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DALLO GNOSTICISMO ELLENISTICO

ALLA NUOVA GNOSI


L’attenzione storica allo “gnosticismo cristiano”, come in risarcimento dovuto dopo secoli di
rimozione e vana cancellazione testuale, ci obbliga a riprendere con qualche sofferenza e stanchezza
anche la trafila degli studi novecenteschi, superando la reiezione culturale e ideologica del tema
oggi abusato: in sospetto per alcuni incerti disegni o velleità di rilancio gnostico, in senso
antimoderno, anti-scientifico, anti-tecnologico il più insensato, d’ispirazione cristiana o neo-
religiosa. Mi riferisco a libri e libelli di pugna militante, pure armati di erudizione divulgata, come il
citato La gnosi del saggista cattolico G.C.Benelli, “Il volto oscuro della Storia” (Mondadori 1991),
dove una storia senza “volto” è sicuramente la più oscurata, nell’assunto ultra-visivo di uno
gnosticismo “presente nella nostra cultura”. Più recentemente un altro studioso cattolico ha prodotto
un ponderoso testo quasi paradossale su La logica del pensiero gnostico (Morcelliana 1997), in cui
l’autore liberatosi dello “scher-mo razionalista”, quello attribuito alla metafisica dominante
nell’Occidente, scopre “un’altra logica” espressa e esercitata dallo gnosticismo, una logica
antitetica, alogica e meta-logica, che è quella propria del tri-teismo cristologico, giacché “non c’è
gnosticismo senza cristianesimo”, generoso costruttore della civiltà occidentale. Ma lasciamo agli
autori questo tipo di esercitazioni, di intellettuali “visivi” misticheggianti, che sembrano obliare coi
loro tardivi scoprimenti, benaccolti dalle case editrici, quelle più antiche tradizioni mito-religiose
delle mistiche ascetiche orientali, che espressero per secoli le gnosi-delirio più esemplari e nefaste.

Risaliamo invece al libro survalutato di Hans Jonas (Lo gnosticismo, 1958, tr.it. SEI 1991), che fu
scritto negli anni giovani (allievo di Bultmann, Jonas è migrato in Palestina, poi in USA dalla
Germania nazista), ma confermato, ampliato e riedito nella maturità, venti anni dopo. Non
sorprenda se io rimarco anzitutto l’ebraicità etnoculturale che impronta l’opera, tutta lavorata su tesi
aprioristiche suggestive e gratuite, sulla costruzione di una sorta di romanzo storico incentrato su
grandi protagonisti, personaggi concreti come Oriente e Occidente e Ellenismo frapposti, per azioni
sceniche come “ellenizzazione” e “rivolta antiellenistica”. Ecco “l’Oriente sommerso” e silente
durante il rumoroso eloquente ellenismo, e poi la rivalsa orientale: la “reazione di un Oriente
rinascente che avanzò vittoriosamente contro l’Occidente in una specie di contrattacco spirituale e
riformò la cultura universale” (p.38). Così agonisticamente, semplicisticamente Jonas vede il
faticoso intramarsi dei processi culturali. Come tutti noi, più di tutti noi, parla di enormi “influenze
orientali”, senza specificazioni nominali, sottolineando anzi “l’anonimità dei contributi orientali che
rende difficile l’identificazione di codeste influenze nel primo periodo” (p.39). Ciò è indeterminato
e quindi storicamente privo di senso, tanto più nella inevitabile conferma che il maggiore influsso
(Jonas lo qualifica come “importante contributo”, e io culturalmente regressivo, nefasto per
l’Occidente), si risolve nel “sincretismo religioso”, che qui si fa proprio consistere in una “teocràsi”,
cioè in una “mescolanza degli dèi”.

Ma il sincretismo culturale è fenomeno di contaminazione e commistione e parziale fusione ben più


esteso di una “teocràsi”, che era fenomeno corrente e costante nel politeismo più antico, e assai noto
in tutte le fasi della cultura ellenica. Il sincretismo culturale, in particolare come generale
integrazione religiosa, ha caratterizzato il cosiddetto “ellenismo”, come prodotto immediato e
durevole dell’imperialismo politico e dei suoi effetti economici e culturali, del cosmopolitismo ecc.
Se di “apporto” si vuole parlare, quello dell’Oriente, e non solo del vicino Oriente, fu
prevalentemente religioso, per le caratteristiche eminenti e direi pure etniche di quelle culture, che
diciamo “irrazionalistiche”, fanta-mistiche ecc. Apporto che si può riassumere nella degradazione
del logos, della sua difficile funzione di ricerca dispositivamente “scientifica”, dei suoi
procedimenti logico-linguistici, asserviti a sostegno appunto di irragioni mito-religiose, come già
avveniva – per lunga tradizione – nelle “scuole” filosofico-religiose di tutto l’Oriente da millenni.
Se “invasione” vi fu nell’Occi-dente greco-romano, culturalmente apertissimo, fu in epoca
imperiale quella dei culti settari, che favorì la diffusione del cristianesimo. Ma è questo amplissimo
fenomeno a caratterizzarsi, nelle condizioni storiche, economiche e socio-politiche in cui si svolse,
come “decadenza” generale della cultura secolare ossia “laica”, quella che io chiamo la “cultura
dell’uomo”. Solo per una semplificazione che rasenta l’infantilismo storico, questo può interpretarsi
come una presa di “comando” da parte dell’Oriente nell’Occidente, con la sua arcaica “funzione
religiosa” sostitutiva di quella “secolare”, secondo quanto si legge in Jonas (p.40).

