amsterdam del 1997 ha introdotto un metodo specifico per 31
consentire forme di integrazione differenziata o flessibile all’interno dell’
UE. Questo meccanismo è denominato “cooperazione rafforzata”, e con
esso si cerca di attenuare l’aspetto negativo del fenomeno, ossia la
rinuncia di alcuni Stati a mantenere l’unità e l’uniformità del sistema
europeo perché estranei allo sviluppo. Tale rinuncia tuttavia sembra
inevitabile, in considerazione dell’esteso allargamento dell’UE, e quindi
della sempre più marcata differenziazione nei caratteri delle società dei
vari Stati membri.
L’unica maniera per conciliare la politica di allargamento dell’UE con quella
di approfondimento dell’integrazione sembra essere quella
dell’accettazione di un’integrazione differenziata.
Il significato essenziale della cooperazione rafforzata sta nel 
promuovere l’inserimento all’ interno del sistema dell’ UE di forme di
approfondimento di sviluppo che riguardano un numero limitato di Stati
membri.
L’Art.20 par.1 TUE stabilisce che gli Stati membri “più avanzati” possano
instaurare tra loro delle cooperazioni rafforzate, facendo ricorso alle
istituzioni e alle procedure dell’Unione, per far progredire l’integrazione
europea.
Secondo tale procedimento quindi, tutti gli Stati membri del Consiglio
possono partecipare alle deliberazione nella materia oggetto di tale
cooperazione, ma solo quelli che partecipano alla cooperazione rafforzata
prendono parte alle decisioni con il loro voto.
Le regole di votazione sono quindi adottate in corrispondenza del numero
degli Stati membri partecipanti e l’unanimità è data dai soli membri che
partecipano alla cooperazione rafforzata. Lo stesso vale per le decisioni,
che sono obbligatorie per i soli partecipanti.
Gli Stati membri non partecipanti alla collaborazione hanno cmq un obbligo
negativo, ossia quello di non ostacolare tale cooperazione.
Gli Stati membri partecipanti si adoperano cmq per promuovere la
partecipazione del maggior numero di Stati.
Le condizioni generali per l’instaurazione di tale cooperazione sono:

 la cooperazione non deve riguardare le competenze esclusive


dell’Unione
 non deve recare pregiudizio al mercato interno, alla coesione 32
economica e sociale e alla concorrenza
 deve riguardare almeno 9 stati membri
 deve competenze, diritti e obblighi degli Stati membri che non
partecipano
 e che sia aperta a tutti gli Stati.

L’ instaurazione della cooperazione richiede una apposita delibera di


autorizzazione da parte delle competenti istituzioni europee.
La proposta è presentata dalla Commissione al Consiglio su richiesta degli
Stati membri interessati, ma la Commissione può rifiutare la richiesta
dandone adeguata motivazione. Il Consiglio delibera a maggioranza
qualificata previa approvazione del Parlamento europeo.
Nel quadro della PESC però l’attuazione di una cooperazione rafforzata
segue una diversa procedura:
 la proposta viene presentata direttamente dagli Stati membri
interessati al Consiglio, il quale delibera all’unanimità, previo parere
dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza e
della Commissione in merito alla coerenza della cooperazione.
Le cooperazioni sono aperte ad ogni Stato membro che può aderirvi anche
in un secondo momento notificando al Consiglio e alla Commissione la sua
volontà.
Su tale volontà si pronuncia la Commissione previa valutazione dei
requisiti.
Un particolare tipo di cooperazione può essere previsto in materia di
politica di sicurezza e difesa comune, la quale implica anche l’impiego di
mezzi militari.
Si tratta di una cooperazione strutturata permanente che può essere
instaurata dagli Stati membri che rispondo a criteri elevati in termini di
capacità militari.
Malgrado il progressivo aumento degli Stati membri, nella prassi la
cooperazione rafforzata non è mai stata ancora applicata.

CAPITOLO 4:
33
LA CITTADINANZA EUROPEA

L’ ATTRIBUZIONE DELLA CITTADINANZA EUROPEA

La cittadinanza europea consegue direttamente alla cittadinanza di uno


Stato membro dell’Unione. Tale status, enunciato nell’Art. 9 TUE, è
disciplinato dagli Art. 20-25 TFUE. Non esistono criteri di acquisto o di
perdita di tale cittadinanza definiti autonomamente dall’Unione, ma
essendo gli Stati membri liberi, per quanto riguarda l’attribuzione della
propria cittadinanza, essi possono, determinare l’acquisto o la perdita
anche della cittadinanza europea. Gli Stati membri e le altre istituzione
europee sono impossibilitati a sindacare l’attribuzione della cittadinanza
ad opera di un altro Stato membro.

Si ricordi a tal proposito la causa Micheletti ,causa in cui la Corte ha respinto la posizione della Spagna
che negava che una persona, provvista di doppia cittadinanza, argentina e italiana, potesse considerarsi
italiana e quindi esercitare il proprio diritto di stabilimento in Spagna. Per la Spagna, infatti, in caso di
doppia cittadinanza, deve prevalere quella di residenza abituale che nel caso di specie era quella
argentina.

Da questo caso la Corte ha desunto che disposizioni di uno Stato membro


che, per esempio, volessero eliminare la propria cittadinanza per impedire
l’esercizio dei diritti nascenti dal diritto dell’Unione, non producono
effetti sulla cittadinanza europea.

LO STATUS DI CITTADINO EUROPEO: IL DIRITTO DI LIBERA


CIRCOLAZIONE E DI SOGGIORNO

La creazione della cittadinanza dell’ Unione fa si che un individuo venga in


rilievo non solo come soggetto economicamente attivo ma anche come
soggetto politico, partecipe e protagonista del processo di integrazione
europea. Non c’è perciò un vincolo giuridico - politico come nel caso della
cittadinanza nazionale, ma al contrario i cittadini sono depositari di una
serie di diritti, il primo dei quali è quello di libera circolazione e soggiorno
nel territorio degli Stati membri.
Tale diritto e menzionato nell’art.21 TFUE, attribuisce al diritto in 34
questione un sicuro fondamento normativo e ne favorisce un ulteriore
sviluppo e ampliamento. Tuttavia il diritto in esame non è del tutto
incondizionato, nel senso che possono essere riconosciute delle eccezioni
e delle limitazioni.
Infatti per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità
pubblica, gli Stati membri possono adottare provvedimenti di
allontanamento.

IL DIRITTO DI ELETTORATO ALLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE


E DEL PARLAMENTO EUROPEO

il diritto di elettorato attivo e passivo al Parlamento europeo è sganciato


dalla cittadinanza europea ma spetta a chiunque risieda stabilmente nello
stato di votazione.
L’art.22 TFUE al paragrafo 1 stabilisce che ogni cittadino dell’Unione
residente in uno Stato membro di cui non è cittadino, ha il diritto di voto
e di eleggibilità nelle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede,
alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. L’esercizio di tale
diritto richiede che il Consiglio emani delle modalità con le quali
esercitarlo.
Il secondo paragrafo, parallelamente, si colloca nell’ottica delle elezioni
europee e quindi della partecipazione del cittadino europeo alla vita
politica dell’Unione europea, con particolare riferimento al diritto, da
parte di ogni cittadino dell’ Unione residente in uno Stato membro, di
voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato
membro in cui risiede. Anche l’attuazione di questa disposizione richiede
l’adozione di un atto da parte del Consiglio, il quale stabilisce che questo
diritto possa essere esercitato solo una volta, o nel paese di origine o in
quello di residenza. Il diritto di elettorato appare quindi svincolato dal
requisito della cittadinanza dello Stato in cui viene esercitato e esalta la
natura sopranazionale del Parlamento.
In una sentenza Spagna c. Regno Unito (caso Matthews)infatti, la Corte
aveva affermato che il Regno unito non aveva violato alcuna disposizione,
estendendo il diritto di elettorato al Parlamento europeo anche ai
cittadini de Commonwealth residenti a Gibilterra e quindi privi della 35
cittadinanza dell’Unione.

IL DIRITTO DI PETIZIONE

Secondo l’art.24 TFUE, qualsiasi cittadino dell’Unione ha in diritto di


petizione dinnanzi al Parlamento europeo. Questo diritto viene esteso dall’
art 227 TFUE anche ad ogni persona fisica o giuridica che risieda o abbia
la sede sociale in uno Stato membro. Secondo uno e l’altro articolo la
petizione ha lo scopo di sollecitare l’attenzione del Parlamento europeo e
sue eventuali iniziative.
La petizione può avere un contenuto alquanto vario: da richieste di
informazioni sulla posizione del Parlamento europeo in merito a date
questioni, a suggerimenti relativi alle politiche dell’Unione o alla soluzione
di specifici problemi, o anche a questioni di attualità.
Per l’ esame delle petizioni viene istituita una commissione permanente del
Parlamento europeo, detta appunto Commissione per le petizioni. Tale
Commissione può decidere di elaborare relazioni o di pronunciarsi in altro
modo; dopo di che il Parlamento europeo può adottare risoluzioni,
interrogare la Commissione o il Consiglio.

LA DENUNCIA AL MEDIATORE EUROPEO

Ai sensi dell’Art. 24, 3° comma TFUE ogni cittadino dell’Unione può


rivolgersi al mediatore istituito conformemente all’Art. 228 TFUE.
Il mediatore europeo è un organo individuale e indipendente, che hai il
compito di promuovere la buona amministrazione dell’Unione intervenendo
per riparare i casi di cattiva amministrazione. E’ nominato dal Parlamento
europeo dopo ogni elezione dello stesso e il cui mandato è rinnovabile.
Il Parlamento non ha alcuna possibilità giuridica di influenzare l’azione del
Mediatore il quale svolge le sue funzioni in piena indipendenza, ma può
solo chiedere alla Corte di giustizia di dichiararlo dimissionario, qualora
abbia commesso una colpa grave o non risponda più alle condizioni
necessarie all’esercizio delle sue funzioni.
Il mediatore ha il compito principale di ricevere le denunce di qualsiasi 36
cittadino dell’Unione o di qualsiasi persona fisica o giuridica che risiede o
abbia la sede sociale in uno Stato membro, riguardanti casi di cattiva
amministrazione nell’azione delle istituzioni o degli organi dell’Unione e di
cercare, da un lato, di riparare l’ eventuale torto subito dal denunziante e
dall’ altro di risolvere il problema di cattiva amministrazione sollevato
dalla denuncia, nell’interesse generale (non si richiede nel denunciante un
interesse ad agire).

Una volta ricevuta la denuncia, o anche di propria iniziativa, il Mediatore, procede alle indagini . Qualora,
esso constati un caso di cattiva amministrazione ne investe l’istituzione interessata che dispone di tre
mesi per comunicargli il suo parere, e trasmette poi una relazione con progetti di raccomandazioni alla
stessa e al denunciante. L’azione del Mediatore europeo non si esprime mai con atti giuridicamente
vincolanti ma tuttavia il suo contributo alla risoluzione dei casi specifici è solitamente molto efficace.

LA TUTELA DIPLOMATICA E CONSOLARE ALL’ESTERO

L’Art. 23 TFUE attribuisce una proiezione esterna alla cittadinanza


europea: infatti ogni cittadino dell’Unione gode, nel territorio di un paese
terzo nel quale lo Stato membro di cui ha la cittadinanza non è
rappresentato (non ha un consolato), della tutela da parte delle autorità
diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro alle stesse condizioni
dei cittadini di detto Stato.
In realtà non è previsto alcun ruolo dell’Unione, ma solo una protezione da
parte degli Stati membri in vi sussidiaria, a condizione che il cittadino
dell’Unione si trovi in uno Stato terzo in cui non c’è rappresentanza
consolare del suo Stato.

CAPITOLO 5:

LE ISTITUZIONI DELL’ UNIONE E DELLA COMUNITA’ EUROPEA

QUADRO GENERALE DELLE ISTITUZIONI E DEGLI ORGANI


L’Unione europea dispone di un quadro istituzionale unico, sebbene gli 37
organi che la compongono abbiano funzioni, competenze e poteri diversi.
Alcuni di tali organi sono definiti ISTITUZIONI. Esse attualmente sono:
il PARLAMENTO EUROPEO; IL CONSIGLIO EUROPEO; IL CONSIGLIO;
LA COMMISSIONE; LA CORTE DI GIUSTIZIA; LA BANCA CENTRALE
EUROPEA; LA CORTE DEI CONTI.
Parlamento europeo, Commissione e Consiglio sono organi rappresentativi
e per questo si tratta di istituzioni politiche. I loro rapporti devono
rispondere al principio di leale collaborazione sancito dall’Art. 13 par.2
TUE e devono conformarsi al riparto di competenze stabilito dai Trattati.
Le altre istituzioni, quali la Corte di giustizia e la Corte dei conti si
caratterizzano per la loro piena indipendenza, trattandosi di istituzioni
giudiziarie.
L’ apparato organizzativo poi comprende le autorità monetarie, cioè il
Sistema europeo di banche centrali (SEBC) e la Banca centrale europea
(BCE) nonché altri organi bancari, come la Banca per gli investimenti.
Sono previsti altri organi con funzioni consultive come il Comitato in
materia di trasporti, il Comitato per l’occupazione , il Comitato economico
e finanziario e il Comitato politico e di sicurezza. Altro organo
caratterizzato da indipendenza è il Mediatore europeo.

IL PARLAMENTO EUROPEO

Il parlamento europeo è l’istituzione rappresentativa dei cittadini degli


Stati membri, l’organo democratico per eccellenza (istituzione
sopranazionale).
E’ disciplinato dall’Art. 14 par.2 TUE. L’attuale PE è composto da 736
membri, suddivisi sul piano nazionale secondo un criterio grosso modo
demografico.
Tale istituzione esisteva già al momento della nascita della CECA ma con il
nome di Assemblea parlamentare europea; nel marzo del 1962, con una
nuova risoluzione si definì Parlamento europeo. Attualmente, a seguito
dell’ingresso di Bulgaria e Romania nell’UE, i parlamentari sono diventati
785, ma solo in via temporanea, e cioè fino all’inizio del mandato del
Parlamento 2009-2014; infatti l’Atto di adesione del 2005 stabilisce, all’
art 9, che a decorrere da questa legislatura (2009-2014), vi sia una nuova
ripartizione dei seggi che riconduca il numero dei parlamentari a 736, 38
riducendo il numero degli Stati maggiori e medi.
Lo stesso Parlamento ha inserito nel proprio regolamento interno una
nuova norma che contempla la categoria dei membri “osservatori”.
La loro partecipazione non ha alcun effetto giuridico sulle decisioni del
parlamento infatti sono denominato “parlamentari fantasma”.
La rappresentanza dei cittadini è garantita in modo proporzionale, con una
soglia di 6 seggi per Stato membro e a nessuno Stato sono assegnati più
di 96 seggi.
Il “criterio degressivamente proporzionale” comporta che il numero dei
seggi non è in rapporto diretto con il numero dei cittadini degli Stati,
anzi, man mano che il numero dei cittadini di uno Stato si riduce il criterio
opera in maniera meno decisiva; così che gli Stati demograficamente
maggiori hanno un numero di parlamentari minore a quello che gli
Spetterebbe se fosse seguito il rigido criterio proporzionale.
Il numero dei parlamentari e la loro assegnazione agli Stati membri sono
stabiliti dal Consiglio europeo all’unanimità, con approvazione del
Parlamento stesso.
In origine il Parlamento europeo era composto da delegati che i
parlamenti nazionali designavano tra i proprio membri secondo una
procedura fissata da ogni Stato membro. Questo sistema però faceva si
che il Parlamento avesse scarsa rappresentatività, in quanto non era
l’espressione diretta dei popoli europei, che ne restavano del tutto
estranei. Inoltre gli stessi componenti del PE essendo anche membri del
proprio parlamento nazionale erano indotti a impegnarsi più in quest’ultimo
che in quello europeo, anche perché all’ epoca, i poteri del PE erano ben
scarsi.
Le prime elezioni dirette del Parlamento europeo si sono tenute nel 1979,
nel momento in cui Il Consiglio, sulla base di un progetto presentato da un
parlamentare, decise di consentire l’elezione a suffragio universale
diretto.
In base all’Art. 14 par. 3 TUE i parlamentari sono eletti a suffragio
universale diretto, libero e segreto per un mandato di 5 anni.
Secondo l’Art.223 par.1 TFUE il Parlamento elabora una procedura
uniforme in tutti gli Stati membri o secondo principi comuni.
Il procedimento elettorale è una procedura la cui elaborazione richiede 39
una deliberazione unanime del Consiglio, e quindi degli Stati membri che vi
sono rappresentati, e una successiva adozione da parte degli stessi Stati,
in base alle rispettive disposizioni costituzionali.
Fin ora data la complessità della procedimento non si è riusciti ad
adottare una procedura uniforme quindi gli Stati membri sono liberi di
disciplinare come credono l’elezione al Parlamento europeo.
Perciò quando una legislazione di uno Stato membro stabilisce la
decadenza del mandato di un suo parlamentare, il suo mandato scade in
applicazione delle norme di tale legislazione e le autorità nazionali ne
informano il Parlamento europeo. Un caso celebre riguardo l’on. Jean-
Marie Le Pen dichiarato decaduto con un decreto del Primo ministro
francesse.
I deputati possono organizzarsi in gruppi politici secondo le affinità
politiche e tale gruppo deve essere composto da deputati eletti in almeno
4 Stati membri e occorre un numero minimo di 25 deputati; un deputato
può appartenere ad un solo gruppo politico. Non è ammessa la costituzione
di gruppi misti per cui deputati che non appartengono a nessun gruppo
restano non iscritti a nessun gruppo, perdendo alcune prerogative che
sono riservate solo ai gruppi.
L’Art.10 par.4 TUE riconosce inoltre i partiti politici europei come
importante fattore di integrazione dell’Unione poiché contribuiscono a
formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei
cittadini dell’Unione.

ORGANIZZAZIONE E FUNZIONAMENTO DEL PARLAMENTO


EUROPEO

Il Parlamento designa tra i suoi membri il Presidente e l’ufficio di


presidenza, 14 Vicepresidenti, 5 questori. Essi durano in carica due anni e
mezzo, cioè la metà della durata quinquennale del Parlamento stesso.
Presidente, vicepresidenti e questori compongono l’Ufficio di presidenza.
Ulteriori organi sono: - Conferenza dei presidenti (Presidente del
Parlamento e presidenti dei gruppi politici). - Conferenza dei presidenti
di commissione (presidenti di tutte le commissioni permanenti e
temporanee).
Le commissioni permanenti hanno una durata di due anni e mezzo e il loro 40
compito è quello di preparare, istruire e consultare le tematiche sulle
quali dovrà deliberare il Parlamento esprimendosi con risoluzioni, pareri e
raccomandazioni. Le commissioni temporanee invece, hanno durata di 12
mesi e sono costituite dal Parlamento per una specifica questione. Un
esempio è la costituzione di commissioni temporanee d’ inchiesta,
incaricate di esaminare denunce di infrazione o di cattiva amministrazione
nell’applicazione del diritto dell’Unione, imputabili sia alle istituzioni, sia
agli organi dell’Unione, che agli Stati membri. La commissione temporanea
d’ inchiesta cessa di esistere una volta consegnata una relazione del caso
al Parlamento europeo il quale può assumere le iniziative che ritiene più
opportune.
Il Parlamento europeo tiene una sessione ordinaria annuale e di riunisce di
diritto il secondo martedì del mese di marzo (art.229, 1°comme TFUE);
tale sessione ha durata annuale e ogni tornata ha luogo,di regola, ogni
mese (solitamente per una settimana). Per quanto riguarda la sede del
parlamento, questa è fissata d’ intesa comune dai governi degli Stati
membri, a Strasburgo, dove si tengono le dodici tornate plenarie mensili,
mentre quelle aggiuntive e le riunioni delle commissioni si svolgono a
Bruxelles. Il Segretario generale del Parlamento europeo e i suoi servizi
restano invece a Lussemburgo.
Ai sensi dell’Art.231 TFUE IL Parlamento delibera a maggioranza dei
suffragi espressi e il Regolamento interno fissa il numero legale il quale di
regola è dato da un terzo dei componenti, ma le votazione sono cmq valide
a meno che il numero dei votanti è inferiore a 40.
Possono essere richieste dai Trattati specifiche maggioranze per
determinate materie.

LE FUNZIONI E I POTERI DEL PARLAMENTO EUROPEO

In origine il Parlamento aveva un ruolo meramente consultivo, in quanto il


potere di decisione, riguardo ad atti comunitari presentati dalla
Commissione, apparteneva esclusivamente al Consiglio. Questo quadro
evidenziava un evidente deficit democratico. Oggi, relativamente
all’adozione di atti dell’Unione viene attribuito un vero e proprio potere
legislativo tant’è che l’Art. 294 TFUE dichiara che il Parlamento europeo
partecipa alle procedure decisionali attraverso la codecisione che con il 41
Trattato di Lisbona è divenuta la procedura legislativa ufficiale. Tali
procedure sono tipicamente interistituzionali.
Il PE esercita anche importanti funzioni in materia di bilancio
Il Trattato di Maastricht del 1992 ha riconosciuto al Parlamento un
potere di impulso, detto anche di preiniziativa,nei confronti della
Commissione.
Secondo l’Art. 225 TFUE il Parlamento può chiedere alla Commissione di
presentare alcune proposte sulle questioni per le quali reputa necessaria
l’elaborazione di un atto dell’Unione. Non si ritiene che la Commissione sia
tenuta giuridicamente a dare seguito alla richiesta del Parlamento, ma se
ciò non dovesse accadere, questo può esercitare forme di pressione
politica in virtù del rapporto fiduciario che i Trattati designano tra le due
istituzioni.
Il PE ha inoltre il potere generale di deliberare e di adottare risoluzioni
su qualsiasi questione concernente l’Unione.
SIGNIFICATIVI sono invece i POTERI DI CONTROLLO del Parlamento
sulle altre istituzioni. Nei rapporti con la Commissione, il Parlamento
esamina, in seduta pubblica, almeno un mese prima dell’apertura della
sessione del Parlamento, l’attività dell’Unione e la relazione generale
annuale che la Commissione è tenuta a pubblicare ogni anno. Inoltre essa è
tenuta anche a presentare, assieme alla relazione generale, un programma
d’azione relativo all’anno successivo, e varie relazioni su determinate
materie, sul quale il Parlamento può esprimere proprie valutazioni,
orientamenti ed indirizzi.
Due degli strumenti più incisivi di controllo politico sulla Commissione sono
rappresentati dalle cosiddette interrogazioni che possono essere scritte
o orali e dalla mozione di censura. Le interrogazioni possono essere
presentate dal Parlamento europeo o da singoli deputati e alle quali la
Commissione è tenuta a rispondere oralmente o per iscritto. Per quanto
riguarda la mozione di censura, si riferisce al potere di provocare le
dimissioni della Commissione. Essa può considerarsi come una mozione di
sfiducia nei suoi confronti, in quanto dalla sussistenza o meno di fiducia
tra le due istituzione discende la permanenza in carica della Commissione.
Questa mozione è regolata dall’art 234 TFUE,e la sua adozione è
comunque circondata da molteplici garanzie. In anzitutto la decisone di
mozione deve essere sostenuta da un ampia maggioranza, e cioè dai 2/3 42
dei voti espressi e che rappresentano la maggioranza dei componenti; in
secondo luogo la mozione deve essere discussa solo dopo averla ben
esaminata quindi non prima di tre giorni dal suo deposito e infine che la
discussione e la votazione avvengano con la massima trasparenza. La
mozione deve essere in oltre presentata da almeno 1/10 dei componenti
del Parlamento.
L’effetto dell’approvazione della mozione di censura comporta le
dimissioni collettive dei membri della Commissione.
PER QUANTO RIGUARDA IL POTERE DI CONTROLLO SUL
CONSIGLIO, anche in questo caso il Parlamento può porre delle
interrogazioni, orali o scritte. Originariamente non esisteva alcun
rapporto con il Consiglio, ma l’art 230,3° comma del TFUE prevede che
anche in questo caso il Consiglio provveda a presentare al parlamento una
relazione dopo ogni sua riunione e anche una annuale.
Scarsi poi i rapporti con la Banca centrale europea, anche se tuttavia è
previsto che il Presidente della BCE presenti al Parlamento una relazione
annuale sull’attività del Sistema europeo di banche centrali (SEBC) e sulla
politica monetaria dell’anno precedente e di quello in corso.
Il Parlamento poi partecipa alla formazione di altre istituzioni o organi
come la Corte dei Conti, il Comitato esecutivo della BCE mentre il
Mediatore europeo è nominato in via esclusiva dal Parlamento.
Malgrado i progressi apportati dal Trattato di Lisbona la posizione del
Parlamento europeo resta del tutto marginale in materia di PESC.

