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IL COSTUME TRADIZIONALE IN SARDEGNA

Di Sabrina Schintu

INDICE

Il costume tradizionale sardo …………………………………………………………….. 2

Il costume femminile …………………………………………………………………….. 6

Il costume maschile …………………………………………………………………….... 11

L’abbigliamento infantile ………………………………………………………………... 16

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Gli abiti tradizionali, come tutti i vestiti, sono sensazioni della pelle e meccanica dei gesti, a cui si
aggiungono la coscienza di appartenenza e lo spessore di una storia che tocca un’identità profonda.
Risulta assodato in primis che l’abito tradizionale sardo rende riconoscibile la regione di
appartenenza, il sesso, l’età, lo stato anagrafico e il ruolo di ciascun membro della comunità.
Altrettanto rigido e inequivoco è il repertorio delle forme a cui è affidata la trasmissione dei
significati: i pantaloni o la gonna, la camicia, il corpetto, il grembiule e gli indumenti più esterni, le
acconciature, i colori, i nastri e pochi altri componenti.
Tutti gli elementi formali si articolano secondo schemi modulari, a cui solo la qualità dei materiali e
della confezione conferisce un segno individuale, poiché sono ristrettissimi i margini di scelta
personale concessi dall’apparato di informazioni e di moduli, che rappresentano la collocazione di
un membro della comunità nella scala delle funzioni.
Il valore speciale dell’abito tradizionale sardo risiede, oltre che nella ricchezza del suo repertorio
formale, anche nella sua lunga vitalità e soprattutto nel suo confronto con la modernità.
Il “costume popolare”, quale è definito dagli studi nei suoi significati sociali e nelle sue componenti
formali, appare totalmente differente dall’abbigliamento usuale nella moderna civiltà occidentale.
Nell’abito tradizionale i segni forniscono informazioni sulla regione di appartenenza, sul ceto e sui
diversi ruoli all’interno del ceto, le cui varianti sono determinate dal sesso, dalla professione e dalla
condizione di legittimo coniuge. È del tutto estranea alle funzioni di un abito moderno la necessità,
imprescindibile per un abito tradizionale, di indicare se la persona è residente a Cagliari o a Nuoro.
Il distacco tra gli abiti tradizionali e quelli “borghesi” è confermato e ribadito dalla forma delle
fogge e dall’accostamento dei colori. Nell’abito femminile, la lunghezza e l’ampiezza delle gonne,
la sequenza camicia-gonna-corpetto-giubbetto con le varianti delle forme ornate dal frequente
accostamento del colore rosso con l’azzurro; nell’abbigliamento maschile, la sequenza calzoni
gonnellino-camicia-corpetto-giubbetto compongono un repertorio incomunicabile all’abito
moderno. Quest’ultimo impiega forme e sequenze molto varie, e soprattutto costruite sulla
dimensione individuale di un corpo.
Nell’abito “borghese” la rappresentazione preminente è quella dell’individualità fisica, espressa
principalmente nell’aderenza dell’abito al corpo. Per ottenere la compiuta perfezione della forma
“borghese”, fu necessario abbandonare gradualmente tutte le forme artificiate di imbottiture e
corsetti, a ciò aggiungendo l’elaborazione della nozione di taglia e una tecnica sartoriale assai
complessa, riproducibile meccanicamente. Al contrario, gli elementi dell’abito tradizionale sono
costruiti con notevole approssimazione dimensionale, quasi moduli intercambiabili da persona a
persona e da generazione a generazione.
Il lungo processo di affioramento dell’abito “borghese” è sovrapponibile per cronologia a quello della
nascita dell’abito tradizionale. La simultaneità dell’origine dell’abito “borghese” e di quello
tradizionale si aggiunge alla dimostrazione di una sostanziale identità di forme e significati tra
l’abbigliamento dell’Ancien Régime e quello tradizionale. Non sembra dunque del tutto fantasiosa
l’ipotesi che l’abito tradizionale abbia conservato la struttura dell’abito nobiliare, arroccandosi nel
terzo stato per quasi due secoli.
Flavio Orlando aveva rilevato che non si rintraccia alcuna testimonianza di un abbigliamento
specifico delle classi subalterne fino ai decenni centrali del Settecento, a cui giunge unicamente la
documentazione dell’abito nobiliare. D’altra parte nel 1550 Sigismondo Arquer riferiva sui sardi e i
loro vestiti: «vivunt in diem vilissimoque vestuntur panno»; e nel 1559 Giovanni Francesco Fara
annotava l’uso dell’orbace, insieme con un carattere molto sobrio e privo di lussi.
Il complesso vestimentario oggi riconosciuto come costume popolare della Sardegna rappresenta
l’esito di un lungo processo di trasformazione e rifunzionalizzazione indumentaria che prende avvio
nel XVI e si conclude alla fine del XIX secolo.
L’Ottocento produce una documentazione testuale e iconografica di straordinaria ampiezza e varietà
da cui, insieme alla configurazione del territorio, alle vicende storiche, ai dati economici e climatici
emergono i modi di vivere dei Sardi: del lavorare e far festa, del mangiare, dell’abitare e, ciò che
qui interessa, del vestire.
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Questa letteratura formalizza e rende finalmente visibile il catalogo delle articolazioni
dell’abbigliamento utilizzato dalla gran parte della popolazione dell’isola e, nel contempo, ne
sancisce la fine come vestiture d’uso.
Per quanto attiene al versante maschile il sistema di cui si parla comprende
sommariamente:
– copricapo a sacco;
– camicia bianca di lino o cotone (camìsa);
– corpetto e gilet (corìttu);
– giubbetto (zippòne);
– calzoni bianchi (carzònes);
– gonnellino nero (carzònes de furési);
– brache (carzònis) larghe.
Sopra quelli descritti potevano essere indossati, a seconda del mestiere e
delle circostanze, altri indumenti:
– giacca di orbace nero con cappuccio e bordi interni guarniti di velluto
nero;
– cappotto lungo di orbace nero, completo di cappuccio, con lungo spacco
posteriore;
– mantello di orbace nero, indumento da lavoro particolarmente diffuso;
– soprabito di panno grosso e morbido, color marrone, con cappuccio;
– soprabito, senza maniche, di pelle conciata, generalmente lungo fino alle ginocchia;
– veste senza maniche di pelli intonse, di agnello o di pecora, e di lunghezza variabile;
– scarponi (iscarpònes) con spesso fondo di cuoio imbullettato.