E nondimeno, proprio la rozzezza della frase dà forse la sensazione immediata delle violenza
perpetrata sulla progressiva “cultura dell’uomo”, da tale massiccia invasione di culti e mistiche, di
dèi e miti antichi riproposti come “nuovi”, poi come “veri”, come “unici”, come esclusivi. Un
aspetto che qualificherei “giudaico” o giudaizzante del pensiero di Jonas qui consiste proprio
nell’assunzione del punto di vista “orientale”, in questo romanzo storico, per cui il logos ellenico è
visto solo riduttivamente, formalisticamente come “astrazione” teorica (luogo comune anche in
ambiti para-scientifici), e la “concettualizzazione greca del pensiero orientale” viene
sostanzialmente veduta più nelle sue negatività. Intanto, è la stessa restrizione regionale dell’Oriente
alle aree mediterranee, e circostanti, a predisporre la prossima centralità giudaica precristiana. E’
vero poi che genericamente, retoricamente si dice che il “pensiero orientale” – quale e dove e
quando? – “fu liberato dal soffio vivificante del pensiero greco, che dette un impeto nuovo e nello
stesso tempo strumenti adatti ad esprimere quella tendenza all’astrazione che già precedentemente
era all’opera” (p.41): ripeto, quando dove chi? L’unica allusione più determinata è qui ai sistemi
dualistici e al fatalismo astrologico, che avevano una più lunga, lunghissima storia, e al monoteismo
trascendente, quando oramai dal giudaismo si era transitati al proto-cristianesimo.

Senonché, contraddicendosi subito dopo, vede minacciata dal logos “la sostanza genuina del
pensiero orientale”, coi soliti interrogativi senza risposta, anche quando parla di “pensatori
orientali” sempre innominati. E’ verosimile che Jonas abbia in mente gli gnostici, ma essi
dovrebbero riassumere e rappresentare “l’Oriente”, la sua controffensiva e la sua grandiosa
riscossa? O piuttosto, con infinitamente maggiore verità storica, una “controffensiva” e una
“riscossa” benpiù temibili, le ha sceneggiate e interpretate nel grande teatro dell’Occidente
sventurato il cristianesimo con la sua potente chiesa? Fu solo in essa, fra i suoi “padri” e “nipoti”
militanti e dentro le sue strutture, che si realizzò appieno per qualche millennio, nella fase agonica
della cultura detta “ellenistica”, un complicato meccanismo sincretico di assimilazione tecnica, per
la costruzione del dogma e delle dottrine teologiche di sostegno perenne. E’ risibile immaginare
l’Oriente che aziona una macchina di guerra così temeraria, per poi ridursi ai semiclandestini
prodotti gnostici, da Simon mago a “L’inno della perla” iranico, ai valentiniani e a Marcione, in una
sorta di contenuta esemplificazione, pure dilatata fino a comprendere il “Poimandres” di Ermete
Trismegisto, e la fondazione del manicheismo. Il grande cozzo sarebbe questo?

Le principali manifestazioni dell’ondata orientale nel mondo ellenico sarebbero tutti gli elementi
storico-culturali che genericamente caratterizzano l’epoca: “l’espansio-ne del giudaismo ellenistico,
e in modo particolare il sorgere della filosofia giudaico-alessandrina; la diffusione dell’astrologia
babilonese e della magia, che coincise con un generale aumento del fatalismo nel modo occidentale;
la diffusione di differenti culti misterici orientali in tutto il mondo ellenistico-romano e la loro
evoluzione in religioni misteriche spirituali; il sorgere del cristianesimo; la fioritura di movimenti
gnostici, con i loro grandi sistemi, all’interno e all’esterno della struttura cristiana; e le filosofie
trascendentali della tarda antichità, a cominciare dal neo-pitagorismo fino alla scuola neoplatonica”
(p.45). E’ un quadro generico, nel cui contesto un solo fenomeno storicamente consiste e si
configura e conta nei secoli per i suoi vistosi caratteri sincretistici, “ellenistici”, “orientali”, rispetto
a cui tutti gli altri sono fenomeni parziali o di contorno, e fra l’altro non nuovi: il cristianesimo
ancora, con la teocrazia faraonica della sua grande ekklesìa universale in costruzione, auspice
l’Impe-ro dimissionario.

Proprio così, Jonas abbacinato dai pochi documenti e minimi frammenti “gnostici” (il libro,
nell’edizione originaria, precedeva la pubblicazione dei rotoli di Nag Hammadi), trova
assurdamente che “l’unità sottostante” ai fenomeni di orientalizzazione della cultura, che
concorrevano alla nascita e crescita del cristianesimo, trova che loro “principio direttivo”, sia tutto
nel totalizzante “pensiero gnostico”. E arriva a riconoscere il solo “principio gnostico” come
“principio generale”, come “il più radicale e totale rappresentante di un nuovo spirito” (p.46),
insomma come alfiere e guida un po’ grottesca della riscossa controffensiva dell’Oriente.

In realtà i cosiddetti “gnostici” erano mistici e teologi settari probabilmente numerosi, la cui
letteratura fu ritenuta pericolosa dai vescovi delle chiese locali, in quanto “eretica” cioè eterodossa
rispetto alla linea di pensiero teologica e liturgica appoggiata alla tradizione scritturale, apostolica e
sub-apostolica dei “padri”. Tradizione delresto incerta e non uniforme, perché ancora lontana
dall’essere canonizzata in una dogmatica cristologica e liturgica unica, come può riscontrarsi nei
primi documenti patristici, che contengono spesso richiami alla disciplina e all’unità comunitarie, e
che con gli scritti apologetici circolano appunto nel II secolo: più o meno l’epoca in cui avevano
corso i testi “segreti” (apocrifi) della gnosi “orientale”, nel senso proprio che i principali promotori,
da Basilide a Valentino, a Bardesane, a Marcione ecc., erano tutti di origine medio-orientale. Anche
se Valentino e Marcione operarono con notevole consenso e séguito a Roma, la diffusione maggiore
e la lunga resistenza nei secoli ebbe come centro Alessandria, dove non è un caso si abbiano i
ritrovamenti più cospicui degli ultimi due secoli, in lingua copta. Medio-orientale e medio-asiatica
fu l’esperienza del principe persiano Mani, e poi lo sviluppo del dualismo gnostico manicheo;
medio-orientali saranno fra il VII e il XII secolo gli eredi bizantini del dualismo gnostico detti
“pauliciani”, da cui in parte derivarono in Europa i “bogomili” e poi i “catari”, finalmente
sterminati nel XIII secolo dagli eserci-ti a servizio della divina ecclesia, provvida sempre di grazie
mortali.