IL CONSIGLIO EUROPEO

Il Consiglio europeo è rappresentativo dei governi degli Stati membri,


quindi è un classico organo intergovernativo. Con il Vertice di Parigi del
1974, tale prassi è stata formalizzata, nel senso che i Capi di Stato o di
governo, in un comunicato finale, espressero la loro volontà di riunirsi 3
volte l’anno per assumere importanti decisioni politiche sul cammino dell’
integrazione europea. L’inserimento nell’Unione europea del Consiglio
europeo è avvenuto col Trattato di Maastricht e con il Trattato di
Lisbona è divenuta istituzione dell’Unione. Sotto il profilo politico esso si
colloca al vertice della struttura dell’Unione poiché è esso che prende le
grandi decisioni relative agli sviluppi dell’integrazione, le quali poi vengono 43
attuate dalle altre istituzioni secondo le regole dei Trattati.
La sua composizione è definita dall’Art. 15 par.2 TUE: esso riunisce i Capi
di Stato o di governo degli Stati membri, il suo presidente e il Presidente
della Commissione e ai lavori partecipa anche l’Alto rappresentate
dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Ciascun membro
(statale) del Consiglio europeo può farsi assistere da un suo ministro e il
Presidente della Commissione da un membro della stessa.
Il Presidente del Consiglio europeo è un organo individuale che non può
esercitare alcun mandato nazionale ed è eletto dal Consiglio stesso a
maggioranza qualificata per un mandato di 2 anni e mezzo, rinnovabile una
sola volta. Con la stessa procedura il Consiglio pone fine al mandato del
Presidente in caso di impedimento o colpa grave.
I suoi compiti sono disciplinati dall’Art.15 par.6 TUE:

 presiede e anima i lavori del Consiglio europeo


 assicura le preparazione e la continuità dei lavori
 si adopera per facilitare la coesione e il consenso in seno al
Consiglio europeo
 presenta al Parlamento una relazione dopo ciascuna delle riunioni
 assicura la rappresentanza esterna dell’Unione nelle materie
relative alla PESC, fatte salve le attribuzioni dei rappresentanti.

Il Consiglio europeo si riunisce 2 volte a semestre su convocazione del


Presidente, il quale, se la situazione lo richiede convoca una riunione
straordinaria.
Il Consiglio si riunisce due volte l’ anno e le decisioni vengono prese di
comune accordo, mediante la pratica del consensus, che permette di
riprodurre in un unico testo l’intesa raggiunta dai partecipanti, ma anche
di registrare eventuali posizioni differenziate sui punti del giorno. Questo
procedimento mostra il carattere diplomatico, politico e intergovernativo
dell’organo in esame.
Alla votazione partecipano solo i rappresentanti degli Stati membri,
mentre il Presidente del Consiglio e della Commissione non partecipano.
Ciascun membro del Consiglio europeo può ricevere delega di voto da un
solo altro membro del Consiglio stesso mentre nelle votazioni in cui è
richiesta l’unanimità l’astensione di un membro non osta all’adesione della 44
deliberazione. Quando invece la regola è quella della maggioranza
qualificata si applicano le regole previste per la votazione del Consiglio.
Rari sono i casi in cui sono previste maggioranze semplici e qualificate. Più
spesso è prevista l’unanimità.

LE FUNZIONI DEL CONSIGLIO

Le funzioni del Consiglio europeo sono disciplinate all’Art. 15 par.1 TUE:


- Il Consiglio europeo dà all’Unione gli impulsi necessari allo sviluppo e ne
definisce gli orientamenti e le priorità politiche. Non esercita funzioni
legislative.
Gli atti ricavati, in generale non hanno efficacia giuridica ma ce ne sono
alcuni, formali, che, al contrario, sono provvisti di effetti giuridici
obbligatori; specialmente nell’ambito della PESC, dove il Consiglio europeo
gioca un ruolo determinante nell’azione esterna dell’Unione.
Il Consiglio europeo ha infatti il compito di individuare gli indirizzi
specifici dell’Unione, di fissare gli obbiettivi e definire gli orientamenti
generali di tale politica. Sarà poi il Consiglio che dovrà conformarsi a
questi.
L’Art.42 TUE assegna al Consiglio europeo il potere di “decidere” in
merito alla definizione di una difesa comune dell’Unione. L’atto del
Consiglio europeo è quindi una raccomandazione di per se non vincolante.
Sempre nell’ambito della PESC è inoltre previsto una sorta di appello al
Consiglio europeo da parte del Consiglio qualora, nei casi in cui
quest’ultimo delibera a maggioranza qualificata, un membro del Consiglio
dichiara che intende opporsi al’adozione della decisione maggioranza.
In questo caso, dopo che l’Alto rappresentante abbia inutilmente cercato
di raggiungere una soluzione accettabile per la Stato in questione, il
Consiglio può decidere a maggioranza qualificata di investire della
questione il Consiglio europeo in vista di una decisione all’unanimità (si
dubita dell’utilità di tale meccanismo).
Il Consiglio europeo interviene anche in materie estranee all’azione
esterna dell’Unione come per esempio in materia di politica economica.
Il Trattato di Lisbona ha previsto la possibilità di impugnare atti del
Consiglio europeo ritenuti illegittimi, purché destinati a produrre effetti
giuridici nei confronti dei terzi ma l’impugnabilità è esclusa in materia di 45
PESC.

IL CONSIGLIO

Il Consiglio è un organo intergovernativo composto dagli Stati membri


rappresentati dai rispettivi esecutivi. L’art 16 par. 2 TUE dichiara che il
Consiglio è composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro a
livello ministeriale, abilitato a impegnare il governo dello Stato membro
che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto.
Il Consiglio esprime gli interessi particolari dei singoli Stati membri, e i
suoi atti sono definiti come atti organici, cioè imputabili giuridicamente
allo stesso Consiglio, e non ai singoli Stati membri. Ciò è dimostrato dalla
possibilità per uno Stato membro di impugnare un atto del Consiglio
adottato col suo voto favorevole, possibilità che non sarebbe ammissibile
ove l’atto fosse imputato giuridicamente ai singoli Stati membri. Ogni
Stato membro viene rappresentato a livello ministeriale da una persona
abilitata ad impegnare il governo di detto Stato, compresi i componenti di
organi di governo di enti locali purché ad essi il diritto nazionale
attribuisca lo Status ministeriale.
La composizione del Consiglio è variabile, in quanto muta al variare degli
argomenti di volta in volta posti al suo ordine del giorno. L’Art.16 par.6
prevede 2 formazioni del Consiglio, precisandone le funzioni: si tratta del
Consiglio “ Affari generali” che assicura la coerenza dei lavori delle varie
formazioni del Consiglio e del Consiglio “ Affari esteri” che elabora
l’azione esterna dell’Unione secondo le linee Strategiche definite dal
Consiglio europeo.
La presidenza del Consiglio è determinata dal Consiglio europeo con
votazione a maggioranza qualificata ed è esercitata dagli Stati membri a
rotazione paritaria semestrale, assicurando a tutti gli Stati membri tale
presidenza. Viene predeterminato quindi un gruppo di 3 Stati membri
(troika) per un periodo di 18 mesi.
I 2 Stati membri che non sono in carica assistono in tutto e per tutto il
membro che ricopre la presidenza.
Per quanto riguarda la presidenza del Consiglio “affari esteri”, questa
spetta ad un organo individuale, non ad uno Stato membro. Si tratta
dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di 46
sicurezza.
Il Consiglio ha sede a Bruxelles, dove di norma (in aprile, giugno e ottobre
si riunisce a Lussemburgo), tiene le sue riunioni che non sono pubbliche e
si riunisce su convocazione del suo Presidente, per iniziativa dello Stesso
presidente, di uno Stato membro o della Commissione. Le sue riunioni sono
in seduta pubblica quando esso delibera e vota un progetto di atto
legislativo mentre per le attività non legislative non vige l’obbligo di
pubblicità.
Nel funzionamento del Consiglio un ruolo significativo è svolto dal
cosiddetto COREPER, cioè comitato dei rappresentanti permanenti,
istituito dal regolamento interno nel 1958. Formato dai delegati dei
governi degli Stati membri, il COREPER un organo intergovernativo che si
articola in due parti:
1. COREPER I composto dai rappresentanti permanenti aggiunti
2. COREPER II composto dai rappresentanti permanenti di rango
diplomatico tra quali si distribuiscono le materie da trattare.
Il COREPER ha il compito di ricevere dal Consiglio, la proposta della
Commissione, e dopo adeguata istruttoria è posta in discussione nel
COREPER al fine di raggiungere una posizione unanime. Se tale posizione
si raggiunge la questione viene scritta al punto A dell’ordine del giorno del
Consiglio il quale l’approva senza rimetterla in discussione; se al contrario
non si raggiunge una posizione unanime, la questione viene iscritta al punto
B dell’ ordine del giorno, e viene riesaminata e discussa nel Consiglio e
dopo inviata di nuovo al COREPER.

LA VOTAZIONE NEL CONSIGLIO

Il sistema di votazione nel Consiglio è disciplinato dall’Art.16 par.3-5 TUE,


integrato dall’Art. 238 TFUE. Il quorum richiesto perché il Consiglio
possa procedere alla votazione è dato dalla presenza della maggioranza
dei membri aventi titolo a votare.
Esso prevede tre procedure di voto:
1 - maggioranza semplice
2 - maggioranza qualificata
3 - unanimità.
L’Art.16 par.3 stabilisce che il Consiglio delibera a maggioranza 47
qualificata, salvo nei casi in cui i Trattati dispongano diversamente. La
maggioranza qualificata rappresenta quindi la regola generale applicata
nella procedura di legislazione ordinaria consistente nella “codecisione”.
Per la votazioni a maggioranza semplice le deliberazioni del Consiglio sono
valide se approvate a maggioranza dei membri che lo compongono.
Attualmente occorrono almeno 14 voti favorevoli.
Le deliberazione del Consiglio che richiedono l’unanimità sono approvate
anche se ci sono delle astensioni da parte dei membri presenti o
rappresentati.
Quindi mentre l’astensione non impedisce il raggiungimento dell’unanimità,
questa è preclusa in caso di assenza di un membro. La disciplina della
votazione si completa poi con la regola secondo cui ogni Stato membro può
ricevere la delega a votare in nome di un altro Stato membro (Art. 239
TFUE).
Ben pochi sono i casi sottoposti al voto a maggioranza semplice; ben più
frequenti sono invece quelli a maggioranza qualificata. Quest’ultima è
caratterizzata dal cosiddetto “sistema di ponderazione”. Questo significa
che al voto di ogni Stato membro è assegnato un coefficiente numerico
differente, valutato in base all’importanza politica, economica,
demografica dei paesi (infatti ai 4 grandi, e cioè Italia, Germania, Francia
e Regno Unito è assegnato il valore di 29).
Importante è anche la determinazione della maggioranza necessaria per
l’adozione delle deliberazioni, in quanto, a seconda del numero necessario,
diverse sono le coalizioni realizzabili sia per impedire la maggioranza, ma
anche per formare la minoranza (“di blocco”) sufficiente a bloccare
l’adozione del voto.
Il Par 2 dell’art3 del Protocollo 36 prescrive una duplice maggioranza: una
fondata sulla ponderazione del voto e formata da 255 voti e siccome
attualmente il numero complessivo dei voti ponderati è di 345, la
minoranza di blocco, ossia quella minoranza sufficiente a impedire
l’adozione di un atto, è di 91.
Un altra maggioranza è quella consistente nella maggioranza degli Stati
membri. In conclusione secondo questa procedura, una deliberazione è
adottata solo se il voto a favore di questa esprima sia 255 voti ponderati,
sia i voti di 14 Stati membri.
Lo stesso articolo contempla una variante a tale procedura: infatti quando 48
non è prescritta la proposta della Commissione è richiesta una
maggioranza qualificata aggravata dove i 255 voti devono esprimere
almeno i 2/3 degli Stati membri.
La norma in esame prevede un ulteriore condizione di adozione della
delibera, solo su richiesta di uno Stato membro. Si tratta della c.d.
clausola della verifica demografica in base alla quale ogni Stato membro
può richiedere che si verifichi che la suddetta maggioranza qualificata
esprima la maggioranza del 62% della popolazione totale dell’Unione.
A decorrere dal 2014 per maggioranza qualificata si intenderà almeno il
55 % dei membri del Consiglio che totalizzino almeno il 65 % della
popolazione dell’Unione. Quando il Consiglio non delibera su proposta della
Commissione o dell’Alto rappresentante la maggioranza è aggravata al
72% dei membri del Consiglio, rappresentanti almeno il 65% della
popolazione. Per quanto riguarda la minoranza di blocco questa deve
comprendere almeno 4 Stati membri altrimenti, pure se il voto negativo di
questi Stati impedisca il raggiungimento della maggioranza di popolazione
del 65%, la delibera è ugualmente approvata.
Oltre alla maggioranza qualificata vigono in taluni settori la maggioranza
semplice e l’unanimità:

o la maggioranza semplice è prevista per questioni procedurali, per


l’adozione del regolamento interno del Consiglio, per la
definizione dello Statuto interno dei Comitati, per le istanza
dinanzi alla Corte di Giustizia contro membri della Commissione
o l’unanimità è applicata in materia di PESC, compresa la politica di
sicurezza e difesa comune

LE FUNZIONI DEL CONSIGLIO

Le funzioni del Consiglio sono indicate nell’Art.16 par.1 TUE il quale


stabilisce che il Consiglio insieme al Parlamento esercita la funzione
legislativa e di bilancio ed esercita funzioni di definizione delle politiche e
di coordinamento alle condizioni stabilite dai Trattati.
Poteri più specifici ed incisivi risultano dalle disposizioni concernenti la
politica economica. Nell’esercizio di tali funzioni, il Consiglio non emana più
solo atti legislativi, ma atti di indirizzo, di assistenza, di consulenza ossia 49
atti non giuridicamente vincolanti, come l’adozione di una raccomandazione
contenente gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati
membri e dell’Unione, un compito di sorveglianza, di assistenza
finanziaria, poteri sanzionatori, poteri normativi.
Il Consiglio detiene un potere decisionale in materia di PESC, anche se
non si tratta di un potere legislativo perché in tale materia è esclusa
l’adozione di atti legislativi. Spetta al Consiglio, su proposta dell’Alto
rappresentante o di uno Stato membro adottare decisioni in materia di
PESC, compreso l’avvio di una missione operativa avente implicazioni
militari. Nei rapporti con la Commissione merita di essere ricordato che il
Consiglio può chiedere alla Commissione di procedere agli studi che esso
ritiene più opportuni ai fine del raggiungimento degli obiettivi comuni. Il
Consiglio interviene anche nella nomina di altre istituzioni o organi come la
stessa Commissione,il comitato esecutivo della BCE, la Corte dei Conti
ecc.
C’è la possibilità che il Consiglio riceva anche un potere di esecuzione di
qualsiasi atto obbligatorio dell’Unione. Tale attribuzione è però
subordinata alla necessità di condizioni che inducano a preferire
l’intervento del Consiglio in luogo della generale competenza della
Commissione.

LA COMMISSIONE

La Commissione è la terza istituzione politica dell’Unione, un organo


tipicamente sopranazionale. Essa rappresenta l’interesse generale
dell’Unione e si caratterizza insieme ai suoi membri per – l’ indipendenza e
la competenza -. Se originariamente il numero dei commissari era fissato,
oggi questo, a causa dei continui allargamenti della Commissione stessa,
non è più stabilito. Fino al 2014 i Trattati stabiliscono che <<La
Commissione comprenda un cittadino di ciascuno Stato membro>>. Il
Trattato di Lisbona però ha stabilito una sostanziale riduzione della
composizione della Commissione infatti ai sensi dell’Art.17 par.5 “a
decorrere dal 1° novembre 2014 la Commissione sarà composta da un
numero di membri, compresi il Presidente e l’Alto rappresentante,
corrispondente ai 2/3 del numero degli Stati membri, a meno che il
Consiglio europeo non decida, deliberando all’unanimità, di modificare tale 50
numero. I membri sono scelti trai cittadini in base ad un sistema di
rotazione assolutamente paritaria tra gli Stati membri che rifletta la
molteplicità demografica e geografica”.
Il numero totale di cittadini di uno Stato membro può superare al
massimo di una unità il numero totale dei mandati di cittadini di un altro
Stato.
Il numero dei componenti della Commissione , qualora il numero degli
Stati restasse invariato, scenderebbe a 18 ossia 2/3 degli attuali27 Stati
membri.
In realtà però la riduzione del numero dei commissari desta delle
preoccupazioni per gli Stati membri emarginati dalla Commissione, per
questo il Consiglio europeo ha convenuto affinché la commissione
continuasse a comprendere un commissario per Stato membro quindi la
novità introdotta dal Trattato di Lisbona sembra destinata a scomparire
con l’entrata in vigore dello stesso Trattato.
L’Art.17 par.3 stabilisce che i membri della Commissione sono scelti in
base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo, tra
personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza. La Commissione
esercita la propria responsabilità in piena indipendenza e non accetta
istruzioni da alcun organo, istituzione o organismo dell’Unione. L’Art. 245
TFUE stabilisce che i membri della Commissione si astengono da ogni atto
incompatibile con il carattere delle loro funzioni (divieto di attività
professionale) e gli Stati membri non cercano di influenzarli
nell’adempimento dei loro compiti. In caso di violazione di questi obblighi
la Corte di Giustizia, su istanza del Consiglio o della Commissione, può
pronunciare le dimissioni d’ufficio, la decadenza dal diritto alla pensione
dell’interessato o da altri vantaggi sostitutivi. Gli obblighi di commissario
possono sopravvivere anche alla cessazione delle proprie funzioni (es.
onestà).
Sentenza Cresson: i commissari devono far prevalere sempre l’interesse
generale dell’Unione, sia sugli interessi nazionali che su quelli personali. È
necessario cmq che sia stata commessa una violazione di una certa
gravità.
LA NOMINA, LA CESSAZIONE E L’ ORGANIZZAZIONE DELLA 51
COMMISSIONE

La disciplina della nomina della Commissione ha conosciuto una lunga


evoluzione fino al Trattato di Nizza del 2001. In origine i membri della
Commissione erano nominati all’unanimità dai governi degli Stati membri.
In seguito si è assegnata tale nomina al Parlamento europeo e un ruolo di
partecipazione è stato attribuito al Presidente della Commissione.
L’art.17 par.3 TUE dichiara che i commissari sono nominati per 5 anni e
che la loro nomina può essere rinnovabile.
Procedimento di nomina:
- il Consiglio europeo propone al Parlamento europeo, che delibera a
maggioranza qualificata, un candidato alla nomina di Presidente della
Commissione.
- il Consiglio di comune accordo con il Presidente eletto, adotta l’elenco
delle personalità che propone nominare come membri della Commissione in
base alle proposte presentate da ciascuno Stato membro.
- il Presidente, l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di
sicurezza e gli altri membri della Commissione sono soggetti
complessivamente al voto al voto di approvazione del Parlamento europeo.
- in seguito a tale approvazione la Commissione è nominata dal Consiglio
europeo che delibera a maggioranza qualificata.
Per quanto riguarda la cessazione della carica di commissario, può
avvenire sia per decesso ma anche per dimissioni volontarie o d’
ufficio(art.246 TUE). Coloro che si dimettono volontariamente restano in
carica sino alla loro eventuale sostituzione curando solo gli affari di
ordinaria amministrazione; al contrario le dimissioni d’ufficio sono
presentate dalla Corte di Giustizia qualora il commissario abbia commesso
una colpa grave o non risponda più alle condizioni necessarie per lo
svolgimento delle sue funzioni.
Quanto al sistema di votazione, l’Art.250 TFUE prescrive la maggioranza
dei membri della Commissione, ma di fatto essa delibera per consensus.
La maggioranza rappresenta anche il quorum richiesto per le sue
deliberazioni
Per quanto riguarda l’ organizzazione,la Commissione si articolo in –
direzioni generali - servizi -uffici.
Il Presidente affida ai commissari particolari settori d’attività ed essi 52
per espletare le proprie competenze, costituiscono dei gabinetti
incaricati di assisterlo.
Di norma la Commissione si riunisce una volta a settimana. Si riunisce
inoltre ogni volta che se ne presenti la necessità.
Bisogna ricordare che in virtù del principio di collegialità che li unisce, la
responsabilità degli atti dei singoli commissari ricade su tutta la
Commissione.
Una posizione di primato assume il Presidente: prima di tutto ha un ruolo
attivo nella individuazione di candidati alla carica di commissario; in
secondo luogo stabilisce gli orientamenti politici e l’organizzazione interna
della Commissione; spetta a lui la strutturazione e la ripartizione delle
competenze ai membri della Commissioni, così come la loro modifica. Il
Presidente della Commissione può nominare dei vicepresidenti e può
chiedere ad un membro (ad eccezione dell’Alto rappresentante) di
rassegnare le proprie dimissioni (dimissioni forzate) se viene meno il
rapporto di fiducia tra il Presidente e il commissario preso in questione,
oppure se è proprio il Parlamento europeo a non avere più fiducia nel
singolo commissario.