Passando all’ambito femminile, gli elementi essenziali comprendono:


– copricapo: (cuffia, benda, velo, pannetti, fazzoletti, manto, mantiglia, scialle,
gonna, ecc.);
– camicia: bianca, di lino o di cotone;
– corpetto (imbùstu);
– giubbetto: (panno, velluto di cotone e di seta liscia o operata, sete damascate e
broccate);
– gonna (munnèdda): sempre lunga ed ampia.
L’indumento poteva essere impreziosito sul bordo inferiore da una balza e da
nastri policromi;
– grembiule (fàrda);
– calzature: le tipologie più diffuse sono basse (iscàrpas), o stivaletti (bottìnos).

Il vestiario sopra descritto, che, al pari della lingua, appariva unitario e


riconoscibile come sardo se rapportato all’esterno, e, invece, tanto diverso e
articolato nell’ambito del territorio isolano, suscitò l’interesse dei visitatori
extrainsulari per due ragioni principali: da un lato l’arcaicità delle vesti maschili, nelle quali,
inevitabilmente, veniva riconosciuta l’eredità del mondo mediterraneo antico;
dall’altro la varietà e la ricchezza di quelle femminili.

L’indumento che più di qualsiasi altro, nel corso dei secoli, è stato associato ai Sardi, la mastruca,
rimanda a una tradizione d’uso estesa ben oltre i confini dell’isola, se non altro per la semplice
ragione che le pelli costituiscono i primi, insostituibili abiti dei popoli pastorali.
Oggi la mastruca è indossata dalle maschere dei mamuthones di Mamoiada e dei merdules di
Ottana: a queste maschere come ad altre simili di tanti paesi pastorali dell’Europa e del
Mediterraneo (Spagna, Slovenia, Croazia, Bulgaria) si affida il compito di trasformare chi le
indossa in esseri alieni, propiziatori di beni per la comunità.
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Le occasioni festive e di gala e, all’estremo opposto, la condizione di lutto sono i momenti nei quali
l’abito si struttura secondo regole codificate più rigidamente; la quotidianità deroga
necessariamente a tali norme. Quella consueta e celebrata è l’immagine di un popolo in festa negli
abiti variopinti, da sempre ammirati, decantati e maggiormente rappresentati. Abiti del “tempo
sospeso” che coprono, riscaldano, ma soprattutto trasformano la fisicità di uomini e donne,
espandono i corpi nello spazio, regolano la normale gestualità del vivere in forme contenute, quasi
rituali, che segnano i momenti del non lavoro; vestiti destinati ad accompagnare i defunti o a
passare, preziosa eredità, alle generazioni successive.
La festa è l’eccezione, il rito, la cerimonia, la cui importanza viene in qualche modo amplificata
proprio dalle complesse regole che la comunità elabora per la sua celebrazione.
A questo evento fuori dall’ordinario l’abito di gala è pienamente coerente: stringe e costringe i
corpi, li ricopre di colori vivaci, comunica in un codice intelligibile; regola le posizioni sociali,
consentendo varie gradazioni del “lusso”, dichiara lo stato civile dell’individuo, distingue coloro
che, per lutto, sono socialmente impossibilitati a godere pienamente della festa. Il primo grado del
“lusso” è dato dallo stato di usura e dalla pulizia dei capi che, variamente assemblati, costituiscono
l’abbigliamento festivo; il massimo livello è quello dell’abito nuziale, veste di gala per eccellenza,
che dopo le nozze viene indossato solo in occasione delle principali solennità religiose, matrimoni,
battesimi e cresime.
Gli abiti divengono forme di comunicazione perfettamente decifrabili sia all’interno di un preciso
gruppo sociale, quello del villaggio, sia all’interno delle comunità vicine con le quali esistono
spesso sostanziali convergenze nelle regole vestimentarie, mentre possono variare anche
sostanzialmente i dettagli, i colori e le ornamentazioni.
La condizione di lutto è talmente pregnante di significati da modificare e ricomporre, anche
stravolgendole, molte regole sociali. Si parlerà più spesso della condizione femminile piuttosto che
di quella maschile perché alle donne spetta, più che agli uomini, l’elaborazione sociale del lutto e i
loro abiti mostrano, per questo, varianti più significative. È dunque necessario distinguere le
principali gradazioni del lutto: lutto stretto, mezzo lutto e lutto leggero sulle quali vengono
diversamente modulate le regole sociali e di conseguenza quelle vestimentarie.
La parentela esistente tra il defunto e i membri della comunità determina l’adesione all’uno o
all’altro grado. Al lutto stretto sono tenute le vedove, i vedovi, gli orfani, i fratelli e le sorelle del
defunto. Al mezzo lutto tutti i parenti di primo grado o anche i vicini di casa o gli amici con i quali
corrano stretti rapporti sociali.
Al lutto leggero concorrono tutti coloro che abbiano parentela lontana e quanti si rechino a fare le
visite di condoglianze o debbano partecipare in qualche modo alle pratiche successive al decesso
quali il lavaggio e la composizione del cadavere, il compianto, la recita di preghiere e tutto quanto
si svolge nell’abitazione del defunto prima che la salma venga trasportata in chiesa per la
celebrazione della messa funebre. La presenza alla funzione, infatti, richiede l’uso di indumenti di
diverso tipo per le partecipanti non parenti, fino al livello festivo, escluso quello di gala.
In una società nella quale gli abiti hanno una così precisa connotazione simbolica, è anche naturale
che nelle forme di scambio, quali il dono o la retribuzione, essi abbiano un ruolo di primo piano.
Senza neppure tentare di dar conto dell’ampiezza e della complessità dei rapporti che vengono a
crearsi nel ciclo di produzione, trasformazione e consumo, basterà qui ricordare che capi di
abbigliamento, soprattutto fazzoletti e scialli, sono frequente dono dei fidanzati alle promesse spose
le quali ricambiano con camicie e fazzoletti ricamati. Cuffiette e camicine sono il regalo delle
madrine ai figliocci. Nastri, fazzoletti e tessuti sono il dono più frequente per le donne di casa al
ritorno dalle città e dalle fiere.
La confezione di capi di abbigliamento può avvenire in ambito domestico e può essere compresa
nell’insieme delle attività proprie della “buona massaia”. In relazione alla varietà delle situazioni
materiali si confezionano capi per tutti i membri della famiglia, almeno per quanto riguarda gli
indumenti d’uso giornaliero e, in quelle di modesta condizione, anche per quelli festivi. Le famiglie