La chiesa universale infatti ebbe tra i santi piedi, e nei sogni più lugubri, per 15 secoli l’incubo del
trasformismo gnostico. Vi è un cospicuo lavoro di Ioan P.Couliano su Les gnoses dualistes
d’Occident (1987, tr.it. I miti dei dualismi occidentali, Jaca Book 1989), che ha il suo limite nel
titolo, perché la caratterizzazione “occidentale” non appare nell’esposizione, né appare giustificata
la qualificazione circoscritta, senon nell’intento inconfesso di ricondurre tutti questi fenomeni
nell’area di dominio teocratico della chiesa cattolica. Vi è un’indicazione introduttiva deltutto
incomprensibile: “l’oggetto di questo studio è costituito dall’analisi comparata dei miti dualistici
utilizzati dai ‘dualismi d’Occidente’” (p.21). Vi sarebbero dunque “miti dualistici” (gnoses
dualistes) che sarebbero “utilizzati” dai “dualismi d’Occidente”: cioè – secondo questa
sceneggiatura metafisico-ontologica – esisterebbero “miti/ gnosi dualistiche” e “dualismi”
personalizzati come entità operative autonome, che “posseggono” quei miti e li “utilizzano”, in una
logica allucinatoria non nuova in Couliano, allievo di Eliade

Dovrebbe essere ovvio che non pre-esiste un dualismo che utilizza miti dualistici, ma dei miti
dualistici che improntano e caratterizzano di sé una concezione religiosa come “dualismo”. Macché,
c’è il dualismo e ci sono i miti dualistici, incerti e indeterminati entrambi, per il totale disaccordo
degli studiosi (p.25), e che tuttavia si palleggiano reciprocamente la dualità in un gioco di variazioni
perpetuo, un ludo dei soli interpreti si capisce. Ma quali sarebbero dunque i “dualismi d’Occidente”
qui generati alla storia, “il più antico dei quali è lo gnosticismo” (p.49)? Sono quelli elencati
all’inizio e che si riscontrano sull’indice, e che io ho classificato con ragione “orientali”, per origine
personale e derivazione dottrinale: in molta parte “gnostici”, esclusi o inclusi Marcione, il
manicheismo e le sue derivazioni dirette o indirette pri-ma indicate, fino ai catari. Sono dualismi
d’Oriente o d’Occidente? Credo che il dilemma così posto sia astratto e indifferente, se non ci si
addentra nelle specificità storiche, e solo su questa base concreta assuma qualche senso di
chiarificazione cul-turale, nella analisi storica appunto e morfologica e strutturale dei “miti
dualistici”, di cui solo può consistere un “dualismo” in sé nominalmente insensato.

Non entro in dettagli, sulle tracce schematiche e spesso oscurative degli specialisti, per es. seguire la
critica delle “invarianti” ricercate da Jonas, seguito da Bianchi. Che è solo una parte delle
distinzioni e suddistinzioni schematiche proposte, in una formalizzazione scolastica deprimente,
oltremodo competitiva con l’astrusità fanta-metafisica dei “sistemi” in esame. Fra le tesi del libro di
Jonas, spicca per es. quella relativa all’isolamento degli gnostici nella cultura contemporanea, di cui
in realtà erano parte rilevante e attiva, malgrado l’esoterismo e il carattere elitario che non
impedivano il proselitismo. Circa il loro asserito indirizzo “rivoluzionario”, nel confronto teologico
con le religioni giudaica e cristiana, per avere rigettato l’idea del Creatore provvidente, questa
eversione tuttalpiù può apparire alla distanza storica, ma comunque richiede precisazioni. Intanto la
fiaba del Diobòno, dio-d’amore ecc., che immola il suo Figlio, è una peculiarità mistica del
cristianesimo, anche ovviamente rispetto al giudaismo. E certo il pessimismo gnostico ne era
generalmente una smentita rovesciante, col suo estraniare il Dio-luce supremo trascendente
aldifuori e aldisopra del mondo, e precipitare nelle tenebre il mondo in quanto creato per errore e
governato da potenze inferiori emanate dal Dio stesso, gli Arconti ignari loro stessi del Dio
trascendente, nascosto a tutte le creature, e conoscibile misticamente solo per “rivelazione”.

Gli gnostici negavano dunque sia l’idea-mito antropologica greca di un mondo eterno e divino,
opera di un Demiurgo come per Platone, sia l’idea di un mondo creato e limitato nel tempo dal Dio
provvidente e ordinato per l’uomo, per la sua salvezza ecc. Per gli gnostici al contrario il mondo è la
prigione dell’uomo, nell’infima cavità terrena, sovrastata dalle sfere cosmiche, corrispondenti –
secondo la cosmologia coeva – ai sette pianeti (e Arconti) e all’ottava sfera delle stelle fisse, che in
Basilide si espandeva fino a 365 livelli. Tutti questi diversi livelli cosmici, dominati dai demonici o
angelici Arconti, capeggiati dal Demiurgo, separano il mondo infimo del- l’uomo dal Dio
inaccessibile. Jonas fa notare che i sette dèi planetari sono attinti dal pantheon babilonese, anche se
ricevono i nomi ebraici usati nell’Antico Testamento per nominare Dio (pp.63-64). La fatalità
(heimarmene) astrologica pesa sull’univer-so e sulla vita dell’uomo, sia come legge di natura, sia
come sistema di leggi tendente al dominio sull’uomo. In questo mondo abisso di “tenebre” e di
“ignoranza” sta l’uomo che però, a differenza dei suoi dèmoni creatori, è immaginato di natura più
complessa in quanto formato, oltre che di anima e di corpo, anche di “spirito” (pneuma), concezione
ricorrente, con la reincarnazione, nelle religioni mistico-ascetiche asiatiche. E’ cioè fatto di sostanza
divina racchiusa, imprigionata nel corpo-psiche, in attesa di “liberazione” mediante il disprezzo, il
distacco e la sortita dal mondo, con la “illuminazione” come “conoscenza”. Solo che, rispetto alle
concezioni mistiche induiste, buddhiste, yoga ecc., la “conoscenza” e “rivelazione” sembra essere
intesa dagli gnostici più in senso letterale e colto, filosofico-religioso ecc., e consisterebbe nelle loro
stesse dottrine e immaginazioni fanta-mitiche prodotte, coi riti esoterici di accompagno, come
veicoli alla “gnosi”: che però solo dopo la morte dovrebbe portare lo “spirito”/pneuma all’unione
col Dio-luce supremo.