LE FUNZIONI DELLA COMMISSIONE

Previste dall’Art.17 par.1 TUE, esse si estendono a tutte le materie che


rientrano nelle competenze dell’Unione:
 la Commissione promuove l’interesse generale dell’Unione e adotta
le iniziativa appropriate a tal fine
 vigila sul rispetto dei Trattati e del diritto dell’Unione anche
attraverso il ricorso alla Corte di Giustizia affinché constati
l’infrazione dello Stato
 da esecuzione al bilancio attraverso la riscossione delle entrate e
l’erogazione delle spese, competenza questa che condivide con gli
Stati membri, specie per
quanto riguarda la gestione decentrata dei fondi europei e ha la
competenza di gestione dei programmi, cioè la competenza ad
amministrare programmi e
strumenti finanziari europei
 esercita funzioni di coordinamento, gestione ed esecuzione 53
 avvia il processo di programmazione annuale e pluriennale
 stipula accordi internazionali

Uno dei compiti più importanti è quello di vigilare sul rispetto del diritto
dell’Unione. La Commissione appare in tal caso la custode dei Trattati
stessi e vigila sulle istituzioni e sugli stati membri. Al potere di vigilanza
si affianca un potere di carattere istruttorio, secondo il quale la
Commissione può raccogliere tutte le informazioni e procedere a tutte le
necessarie verifiche, per l’esecuzione dei compiti affidatile.
Altro compito attribuito alla Commissione è quello di formulare
raccomandazioni o pareri nei settori definiti dai Trattati.
Raccomandazioni e pareri non sono atti obbligatori, ma alcune volte
possono produrre effetti giuridici.
La Commissione dispone di un potere decisionale, seppur generale ma i
suoi atti non sono legislativi perché sono appunto adottati attraverso una
procedura non legislativa; l’atto delegato può integrare o modificare
elementi non essenziali dell’atto legislativo, mentre quelli essenziali
restano nella competenza esclusiva dell’atto legislativo.
Per quanto riguarda la potestà esecutiva la Commissione la condivide con
gli Stati membri anche se rimane una prerogativa di quest’ultimi.
I Trattati attribuiscono alla Commissione anche la rappresentanza
esterna dell’Unione anche se non esclusiva, infatti questa è esclusa nella
materia della PESC.
La Commissione partecipa alla formazione degli atti del Consiglio e del
Parlamento europeo. Essa detiene infatti il monopolio delle “proposte di
atti dell’Unione”, senza le quali non è possibile avviare i procedimenti di
adozione di tali atti. La forza della proposta è tale che essa, può si essere
respinta ma ove il Consiglio intenda modificarla può farlo solo deliberando
all’unanimità.
La Commissione poi pubblica ogni anno, almeno un mese prima
dell’apertura della sessione del Parlamento, una relazione generale
sull’attività dell’Unione.

L’ALTO RAPPRESENTANTE PER GLI AFFARI ESTERI E LA


POLITICA DI SICUREZZA
Organo “ibrido”, poiché oltre ad essere il presidente del Consiglio “Affari 54
esteri”, riveste lo status di componente della Commissione, della quale è
uno dei vicepresidenti. Il Consiglio europeo di comune accordo con il
Presidente della Commissione ne determina sia la nomina che la fine del
mandato. La sua nomina è inoltre subordinata all’approvazione del
Parlamento europeo. Egli è qualificato inoltre come “mandatario” del
Consiglio, soggetto quindi alle sue determinazioni. Per quanto riguarda le
sue funzioni l’Alto rappresentante vigila sulla coerenza dell’azione esterna
dell’Unione.
Riguardo alla materia della PESC compreso il settore della sicurezza e
difesa comune, l’Alto rappresentante svolge una funzione di proposta nei
confronti del Consiglio, di attuazione delle decisioni dello stesso
Consiglio, così come del Consiglio europeo, di rappresentanza dell’Unione
nei confronti dei paesi terzi e di consultazione. Di particolare importanza
sono le funzioni dell’Alto rappresentante nell’attuazione delle missioni,
implicanti l’impiego di mezzi civili e militari.
Nell’esecuzione delle sue funzioni, l’Alto rappresentante si avvale di un
servizio europeo per l’azione estera che potrebbe configurarsi come un
servizio europeo di diplomazia. Tale servizio lavora in collaborazione con i
servizi diplomatici degli Stati membri.

LA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA

Essa, originariamente, era l’unica istituzione giudiziaria delle Comunità


europee con competenze e funzioni tali da assicurare il rispetto del
diritto comunitario. Successivamente, con una decisione del Consiglio del
24 ottobre 1988, fu istituito un secondo organo giudiziario, il Tribunale di
primo grado, che pur non avendo acquistato il rango di “istituzione”, è
stato formalmente inserito nei Trattati, e insieme alla Corte di Giustizia
è menzionato dall’ art.19 TUE.
Il Tribunale è stato creato per due esigenze:
 per decongestionare la Corte di giustizia rispetto ai smisurati
ricorsi che rischiava di minarne l’efficienza e la funzionalità
 per garantire un doppio grado di giurisdizione, con il diritto di
impugnare la sentenza del Tribunale dinanzi alla Corte di giustizia
Il doppio grado di giurisdizione non è tuttavia di generale applicazione 55
perché vi sono importanti competenze riservate alla sola Corte.
Riguardo alla prima esigenza, la creazione del Tribunale si è rilevato cmq
insufficiente, soprattutto perché i ricorsi sono aumentati notevolmente e
anche per la fiducia sempre più accresciuta, riposta nella Corte da parte
degli Stati membri, istituzioni europee, giudici e avvocati.
Al fine di alleggerire così il peso del contenzioso della Corte, il Trattato
di Nizza ha previsto una “clausola abilitante”, che da la possibilità di
affiancare al Tribunale di primo grado dei tribunali specializzati.
Sulla base di questa disposizione è stata creato un tribunale specializzato
e cioè il Tribunale della funzione pubblica dell’ UE, competente a
pronunciarsi in primo grado sulle controversie tra le Comunità e i loro
agenti. Contro le sue decisioni può essere proposta impugnazione per soli
motivi di diritto al Tribunale di primo grado che diventa giudice di
secondo grado, qualora ci siano gravi rischi che l’unità o la coerenza del
diritto dell’Unione siano compromesse e si può far riesaminare alla Corte
di giustizia le sue decisioni.
La disciplina delle istituzioni giudiziarie è contenuta nello Statuto della
Corte di Giustizia che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati. I
regolamenti di procedura sono soggetti all’approvazione del Consiglio, che
delibera a maggioranza qualificata.
La Corte di giustizia è composta da un giudice per ogni Stato membro. I
giudici sono nominati dagli Stati di comune accordo per sei anni e il loro
mandato è rinnovabile. Essi tuttavia non rappresentano tale Stato.
Infatti l’ art. 253TFUE che regola la loro nomina recita che i giudici
devono essere scelti
<< tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza e……. che
siano giureconsulti di notoria competenza>>
La nomina dei giudici è preceduta da un parere sulla loro adeguatezza
fornito da un comitato composto da membri dei massimi organi
giurisdizionali nazionali e giuristi di notoria competenza uno dei quali
proposto dal Parlamento europeo.
I giudici poi, designano tra di loro, il Presidente per tre anni (rinnovabili);
nella relazione generale annuale la Corte nomina il cancelliere, fissandone
lo Statuto.
La Corte di giustizia è assistita poi da 8 avvocati generali, il cui numero 56
può essere aumentato dal Consiglio, all’unanimità, su richiesta della Corte.
L’art 252 TFUE descrive il ruolo dell’avvocato generale che è quello di
presentare pubblicamente, in piena indipendenza e in assoluta
imparzialità, conclusioni sulle cause sottoposte alla Corte, per assistere
quest’ultima nell’adempimento della sua missione, cioè quella di garantire il
rispetto del diritto. La Corte, ove ritenga che la causa non sollevi nuove
questioni, può omettere le conclusioni dell’avvocato generale.
I giudici godono dell’immunità della giurisdizione, la quale si estende oltre
la cessazione delle funzioni per quanto riguarda gli atti compiuti in veste
di ufficiale. L’immunità può essere tolta solo dalla Corte riunita in seduta
plenaria.
La Corte ha sede a Lussemburgo. Essa si riunisce in sezioni composte da 3
o 5 giudici, o in una Grande sezione composta da 13 giudici e presieduta
dal Presidente della Corte; eccezionalmente può riunirsi in seduta
plenaria cioè nella composizione di tutti i giudici.
Il Tribunale anche esso avente sede a Lussemburgo è composto da almeno
un giudice per Stato membro. Il loro numero è attualmente di 27.
I tribunali specializzati sono nominati dal Consiglio all’unanimità cmq
dietro consultazione dei un comitato composto da 7 personalità.

LA BANCA CENTRALE EUROPEA E GLI ORGANI MONETARI

A tali istituzioni sono attribuiti poteri estremamente incisivi in materia


monetaria. Il Sistema europeo di banche centrali (SEBC), ha quale
obiettivo principale il mantenimento della stabilità dei prezzi; i suoi
compiti fondamentali sono: definire e attuare la politica monetaria
dell’Unione; svolgere operazioni sui cambi; promuovere il regolare
funzionamento dei sistemi di pagamento. Il SEBC non è un autonomo
organo, in quanto è composto dalla BCE, con sede a Francoforte, e dalle
banche centrali nazionali ed è retto dagli organi decisionali della BCE. E’
dunque la BCE, fornita di personalità giuridica.
La BCE ha il compito esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote in
euro all’interno dell’Unione.
Gli organi della BCE sono il Consiglio direttivo e il Comitato esecutivo. Il
primo è composto dai membri del Comitato esecutivo della BCE e dai
governatori delle banche centrali nazionali degli Stati partecipanti 57
all’euro. Il Comitato esecutivo comprende il Presidente, il vicepresidente
e altri 4 altri membri il cui mandato, di 8 anni, non è rinnovabile; esso
svolge funzioni preparatorie ed esecutive ed in generale attua la politica
monetaria sulla base delle determinazioni del Consiglio direttivo, il quale
stabilisce le linee generali della politica monetaria.
La BCE è caratterizzata dalla sua posizione di indipendenza sia nei
confronti degli Stati membri che nei confronti delle istituzioni politiche
europee anche se tale indipendenza non implica l’incomunicabilità fra le
autorità monetarie europee e le istituzioni.
La BCE trasmette una relazione annuale sull’attività del SEBC e sulla
politica monetaria al Parlamento europeo, al Consiglio, alla Commissione e
al Consiglio europeo.
Di particolare importanza è anche il potere normativo: infatti la BCE può
emanare regolamenti, decisioni, raccomandazioni e pareri.
Il terzo organo decisionale della BCE è il Consiglio generale comprendente
il Presidente e il vicepresidente della BCE e governatori delle banche
centrali nazionali. La BCE svolge anche funzioni consultive così come
anche il Comitato economico e finanziario.

LA CORTE DEL CONTI

Essa nasce come un organo di individui, di natura non giurisdizionale e


nasce allo scopo di assicurare un controllo finanziario esterno alle singole
istituzioni, dal momento che le Comunità venivano a dotarsi di un sistema
di finanziamento autonomo (risorse proprie) grazie ai contributi da parte
degli Stati membri.

La Corte dei conti è composta da un cittadino per ogni Stato membro, nominati per sei anni dal Consiglio a
maggioranza qualificata, su proposta di ciascun Stato membro e previa consultazione del Parlamento
europeo. Per ricoprire questo incarico, sono scelti personalità che fanno parte delle istituzioni di controllo
esterno o che posseggono una qualifica specifica per tale funzione, e che offrono tutte le garanzie di
indipendenza.

La sua funzione principale è quindi quella di assicurare il controllo


finanziario dell’Unione esaminando i conti di tutte le entrate e le spese.
Il suo controllo c.d. esterno riguarda la legittimità e la regolarità delle 58
entrate e delle spese e si estende all’accertamento della sana gestione
finanziaria.
Nell’esercizio della sua funzione, la Corte dispone di strumenti di
indagine incisivi la possibilità di controllare i documenti mediante
sopralluoghi presso le altre istituzione dell’Unione, nei locali di qualsiasi
organismo che gestisce le entrate e le spese per conto dell’Unione, e negli
Stati membri.
La Corte dei Conti assiste il Parlamento europeo e il Consiglio nella loro
attività di controllo sull’esecuzione del bilancio.
Uno dei principali risultati della funzione di controllo finanziario consiste
nella “dichiarazione di affidabilità dei conti” ,nonché nella “relazione
generale annuale”, redatta dopo la chiusura di ogni esercizio finanziario e
trasmessa alle altre istituzioni europee. Entrambe sono oggetto di esame
da parte del Parlamento europeo ai fini della sua delibera di discarico, con
la quale dà atto alla Commissione dell’esecuzione del bilancio.
La Corte dei conti ha anche una funzione consultiva, nel senso che può
dare pareri su richiesta di una delle altre istituzioni dell’Unione. Si tratta
di pareri facoltativi cioè che non si è obbligati a richiederli. In qualche
raro caso però il parere è obbligatorio.
La potestà consultiva può essere esercitata dalla Corte anche di propria
iniziativa, presentando osservazioni su problemi particolari.

GLI ORGANI AUSILIARI CONSULTIVI

Il Parlamento europeo, la Commissione e il Consiglio sono assistiti da un


Comitato economico e sociale e da un Comitato delle regioni, che
esercitano funzioni consultive. I suddetti organi sono entrambi organi di
individui composti da persone indipendenti dai governi degli Stati membri.
Il Comitato economico e sociale è composto da rappresentante delle
organizzazioni di datori di lavoro, di lavoratori dipendenti rappresentativi
della società civile, nei settori socioeconomico, civico, professionale e
culturale. Il loro numero non può essere superiore a 350.
La composizione del Comitato è determinata con decisione unanime del
Consiglio su proposta della Commissione. La loro nomina è effettuata dal
Consiglio per 5 anni deliberando a maggioranza qualificata su proposta
degli Stati membri, previa consultazione della Commissione. Il Comitato si 59
riunisce su convocazione del Presidente eletto dallo stesso Comitato. La
funzione consultiva è esercitata mediante pareri obbligatori o facoltativi.
Il Comitato delle regioni ha l’intento di dare una qualche rappresentanza,
a livello europeo, alle autonomie locali, tenuto conto che spesso le
politiche e il diritto dell’Unione incidono sensibilmente sugli interessi e
sulle competenze delle regioni e di analoghi enti locali. Il numero e la
nomina dei componenti e la stessa del Comitato economico e sociale così
come la loro indipendenza. I componenti del Comitato delle regioni sono
titolari di un mandato elettorale o politicamente responsabili dinanzi ad
un’assemblea eletta. Anche tale comitato emette pareri obbligatori o
facoltativi ed è legittimato ad impugnare davanti alla Corte di Giustizia
atti dell’Unione.
Altro organo consultivo è il Comitato per l’occupazione composto da 2
membri nominati da ciascuno Stato membro e 2 dalla Commissione. Il suo
incarico è quello di seguire la situazione dell’occupazione e le politiche in
materia, di formulare pareri su richiesta del Consiglio e della
Commissione o di propria iniziativa e di preparare i lavori del Consiglio
relativi alla elaborazione degli orientamenti nella politica di occupazione.
Funzioni consultiva ha anche il Comitato dei trasporti istituito presso la
Commissione, presieduto da un membro della stessa e composto da
rappresentanti dei governi e delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e
dei datori di lavoro. Nella ambito della politica sociale va ricordato,
infine, il Comitato per la protezione sociale, organo incaricato di seguire
la situazione sociale e lo sviluppo delle politiche di protezione sociale negli
Stati membri dell’Unione, di agevolare gli scambi di informazioni,
esperienze e buone prassi tra Stati membri e con la Commissione,
elaborando relazioni e pareri.

LA BANCA EUROPEA PER GLI INVESTIMENTI

La BEI pur facendo parte della struttura dell’Unione costituisce in realtà


un’entità autonoma, i cui membri sono gli Stati membri dell’Unione ed è
dotata di personalità giuridica. L’autonomia risulta dalla presenza di una
struttura organizzativa: il Consiglio dei governatori composto dai ministri
designati dagli Stati membri, il Consiglio d’amministrazione formato da
individui che offrono garanzia di indipendenza e di competenza e il 60
Comitato direttivo.
La funzione essenziale della BEI è quella di contribuire allo sviluppo
equilibrato e senza scosse del mercato interno nell’interesse dell’Unione,
facendo ricorso al mercato dei capitali ed alle proprie risorse. I mezzi
utilizzabili dalla BEI sono le concessioni di prestiti e di garanzie senza
finalità di lucro, a favore degli Stati membri o di imprese pubbliche o
private, per il finanziamento di progetti che non possono essere
interamente assicurati da finanziamenti esistenti nei singoli Stati membri
a causa della loro ampiezza o natura.

CAPITOLO 6:

I PROCEDIMENTI INTERSITITUZIONALI

IL FINANZIAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA

Per lo sviluppo e la vita dell’Unione molto importanti sono:


1. il bilancio
2. l’ adozione degli atti comunitari
3. la conclusione degli accordi internazionali dell’UE.
IL BILANCIO: è composto dalle entrare e dalle spese. Quest’ultime
devono risultare in pareggio,principio di equilibrio. Diversa è la disciplina
che determina quali sono le entrare e quali le spese. Infatti, mentre le
spese sono decise dal Parlamento europeo, le entrate sono invece decise
dai governi degli Stati membri. In proposito l’Art.311 TFUE stabilisce che
<<il bilancio, fatte salve le altre entrate, è finanziato integralmente
tramite risorse proprie>>. Originariamente il finanziamento della CEE e
della CEEA proveniva da contributi obbligatori degli Stati membri. Con la
decisione del Consiglio del 21 aprile 1970, è avvenuto il passaggio a un
sistema di risorse proprie. Sono oggi l’Unione e la CEEA che decidono, in
maniera autonoma le proprie fonti di finanziamento, senza dipendere più
dai pagamenti dei contributi degli Stati membri, rendendole quindi
completamente indipendenti rispetto a questi ultimi.
Tuttavia, nonostante l’autonomia e l’indipendenza dell’Unione, il
procedimento con il quale si decidono le fonti e la misura delle risorse
(delle entrate) implica sostanzialmente un accordo tra gli Stati membri. 61
L’art.311 TFUE richiede, per quanto riguarda le decisioni sulle entrate
dell’Unione, l’unanimità del Consiglio, il quale raccomanda l’adozione di tali
disposizioni, relative al sistema delle risorse proprie da parte degli Stati
membri.
Nonostante però gli Stati membri non possano rifiutarsi di finanziare
l’Unione, essi hanno, di contro, il potere di decidere quali risorse
destinare ad esse (NO PIENA INDIPENZA DELL’UNIONE). Il
Parlamento in questo procedimento ha un ruolo meramente consultivo e
marginale. Si deve ricordare, infine, che la riscossione delle entrate è
effettuata dagli Stati membri, i quali trattengono una certa percentuale
a titolo di spese di riscossione.
Sono quindi gli Stati membri che determinano le modalità di riscossione
degli oneri finanziari, che designano le autorità incaricate della
riscossione e il giudice competente a conoscere le controversie in
materia, purché tali modalità di riscossione non siano meno efficaci di
quelle relative agli oneri finanziari nazionali.

I PRINCIPI RELATIVI AL BILANCIO

La formazione del bilancio deve conformarsi ad alcuni principi stabiliti


dall’Art.310 par1 TUE:
1. Principio delle unità del bilancio: nel bilancio devono essere
comprese tutte le entrate e le spese. Ci sono però delle eccezioni,
come per quanto riguarda la PESC dove l’art.41 TUE dispone che le
spese amministrative sono a carico dell’Unione a meno che il
Consiglio non decida altrimenti.
2. Principio dell’ universalità del bilancio: l’insieme delle entrate deve
coprire indistintamente l’insieme delle spese senza possibilità di
destinare determinate entrate alla copertura di alcune spese
specifiche.
3. Principio dell’ annualità: il bilancio deve contenere tutte le entrate
e le spese previste per l’anno al quale si riferisce. Si fa eccezione
per i programmi o le azioni dell’Unione che sono destinate a
realizzarsi in un arco di tempo pluriennale.
4. Principio della specializzazione: le risorse del bilancio sono 62
affidate alla gestione solo per gli scopi previsti dal bilancio stesso e
per quelli precisati in modo dettagliato nelle linee del bilancio
5. Principio del pareggio: entrate e spese devono risultare in pareggio.
Ciò limita la possibilità di manovra delle istituzione europee
nell’approvazione del bilancio. Ciò comporta il divieto per l’Unione di
ricorrere al prestito per coprire eventuali disavanzi. Infatti la
Commissione, prima di presentare proposte di atti dell’Unione o
adottare misure di esecuzione che possono avere incidenze sul
bilancio deve assicurarsi che tali proposte e misure possano essere
finanziate entro i limiti delle risorse proprie dell’Unione.
6. Principio della buona gestione finanziaria: al quale devono
attenersi sia la Commissione che cura l’esecuzione del bilancio, sia
gli Stati nel cooperare con la Commissione. Tale principio pone le
cosiddette “3 e”, cioè i principi di economia, efficacia ed efficienza.

Secondo il principio di economiai mezzi impiegati sono resi


disponibili nella qualità e nella quantità appropriate e al migliore prezzo
Secondo il principio di efficienzadeve essere ricercato il
miglior rapporto tra mezzi impiegati e risultati conseguiti
Secondo il principio di efficacia  devono essere raggiunti i
specifici obiettivi fissati e conseguire i risultati attesi.
Per l’esecuzione degli stanziamenti iscritti in bilancio e per qualsiasi
azione dell’Unione deve essere preliminarmente adottato un atto di base,
di diritto derivato che conferisca fondamento giuridico all’azione.
Raccomandazioni, decisioni, pareri e risoluzioni sono atti privi di effetto
giuridico per cui non possono costituire atti base.
Solo gli atti obbligatori possono costituire fondamento dell’azione
europea e della relativa spesa.