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agiate ricorrono più spesso all’opera di maestranze, riservando per sé soltanto piccoli lavori di
ornamentazione.
Abiti ispirati alla moda francese e italiana, in voga tra il 1870 e il 1880, entrano a pieno titolo
nell’abbigliamento tradizionale di diverse località della Sardegna per opera di mogli e figlie di
funzionari statali e di commercianti, spesso forestiere e dunque portatrici di un diverso stile
vestimentario, o anche donne del luogo che, dopo il matrimonio, assumono l’abito di tipo borghese
ritenuto più adatto a rappresentare lo stato sociale del capofamiglia.
Non potendo riconoscere in queste tipologie una vera e propria caratteristica sub-regionale, dato che
la diffusione interessa in misura più o meno evidente molte località della Sardegna, vale comunque
la pena di segnalare che se in alcune località la presenza dei modelli suddetti influenza solo
marginalmente l’abbigliamento tradizionale, in altri luoghi finisce per uniformare gradatamente il
gusto generale fino a soppiantare totalmente le fogge precedenti.
L’analisi classica dell’abbigliamento tradizionale sardo si sofferma, di norma, sugli insiemi festivi e
di gala delle varie località, descritti troppo spesso come immutabili e resistenti alla
modernizzazione, e dei quali si esaltano il cromatismo, il corredo di gioielli e l’antichità.
L’analisi che segue propone le varie componenti dell’abito tradizionale, descrivendo ciascun
indumento nella sua funzione, illustrandone quando possibile l’origine, la cessazione dell’uso o la
continuità anche in presenza di sostanziali trasformazioni. Le grandi categorie della festa, del lutto e
della quotidianità vengono trattate insieme nell’analisi delle varie tipologie di indumenti, assorbite
in quelli che possono più estesamente essere definiti i sistemi vestimentari maschile, femminile e
infantile.

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IL COSTUME FEMMINILE

I copricapo sono generalmente complessi, costituiti da almeno due


elementi sovrapposti, uno dei quali a diretto contatto con i capelli,
raccolti in varie acconciature, e almeno un secondo, sopra questo. L’uso
di coprire la testa rende solo ipotizzabile quali acconciature si celino
sotto i copricapo dato che anche quelli più semplici, come i fazzoletti o le
cuffie, nascondono la capigliatura. Le donne portano i capelli lunghi
intrecciati in diversi modi, partendo da una scriminatura centrale che
divide la massa, viene spesso legata con nastri, colorati per le ragazze e le
giovani donne e scuri o neri per le anziane o le vedove.
Nel primo Novecento, ai mutamenti descritti per gli abiti, si affianca anche un diverso modo di
acconciare i capelli; fino a questo momento, specie per le donne sposate ed anziane, è regola diffusa
quella di ricoprire i capelli quale segno di pudore, di riservatezza, di morigeratezza di costumi; tale
regola, ferrea fuori dall’ambito domestico, viene per lo più osservata anche al suo interno, dove è
consuetudine che le donne più anziane portino cuffia, fazzoletto o benda sovrapposti e, le più
giovani, almeno il fazzoletto
Dopo il 1920, le donne mostrano la capigliatura con maggiore libertà e se questa resta comunque
celata non lo è più per una sorta di tabù, ma per dare ancora più risalto alle complesse acconciature
di gala.

Le camicie sono indumenti fondamentali del sistema vestimentario


popolare, sono attestate in numerose varianti; i modelli destinati
all’uso giornaliero sono realizzati con tele piuttosto resistenti di
cotone di produzione industriale o lino tessuto in casa, con ornati
molto semplici posti soprattutto in corrispondenza dello scollo e dei
polsi. I capi festivi e di gala, realizzati con tele di maggior pregio,
mostrano ricami ricercati e preziosi, sempre più appariscenti a
partire dai primi anni del Novecento.
Sono state individuate tipologie di camicie ascrivibili a due grandi
gruppi: camicie lunghe che coprono fino a metà gamba o alla
caviglia e camicie corte che coprono fino alla vita o al bacino. È possibile che l’archetipo comune
sia stato una camicia lunga, un originario capo con doppia funzione intima e esterna, diffuso in tutta
la Sardegna, che si è poi differenziato con modifiche strutturali non significative ma con interventi
decorativi assai diversi determinati dal modello vestimentario delle diverse località che può
richiedere una maggiore o minore esposizione della camicia. La semplicità della struttura di questi
indumenti li rende facilmente adattabili a diverse corporature, le dimensioni sono pertanto piuttosto
uniformi; l’ampiezza e la lunghezza delle maniche sono condizionate dall’uso o meno di un
indumento a manica lunga da sovrapporre alla camicia e dalla tipologia della manica di questo
stesso indumento.
La denominazione locale non offre alcuno spunto per una differenziazione tipologica del termine
camicia: camìsa è presente in tutta l’isola riferito indifferentemente a modelli lunghi o corti. I
diminutivi camisèdda e ’amisèdda sono peraltro usati rispettivamente a Desulo e a Fonni anche per
la gonnella di orbace e per la sottogonna di tela di lino o cotone pesante. Termine più antico ed
attestato in tutta l’area mediterranea è lìnza, ma anche in questo caso non si può dire se i capi così
denominati fossero lunghi o corti. A Nuoro, dove si usa la camicia corta, il termine lìnza indicava
la camicia femminile mentre quella maschile veniva detta ghentòne; entrambi i termini sono stati
sostituiti nei primi decenni del Novecento dal più comune camìsa.
Il lutto impone la riduzione delle scollature, la rinuncia ai ricami vistosi con la sola concessione di
quelli necessari per la struttura dell’indumento, ma in tutti i casi, anche questi, semplificati. Per le
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vedove, specie nei primi tempi, anche l’eccessivo candore della camicia fresca di bucato doveva
essere smorzato esponendola al fumo del focolare prima di indossarla.