Che questo macchinoso schema, di origini mito-immaginali arcaiche, sia una concezione
“umanistica”, “di un ottimismo senza eguali”, nel senso proprio che esalta i valori o la “superiorità”
dell’uomo, è una delle boutades di Couliano neo-gnostico contemporaneo, come nel vol.I di questa
opera ho mostrato. Lui gli gnostici, estraniati dal mondo avversi o indifferenti alla natura dell’uomo
(anche nelle pratiche sessuali), e in genere alle leggi naturali e alle leggi anti-normative degli
ordinamenti umani, le cui anime trasmigrano in altri corpi inesplicatamente; lui li vede tormentati
dal problema del libero arbitrio, per gli ostacoli frapposti alla “libertà umana” dal determinismo
astrologico (pp.78-79). E si riferiva nongià alle libertà civili dell’uo-mo laicamente inteso, ma alla
“libertà” del pneuma, quella cioè inerente alla pretesa “liberazione” del sé, dello “spirito” o “soffio”
o “scintilla” profonda, ascendente al fantomatico Dio superastrale, fuori del mondo e oltre la vita,
nel delirio di astrazione visionaria delle “gnosi” anticorporee, antimondane, anti-umanistiche, fra
ascetismo e nichilismo etico. Che in effetti non erano in lotta ma in concorrenza competitiva con le
chiese cristiane, con le loro fabulazioni cristologiche, coi loro riti e culti “salvifi-ci” illusori.

Ho già detto prima che lo gnosticismo si poneva in alternativa, non di conflitto radicale ma di
competizione simpatetica, s’integrava per affinità al cristianesimo, era della sua stessa temperie
culturale, aveva la stessa origine e coevità storiche, per iniziativa e riflessione mito-teosofica di
cristiani convinti, spesso all’interno delle medesime comunità cristiane, concorrendo alla comune
elaborazione mitologica, con testi acanonici numerosi. Erano cristianamente anti-giudaici non anti-
cristiani: demonizzavano Jahvé, non il Dio nostro Signore Gesù Cristo. Gli “intellettuali” militanti
cristiani erano e si riconoscevano “gnostici” anche loro, e combattevano le “false gnosi”, a difesa
solita della “vera gnosi” segreta, che si attribuivano in privilegio. Si è scritto impropriamente che
fra le sue molte radici, lo gnosticismo ha pure “una radice cristiana” (E.Lupieri, in Storia del
cristianesimo, Laterza 1997, I. L’An-tichità, p.130). Ma pure la genesi della mito-gnosi cristiana
ebbe molte radici, condividendo con lo gnosticismo la confusa promiscuità sincretistica del clima
culturale tardo “ellenistico”, medio e neoplatonico.

Non è indifferente che gli attacchi più insistiti di Couliano, qui e in altri libri, siano rivolti a
W.Bousset, che agli inizi del secolo era un autorevole rappresentante della tedesca “Scuola di storia
delle religioni”, e che nei documenti gnostici di figure e temi, come la Sophia, i sette Arconti ecc.,
ricercava giustamente l’origine storica, quasi sempre ritrovandola – guarda caso – in Iran, con una
procedura che a Couliano non piace, perché sarebbe cumulativa, ma io direi che è semplicemente
“storica”, e lui stesso è obbligato a riconoscere che anche oggi (con l’utilizzo dei reperti di Nag
Hammadi) è la più seguita nelle ricerche sullo gnosticismo (pp.82-83). Né mi pare che anche lui in
questo libro, coi suoi “fasci di opposizioni” applicati alle varianti, proceda molto oltre una rassegna
descrittiva, tematica, critica, bibliografica dei miti dualistici nelle loro variazioni. Per es. circa il
mito di Sophia, che è rilevante fra i valentiniani e i barbelo-gnostici e gli ofiti di Ireneo, e di cui
Bousset trovava l’ori-gine come corrispondente gnostico della Gran Madre, “la divinità che nel
Vicino Oriente si manifesta sotto molte forme” (p.106). E quanto alla Sophia decaduta, Bousset la
metteva “in relazione con una dottrina astrologica babilonese oramai iranizzata” (ivi); mentre altri
poi (G.Quispel) crederanno di riconoscerla di origini giudaiche, o giudeo-gnostiche (v. gli atti
cospicui del Colloquio di Messina 1966, a c. di U.Bianchi, Brill 1970).

Certo la ricerca dell’origine è operazione indispensabile, che non può esaurirsi in se stessa, dovendo
preludere alla individuazione dei caratteri strutturali specifici delle singole opere nei singoli autori.
Ma se Jonas, con qualche seguito e molte critiche, si è polarizzato in una ricerca formalistica di
“invarianti” di tipo strutturalistico, secondo i canoni di Lévi-Strauss, per poi integrarli con una
fenomenologia non esistenziale ma esistenzialistica, attinta a suo modo da Heidegger, gli studiosi
seguenti non hanno apportato esiti migliori, più preoccupati di ampliare lo studio dei testi dopo le
notevoli acquisizioni di Nag Hammadi: Doresse-Puech, Moraldi-Simonetti, Couliano stesso, a
livelli diversi, oltre ai sostenitori patetici di un “risveglio della gnosi” come Filoramo e Benelli. Lo
stesso schema unificato, “invariante”, su cui fiorirono innumerevoli varianti, denuncia una classica
struttura ascetica “orientale”, anzitutto il “dualismo”, termine che Th.Hyde nel 1700 aveva
inventato a proposito appunto di Zoroastro e Mani, che ne dipese per diretta eredità. Ma nelle stesse
esemplificazioni, dai termini mesopotamici della letteratura mitologica mandèa, alle provocazioni
antigiudaiche del samaritano Simone, malfamato presso i cristiani, all’iraniano “Inno della perla”
citato, negli Atti apòcrifi di Tomaso, al mito egizio-ellenistico di Ermete Trismegisto, alla pure
generica caratterizzazione siro-egiziana della importante speculazione valentiniana, alla
predicazione universale di Mani, si graviterebbe sempre nelle antiche e classiche aree d’irradiazioni
mitiche medio-orientali.