L’APPROVAZIONE E L’ ESECUZIONE DEL BILANCIO

L’ approvazione del bilancio è disciplinata dall’art.314 TFUE, il quale fa del


Parlamento europeo e del Consiglio i due rami dell’autorità del bilancio. Il
Trattato di Lisbona pone sullo stesso piano le due autorità di bilancio ed
elimina la precedente distinzione tra spese obbligatorie e spese non
obbligatorie. L’Art.312 TFUE prescrive formalmente l’adozione di un 63
quadro finanziario pluriennale che miri ad assicurare l’ordinato andamento
delle spese dell’Unione entro i limiti delle sue risorse proprie e il bilancio
annuale è stabilito nel rispetto di quello pluriennale che diventa così la
sede realmente decisiva delle scelte politiche e finanziarie.
L’approvazione del bilancio annuale avviene ad opera del Parlamento e del
Consiglio secondo una procedura legislativa speciale.

Procedimento di approvazione del bilancio annuale:

 Entro il 1° luglio di ogni anno ciascuna istituzione elabora uno


stato di previsione delle spese per il successivo anno finanziario
 la Commissione raggruppa tali previsioni in un progetto di bilancio,
comprendente una previsione delle entrate e delle spese nel quale
può fare anche previsioni divergenti rispetto a quelle elaborate
dalle varie istituzioni
 tale progetto è proposto entro il 1° settembre al Parlamento e al
Consiglio da parte della Commissione che può modificarlo fino
all’eventuale convocazione di un comitato di conciliazione
 il primo esame è fatto dal Consiglio che entro il 1° ottobre
comunica al Parlamento la sua posizione motivandola
 entro i successivi 42gg il Parlamento si manifesta con l’adozione
di emendamenti rispetto al progetto inviatogli
 in questo caso in progetto inviatogli è trasmesso al Parlamento
altrimenti si apre una fase davanti al comitato di conciliazione
(formato da rappresentanti del Consiglio e del Parlamento con la
partecipazione della Commissione) che prende ogni iniziativa
necessaria al riavvicinamento delle posizioni di Parlamento e
Consiglio
 il comitato entro 21gg deve giungere ad un accordo su un
progetto comune altrimenti il progetto va considerato respinto e
la Commissione deve sottoporre un nuovo progetto di bilancio
 se in seno al Comitato si raggiunge un accordo Parlamento e
Consiglio entro 14gg approvano il progetto comune
 nel caso in cui il Parlamento approvi il progetto e ma il Consiglio lo
respinga, c’è uno sbilanciamento a favore del Parlamento, che
entro 14gg dal rigetto del Consiglio, deliberando a maggioranza 64
dei 3/5 dei voti espressi può confermare gli emendamenti e
approvare definitivamente il bilancio cioè nel testo della posizione
del Consiglio come emendato dal Parlamento oppure nel testo
risultante dal Comitato di conciliazione come emendato dal
Parlamento
 Se invece il bilancio non viene adottato entro il 1°gennaio, le
spese vengono erogate secondo il regime dei dodicesimi, in base
al quale le spese effettuate mensilmente non possono superare un
dodicesimo dei crediti aperti nel bilancio dell’esercizio
precedente, né un dodicesimo di quelli previsti nel progetto di
bilancio in preparazione
 una volta che il bilancio sia stato adottato l’erogazione delle
spese spetta alla Commissione coadiuvata dagli Stati membri ai
quali è delegata in buona parte l’esecuzione del bilancio
 la Commissione esegue il bilancio sotto il controllo finanziario
della Corte dei conti, questa poi invia a Parlamento e Consiglio una
dichiarazione di affidabilità dei conti e della legittimità e
regolarità delle relative operazioni
 la Corte dei conti redige anche una relazione annuale
accompagnata dalle risposte delle istituzioni alle osservazioni
della Corte
 il controllo “politico” sull’attività amministrativa della
Commissione spetta invece al Parlamento sulla base delle
osservazioni della Corte dei conti e tale delibera è chiamata
decisione di scarico che esprime l’approvazione sull’operato della
Commissione

L’ ADOZIONE DEGLI ATTI DELL’UNIONE EUROPEA

Il secondo procedimento interistituzionale è quello relativo all’adozione


degli atti dell’Unione o procedimento “legislativo”. Le procedure di
adozione degli atti, prevedono una pluralità di procedimenti decisionali nei
quali può variare il ruolo delle istituzioni, in particolari del Parlamento e
del Consiglio.
ad un parere o ad una approvazione.
Ci sono poi particolari materie nelle quali è esclusa radicalmente la 65
possibilità di adottare atti legislativi; l’esempio classico è quello della
PESC, infatti in tale materia il potere decisionale è concentrato nel
Consiglio europeo o nel Consiglio, mente marginale è il ruolo della
Commissione e del Parlamento dato che le proposte sono avanzate o dagli
Stati membri o dall’Alto rappresentante.

LA PROPOSTA DELLA COMMISSIONE

Nella procedura legislativa ordinaria della “codecisione” ci deve esse una


FORMALE PROPOSTA da parte della Commissione, in assenza della E’
quindi il singolo articolo che di volta in volta stabilisce che, per esempio, il
Consiglio deliberi su proposta della Commissione e previa consultazione
del Parlamento, ovvero che il Consiglio deliberi secondo la procedura di cui
all’Art. 294 TFUE, cioè in codecisione col Parlamento.
Sebbene sussistano numerose varianti nei procedimenti di adozione degli
atti dell’Unione, il Trattato di Lisbona ha cercato di stabilire tipologie
generali di tali procedimenti. L’Art.14 par.1 dichiara infatti che il
Parlamento esercita congiuntamente al Consiglio la funzione legislativa. La
funzione legislativa è subordinata ad una proposta formalmente
presentata dalla Commissione, che quindi partecipa anch’essa a tale
funzione legislativa.
La procedura legislativa ordinaria disciplinata dall’Art. 294 TFUE consiste
nell’adozione congiunta di un regolamento, di una direttiva o di una
decisione, da parte di Parlamento e del Consiglio, su proposta della
Commissione.
Esistono poi procedure legislative speciali nelle quali viene meno quella
perfetta simmetria di poteri tra Parlamento e Consiglio. Nella maggior
parte dei casi nelle procedure speciali, il Consiglio riprende una posizione
prioritaria sul Parlamento, il quale si limita quale non è possibile avviare la
procedura. Il potere di iniziativa della Commissione può essere sollecitato
dal Parlamento, dal Consiglio o da un milione di cittadini e lo stesso
Consiglio può indicare alla Commissione i temi sui quali fondare la
proposta. La proposta della Commissione va preparata non solo dopo le
riflessioni della stessa Commissione, ma anche dopo segnalazioni,
sollecitazioni, dialoghi con gli ambienti sociale e gruppi di interesse, che 66
gli consente di tenere conto delle reali esigenze, delle aspettative degli
ambienti sociali nei quali gli atti dell’Unione sono destinati a produrre
effetti.
Il potere esclusivo di proposta della Commissione è rafforzato dalla
disposizione dell’ art. 293 par 1 TFUE la quale fa notare che il Consiglio,
può respingere la proposta della Commissione, laddove non si formi però,
nello stesso Consiglio, la maggioranza richiesta per l’adozione in atto, ma
LA SUA MODIFICAZIONE da parte del Consiglio non è possibile, ameno
che non si deliberi all’unanimità. Anche il par 2 rafforza il potere della
Commissione nella fase di proposta, in quanto le consente di modificare la
proposte, per renderla più accettabile a Parlamento e Consiglio e cercare
di avere il consenso delle altre due istituzioni, che con lei, sono
competenti nel processo decisionale. La Commissione può anche usare tale
strumento per impedire al Consiglio l’adozione di un emendamento ad essa
non gradito.
Sentenza FEDIOL: la Commissione può ritirare la proposta finché il
Consiglio non si sia pronunciato, qualora a seguito di una nuova valutazione
degli interessi dell’Unione, si ritenga superflua l’adozione del
provvedimento.

LA PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA

In questa procedura si può notare un allineamento dei poteri del


Parlamento rispetto al Consiglio, i quali hanno pari potestà legislativa. La
procedura di codecisione è stata introdotta con il Trattato di Maastricht
del 1992 ed è regolata dall’Art.294 TFUE. Con essa avviene una duplice
legittimità democratica, europea a livello del Parlamento e nazionale
grazie alla responsabilità dei governi verso i parlamenti nazionali.
La procedura di codecisione parte dalla proposta della Commissione, che è
inviata contemporaneamente sia al Parlamento che al Consiglio, così da
favorire un confronto tra le due istituzioni.
Su proposta della Commissione si apre una “Prima lettura” da parte di
Parlamento e Consiglio. Il Parlamento adotta la sua decisione e la
trasmette al Consiglio; se quest’ultimo l’approva l’atto è adottato nel
testo convenuto dalle due istituzioni; in caso contrario il Consiglio adotta
la sua posizione e la trasmette al Parlamento, informandolo delle 67
motivazioni.
A questo punto si apre la fase della “Seconda lettura” che può condurre ai
seguenti risultati:

entro 3 mesi dalla comunicazione della posizione del Consiglio il


Parlamento può approvare tale posizione e in questo caso l’atto è
adottato
a tale ipotesi viene equiparata quella in cui il Parlamento non si sia
pronunciato (silenzio-assenso)
al contrario, entro 3 mesi, il Parlamento può respingere la
posizione del Consiglio a maggioranza dei sui membri e l’atto si
considera non adottato
infine il Parlamento può proporre emendamenti alla posizione del
Consiglio; il testo così emendato è trasmesso al Consiglio e alla
Commissione che emana un parere
in quest’ultimo caso anche il Consiglio svolge una seconda lettura;
questo se entro 3 mesi approva tutti gli emendamenti del
Parlamento l’atto è approvato come emendato dal Parlamento,
altrimenti, il Presidente del Consiglio d’intesa con quello del
Parlamento, convoca entro 6 settimane un Comitato di
conciliazione; in questa fase, il Consiglio solo all’unanimità può
approvare emendamenti sui quali la Commissione abbia espresso
parere negativo
tale comitato deve cercare di giungere ad un accordo su un testo
comune, approvato a maggioranza qualificata dei membri del
Consiglio e a maggioranza dei rappresentanti del Parlamento. Alla
conciliazione partecipa in veste di conciliatore la Commissione
se entro 6 settimane dalla sua convocazione il Comitato di
conciliazione non approva un progetto comune, l’atto in questione
si considera non adottato e la procedura si conclude
definitivamente
Se viene approvato un progetto comune si apre la fase della “Terza
lettura” in cui Parlamento e Consiglio, entro 6 settimane, devono adottare
l’atto in questione sulla base del progetto comune. L’atto è quindi
definitivamente adottato altrimenti in caso di non decisione si considera 68
non approvato.

LE PROCEDURE LEGISLATIVE SPECIALI

L’Art. 289 TFUE contempla appunto procedure legislative differenti dalla


codecisione qualificate appunto come speciali.
La procedura è speciale quando l’atto è adottato dal Consiglio con la
partecipazione del Parlamento o viceversa; per cui in questi casi c’è uno
sbilanciamento a favore dell’una o dell’altra istituzione. In realtà, di
norma, lo sbilanciamento è quasi sempre a favore del Consiglio, mentre
rara è l’ipotesi opposta. Spesso è previsto che il Consiglio deliberi
all’unanimità sottolineando così il carattere intergovernativo della
procedura. La partecipazione del Parlamento si riduce ad un semplice
parere o ad un atto di approvazione. La consultazione del Parlamento è
prescritta come obbligatoria, di conseguenza sono obbligatori i pareri del
Parlamento anche se poi il Consiglio resta libero di accettare o meno il
parere (pareri obbligatori ma non vincolanti). In caso di mancata
consultazione, cmq, l’atto così emanato risulta illegittimo per violazione
delle “forme sostanziali” e può essere dichiarato nullo dalla Corte di
Giustizia.
La stessa Corte prescrive che è necessario attendere il parere del
Parlamento e non è sufficiente la semplice richiesta, questo perché
spesso il Consiglio emanava l’atto senza neanche attendere il parere del
Parlamento.
Nel caso in cui la proposta sulla quale si fondava il parere è stata
modificata c’è l’obbligo della “riconsultazione”. In casi eccezionali il
Consiglio può emanare l’atto in assenza del parere, quando il Parlamento
ritardi eccessivamente nel darlo.
L’atra forma di partecipazione del Parlamento alla procedura speciale è
quella dell’approvazione della decisione del Consiglio, che col Trattato di
Lisbona sostituisce il vecchio “parere conforme”. L’approvazione comporta
un potere determinante del Parlamento, il quale può impedire
l’approvazione dell’atto esercitando un diritto di “veto”. Il Parlamento in
questo caso può incidere solo in maniera negativa sull’adozione dell’atto.
LA CONCLUSIONE DI ACCORDI INTERNAZIONALI E LA 69
COMPETENZA DELL’UNIONE EUROPEA

L’ ultimo procedimento interistituzionale da considerare è quello di


stipulazione da parte dell’Unione europea di accordi internazionali con
Stati terzi o con altre organizzazioni internazionali. I principi sui quali si
fonda la competenza dell’Unione a stipulare accordi internazionali deriva
dal riconoscimento ad essa della “personalità internazionale” (sentenza
AETS). Dall’art 281 CE, la Corte ha quindi desunto che la Comunità ha la
competenza di stipulare accordi sul piano esterno, in tutte le materie
nelle quali ha la competenze di adottare atti normativi sul piano interno.
Se non si riconoscesse tale competenza, ci sarebbe il rischio che gli Stati
membri, stipulando essi stessi accordi con paesi terzi pregiudichino la
normativa comunitaria.
Viene così sancito il principio del parallelismo delle competenze in virtù
del quale, ogni qual volta l’Unione sia competente ad emanare un atto
legislativo, è competente anche a stipulare un accordo internazionale,
senza che sia necessaria ai fini della competenza, la previa emanazione di
una normativa interna.
Per quanto riguarda la competenza della CE a stipulare accordi, i principi
normativi sui quali la Corte riconosce tale competenza sono
rappresentati:

1. dal riconoscimento della personalità giuridica della Comunità


europea(art 281) ;
2. dalla teoria dei poteri impliciti ;
3. dall’ obbligo di leale collaborazione tra gli Stati membri e la
Comunità.
Tale impostazione giurisprudenziale è stata poi sostanzialmente recepita
dal Trattato di Lisbona nell’Art. 216 TFUE.

LA COMPETENZA ESCLUSIVA O CONCORRENTE DELL’UNIONE


EUROPEA

L’Art.3 par.2 TFUE fa riferimento alle competenze esclusive dell’Unione e


dichiara che essa ha la competenza esclusive a concludere accordi
internazionali, quando tale conclusione è prevista da atti legislativi o è 70
necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello
interno.
Tale articolo non implica però che la competenza dell’Unione a concludere
accordi sia sempre esclusiva, con perdita di tale competenza degli Stati
membri. In alcuni casi, infatti, la competenza ha concludere accordi no
appartiene in via esclusiva all’Unione, ma ha natura concorrente con quella
degli Stati membri. Tale articolo serve quindi anche a stabilire se tale
competenza sia esclusiva o meno. In caso di competenza esclusiva, cmq,
c’è la possibilità che la stessa Unione autorizzi gli Stati membri a
concludere accordi. Anche nelle materie di competenza concorrente, gli
Stati membri devono esercitare i propri poteri in modo da non
compromettere i fini dell’Unione, nel rispetto del principio di leale
collaborazione. I poteri degli Stati vanno via via a ridursi man mano che
l’Unione emana norme interne nelle varie materie.
L’esistenza di una competenza esclusiva deve basarsi su conclusioni
derivanti da una analisi concreta del rapporto tra l’accordo previsto e il
diritto dell’Unione. E’ necessaria una concordanza completa tra il settore
disciplinato dall’accordo internazionale e quello della normativa
dell’Unione.

GLI ACCORDI MISTI

Il contenuto degli accordi misti può riguardare spesso materie differenti,


per esempio l’una appartenente alla competenza esclusiva, l’altra alla
competenza concorrente.
E’ da tempo invalsa la prassi di stipulare accordi misti, i quali sono
negoziati e sottoscritti sia dall’Unione che dagli Stati membri. Questa
pratica consente di eliminare in radice il problema di determinare in quale
misura l’accordo rientri nella competenza dell’Unione o degli Stati
membri.
La prassi degli accordi misti è stata riconosciuta anche dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha stabilito che quando una
materi rientra in parte nella competenza dell’Unione, in parte in quella
degli Stati membri, occorre garantire una stretta collaborazione tra
questi ultimi e le istituzioni dell’Unione, tanto nel processo di negoziazione
e stipulazione, quanto nell’adempimento degli accordi assunti. Di fatto la 71
maggior parte degli accordi multilaterali dell’Unione è costituita da
accordi misti (FAO, WTO etc). In alcuni casi, infine, sebbene la materia
oggetto dell’accordi rientri nella competenza esclusiva dell’Unione, la
partecipazione di quest’ultima può essere preclusa dal fatto che l’accordo
sia aperto solo agli Stati. In questi caso può essere il Consiglio ad
autorizzare gli Stati membri a firmare accordi purché tale competenza
sia esercitata nell’interesse dell’Unione.

LA PROCEDURA DI STIPULAZIONE DEGLI ACCORTDI


DELL’UNIONE E I LORO EFFETTI GIURIDICI

L’Art.218 TFUE prevede il procedimento generale, che, nelle materie


rientranti nella PESC, inizia con una raccomandazione della Commissione o
dell’Alto rappresentante rivolta al Consiglio affinché autorizzi l’avvio dei
negoziati. Il Consiglio detiene i principali poteri nella stipulazione degli
accordi, in quanto autorizza l’avvio dei negoziati, definisce le direttive di
negoziato, autorizza la firma e conclude gli accordi, designa il negoziatore
e il capo della squadra di negoziato. I negoziatore agisce sotto il controllo
dello stesso Consiglio che gli impartisce le direttive. La decisione di
concludere l’accordo spetta al Consiglio nel quale si concentra la
competenza stipulare in nome dell’Unione. Per quanto riguarda il sistema
di votazione il Consiglio delibera di regola a maggioranza qualificata
oppure all’unanimità nei settori in cui è richiesta l’unanimità per
l’emanazione di atti sul piano interno. Per quanto riguarda il ruolo del
Parlamento, questo si esprime, a seconda dei casi, con la sua preventiva
approvazione o consultazione mentre resta estraneo nel settore della
PESC.
In merito alle categorie di accordi che hanno ripercussioni finanziarie per
l’Unione la decisione del Consiglio è subordinata alla consultazione
obbligatoria del Parlamento europeo. Per quanto riguarda l’eventuale
sospensione dell’accordo, la decisione spetta al Consiglio, su proposta
della Commissione o dell’Alto rappresentante mentre non è previsto alcun
ruolo del Parlamento europeo. Un accordo non può essere stipulato se
incompatibile con i Trattati e quindi non ha la forza giuridica per
modificare gli stessi. Per quanto riguarda gli effetti giuridici, gli accordi
internazionali vincolano le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri. 72
L’obbligatorietà degli accordi conclusi dall’Unione per gli Stati membri
determina una efficacia degli stessi per tali Stati, senza bisogno di alcun
atto statale di firma o ratifica, poiché rappresenta un semplice
adempimento di un obbligo interno derivante dal diritto dell’Unione del
quale l’accordo è parte integrante. Gli accordi misti, essendo parte
integrante dell’ordinamento dell’Unione, la Corte di Giustizia può
esercitare le proprie competenze come quella interpretativa e quella
relativa alla procedura di infrazione. L’equiparazione degli accordi
puramente dell’Unione e degli accordi misti sembra limitata però alle
disposizioni di quest’ultimi che riguardano materie rientranti nella
competenza dell’Unione.

CAPITOLO 7:

LE FONTI DELL’ ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA

CARATTERI GENERALI

L’ordinamento giuridico comunitario è riconducibile ad una pluralità di


fonti:
FONTI PRIMARIE  FONTI DI DIRITTO ORIGINARIO

 Il Trattato sull’Unione europea (TUE).


 Il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
 Protocolli e Allegati ai Trattati i quali ne costituiscono parte
integrante, e sono sullo stesso piano di fonte primaria dell’Unione.
ACCORDI INTERNAZIONALI DELL’ UE
FONTI SECONDARIE FONTI DI DIRITTTO DERIVATO
o REGOLAMENTI
o DIRETTTIVE atti obbligatori che le istituzioni hanno
il potere di emanare
o DECISIONI
Tra le fonti primarie e secondarie c’è un vero e proprio rapporto
gerarchico; le seconde infatti sono subordinate alle prime. Ciò significa
che esse, per essere valide, non devono violare i Trattati, ne modificare o 73
abrogare le disposizione contenuti nei Trattati istitutivi.

I TRATTATI SULL’UNIONE EUROPEA E SUL FINZIONAMENTO


DELL’UNIONE EUROPEA

La Corte di Giustizia ha affermato che tali Trattati rappresentano la


“costituzione” dell’Unione sottolineando che l’Unione è una comunità di
diritto nel senso che sia gli Stati che ne fanno parte, che le sue
istituzioni sono tenute al rispetto di tali Trattati (sent. LES VERTES). Il
carattere costituzionale dei Trattati si accentua anche dal fatto che essi
danno vita ad un ente sopranazionale a favore del quale gli Stati membri
hanno rinunciato alla propria sovranità e il cui ordinamento giuridico
riconosce come soggetti giuridici non solo gli Stati membri ma anche i loro
cittadini (sent. VAN GEND EN LOOS).
Non si può negare agli Stati membri la possibilità di modificare come
credono i Trattati istitutivi, utilizzando la procedura dell’Art.48 TUE.
L’unico limite sicuro alla libertà degli Stati membri deriva dalle norme
inderogabili di diritto internazionale generale (lo ius cogens), le quali però
non sembrano rilevanti in materia di modifiche dei Trattati.

L’EFFICACIA DIRETTA DELLE DISPOSIZIONI DEI TRATTATI

Da tale riconoscimento discende che le disposizioni dei Trattati


sono idonee ad attribuire diritti soggettivi. Dato il loro contenuto
chiaro-preciso e incondizionato, possono avere quindi EFFICACIA
DIRETTA; tali diritti possono essere esercitati dai soggetti titolari
nell’ambito dell’ordinamento degli Stati membri, e per la cui tutela
possono anche agire in via giudiziaria davanti ai tribunali degli Stati
membri. La Corte respinse quindi l’argomento secondo il quale, in
caso di violazione di un obbligo derivante dai Trattati da parte di
uno Stato membro, si sarebbe dovuta esperire la procedura di
infrazione e non già un’azione giudiziaria dei singoli davanti ai giudici
statali. L’efficacia diretta rappresenta non solo un mezzo per
rafforzare la tutela dei singoli, ma anche un ulteriore strumento di
garanzia del rispetto del diritto dell’Unione.
Bisogna distinguere però il concetto di EFFICACIA DIRETTA da 74
quello di APPLICABILITA’ DIRETTA. Quest’ultimo concetto implica
che disposizioni aventi contenuto chiaro, preciso e incondizionato,
possono essere immediatamente applicate all’interno degli Stati
senza bisogno di mediazione degli stessi, o meglio senza bisogno di
un atto di esecuzione o adattamento all’ordinamento da parte loro.
L’efficacia diretta, invece, pone in evidenza il profilo soggettivo,
concernente il diritto dei singoli nascente da una norma siffatta e la
sua azionabilità immediata davanti ai giudici nazionali.
L’efficacia diretta di una disposizione dei Trattati riguarda sia i suoi
effetti diretti “verticali”, ossia quelli che anzitutto operano nei
rapporti tra i singoli e gli Stati membri, ma anche i suoi effetti
diretti “orizzontali”, ossia quelli che operano nei rapporti tra singoli
soggetti privati. Il riconoscimento di effetti diretti orizzontali
comporta quindi che le disposizioni in questione conferiscano ai
singoli non solo diritti, ma anche obblighi (diritto del lavoratore a
non subire discriminazioni  obbligo del datore di lavoro di non
effettuare discriminazioni).

PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO DELL’UNIONE

I principi generali sono principi non espressamente dichiarati nelle


disposizioni del Trattati ma sono principi che hanno ORIGINE
PRETORIA, cioè non derivanti da disposizioni, ma frutto della
giurisprudenza creativa della Corte di Giustizia. Essi, sono quindi principi
NON SCRITTI, per cui la Corte non si preoccupa di giustificarne l’origine
o il fondamento.
I principi generali costituiscono principi autonomi dell’ordinamento
dell’Unione che si ispirano agli ordinamenti degli Stati membri ed operano
nell’ambito generale del diritto dell’Unione, non già in una materia limitata.
Bisogna aggiungere però, che essi muovono sempre nella trama del diritto
dell’Unione. Alcuni di essi, inoltre, partono proprio da disposizioni
specifiche. Esemplare è il caso del principio di “leale collaborazione”
contenuto nell’art 10 CE, quale dovere degli Stati nei confronti delle
istituzioni. La Corte ha rinvenuto che tale principio fosse la
manifestazione di un principio generale estendibile tra le stesse
istituzioni dell’Unione e addirittura a carico delle istituzioni e a favore 75
degli Stati. Altro esempio è senz’altro quello dei diritti fondamentali
comuni alle traduzioni costituzionali degli Stati membri.
I principi generali si pongono come fonti non scritte del diritto dell’Unione
e come tali integrano il sistema completandolo e colmandone le eventuali
lacune.
Essi operano, in genere, nei confronti delle istituzioni e perciò esse sono
chiamate a rispettarli. Qualora quindi esse emanassero atti in contrasto
con tali principi, gli atti in questione potrebbero essere ritenuti invalidi e
suscettibili di annullamento da parte della Corte. Operano anche nei
confronti degli Stati membri dato che, in caso di violazione dei suddetti
principi è esperibile contro gli Stati le procedura di infrazione. Dal punto
di vista della collocazione e del rango, ci sembra che tali principi tendano
a porsi sullo stesso piano dei Trattati, e quindi a livello del diritto
primario dell’Unione.
I principi generali svolgono anche una importante funzione interpretativa
rispetto alle altre norme dell’Unione; l’esempio classico è quelle del
principio dell’effetto utile secondo il quale ogni norma deve essere
interpretata in modo che possa raggiungere nella maniera più efficace il
proprio obiettivo. Altro principio frequentemente richiamato è quello
della certezza del diritto.

GLI ACCORDI INTERNAZIONALI DELL’UNIONE EUROPEA

Gli accordi internazionali dell’Unione si pongono in una posizione


intermedia , tra Le Fonti primarie cioè i Trattati istitutivi e le fonti
secondarie di diritto dell’Unione cioè il diritto derivato. Essi costituiscono
parte integrante del diritto dell’Unione fin dalla loro entrata in vigore.

 Essi sono quindi subordinati ai Trattati istitutivi e quindi devono


rispettare le disposizioni contenute in essi, disposizioni che non
possono né modificare né abrogare (invalidare).
Tali accordi, infatti, non hanno di per sé, la forza giuridica necessaria, o
l’efficacia giuridica per modificare i Trattati: essi perciò possono essere
stipulati solo se e quando sia stata assicurata la loro compatibilità con i
Trattati stessi mediante il “PROCEDIMENTO DI REVISIONE ”. Tali
accordi si pongono quindi in una posizione gerarchicamente inferiore a 76
quella ei Trattati.
Per quanto riguarda invece i rapporti tra questi accordi e il diritto
derivato:
 Gli atti emanati dall’Unione (decisioni-direttive-regolamenti)
sembrano essere subordinati agli accordi.
In fatti se tali accordi sono vincolanti per le istituzioni dell’Unione,
sembra logico che le istituzioni per rispettare tale vincolo debbano
astenersi dall’emanare atti che siano in contrasto con i suddetti accordi.
Da ciò si deduce l’ulteriore obbligo per la Corte di Giustizia di
interpretare gli accordi in conformità coi Trattati.

Inoltre tali accordi possono anche produrre effetti diretti per i singoli,
cioè possono creare diritti, che i singoli possono esercitare anche in via
giudiziaria dinanzi ai giudici degli Stati membri. Chiaramente, perché essi
abbiano efficacia diretta, è necessario che il loro contenuto sia
obbligatorio, preciso e incondizionato e che per la sua applicazione non si
richiede l’emanazione di un ulteriore atto.

GLI ACCORDI CONCLUSI TRA STATI MEMBRI

Per quanto riguarda gli accordi conclusi tra Stati membri, va osservato
che quelli preesistenti alla loro partecipazione alla Comunità(o
Unione)europea, se incompatibili con i nuovi obblighi derivanti dai
Trattati, devono essere abrogati in virtù del fatto che il suddetti
Trattati prevalgono sulle convenzioni concluse tra gli Stati anteriormente
alla sua entrata in vigore. Così vale ugual cosa, ossia che PREVALE il
diritto dell’Unione, per accordi tra Stati membri stipulati dopo la loro
partecipazione all’Unione, che siano quindi incompatibili. In tal caso nei
loro confronti si potrebbe dare luogo anche ad una procedura di
infrazione.
Pertanto ove il contrasto non sussista gli Stati posso concludere accordi
anche in materie di competenza dell’Unione, a condizione che tale
competenza non sia esclusiva.
Gli Stati membri possono inoltre, in seno al Consiglio adottare degli atti
denominati “atti degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio”, i quali non
hanno la natura giuridica di atti dell’Unione, cioè imputabili al Consiglio, ma 77
restano imputabili collettivamente agli Stati membri. La Corte ha
riconosciuto agli Stati la possibilità di adottare tali atti, ma negando che
essi siano “atti dell’Unione”, ha escluso di conseguenza, anche la loro
competenza a sindacarne la legittimità.

GLI ACCORDI TRA STATI MEMBRI E STATI TERZI

Essi non fanno parte del diritto dell’Unione, qualora siano anteriori
all’adesione degli Stati membri alla Comunità o alla entrata in vigore del
Trattato CE. Tuttavia l’art 351 TFUE dello stesso fa salvi gli accordi, i cui
obblighi e diritti derivanti, non sono pregiudicati dalle disposizioni dei
Trattati.
Ciò vuol dire che uno Stato membro può sottrarsi agli obblighi derivanti
dal Trattato nella misura in cui ciò è necessario per adempiere quelli
prescritti da un convenzione conclusa anteriormente con uno Stato terzo.
Lo stesso articolo, però, prescrive anche che lo Stato o gli Stati membri
in questione debbano cercare di eliminare le incompatibilità tra la
convenzione anteriore e i Trattati. I giudici devono quindi interpretare la
convenzione preesistente in materia, in modo conforme al diritto
dell’Unione.

IL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE

Anche questo va ricompreso nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione. Esso


viene in rilievo nei rapporti tra l’Unione e gli Stati terzi e le altre
organizzazioni internazionali. L’Unione, essendo un soggetto di diritto
internazionale, è tenuta al rispetto dei diritti derivanti dal diritto
internazionale consuetudinario. Il diritto internazionale generale fa
direttamente parte del diritto dell’Unione con la conseguenza che esso
rappresenta un parametro giuridico alla cui stregua valutare la legittimità
degli atti emanati dalle sue istituzioni.

GLI ATTI DELL’UNIONE EUROPEA E I LORO REQUISITI

L’art 288TUE definisce le categorie di atti dell’Unione:


78
1. Regolamenti
2. Direttive
3. Decisioni
4. Raccomandazioni e pareri
5. Atti obbligatori e non vincolanti

Regolamenti – Direttive – Decisioni possono considerasi “atti tipici”


poiché l’Art.288 TFUE stabilisce i loro caratteri generali e i loro effetti
tipici:
1. Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i
suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati
membri.
2. la Direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto
riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza
degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi.
3. La Decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i
destinatari è obbligatoria solo nei confronti di essi.
REQUISITI:
In relazione a questi tre atti, fondamentale è il requisito della
MOTIVAZIONE, la quale:

1. è una condizione necessaria per valutare la validità dell’atto, in


quanto la sua assenza potrebbe rappresentare una “violazione delle
forme sostanziali” suscettibile di determinare l’invalidità dell’atto e
quindi il suo annullamento.
2. è diretta, in anzitutto, a consentire alla Corte di esercitare il
proprio controllo, ripercorrendo l’iter logico seguito dalle istituzioni
e anche a far conoscere agli interessati le ragioni del provvedimento
adottato, al fine di tutelare i propri diritti.

Legato all’obbligo di motivazione c’è anche l’obbligo (non espressamente


richiesto dai Trattati) di indicare la base giuridica dell’atto, cioè la
disposizione del Trattato che conferisce il potere di emanare l’atto in 79
questione. L’indicazione di questa base giuridica consente di stabilirne
l’efficacia e valutarne la legittimità.
La scelta di una o l’altra base giuridica deve basarsi su elementi oggettivi,
quali lo scopo e il contenuto dell’atto in questione. Qualora più disposizioni
si prestassero a costituire il fondamento giuridico di un atto, ossia che
nell’esame di un atto si scoprisse che esso persegue un duplice scopo o ha
una doppia componente, allora l’atto deve fondarsi sullo scopo o
componente che riveste un ruolo principale, rispetto agli altri elementi
considerati accessori. La base giuridica dell’atto serve anche a stabilire
quale tipo di atto (reg, dir, dec) va adottato. In mancanza di una
previsione sono le stesse istituzioni che di volta in volta prevedono il tipo
di atto da adottare nel rispetto del principio di proporzionalità. Per cui va
preferito un tipo di atto il meno intrusivo possibile.
Un ulteriore requisito formale per gli atti obbligatori adottati mediante
la procedura di codecisione, è quello secondo cui essi debbano essere
firmati sia dal presidente del Parlamento europeo, sia dal Presidente del
Consiglio e pubblicati poi nella Gazzetta ufficiale dell’ Unione europea.
Tali atti entreranno in vigore nel ventesimo giorno successivo alla loro
pubblicazione. Gli atti adottati con procedura legislativa speciale e gli atti
non legislativi sono invece firmati solo dal Presidente dell’istituzione che li
ha adottati. Mentre le altre direttive e decisioni che si rivolgono solo ad
alcuni Stati, che non sono state adottate con la procedura di codecisione,
sono notificate direttamente ai loro destinatari ed entrano in vigore in
virtù di tale notificazione. Gli atti obbligatori possono anche contenere
sanzioni pecuniarie nei confronti di persone fisiche o giuridiche ed in
questi casi hanno efficacia di titolo esecutivo. L’esecuzione forzata è
regolata dalle norme di procedura civile vigenti nel territorio in cui è
effettuata; tale esecuzione può essere sospesa solo dalla Corte di
Giustizia dell’Unione.

I REGOLAMENTI

Dalla definizione emergono i 3 caratteri distintivi del regolamento:


 la portata generale
 l’obbligatorietà
 la diretta applicabilità 80

PORTATA GENERALE
Essa implica che il regolamento si applichi ad una fattispecie definita in
termini generali ed astratti e ad una serie indeterminata di destinatari,
ossia a più categorie di destinatari determinate astrattamente e
individuate sulla base di elementi oggettivi e non di qualità personali.
Esso si differenzia quindi dalla decisione in quanto quest’ ultima non ha
portata generale ma Individuale, diretta cioè a destinatari limitati e
specifici.
Ci sono però casi in cui, i regolamenti hanno uno specifico oggetto, cioè
misure contro determinate persone, come nel caso del regolamento che
stabilisce il congelamento di capitali per le persone sospettate di
terrorismo; tali regolamenti si rivolgono cmq ad una generalità
indeterminata di destinatari in quanto vietano a chiunque di mettere a
disposizione dei sospettati risorse finanziarie. La generalità del
regolamento poi, non va intesa necessariamente come sua applicazione in
tutti gli Stati membri perché è possibile che esso abbia un’applicabilità
territoriale limitata.
OBBLIGATORIETA’
in tutti i suoi elementi ciò significa che tale obbligatorietà è, integrale,
cioè non è limitata ai soli risultati da raggiungere, come nel caso nella
direttiva, ma si riferisce anche alle forme e ai mezzi diretti ad assicurare
il risultato.
LA DIRETTA APPLICABILITA’
negli Stati membri essa mette in evidenza l’aspetto essenziale della
sopranazionalità: infatti i regolamenti esprimono la capacità dell’Unione
europea di produrre una normativa che raggiunge direttamente i singoli,
creando per essi diritti e obblighi senza che ci sia il bisogno che gli Stati
membri facciano qualcosa per darle esecuzione e per farla adattare.
L’ applicabilità diretta dei regolamenti comporta che essi acquistino
efficacia giuridica all’interno degli Stati membri al momento stesso in cui,
dopo la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione, entrano in
vigore sul piano europeo senza che detti Stati possano fare niente per
impedirne l’efficacia.
In passato alcuni Stati come l’Italia usavano la prassi di attuare i 81
regolamenti attraverso atti interni che ne riproducevano il contenuto.
Tale prassi è stata dichiarata illegittima dalla Corte sia perché contrasta
con la diretta applicabilità, sia perché pregiudica la simultanea entrata in
vigore del regolamento rinviandola all’entrata in vigore dell’atto statale.
Tale prassi pregiudicava anche la competenza della stessa Corte a
pronunciarsi in via pregiudiziale poiché il suo intervento non è ammesso
per quanto riguarda un atto statale.

Bisogna aggiungere tuttavia che la diretta applicabilità non esclude che


possano essere necessari o meglio opportuni ulteriori atti di esecuzione.
Ciò può avvenire quando si tratta di regolamenti di carattere ”normativo”,
in relazione ai quali il Consiglio o la Commissione possono emanare dei
regolamenti di esecuzione i quali rimangono cmq subordinati al
regolamento di base, con la conseguenza che non possono ne modificarlo,
ne tantomeno superare i limiti da esso stabiliti. Esistono poi casi
eccezionali in cui il regolamento può anche richiedere un’attività statale di
esecuzione quando si tratti di regolamenti il cui contenuto non sia
pienamente self-executing (auto-sufficiente), cioè chiaro-preciso e
incondizionato, e per cui è necessario un atto statale di esecuzione che
determini le misure da adottare, necessarie per la sua applicazione.

Anche in caso di regolamento direttamente applicabile, rimane in capo agli


Stati membri l’obbligo di cooperazione di cui all’Art.4 par.3 TUE, il quale
comporta per gli Stati la necessità di emanare norme per sanzionare la
violazione del regolamento da parte di privati. Diretta applicabilità
significa anche che i regolamenti sono idonei a creare diritti e obblighi sia
nei rapporti “orizzontali” tra privati, che in quelli “verticali” tra i singoli e
lo Stato con la conseguenza che ove il diritto non venga spontaneamente
soddisfatto, il titolare può chiederne la tutela giudiziaria dinanzi al
giudice nazionale.
LE DIRETTIVE 82
Dalla sua definizione risulta che essa può avere :

1. portata generale destinata a tutti gli Stati membri


2. portata particolare destinata solo ad alcuni Stati membri

Essa rimane cmq sempre rivolta agli Stati e mai ai singoli.


-In questo caso l’obbligatorietà è soltanto parziale, nel senso che vincola
gli Stati solo per i risultati da raggiungere, riconoscendogli la libertà di
scegliere i mezzi e le forme necessarie per raggiungere il risultato
prescritto.
-L a direttiva non unifica integralmente (come fanno i regolamenti) il
diritto degli Stati membri, ma si limita a riavvicinare, ad armonizzare tali
diritti; appare perciò meno intrusiva nella realtà giuridica degli Stati
membri e per questo più conforme sia al principio di sussidiarietà, dato
che implica un intervento dell’Unione solo nella misura in cui gli scopi dei
Trattati non siano raggiungibili dai singoli Stati, sia al principio di
proporzionalità limitandosi a porre un obbligo senza oltrepassare quanto
le istituzioni ritengano necessario per il raggiungimento degli obiettivi dei
Trattati.
 A differenza del regolamento, la direttiva non ha applicabilità
diretta, e per acquistare efficacia giuridica all’interno degli Stati
è necessario che questi ultimi diano esecuzione alla direttiva
integrando il suo contenuto con FORME E MEZZI, con i quali
raggiungere i risultati prescritti, visto che essa è un atto
incompleto che si limita appunto a prescrivere solo l’obiettivo.
Nella prassi esistono anche esempi di direttive esaustiva che
sottraggono gli Stati da qualsiasi libertà in merito ai mezzi di
attuazione; esse sono denominate direttive dettagliate o
particolareggiate.
 Le direttive inoltre stabiliscono il termine entro il quale gli Stati
debbano darne esecuzione, termine che può variare da pochi mesi
ad alcuni anni. Ciò non significa, tuttavia, che prima di tale
scadenza, la direttiva non abbia efficacia giuridica. Essa infatti,
appena entra in vigore, ha efficacia e determina un obbligo a
carico degli Stati destinatari, denominato di STAND-STILL. Tale
obbligo consiste nel divieto per gli Stati di adottare misure che 83
abbiano il risultato di rendere più difficile l’attuazione della
Direttiva, in quanto modifichino l’ordinamento interno in modo da
renderlo più difforme dagli obiettivi della direttiva e
pregiudichino così il risultato da essa prescritto. Al contrario i
provvedimenti devono appunto facilitare tale esecuzione, e i
mezzi con i quali fare questo devono essere comunicati alla
Commissione.
Entro il termine prescritto gli Stati destinatari hanno l’obbligo di
adottare tutti i provvedimenti necessari per dare esecuzione alla
direttiva; eventuali difficoltà consentono allo Stato al massimo di
chiedere una proroga. La scelta della forma e dei mezzi rientra nelle
competenze degli Stati i quali però a riguardo non hanno libertà assoluta:
infatti esigenze di certezza del diritto impongono agli Stati di emanare
atti che siano idonei a garantire pienamente il risultato prescritto nella
direttiva. Pertanto possono essere necessari provvedimenti idonei a
modificare la normativa dello Stato per adeguarla all’obiettivo posto dalla
direttiva.
Una volta scaduto il termine per l’attuazione, lo Stato è responsabile per
violazione ex Art.288 TFUE e nei sui riguardi può essere esperita la
procedura di infrazione; inoltre a certe condizioni può anche essere
richiesto il risarcimento dei danni che i singoli hanno subito a seguito
dell’inadempimento.
Sebbene la direttiva abbia un’efficacia “mediata”, a certe condizioni e
entro certi limiti, essa pur non attuata dallo Stato membro, può produrre
effetti diretti all’interno dello Stato, qualora abbia un contenuto chiaro e
preciso, preveda per gli Stati destinatari un obbligo incondizionato e sia
diretta conferire ai singoli un diritto suscettibile di essere esercitato ed
invocato davanti al giudice nazionale. La Corte di Giustizia a stabilito che
per l’applicabilità diretta, il termine di attuazione della direttiva deve
essere scaduto. La ratio della diretta applicabilità sta innanzitutto nel
tutelare gli obblighi dei singoli nascenti dalla direttiva che sarebbero
pregiudicati dalla mancata attuazione da parte dello Stato e che invece,
grazie al riconoscimento di effetti diretti, possono ugualmente essere
esercitati e tutelati in via giudiziaria e in secondo luogo nel sanzionare lo
Stato inadempiente. Dato che la direttiva crea obblighi solo per gli Stati,
i diritti nascenti da essa possono essere invocati solo dai privati. Le 84
direttive possono avere quindi solo un efficacia diretta “verticale” e non
anche “orizzontale”; tale efficacia verticale è anche “unilaterale” nel
senso che opera esclusivamente a favore del singolo, il quale può
rivendicare il diritto da essa nascente mentre lo Stato non può vantare
alcuna pretesa nei confronti del singolo.
La negazione di effetti diretti orizzontali comporta una disparità di
trattamento a seconda che il singolo abbia come controparte lo Stato o un
altro privato.
Per ovviare a tale problema la Corte a stabilito l’obbligo di interpretare il
diritto interno in modo conforme alla direttiva in modo da adattarlo alle
sue prescrizioni; formalmente quindi il giudice non applica la direttiva ma
il diritto interno, il quale crea diritti ed obblighi corrispondenti nei
rapporti tra privati.

LE DECISIONI

Il terzo atto obbligatorio è la decisione. Essa è qualificata come


obbligatoria in tutti i suoi elementi e si differenzia dalla direttiva che è
vincolante solo per quanto riguarda il risultato da raggiungere. L’art 288
par.4 TFUE consente che siano emanate anche decisioni prive di
indicazioni sui destinatari. Le decisioni vanno sempre pubblicate sulla
Gazzetta ufficiale dell’Unione, quelle che designano i destinatari sono
invece notificate a quest’ultimi e acquistano efficacia in virtù della
notificazione. Per quanto riguarda gli specifici destinatari, questi possono
essere sia Stati membri, sia persone fisiche o giuridiche ed in
quest’ultimo caso esse assumono le caratteristiche tipiche del
provvedimento amministrativo interno. Riguardo alle decisioni
“particolari”, è proprio la presenza di destinatari specifici che consente di
distinguerle dai regolamenti che hanno portata generale.
Per quanto riguarda le decisioni “che non designano un destinatario”
queste restano obbligatorie in tutti i sui elementi; esempi classici di
questo tipo di decisioni sono quelle che hanno per oggetto la composizione
di istituzioni o altri organi e per alcuni anche quelle che prevedono la
disciplina di dettaglio di materie già regolate da un regolamento o da una
direttiva.
La direttiva deve presumersi direttamente applicabile all’interno dello 85
Stato destinatario a meno che non sia necessaria l’emanazione di atti
statali di esecuzione mentre applicabili senza bisogno di atti statali sono
le decisioni riferite a specifiche persone fisiche o giuridiche.
Anche le decisioni come le direttive producono effetti diretti invocabili
dai singoli nei confronti degli Stati destinatari sottolineando il carattere
“verticale del loro effetto diretto. Per quanto riguarda il loro effetto
“orizzontale”, la Corte di Giustizia, nella sentenza Carp, ha stabilito che le
decisioni sull’efficacia orizzontale di una direttiva possono essere
applicate anche a una decisione che sia obbligatoria per i soli Stati
membri, da cui non si possono ricavare obblighi a carico di privati. Il
singolo, in una controversia per responsabilità contrattuale, non può far
valere nei confronti di altro singolo, una violazione da parte di
quest’ultimo di una decisione.