Fazzoletti, scialletti da spalle e copriseno


Fazzoletti e scialletti da spalla si distinguono tra loro solo per la presenza o meno di frange; possono
avere forma quadrata o triangolare (sciallìnu, mucadòre in trùgu), sono indossati ripiegati a
triangolo e incrociati sul petto fissando gli angoli anteriori alla gonna,
oppure piegati a sciarpa e indossati come stola fissando le estremità
anteriori dentro il corpetto, senza incrociarle. La diffusione di questi
indumenti interessa tutta l’isola sia negli insiemi festivi che in quelli
giornalieri, fatta eccezione per l’area centrale. Analoghi ai veli da testa
sono anche i fazzoletti in tulle che, ripiegati a triangolo, coprono i
giacchini indossati nell’insieme festivo delle panattàre di Cagliari.
I copriseno sono di due tipi. Il più semplice è un fazzoletto (pannéddu, pànn’’e pettùrra) di medie
dimensioni che viene fissato alle bretelle del corpetto e lasciato ricadere sul petto o rimboccato
all’altezza della vita coprendo tutta la parte anteriore. È un fazzoletto di produzione industriale, in
tela di cotone stampata nelle più diverse fantasie o, per la gala, in tessuti di seta operati; è presente
anche nell’abbigliamento quotidiano per proteggere la camicia nello svolgimento delle attività
domestiche.

I corpetti sono indumenti, privi di maniche, aderenti al busto e tagliati per sostenere e dare risalto
al seno, possono essere considerati, in Sardegna, gli indumenti più
conservativi. Per il loro valore intrinseco, dovuto all’uso di tessuti pregiati,
alla presenza di ricami elaborati e per la tipologia sartoriale, che non consente
riutilizzi del tessuto, sono tra i capi più rappresentati nelle collezioni
pubbliche e private, specie nelle varianti festive e di gala.
I modelli di corpetti sardi possono essere distinti in due grandi classi che
delimitano due aree geografiche ben definite: corpetti o busti rigidi nella
Sardegna settentrionale e nel Goceano e corpetti morbidi nella Sardegna
centro-meridionale e nel Nuorese. In tutti i casi i corpetti hanno dimensioni
assai ridotte e richiedono l’impiego di una esigua quantità di tessuto; ciò
spiega l’utilizzo di materiali di grande pregio, talvolta ritagli di capi di provenienza ecclesiastica o
nobiliare rielaborati in ambito popolare.
I colori sono di norma squillanti e le policromie accese nei capi destinati all’uso festivo, più
smorzate in quelli d’uso feriale. Eccezione tra tutti il corpetto di Orgosolo, tutto nero, con la sola
nota del rosso dei profili, anche per l’uso festivo e di gala. Gli indumenti destinati al lutto
prediligono i colori scuri, con nastri violacei; per il lutto vedovile è d’uso il nero assoluto, appena
stemperato da applicazioni di nastri o trine in tinta.

I capispalla, vale a dire gli indumenti strutturati, di linea sia geometrica sia sagomata, che hanno
come punto d’appoggio le spalle e coprono il tronco e le braccia, sono presenti nella sola variante
corta, dotata di maniche.
Tra la fine del XVIII e i primi decenni del XX
secolo, la copertura di tronco e braccia è
dunque assolta da camicie, corpetti e vari
modelli di capispalla corti descritti
all’interno di tre grandi gruppi: giubbetti, boleri, casacchini e giacchini.
Il termine giubbetto viene proposto per comprendere tutti gli indumenti a struttura geometrica o
sagomata confezionati con tessuti pesanti (orbace, panno, velluto).
I boleri sono indumenti caratterizzati da una limitatissima lunghezza, presentano sempre maniche
lunghe e strette, in qualche caso con brevi spacchi. Sono specialmente presenti nella Sardegna
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centro-settentrionale, e nella Baronia di Orosei. È possibile che la diffusione del bolero sia iniziata
alla fine dell’Ottocento sulla scia della moda borghese che nell’ultimo trentennio ne aveva decretato
fasi alterne di successo. In Sardegna, la fortuna di questo capo prosegue fino al pieno Novecento.
I casacchini sono corte giacche che non oltrepassano i fianchi, hanno la parte posteriore piuttosto
aderente al busto e lasciano scoperto il petto.
I giacchini sono presenti in tutta l’isola discendenti da capi aulici o borghesi, più raramente di
tradizione settecentesca, più spesso derivanti dalle varianti della moda ottocentesca.
Giacconi, cappotti e mantelle sono invece del tutto sconosciuti anche nelle località montane
dell’interno dove probabilmente erano utilizzati, all’occasione, dei manti simili a quelli maschili
denominati sàccu. In generale sembrano essere sufficienti i copricapo di grandi dimensioni, i quali
svolgono egregiamente la funzione di protezione dal freddo e dalle intemperie.