Il grosso libro di padre H.Ch.Puech, col titolo modesto ma realistico Sulle tracce della gnosi (1978,
tr.it.,Adelphi 1985), nell’originale diviso in due volumi e qui in due parti, in realtà non è un libro
organico, ma solo una raccolta di saggi e conferenze, scritti fra gli anni 30 e gli anni 50. Forse i
contributi più personali sono quelli più discutibili su “Tempo storia e mito nel cristianesimo dei
primi secoli” (1951), e corrispondentemente su “La Gnosi e il tempo” (1952). Discutibili perché è
inaccettabile la distinzione tra mito e storia che qui si propone, con riguardo specifico al
cristianesimo, e ancora più refutabile la pretesa che il cristianesimo sia una religione storica nel
senso che “conferisce al tempo (…) un valore concreto e attribuisce al suo sviluppo, concepito
come unilineare e irreversibile, un significato soteriologico” (p.35). E non basta, giacché sostiene
che “esso lega alla storia i propri destini; si concepisce e si interpreta in funzione di una prospettiva
storica; porta con sé più o meno implicitamente ed elabora prestissimo una specie di filosofia, o per
meglio dire di teologia della storia” (ivi). Si direbbe che Puech, storico delle religioni ecclesiastico,
abbia della storia una concezione appunto cristiana, uni-lineare e uni-significante, proprio perché
pseudostoria sacra e teologica, così da esaltare con O.Cullmann la violenza ecclesiastica che ha
imposto nei secoli una cronologia storica centrata sulla nascita presunta di Gesù Cristo.

Questo l’arbìtrio imposto: “La storia complessiva del mondo risulta così ordinata in funzione
dell’avvento di Gesù, punto d’arrivo di tutto il periodo anteriore e nello stesso tempo punto di
partenza di tutto il successivo, nuovo periodo” (p.36). Al confronto con tale mirabile senso della
storia, Puech constata “l’incapacità dello spirito ellenico di costituire un’autentica filosofia della
storia” (p.38), paragonabile alla magnifica teologia cristiana della storia, di cui Agostino fornì un
modello provvidenzialistico immortale, La città di Dio, valido per tutto il Medioevo e oltre, per un
millennio e più della mobile cultura pontificia. Ha del patetico leggere Puech che insiste a celebrare
dalle origini il falso universalismo “ecumenico” di un cristianesimo ancora settario, per poi sùbito
fondarlo sull’abbaglio di una “rivelazione storica, apparsa nel corso della storia, contraddistinta da
una serie di eventi storici, o ritenuti tali, e riportati in libri considerati veri e proprio Annali: la
Genesi come i Vangeli o gli Atti degli Apostoli” (p.39). Una annalistica biblica che più “storica”
non potrebbe pensarsi: come è tutta “storica” la mitologia che contiene, il racconto “storico” della
“creazione” nella Genesi e l’escatologia “storica” del Giudizio Finale.

Lo storico Puech si esalta perché “questo universo creato e unico, che ha avuto inizio e finirà nel
tempo, è un mondo finito, limitato ai due estremi della propria storia. Non è eterno né infinito nella
sua durata, e non si ripeterà mai. E’ posto, immerso, conchiuso nel tempo” (ivi). Ma in quale tempo
non pare lo interessi: è il tempo concreto e misurabile della storia, o quello di una metastoria
totalmente mitica, in cui “l’uomo creato libero si trova alla presenza del suo Creatore”? Seppure
fosse vero che “Dio si manifesta nel tempo e solo nel tempo”, sarebbe soltanto nell’astrazione del
suo tempo mitico, non certo nella concretezza storica degli eventi umani. Sarebbe appunto il
“tempo” in cui si crede per fede che “la sua Mano potente – assimilata al suo Verbo o alla sua
Sapienza – non cessa di guidare il mondo che ha formato e l’uomo che ha plasmato” (ivi). Quello di
una falsa storia mitica, di una storia in cui l’uomo è oggetto passivo, manipolata dalla “mano
potente” della Provvidenza ai suoi fini impenetrabili, che tuttavia hanno sempre al centro la santa
chiesa, la sua espansione, la sua gloria divina e perpetua.

Altrettanto patetico è che Puech, storico delle religioni di chiara fama, si sforzi di separare il mito
dalla storia nel primo cattolicesimo, sia pure associandoli come “elementi inseparabili” (p.49).
Riconosce che “il mito è essenzialmente atemporale, antistorico”, ma torna a dire – riecheggiando
opinabili tesi del nefasto Jung – che “nel cristianesimo il mito si compie nella durata storica, senza
reiterarsi identicamente in nessuno dei momenti che la compongono, senza assolutamente
riprodurvisi in conformità con una situazione archetipica preesistente” (ivi). In altri termini, la fede
cristiana nel governo divino, nell’intervento provvidenziale di Dio – che si esplicherebbero per pura
credenza – dentro la vita dell’uomo, senza contare gli eventi cristologici e le iterazioni rituali che li
evocano ecc., tutto ciò non sarebbe “mitico”. Sconcertanti in questo senso, a conferma di una
concezione mitica e mistica della storia, sono le affermazioni che “la Creazione e la Fine del
mondo” mitici sono nel tempo (quale senon mitico?) e che “Adamo è un personaggio storico quanto
Gesù”, “così come saranno storici la seconda parusia di Cristo e l’instaurazione del Regno di Dio”
(p.51). E’ la mistificata storicità cristiana sempre, falsamente “pro-gressiva”, che togliendo
autonoma iniziativa all’uomo degradato a peccatore, obbedisce al volere del Dio uno-trino e della
sua chiesa vicaria, ossia vice-divina.