LE RACCOMANDAZIONI E I PARERI

L’Art.288 TFUE al 5° comma si limita ad affermare che tali atti non sono
vincolanti.
La raccomandazione rappresenta una manifestazione di volontà con la
quale l’istituzione che emana, chiede al destinatario, seppur in maniera
non vincolante, di tenere un la condotta raccomandata.
Il parere invece, è una manifestazione di giudizio, un consiglio, senza che
il suo intento sia quello di sollecitare il destinatario a seguire un
determinato comportamento.
E’ diffusa opinione che tutte le istituzioni dell’Unione siano idonee ad
emanare raccomandazioni, quando non dispongano, in forza dei Trattati,
del potere di adottare atti obbligatori o quando ritengono che non vi sia
motivo di adottare atti più vincolanti (sent. Grimaldi). Anche se potere
generale di adottare tali atti spetta al Consiglio, alla Commissione e nei
casi previsti dai Trattati, alla BCE.
La raccomandazione può avere come destinatari un istituzione, ovvero
Stati membri o anche persone fisiche o giuridiche.
Sebbene non abbia effetti obbligatori, la raccomandazione è soggetta
alla competenza pregiudiziale della Corte di Giustizia ai sensi dell’Art 267
TFUE.
Le raccomandazioni sono produttive di un effetto giuridico, consistente 86
nel dovere dei giudici nazionali di prenderle in considerazione nella
decisione delle cause sottoposte (sent. Grimaldi). Sembra corretto
attribuire alle raccomandazioni l’effetto giuridico c.d. di liceità nel senso
che se uno Stato per adeguarsi alla raccomandazione viola un obbligo
giuridico, la condotta deve considerarsi cmq lecita.
Per quanto riguarda i pareri, malgrado siano privi di obbligatorietà,
talvolta possono avere delle conseguenze giuridiche in caso di
inosservanza; un esempio è il parere della Commissione in merito alla
violazione di un obbligo derivante dai Trattati da parte di uno Stato
membro, la cui inosservanza può comportare il deferimento dello Stato
alla Corte di Giustizia.

GLI ATTI ATIPICI

Gli atti diversi da quelli contemplati dall’Art. 288 TFUE sono denominati
atti atipici. Essi comprendono un’ampia varietà di figure, possono
rappresentare un elemento di incertezza giuridica e vengo raggruppati in
3 categorie:
 atti, previsti dai Trattati, che hanno la medesima
denominazione di uno di quelli tipici contemplati dall’Art.
288TFUE, ma caratteri giuridici differenziati (es. i regolamenti
interni di varie istituzioni e organi)
 atti, previsti dai Trattati, ma aventi denominazioni e
caratteri diversi da quelli tipici (es. le risoluzioni operative che
le istituzioni adottano per regolare la propria attività nei vari
settori)
 atti, non contemplati dai Trattati, ma nati dalla prassi
(l’assenza di disposizioni rendono difficile l’individuazione dei loro
effetti che a seconda dei casi possono avere valore giuridico o
meramente politico)
Altri esempi di atti atipici sono senz’altro gli accordi interistituzionali
tra Parlamento, Consiglio e Commissione i quali hanno carattere vincolante
ed effetti obbligatori, e la cui prassi, collegata al principio di leale
collaborazione, appare sicuramente legittima.
GLI ATTI IN MATERIA DI PESC 87

In merito a tale materia le istituzioni non possono adottare atti legislativi


e va esclusa anche una loro applicabilità diretta nei confronti dei singoli,
ma non l’obbligatorietà di tali atti nei confronti degli Stati membri e delle
istituzioni dell’Unione. Ai sensi dell’Art. 25 TUE l’Unione, in materia di
PESC, definisce gli orientamenti generali, adotta le decisioni e rafforza la
cooperazione sistematica tra gli Stati. L’art 26 TUE stabilisce che il
Consiglio individua gli interessi strategici dell’Unione, fissa gli obiettivi,
definisce gli orientamenti giuridici generali e adotta le decisioni
necessarie per l’attuazione della PESC definendo la posizione dell’Unione
su una particolare questione o tematica. Le decisioni dell’Unione sono
obbligatorie per gli Stati membri i quali provvedono affinché le politiche
nazionali siano conformi alle posizioni dell’Unione.

CAPITOLO 8:

LE COMPETENZE GIUDIZIARIE

La Comunità europea è una comunità di diritto, all’interno della quale gli Stati
membri e le istituzioni che ne fanno parte non possono sottrarsi al controllo
giudiziario della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado, per quanto
riguarda la conformità degli atti alla carta costituzionale di base costituita dal
Trattato CE (sent. Les Verts).

Quest’ultimo attribuisce a ciascun apparato giudiziario delle competenze


specifiche, ma mentre le sentenza del Tribunale di 1° grado possono
essere oggetto di ricorso alla Corte, le competenze di quest’ultima non
sono soggette ad un doppio grado di giurisdizione.
La ripartizione delle competenze si basa sia sull’oggetto del ricorso
sul soggetto del ricorso
I Trattati istituiscono la Corte di Giustizia dell’Unione europea che è
articolata in Corte di Giustizia, Tribunale e Tribunali specializzati. Essi
cmq non escludono il contributo dei giudici nazionali, i quali, nello 88
svolgimento delle loro funzioni, devono garantire l’esecuzione degli
obblighi derivanti dai Trattati.
Nei confronti dei giudici nazionali l’Art. 267 TFUE istituisce un’originale
strumento di cooperazione con la Corte di Giustizia consistente nella
competenza di pregiudiziale di rinvio. La Corte di Giustizia ha sempre
svolto un ruolo propulsivo e creativo nello sviluppo del diritto dell’Unione,
attraverso delle sentenze storiche che contribuito al superamento di fasi
di stallo. In particolare l’adozione di principi generali rappresentano un
importante fonte di origine “pretoria”.
L’abolizione della struttura in pilastri non ha determinato alcuna
estensione delle competenze giudiziarie della Corte, col risultato che la
materia della PESC rimane tuttora sottratta alla competenza della Corte,
sottolineando il carattere puramente intergovernativo che la
caratterizza.

RIPARTO DI COMPETENZE TRA LA CORTE DI GIUSTIZIA E IL


TRIBUNALE:

Corte di Giustizia e Tribunale non si pongono sullo stesso piano


gerarchico. Le loro competenze sono fissate dai Trattati e dallo Statuto
della Corte di Giustizia.
Alcune competenze sono attribuite al Tribunale e possono essere oggetto
di ricorso alla Corte di Giustizia; altre competenze invece sono riservate
alla Corte e per esse non sussiste un doppio grado di giudizio
Al Tribunale spetta:
 la competenza di annullamento di atti dell’Unione, qualora il
ricorrente sia una persona fisica o giuridica
 il ricorso in c.d. carenza
 l’azione di risarcimento danni contro l’Unione
 le controversie tra l’Unione e i suoi agenti (spesso demandati al
Tribunale della Funzione pubblica)

Alla Corte spetta:


o l’annullamento di atti dell’Unione
o ricorso in c.d. carenza
o (sono entrambi ricorsi proposti contro istituzioni dell’Unione, 89
da parte di un’altra istituzione o di uno stato membro)
o procedura di infrazione contro uno Stato membro che ha violato gli
obblighi derivanti dai Trattati
o competenza consultiva in merito alla compatibilità di un accordo
previsto dall’unione con le disposizioni dei Trattati.
o Ricorsi degli Stati membri contro un atto o un’astensione dal
pronunciarsi della Commissione
La ripartizione della competenze tra Tribunale e Corte di Giustizia si basa
solo in parte sull’oggetto del ricorso; per il resto essa si fonda su
elementi soggettivi.
Tutte le competenze non menzionate dai Trattati ricadono nella
competenza residuale della Corte di Giustizia.
Col Trattato di Nizza, confermato da quello di Lisbona, la competenza
pregiudiziale di rinvio non è più esclusiva della Corte di Giustizia ma è
stata estesa anche al Tribunale, ma solo per specifiche materie. L’Unione
non gode di immunità dalla giurisdizione degli Stati membri e pertanto è
consentito esperire contro di essa un’azione davanti al giudice nazionale
per inadempimento contrattuale, mentre per l’esecuzione forzata c’è
bisogno dell’autorizzazione della Corte.

LA “LITISPENDENZA” TRA LA CORTE DI GIUSTIZIA E IL


TRIBUNALE E L’ IMPUGNAZIONE DELLE SENTENZE DI TALE
TRIBUNALE
Dato che spesso, Corte e Tribunale, in determinate materie, hanno
entrambi delle competenze che vengono ripartite solo in considerazione
del ricorrente, ci possono essere situazioni in cui si verifichi un caso di
“LITISPENDENZA”, nel senso che:

o lo stesso caso può essere sottoposto (da diversi ricorrenti)


sia alla Corte di giustizia, sia al Tribunale di primo grado.
o che essi presentino lo stesso problema interpretativo o di
validità di un atto.
In questi casi occorre stabilire come coordinare i 2 processi, per 90
garantire l’unità del diritto dell’Unione e la buona amministrazione della
giustizia.
In tal caso si può procedere in tre modi:

1. il Tribunale, ascoltate le parti, può sospendere il procedimento e


attendere la pronuncia della Corte; Il doppio grado di Giurisdizione
è garantito ma resta il fatto che il Tribunale si sentirà cmq
vincolato alla pronuncia della Corte.
2. il Tribunale, nel caso in cui si tratti di ricorsi di annullamento, può
decidere di declinare la sua competenza a favore della Corte; viene
favorita una decisione celere ma col sacrificio del doppio grado di
giudizio.
3. la Corte sospende il procedimento, e attende la pronuncia del
Tribunale; è garantito il doppio grado di giurisdizione ma i tempi
della giustizia sono destinati a rallentare.
Quando invece uno Stato membro e un’istituzione impugnano lo stesso
atto, il Tribunale declina la propria competenza a favore della Corte.
L’Art. 256 TFUE statuisce che le decisioni emesse dal Tribunale possono
essere oggetto di impugnazione dinanzi alla Corte per i soli motivi di
diritto ed entro i limiti previsti dallo Statuto. Ciò comporta che non ci sia
un riesame del caso da parte della Corte, ma solo una valutazione di
eventuali vizi giuridici. Un’impugnazione non può riproporre argomenti
adotti nel giudizio di primo grado altrimenti alla Corte verrebbe
sottoposta una causa più ampia di quella di quella sottoposta al Tribunale,
ma deve essere motivata in base a vizi di diritto della sentenza, con
indicazione precisa degli elementi criticati.
Alla Corte di Giustizia è ammesso di riesaminare in fatto la causa solo
quando la valutazione fatta dal Tribunale risulti palesemente erronea.
Qualora l’eventuale vizio di diritto risulti ininfluente ai fini del dispositivo
della sentenza del Tribunale, il ricorso è respinto.
Le decisioni del Tribunale possono essere impugnate nel termine di 2 mesi
dalla loro notifica e legittimata a ricorrere è qualsiasi parte che sia
rimasta totalmente o parzialmente soccombente. L’impugnazione può
essere proposta anche dagli Stati membri e dalle istituzioni dell’Unione
anche se non sono intervenuti ne giudizio di primo grado; tale
legittimazione è fondata su un interesse oggettivo al rispetto della 91
legalità riconosciuto a questi soggetti.
Se l’impugnazione è accolta, la Corte annulla la sentenza del Tribunale.
Essa quindi può sia rinviare la sentenza al Tribunale perché decida in
conformità alla decisione resa dalla Corte, o se il caso lo consente, può
trattenere la causa e decidere lei nel merito.
I Trattato di Nizza ha introdotto il nuovo istituto del riesame, da parte
della Corte di Giustizia, sia per le sentenze emanabili dal Tribunale che
per quelle dei Tribunali specializzati, ove sussistano gravi rischi che
l’unità e la coerenza del diritto siano compromessi. Rispetto alle sentenze
di primo grado e per quelle della Corte, lo Statuto della Corte stessa
prevede il rimedio straordinario della revocazione. Esso è esperibile solo
in seguito alla scoperta di un fatto avente un’influenza decisiva e che
prima della sentenza era ignoto alla Corte e alla parte che domanda la
revocazione.
Alla Corte è attribuita inoltre la competenza ad interpretare le sentenze
europee.

IMPUGNAZIONE DELLE SENTENZE DEL TRIBUNALE DINNANZI


ALLA CORTE

Le sentenze del Tribunale possono essere oggetto di ricorso o di


impugnazione dinnanzi alla Corte. Tale impugnazione non comporta però un
–RIESAME DEL CASO, questione di fatto – da parte della Corte di
giustizia, ma essa si deve limitare ai soli motivi di diritto, cioè gli
argomenti di diritto presentati a sostegno della domanda.
La Corte quindi si deve limitare a valutare se ci siano stati eventuali vizi
giuridici nella sentenza del Tribunale, se ci sia stata incompetenza da
parte dello stesso.
Inoltre il ricorrente, nell’ atto di impugnazione, non può presentare
dinanzi alla Corte motivi nuovi, ma solo quelli già criticati nell’atto.
Se l’impugnazione è accolta, La Corte annulla la decisione del Tribunale e
rinvia la causa a quest’ ultimo, il quale è chiamato a decidere
nuovamente,tenendo presente però della decisione della Corte sui punti di
diritto.
LA PROCEDURA DI INFRAZIONE CONTRO GLI STATI MEMBRI 92

Competenza esclusiva della Corte di giustizia è:

IL CONTROLLO SUL RISPETTO DEL DIRITTO DELL’UNIONE DA


PARTE DEGLI STATI MEMBRI.

La procedura con la quale la Corte esercita tale controllo è la Procedura


di infrazione.

- La procedura di infrazione è diretta ad accertare se ci sia stata una


violazione degli obblighi dell’Unione da parte di uno Stato membro.

Questa procedura può essere promossa sia dalla Commissione che da uno
Stato membro.

Nel primo caso, ai sensi dell’Art.258 TFUE, la Commissione, quando reputi


che uno Stato abbia mancato agli obblighi dei Trattati, può emettere un
parere a riguardo, dopo aver messo lo Stato stesso nelle condizioni di
presentare delle osservazioni. Nel caso in cui lo Stato non si conformi a
tale parere, la Commissione può adire la Corte di Giustizia dell’Unione
europea.

Bisogna dire che la Commissione ha tale potere di iniziativa, in virtù del


fatto che una delle sue funzioni è proprio quella di vigilare sul rispetto del
diritto dell’Unione.

Questo ruolo, infatti sarebbe di difficile esercizio qualora essa non fosse
informata da denunce e esposti, provenienti da soggetti vari.
Essa non è costretta ad avviare un procedimento contro uno Stato (NON 93
DOVERE GIURIDICO) ma gode di un ampio potere discrezionale nel farlo.

La discrezionalità della Commissione, tuttavia, è attenuata in alcune


materie, in specie relativamente alle violazioni delle regole sulla
concorrenza, nelle quali la Commissione è tenuta a procedere ad un esame
diligente ed imparziale degli elementi portati alla sua conoscenza da parte
degli autori delle denuncie.

In altre materie invece, i poteri solitamente spettanti alla Commissione


possono essere attribuiti a istituzioni o organi diversi dalla Commissione.

Di regola cmq la Commissione è competente all’apertura del procedimento


di infrazione ogni qual volta ci sia una violazione di una disposizione dei
Trattati, come di ogni altra norma rientrante nel diritto dell’Unione,
comprese le disposizioni di atti di diritto derivato o gli accordi compiuti
dall’Unione.

La condotta dello Stato può essere di carattere commissivo o omissivo e


può essere tenuta da qualsiasi organo dello Stato, compresi gli enti
pubblici, in particolare gli enti locali, la cui attività e giuridicamente
imputata allo Stato. L’infrazione può anche derivare dalla condotta di
privati, la quale, anche se non è però imputabile allo Stato, anche se
quest’ultimo può incorrere nella responsabilità per non aver adottato le
misure necessarie ad evitare che le condotta dei privati violi i diritti
derivanti dai Trattati.

FASI DELLA PROCEDURA

La procedura di infrazione promossa dalla Commissione si articola in due


fasi:

Una FASE PRECONTENZIOSA


in cui non viene coinvolta la Corte di giustizia, e si attua un dialogo tra la 94
Commissione e lo Stato membro coinvolto. Questa fase ha lo scopo di
dare la possibilità allo Stato di conformarsi agli obblighi che gli derivano
dal diritto dell’Unione, ma anche di sviluppare un utile difesa contro la
denuncia, prima che venga coinvolta la Corte.

 Tale fase inizia con l’ invio di una LETTERA, detta di messa in mora
o di diffida, da parte della Commissione, allo Stato interessato. In
tale lettera essa indica gli elementi di fatto e gli elementi di diritto
in base ai quali reputa che sussista l’infrazione, nonché le specifiche
disposizioni violate dallo Stato.
Ricevuta la lettera, lo Stato viene posto nella condizione di
presentare delle osservazioni circa l’eventuale violazione, come pure
le sue presumibili giustificazioni.
Se le giustificazioni dello Stato risultano insufficienti alla
Commissione, ai sensi dell’Art.258,1° Co TFUE, essa emette un c.d.
PARERE MOTIVATO, ossia un atto che precisa in maniera rigida e
formale gli addebiti contestati. Fondamentalmente ciò che
differenzia la lettera di messa in mora, dal parere motivato è che
mentre la prima è considerata come un succinto riassunto degli
addebiti, il secondo deve contenere invece un esposizione precisa,
rigida, formale e particolareggiata dei motivi che hanno spinto la
Commissione a convincersi che lo Stato abbia compiuto l’infrazione.
Il trattato non stabilisce quale sia il termine entro il quale lo Stato debba
conformarsi al parere, e neanche quello per presentare le proprie
osservazioni, ma la Corte ha affermato che debba trattarsi di un tempo
ragionevole in relazione alle particolarità del caso in questione.
Qualora lo Stato non si conformi al parere motivato entro il termine
fissato, allora si passa alla fase contenziosa e la Commissione può adire la
Corte.

FASE CONTENZIOSA

interviene la Corte e si avvia un processo dinanzi alla stessa e il processo


deve necessariamente concludersi con il giudizio sull’inadempimento dello
Stato. La valutazione circa l’inadempimento deve essere fatta in relazione
alla situazione dello Stato al momento della scadenza del termine fissato 95
nel parere motivato.
La Corte in attesa della sentenza, può emanare provvedimenti provvisori,
con i quali può prescrivere allo Stato convenuto la sospensione
dell’applicazione di una data legge o di una certa prassi amministrativa.
Esistono poi specifiche ipotesi nelle quali non è contemplato lo
svolgimento di una fase pre-contenziosa e la Commissione può adire
direttamente la Corte di Giustizia;
un’ esempio classico di questo tipo di procedura è quello riguardante gli
aiuti di Stato incompatibili con il mercato interno o attuati in modo
abusivo.

I RICORSI PROMOSSI DAGLI STATI MEMBRI

La procedura di infrazione, può essere promossa anche da uno Stato


membro; tuttavia è un ipotesi estremamente rara.
Ai sensi dell’Art.259,1°Co TFUE qualora uno stato membro ritenga che un
altro abbia violato le norme di un Trattato, esso può rivolgersi alla sola
Corte e non ad altri procedimenti disponibili di regolamento delle
controversie. Allo Stato non è richiesto uno specifico interesse ad agire,
se non l’interesse oggettivo al rispetto, sia dei Trattati che dell’intero
diritto dell’Unione.
Anche in questo caso è prevista una fase precontenziosa (condizione di
ricevibilità del ricorso alla Corte) con un coinvolgimento della
Commissione; essa è chiamata a emanare un parere motivato dopo che gli
Stati, sia quello ricorrente che quello accusato, siano stati messi nella
condizione di presentare le proprie osservazioni in contraddittorio.
Inoltre qualora la Commissione non emetta il parere entro 3 mesi o
affermi che secondo lei la violazione non ci sia stata, ciò non impedisce
allo Stato ricorrente di presentare direttamente il ricorso alla Corte.

LA SENTENZA DELLA CORTE E LA SUA ESECUZIONE

Se la Corte, a seguito del processo, giudichi lo Stato responsabile degli


addebiti contestatigli, essa emana una sentenza dichiarativa
dell’inadempimento, ossia di accertamento della violazione e non di
condanna all’adozione di specifici atti. Tale sentenza obbliga cmq lo Stato 96
in questione ad adottare tutti i provvedimenti necessari per la sua
esecuzione. Tali provvedimenti possono essere di varia natura a seconda
dell’inadempimento; per esempio:
abrogare o modificare una legge o un atto amministrativo
contrastanti con gli obblighi dell’Unione, adottare una normativa
di attuazione di tali obblighi etc.
Gli obblighi gravano su tutti gli organi dello Stato, compresi i giudici, che
devono astenersi dall’applicazione di una norma in contrasto col diritto
dell’Unione.
Qualora lo Stato non dia esecuzione alla sentenza resa nei suoi confronti,
la Commissione può ai sensi dell’Art.260 par.2 TFUE:

 riaprire una procedura di infrazione per dichiarare che lo Stato ha


violato l’obbligo di esecuzione della prima sentenza
 chiedere alla Corte di condannare lo Stato al pagamento di una
sanzione monetaria da versare all’Unione
Tutto ciò senza il bisogno che la Commissione emani un parere motivato.
La nuova sentenza non è più soltanto di accertamento ma di condanna al
pagamento di una somma di denaro quale sanzione per l’inesecuzione della
precedente sentenza.
La determinazione della sanzione pecuniaria si fonda su 3 criteri:

a) la gravità dell’infrazione
b) la sua durata
c) la necessità di garantire l’effetto dissuasivo della sanzione anche
con riguardo alla capacità finanziaria dello Stato inadempiente
La sanzione può essere una somma forfettaria consistente in una somma
determinata quale sanzione della continuazione dell’inadempimento tra la
prima sentenza di accertamento della violazione e la seconda; ma può
essere anche una penalità consistente in una somma da pagare per ogni
giorno di ritardo a partire dalla seconda sentenza, ossia una penalità di
mora che non può essere determinata a priori ma dipende dal persistere
del ritardo dello Stato.
In alcuni casi è possibile anche un’applicazione cumulativa delle due
sanzioni (somma forfettaria e penalità) dato che avrebbero una distinta
funzione: la penalità spinge lo Stato a cessare l’inadempimento mentre la 97
somma forfettaria a sanzionare la mancata esecuzione.
In un caso particolare, quando una Stato membro non abbia adempiuto
all’obbligo di comunicare le misure di attuazione di una direttiva adottata
con la procedura legislativa, la Commissione può avviare il procedimento
senza il bisogno di una sentenza dichiarativa della Corte e un’eventuale
condanna deve restare entro i limiti dell’importo indicato dalla
Commissione.