Maniche staccate: coprono l’avambraccio dal polso al gomito e vengono confezionate con pregiati
tessuti in seta. A quanto è dato sapere il loro uso è limitato ad una ristretta area del Campidano di
Cagliari. Le fonti iconografiche più antiche, dal Tiole al La Marmora, ne documentano l’uso in
insiemi vestimentari di gala del Campidano di Cagliari, sempre abbinate a casacchini di velluto con
maniche a tre quarti con bordo a volant.
Manicotti: partendo dal polso coprono per metà l’avambraccio e nascondono le maniche delle
maglie di lana eventualmente indossate sotto la camicia giornaliera portata con le maniche
rimboccate, oppure, negli insiemi di gala, si intravedono appena sotto il polso della camicia.
L’iconografia più antica non ne attesta l’uso, potrebbe trattarsi di un’introduzione successiva ai
primi anni del XX secolo del quale resta traccia in esemplari del centro Sardegna.
Polsini: confezionati in tela di cotone o di lino, sono presenti in quegli insiemi vestimentari che
prevedono l’uso di giacche con manica stretta al di sotto delle quali la camicia può essere molto
semplice perché destinata a rimanere completamente coperta. In questi casi, per simulare il possesso
di più camicie ricamate, si indossano alti polsini ornati per lo più a motivi floreali con le tecniche
già descritte per il ricamo in bianco delle camicie.

Le cinture sono accessori d’uso abbastanza limitato nell’isola, completano l’abbigliamento


femminile di gala di poche località ed hanno un impiego prettamente ornamentale. Coprono
l’area del punto vita compresa tra l’orlo inferiore del corpetto e la gonna e si utilizzano sia
quando il corpetto viene indossato sotto il giubbetto (Quartu S. Elena, Monserrato, Bitti,
Dorgali) sia quando viene indossato sopra (Nuoro, Orani).
I modelli sono sostanzialmente due: a nastro avvolto e a fascia. Gli esemplari del primo
tipo sono confezionati con un nastro di gallone in filato metallico dorato o argentato, largo
cm 5-10, lungo fino a cm 350. Le cinture di questo tipo si indossano avvolgendole almeno
due volte attorno al punto vita, falsando i giri per aumentare la parte coperta.
Le cinture a fascia sono confezionate con gallone in filato metallico dorato o argentato o
con nastri gobelin a motivi floreali o geometrici, in tutti i casi sotto la fodera di cotone è
presente un tessuto di rinforzo. Le dimensioni in altezza variano tra cm 5 e 10, la larghezza
corrisponde al giro vita.

Le gonne sembrano essere le soluzioni sartoriali e decorative escogitate in tutto l’ambito della
Sardegna per produrre questo genere di indumenti che, per facilità di sintesi, vengono descritti
raggruppandoli in cinque grandi categorie. Gonne a telo semplice o doppio, gonne a sacco, gonne
arricciate, a pieghe e plissettate, gonne a gheroni e gonne unite al corpetto.
Esistono comunque alcune caratteristiche comuni a tutte le gonne, il punto vita, ad esempio, è
regolabile per poter accompagnare la proprietaria dell’indumento nelle sue variazioni di taglia o
durante la gravidanza. Dato l’utilizzo prevalente di tessuti pesanti, quali lana e soprattutto orbace,
nella sua confezione, alla gonna viene frequentemente associato l’impiego di cuscinetti o

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imbottiture per migliorarne la vestibilità e sostenerla nella parte superiore, in corrispondenza della
vita, evitando così che scivoli lasciando scoperti parte della camicia o del corpetto.

I grembiuli caratterizzano l’abbigliamento popolare di tutto l’ambito europeo ed anche in Sardegna


sono presenti in numerosissime varianti determinate dall’insieme vestimentario al quale si
accompagnano, dall’area geografica di appartenenza e dall’occasione per la quale vengono
indossati. Per necessità descrittiva le varie tipologie vengono ricondotte, in qualche caso
forzatamente, a grandi gruppi, abbiamo quindi: grembiuli a pannello, arricciati o pieghettati e a
ventaglio.
Con i grembiuli a pannello vengono descritti i grembiuli a striscia allungata, quelli
trapezoidali e quelli avvolgenti. I cosiddetti grembiuli a striscia allungata,
caratterizzano l’abbigliamento di alcuni paesi montani del centro Sardegna per i
quali le fonti danno numerose descrizioni e illustrazioni. Si tratta di grembiuli che
poggiano sui fianchi allungandosi in una lunga striscia centrale con estremità
inferiore arrotondata; sono sempre associati a gonne strette e aderenti alla figura.
I grembiuli arricciati sono i più comuni sia perché hanno soppiantato nell’uso alcuni dei modelli di
gala ed accompagnano il vestiario tradizionale fino alle ultime fasi della sua utilizzazione, sia
perché sono quasi ovunque utilizzati negli insiemi giornalieri e da lavoro.
I grembiuli a ventaglio sono una tipologia piuttosto omogenea ben rappresentata, dal primo
Ottocento in poi, negli insiemi di gala del Cagliaritano che, per l’indubbia valenza estetica, ha
attratto i viaggiatori e gli illustratori. Si tratta di grembiuli che non oltrepassano la metà della
lunghezza complessiva della gonna e vengono definiti a ventaglio perché caratterizzati da un
gruppo centrale di pieghe in cui si raccoglie l’ampiezza del tessuto che si allarga verso il basso
appunto come un ventaglio.

La biancheria sono gli indumenti indossati a diretto contatto con il corpo sono originariamente
caratterizzati dall’uso di tela di colore bianco dalla quale prendono la denominazione di biancheria.
Le camicie, che pure sono confezionate con questo tipo di tessuto e nascono come indumento
intimo, non vengono comprese nella biancheria poiché, sono ormai pienamente trasformate in capi
esterni. Il termine biancheria si estende e finisce per comprendere tutti gli indumenti di utilizzo
intimo confezionati con vari tessuti: cotone, seta e lana, sia bianchi che colorati.

