La planetologia è una branca della fisica che studia le proprietà fisiche dei corpi planetari, spesso non limitato
ai soli pianeti ma esteso a tutti i corpi celesti non stellari, interni ed esterni al sistema solare; in genere si
annoverano tra gli studi di planetologia anche quelli riguardanti le origini dei sistemi planetari e la loro
evoluzione dinamica.
1. geologia planetaria,
2. geochimica,
3. geofisica,
4. cosmochimica,
5. fisica dell’atmosfera,
6. oceanografia,
7. idrologia,
8. glaciologia,
9. eso-planetologia.
10. astrobiologia.
IL SISTEMA SOLARE
Il sistema solare è il sistema planetario costituito da una varietà di corpi celesti mantenuti in orbita
dalla forza di gravità del Sole. Ha un diametro di circa 240 − 260 𝑈𝐴 ed orbita attorno al centro galattico ad
una distanza di 30˙000 𝑎𝑙 ed una velocità di 230 𝑘𝑚/𝑠. È costituito dal Sole, che costituisce da solo il 99,9%
della massa di tutto il sistema, da otto pianeti (quattro pianeti rocciosi interni e quattro giganti gassosi
esterni), pianeti nani, dai rispettivi satelliti naturali, e da moltissimi altri corpi minori (principalmente
asteroidi, comete e meteoroidi). In ordine di distanza dal Sole, gli otto pianeti
sono: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano e Nettuno.
Il principale corpo celeste del sistema solare è il Sole, una nana gialla contenente più del 99% di tutta
la massa conosciuta nel sistema solare. Giove e Saturno, i due pianeti più massicci che orbitano attorno al
Sole, costituiscono più del 90% della massa restante.
I pianeti si dividono in due categorie principali in base alle dimensioni delle loro orbite. Le orbite dei quattro
pianeti interni (Mercurio, Venere, Terra e Marte) sono concentrate nelle vicinanze del Sole (da 0.4 a 1.5 𝑈𝐴).
Al contrario, le orbite dei quattro pianeti esterni (Giove, Saturno, Urano e Nettuno) si trovano a grandi
distanze dal Sole e sono molto spaziate le une dalle altre (da 5 a 30 𝑈𝐴).
Tutti i pianeti orbitano intorno al Sole in senso antiorario lungo orbite ellittiche inclinate di pochi gradi
rispetto al piano dell’eclittica (piano orbitale della Terra).
1
I pianeti possono essere classificati anche in base alle loro proprietà fisiche:
1. pianeti rocciosi o pianeti terrestri (Mercurio, Venere, Terra e Marte);
2. pianeti gioviani:
a. giganti gassosi (Giove e Saturno);
b. giganti ghiacciati (Urano e Nettuno).
I pianeti rocciosi possiedono solide superfici rocciose caratterizzate da catene montuose, valli, crateri e
vulcani. I giganti gassosi, invece, sono composti principalmente da materiale gassoso o liquido.
La differenza più evidente tra le due categorie di pianeti sono le loro dimensioni: la Terra e Venere (i due più
grandi pianeti rocciosi) hanno un diametro di circa 6000𝑘𝑚, Giove e Saturno (i due più grandi pianeti
gioviani) hanno un diametro rispettivamente di circa 70˙000 e 60˙000𝑘𝑚 e Urano e Nettuno hanno un raggio
di circa 25˙000𝑘𝑚.
Drasticamente differenti sono anche le masse delle due categorie di pianeti. I giganti gassosi hanno masse
che sono da decine a centinaia di volte superiori a quella di un qualsiasi altro pianeta roccioso. Anche in
questo caso è Giove a dominare, con una massa di circa 318 𝑀𝑇 (masse terrestri), Saturno ha una massa di
100 𝑀𝑇 mentre i giganti ghiacciati hanno una massa pari circa ad 1/6 di quella di Saturno.
Una volta noti dimensioni e massa di un pianeta, è possibile avere informazioni sulla sua densità media (che
fornisce informazioni sui materiali di cui è composto). I quattro pianeti rocciosi hanno una densità media
molto alta; per esempio, la densità media della Terra è di circa 5515 𝑘𝑔⁄𝑚3. In contrasto, la densità media
superficiale della Terra è di circa 3000 𝑘𝑔⁄𝑚3 . Ciò significa l’interno della Terra è composto da materiali
molto più densi della roccia (metalli). Al contrario, i quattro pianeti gioviani hanno densità medie molto basse
(Saturno ha una densità minore dell’acqua). Questa informazione suggerisce che i giganti gassosi sono
composti principalmente da elementi leggeri, quali 𝐻 e 𝐻𝑒, mentre i giganti ghiacciati sono composti da una
combinazione di tre “ghiacci astronomici”: acqua (𝐻2 𝑂), ammoniaca (𝑁𝐻3 ) e metano (𝐶𝐻4). I quattro pianeti
gioviani, probabilmente, possiedono un nucleo di materiale solido (roccioso) avente massa di circa 10 𝑀𝑇
(Giove e Saturno) e 1 − 4 𝑀𝑇 (Urano e Nettuno).
Da queste informazioni si può concludere che: i pianeti terrestri sono composti da materiali rocciosi e
possiedono un denso nucleo metallico che determina l’alta densità media di questi pianeti. I pianeti
gioviani, invece, sono composti principalmente da elementi leggeri quali 𝑯 e 𝑯𝒆 che determinano la bassa
densità media di questi pianeti.
Tutti i pianeti, eccetto Mercurio e Venere, possiedono satelliti. Si conoscono più di 140 satelliti:
- la Terra ne possiede uno, la Luna;
- Marte ne possiede due;
- Giove almeno 62;
- Saturno almeno 43;
- Urano almeno 24;
- Nettuno almeno 13.
Anche in questo caso vi è una grossa differenza tra i pianeti terrestri e quelli gioviani: i primi hanno pochi
satelliti o addirittura nessuno, mentre i secondi hanno così tanti satelliti da rappresentare un sistema
planetario in miniatura.
2
Dei satelliti noti, sette hanno dimensioni comparabili a quelle del pianeta Mercurio: la Luna della Terra, Io ed
Europa di Giove le cui alte densità indicano che sono composti principalmente da materiali rocciosi. Al
contrario, la densità media di Ganimede, Callisto, Titano e Tritone è relativamente bassa indicando che
questi corpi sono composti principalmente da ghiacci che hanno una densità minore della roccia.
Il satellite di Giove, Io è il corpo più geologicamente attivo del Sistema Solare, con numerosi vulcani che
esalano continuamente composti ricchi in zolfo. La superficie fratturata di Europa (un altro grande satellite
di Giove) suggerisce che al di sotto della sua superficie ghiacciata si estende un oceano di acqua liquida. Il più
grande satellite di Saturno, Titano possiede un’atmosfera densa il doppio di quella terrestre.
Oltre ai pianeti ed ai satelliti, altri piccoli oggetti orbitano intorno al Sole. Questi corpi vengono classificati in
tre categorie:
1. asteroidi, oggetti rocciosi formatisi nel Sistema Solare interno;
2. oggetti trans-Nettuniani (TNO) che si trovano oltre l’orbita di Nettuno nel Sistema Solare esterno,
composti principalmente da roccia e ghiaccio;
3. comete, mix di roccia e ghiaccio che si sono originati nel Sistema Solare esterno e possono talvolta
entrare nel Sistema Solare interno.
Tra le orbite di Marte e Giove (tra 2 e 3.5 UA) vi sono centinaia di migliaia di oggetti rocciosi chiamati asteroidi
che formano la cosiddetta fascia degli asteroidi. Il più grande, Cerere, ha un diametro di circa 900km. Altri
grandi asteroidi sono Pallade e Vesta con un diametro di circa 500km. Vi sono poi altri numerosissimi oggetti
di diametri chilometrici. Tutti questi oggetti orbitano intorno al Sole nella stessa direzione dei pianeti (in
senso antiorario).
Mentre gli asteroidi sono i piccoli oggetti più importanti del Sistema Solare interno, il Sistema Solare esterno
è dominato dagli oggetti trans-Nettuniani. Come suggerisce il nome, sono piccoli corpi le cui orbite risiedono
oltre quella di Nettuno. Il primo ad essere stato scoperto è Plutone, con un diametro di soli 2274km, più
piccolo di ogni altro pianeta e più grande di ogni altro asteroide e satellite. Esso orbita intorno al Sole ad una
distanza media di 39.5 𝑈𝐴 ed ha una densità media di circa 2000 𝑘𝑔⁄𝑚3 (come Tritone), per cui si pensa sia
composto da 70% di roccia e 30% di ghiacci. Come gli asteroidi, anche gli oggetti trans-Nettuniani orbitano
intorno al Sole nella stessa direzione dei pianeti.
Così come la maggior parte degli asteroidi risiedono nell’omonima fascia, la maggior parte degli oggetti trans-
Nettuniani orbitano all’interno di una banda nota come fascia di Kuiper che si estende da 30 a 50 𝑈𝐴 dal
Sole. Come per gli asteroidi, si pensa che gli oggetti trans-Nettuniani siano frammenti lasciati dalla
formazione del Sistema Solare. Nelle regioni interne del Sistema Solare, i frammenti rocciosi hanno resistito
alla continua esposizione al calore del Sole, mentre qualsiasi forma di ghiaccio presente su di essi è evaporato.
Al contrario, lontano dal Sole il ghiaccio sopravvive per miliardi di anni.
Gli oggetti nella fascia di Kuiper possono collidere se le loro orbite si incrociano. Quando ciò accade, un
frammento di qualche chilometro di diametro si può staccare da uno dei due oggetti e venire deviato su una
traiettoria molto allungata che lo porta vicino al Sole. Questi piccoli oggetti, che sono una combinazione di
roccia e ghiaccio, prendono il nome di comete. Quando una cometa si avvicina abbastanza al Sole, il calore
vaporizza i ghiacci della cometa producendo una lunga e brillante coda si gas e particelle (da cui è possibile
dedurre la composizione della cometa).
3
Sembra che alcune comete abbiano origine al di là della fascia di Kuiper, nella nube di Oort, un “alone” che
circonda il Sistema Solare e che si trova ad una distanza di circa 50˙000 𝑈𝐴 dal Sole. A causa della sua enorme
distanza non è possibile osservare direttamente gli oggetti di questa nube.
Gli studi di dinamica dei corpi del Sistema Solare includono lo studio dei loro moti (rotazione e rivoluzione) e
deformazioni dovute a forze mareali.
Le interazioni gravitazionali determinano come la distanza di un pianeta dal Sole varia col tempo e quanta
radiazione solare viene intercettata dal pianeta. La velocità di rotazione determina la durata del giorno,
l’obliquità dell’asse di rotazione influenza le temperature dal polo all’equatore del pianeta e le variazioni
stagionali. Il riscaldamento mareale produce intensi fenomeni vulcanici come sul satellite di Giove, Io.
4
LE LEGGI DI KEPLERO
Le leggi (le tre leggi di Keplero) che governano il moto dei pianeti sono state formulate da Keplero:
1. l'orbita descritta da un pianeta è un'ellisse, di cui il Sole occupa uno dei due fuochi.
L’equazione di un’ellisse è data da:
𝑟 + 𝑟 ′ = 2𝑎
dove 𝑎 è il semiasse maggiore dell’orbita,
ossia la distanza media del pianeta dal
Sole; e 𝑏 è il semiasse minore.
La forma di un’ellisse è descritta dalla sua
eccentricità (𝑒):
𝑏 2
𝑒 = √1 − ( )
𝑎
0 < 𝑒 < 1, per 𝑒 = 0 si ha una circonferenza, per 𝑒 = 1 una linea.
Ciò implica che un pianeta non si trova sempre alla stessa distanza dal Sole, in particolare:
- il punto di massima vicinanza è detto perielio;
- il punto di massima distanza è detto afelio.
La distanza eliocentrica (distanza del pianeta dal Sole) può essere calcolata utilizzando la seguente
relazione:
𝑎(1 − 𝑒 2 )
𝑟(𝜃) =
1 − 𝑒 cos 𝜃
In particolare:
- al perielio, cos 𝜃 = 1
- all’afelio, cos 𝜃 = −1
Se è noto il semiasse maggiore e l’afelio o il perielio, con la seguente relazione è possibile calcolare
la distanza non nota:
2𝑎 − (𝑟𝑎𝑓𝑒𝑙𝑖𝑜 𝑜 𝑟𝑝𝑒𝑟𝑖𝑒𝑙𝑖𝑜 ) = (𝑟𝑎𝑓𝑒𝑙𝑖𝑜 𝑜 𝑟𝑝𝑒𝑟𝑖𝑒𝑙𝑖𝑜 )
5
2. il raggio vettore che unisce il centro del Sole con il centro del pianeta spazza aree uguali in tempi
uguali.
Le conseguenze di questa legge sono varie:
- la velocità orbitale non è costante, ma varia lungo
l'orbita. Le due aree evidenziate nella figura di lato
sono infatti uguali e vengono quindi percorse nello
stesso tempo. In prossimità del perielio, dove il
raggio vettore è più corto che nell'afelio, l'arco di
ellisse è corrispondentemente più lungo. Ne segue
quindi che la velocità orbitale è massima
al perielio e minima all'afelio;
- il momento angolare orbitale del pianeta si conserva.
Essendo:
𝑑𝑟
𝑣=
𝑑𝑡
tramite una manipolazione vettoriale, si ha che:
𝑑 𝑑𝑣 𝑑𝑟 𝑑2 𝑟
(𝑟 × 𝑣) = 𝑟 × + ×𝑣 =𝑟× 2 +𝑣×𝑣 =0
𝑑𝑡 𝑑𝑡 𝑑𝑡 𝑑𝑡
L’equazione precedente implica che il momento angolare (𝐿) dato da:
2𝜋 × 𝑚 × 𝑟 2
𝐿 =𝑚×𝑣×𝑟 =
𝑃
si conserva.