Nel saggio-conferenza del ’52, su “La Gnosi e il tempo”, Puech ripete le medesime fantasie anti-
storiche, anzi in parte le medesime pagine, intese a contrapporre la ciclicità cosmica nei greci alla
esemplare “storicità” cristiana governata dal Dio e dalla sua chiesa: per poi delineare la terza
posizione originale, più o meno comune alle sette gnostiche, mandee e manichee. In un’altra
conferenza del 1934, “Il punto sul problema dello gnosticismo”, Puech riassumeva il percorso della
critica, a partire dalla nota interpretazione di Harnack nel suo vasto Manuale di storia dei dogmi,
che comprendeva lo gnosticismo nel cristianesimo, come “ellenizzazione radicale”, spin-ta fino al
rifiuto dell’Antico Testamento, a differenza del sistema cattolico gradualizzante. Quasi 50 anni
dopo invece, H.Lietzmann riteneva d’integrare l’interpreta- zione di Harnack, scorgendo nella
Gnosi “una regressione verso le sue origini orien-tali, una ri-orientalizzazione parimenti estrema del
cristianesimo” (cit. p.173).

Non era una novità, perché già Retzenstein ne aveva ampiamente trattato alcuni anni prima. Puech
rappresentava correttamente la situazione testuale ancora in quegli anni, riassumibile nella
conclusione che, “nel complesso, quello che sappiamo sullo gnosticismo ce lo hanno trasmesso
testimonianze indirette, quasi sempre polemiche” (p.176). Si riferiva naturalmente ai cacciatori di
eresie, in allarme da tempo, dai primi “padri”, per la “pericolosità” si queste sètte, valutate come
“eresie” cristiane, quindi interne al cristianesimo. Su questa linea d’interpretazione si mantennero
con Harnack anche de Faye e Burkitt quasi mezzo secolo dopo, quando già si andava registrando la
reazione orientaleggiante di Retzenstein e Bousset, che avrebbe fintroppo radicalmente rovesciato
quell’indirizzo.

Credo si debba ascrivere in particolare alla Religionsgeschichte Schule, ovvero la citata “Scuola di
storia delle religioni”, di cui facevano parte appunto Bousset e Retzenstein, l’ampliamento di
orizzonti culturali nello studio storico-critico dell’An-tico e del Nuovo Testamento, e quindi pure
del cristianesimo dei primi secoli (v. la voce specifica nella Enciclopedia delle Religioni, diretta da
Eliade, tr.it. Jaca Book vol.V, pp.452ss.). Una scuola benemerita per gli studi religiosi sul
giudaismo e sul cristianesimo, promossa da giovani teologi protestanti, nell’ambito della cosiddetta
“teologia liberale”, e quindi in relativa sintonia metodologica con Harnack, sebbene con risultati
divergenti. Oggetto però di attacchi virulenti da parte di Barth e dai cosiddetti “teologi dialettici”,
restauratori nutritivi delle tradizionali retoriche teologiche, animate di orgoglio dogmatico
ecclesiale. Fra le aperture storiche rilevanti nella scuola, quelle relative alla pluralità delle origini
cristiane, con attenzione al giudaismo ellenistico di Filone e a un quadro storico-religioso più largo,
esteso a tutte le possibili componenti della cultura religiosa “ellenistica” (termine su cui pendono le
solite riserve di vaghezza), fra le quali in evidenza le religioni orientali e gli gnostici pre- e proto-
cristiani, cioè non solo cristiani.

In tali contesti gli studi sullo gnosticismo, partendo dalle medesime esigenze storico-critiche, hanno
subìto una svolta apparente: o meglio si sono arricchiti di dati conoscitivi ulteriori, rivelando (o
facendo immaginare) un’espansione dello stoicismo quasi illimitata, troppo per essere verosimile.
Padre Puech descrive due concezioni dello gnosticismo, forse calcando troppo sulle differenze: lo
gnosticismo come “eresia” cristiana, una presenza indubitabile suffragata dalle accanite campagne
dei cosiddetti “eresiologi” ecclesiastici, suttutti Ireneo e Ippolito. Questi adottavano un metodo di
attacco, che avrà fortuna pure in epoca moderna, e che scaricava sulla denunziata cultura classica,
dissennatamente colpita allora come “pagana” e ancora oggi come “ellenistica”, cioè in pratica sulla
filosofia ellenica, l’origine e la colpa delle “deviazioni” da una ortodossia cristiana ancora non
canonica, ma già proterva. “Una setta gnostica sarà un pitagorismo, o un platonismo, o un cinismo
che si presume cristiano; un’altra la mostruosa mescolanza dell’astrologia con la Scrittura ecc.”
(pp.176-77).

Ma lo stesso Puech fa notare che anche questi “eresiologi” segnalavano come gnostiche le “eresie
ebraiche” o giudeo-cristiane, battisti, esseni, galilei, ebioniti, nazorei, gli ofiti di Ireneo ecc., e altre
sette deltutto estranee al cristianesimo, attestando un quadro molto più ampio. Tanto da indurre al
fondato sospetto che la qualifica di “sistemi gnostici” sia stata spesso attribuita – anche dalla
storiografia novecentesca, in ogni direzione – con la stessa vaghezza con cui si straparla di un
“ellenismo” semi-millenario. E’ vero che vi erano schemi di base simbolico-allegorici, come di
“genere” letterario assai diffuso, e negli gnostici cristiani una generale avversione antigiudaica, ma
le variazioni erano tali e tante, in aree diverse, da rendere difficili assimilazioni generalizzate e
spesso contraddittorie. Non ci interessa entrare in dettagli figurativi o dottrinali, qui interessa
ribadire che una intera produzione testuale “gnostica”, combattuta come “eretica” perché ritenuta di
area cristiana, fu aspramente confutata ma nel contempo distrutta, nello stile nuovo della sacra
intollerante violenza ecclesiastica.