Scarpe basse, leggermente appuntite, scollate e in qualche caso guarnite di fibbie d’argento, sono le
più raffigurate nel primo Ottocento anche se non mancano i modelli più pesanti e accollati. Spesso
sembra trattarsi di riproduzioni derivate da un’osservazione affrettata e perciò un
po’ semplificate e poco dettagliate.
Ciabatte e pantofole (cattòlas) in pelle e tessuto sono in genere ignorate perché
destinate ad un uso familiare.
Gli zoccoli con suola in legno, tacco basso e tomaia in tessuto a fascia chiusa o
aperta in punta sono invece piuttosto importanti negli insiemi giornalieri di molte località
specialmente della Sardegna meridionale dove il loro uso è continuato fino alla metà del Novecento.
Le scarpe (iscàrpas) festive sono in qualche caso realizzate con tessuti broccati che rimandano ad
uno stile settecentesco, soprattutto in area campidanese e nell’Iglesiente. Sono piuttosto diffuse
anche semplici decolleté con tacco basso e tomaia in pelle martellata o vernice, di colore nero, con
sottili profili laterali in pelle rossa. Sono assai frequenti anche scarpe allacciate
guarnite di fiocchi, coccarde o fibbie d’argento ed anche stivaletti in rasatello di
cotone nero ricamato con elastici inseriti ai lati e con tacco basso. Altre calzature a
tacco medio, con tomaia scollata e lacci, decorate di fiocchi o coccarde in tinta
contrastante o in nero per le vedove o con cinturino abbottonato di lato, sono diffuse
in tutta la Sardegna nel primo decennio del Novecento. Piuttosto diffusi sono, nello

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stesso periodo, gli stivaletti in pelle o vernice forniti di banda elastica ai lati, con curioso tacco
medio alto molto sagomato e rientrante nella parte posteriore.
Tutti i tipi descritti hanno suola in cuoio liscio. Estremamente interessante è poi la gamma degli
scarponcini e stivaletti allacciati (bòttes, bottìnos), in pelle scamosciata di colore naturale o in pelle
liscia o martellata di colore nero, tutti caratterizzati dalla suola di cuoio imbullettata. La forma è
spesso molto sfilata con punta rialzata verso l’alto, il tacco è medio, molto sagomato e rientrante.
Dopo il 1920 questi tipi di calzatura su misura iniziano ad essere soppiantati dai modelli pronti,
preferiti soprattutto per completare gli insiemi da sposa e di gala mentre resistono ancora, specie
nelle aree montane, calzature più robuste, soprattutto scarponcini o stivaletti allacciati e abbottonati,
in qualche caso anche chiodati, da indossare quotidianamente.

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IL COSTUME MASCHILE

I copricapi
Tutta l’iconografia conferma la consuetudine degli uomini sardi di coprirsi accuratamente la testa,
anche con più copricapo sovrapposti. Lo studio comparato dell’iconografia, delle fonti e dei
materiali d’epoca, esaminati in un arco di tempo che va dalla seconda metà del Settecento alla
prima metà del Novecento, mostra una straordinaria varietà di tipi di copricapo, usati in occasioni
festive e giornaliere, con le normali differenze di maggior pregio per quelle festive. Dopo la
seconda metà dell’Ottocento la condizione di lutto vedovile impone anche per gli uomini il colore
nero negli abiti e dunque anche nei copricapo; diversamente da quanto avviene per le donne non è
dato di conoscere quali varianti cromatiche siano previste per la condizione di mezzo lutto e lutto
leggero, probabilmente simili a quelle cupe e sobrie indossate anche dagli anziani.

La camicia maschile è nata come indumento intimo, trasformandosi poi in indumento esterno
chiamato con l’antico termine ghentòne oppure con quello più moderno camìsa ed altre varianti
simili. I capi destinati all’uso giornaliero sono realizzati con tele piuttosto resistenti di cotone, di
produzione industriale, o di lino tessuto in casa; per i capi festivi e di gala
sono impiegate invece tele di maggior pregio. Per l’uso giornaliero gli ornati
sono molto semplici mentre per quello festivo sono presenti ricami ricercati e
preziosi sempre più appariscenti a partire dai primi anni del Novecento; in
tutti i casi l’ornamentazione riguarda il collo, i polsi e le parti di tessuto
arricciate in corrispondenza dell’attaccatura della spalla. I capi sono per lo più
festivi, più rari quelli d’uso giornaliero, ma la differente utilizzazione non
comporta alcuna variante di modello, solo, come si è detto, un diverso pregio del tessuto e
dell’ornamentazione. La semplicità della struttura di questi indumenti li rende facilmente adattabili
a diverse corporature, le dimensioni sono pertanto piuttosto uniformi; l’ampiezza e la lunghezza
delle maniche variano in relazione all’uso dei capi che si sovrappongono direttamente alla camicia.
Esistono essenzialmente due tipi di camicia maschile, uno più arcaico, l’altro più evoluto, entrambi
molto semplici dal punto di vista sartoriale perché costituiti dall’unione di parti di tessuto di forma
rettangolare, proporzionati alla taglia del committente, uniti a formare busto e maniche; a questi si
aggiungono i polsi, il colletto ed eventuali pettorine che sono preparati a parte e poi applicati
successivamente..
L’iconografia del primo Ottocento mostra camicie maschili con colli così alti da essere chiusi da
due coppie di bottoni gemelli, specie nel caso di insiemi festivi o propri della classe agiata residente
nel Cagliaritano e nel Sassarese. Tra la fine dell’Ottocento e il primo dopoguerra, nei centri in cui si
utilizza ancora l’insieme tradizionale, le camicie, come gli altri capi, vengono arricchite di ricami e
guarnite di pizzi ad uncinetto del tutto sconosciuti per tutto l’Ottocento, vengono inoltre
notevolmente dilatate le parti sulle quali il ricamo può essere applicato, cioè il collo, i polsi e in
qualche caso le pettorine.