Se il momento angolare si conserva, anche l’area spazzata dal raggio vettore si conserva:
𝑑𝐴 𝐿
= = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒
𝑑𝑡 2𝑚
3. i quadrati dei tempi che i pianeti impiegano a percorrere le loro orbite sono proporzionali al cubo
delle loro distanze medie dal Sole.
𝑃2 ∝ 𝑘 × 𝑎3
dove 𝑃 è il periodo espresso in 𝑎𝑛𝑛𝑖, 𝑎 è il semiasse maggiore espresso in 𝑈𝐴 e 𝑘 è una costante
(costante di Keplero) che dipende dal corpo celeste attorno al quale avviene il moto di rivoluzione.
Se si considera il moto di rivoluzione dei pianeti del sistema solare attorno al Sole e si misurano le
distanze in unità astronomiche e il tempo in anni solari 𝑘 = 1.
La terza legge vale anche per i satelliti che orbitano intorno ai pianeti: il valore della costante, cambia
da pianeta a pianeta mentre per un fissato pianeta, essa è uguale per tutti i satelliti del suddetto
pianeta.
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LE LEGGI DI NEWTON
I principi della dinamica (o leggi di Newton) sono la base della meccanica classica che descrive le relazioni
tra il movimento di un corpo e gli enti che lo modificano.
Le leggi sono in tutto quattro: tre riguardano il moto mentre la quarta quantifica la forza gravitazionale.
1. un corpo mantiene il proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, finché una forza non
agisce su di esso.
Questa legge, sostanzialmente, afferma che se nessuna forza esterna agisce su un oggetto in
movimento, non ci sarà nessuna forza risultante agente su quell’oggetto. Ciò significa che una forza
esterna deve agire sui pianeti. Infatti, un pianeta si muove nello spazio vuoto senza incontrare
frizione, quindi il pianeta dovrebbe “volare via” nello spazio in linea retta e ad una velocità costante
se non vi sono forze agenti su di esso. Dal momento che ciò non accade deve esserci una forza che
agisce continuamente sui pianeti per mantenerli in un’orbita ellittica.
2. l'accelerazione di un corpo è direttamente proporzionale ed ha la stessa direzione della forza netta
agente su di esso, mentre è inversamente proporzionale alla sua massa.
𝐹 = 𝑚𝑎
dove 𝐹 è la forza esterna netta che agisce su un oggetto, 𝑚 è la massa dell’oggetto e 𝑎 è
l’accelerazione dell’oggetto.
Questa legge afferma che per accelerare un oggetto una forza esterna netta deve agire su di esso.
Sappiamo, dalle leggi di Keplero, che i la velocità dei pianeti durante l’orbita cambia continuamente.
Ciò significa che deve esserci una forza esterna che agisce continuamente sui pianeti. Questa forza è
l’attrazione gravitazionale del Sole.
3. quando un oggetto esercita una forza su un altro oggetto, il secondo esercita una forza uguale ed
opposta sul primo.
𝐹12 = −𝐹21
Newton capì che come il Sole esercita una forza su ciascun pianeta per mantenerlo in orbita, così
ogni pianeta deve esercitare una forza pari ed opposta sul Sole. Però i pianeti sono molto meno
massivi del Sole, quindi anche se la forza esercitata dal Sole è la stessa che i pianeti esercitano su di
esso, la minor massa dei pianeti fornisce loro una maggiore accelerazione. Ciò spiega perché sono i
pianeti ad orbitare intorno al Sole e non il contrario (dando anche una spiegazione sul nostro Sistema
Solare eliocentrico).
4. due oggetti si attraggono con una forza che è direttamente proporzionale alla massa dei due
oggetti ed inversamente proporzionale al quadrato della distanza che li separa.
𝑚1 𝑚2
𝐹=𝐺
𝑟2
dove:
- 𝐹 è la forza gravitazionale tra i due oggetti;
- 𝐺 = 6,67 × 10−11 𝑁𝑚2⁄𝑘𝑔2 è la costante di gravitazione universale;
- 𝑚1 è la massa del primo oggetto;
- 𝑚2 è la massa del secondo oggetto;
- 𝑟 è la distanza tra i due oggetti.
7
RIDUZIONE DEL PROBLEMA DEI DUE CORPI
L’equazione del moto relativo di due oggetti che orbitano uno intorno all’altro può essere derivata dalle leggi
di Newton.
Si considerino due corpi di massa 𝑚1 e 𝑚2 che si trovano rispettivamente ad una posizione 𝑟1 e 𝑟2 . La seconda
legge di Newton può essere combinata con la quarta per ricavare due equazioni che governano il moto di
questi due corpi:
𝑑2 𝑟1 𝐺𝑚1 𝑚2
𝑚1 =− (𝑟 − 𝑟2 )
𝑑𝑡 2 |𝑟1 − 𝑟2 |3 1
𝑑2 𝑟2 𝐺𝑚1 𝑚2
𝑚2 =− (𝑟 − 𝑟1 )
𝑑𝑡 2 |𝑟2 − 𝑟1 |3 2
Per discriminare il moto del centro di massa dal moto dei due corpi bisogna applicare una trasformata di
coordinate:
𝑚1 𝑟1 + 𝑚2 𝑟2
𝑥≡
𝑚1 + 𝑚2
𝑟 ≡ 𝑟1 − 𝑟2
Si ottiene così:
𝑑2 𝑥
(𝑚1 + 𝑚2 ) =0
𝑑𝑡 2
𝑑2 𝑟 𝐺𝑀
2
= − 2 𝑟̂
𝑑𝑡 𝑟
dove 𝑀 = 𝑚1 + 𝑚2 .
La prima equazione implica che il centro di massa del sistema non accelera, quindi si muove a velocità
costante. La seconda equazione descrive l’accelerazione della posizione relativa dei due corpi (𝑟).
Quindi, il moto relativo dei due corpi è completamente equivalente a quello di una particella orbitante
intorno ad una massa centrale (𝑀) fissa.
Newton dimostrò che la terza legge di Keplero deriva logicamente dalla sua legge di gravitazione universale.
Infatti, egli dimostrò che se due oggetti di massa 𝑚1 e 𝑚2 orbitano uno intorno all’altro, il periodo (P) ed il
semiasse maggiore (a) dell’orbita sono legati dalla relazione:
4𝜋𝑎3
𝑃2 =
𝐺(𝑚1 + 𝑚2 )
Questa relazione permette anche di avere informazioni riguardo le masse dei due corpi.
8
Misurando il periodo ed il semiasse maggiore dell’orbita di un satellite, per esempio, gli astronomi sono in
grado di calcolare la somma delle masse del pianeta e del satellite (che può essere naturale o artificiale):
si consideri un satellite artificiale in orbita intorno alla Terra. Immaginiamo che il raggio dell’orbita del
satellite sia:
𝑎 = 7168𝑘𝑚
e che il suo periodo orbitale (espresso in secondi) sia:
𝑇 = 6037.55𝑠
La costante di gravitazione universale ha un valore di:
𝑚3
𝐺 = 6.67 × 10−11
𝑘𝑔 ∙ 𝑠 2
È possibile ricavare la massa della Terra (𝑀𝑒 ) tramite la relazione:
4𝜋 2 𝑎3
𝑀𝑒 = ≈ 5.97 × 1024 𝑘𝑔
𝐺 ∙ 𝑃2
Newton scoprì anche nuove caratteristiche delle orbite intorno al Sole. La sua equazione, infatti, dimostra
che l’orbita di un oggetto intorno al Sole non deve essere per forza un’ellisse, ma può essere una qualunque
delle sezioni coniche.
9
ORBITE CHIUSE ED APERTE
La prima legge di Keplero sull’ellitticità delle orbite degli oggetti orbitanti deriva da una legge fisica
fondamentale, ossia la legge di conservazione dell’energia che afferma che sebbene l'energia possa essere
trasformata e convertita da una forma all'altra, la quantità totale di essa in un sistema isolato non varia nel
tempo:
1 𝑀𝑚
𝑚𝑣 2 = 𝐺
2 𝑟
dove:
1
- 2
𝑚𝑣 2 rappresenta l’energia cinetica (𝐾);
𝑀𝑚
- 𝐺 𝑟 rappresenta l’energia potenziale (𝑈).
Per un oggetto di massa 𝑚 e velocità 𝑣 in orbita ad una distanza 𝑟 dal Sole (𝑀), l’energia totale (𝐸) è data da:
1 𝑀𝑚
𝐸 = 𝑚𝑣 2 − 𝐺 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒
2 𝑟
Al variare di questa costante si possono avere varie situazioni fondamentali:
𝐸 > 0 (energia cinetica > energia potenziale) l’oggetto descrive un’orbita iperbolica e non resta
intrappolato nel campo gravitazionale del corpo che genera il campo;
𝐸 < 0 (energia cinetica < energia potenziale) l’oggetto descrive un’orbita ellittica ed è attratto dal
Sole che occupa uno dei due fuochi.
È possibile calcolare la velocità orbitale di un corpo su un’orbita ellittica, applicando la relazione:
2 1
𝑣 2 = 𝐺𝑀 ( − )
𝑟 𝑎
𝐸 = 0 l’oggetto descrive un’orbita parabolica.
Impostando l’energia totale pari a 0 è possibile calcolare la velocità di fuga, ossia la velocità minima
che un oggetto, senza alcuna successiva propulsione, deve avere in una certa posizione per potersi
allontanare indefinitamente da un campo a cui è soggetto (detta anche seconda velocità cosmica):
2𝐺𝑀
𝑣𝑒 = √ = √2𝑣𝑐
𝑟
𝐺𝑀
dove 𝑣𝑐 = √ è la forza centripeta.
𝑟
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L’equazione che include tutte le tipologie di orbite è la seguente:
𝜁
𝑟=
1 + 𝑒 cos 𝜃
per:
𝑏 2
- 𝑒 = √1 − (𝑎) e 𝜁 = 𝑎(1 − 𝑒 2 ) l’orbita è ellittica;
La gravità non è limitata soltanto all’interazione tra il Sole ed i pianeti o tra i pianeti ed i satelliti, ma tutti i
corpi sono influenzati dal campo gravitazionale degli altri.
Fino ad ora abbiamo considerato il moto di due corpi orbitanti, ma quando altri corpi (almeno uno) si
aggiungono al sistema sopraggiunge il problema dei tre corpi, più complesso rispetto al problema dei due
corpi.
In questo caso, le orbite dei tre corpi non possono essere ricavate analiticamente, per cui sono necessarie
alcune semplificazioni:
1. se uno dei corpi ha una massa trascurabile (un piccolo asteroide, un satellite artificiale, ecc…) i suoi
effetti sugli altri due corpi possono essere ignorati. In questo caso il problema prende il nome di
problema dei tre corpi ristretto e il corpo più piccolo viene indicato come particella test;
2. se il moto relativo dei due corpi più massivi avviene su una circonferenza si parla di problema dei tre
corpi circolare ristretto;
3. se la massa di uno dei tre corpi è molto maggiore della massa degli altri due, si può assumere che i
tre corpi orbitano sullo stesso piano, il problema dei tre corpi planare.
Queste tre semplificazioni possono essere combinate.
11
Nel problema dei tre corpi circolare ristretto, Lagrange
scoprì tre punti in cui una particella test non è soggetta
ad alcuna forza. Tre di questi punti Lagrangiani
(𝐿1 , 𝐿2 , 𝐿3 ) sulla linea che congiunge due masse 𝑚1 e
𝑚2 . Questi primi tre punti sono instabili.
Gli altri due punti Lagrangiani, 𝐿4 ed 𝐿5 formano due
triangoli equilateri con i due corpi massivi; le orbite
intorno a questi due punti sono stabili per piccole
perturbazioni, ammesso che il rapporto tra le masse
dei due corpi sia ≥ 27.
I punti 𝐿4 ed 𝐿5 sono importanti nel Sistema Solare. Ad
esempio, gli asteroidi Troiani sono localizzati presso i
punti 𝐿4 ed 𝐿5 di Giove, sono noti alcuni asteroidi che
librano nel punto 𝐿4 di Nettuno e alcuni piccoli asteroidi sono Troiani marziani.
I punti 𝐿4 ed 𝐿5 del sistema Terra – Luna possono essere location per future missioni spaziali.
Un'orbita a ferro di cavallo è un movimento orbitale apparente di un corpo celeste più piccolo rispetto ad
un altro più grande.
Il periodo orbitale del corpo più piccolo è molto simile a quello del corpo più grande, e la sua orbita sembra
avere una forma a ferro di cavallo se vista dal corpo più grande in un sistema di riferimento rotante.
Un asteroide che orbita intorno al Sole è affetto anche dal campo gravitazionale della Terra. Esso orbita
intorno alla stella con una velocità simile a quella terrestre (impiega quindi circa un anno per compiere
un’orbita completa).
Per comprendere questa tipologia di orbita bisogna ricordare alcune semplici regole:
1. un corpo vicino al Sole completa un’orbita più velocemente rispetto ad un corpo più lontano;
2. se un corpo accelera lungo l’orbita, quest’ultima si sposterà verso l’esterno (lontano dal Sole). Se
decelera il raggio orbitale diminuisce.
L’orbita a ferro di cavallo si osserva a causa del fatto che
l’attrazione gravitazionale della Terra cambia la forma
dell’orbita dell’asteroide. Queste variazioni sono minime,
ma apportano significativi cambiamenti relativamente
alla Terra. Immaginiamo che il satellite si trovi nel punto
A (tra il punto 𝐿5 e la Terra). Qui il satellite orbita più
velocemente rispetto alla Terra e quasi la supera
passando tra essa ed il Sole. Ma la gravità terrestre
esercita un’accelerazione verso l’esterno che spinge il
satellite su un’orbita più esterna diminuendone la
velocità angolare.