Ma di più, studiosi come de Faye, rilevando l’enorme carenza di testi noti solo nelle citazioni
parziali e nelle parafrasi deformanti dei cacciatori di eresie, notavano che assai probabilmente in
questi veementi adversus cristiani, si confondevano per inadeguata cognizione le concezioni dei
maestri con le gnosi più tarde dei discepoli e “successori” settari. Da tale interpretazione, sulla linea
di Harnack, de Faye valorizzava i maggiori maestri gnostici, “spiriti fermamente cristiani come
Basilide o Valentino”, davvero i primi teologi cristiani, per il loro “grandioso tentativo di introdurre
il cristianesimo nella cornice del pensiero filosofico dell’epoca, per farne una religione accessibile
alle menti istruite e alle classi superiori” (Puech, pp.183-84). La reazione a questo indirizzo
rivalutativo, nella Religionsgeschichte Schule, partendo da giuste esigenze di approfondimento
storico, si spingeva troppo oltre in modo più che sospetto di zelo “ortodosso” (cristiano), con la sua
insistenza nel volere estromettere lo gnosticismo dal cristianesimo, ampliando smisuratamente la
storia della Gnosi, riportandola alle sue origini orientali e a un’estensione pressoché universale nel
tardo ellenismo.

Non era certo un caso che i vari ossessivi adversus ecclesiastici, della cui attendibilità giustamente
diffidava Harnack, qui trovino invece largo credito, suscitando fra l’altro le proteste di de Faye.
Appare comunque inaccettabile la tesi tendenziosa di Bousset, che negava ogni rapporto tra
gnosticismo e cristianesimo, a smentita di campagne organiche, quanto mai risolute, come quella
del vescovo di Lione, e della distruzione sistematica dei testi praticata dalle chiese garanti della
“ortodossia”. Giacché era questa la lotta che si combatteva nel II secolo, mi pare un’autentica
sciocchezza la tesi rovesciante di Bousset così riassunta da Puech: “se lo gnosticismo avesse
trionfato, avrebbe riportato il cristianesimo più indietro ancora delle sue origini ebraiche: alla
religiosità arcaica dell’Oriente” (p.202). Anzitutto, quanto a civiltà, le grandi religioni dell’Oriente
non hanno nulla da imparare dal cristianesi-mo, regressivo sotto ogni profilo istituzionale, e proprio
nel senso della arcaicità dogmatica e rituale. In realtà, quella della Religionsgeschichte Schule, a cui
si ricollegava pure Bultmann, fu pure una specie di vague diffusa fra le due guerre e poi esauritasi,
fra critiche motivate e immotivate, e dinanzi alla comparsa dei testi originali gnostici di Nag
Hammadi, che indussero a ridimensionare l’espansione storica e l’arretramento precristiano dello
gnosticismo.

Nell’importante convegno internazionale di Messina, tenuto nel 1966 su Le origini dello


gnosticismo (Leiden 1967), si riversarono non poche reazioni critiche all’indi-rizzo della scuola di
storia delle religioni, proprio nel senso di negare una preistoria dello gnosticismo nell’area biblica
giudaico-cristiana. Vi era fra gli altri un problema di grande rilievo, che concerneva il carattere
gnostico del quarto vangelo e comunque il suo rapporto con la Gnosi: per cui Bultmann si era
richiamato decisamente al mito gnostico del Salvatore, ritenendo che l’evangelista fosse uno
gnostico convertito al cristianesimo. G.Filoramo, autore di una cospicua “storia della gnosi”
(L’attesa della fine, Laterza 1993), in una sua raccolta di studi sulla gnosi antica e attuale (Il
risveglio della gnosi ovvero diventare Dio, Laterza 1990), ha dedicato un capitolo specifico a “Il
Vangelo di Giovanni fra gnosi e gnosticismo”, il cui titolo allude a una distinzione non geniale
introdotta nel congresso. Filoramo riconosce validità all’ipotesi di Bultmann, per quanto riguarda
l’intenzione teologica dell’e-vangelista, la sua particolare idea della rivelazione, tesi che era stata
poi fatta propria – e perfino accentuata – da Käsermann.

Non vorremmo entrare nei subdistinguo eruditi a volte utili e spesso oziosi perché opinabili, come
quello sul carattere gnostico o gnosticizzante del Prologo del quarto vangelo, di cui Filoramo
risolleva il “problema”, confrontandovi uno dei testi di Nag Hammadi, la Protennoia Triforme. “Un
tipico testo di rivelazione gnostica”, che ha notevoli parallelismi formali e di contenuto col prologo
giovanneo, ponendo il tema – discusso fra i soliti dispareri – della dipendenza dell’uno dall’altro
testo, oppure del loro rifarsi a un modello comune (p.151). Tesi quest’ultima condivisa da Filoramo,
il quale fa notare come questo sia un caso in cui è difficile trovare nei testi di Nag Hammadi
conferme alle tesi della scuola di storia delle religioni sull’esistenza di un mito gnostico non
cristiano e precristiano, anteriori al II secolo. In ogni caso, questo testo e probabilmente altri testi
gnostici confermano l’evidenza di un livello gnostico del quarto vangelo, “cristianizzato” in senso
cristologico, e frutto di cultura ambientale, nello specifico ambito della “comunità” giovannea (o
“giovannica”), d’indirizzo appunto gnosticizzante. In questo senso anche l’Apocrifo di Giovanni,
“uno dei trattati fondamentali dello gnosticismo”, può essere letto – secondo le congetture spesso
troppo sottili di alcuni studiosi – non più come un testo di gnosi non cristiano, più o meno
“cristianizzato” poi, ma come testo redatto da un cristiano con materiali provenienti dal quarto
vangelo, come “un prodotto della riflessione cristiana nascente, che cerca di definire la propria
identità dottrinale e culturale” (Tardieu, cit. a p.157).