I fazzoletti da collo sono del tutto identici a quelli da testa, che vengono indossati soprattutto in
area campidanese dove rimangono comunque relegati ad un ruolo accessorio di secondo piano. I
numerosi esempi riportati dalle fonti iconografiche testimoniano d’altra parte un’ampia diffusione
di questi elementi già dall’inizio dell’Ottocento.

I corpetti e gilet distinguono i gruppi che raccolgono le più importanti tipologie di indumenti
smanicati dell’abbigliamento maschile. Corpetti e gilet sono presenti negli insiemi vestimentari di
tutta l’isola e vengono indossati direttamente sulla camicia, sovrapponendo ad essi giacche,
giacconi o cappotti corti. Le cuciture e le rifiniture sono realizzate più frequentemente a mano che a
macchina. Per le occasioni di lutto, e comunque per le persone anziane e le attività lavorative, i
tessuti sono di colore e qualità più modesti.
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Nel gruppo dei corpetti vengono compresi i capi ad abbottonatura anteriore a
petto semplice o doppio, privi di colletti o risvolti, che mostrano uno stile
“tradizionale” molto preciso, sia per la foggia, che può derivare da modelli
cinquecenteschi, che per le ornamentazioni del tutto coerenti con lo stile
vestimentario proprio della località di appartenenza, riconoscibile anche
nell’abbigliamento femminile e infantile.
Il gruppo dei gilet comprende i modelli derivati da quelli in voga nella moda
maschile a partire dal secolo XVIII, abbottonati a petto semplice o doppio, con
risvolti. Essi mantengono quasi tutti le denominazioni usate per i corpetti, probabile testimonianza
del fatto che possono avere sostituito modelli più antichi conservandone comunque il nome.

I capispalla maschili, al contrario di quelli femminili, presentano modelli dalle più disparate
lunghezze e tipologie. I giubbetti e le giacchette sono indumenti strutturati, di linea geometrica o
sagomata, la cui lunghezza non oltrepassa la linea dei fianchi. Per il periodo compreso tra la
seconda metà del XIX e la prima metà del XX secolo le fonti iconografiche e le informazioni
raccolte sul campo concordano nell’assegnare a questo tipo di indumento una funzione intermedia
tra l’uso domestico e quello esterno. Solo in ambito familiare e nel corso di attività lavorative,
vengono indossati da soli; al di là di queste occasioni, quanti possono permetterselo sovrappongono
a giubbetti e giacchette altri tipi di capospalla di diversa lunghezza, con o senza maniche.
I giubbetti maschili sembrano derivare da fogge del Cinquecento e del Seicento. I giubbetti più
arcaici hanno struttura geometrica e presentano maniche lunghe aperte dall’ascella all’avambraccio
o con spacchi più piccoli dai quali fuoriescono comunque le maniche delle camicie. In altri casi le
maniche sono chiuse, ma il taglio è sempre di tipo arcaico senza sagomature allo scalfo. La
lunghezza arriva, di norma, alla vita; alcuni modelli vengono indossati ben chiusi, anche a doppio
petto, infilati dentro i calzoni a gonnellino, altri vengono lasciati ricadere sopra quest’ultimo
indumento, con le falde parzialmente aperte, anche se le parti anteriori sono tagliate per poter essere
chiuse all’occorrenza.
Il termine giacchetta è decisamente appropriato per denominare il capospalla tipico del pescatore di
Cagliari, confezionato in panno di lana blu tipo marina. Il taglio di questo indumento è chiaramente
derivato dalla corta giacchetta da marinaio, con piccoli risvolti e tasche orizzontali nella parte
anteriore chiusa con una serie di bottoni metallici presenti anche sul polso.

Le cinture (chintòrzas) sono accessorio indispensabile dell’abbigliamento maschile e le fonti


iconografiche ne rappresentano un gran numero di modelli. Sembrano mancare solo in alcuni
insiemi che prevedono l’uso di un panciotto con risvolti e abbottonatura centrale, ma potrebbero
essere indossate al di sotto di esso e perciò non visibili. Gran parte delle cinture sono in cuoio di
colore naturale o tinto, hanno altezze varie, tali, in qualche caso, da farle sembrare dei busti. La
lunghezza è ovviamente proporzionata alla taglia del proprietario, e può anche essere regolata con
lacci passanti attraverso appositi forellini, come avviene negli esemplari diffusi nel centro -
Sardegna dove non godono di grande favore le cinture con fibbie. Queste sono invece presentissime
in tutto il resto dell’isola e in particolare nel Cagliaritano dove le cinture che completano gli insiemi
festivi e quelli delle classi agiate sono impreziosite da grandi fibbie in lamina d’argento. Sono
diffuse ovunque cinture festive impunturate e ricamate con fili di seta policromi a motivi
geometrici, talvolta con le iniziali o l’intero nome del proprietario, oppure intarsiate su un fondo di
raso di seta a colori vivaci o lampasso policromo. Le cartucciere, sempre in pelle naturale o
colorata, dotate delle apposite piccole tasche cilindriche per l’alloggiamento delle cartucce protette
da un apposito lembo di cuoio. Le cinture molto alte, spesso colorate in rosso o verde, possono
avere due o più affibbiature anteriori che presentano interessanti lavorazioni artigianali. D’uso
festivo sono anche le cinture di cuoio rivestito con lampassi policromi operati e broccati nelle più
varie fantasie.