Quando il satellite giunge al punto B, si muove alla stessa
velocità della Terra. La gravità terrestre continua ad
accelerare il satellite ed a spostarlo su un’orbita più
esterna. Nel punto C il satellite ha raggiunto la posizione
più esterna possibile, al punto che la sua velocità orbitale
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è minore rispetto a quella terrestre e “rimane indietro” rispetto alla Terra (se visto dalla Terra). Il periodo
orbitale è poco più di un anno terrestre.
Giunto al punto D, la gravità terrestre diminuisce la velocità orbitale del satellite spostandolo su un’orbita più
interna che ne aumenta la velocità angolare. Questo processo continua fino al punto E, dove l’orbita del
satellite è più interna e più veloce rispetto a quella terrestre e comincerà a muoversi davanti alla Terra.
Siccome i punti 𝐿4 ed 𝐿5 sono stabili, i corpi possono librare intorno a questi punti; queste orbite sono
conosciute come orbite tadpole a causa della loro forma allungata ed asimmetrica (nel sistema di riferimento
rotante).
FORZE MAREALI
La forza gravitazionale derivante dall’azione di corpi esterni varia da una parte del corpo ad un’altra. Questi
effetti producono ciò che è conosciuta come forza mareale.
Le forze mareali sono importanti per molti aspetti riguardanti la struttura e l’evoluzione dei corpi planetari.
Ad esempio, a breve termine, variazioni temporali delle maree causano degli stress che possono far muovere
i fluidi rispetto alla parte solida del pianeta, come appunto le maree oceaniche a cui siamo abituati. A lungo
termine, invece, le maree possono cambiare le proprietà orbitali e di rotazione di pianeti e satelliti. In alcuni
casi, le forze mareali sono così intense da vincere le forze di coesione di un corpo frammentandolo.
La forza gravitazionale tra due oggetti diminuisce all’aumentare della distanza tra i due oggetti. La forza
mareale che la Terra esercita sulla Luna la deforma, così la Luna acquista due rigonfiamenti mareali: uno
rivolto verso la Terra, l’altro sul lato opposto. La massa di ciascun rigonfiamento è proporzionale alla forza
mareale che allontana il materiale dal centro della Luna. Quindi, la formula sotto spiega che la massa di
ciascun rigonfiamento è inversamente proporzionale al cubo della distanza Terra – Luna (𝑟):
𝐴
𝑚𝑏𝑢𝑙𝑔𝑒 =
𝑟3
dove 𝐴 è una costante che dipende da quanto facilmente si deforma la Luna.
La forza mareale netta è data dalla relazione:
2𝐺𝑀𝐸𝑎𝑟𝑡ℎ 𝑚𝑏𝑢𝑙𝑔𝑒 𝑑 2𝐺𝑀𝐸𝑎𝑟𝑡ℎ 𝐴𝑑
𝐹𝑡𝑖𝑑𝑎𝑙 = 𝐹𝑛𝑒𝑎𝑟 − 𝐹𝑓𝑎𝑟 = =
𝑟3 𝑟6
dove: 𝐺 è la costante di gravitazione universale, 𝑀𝐸𝑎𝑟𝑡ℎ è la massa della Terra, 𝑑 è il diametro della Luna e r
è la distanza tra il centro della Terra ed il centro della Luna.
Grandi forze mareali possono anche cambiare la struttura fisica dei corpi. Generalmente, le maggiori forze
mareali sperimentate dai corpi del Sistema Solare sono quelle causate dai pianeti sui rispettivi satelliti. Vicino
ad un pianeta, le maree sono talmente forti da distruggere letteralmente corpi fluidi o debolmente aggregati.
In questa regione, i satelliti di grandi dimensioni sono instabili e i piccoli satelliti non possono accrescersi a
causa, appunto, delle maree. Il limite di questa regione è noto come limite di Roche (𝑟𝑅 ), al cui interno il
materiale solido resta in forma di piccoli frammenti e anziché grandi satelliti si ritrovano anelli:
3 𝜌𝑝
𝑟𝑅 = 2.44 × 𝑅 √
𝜌𝑠
dove: 𝑅 è il raggio del pianeta, 𝜌𝑝 è la densità del pianeta e 𝜌𝑠 è la densità del satellite.
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LEGGE DI BODE
La legge di Bode (o di Titus-Bode) è una formula empirica che descrive con buona approssimazione i semiassi
maggiori delle orbite dei pianeti del Sistema Solare.
Assumendo la distanza Terra-Sole pari ad una unità astronomica, i semiassi maggiori (𝑑𝑖 ) delle orbite di
ciascun pianeta seguono approssimativamente la relazione:
𝑑𝑖 = 0.4 + 0.3 × 2𝑖
dove 𝑖 = −∞, 0, 1, 2, …
Terra 1 1 1
Saturno 5 9.6 10
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FORMAZIONE DEL SISTEMA SOLARE
L’origine del Sistema Solare è uno dei principali dilemmi della scienza. In tutto esistono due ipotesi riguardo
la sua formazione:
1. ipotesi dualistica;
2. ipotesi nebulare.
Il materiale proveniente dalla stella intergalattica, essendo meno denso di quello del
Sole, formerà i corpi del Sistema Solare esterno, mentre il materiale del Sole, essendo
più denso, formerà i corpi del Sistema Solare interno.
15
FASE 1: COLLASSO
Generalmente una nube interstellare è stabile, cioè non collassa grazie alla sua pressione interna (dovuta al
gas e a campi magnetici) che bilancia la forza di gravità. Però, in determinate condizioni una nube può
diventare instabile e collassare su sé stessa. Una nube è stabile a masse piccole (dati un determinato raggio
e una determinata temperatura), quando la massa, però, supera un valore critico (massa di Jeans) inizia un
processo di progressiva contrazione. In particolare una nube è tanto più instabile quanto più è grande la sua
massa e più piccole sono le sue dimensioni e la temperatura.
Il valore approssimato della massa di Jeans deriva da una semplice considerazione fisica applicata a una
porzione sferica di una nube gassosa di raggio 𝑅, massa 𝑀 e velocità del suono 𝑐𝑠 . Qualora si applicasse una
compressione, le onde sonore impiegherebbero un tempo 𝑡𝑠 per attraversare la nube pari a:
𝑅
𝑡𝑠 =
𝑐𝑠
dopo il quale si ristabilisce l'equilibrio del sistema. Contemporaneamente la gravità tende a far contrarre il
sistema sempre di più, secondo un tempo di caduta libera 𝑡𝑐 :
1
𝑡𝑐 =
√𝐺𝜌
dove 𝐺 è la costante di gravitazione universale e 𝜌 è la densità del gas nella regione.
Quando il tempo di propagazione del suono risulta minore del tempo di caduta libera, prevalgono le forze di
pressione ed il sistema è stabile; quando accade il contrario la gravità prevale e la regione va incontro ad
un collasso gravitazionale.
Il rapporto tra 𝑡𝑠 e 𝑡𝑐 è dato da:
𝑡𝑠 𝑅√𝐺𝜌
=
𝑡𝑐 𝑐𝑠
essendo:
𝑐𝑠
𝑅𝑗 =
√𝐺𝜌
risulta che il rapporto:
𝑡𝑠 𝑅
=
𝑡𝑐 𝑅𝑗
dove 𝑅𝑗 è la lunghezza di Jeans, ossia il raggio critico della nube. Tutte le nebulose che hanno un raggio
maggiore della lunghezza di Jeans sono instabili, cioè soggette a collasso gravitazionale, mentre nebulose con
raggi minori della lunghezza di Jeans sono stabili.
La massa di Jeans (𝑀𝑗 ) non è altro che la massa contenuta in una sfera di raggio 𝑅𝑗 :
4
𝑀𝑗 = ( 𝜋) 𝜌𝑅𝑗3
3
quando la massa della nebulosa è maggiore della massa di Jeans (𝑀 > 𝑀𝑗 ), la nebulosa inizia a collassare.
16
FASE 2 e 3: SPINNING E SCHIACCIAMENTO
17
FASE 4: CONDENSAZIONE
Quando il materiale gassoso del disco si raffredda, vari composti condensano in granuli microscopici (seed =
semi). Per calcolare approssimativamente la variazione di temperatura nella nebulosa si utilizza la seguente
equazione:
631
𝑇(𝑅) =
𝑅 0.77
dove 𝑅 è espresso in 𝑈𝐴.
Se:
- 𝑇 < 2000𝐾 si formano silicati (rocce) e leghe 𝐹𝑒 − 𝑁𝑖;
- 𝑇 < 270𝐾 si formano silicati, composti di carbonio e ghiacci.
Infatti, nel Sistema Solare interno, dove la temperatura della nebulosa era > 400𝐾 si sono formati corpi
composti principalmente da silicati e metalli; nel Sistema Solare esterno, dove 𝑇 < 300𝐾 si sono formati
corpi costituiti da silicati e ghiacci.
I costituenti principali della nebulosa solare sono fondamentalmente quattro:
1. metalli (ferro, nichel e alluminio). La maggior parte dei metalli condensano a 𝑇~1000 − 1600𝐾 e
compongono < 0.2% della massa della nebulosa solare;
2. rocce (silicati). Sono solide a temperature e pressione terrestri ma fondono e/o vaporizzano a
500 < 𝑇 < 1300𝐾 a seconda della tipologia di roccia. I materiali rocciosi compongono ~0.4% della
massa della nebulosa solare;
3. composti dell’idrogeno (metano, ammoniaca ed acqua). Solidificano in ghiaccio a temperature
inferiori ai 150𝐾 e compongono ~1.4% della massa della nebulosa;
4. gas leggeri (𝐻 e 𝐻𝑒). Non condensano mai nella nebulosa e compongono il restante 98% della massa
della nebulosa solare.
Si noti come la capacità di condensazione è inversamente proporzionale all’abbondanza del materiale nella
nebulosa solare.
Di particolare importanza è la frost
line che identifica la particolare
distanza dalla giovane stella
centrale all'interno di una nebulosa
protoplanetaria in cui
la temperatura è sufficientemente
bassa da permettere ai composti
contenenti idrogeno, come l'acqua,
l'ammoniaca e il metano, di
raggiungere lo stato solido. La
posizione della frost line di un
determinato sistema
planetario varia a seconda
della luminosità della stella; attualmente nel sistema solare la frost line si trova a circa 2.7 𝑈𝐴,
tra Marte e Giove, nel mezzo della cintura degli asteroidi.
18
Questa linea costituisce inoltre una linea di demarcazione tra il Sistema Solare interno occupato dai pianeti
terrestri ed il Sistema Solare esterno occupato dai giganti gassosi. Infatti, le dimensioni e la composizione dei
planetesimi dipendono dalla temperatura e dalla distanza dal Sole.
Il Sistema Solare interno si trova all’interno dell’area circoscritta dalla frost line dove soltanto roccia
e metalli possono condensare. Questi materiali risultano essere i principali costituenti dei
planetesimi che si formano in questa zona e costituiscono ~0.6% del materiale disponibile. Per cui i
planetesimi interni crescono lentamente e sono piccoli;
il Sistema Solare esterno si trova oltre la frost line dove possono condensare roccia, metalli e ghiacci
(materiali di cui sono composti i planetesimi che si formano in questa zona). Questi materiali
costituiscono ~2% del materiale disponibile per cui i planetesimi esterni si accrescono molto più
rapidamente e sono più grandi di quelli interni.
Densità (g/cm3)
3.91
Sole dei corpi del Sistema Solare. I pianeti rocciosi hanno una 4
densità media di circa 3 − 6 𝑔⁄𝑐𝑚3 che suggerisce che sono 3
composti principalmente da roccia e metalli. I pianeti gassosi, 2 1.64
1.33 1.32
invece, hanno densità media molto più bassa (1 − 2 𝑔⁄𝑐𝑚3) 0.69
1
che suggerisce che sono composti principalmente da ghiacci e
gas catturati. 0
FASE 5: ACCREZIONE
La componente verticale della gravità della stella (𝑔𝑧 )* spinge i materiali appena condensati ad accumularsi
nel piano centrale del disco protoplanetario (𝑧 = 0).
𝐺𝑀𝑆
𝑔𝑧 = 𝑧
𝑟𝑆3
Qui le particelle solide si accrescono per mutua collisione tramite il processo di accrezione (il processo di
formazione dei pianeti). L’accrezione consiste in due fasi:
1. accrezione geometrica;
2. accrezione gravitazionale.
19
L’accrezione geometrica non è altro che la semplice la semplice crescita dei granuli tramite impatti.
Si considerino 𝑛 granuli sferici aventi raggio 𝑟 e sezione 𝜎 = 𝜋𝑟 2 che si muovono ad una velocità 𝑣. Il volume
spazzato da queste particelle in un tempo 𝑡 è dato da:
𝑉 = 𝜎𝑣𝑡
dove 𝑡 è in secondi.
Il numero di particelle incontrate nel tempo 𝑡 è:
𝑁 = 𝑛𝑉 = 𝜎𝑣𝑡𝑛 = 𝜋𝑟 2 𝑣𝑡𝑛
In un dato periodo di tempo, la massa della particella aumenta come:
∆𝑚
= 𝑚0 + 𝑁𝑚0 = 𝑚0 (1 + 𝜋𝑟 2 𝑣𝑛)
∆𝑡
dove 𝑚0 è la massa del granulo.
Quindi la massa del granulo aumenta come 𝑟 2 per accrezione geometrica.
Questo processo genera corpi chiamati planetesimi che una volta raggiunte dimensioni chilometriche (in
qualche milione di anni) smettono di crescere per accrezione geometrica. Entra in gioco, a questo punto,
l’accrezione gravitazionale per la quale la massa e le dimensioni del planetesimi aumentano fino a diventare
protopianeti.
Una volta che il planetesimo ha raggiunto dimensioni chilometriche la sua forza di gravità inizia a diventare
importante, per cui inizia a dominare l’accrezione gravitazionale su quella geometrica.