Nella relatività delle ipotesi, pure molto ragionate, gli studi ulteriori rispetto alla conferenza di
Puech, dimostrerebbero comunque un ritorno, con dati testuali assai più precisi, alla ipotesi di uno
gnosticismo cristiano assai pronunciato, che giustificherebbe nella logica odiosa del dissenso inteso
come eresia, le reazioni di denuncia esagitata di Ireneo e Ippolito ecc., che comunque non osavano
toccare il quarto vangelo. Si arriva a dire con Filoramo che il vangelo di Giovanni si sarebbe
“imposto come un punto di riferimento importante, se non per la genesi, certo per la conferma, la
chiarificazione, l’esplicitazione e, dunque, la fondazione del mito gnostico e della riflessione
teologica soggiacente” (p.161). Filoramo intende darne dimostrazione “documentale” in queste
pagine, esaminando i modi e i limiti della “presenza” del quarto vangelo nei testi gnostici reperiti, a
conferma ancora della lettura gnostica di Bultmann. In particolare, più della metà dei riferimenti
numerosi (84 su 149) rientrerebbero nell’ambito della scuola valentiniana: “in altri termini, la
scoperta dei testi di Nag Hammadi ha confermato il posto privilegiato che il vangelo di Giovanni
occupava in questa scuola” (p.166).

Vorrei notare per finire come invece persista un’interpretazione tendenziosa, che definirei senz’altro
cattolica antignostica, nel capitolo su “Lo gnosticismo” della Storia delle religioni diretta da Puech
(1970, tr.it. Laterza 1977, v.8) affidato a J.Doresse. Che raccoglie ancora le amplificazioni della
scuola di storia delle religioni, circa le origini gnostiche, riportandole a “incontestabili” (e invece
contestati!) pregressi rapporti con l’Iran e la religione di Zoroastro, e perfino con l’antica Babilonia,
a discen-dere dai Sumeri, per il loro mito della divinità salvatrice che porta agli Inferi “la
rivelazione delle fonti celesti” (p.44ss.). Quello che più sconcerta, sui “rapporti col cristianesimo”, è
la riduttività con cui Doresse – che dovrebbe essere un altro ecclesiastico – allude stolidamente
senza precisazioni a uno “gnosticismo cristianizzante”, in netto dissenso coi “cristiani veri”.
Ammette poi che per es. il mito gnostico della “croce di luce” nel cielo, associato all’immagine
cristiana della croce, come “la vera crocifissione del Cristo impassibile e non incarnato degli
gnostici”, si ritrova in molti apocrifi cristiani, come gli stessi Atti di Giovanni. Senza la minima
prova possibile, Doresse parla di “gnostici che erano attratti dagli insegnamenti del cristianesimo”
(incipiente), e che “si differenziarono nettamente dai cristiani autentici, dopo essersi
artificiosamente avvicinati ad essi” (p.52). Riferisce di valentiniani che si richiamavano ai vangeli
canonici, non lasciandosi mai tentare dall’ipotesi realistica che tutti costoro – come anche il nobile
Marcione e i “marcioniti” – si sentissero “cristiani” non “gnostici”, come gli ecclesiastici
“ortodossi” del II-III secolo li vollero inqualificare dal punto di vista della loro mitologia ecclesiale
del Cristo Salvatore. Ma si sa che quelle dei “settari”, come qui sono chiamati gli “gnostici” sono
“miti” e mitologie, quelle ecclesiastiche no, sono “verità rivelate”, verità di fede ecc., di cui Doresse
sposa la causa con calore, giustificando le povere chiese cristiane – lui dice già “la Chiesa” e altri
perfino la “Grande Chiesa” – perché reagivano a una serie di misfatti, come l’uso dei loghia di Gesù
nel Vangelo di Tommaso.

Doresse arriva a comporre uno scenario romanzesco e mistificatorio, nel quale dei biechi gnostici
scrivevano un Vangelo degli Egiziani, il cui titolo sarebbe stato “aggiunto per allettare i cristiani,
dal giorno in cui l’opera originaria che portava questo nome era sparita. Ancora più
spudoratamente, i nostri settari attribuivano alle loro antiche rivelazioni non cristiane dei
travestimenti cristiani” (p.53). La descrizione continua in questa chiave avversa, per cui si configura
come odioso reato la libertà di composizioni “apocrife”, facendole apparire – quasi Doresse fosse
investito della febbre eresiofòbica di Ireneo – come travestimenti di gnostici “per attirare i cristiani”
(p.54). E ha il cinismo ecclesiastico di aggiungere che “la vittoria finalmente conseguita dalla
Chiesa fece capovolgere la situazione: ormai, queste sette dovranno dissimulare alcuni aspetti delle
loro dottrine per proteggersi dalle persecuzioni che gli inquisitori della Chiesa ufficiale
conducevano con un rigore di cui un esempio eloquente, oltre agli ‘editti ufficiali’, è offerto dal
comportamento di Epifanio nei confronti dei settari che egli incontrò nell’Alto Egitto” (ivi).

Insomma – conclude senza vergogna – “le condanne sempre più dure che, nel mondo mediterraneo,
le Chiese cristiane pronunciarono successivamente contro le sette gnostiche e contro i manichei
avrebbero, dal IV al VI secolo, costretto gli uni e poi gli altri a rintanarsi e, finalmente, a
scomparire, lasciando come ricordo solo i più neutri dei loro scritti” (ivi). Invece, “nel vicino
Oriente, patria originaria del dualismo, l’invasione dell’Islam avrebbe consentito alle sette di
sopravvivere” (ivi): una delle infinite conferme della superiorità di ogni altra religione, rispetto alla
agghiacciante bassezza ecclesiastica del cristianesimo.

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