LA RESPONSABILITA’ dello STATO PER I DANNI DERIVANTI DA


VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI PREVISTI DAL DIRITTO DELL’UE

La violazione di obblighi dell’Unione da parte di uno Stato può dare luogo


anche ad altra conseguenza:

l’ obbligo dello Stato di risarcire i danni che il singolo ha subito a


causa della violazione.

In tal caso Corte di giustizia e Tribunale di primo grado non hanno


nessuna competenza; i singoli devono presentarsi dinanzi ai GIUDIZI
NAZIONALI.

L’obbligo di risarcimento danni non è espressamente previsto in nessuna


disposizione dei Trattati ma è una creazione giurisprudenziale della Corte
di Giustizia.

Un caso celebre è la sentenza Francovich & Bonifaci per la mancata


attuazione da parte dell’Italia di una direttiva entro il termine prescritto.
La Corte muove dall’esigenza di assicurare la piena efficacia del diritto 98
dell’Unione in virtù di due argomenti:

il principio della responsabilità patrimoniale dello Stato, quale


responsabilità di assicurare la piena efficacia del diritto dell’Unione e dei
diritti da esso scaturenti.

il principio di leale collaborazione, compresi i giudici nazionali, per


garantire che siano state eliminate le conseguenze della violazione del
diritto dell’Unione avendo riparato il danno.

Affinché sorga l’obbligo risarcitorio non c’è bisogno che la violazione sia
stata precedentemente accertata dalla Corte di Giustizia, infatti ben può
il giudice interno constatare la violazione e condannare il proprio Governo
al risarcimento dei danni

La Corte ha dichiarato che non tutte le violazioni danno luogo però a un


obbligo risarcitorio ma occorrono 3 condizioni fondamentali:

la norma giuridica violata sia una norma che conferisce diritti ai singoli.

deve trattarsi di una violazione grave e manifesta.

ci deve essere un nesso di casualità diretto tra la violazione dell’obbligo


incombente allo Stato e il danno subito dei soggetti lesi.

I singoli devono rivolgersi ai giudici nazionali per chiedere, alle condizioni


fissate dalla Corte, il risarcimento dei danni derivanti da violazioni del
diritto dell’Unione.

La disciplina europea va quindi completata con quella nazionale, sia di


carattere processuale che sostanziale, nei limiti in cui la materia non sia
già regolata dal diritto dell’Unione europea. Per quanto riguarda le
modalità di risarcimento, queste sono stabilite dal diritto interno e non
possono essere meno favorevoli di quelle relative ai reclami analoghi di
diritto interno e non possono rendere impossibili o eccessivamente 99
difficile il risarcimento.

La Corte ha poi affermato che il danno risarcibile comprende non solo


quello emergente, ma anche il lucro cessante.

LA COMPETENZA SULLA LEGGITTIMITA’ DEGLI ATTI


COMUNITARI: GLI ATTI IMPUGNABILI

Sia la Corte di giustizia che il Tribunale di primo grado posseggono la


competenza di

“LEGGITTIMARE ATTI COMUNITARI”

e quindi la competenza di annullamento di atti viziati qualora i soggetti


legittimati a farlo, sottopongano ai giudici un ricorso.L’Art.263 TFUE
stabilisce anzitutto quali siano gli atti impugnabili (atti suscettibili di
annullamento, perché ritenuti illegittimi dal ricorrente):

atti adottati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio, atti


del Consiglio, della Commissione o della BCE e tutti gli atti degli organi
dell’Unione, destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi

Innanzitutto un atto, per essere impugnabile,deve:

essere giuridicamente esistente (anche se è viziato), per cui l’atto


produce effetti giuridici anche se viziato, finché non sia stato
annullato o revocato, a meno che l’irregolarità non sia talmente grave
da non essergli riconosciuto alcun effetto giuridico, quindi l’atto è
inesistente.
100

deve essere imputabile all’Unione europea e quindi alle sue istituzioni


(Parlamento, Consiglio, Commissione); la Corte di Giustizia, nella
sentenza Sogema, ha poi stabilito che ogni atto adottato da un
qualsiasi organismo dell’Unione, destinato a produrre effetti giuridici
nei confronti di terzi, e deve poter essere suscettibile di controllo
giurisprudenziale

deve essere produttivo di effetti giuridici obbligatori (obblighi e


diritti x terzi)

vanno pertanto escluse le RACCOMANDAZIONI, i PARERI, le


DICHIARAZIONI e gli atti analoghi aventi natura politica; ciò estende il
controllo giudiziario di legittimità agli atti di numerose agenzie istituite
con atti di diritto derivato.

La Corte segue, in questo senso, un impostazione sostanzialistica, per la


quale è quindi irrilevante la denominazione o la forma dell’atto, mentre è
decisivo che esso produca obblighi o diritti.

Sono quindi considerati atti impugnabili, non solo direttive, decisioni e


regolamenti, che sono ATTI TIPICI, ma anche numerosi atti ATIPICI
come le comunicazioni, i codici di condotta, gli atti che potrebbero
pregiudicare posizioni giuridiche o linee direttrice della Commissione,
nonché gli atti in materia di PESC. Il Trattato di Lisbona, menziona tra gli
atti oggetto della competenza di legittimità della Corte, anche quelli del 101
Consiglio europeo. In materia di PESC, eccezionalmente la Corte può
annullare atti posti in violazione dell’art.40 TUE il quale concerne i confini
tra PESC e le altre politiche dell’Unione. La competenza di annullamento si
estende anche agli accordi internazionali dell’Unione anche se
limitatamente alla decisione dell’istituzione europea di concludere
l’accordo, dato che la Corte non ha alcuna competenza nei confronti della
controparte dell’Unione. Si cercherà quindi una soluzione amichevole
eventualmente attraverso la rinegoziazione dell’accordo.Non è invece
impugnabile l’atto che sebbene adottato nell’ambito del Consiglio, deve
qualificarsi come atto collettivo degli Stati membri; ciò perché in questo
caso i rappresentanti degli Stati membri non agiscono come membri del
Consiglio, ma in qualità di rappresentanti dei loro Governi, per cui tali atti
non sono soggetti al sindacato di legittimità esercitato dalla Corte.La
condizione di impugnabilità consistente nell’idoneità dell’atto a produrre
effetti giuridici obbligatori, implica che siano impugnabili soltanto atti
definitivi e non anche atti meramente preparatori di atri atti. Ciò cmq non
esclude che se un atto che si inserisce in un più complesso procedimento
ed è produttivo di effetti giuridici, esso può essere autonomamente
impugnato. Non impugnabili sono anche gli atti meramente confermativi di
atti precedenti.

LA LEGGITTIMAZIONE ALL’ IMPUGNAZIONE

Per quanto riguarda la legittimazione ad impugnare un atto dell’Unione,


l’art 263 TFUE distingue:

1. ricorrenti privilegiati
che impugnano un atto anche se non li riguarda direttamente (senza
interesse ad agire)
2. ricorrenti non privilegiati
impugnano un atto solo se lede i loro interessi individuali
I ricorrenti privilegiati sono 102
STATI MEMBRI - COMMISSIONE - PARLAMENTO – CONSIGLIO

per esempio, uno Stato membro può impugnare una decisione


destinata ad un altro stato; così come la Commissione può impugnare
un atto del Consiglio per mancata consultazione al Parlamento
i ricorrenti non privilegiati sono:

CORTE DEI CONTI - BANCA CENTRALE EUROPEA – IL COMITATO


DELLE REGIONI- PERSONE FISICHE O GIURIDICHE.

(che comprendono anche regioni, enti locali o comuni); la legittimazione


delle regioni è riconosciuta quando le loro competenze non possono
ritenersi assorbite da quelle dello Stato cui appartengono, ma presentano
una propria autonomia. La loro legittimazione è quindi subordinata
all’interesse a tutelare le loro prerogative ritenute pregiudicate dall’atto
impugnato.
per esempio atti che possono ledere gli interessi finanziari
dell’Unione, adottati senza il parere della Corte dei Conti.

Dalla sentenza International Fruit Company si desume che i ricorrenti non


privilegiati possano impugnare anche atti di portata generale come i
regolamenti, a condizione che tali atti siano suscettibili di riguardare
direttamente e individualmente una o più specifiche persone, ciò al fine di
garantire la tutela giudiziaria dei destinatari.
Deve sussistere quindi un rapporto di causalità diretto tra l’atto e il
pregiudizio del singolo, senza che tale rapporto sia interrotto da altri
fattori, come l’azione di uno Stato membro. Per quanto riguarda gli atti
non direttamente applicabili che richiedano atti di esecuzione, come per
esempio le direttive, va verificato se l’effetto pregiudizievole derivi
dall’atto dell’Unione o da quello statale di attuazione. Dalla sentenza
Plaumann si ricava invece che, per quanto riguarda le decisioni, anche chi
non è direttamente destinatario dell’atto, può impugnarlo purché da tale
atto derivi per il soggetto un pregiudizio, in ragione di una sua specifica
qualità soggettiva o per una sua situazione oggettiva.
L’Art.263,4 Co TFUE stabilisce che qualsiasi persona fisica o giuridica può 103
impugnare gli atti regolamentari che la riguardano direttamente e che non
comportano un atto di esecuzione; per cui non è necessario il pregiudizio
individuale del ricorrente, ma è sufficiente il rapporto diretto tra l’atto
dell’Unione e tale pregiudizio. Nel caso in cui invece sia richiesto un atto
di esecuzione, l’impugnazione dovrà essere esperita su tale atto
rispettivamente davanti alla Corte di Giustizia o al giudice nazionale.
Decisioni della Commissione riguardanti gli aiuti di stato, e rivolte agli
Stati membri, possono essere impugnate sia dall’impresa beneficiaria
dell’aiuto, ma anche dall’ente locale che ha istituito o erogato l’aiuto
stesso.

TERMINE DI IMPUGNAZIONE

Ai sensi dell’Art.263,6 Co TFUE, l’impugnazione degli atti dell’Unione è


sottoposta ad un termine di 2 MESI che decorre dalla data di
pubblicazione o di notificazione, o in mancanza, dal giorno in cui il
ricorrente ha avuto effettiva conoscenza dell’atto da parte del
ricorrente. Termini aggiuntivi possono essere previsti dal Regolamento di
procedura in ragione della distanza del ricorrente. La decadenza del
diritto all’impugnazione non può essere eccepita ove il ricorrente provi
l’esistenza di un caso fortuito o di una forza maggiore. In mancanza di tali
eventi, la scadenza del termine comporta l’irricevibiltà del ricorso e
assicura la definitività dell’atto, con la conseguenza che sarà impossibile
contestarne la legittimità davanti ai giudici nazionali.

I MOTIVI DI IMPUGNAZIONE

I motivi di impugnazione, si identificano con in VIZI dell’atto che ove


esistenti, conducono al suo annullamento.
Tali vizi sono stabiliti dall’Art.263,2 Co TFUE e sono:
 incompetenza
 violazione delle forme sostanziali
 violazione dei Trattati
 sviamento di potere
Tali vizi si riferiscono tutti alla legittimità dell’atto, cioè alla sua 104
conformità alle norme giuridiche che disciplinano la sua formazione. Il
controllo della Corte, salva l’ipotesi dell’Art,261 TFUE, non si estende al
merito, cioè al contenuto dell’atto e alla sua opportunità.
I vizi di incompetenza e di violazione delle forme sostanziali comportano
anch’essi una violazione dei Trattati, pertanto il vizio della violazione dei
Trattati finisce per avere un valore residuale rispetto agli altri due e
consiste principalmente nel contrasto dell’atto con le norme e i principi
materiali dei Trattati.
Solo i vizi di incompetenza e di violazione delle forme sostanziali sono di
ordine pubblico e pertanto sono rilevabili d’ufficio dal giudice, anche se
non invocati dal ricorrente, mentre gli altri due, cioè la violazione dei
Trattati e lo sviamento di potere, possono essere fatti valere solo su
richiesta del ricorrente.

L’incompetenza
 consiste nell’assenza del potere di emanare l’atto in questione.
L’incompetenza può essere assoluta, quando l’Unione in quanto tale
sia priva di tale potere, o relativa, quando è la singola istituzione ad
esserne priva.
Violazione delle forme sostanziali
 consiste nella violazione delle regole giuridiche riguardanti il
procedimento di adozione dell’atto (es: mancata o insufficiente
motivazione, mancata consultazione di un’istituzione se obbligatoria,
erronea indicazione della base giuridica); non è sufficiente una
qualsiasi violazione, ma deve trattarsi di una violazione di una certa
gravità che finisca per colpire principi sostanziali come quello della
certezza del diritto.
Violazione dei Trattati
 consiste nella violazione di norme e principi dei Trattati istitutivi, di
trattati di adesione, o di principi generali del diritto dell’Unione,
nonché accordi internazionali e norme del diritto internazione
generale. Per quanto riguarda la violazione di accordi dell’Unione, la
Corte considera soltanto quegli accordi provvisti di effetti diretti,
che abbiano i caratteri di completezza, precisione e incondizionata 105
obbligatorietà.
Sviamento di potere
 avviene quando, l’istituzione ha il potere di emanare un atto, ma
quest’ultimo è adottato per un fine diverso da quello in vista del
quale il potere è stato attribuito il potere. (es: sviamento di
procedura per cui una certa procedura viene usata per uno scopo
diverso da quello per il quale è stata istituita).
In merito a tale vizio la Corte di Giustizia richiede sempre una prova
pressoché inconfutabile dell’avvenuto sviamento; ciò al fine di evitare che
la sua competenza sfoci in un controllo di merito sull’operato delle
istituzioni, controllo che è inammissibile.
Alla Corte può essere però anche attribuita una competenza di merito
sugli atti dell’Unione. Infatti l’Art.261 TFUE attribuisce alla Corte una
competenza di merito per quanto riguarda le sanzioni previste nei
regolamenti, competenza che si estende appunto all’esame del contenuto
dell’atto e al controllo circa l’opportunità e l’ammontare delle sanzioni
pecuniarie. La Corte può così annullare le sanzioni e modificarne l’importo.

LA SENTENZA DELLA CORTE

Il ricorso per annullamento non ha effetti sospensivi sull’atto impugnato.


Tuttavia, la Corte, qualora reputi che le circostanze lo richiedono (e cioè
quando crede che i motivi di ricorso potrebbero essere fondati), può
sospendere la sua esecuzione, soprattutto per evitare che la durata del
giudizio possa ulteriormente pregiudicare i diritti del ricorrente. La corte
può ordinare anche i provvedimenti provvisori necessari (tutela
cautelare). La sospensione dell’atto impugnato avviene con ordinanza
tenendo conto delle presumibile fondatezze del ricorso e dei motivi di
urgenza, cioè di un rischio di danno grave ed irreparabile.
Ai sensi dell’Art.264 TFUE, una volta accertata l’esistenza del vizio
nell’atto impugnato, la Corte dichiara NULLO o NON AVVENUTO l’atto
impugnato.
L’Art.266 TFUE stabilisce poi che l’istituzione o l’organo che ha emanato
l’atto, deve prendere tutti i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza
comporta.
La decisione che accerta l’esistenza del vizio ha efficacia di giudicato e 106
nel caso di un atto di portata generale come un regolamento l’effetto di
giudicato si produce erga omnes. Per gli atti particolari come le decisioni,
l’effetto di annullamento è limitato allo specifico atto impugnato e al solo
ricorrente.
L’annullamento può essere anche parziale, nel senso che vengono annullati
solo i punti dell’atto considerati illegittimi dal ricorrente. Questo però si
può fare solo se questi punti possono essere effettivamente separati dal
resto dell’atto e solo se l’annullamento parziale non determini una
modifica sostanziale del contenuto dell’atto stesso (altrimenti la
competenza della Corte si risolverebbe in un intervento legislativo).
Per quanto riguarda gli effetti temporanei delle sentenze di
annullamento, questi retroagiscono fino al momento dell’adozione dell’atto
(efficacia ex tunc), anche se ciò contrasta con le esigenze di certezza del
diritto e di tutela dell’affidamento per cui sarà poi la Corte a stabilire
quali saranno gli effetti dell’atto annullato cha andranno fatti salvi. La
Corte nella sentenza di annullamento si limita soltanto a verificare la
sussistenza del vizio, saranno poi le istituzioni che dovranno individuare le
misure necessarie da prendere per conformarsi alla sentenza.
C’è da ricordare infine che la pur corretta esecuzione della sentenza non
pregiudica il diritto del ricorrente al risarcimento del danno ai sensi
del’Art.340 TFUE.

L’ ECCEZIONE DI INVALIDITA’ DEGLI ATTI DELL’UNIONE


EUROPEA

La competenza della Corte della giustizia a “legittimare gli atti


dell’Unione” e a controllare la condotta delle istituzioni, si manifesta, ai
sensi dell’Art. 277 TFUE, anche nella ECCEZIONE DI INVALIDITA’.
Questa eccezione risulta essere una ulteriore tutela per i singoli, in
quanto stabilisce che quest’ultimi possano contestare un atto illegittimo
di portata generale (anche quando esso sia un regolamento), anche quando
sia già scaduto il termine per la sua impugnazione. Risulta utile per i
singoli che in principio non sono legittimati ad impugnare atti legislativi di
portata generale come i regolamenti. Grazie a questa disposizione i singoli
possono impugnare una decisione che li riguarda, emanata in esecuzione di
un regolamento dichiarato illegittimo. L’inapplicabilità del regolamento 107
illegittimo fa venire meno il fondamento giuridico della decisione, con suo
conseguente annullamento.

La Corte ha stabilito che oggetto della norma in esame sono tutti gli
atti di portata generale, per cui l’eccezione non può essere sollevata
nei confronti di atti individuali che non siano stati impugnati nel
termine di decadenza di 2 mesi.

L’eccezione se accolta, non implica l’annullamento dell’atto in questione,


ma la sua inapplicabilità nel processo i corso.

IL RICORSO IN CARENZA

Il ricorso in carenza è previsto dall’Art.265 TFUE ed è un ricorso


diretto a sindacare la legittimità dei comportamenti delle istituzioni
europee al pari del procedimento ex art.263 TFUE e quindi è diretto a
controllare se un’istituzione o organo dell’Unione, abbia omesso di
adottare un atto che aveva l’obbligo giuridico di emanare.
Tale ricorso è proponibile quindi, solo in caso di INERZIA, di astensione
della istituzione cioè mancata emanazione dell’atto, non anche quando
esso emani un atto diverso da quello richiesto o rifiuti l’atto che gli era
stato richiesto.
La mancata emanazione dell’atto, deve avvenire in “violazione dei
Trattati”; nel senso che affinché il ricorso sia proponibile l’istituzione
deve aver violato l’OBBLIGO giuridico di emanare l’atto in questione.
Quindi esso non è ammissibile qualora l’istituzione goda di
DISCREZIONALITA’ nell’emanare l’atto.
Diverso è il caso in cui l’istituzione gode di discrezionalità circa il
contenuto dell’atto, pur essendo obbligata ad emanarlo. Anche in questo
caso se c’è inerzia, il ricorso è proponibile. Ciò induce a ritenere
impugnabili omissioni rispetto a qualsiasi tipo di atto, anche se non
vincolante e non definitivo.
Per quanto riguarda i soggetti legittimati a proporre il ricorso il carenza,
anche in questo caso si ripropone la distinzione tra Ricorrenti privilegiati
e Ricorrenti non privilegiati. Ai sensi dell’Art.265,1 Co TFUE:
Ricorrenti privilegiati sono gli Stati membri e le istituzioni dell’Unione 108
(Parlamento, Commissione Consiglio, Consiglio europeo, Corte dei Conti,
BCE) che possono presentare ricorso senza alcuna condizione soggettiva.
Ricorrenti non privilegiati le persone fisiche o giuridiche. Nel caso dei
singoli il ricorso in carenza deve riguardare la mancata emanazione di un
atto che produce effetti giuridicamente vincolanti e che è destinato a
loro; quindi sono escluse raccomandazioni e pareri.
La ricevibilità del ricorso è subordinata ad una fase PRECOTENZIOSA,
in cui si intima all’istituzione, tramite una richiesta, di adottare l’atto,
fissando anche il termine entro il quale essa deve prendere posizione,
ossia 2 mesi. La fase precontenziosa serve anche a definire l’oggetto
della controversia davanti alla Corte. Scaduto il termine dei 2 mesi il
ricorso è irricevibile dalla Corte. Qualora invece l’istituzione o l’organo
emani un atto diverso da quello richiesto non sarà più esperibile il ricorso
in carenza ma bensì il ricorso per annullamento ex art.263 TFUE.