Si consideri un granulo test che si muove ad una velocità iniziale 𝑣𝑖 e che si trova ad una distanza verticale 𝑠
da un granulo “seed”. Si supponga, poi, che la particella test incontri il “seed” ad una velocità finale 𝑣𝑓 . Il
valore di 𝑠 per il quale il granulo “seed” riesce a catturare il granulo test è dato dalla relazione:
2𝐺𝑀𝑟
𝑠2 = 𝑟2 +
𝑣𝑖2
dove 𝐺 = 6,67 × 10−11 𝑁𝑚2 ⁄𝑘𝑔2 è la costante di gravitazione universale e 𝑀 è la massa della particella
“seed”.
Siccome 𝑀~𝑟 3 → 𝑠 2 ~𝑟 4 .
In un dato periodo di tempo, la massa della particella aumenta come:
∆𝑚
= 𝑚0 (1 + 𝜋𝑠 2 𝑣𝑛)
∆𝑡
Siccome 𝑠 2 ~𝑟 4 → ∆𝑚⁄∆𝑡 → 𝑟 4 .
20
Una volta che i granuli sono diventati abbastanza grandi sicché la gravità diventa importante, il tasso di
accrescimento aumenta notevolmente. Se si raggiunge una dimensione critica, il planetesimo si accrescerà
rapidamente (oggetti meno massivi cresceranno più lentamente).
L’equazione:
2𝐺𝑀𝑟
𝑠2 = 𝑟2 +
𝑣𝑖2
può essere scritta anche come:
2𝐺𝑀
𝑠 2 = 𝑟 2 (1 + )
𝑟𝑣𝑖2
Essendo:
2𝐺𝑀
𝑣𝑒𝑠𝑐 = √
𝑟
l'equazione diventa:
1
2 2
𝑣𝑒𝑠𝑐
𝑠 = 𝑟 (1 + 2 )
𝑣𝑖
Questo valore rappresenta la sezione gravitazionale, che è ben più grande della sezione geometrica.
Per questi processi si formano planetesimi di dimensioni chilometriche in circa un milione di anni.
Ovviamente, più grande è un oggetto maggiore sarà la sua forza di gravità, quindi potrà attrarre altri oggetti
ed accrescersi.
Non solo il planetesimo più grande cresce più velocemente, ma il planetesimi più piccoli verranno
rapidamente distrutti da rapide collisioni che li trasformeranno in frammenti più piccoli. Quindi,
generalmente, un solo grande oggetto domina una determinata regione.
21
Sintetizzando, l’accrezione si svolge come segue:
Accrezione Accrezione
Planetesimi
geometrica gravitazionale
Le fasi finali della formazione di un pianeta roccioso sono piuttosto violente, per cui protopianeti delle
dimensioni di Marte possono collidere per formare pianeti come la Terra e Venere (~9𝑀𝑀𝑎𝑟𝑡𝑒 ).
I pianeti, come già detto, si dividono in:
Pianeti Interni:
- si formano lentamente a causa delle basse percentuali di roccia e metalli nella nebulosa
solare;
- il tasso di accrescimento per accrezione geometrica e gravitazionale è basso;
- nel frattempo che si formano i planetesimi interni cosicché la loro gravità diventi importante,
gran parte della nebulosa è stata spazzata via dal vento solare;
- quindi non è possibile catturare gas nebulari per formare un’atmosfera.
Pianeti Esterni:
- si formano meno violentemente;
- la disponibilità di ghiaccio a > 3𝑈𝐴 di distanza dal Sole permette a questi corpi di crescere
molto più velocemente dei pianeti interni;
- si forma così un nucleo di roccia e ghiaccio di ~10𝑀𝑇 ;
- la gravità di questi nuclei è tale da ripulire la propria orbita da polveri e frammenti e di
catturare 𝐻 e 𝐻𝑒 dal disco solare formando la spessa atmosfera di questi corpi;
- in circa 10 milioni di anni, Giove e Saturno hanno catturato enormi quantità di gas, mentre
Urano e Nettuno, che sono cresciuti più lentamente ne hanno accumulato di meno.
22
Alla fine di questo processo restano solo detriti e piccoli oggetti che si accumulano in tre regioni:
1. la fascia degli asteroidi;
2. la fascia di Kuiper;
3. la nube di Oort.
La fascia degli asteroidi può essere considerata come il cimitero dei planetesimi. La massa totale di questa
fascia è di ~5 × 1021 𝑘𝑔 (1/15 della massa della Luna). I corpi di questa fascia non hanno formato un pianeta
a causa della rapida formazione ed immensa massa e gravità di Giove che è migrato verso il Sole aumentando
le collisioni tra gli asteroidi non permettendo, quindi, la formazione di un pianeta. Durante la sua migrazione
verso il Sole, Giove (che è in risonanza 1:2 con Saturno) causa una pioggia di corpi verso il Sistema Solare
interno (l’Intenso Bombardamento Tardivo).
Precedentemente, Nettuno è migrato verso l’esterno (spostandosi dalla sua posizione originaria di ~7𝑈𝐴).
In questo processo cattura diversi oggetti della fascia di Kuiper ed una luna, Tritone, e allontana altri oggetti
verso il Sistema Solare interno che Giove poi spedirà nello spazio interstellare o nella nube di Oort. Tutti
questi processi permetteranno poi a Giove di migrare verso l’interno.
La nube di Oort, invece, è composta da corpi ghiacciati che si sono formati nelle vicinanze dei giganti gassosi,
la cui forza gravitazionale (in particolare Giove) li ha espulsi su orbite molto distanti.
23
La teoria nebulare può essere così sintetizzata:
1. una grande nube molecolare collassa formando un disco protoplanetario al cui centro si accende il
Sole. La temperatura diminuisce all’aumentare della distanza dal Sole permettendo ai vari materiali
di condensare;
2. i granuli si accrescono per accrezione geometrica a formare planetesimi chilometrici;
3. i planetesimi crescono velocemente per accrezione gravitazionale formando i protopianeti (che sono
più grandi laddove il ghiaccio d’acqua è stabile);
4. i nuclei dei pianeti più grandi catturano i gas dal disco protoplanetario;
5. i protopianeti rimanenti collidono e si uniscono.
24
METEORITI
25
Come si formano le varie classi di meteoriti?
C. Oppure viene riscaldato fino al punto di fusione del ferro metallico che,
una volta fuso, si accumula verso il centro del corpo a formare un nucleo
o diversi accumuli di metallo;
Le meteoriti più piccole sono chiamate micrometeoriti o polvere cosmica. Quando la Terra attraversa
un’area nella quale è concentrata tale polvere cosmica, queste particelle microscopiche quando entrano
nell’atmosfera terrestre bruciano producendo uno sciame meteoritico. Durante la sua orbita intorno al
Sole, la Terra “raccoglie” circa 10˙000 𝑡 di materiale meteoritico. In particolare, si stima che più di 7˙000
meteoriti che pesano più di 100𝑔 ciascuno raggiungono la superficie terrestre ogni anno (circa 20 al
giorno).
Le meteoriti che viaggiano a grandi velocità nell’atmosfera terrestre possono sviluppare forme particolari.
Dal momento che le meteoriti non sono dotate di uno scudo per dissipare il calore prodotto dall’attrito con
l’atmosfera terrestre, sviluppano una sottile crosta di fusione costituita principalmente da vetro. Si stima che
circa il 30 – 60% della massa delle meteoriti venga persa per i processi di fusione ed ablazione che
avvengono durante l’attraversamento dell’atmosfera terrestre.
26
Le meteoriti non contengono nessun elemento che non sia già presente nelle rocce terrestri, ma talvolta essi
sono combinati in modo da formare composti inusuali. La maggioranza delle mineralogie delle meteoriti sono
familiari ai geologi. Infatti, la maggior parte di questi minerali sono olivina, pirosseni, plagioclasio e magnetite
che sono estremamente comuni sia nelle meteoriti che nelle rocce terrestri, mentre leghe Fe-Ni come
kamacite e taenite sono comuni nelle meteoriti ma estremamente rare nelle rocce terrestri.
La massima velocità raggiunta da qualsiasi meteoroide che orbita nel Sistema Solare è di 42 𝑘𝑚/𝑠, perché
oggetti con velocità maggiore non viaggerebbero su un’orbita ellittica (chiusa).
CONDRITI
Esistono due diversi tipi di matrice che cementano le condrule ed altri componenti insieme:
1. il primo comprende minerali silicatici come olivina, pirosseni, solfuri, ossidi e minerali argillosi;
2. il secondo contiene grafite, ossido di ferro e magnetite.
Le componenti delle condriti più frequentemente studiate sono le cosiddette CAI (inclusioni Calcio-
Alluminose): inclusioni di colore chiaro che si presentano in varie forme, la più comune è una struttura
concentrica costituita da vari livelli a composizione diversa. Questi minerali cristallizzano ad alte
temperature, per questo si pensa che questi minerali siano i primi a formarsi nelle condriti. L’aggregazione
di tutti questi materiali prende il nome di accrezione.
27
La composizione chimica delle condriti è
incredibilmente simile a quella del Sistema Solare (e
quindi del Sole), fatta eccezione per gli elementi più
volatili (𝐻, 𝐻𝑒, 𝐶, 𝑁 e 𝑂) che sono decisamente più
abbondanti nel Sole. Nella maggior parte delle
condizioni questi elementi volatili esistono
principalmente in forma gassosa. Quindi le condriti
possono essere considerate come la componente
non-volatile del Sole.
In base alla composizione chimica è possibile suddividere le condriti in tre diverse classi chimiche:
Le condriti ordinarie (condriti O) rappresentano più del 85% delle condriti raccolte. La composizione
mineralogica di questa classe di condriti è dominata da olivina, ortopirosseno e una certa percentuale di
lega Fe-Ni più o meno ossidata. In base alla composizione chimica ed al contenuto in metalli, le condriti
ordinarie vengono suddivise in tre gruppi: H (alto contenuto in metalli), L (basso contenuto in metalli) e LL
(bassissimo contenuto in metalli).
Le condriti ad enstatite (condriti E) sono meteoriti molto rare che rappresentano circa il 2% delle meteoriti
raccolte. Queste condriti sono tra le rocce più ridotte che si conoscano, avendo la maggior parte del loro
ferro in forma metallica o come solfuro, piuttosto che come ossido. Esse sono ricche in enstatite (da cui il
nome). In base ad analisi spettrali è stato suggerito che l’asteroide Psyche potrebbe essere il parent body di
queste meteoriti.
Una delle principali differenze tra queste classi di condriti è che sembra che esse si siano formate a
temperature differenti. Quelle che si sono formate a basse temperature, le condriti carbonacee,
contengono alte percentuali di elementi volatili. Quelle che, invece, si sono formate a più alte temperature
(condriti ad enstatite ed ordinarie) sono impoverite in elementi volatili.
Un’altra importante differenza tra le tre classi è lo stato di ossidazione. L’ossidazione causa la combinazione
degli atomi di ferro con l’ossigeno. La maggior parte del ferro nelle condriti carbonacee è ossidato ed è
28
combinato con l’ossigeno a formare ossidi e silicati. Il ferro nelle condriti ordinarie è ridotto e si trova in
forma di granuli metallici, mentre il ferro nelle condriti ad enstatite è ridotto e si ritrova in forma metallica.
Una ulteriore suddivisione delle condriti può essere eseguita considerando il loro grado metamorfico.
Infatti, in base ai cambiamenti mineralogici e tessiturali le condriti possono essere classificate in sette
gruppi.
I gruppi da 1 a 2 rappresentano condriti che hanno subito un’alterazione soltanto da parte di fluidi, mentre
i gruppi da 4 a 7 rappresentano condriti che hanno subito metamorfismo termico. Per cui è possibile
affermare che i gruppi da 1 a 2 sono fortemente disequilibrati, a causa della mancanza di metamorfismo
termico, mentre i gruppi da 4 a 7 sono equilibrati grazie a processi termici. Di particolare importanza è il
gruppo 3 che rappresenta un gruppo di condriti che non ha subito nessun tipo di metamorfismo (né
termico né da parte di fluidi).
Ad una prima occhiata potrebbe sembrare che soltanto le condriti ordinare e le condriti ad enstatite
abbiano subito metamorfismo, mentre le condriti carbonacee no. Ma, in realtà, non è così, perché le
condriti carbonacee hanno subito alterazione da parte di fluidi acquosi che circolavano al loro interno a
basse temperature. Infatti, la loro matrice originaria (composta da olivina, pirosseno ed altri minerali) è
stata trasformata in un insieme di minerali acquosi, i fillosilicati (argille).
La formazione delle condriti è probabilmente avvenuta in un susseguirsi di complessi passaggi che, ad oggi,
sono ancora poco compresi. Una possibile teoria è che i granuli interstellari sono stati riscaldati da un
qualche processo avvenuto nella nebulosa solare che ha portato alla formazione di frammenti fusi o solidi
refrattari dai quali sono stati rimossi gli elementi volatili. Durante un successivo raffreddamento, gli
elementi volatili e altri gas nebulari sono condensati a temperature moderate per formare granuli solidi
molto fini. Questi due tipi di materiali si sono poi mescolati ed aggregati a formare le condriti.
29
La natura primitiva delle condriti fa subito intuire che esse siano meteoriti scampate a processi geologici, il
che fa escludere dalla lista dei possibili parent bodies i pianeti. Quindi, le condriti potrebbero derivare da
corpi più piccoli, quali comete ed asteroidi.
Dallo studio delle orbite di alcune condriti è stato scoperto che il loro afelio ricadeva tra le orbite di Marte e
Giove, ossia nella fascia degli asteroidi. Per cui, con buona probabilità, le condriti derivano dagli asteroidi.
Questa teoria coincide con ciò che si conosce delle condriti, cioè che sono corpi poco differenziati. Allo
stesso modo, gli asteroidi sono anch’essi poco differenziati grazie a Giove che a causa del suo enorme
campo gravitazionale non ha permesso ai planetesimi di assemblarsi a formare un pianeta, preservando
così le condriti nel loro stato primordiale.
30
Studi di spettrometria in riflettanza di alcune meteoriti forniscono un’importante punto di partenza per la
comparazione con i dati degli asteroidi. Infatti, i dati di albedo e riflettività rappresentano la base per la
classificazione degli asteroidi.
La mineralogia degli asteroidi di tipo C è dominata da silicati e carbonio dimostrato dallo spettro piatto e
dai bassi valori di albedo. Questi planetesimi scuri potrebbero essere la sorgente delle condriti carbonacee.
Gli asteroidi di tipo D hanno albedo molto basse, probabilmente a causa della presenza di materia organica,
e anch’essi possono essere carbonacei.
Gli asteroidi di tipo S hanno albedo maggiori e bande di assorbimento più pronunciate, indicando la
presenza di olivina, pirosseno e lega Fe-Ni.
Gli asteroidi di tipo E ed R hanno generalmente spettri senza caratteristiche ed albedo molto elevate,
caratteristiche coerenti con le condriti ad enstatite che sono ricche in metalli.
Le varie classi di asteroidi non sono distribuite uniformemente nella fascia degli asteroidi: nella regione
interna della fascia sono localizzati la maggior parte degli asteroidi di tipo R ed E, seguiti verso l’esterno
dagli asteroidi di tipo S, C e D. Questo andamento rispecchia le proprietà delle condriti: le condriti ad
enstatite si trovano in stato ridotto rispetto alle condriti ordinarie, per cui si sarebbero formate ad alte
temperature nella nebulosa, cioè vicino al Sole. Le condriti carbonacee, invece, contengono alte percentuali
di elementi volatili e sono più ossidate, per cui è lecito pensare che si siano formate nelle regioni più fredde
della nebulosa, cioè lontano dal Sole.
31
Gli oggetti nella fascia degli asteroidi hanno, ovviamente, dimensioni diverse:
Per cui, si può pensare che il parent body delle condriti carbonacee sia più frammentato. Questa è una
conclusione logica perché le condriti carbonacee hanno una resistenza alla rottura minore rispetto alle
condriti ordinarie.
ACONDRITI
Il termine acondrite deriva dal greco achondros che significa, appunto, senza condrule, una caratteristica che
la distingue dalle condriti.
Acondriti
Meteoriti Meteoriti
Meteoriti Ureiliti Aubriti Angriti
HED SNC
Lunari
32
Per comprendere appieno le acondriti (origine, formazione, evoluzione, ecc…) bisogna concentrarsi su tre
argomenti principali:
1. vita di un pianeta o planetesimo che dà informazioni sulle dimensioni del parent body;
2. genesi dei magmi e rocce derivate che danno informazioni sulla dinamica del sistema magmatico e
sulle relazioni magma-roccia;
3. elementi delle terre rare (REE), utilissime per comprendere le relazioni che intercorrono tra la roccia-
campione, le condriti e la sorgente e dà informazioni utili sui processi di differenziazione.
La vita di un pianeta o planetesimo si basa sul periodo di tempo in cui un corpo può sostenere il calore
interno generato dal decadimento radioattivo dei radionuclidi (ad esempio, 26Al, 238U, 235U, 232Th, 40K) che
si riflette nella durata della sua attività ignea.
Le rocce sono cattivi conduttori di calore per cui agiscono come isolanti termici trattenendo calore.
Ovviamente più spessi sono gli strati di roccia più a lungo il calore può essere ritenuto all’interno, ne consegue
che nei corpi di piccole dimensioni il calore viene dissipato velocemente, i corpi di grandi dimensioni, invece,
sono in grado di sostenere calore interno anche per miliardi di anni.
Il calore interno di un pianeta (calore radiogenico + calore primordiale) è sufficiente a fondere le rocce, ma
la temperatura non è l’unico fattore che causa la fusione delle rocce: un altro fattore che determina la fusione
delle rocce è la pressione. Infatti un aumento della pressione di confinamento causa l’aumento della
temperatura di fusione delle rocce.
1. se la temperatura aumenta, a pressione costante, fino a raggiungere il punto di fusione del materiale
(Hot-Spot);
2. se la pressione sulle rocce diminuisce, a temperatura costante (Dorsali Medio-Oceaniche).
Le rocce, però, sono composte da diversi minerali che hanno diverse temperature di fusione: all’aumentare
della temperatura, o al diminuire della pressione, i primi minerali a fondere sono quelli con la più bassa
temperatura di fusione. Si parla in questo caso di fusione parziale.
Una volta che il magma si è formato, essendo questo meno denso delle rocce circostanti, inizia a risalire verso
la superficie per differenza di densità. Esso poi solidifica (sia durante la risalita che durante l’effusione)
formando due tipi di roccia ignea:
33
Le rocce effusive, essendo entrate in contatto l’atmosfera o
l’acqua superficiale si sono raffreddate molto rapidamente e
non hanno avuto il tempo di formare cristalli di minerali ben
definiti. L’immagine a lato rappresenta la sezione sottile di un
basalto (tipica roccia effusiva), si nota che i cristalli sono piccoli
e senza una forma ben definita.
34
Le terre rare (REE) sono elementi in traccia, che si 100
ritrovano nelle rocce in 𝑝𝑝𝑚. Questi elementi sono
utilizzati per costruire diagrammi utili per lo studio
SAMPLE/CHONDRITE
dei processi di differenziazione nei quali le REE sono
ordinate in base al numero atomico (crescente). Le
abbondanze delle REE sono normalizzate a quelle 10
condritiche essendo questi materiali primordiali (i
valori vengono rappresentati su scala logaritmica).
Qualsiasi deviazione dal pattern delle condriti (linea
orizzontale) indica che la roccia ha subito processi di
differenziazione. Per esempio, si nota che la roccia 1
La Ce Nd Sm Eu Gd Dy Er Yb
rappresentata dalla linea blu ha subito pochissima
differenziazione, mentre la roccia rappresentata Ordinary Shergottite
dalla linea rossa è molto differenziata.
Durante la cristallizzazione le REE possono sostituire altri elementi (più abbondanti) nel reticolo cristallino
dei minerali. Tra essi, di fondamentale importanza è l’Eu2+ che può sostituire il Ca2+ nel plagioclasio dando
luogo ad una anomalia positiva in 𝐸𝑢.
ACONDRITI EHD
Meteoriti EHD
Eucrite Diogenite Howardite
Le eucriti sono meteoriti simili ai basalti terrestri, come si evince dalle due sezioni sottili in basso.
35
Nonostante questa similitudine, vi sono alcune differenze mineralogiche:
Se la mineralogia è diversa, significa che la sorgete delle eucriti è diversa da quella dei basalti (mantello
terrestre).
Le howarditi, invece, sono brecce acondritiche contenenti un mix frammenti eucritici e diogenitici (a causa,
probabilmente, di impatti meteoritici). Esse hanno una composizione chimica e tessitura intermedia tra le
eucriti e le diogeniti. Si nota infatti la coesistenza di cristalli grandi e piccoli.
36
La datazione di molte eucriti e diogeniti con il sistema 87Rb − 86Sr (ed altri) restituisce età tra 4.5 e 4.6 Ga.
Le età più recenti (grafico sotto) indicano che gli orologi radiometrici sono stati resettati da eventi
metamorfici.
0.701
~4.34 Ga
y = 0.0637x + 0.699
0.7
⁸⁷Sr/⁸⁶Sr
0.699
0.698
0 0.005 0.01 0.015 0.02 0.025
⁸⁷Rb/⁸⁶Sr
37
Come si è formato il parent body delle meteoriti EHD?
Sono stati effettuati studi di spettrometria in riflettanza delle eucriti che mostrano un forte assorbimento a
circa 0.9 micrometri (dovuto al pirosseno).
Uno studio analogo dell’asteroide Vesta ha restituito lo stesso risultato. Ciò implica che Vesta possiede una
superficie eucritica.
38
Gli stessi studi hanno messo in evidenza che su Vesta sono presenti crateri da impatto che espongono la
diogenite. La presenza di olivin-diogenite conferma la struttura ipotizzata in precedenza (le howarditi non
sono rappresentate perché, essendo una via di mezzo tra le eucriti e le diogeniti non sono visibili con questa
risoluzione).
Però non è detto che proprio Vesta sia il parent body di queste meteoriti. Infatti, Vesta è il 3° asteroide più
grande, preceduto da Cerere e Pallade. Questi due asteroidi, però, hanno una composizione condritica.
Quindi non possono essere i parent body delle meteoriti HED. Risulta, per esclusione, che Vesta sia il parent
body di queste meteoriti.
METEORITI LUNARI
Durante una spedizione glaciologica nel 1982 nei pressi di Allan Hills (Antartide), alcuni scienziati americani
trovarono una meteorite: AH A81005, classificata inizialmente come breccia acondritica.
Questa breccia presentava clasti chiari anortositici (90% pl, 10% ol and/or px) e clasti scuri basaltici immersi
in una matrice vetrosa. In più conteneva quantità apprezzabili di He, Ne, Ar, Kr e Xe impiantati dal vento
solare nella meteorite mentre era ancora parte del suo parent body. Tutte queste componenti identificano
questa meteorite come una breccia regolitica.
Gli scienziati dello Smithsonian Institute (WA) notarono che ‘‘alcuni clasti somigliavano alle anortositi lunari’’.
E si iniziò a pensare che la Luna fosse il parent body di questa meteorite.
39
La Luna è l’unico satellite naturale (noto) della Terra. La prima
caratteristica che salta all’occhio è il suo dicroismo. È infatti
caratterizzata da aree chiare e scure. Le prime sono le highlands
costituite da rilievi e terreni accidentati, le seconde sono i maria
costituite da terreni meno impervi.
Per comprendere la formazione delle highlands e dei maria consideriamo l’evoluzione lunare.
1 2 3
1. fase dell’oceano di magma da questo oceano di magma si è frazionato il plagioclasio che essendo
meno denso è risalito verso la superficie, solidificandosi e formando una crosta a composizione
anortositica;
2. dopo la solidificazione, le highlands sono state interessate da nuovi impulsi di magma che hanno
formato plutoni (KREEP – K, REE, P) impoveriti in plagioclasio e pirosseno;
3. durente il LHB gli impatti hanno scavato enormi bacini circolari che sono stati riempiti da magma
basaltico formando i maria.
Come suggerito dallo schema sopra, i basalti dei maria si sono formati per fusione parziale delle cumuliti
(ultima immagine, strato verde) che a loro volta si sono
formate sul fondo dell’oceano di magma come 100
complementare della crosta anortositica (seconda
SAMPLE/CHONDRITE
immagine).
40
METEORITI SNC
Le shergottiti sono meteoriti basaltiche sorprendentemente simili ai basalti terrestri ed è l’unico gruppo di
acondriti noto contenente minerali idrati.
41
Le shergottiti hanno una storia geologica complessa. Per comprenderla bisogna considerare tre elementi:
1. studi geocronologici (Sm-Nd e Rb-Sr) riportano due età diverse, 1.3 Ga e 180ka rispettivamente,
apparentemente non correlabili;
2. metamorfismo da shock testimoniato da:
a. presenza di polimorfi di ol, px e pl che si formano solo a
pressioni di almeno 30Gpa;
b. presenza di vene riempite di roccia fusa e ricristallizzata
(vetrosa) che si forma a pressioni di circa 45GPa;
3. l’andamento della curva REE (in basso) delle shergottiti (marrone) è
molto diverso da quello delle eucriti (rosso) per cui le shergottiti non
si formano per fusione parziale di materiale condritico.
Modelling avanzati del pattern delle shergottiti hanno messo in luce
che può essere prodotto solo da un susseguirsi di fasi fusione-
cristallizzazione.
100
SAMPLE/CHONDRITE
10
1
La Ce Nd Sm Eu Gd Dy Er Yb
Eucrite Shergottite
Quindi combinando questi tre elementi è possibile delineare la storia geologica delle shergottiti:
42
Le Nakhliti e Chassigniti sono considerate le “sorelle” delle shergottiti, cioè provengono dallo stesso parent
body.
Entrambe hanno composizione cumulitica:
Dai dati analizzati, il parent body risulta essere un corpo geologicamente complesso a composizione non-
condritica che ha iniziato a differenziarsi circa 4.5Ga fa. Esso è stato sede di una complessa sequenza di
attività ignee che si sono prolungate almeno fino a 1.3Ga fa. Tale complessità geologica non può essere
attribuita ad un asteroide perché l’attività ignea su di essi, se si è avuta, è cessata poco dopo la loro
formazione.
1. l’arricchimento delle HREE rispetto alle LREE è indice della presenza di granato, un minerale che si
forma (ed è stabile) ad alte pressioni. Nei corpi di piccole dimensioni (ad esempio asteroidi) le
pressioni non sono sufficienti (nemmeno nel centro di massa);
100
SAMPLE/CHONDRITE
10
1
La Ce Nd Sm Eu Gd Dy Er Yb
Shergottite
43
Da ciò si deduce che il parent body delle meteoriti SNC è un pianeta che deve essere di piccole dimensioni
per facilitare la rimozione di materiale dal suo campo di gravità e doveva essere geologicamente “vivo”
almeno 1.3Ga.
44
Pur facendo parte del gruppo SNC non rientra in nessuna delle tre categorie. È stato quindi classificato come
Ortopirossenite Marziana (Martian OPX). Essa ha un’età di circa 4.51Ga (Sm-Nd) che la rende più antica
meteorite marziana.
Interessante è la presenza di carbonati che si presentano come concrezioni nelle zone fratturate o come
globuli.