L’AZIONE DI RESPONSABILITA’ CONTRO L’UNIONE EUROPEA

Un ulteriore competenza della Corte giustizia sull’operato dell’Unione è la


competenza in materia di responsabilità extracontrattuale, con cui
conosce le
controversie relative al risarcimento dei danni provocati dalle sue
istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni.
La disciplina sostanziale va ricavata dai principi generali comini agli Stati
membri; si tratta in sostanza della responsabilità “aquiliana” ex Art.2043
C.C.
L’autonomia del ricorso in esame rispetto al ricorso di annullamento,
rende inapplicabili all’azione di risarcimento le più stringenti condizioni
richieste nel ricorso per annullamento e consente di esperire l’azione
anche in caso di un atto non impugnato.
Nei rapporti tra la competenza della Corte e quella dei giudici nazionali,
quest’ultimi sono competenti quando l’illecito sia imputabile agli Stati
membri e non all’Unione. Invece quando gli Stati membri si limitano a dare
esecuzione ad un atto dell’Unione, senza margine di discrezionalità, il
danno sarà imputabile all’Unione stessa e di conseguenza, competente a
decidere sarà la Corte di Giustizia.
Se invece, l’atto comunitario è lecito, mentre quello di esecuzione dello 109
Stato è illecito, allora i danni saranno attribuiti allo Stato in questione e
la competenza è dei giudici nazionali. Solo qualora i ricorsi interni non
abbiano reso giustizia all’interessato allora questi può ricorrere alla Corte
(carattere residuale).
Non tutti gli atti o le omissioni però danno luogo al risarcimento, infatti
devono sussistere alcune condizioni:
o la norma violata deve essere preordinata a conferire diritti al
singolo
o deve trattarsi di una violazione grave e manifesta
o deve esserci un nesso di causalità tra l’obbligo incombente
sull’autore e il danno subito dai soggetti lesi
 Per quanto riguarda la responsabilità dell’Unione per un illecito
commesso dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni, sono
necessarie 2 condizioni:
o colui che ha prodotto il danno deve essere un dipendente
dell’Unione
o e deve aver agito in esecuzione di un compito affidatogli dalla
stessa Unione
 La responsabilità extracontrattuale dell’Unione potrebbe
configurarsi anche a seguito di una condotta lecita; in questo caso
però il danno sarebbe risarcibile solo in presenza di rigorose
condizioni:
o l’esistenza di un danno effettivo e certo
o il nesso di causalità tra la condotta dell’Unione e il danno
o e il fatto che il danno sia anormale e speciale
In realtà la Corte di Giustizia, nella sentenza FIAMM ha espressamente
negato tale possibilità.
Le azioni contro l’Unione in materia di responsabilità extracontrattuale si
prescrivono in 5 anni dal momento in cui avviene il danno; il termine è
calcolato a partire dalla nascita del danno e non dell’illecito.
Non rientrano nella competenza della Corte, né la responsabilità
contrattuale dell’Unione, che ricade nella competenza dei giudici nazionali,
a meno che nel contratto non sia stata inserita una clausola
compromissoria a favore della Corte; né le controversie tra l’Unione e i
suoi dipendenti che invece ricadono nella competenza del Tribunale della 110
funzione pubblica.

LA COMPETENZA IN VIA PREGIUDIZIALE E LE SUE FUNZIONI

Competenza fondamentale riservata alla Corte di giustizia è quella


PREGIUDIZIALE o di RINVIO, prevista dall’Art.276 TFUE. Essa è un
prezioso strumento di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte di
Giustizia. Tale competenza viene esercitata riguardo una controversia
relativa all’interpretazione di una disposizione di diritto dell’Unione, la cui
soluzione sia necessaria affinché il giudice nazionale possa decidere la
causa.
L’Art. 267 TFUE prevede che il giudice nazionale sospenda il processo e
rinvii all’esame della Corte di Giustizia la questione relativa al diritto
dell’Unione.
Una volta emanata la sentenza della Corte, il processo interno viene
riassunto e il giudice nazionale dovrà conformarsi a tale sentenze per
decidere il caso.
Attraverso tale competenza, la Corte di giustizia ha contribuito allo
sviluppo del sistema del diritto dell’Unione.
La competenza il via pregiudiziale serve a scongiurare il rischio che il
carattere uniforme del diritto dell’Unione sia messo a repentagli da
possibili interpretazioni difformi dei giudici nazionali. Se una questione
pregiudiziale si pone dinanzi ad un giudice le cui sentenze sono appellabili,
questo ha la facoltà (può) di rinviarla alla Corte di Giustizia. Se invece si
pone davanti ad un giudice di ultimo grado questo è tenuto (deve) a
rinviare la questione alla Corte.
Il potere di attivare la Corte non spetta invece alle parti nel processo
nazionale, le quali possono solo sollecitare il giudice nazione il rinvio alla
Corte e possono presentare a quest’ultima delle osservazioni, ma sempre
nei limiti dell’oggetto della questione presentata al giudice nazionale.
In sostanza l’interpretazione del diritto dell’Unione è riservata alla Corte,
mentre al giudice nazionale spetta l’applicazione di tale diritto.
Cmq il giudice nazionale, se non è di ultimo grado, può interpretare il
diritto dell’Unione senza rivolgersi alla Corte e in ogni caso spetta sempre
al giudice nazionale, rilevare l’esistenza di un problema interpretativo. I
giudici nazionali devono inviare alla Corte tutti gli elementi occorrenti per 111
illustrare i fatti in causa, definendo l’ambito di fatto e di diritto su cui si
fonda la controversia e la necessità di una pronuncia pregiudiziale. Lo
strumento pregiudiziale, diviene poi un ulteriore strumento di controllo
dei singoli sull’operato dei loro Stati nell’applicazione del diritto
dell’Unione. Infatti i privati, essendo privi di una legittimazione a
promuovere la procedura di infrazione, possono ottenere una pronuncia
della Corte sollevando in un processo interno la questione.
La Corte cmq si astiene dal pronunciarsi sulla condotta di uno Stato
membro in merito all’esattezza della sua interpretazione, dato che una
siffatta valutazione non rientra nella sua competenza, la quale si limita
unicamente all’interpretazione del diritto dell’Unione. Solo la Corte ha la
competenza a pronunciare l’invalidità di un atto dell’Unione mentre il
giudice nazionale deve limitarsi a confermare la validità dell’atto,
respingendo tutti gli addebiti di legittimità.
In realtà anche il giudice nazionale non di ultima istanza può pronunciarsi
sull’invalidità dell’atto anche se limitatamente al processo in corso.
I giudici nazionali possono anche respingere i motivi di invalidità sollevati
dalle parti, concludendo per la piena validità dell’atto. Al contrario, nel
caso in cui ci siano gravi sospetti sull’invalidità dell’atto, i giudici nazionali
possono emanare provvedimenti provvisori a tutela dei diritti delle parti.
Tale strumento consente al singolo di sollevare questioni di su atti di
portata generale che non lo riguardano direttamente. La Corte esclude
che possono esserle sottoposte questioni che avrebbero potuto essere
impugnate ex Art.263,4° Co e che non sono state impugnate entro il
termine di decadenza di 2 mesi.

L’OGGETTO DELLA COMPETENZA PREGIUDIZIALE

Bisogna distinguere tra la competenza interpretativa e quella di


legittimità.

La prima riguarda qualsiasi disposizione del diritto dell’Unione


senza alcuna eccezione, cioè il suo intero ordinamento giuridico.
Oggetto della Competenza interpretativa non può essere una
normativa nazionale che non sia diretta ad applicare una 112
disposizione del diritto dell’Unione.
Più limitato è l’oggetto della competenza di legittimità; esso
comprende i solo atti dell’Unione suscettibili di essere impugnati
ai sensi dell’Art. 263 TFUE, quindi solo quelli produttivi di effetti
giuridici, non anche raccomandazioni e pareri. A differenza della
competenza interpretativa, è da escludere che si possa rinviare
alla Corte una questione relativa alla validità di una sua sentenza.
La ricevibilità delle questioni pregiudiziali sono subordinate alla natura di
organo giurisdizionale posseduta dall’autorità che opera il rinvio, stabilita
a livello del diritto dell’Unione europea e non alla stregua dei differenti
sistemi giuridici degli Stati membri.
Per quanto riguarda l’Italia, c’erano stati dei problemi in merito alla
competenza di rinvio della Corte Costituzionale poiché essa stessa si era
dichiarata incompetente. Successivamente la Corte Costituzionale ha
mutato atteggiamento per quanto riguarda l’ipotesi in cui essa fosse adita
in via principale, cioè quando essa operi come giudice della controversia,
stabilendo in questo caso la sua competenza a sollevare la questione di
rinvio alla Corte di Giustizia.
Tale impostazione è stata poi confermata anche dalla Corte di Giustizia,
la quale ha stabilito che anche se la Corte Costituzionale è un organo gi
garanzia costituzionale, essa ha cmq natura di giudice e in particolare di
ultima istanza.
Nel caso in cui una questione concernente il diritto dell’Unione rientri
anche nella competenza della Corte Costituzionale, il giudice comune deve
prima adire la Corte di Giustizia per la pronuncia attinente al diritto
dell’Unione e solo dopo può sollevare davanti alla Corte Costituzionale il
problema dell’incostituzionalità della legge. Sussiste quindi una priorità
logico-giuridica della “pregiudizialità comunitaria” rispetto alla
“pregiudizialità costituzionale”.
Quando la Corte Costituzionale è legittimata al rinvio alla Corte di
Giustizia, questa ha il dovere di praticare il rinvio essendo essa opera da
organo di ultima istanza, contro le cui decisioni non può essere presentato
ricorso ai sensi del diritto interno. La ratio sta nel fatto che un errore
del giudice non di ultima istanza può essere riparato col ricorso; al
contrario un errore di un organo di ultima istanza non può essere riparato.
Ciò anche al fine di evitare che in uno Stato membri si vada a consolidare 113
un orientamento giurisprudenziale in contrasto col diritto dell’Unione.
Il rinvio pregiudiziale non è necessario quando il significato della norma
dell’Unione sia evidente.
La Corte ha poi negato la propria competenza nel caso quando il giudice
nazionale non le abbia dato gli elementi di fatto e di diritto necessari alla
soluzione.

GLI EFFETTI DELLE SENTENZE PREGIUDIZIALI DELLA CORTE

Le sentenze della Corte di Giustizia emanate a seguito del rinvio


pregiudiziale sono obbligatorie nei confronti del giudice a quo, il quale è
tenuto a decidere il caso in conformità alla pronuncia della Corte.
La sentenza ha quindi gli effetti del giudicato per tale giudice. I giudici
nazionali possono nuovamente rivolgersi alla Corte per sottoporle una
questione diversa o nuovi elementi di valutazione.
I giudici nazionali non sono obbligati a rivolgersi alla Corte se la questione
interpretativa sorta sia identica o analoga ad altra già decisa dalla Corte
stessa.
La Corte Costituzionale italiana ha riconosciuto alla sentenze pregiudiziali
della Corte un’efficacia egra omnes, dichiarando la loro prevalenza sul
diritto nazionale incompatibile.
Da ciò deriva che una sentenza della Corte che dichiari l’invalidità di un
atto dell’Unione, sebbene abbia come diretto destinatario solo il giudice
che si è rivolto alla Corte, diviene obbligatoria anche nei confronti di tutti
gli altri giudici che sono tenuti a considerare l’atto non valido.
La sentenza che dichiari l’invalidità dell’atto impone anche alle altre
istituzioni di uniformarsi. Le istituzioni che hanno emanato l’atto devono
quindi provvedere a revocarlo o a modificarlo.
Se la sentenza dichiari invece l’invalidità dell’atto, il giudice richiedente è
tenuto ad uniformarsi alla sentenza, ma la questione di legittimità potrà
essere sollevata da altri giudici per motivi differenti.
La sentenza della Corte retroagisce fino al momento dell’entrata in vigore
della disposizione oggetto di interpretazione, e quindi dovrebbe applicarsi
anche a rapporti sorti anteriormente alla sentenza.
Nella sentenza Denkavit, la Corte affermò che essa possa decidere di 114
limitare nel tempo gli effetti della sua sentenza. Tale impostazione però
non può pregiudicare colo che, prima della pronuncia abbiano avviato
azione giurisdizionale.

CAPITOLO 9:

I RAPPORTI TRA L’ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA E


QUELLO ITALIANO

IL FONDAMENTO COSTITUZIONALE DEL TRASFERIMENTO DI


POTERI SOVERANI ALL’UNIONE EUROPEA

Nei rapporti tra l’ordinamento europeo e quello italiano, è sorto subito un


vivace contrasto tra la Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia. Il
primo problema nasceva dal fatto che i Trattati comportavano un parziale
trasferimento dei poteri sovrani, in particolare di competenze legislative
e giudiziarie, dagli Stati membri alle istituzioni europee. A causa di tale
trasferimento dei poteri sovrani, molti Stati hanno dato attuazione alle
disposizioni dei Trattati con legge costituzionale, per rendere compatibile
con la propria costituzione il suddetto trasferimento dei poteri.
In Italia invece la ratifica dei Trattati istitutivi è avvenuta con legge
ordinaria, data l’ostilità, all’epoca, all’integrazione europea. Di
conseguenza si è posta ben presto, di fronte alla Corte Costituzionale, la
questione di legittimità costituzionale di tali leggi. La Corte
Costituzionale, sin dalla sentenza Costa c. ENEL, ha dichiarato che le leggi
di ratifica trovano un fondamento nell’Art.11 Cost., in cui l’Italia consente
alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri le
pace e la giustizia fra le Nazioni . Tale disposizione è stata considerata
idonea a consentire “limitazioni di sovranità”.

IL PRIMATO DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA APPLICABILE


SU QUELLO ITALIANO IN CASO DI INCOMPATIBILITA’
Inizialmente, essendo stati resi esecutivi i Trattati con legge ordinaria, le 115
disposizioni nel diritto europeo non avevano efficacia superiore a quella
propria della legge ordinaria e pertanto, un eventuale contrasto andava
risolto in base al principio della successione delle leggi nel tempo. Tale
tesi incontrò un’immediata reazione da parte della Corte di Giustizia nella
sentenza Costa c. ENEL, la quale affermò il primato del diritto
comunitario direttamente applicabile, culle norme interne contrastanti.
Secondo la Corte infatti, a seguito del trasferimento della sovranità, il
diritto dell’Unione si integra negli ordinamenti degli Stati membri in una
posizione sovraordinata.
Un primo passo verso la risoluzione del conflitto tra le due Corti, ci fu
quando la Corte Costituzionale ha ammesso che, nei confronti delle leggi
interne successive, incompatibili con il diritto dell’Unione era possibile
sollevare la questione di legittimità e quindi spettava a tale Corte
pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di siffatte leggi.
La Corte di Giustizia non ha però approvato la posizione della Corte
Costituzionale, infatti nella sentenza Simmenthal, la Corte di Giustizia ha
dichiarato che il giudice nazionale deve garantire la piena efficacia del
diritto dell’Unione, disapplicando se necessario il diritto interno
incompatibile anche posteriore, senza dover attendere la previa rimozione
mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale.
Tale soluzione discende dallo stesso principio di applicabilità diretta.
Un’ulteriore svolta ci fu quando la Corte Costituzionale stabilì che l’Art.11
Cost. non comportava l’invalidità della norma interna incompatibile con
quella europea, bensì la sua disapplicazione da parte del giudice comune, il
quale non deve più sollevare la questione di legittimità costituzionale. La
Corte Costituzionale arriva quindi a garantire il primato del diritto
dell’Unione su di quello italiano incompatibile.
L’effetto di una regolamento non è però quello di caducare la norma
interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo
per la definizione della controversia davanti al giudice nazionale.

L’EVOLUZIONE DELLA GIURISPRUDENZA EUROPEA E DI QUELLA


COSTITUZIONALE
Il suddetto primato è stato poi affermato dalla Corte di Giustizia, anche 116
nei confronti di norme interne di rango costituzionale.
La stessa Corte ha inoltre chiarito che l’obbligo di assicurare il primato
del diritto dell’Unione, fa capo non solo ai giudici, ma anche a tutta la
pubblica amministrazione .
La Corte di giustizia, nella famosa sentenza Lucchini, ha addirittura
affermato che il primato del diritto dell’Unione comporta la
disapplicazione del principio dell’autorità di cosa giudicata sancito
dall’Art. 2909 C.C.
Successivamente poi la Corte ha avuto cura di sottolineare l’importanza
che riveste il principio di autorità di cosa giudicata anche nell’ordinamento
giuridico dell’Unione.
La giurisprudenza costituzionale, nella sentenza Granital, ha poi
definitivamente affermato la prevalenza dei regolamenti direttamente
applicabili sul diritto interno incompatibile. Quindi l’obbligo del giudice
nazionale di non applicare le norme statali è stato riconosciuto anche nei
confronti delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia emanate
in via pregiudiziale o a seguito di una procedura di infrazione.
Tale prevalenza è stata poi estesa anche alle direttive, purché provviste
di effetti diretti, ossia quando le sue disposizioni appaiono incondizionate,
chiare e precise.
Le norme europee, facendo parte di un ordinamento distinto da quello
interno, non hanno il potere di annullare o abrogare una norma, ma
soltanto di disapplicarla.
E obbligo poi del legislatore depurare l’ordinamento nazionale da tali
norme attraverso abrogazioni o modificazione delle proprie norme di
diritto.
Il giudice come l’amministrazione nazionale devono interpretare il diritto
interno in conformità di quello europeo; solo quando il contrasto risulti
insanabile bisogna disapplicare il diritto interno, garantendo la diretta
applicazione delle norme europee.

I “CONTROLIMITI” AL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA E LE


RESIDUE COMPETENZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE
La stessa Corte Costituzionale, avendo giustificato nell’art.11 Cost, la 117
limitazione della sovranità e il primato del diritto dell’Unione, ha
elaborato una teoria dei controlimiti; di quei principi nazionali che vanno
necessariamente salvaguardati e che , a loro volta, limitano la prevalenza
del diritto dell’Unione. Tali controlimiti cmq non coincidono con tutte le
norme interne costituzionali.
I controlimiti che non possono essere in alcun caso pregiudicati dal diritto
dell’Unione, consistono in quei principi fondamentali del nostro
ordinamento costituzionali e nei diritti inalienabili della persona umana
che non possono essere violati in alcun modo da alcun organo dell’Unione.
Ove una disposizione o un atto dell’Unione violassero un siffatto principio
o un diritto umano fondamentale, il giudice comune dovrebbe sottoporre
alla Corte Costituzionale la questione di legittimità della legge italiana di
esecuzione dei Trattati europei che contrasta con i suddetti principi
fondamentali.

L’ADEGUAMENTO LEGISLATIVO DEL DIRITTO ITALIANO AL


DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA. LA “LEGGE COMUNITARIA”

L’adeguamento del diritto italiano agli obblighi nascenti dal diritto


dell’Unione richiede un intervento ad opera del legislatore. L’intervanto è
necessario per gli atti europei non direttamente applicabili. La prassi
originariamente usata dal nostro Stato era quella di dare esecuzione agli
atti europei, attraverso leggi che delegavano al governo l’emanazione di
decreti legislativi volti a dare attuazione ad un pacchetto di direttive
indicate nella legge delega. Lo strumento della delega veniva concesso
sotto l’urgenza di eseguire le direttive il cui termine di attuazione era già
scaduto. Il sistema era criticato perché no appariva conforme all’art.76
Cost., il quale dichiara che la delega al governo doveva contenere i criteri
direttivi, doveva essere limitata nel tempo e per oggetti definiti. In
realtà però l’oggetto della delega era estremamente diversificato e il
Parlamento risultava così espropriato dei suoi poteri.
C’era bisogno di un sistema che abbandonasse gli interventi episodici e
confusi della legge delega, e assicurasse una corretta e tempestiva
attuazione delle direttive, garantendo al tempo stesso il pieno rispetto 118
della Costituzione.
Una disciplina organica venne introdotta con la c.d. “legge La Pergola”; tale
legge aveva un duplice obbiettivo: da un lato regolare le forme di
partecipazione del Parlamento e delle regioni alla formazione degli atti,
dall’altra garantire l’adempimento degli obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.
Lo strumento centrale per garantire tale adempimento è la “legge
comunitaria”: tale legge contiene disposizioni per l’adempimento degli
obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.
La legge La Pergola è stata poi più volte modificata ed infine abrogata.
Venne sostituita dalla c.d. legge Buttiglione la quale, rispettando lo
schema generale, i principi ispiratori e gli strumenti di attuazione, ne
costituisce un opportuno ammodernamento.
Lo strumento individuato per l’adeguamento dell’ordinamento italiano agli
obblighi europei resta cmq la legge comunitaria; ciò però non esclude la
possibilità di adottare al di fuori di tale legge le norme di attuazione di
specifici obblighi soprattutto in caso di complessità della materia oggetto
dell’atto.

PROCEDIMENTO di elaborazione della legge comunitaria:

Prende avvio con la verifica, da parte del presidente del Consiglio o del
ministro delle politiche europee, dello stato di conformità
dell’ordinamento italiano e degli indirizzi di politica governativa agli
obblighi europei. La stessa verifica viene compiuta dalle regioni e
provincie autonome, nelle materie di loro competenza.
Di seguito il Presidente del Consiglio di concerto con i ministri interessati,
entro il 31 gennaio di ogni anno presenta al Parlamento un disegno di legge
recante “ disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia alle comunità europee”.
I l contenuto della legge comunitaria reca disposizioni:

 che abrogano o modificano norme statali in contrasto col diritto


dell’Unione europea .
 disposizioni che danno esecuzione agi atti dell’Unione.
 disposizioni che autorizzano il governo ad attuare in via 119
regolamentare le direttive, anche nelle materie già disciplinate in
delegificazione ma non coperte da riserva di legge assoluta.
 disposizioni che conferiscono al governo la delega per l’attuazione
di tali atti e disposizioni occorrenti per dare attuazione ai
trattati internazionali conclusi nel quadro delle relazioni esterne
dell’Unione europea.

IL RUOLO DELLE REGIONI NELL’ATTUAZIONE DEL DIRITTO


DELL’UNIONE EUROPEA

L’attuazione del diritto dell’Unione europea comporta anche un delicato


problema di riparto delle competenze tra Stato e Regioni. Infatti molto
spesso, le materie oggetto del atti europei, ricadono nella competenza
legislativa della regioni. Occorre quindi stabilire in quale misura alle
regioni spetti l’attuazione degli obblighi del diritto europeo, e quando
eventualmente le loro competenze vanno coordinate con quelle dello
Stato. Andavano quindi conciliati da un lato il principio del rispetto delle
competenze regionali, dall’altro quello della responsabilità dello Stato
nell’attuazione degli obblighi dell’Unione.
La materia è oggi contenuta nella disciplina della “legge Buttiglione” la
quale afferma che le regioni, nelle materie di propria competenza,
possono dare immediata attuazione alle direttive dell’Unione. Nella
materie di competenza concorrente la legge comunitaria indica i principi
fondamentali non derogabili dalla legge regionale.
In caso di inerzia regionale nell’attuazione degli obblighi europei, lo Stato
ha il potere di sostituirsi con una propria normativa di attuazione a
partire dalla scadenza del termine, fissato per l’attuazione della
normativa europea. La normativa statale di sostituzione perde poi valore
nel momento in cui entra in vigore quella regionale, in ragione del
carattere cedevole delle disposizioni in essa contenute.
Da tale legge, è stato poi stabilito, un “diritto di rivalsa” dello Stato per
gli oneri finanziari conseguenti alla violazione di obblighi derivanti
dall’Unione europea a causa della mancata emanazione della normativa
regionale di attuazione. Questo diritto di rivalsa si comprende per il fatto
che di fronte all’Unione europea, l’unico soggetto responsabile è lo Stato, 120
anche se l’inadempimento sia dovuto ad altri enti pubblici.
Alcune regioni hanno addirittura previsto l’adozione di una “legge
comunitaria regionale”, come per esempio il Friuli Venezia Giulia,
contenente disposizioni sulla partecipazione di tale regione al processo
normativo dell’Unione e sulle procedure di esecuzione degli obblighi
derivanti da quest’ultima.

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