Tra le due formazioni la prima è stata oggetto di molti studi che hanno rivelato che il carbonato è precipitato
nelle fratture da fluidi acquosi ricchi in 𝐶𝑂2 . Ciò significa che questa roccia si è formata in un periodo in cui
su Marte scorreva acqua allo stato liquido.
UREILITI
La mattina del 10/09/1886 diverse meteoriti impattarono la superficie terrestre nei pressi di Novo Urei
(Russia). Una di queste rocce è stata recuperata dagli abitanti del luogo che l’hanno frantumata e poi…
mangiata!
In sezione sottile si nota la granulometria grossolana che fa pensare ad una loro genesi intrusiva o cumulitica
(il dibattito è ancora aperto).
45
Le ureiliti hanno subito un intenso metamorfismo da shock (a causa di impatti meteoritici) che ha causato la
trasformazione della grafite in diamante. Qual è la sorgente del carbonio nelle ureiliti?
Probabilmente, l’impatto meteoritico che ha causato la trasformazione del carbonio in diamante può aver
causato anche l’iniezione della matrice carbonacea.
La composizione chimica delle ureiliti è molto strana. L’andamento delle terre rare ha una forma a V, ciò
significa che LREE e HREE sono arricchite. È quasi impossibile che questo pattern sia stato
causato solo da processi ignei. Infatti, il mescolamento di materiali arricchiti in LREE e HREE in seguito ad un
impatto meteoritico può spiegare questo pattern.
Delle ureiliti sappiamo ben poco. Oltre alla loro composizione ed al fatto che hanno subito metamorfismo da
shock non sappiamo più nulla.
Assumiamo che il parent body sia un asteroide (dal momento che quasi tutti i meteoriti derivano da asteroidi,
è lecito pensare lo stesso per le ureiliti).
46
SIDERITI E SIDEROLITI
Una siderite è un tipo di meteorite composto prevalentemente da una lega di ferro e nichel. Si ipotizza che
queste meteoriti siano frammenti del nucleo di antichi asteroidi, più grandi e differenziati, frantumati
da impatti cosmici. Il calore rilasciato dal decadimento radioattivo dei nuclidi a breve vita è considerato una
causa plausibile per la fusione e la differenziazione di questi corpi progenitori. Infatti, la fusione parziale di
materiale condritico negli asteroidi produce metallo fuso che, a causa della sua maggiore densità, si allontana
dal fuso silicatico. In presenza di un campo di gravità, il liquido metallico si allontana dalle rocce e si accumula
verso il centro del corpo formando un nucleo.
Le leghe Fe-Ni che compongono la maggior parte delle meteoriti metalliche sono di due tipi:
Per le meteoriti ferrose sono utilizzati due tipi di classificazione, quella classica strutturale e quella più
moderna di tipo chimico.
1. esaedriti (H) sideriti contenenti ferro e < 6% di nichel (contengono solo kamacite);
2. ottaedriti (O) sideriti contenenti ferro e 6 − 17% di nichel. Queste meteoriti contengono sia
kamacite che taenite e formano le cosiddette strutture di Widmanstatten, delle lamelle dal cui
spessore è possibile suddividere le ottaedriti in cinque sottogruppi:
a. molto grezze (Ogg);
b. grezze (Og);
c. medie (Om);
d. fini (Of);
e. molto fini (Off).
3. le ottaedriti molto fini gradano in meteoriti che non presentano strutture visibili ed hanno un alto
contenuto in nichel, le atassiti (D);
4. le meteoriti ferrose che non rientrano in nessuna delle tre categorie precedenti vengono classificate
come anomale (Anom).
La classificazione chimica, basata sulle proporzioni degli elementi in tracce come gallio, germanio e iridio,
divide le meteoriti ferrose in quattro classi (da I a IV). Ognuna di queste classi è ulteriormente suddivisa in
sottoclassi indicate con le lettere da A ad F. In seguito al ritrovamento di alcune meteoriti che
rappresentavano campioni di transizione tra un sottogruppo e l’altro, sono stati istituiti nuovi sottogruppi
indicati da una combinazione di lettere (ad esempio IIAB).
47
Quando le concentrazioni di gallio, germanio ed iridio vengono plottate in relazione al nichel su scala
logaritmica generano dei cluster che racchiudono le varie classi e sottoclassi di meteoriti ferrose. Le meteoriti
che non rientrano in nessun cluster vengono chiamate anomale.
Le meteoriti di ciascun gruppo chimico rientrano, generalmente, in un intervallo limitato di classi strutturali:
48
La componente silicatica (rocciosa) delle pallasiti è composta principalmente da olivina ricca in magnesio
mentre la componente metallica è composta da nichel, germanio e gallio. In queste meteoriti la proporzione
roccia-metallo è di 2:1.
Le sideriti e le sideroliti sono campioni degli scheletri metallici che supportano la componente rocciosa degli
asteroidi. Quindi i parent bodies di queste meteoriti sono nuclei dai quali è stata strappata via la componente
rocciosa. I diversi gruppi di meteoriti rappresentano una diversa categoria chimica e quindi un differente
nucleo. Però, all’interno di uno stesso gruppo possono verificarsi delle variazioni nel tasso di raffreddamento
delle singole meteoriti. Queste sono variazioni inaspettate perché si sa che i metalli sono eccellenti conduttori
di calore per cui il nucleo si sarebbe dovuto raffreddare uniformemente.
- sia piccole variazioni nel tasso di raffreddamento (come le meteoriti del gruppo IIIAB che mostrano
una variazione da 1 a 10°C per milione di anni);
- sia grandi variazioni (come le meteoriti del gruppo IIC che mostrano variazioni da 15 a 250°C per
milione di anni).
Questi dati hanno portato all’idea che non tutte le meteoriti metalliche abbiano formato un nucleo centrale.
Infatti, esse avrebbero potuto essere parte di piccoli cluster metallici dispersi nel parent body ognuno dei
quali con una propria storia di raffreddamento.
eventi di fusione localizzati avrebbero prodotto degli accumuli di metallo liquido troppo piccoli per
unirsi a formare un grande nucleo centrale (b);
un parent body differenziato con un caldo nucleo solido è stato catastroficamente distrutto,
successivamente si è rapidamente riassemblato prima che la parte metallica si sia raffreddata (c);
planetesimi con un nucleo già formato si sono uniti in un oggetto di maggiori dimensioni prima del
completamento del raffreddamento (d).
49
La formazione e l’evoluzione delle mesosideriti prevede il mescolamento di silicati e metalli a formare delle
brecce. Questo processo è ben rappresentato dal caso d (immagine a pagina precedente): i planetesimi che
si uniscono possono essere di vari tipi (alcuni metallici, altri rocciosi, ecc…).
Si pensa, invece, che le pallasiti si siano formate all’interfaccia nucleo-mantello di un corpo. Due sono le
ipotesi che possono spiegare la formazione delle pallasiti:
È molto difficile identificare i parent bodies delle sideriti e sideroliti tramite l’analisi degli spettri. Infatti, questi
spettri sono praticamente senza caratteristiche: a bassa inclinazione, ad alta albedo e senza bande di
assorbimento. L’unica variazione è la diminuzione dell’inclinazione all’aumentare del contenuto in nichel.
50
Solamente una classe di asteroidi mostra questi andamenti, la classe M, e possono rappresentare nuclei
metallici privati del loro involucro roccioso. Variazioni nello spettro osservate in un asteroide di classe S (8
Flora) è stato interpretato come l’evidenza che questi corpi sono differenziati. Anche se gli asteroidi di classe
M ed S sono candidati promettenti come parent bodies delle meteoriti metalliche è complicato determinare
la percentuale di metalli contenuta in essi a causa, appunto, degli spettri senza caratteristiche evidenti.
Probabilmente gli asteroidi di tipo M hanno 10 − 100% di metalli, mentre gli asteroidi di tipo S ne hanno
25 − 80%. Per cui, questi asteroidi risultano essere gli unici candidati al ruolo di parent bodies delle meteoriti
metalliche.
È molto complicato ottenere gli spettri delle sideroliti in laboratorio, dal momento che è virtualmente
impossibile distruggere uniformemente un miscuglio di roccia e metallo. Però, questo materiale è fragile nelle
condizioni di temperatura dello spazio interplanetario e le sue caratteristiche fisiche sarebbero differenti da
quelle dello stesso materiale in un laboratorio sulla Terra. Un buon metodo sarebbe quello di predire
l’aspetto dello spettro semplicemente integrando matematicamente lo spettro di una ottaedrite con quello
dell’olivina (per le pallasiti) o howardite (per le mesosideriti). Con questo metodo sono state trovate diverse
corrispondenze per le mesosideriti: il mix di metalli e silicati sembra essere accidentale e potrebbe essere
avvenuto quando un meteoroide ferroso ha impattato una superficie tipo-Vesta e i due materiali si sono
mescolati in una regolite. Da queste considerazioni può sembrare che Vesta possa essere il parent body delle
mesosideriti. Anche se la frazione silicatica delle mesosideriti è molto simile a quella delle eucriti ci sono
diverse ragioni per pensare che Vesta non è il parent-body delle mesosideriti, infatti dalla mappa spettrale di
Vesta non si riconosce nessuna regione ricca in metallo.
RADIOATTIVITA’
Gli elementi chimici sono costituiti da atomi, che sono particelle consistenti in un nucleo, formato da protoni
e neutroni, ed elettroni. Gli atomi di un dato elemento hanno tutti lo stesso numero di protoni (chiamato
numero atomico, Z), ma possono differire per il numero di neutroni e, dunque, per il numero di massa, che
è determinato dalla somma del numero di neutroni ed il numero di protoni. Gli atomi di uno stesso elemento
che differiscono per il numero di massa sono chiamati “isotopi dell’elemento”.
In natura esistono elementi che sono formati da un singolo isotopo (come il fluoro, il sodio ed il cobalto), ma
la stragrande maggioranza degli elementi conosciuti sono costituiti da almeno due differenti isotopi (fino a
più di otto isotopi). Esistono, in natura, molti isotopi che sono instabili e che tendono ad acquisire lo stato
stabile liberando energia attraverso il decadimento radioattivo. Questi isotopi sono radioattivi e sono
chiamati isotopi radioattivi.
La radioattività è una proprietà del nucleo ed è dovuta ad un eccesso di energia rispetto a quella richiesta per
la stabilità di questi particolari nuclei. Si manifesta con la cessione di parte o tutta l’energia in eccesso sotto
forma di radiazione, per effetto della quale il radionuclide si trasforma in un nuclide differente della stessa
specie chimica, creando così un differente isotopo. Il nuclide prodotto (il cosiddetto “nuclide figlio”) può
essere ancora instabile o stabile.
Ciascun nuclide in natura è caratterizzato da particolari abbondanze relative tra i suoi vari isotopi. La
rappresentazione grafica delle abbondanze isotopiche naturali di ogni nuclide viene detta spettro di massa.
Ogni elemento chimico naturale ha uno spettro di massa unico che lo caratterizza ed identifica in modo
univoco.
51
Esistono diversi meccanismi di decadimento radioattivo, e ciascun nuclide radioattivo può decadere tramite
uno o più di essi:
- decadimento 𝜶;
- decadimento 𝜷;
- cattura elettronica.
DECADIMENTO 𝜶
Con questo meccanismo il radionuclide si trasforma attraverso l’espulsione di una particella – alfa, costituita
da una coppia di protoni ed una coppia di neutroni. Una particella – alfa è equivalente al nucleo di un atomo
di elio a numero di massa 4 ( 42𝐻𝑒).
Conseguenza del decadimento radioattivo per emissione di particelle alfa è la trasformazione del nuclide
padre in un nuclide figlio con numero atomico ed un numero di massa più bassi di due unità e quattro unità
rispettivamente:
𝐴 𝐴−4
𝑍𝑃 → 𝑍−2𝐹 + 42𝐻𝑒(α) + 𝑄
dove:
- 𝑃 è il padre radioattivo;
- 𝐹 è il figlio radiogenico;
4
- 2𝐻𝑒 è la particella alfa;
- 𝑄 è l’energia del decadimento.
DECADIMENTO 𝜷
Riguarda l’emissione di particelle beta, che sono elettroni ed hanno, dunque, una carica negativa. L’elettrone
coinvolto in questo tipo di decadimento radioattivo è un elettrone emesso dal nucleo atomico, dove un
neutrone decade in una coppia protone – elettrone, secondo la reazione:
𝑛 → 𝛽 − + 𝑝+
più un antineutrino elettronico.
Il protone prodotto nella trasformazione resta nel nucleo del nuclide figlio, mentre l’elettrone viene espulso.
Il radionuclide si trasforma così in un nuclide figlio che ha un protone in più rispetto al radionuclide (il numero
atomico, dunque, cresce di una unità) ma che conserva lo stesso numero di massa.
L’energia associata alla particella beta non è costante e può variare da zero ad un valore massimo, che è
quello corrispondente a tutta l’energia disponibile per la trasformazione. Pertanto, le particelle – beta
mostrano uno spettro di energia continuo.
𝑛 → 𝛽 − + 𝑝 + 𝑣̅ + 𝑄
52
dove:
- 𝑛 è il neutrone;
- 𝑝 è il protone;
- 𝛽 − è l’elettrone;
- 𝑣̅ è l’antineutrino;
- 𝑄 è l’energia del decadimento.
CATTURA ELETTRONICA
In questo processo, il nucleo dell’atomo radioattivo strappa un elettrone al guscio degli elettroni a lui più
vicino, che si combina con un protone, trasformandosi in un neutrone secondo la reazione:
𝑒 − + 𝑝+ → 𝑛
Risultato di questo processo è la creazione di un nuclide figlio che conserva la massa del padre ma, avendo
un protone in meno, ha un numero atomico più basso di una unità rispetto al padre. Questo nucleo può
rimanere ancora parzialmente instabile, cioè può essere ancora in uno stato energicamente eccitato. In
questo caso, il nucleo cederà l’eccesso di energia espellendo insieme al neutrone un neutrino:
𝑝 + 𝑒− → 𝑛 + 𝑣 + 𝑄
dove:
- 𝑝 è il protone;
- 𝑛 è il neutrone;
- 𝑒 − è l’elettrone;
- 𝑣 è il neutrino;
- 𝑄 è l’energia del decadimento.
La radioattività è un processo statisticamente casuale. Ciò significa che non possiamo prevedere il preciso
istante in cui un radionuclide decade. Conosciamo, infatti, solo la possibilità che esiste per un nucleo di una
data specie radioattiva di decadere entro un determinato intervallo di tempo. Questa probabilità è la stessa
per tutti i nuclei della stessa specie radioattiva. Essa viene espressa in termini di costante di decadimento
radioattivo (𝜆), e rappresenta una grandezza fisica che definisce la frazione dei nuclei radioattivi che
decadono nell’unità di tempo.
Una grandezza che solitamente viene usata per descrivere il decadimento radioattivo di una sostanza è la
cosiddetta mezza – vita (o tempo di dimezzamento) e viene indicata col simbolo 𝑇 1/2, definisce il tempo
necessario perché il numero iniziale dei nuclei radioattivi si dimezzi. La relazione tra la mezza – vita e la
costante di decadimento radioattivo è data dall’espressione:
ln 2
𝑇 1/2 =
𝜆
La mezza – vita dei vari isotopi radioattivi naturali varia da frazioni di secondo a miliardi di anni.
53
Il decadimento radioattivo può essere espresso da una relazione nota come equazione fondamentale del
decadimento radioattivo:
𝐹 = 𝐹0 + 𝑃(𝑒 𝜆𝑡 − 1)
dove:
La relazione precedente può essere assimilata all’equazione di una retta nella forma:
𝑌 = 𝑏 + 𝑚𝑋
dove:
- 𝑌 = 𝐹;
- 𝑏 = 𝐹0 ;
- 𝑋 = 𝑃;
- 𝑚 = (𝑒 𝜆𝑡 − 1).
Misurando 𝐹 e 𝑃 con uno spettrometro di massa, è possibile determinare indirettamente la quantità 𝐹0 , che
era possibile misurare direttamente, che non sarà altro che l’intercetta della isocrona con l’asse 𝐹.
A questo punto, conoscendo 𝐹 e 𝑃 per misurazione diretta, e avendo stimato per intercetta 𝐹0 e conoscendo
𝜆, è possibile risolvere l’equazione per 𝑡 ed ottenere così la datazione di un campione.
54
SPETTROSCOPIA
I corpi planetari si riscaldano principalmente assorbendo la radiazione solare, e perdono energia irradiando
l’energia nello spazio. Mentre un punto sulla superficie del corpo è illuminato dal Sole solo durante il giorno,
esso irradia energia sia di giorno che di notte. La quantità di energia incidente sul corpo dipende sia dalla
distanza dal Sole sia dall’angolo di elevazione del Sole.
Nel lungo termine, la maggior parte dei corpi planetari irradiano nello spazio la stessa quantità di energia che
assorbono dal Sole.
𝜆𝑣 = 𝑐
Molti corpi emettono uno spettro continuo di radiazione elettromagnetica. L’emissione termica di un corpo
è ben approssimata dalla teoria della radiazione del corpo nero. Un corpo nero è definito come un oggetto
che assorbe tutte le radiazioni che lo colpiscono a tutte le frequenze ed angoli di incidenza (vale a dire che
nessuna radiazione viene riflessa o scatterata). La capacità di un corpo di emettere radiazioni è la stessa di
quella di emettere radiazioni. La radiazione emessa da un corpo nero è descritta dalla legge di Planck:
2𝜋𝑐 2 ℎ 1
𝐼(𝜆, 𝑇) = 5
𝜆 𝑒 ℎ𝑐⁄𝜆𝑘𝑇 − 1
dove:
Tale relazione può essere espressa anche in funzione della frequenza (𝑓) e/o numero d’onda (𝑣):
2𝜋𝑐 2 ℎ 1
𝐼(𝜆, 𝑇) = 5 ℎ𝑐 ⁄𝜆𝑘𝑇
𝜆 𝑒 −1
2𝑓 3 ℎ 1
𝐵(𝑓, 𝑇) = 2 ℎ𝑓 ⁄𝑘𝑇
𝑐 𝑒 −1
2𝜋𝑐 2 𝑣 3
𝐵(𝑣, 𝑇) =
𝑒 ℎ𝑐𝑣⁄𝑘𝑇 − 1
55
Questa relazione conduce direttamente ad altre due relazioni molto importanti:
1. la legge di Wien che consente di individuare per quale lunghezza d'onda 𝜆𝑚𝑎𝑥 (o frequenza 𝑓𝑚𝑎𝑥 ) è
massima l'emissione radiativa di un corpo nero di massa generica posto a una certa temperatura 𝑇:
2.9 × 10−3
𝜆𝑚𝑎𝑥 =
𝑇
𝑓𝑚𝑎𝑥 = 5.88 × 1010 𝑇
si noti che:
0.57𝑐
𝜆𝑚𝑎𝑥 =
𝑓𝑚𝑎𝑥
Si nota, infatti, che all’aumentare della temperatura, aumenta l’energia della radiazione emessa.
56
SPETTROSCOPIA A RIFLETTANZA
La spettroscopia a riflettanza è una tecnica utilizzata per determinare (da remoto) la composizione e le
proprietà fisiche di un target misurando come esso interagisce con la luce solare incidente.
Ciò che si registra è uno spettro caratterizzato dalla presenza di picchi e valli. Le caratteristiche di questo
spettro, ossia la posizione dei picchi e delle valli, la loro intensità, forma, ecc…, possono essere utilizzate per
determinare le caratteristiche chimico-fisiche del target. Particolarmente importanti sono le valli che
rappresentano l’interazione dei fotoni col target. Lo studio dell’intensità (energia) delle valli permettere di
conoscere la composizione del target a livello sia molecolare che atomico.
In questo campo, i fotoni vengono considerati come quanti di energia caratterizzati in termini di frequenza,
lunghezza d’onda o energia. Le varie unità possono essere convertite con l’ausilio della tabella sottostante:
57
INTERAZIONE LUCE-MATERIA
Un fotone può essere riflesso o scatterato da un target, quando penetra nel corpo può essere trasmesso,
rifratto o assorbito e può essere emesso (generalmente l’emissione segue l’assorbimento).
- assorbita, 𝐸𝑎 ;
- riflessa, 𝐸𝑟 ;
- trasmessa, 𝐸𝑡 .
- riflettanza, 𝑟 = 𝐸𝑟 ⁄𝐸𝑖 ;
- trasmittanza, 𝜏 = 𝐸𝑡 ⁄𝐸𝑖 ;
- assorbanza, 𝑎 = 𝐸𝑎 ⁄𝐸𝑖 ;
- emittanza, 𝜀 = 𝑎 = 𝐸𝑎 ⁄𝐸𝑖 .
𝑟+𝑎+𝜏 =1
Tutti i materiali hanno un indice di rifrazione complesso:
𝑚 = 𝑛 − 𝑗𝐾
dove:
58
Quando i fotoni penetrano in un mezzo, vengono assorbiti seguendo la legge di Beer:
𝐼 = 𝐼0 𝑒 −𝑘𝑥
dove:
- 𝐼 è l’intensità osservata;
- 𝐼0 è l’intensità iniziale della luce;
- 𝑘 è il coefficiente di assorbimento;
- 𝑥 è la distanza percorsa dai fotoni nel mezzo.
La riflessione della luce, 𝑅, normalmente incidente su una superficie è descritta dall’equazione di Fresnel:
(𝑛 − 1)2 + 𝐾 2
𝑅=
(𝑛 + 1)2 + 𝐾 2
L’indice di rifrazione complesso mette in luce importanti proprietà dei materiali. All’aumentare della
lunghezza d’onda, l’indice di rifrazione diminuisce fino ad un minimo prima di un rapido aumento. Tale
minimo si ha quando 𝑛 = 1, cui corrisponde una frequenza nota come frequenza di Christensen che risulta
in un minimo nella radiazione riflessa a causa della poca (o nulla) differenza nei valori dell’indice di rifrazione
tra il mezzo in esame e quello sovrastante (aria o vuoto). La frequenza di Christensen si ha spesso a lunghezze
d’onda minori rispetto al valore massimo del coefficiente di estinzione. Questo massimo è note come
reststrahlen band, che si ha quando il coefficiente di assorbimento è massimo.
Tutti i materiali emettono energia a meno che non siano raffreddati a temperature molto basse (0K). La legge
di Kirchoff asserisce che:
𝐸 =1−𝑅
dove: 𝐸 è l’emissività e 𝑅 è la riflettanza.
Quindi è possibile ricavare l’emissività dalla riflettanza se si è in grado di misurare tutta la luce riflessa (a tutti
gli angoli di incidenza).
59
STRUMENTAZIONE
Il principio di funzionamento della spettroscopia a riflettanza è piuttosto semplice: scindere la luce riflessa
nelle sue lunghezze d’onda costituenti e misurarne l’intensità.
1. fonte di luce;
2. un modo per scindere la luce riflessa nelle sue lunghezze d’onda costituenti;
3. un modo per convertire i fotoni in segnale;
4. un modo per ottenere dati quantitativi.
- filtro sintonizzabile;
- filtro Fabry-Perot;
- prisma;
- grating.
Ovviamente, la più conosciuta è la tecnica del prisma. Quando la luce passa attraverso un prisma, ciò che
prima si vedeva come luce bianca (un misto di fotoni a diversa energia) segue diversi percorsi all’interno del
prisma e si vedranno le diverse energie dei fotoni come colori.
È necessario misurare quantitativamente i fotoni provenienti da un target in funzione della lunghezza d’onda
o energia. Ciò può essere eseguito in due modi:
1. range spettrale;
2. larghezza di banda spettrale;
3. campionamento spettrale;
4. rapporto segnale – rumore.
Si noti che nessuno strumento è in grado di misurare tutta la radiazione emessa e riflessa, perché tali
radiazioni si estendono su un ampio range di lunghezze d’onda (e quindi di energia), infatti si utilizzano
strumenti che sono ottimizzati per determinati range di lunghezze d’onda.
60
Gli spettrometri sono in grado di registrare singoli punti spettrali, ma per mappare (spettralmente) un pianeta
c’è bisogno di ben più di un singolo punto. Infatti, uno degli scopi della spettroscopia è quello di realizzare un
cubo iper-spettrale (a), una rappresentazione tridimensionale in cui due dimensioni corrispondono ai punti
sulla superficie, mentre la terza dimensione rappresenta lo spettro di ogni punto sulla superficie (b).
La difficoltà di questo metodo è quella di ottenere la terza dimensione da misurazioni 2D. Questo problema
è superabile semplicemente spostando il target o lo strumento e filtrare la luce.
Se si vuole determinare la natura di un target bisogna capire come lo strumento reagisce alle differenti
lunghezze d’onda. Infatti, lo strumento può essere sensibile a determinate lunghezze d’onda e meno sensibile
ad altre. Ad esempio, immaginiamo che lo strumento ha una sensibilità del 20% a lunghezze d’onda di 500
nm ed ha una sensibilità del 50% a lunghezze d’onda di 600 nm. Se il target riflette il 100% della luce sia a
500 che a 600 nm, lo strumento mostrerà il 20% di riflettanza a 500 nm ed il 50% di riflettanza a 600 nm. Il
che è sbagliato, perché come abbiamo detto il target ha una riflettanza del 100% ad entrambe le lunghezze
d’onda. Quindi, bisogna capire quale sia la sensibilità dello strumento per avere una misura realistica della
riflettanza del target. Vi sono diversi modi per fare ciò: uno è misurare lo spettro del target relativamente ad
uno standard di riflettanza nota (facile da fare in laboratorio), oppure si può determinare la sensibilità dello
strumento prima del volo, ecc… Quest ultimo metodo è utilizzato nel remote sensing planetario e/o terrestre
dove non si ha spesso la possibilità di calibrare lo il target o lo standard a terra.
La calibrazione viene eseguita su un riflettore ideale che riflette la luce incidente equamente in tutte le
direzioni. Per cui, la luminosità osservata (𝐼′) è proporzionale al coseno dell’angolo di incidenza relativamente
alla luminosità a 0° di incidenza.
Ciò che più si avvicina ad un riflettore ideale è un materiale chiaro a grana fine con un basso coefficiente di
assorbimento. Materiali con queste proprietà sono il solfato di bario, l’halo e lo Spectralon. Questi materiali
rappresentano buoni standard di riflettanza tra 300 e 2500 nm. Per lunghezze d’onda maggiori si utilizza un
materiale con una superficie ruvida ed opaca ricoperta d’oro puro. Anche l’argento è un buon materiale ma
può ossidarsi nel tempo. Qualsiasi materiale si utilizza, bisogna conoscere le sue proprietà di riflettanza
relativamente ad un riflettore standard (100% di riflettanza).
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Lo Spectralon è un buon materiale.
La sua riflettanza è del 95% nel range 250 – 2500 nm. Però, non essendo al 100% c’è ancora bisogno di
qualche correzione.
L’utilizzo di materiali come lo Spectralon fornisce buoni risultati solo per le misurazioni di laboratorio. Per le
misurazioni acquisite per via aerea e/o spaziale vi sono due possibilità:
1. Pseudo-Invariant fratures (PIFs), ossia target nell’ambiente della missione le cui proprietà spettrali
sono note o misurate, sono omogenee per almeno un pixel e sono spettralmente piatte;
2. calibrazione pre-volo, che prevede la caratterizzazione delle proprietà dello spettrometro prima e
dopo le operazioni di campo. L’assunzione è che le performance dello strumento non cambiano tra
laboratorio e campo.
Una volta che lo strumento è stato lanciato, le sue proprietà di misurazione possono peggiorare o variare nel
tempo. Esistono due soluzioni a questo problema:
1. puntare lo strumento verso lo spazio profondo per correggere le cosiddette dark current;
2. puntare lo strumento verso target con proprietà spettrali note (i siti di allunaggio Apollo, il Sole e
stelle simili al Sole).
Oltre alla sensibilità dello strumento bisogna assicurarsi che la luce venga dispersa correttamente nel
ricevitore. Le strumentazioni possono subire vibrazioni durante il lancio e/o espansioni e contrazioni
termiche. Ciò può causare dei problemi come ad esempio lo spostamento delle bande di assorbimento.
Questo problema può essere risolto utilizzando materiali che verificano le performance dello strumento, cioè
come la luce viene dispersa all’interno dello strumento.
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Un qualsiasi tipo di misura sarà contaminata da informazioni non volute note come rumore che sono una
fonte di errore nelle misurazioni, mentre le informazioni utili prendono il nome di segnale. L’ammontare
relativo di segnale e rumore in una misura è quantificato dal rapporto segnale/rumore (SNR) che dipende
da vari fattori:
Come regola generale, se SNR < 1 sarà molto difficile estrarre informazioni utili dalle misure, anche se sono
disponibili alcune tecniche utili per migliorare la situazione:
cambiando la natura dell’input della trasmittente (ad esempio aumentando l’ampiezza o cambiando
la frequenza);
stacking, ossia effettuare ripetute misure in uno stesso luogo per cui ogni variazione tra le misure
dipenderà completamente dal rumore. Dal momento che il rumore ha componenti positive e
negative in eguali proporzioni significa che la somma delle varie componenti tende a zero. Ciò
significa che semplicemente sommando tutte le misure ripetute (ed eventualmente dividendo il
risultato per il numero di misure) le componenti del rumore saranno nulle lasciando soltanto il
segnale. Così facendo l’SNR viene incrementato di un fattore √N dove N è il numero delle misure
ripetute.
La luce con la quale si lavora è funzione della temperatura, sia del Sole che del target. Infatti, all’aumentare
della temperatura, il target emette più fotoni a lunghezze d’onda minori.
CONTINUARE
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MERCURIO
Il risultato di questa risonanza è che un giorno solare su Mercurio dura esattamente 2 anni Mercuriani, o 176
giorni Terrestri. In più, l’obliquità di Mercurio è prossima a 0°, quindi su questo pianeta non c’è una
stagionalità.
Un altro effetto della risonanza è che lo stesso emisfero è rivolto verso il Sole a perieli alternati. Questo
accade perché l’emisfero rivolto verso il Sole a un perielio ruoterà una volta e mezza durante la prima orbita
trovandosi rivolto lontano dal Sole. Durante la seconda orbita esso ruoterà un’altra volta e mezza trovandosi
di nuovo rivolto verso il Sole. Siccome i punti sub-solari al perielio sono quelli a 0° e 180° di longitudine essi
sono chiamati “poli caldi” mentre i punti a 90° e 270° di longitudine all’afelio sono chiamati “poli freddi”.
Altra conseguenza della risonanza è la grande differenza di temperatura mattutina e notturna di Mercurio.
Infatti le temperature della superficie rivolta verso il Sole raggiungono valori di circa 467°𝐶 mentre la
superficie lontana dal Sole raggiunge temperature di circa −183°𝐶.
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6
Mercurio Terra
Venere
5
Densità (g/cm3)
Mercurio è un’anomalia tra i pianeti rocciosi. Infatti,
generalmente sono i pianeti più grandi ad essere più densi ma 4 Marte
Mercurio, il più piccolo pianeta roccioso con un diametro di
Luna
4880𝑘𝑚, ha una densità di circa 5440 𝑘𝑔⁄𝑚3 quasi simile a
3
quella della Terra (5520 𝑘𝑔⁄𝑚3 ) e superiore a quello di
Venere (5240 𝑘𝑔⁄𝑚3).
2
0 2000 4000 6000 8000
Raggio (km)
L’ultima ipotesi è quella più accreditata: un grande oggetto ha colpito un Mercurio già differenziato
strappando via la crosta e parte del mantello.
Una variante di questa ipotesi prevede che l’impatto abbia completamente distrutto il pianeta che si è
riformato dall’aggregazione dei detriti metallici, mentre quelli rocciosi sono andati perduti.
Insieme alla Terra, Mercurio è l’unico pianeta roccioso dotato di un campo magnetico generato internamente
avente una intensità di circa 190 𝑛𝑇 (mentre quello terrestre ha una intensità di 25000 − 65000 𝑛𝑇).
Il mantenimento di un campo magnetico richiede la presenza di un nucleo liquido che ricopra un nucleo
solido interno.
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Come fa Mercurio, un pianeta così piccolo, a conservare ancora il suo nucleo? La risposta non è ancora stata
dimostrata, ma si suppone che il nucleo di Mercurio non sia composto solamente di metalli (lega Fe-Ni) ma
anche di elementi leggeri (Si e S). Infatti, se il nucleo fosse composto solo da metalli, il lento raffreddamento
di Mercurio avrebbe portato alla solidificazione del suo nucleo e quindi l’annullamento del suo campo
magnetico. Mentre, la presenza di elementi leggeri avrebbe abbassato il punto di fusione del nucleo,
permettendo al nucleo esterno di restare liquido fino ad oggi.
Mercurio è ricoperto da una superficie regolitica composta principalmente da frammenti di materiale formati
da impatti meteoritici che si sono susseguiti nel tempo. Le mappe della superficie di Mercurio, prodotte dalla
sonda MESSENGER mostra che la superficie è divisa in tre unità geologiche:
La prima unità geologica, le pianure poco inclinate, ricopre circa il 27% della superficie del pianeta. Questa
unità ha origine vulcanica. A supporto di questa ipotesi vi sono due evidenze:
1. i grandi bacini da impatto sono parzialmente riempiti da queste pianure (come anche i crateri da
impatto);
2. le pianure hanno un colore diverso dai bacini in cui risiedono, che indica una differenza
composizionale col bacino sottostante.
La densità dei crateri formatisi su queste pianure indica che esse si siano formate tra 3.7 – 3.9 𝐺𝑎 fa (età
comparabile col più antico maria lunare). Ciò significa che il più giovane deposito vulcanico su Mercurio che
ha formato le pianure si è depositato durante le fasi iniziali di messa in posto dei maria Lunari.
Le piane inter-crateriche sono molto più antiche dell’unità precedente e rappresenta l’unità più estesa su
Mercurio. Esse si differiscono dalle pianure della prima unità perché sono molto più craterizzate. Ne risulta,
quindi, che questa unità è stata messa in posto in un arco di tempo contemporaneo all’intenso
bombardamento tardivo (LHB).
Nessun pianeta del Sistema Solare ha una tettonica dominata da eventi di compressione come Mercurio.
Esso, infatti, è attraversato da diverse faglie compressionali chiamate “scarpate lobate”. Queste hanno una
lunghezza compresa tra ~20 𝑘𝑚 a > 600 𝑘𝑚 ed una quota compresa tra qualche centinaio di metri fino a
~3 𝑘𝑚.
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Nella zona equatoriale del pianeta, le scarpate presentano una orientazione N-S e sono
completamente assenti nell’emisfero nord (dominato dalle pianure poco inclinate). Qui, infatti, le
strutture tettoniche più comuni sono le cosiddette “wrinkle ridges”, ossia delle dorsali sinuose e
poco elevate che si estendono per centinaia di chilometri. Si trovano tipicamente nei maria lunari e
sono state generate probabilmente dal raffreddamento degli stessi.
Le immagini ad alta risoluzione fornite dai radar Arecibo (Porto Rico) e Goldstone (California) mostrano la
presenza di aree ad alta riflettività nelle zone polari. Le caratteristiche di riflettività di queste aree sono molto
simili a quelle dei satelliti ghiacciati dei pianeti esterni e delle regioni polari di Marte, per cui le zone riflettenti
dei poli di Mercurio sono state interpretate come ghiaccio d’acqua che, in alcune aree, risulta ricoperto da
uno strato centimetrico di regolite. Il ghiaccio d’acqua è stabile su Mercurio nelle zone polari se intrappolato
in zone di basso topografico, specialmente all’interno dei crateri dove sono permanentemente protetti dalla
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radiazione solare grazie anche alla bassissima inclinazione del pianeta. La conferma del fatto che si tratti di
ghiaccio d’acqua è arrivata in seguito alle indagini con uno spettrometro a neutroni che è molto sensibile
all’idrogeno, infatti ha rivelato un’alta concentrazione di idrogeno nelle zone polari. L’intensità del segnale
ha suggerito, infatti, che i depositi sono composti quasi totalmente da ghiaccio d’acqua.
Le aree riflettenti nelle zone polari sono quindi state interpretate come ghiaccio d’acqua, mentre lontano dai
poli, gli stessi materiali sono più scuri rispetto al terreno circostante. Questa differenza di riflettività indica la
presenza di materiale scuro, forse organico, che ricopre il ghiaccio e lo preserva laddove la radiazione solare
è maggiore. È stato stimato che la massa totale del ghiaccio presente ai poli del pianeta è di circa 20 −
2000 × 1012 𝑘𝑔. Questi depositi di volatili potrebbero essere stati originati in seguito ad impatti di comete
e/o asteroidi ricchi in ghiaccio d’acqua che, in seguito all’impatto, avrebbero rilasciato acqua e composti
organici che sarebbero stati poi intrappolati all’interno dei crateri.
Mercurio non ha una vera e propria atmosfera, si parla piuttosto di esosfera. L’esosfera non è altro che
un’atmosfera così sottile che i suoi atomi o molecole piuttosto che collidere tra loro collidono con la
superficie del pianeta o sfuggono da esso.
L’esosfera di Mercurio è composta principalmente da idrogeno, elio, sodio, potassio, calcio e magnesio. I
costituenti dell’esosfera di Mercurio sono transienti, cioè non durano a lungo, e devono essere
continuamente sostituiti. Ad esempio, se i processi che sostengono l’esosfera di Mercurio dovessero cessare
improvvisamente, essa si dissiperà nel giro di pochi giorni. In più, l’esosfera di Mercurio è composta più da
atomi che da molecole, infatti queste ultime, se presenti nell’esosfera, vengono rapidamente fotodissociate,
cioè distrutte dalla luce solare.
L’esosfera di Mercurio si origina dalla superficie del pianeta, in parte dal materiale presente naturalmente
sulla superficie ed in parte dal materiale impiantato sul pianeta dal vento solare o da impatti meteoritici.
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Gli atomi rilasciati a bassa velocità seguono traiettorie balistiche sotto l’influenza della forza di gravità.
Siccome essi non raggiungono alte quote ricadono sulla superficie dove rimbalzano o si fermano. Alcuni atomi
rimbalzano diverse volte prima di fermarsi, ridistribuendo in questo modo i materiali volatili sulla superficie
del pianeta trasferendoli dalle calde zone equatoriali alle fredde regioni polari.
Anche gli atomi rilasciati ad alte velocità seguono traiettorie balistiche, ma siccome restano più a lungo
nell’esosfera sono soggetti ad altri processi. Infatti la pressione di radiazione solare spinge gli atomi nella
direzione opposta a quella del Sole. Se gli atomi vengono spinti abbastanza lontano non ritorneranno più
sulla superficie ma verranno spinti “dietro” il pianeta formando una sorta di coda. Gli atomi che si trovano
nella coda scapperanno dal pianeta a meno che non perdano elettroni (tramite il processo di
fotoionizzazione). Così facendo, gli atomi diverrebbero carichi positivamente e verrebbero catturati dal
campo magnetico del pianeta e accelerati verso o lontano il pianeta a seconda dell’orientazione delle linee
del campo magnetico locale. Gli atomi accelerati verso il pianeta ne impatteranno la superficie andando
incontro al processo di sputtering; gli atomi accelerati lontano dal pianeta si perderanno nello spazio
interplanetario. Quindi gli atomi dell’esosfera di Mercurio possono o ritornare sulla superficie o disperdersi
nello spazio, ciò spiega perché l’esosfera debba essere continuamente sostenuta.
I processi che sostengono l’esosfera di Mercurio hanno effetti diversi a seconda dell’elemento. Ad esempio,
Ca e Mg sono elementi refrattari, quindi richiedono alte energie per essere rilasciati dalla superficie; Na è un
elemento volatile, per cui i suoi legami si rompono anche a basse energie. Gli atomi di Ca hanno una
resistenza alla fotoionizzazione 10 volte inferiore a quella del Na e 100 volte inferiore a quella degli atomi di
Mg. Per cui gli atomi neutri di Ca non sopravvivono a lungo nell’esosfera (generalmente 1 ora), mentre gli
atomi di Mg 2 – 3 ore. Anche gli effetti della pressione di radiazione variano a seconda dell’elemento: Na ne
è fortemente influenzato, Ca di meno, mentre Mg non ne risente praticamente l’effetto.
Questi effetti sui diversi elementi portano ad una differente distribuzione degli elementi nell’esosfera di
Mercurio:
- il sodio si trova praticamente ovunque grazie alla sua natura volatile. In virtù di questa sua natura è
anche più soggetto alla pressione di radiazione solare, per questo è anche l’elemento principale della
“coda” di Mercurio;
- il calcio ha una distribuzione molto asimmetrica, con picchi di densità nei pressi dell’equatore sulla
faccia rivolta verso il Sole;
- il magnesio ha una distribuzione isotropica con arricchimenti locali.
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Altri elementi sono stati osservati nell’esosfera di Mercurio, come idrogeno, elio, potassio, ossigeno ed
alluminio, ma essi sono difficili da osservare a causa del fatto che le loro emissioni sono deboli e sono anche
poco abbondanti.
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