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Nei cappotti lunghi sono compresi quei modelli di capispalla che coprono
la figura almeno fino a metà polpaccio e che vengono sempre indossati
sopra altri indumenti quali gilet, giubbetti o giacche. Vengono divisi in due
tipologie sulla base del tessuto e del modello impiegati; all’interno di tali
tipologie saranno tracciate ulteriori distinzioni.
Il Serenìccu, cappotto di origine levantina detto serenìccu e pilùrzu. Il
termine serenìccu viene nel tempo attribuito anche a cappottini corti, di
orbace, ma dovrebbe essere più precisamente destinato soltanto ad un
modello di cappotto lungo, caratterizzato dall’uso di un particolare tipo di
tessuto di lana, di produzione greca, piuttosto morbido, di colore marrone
cioccolato, caratterizzato da un diritto piano e un rovescio a pelo corto di fili ritorti.
Gabbànu: più fonti danno testimonianza di questo cappotto, confezionato esclusivamente in orbace,
il modello più antico tra quelli usati in Sardegna. La funzione di questo capo, associato a insiemi
vestimentari di medio livello, non pare essere festiva così come non lo è quella dei cappotti lunghi
di orbace che li sostituiranno a partire dal primo Novecento.

Cappotti corti, giacconi e giacche che rientrano in questa categoria si utilizzano,


indipendentemente dalla stagione, in tutti i momenti della vita sociale fuori dalla cerchia familiare,
ma non è raro un impiego anche in ambito privato. Le occasioni ufficiali, di rappresentanza e
cerimoniali, prescrivono l’uso di simili capospalla quasi per mitigare il tono eccessivamente
informale e intimo dei corpetti, gilet, giubbetti e giacchette indossati sotto.
Cappotti corti: cappottìnu, diminutivo dei termini che sono propri dei cappotti lunghi, sono attribuiti
ad un particolare capospalla corto diffuso in tutta l’isola. La parte superiore è tagliata come i
cappotti lunghi, mentre le falde, di lunghezza pari a quella delle ràgas, sono sagomate e svasate per
accompagnare il taglio dei calzoni a gonnellino.
I giacconi, simili per lunghezza ai cappottini, o le giacche, più corte, sono confezionati sia in panno
sia in orbace e sono denominati gianchètta, zanchètta. Hanno taglio simile a quello di una giacca
moderna, con linea diritta, risvolti e abbottonatura anteriore. Le tasche sono ad apertura trasversale,
con bordo piatto o, in qualche caso, a battente.

L’ unico mantello tradizionale usato in Sardegna, conosciuto come sàccu o sàccu ’e cobèrri, è
formato da due teli di orbace uniti tra loro in senso longitudinale, sovrapposti ad altri due, e poi
cuciti tra loro per tutto il perimetro così da formare un grande rettangolo. Su uno dei lati lunghi
sono cuciti due grossi ganci che consentono di fermare l’indumento sul petto se lo si posa sulle
spalle, o sotto la gola se lo si posa sul capo. I mantelli conosciuti non hanno datazioni anteriori alla
fine dell’Ottocento e mantengono inalterato questo modello. È opportuno precisare che spesso il
lato lungo anteriore ha angoli arrotondati e che in qualche caso è applicato un cappuccio.
Tutte le fonti concordano sull’origine di questo mantello risalente, se non al nuragico, almeno al
periodo romano. La funzionalità e la semplicità di realizzazione, anche in ambito familiare non
specializzato, ne ha decretato, nel tempo, la fortuna. Il modello è così “riuscito” che ancora negli
anni Settanta del Novecento è parte importante del corredo dei pastori dell’interno che per il resto
hanno da tempo abbandonato l’abbigliamento tradizionale.

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Indumenti in pelle e pelliccia, senza maniche, hanno caratterizzato
l’abbigliamento maschile in Sardegna fin dalla più remota antichità. Non si
riportano gli innumerevoli studi che hanno trattato questo tipo di vesti realizzate in
pelle e pelliccia di pecora, capra, agnello o capretto cui si accompagna, altrettanto
numerosa, la documentazione iconografica, né sarà il caso di riaffermare quanto
questi elementi siano comuni a tutte le società pastorali e agricole del bacino del
Mediterraneo. Questa tipologia vestimentaria continua ad essere largamente
utilizzata, soprattutto nelle attività agricole e pastorali, fino alla prima metà
dell’Ottocento, nei modelli arcaici più semplici, a pelo lungo. Per i capi destinati ad un uso più
formale possono essere seguite delle linee di evoluzione e trasformazione, in relazione alle
occasioni di utilizzazione.
Colléttu: “Coietto” è il nome italiano rinascimentale della più diffusa e ricercata sopraveste in pelle,
priva di maniche, chiamata colléttu. I reperti d’epoca, rarissimi e in mediocre stato di
conservazione, sono tutti relativi ad un ambito di utilizzazione cerimoniale.
Gilet di pelle e pelliccia corti o lunghi sono diffusi in tutta l’isola. Sono capi di taglio diritto, di
fattura piuttosto semplice ed anche relativamente economici soprattutto nella versione lunga, più
comune, fatta con pelli di pecora o capra, preferibilmente di colore scuro, che si adatta alle varie
esigenze climatiche e lavorative.

I calzoni sono, per definizione classica, indumenti destinati a coprire il corpo dalla vita alle
caviglie, con funzione sia intima sia esterna. Essi, in Europa e nel bacino del
Mediterraneo, presentano le forme e le origini più varie. Tra il XVIII e la prima
metà del XX secolo, i calzoni esterni usati in Sardegna corrispondono
sostanzialmente a quattro gruppi: a gonnellino, a gamba diritta, sagomati o a
campana e quelli definiti come pantaloni a tubo, di foggia più moderna.
Calzoni a gonnellino: possono essere considerati l’indumento più particolare del sistema
vestimentario maschile, quello che ha destato il maggiore interesse tra gli studiosi di ogni tempo. La
loro diffusione interessa tutta l’isola dove sono variamente denominati (ràgas, carzònes de furési).
Vengono definiti calzoni a gonnellino perché tutte le varianti presenti nell’isola possono essere
ricondotte al modello del corto gonnellino arricciato, in orbace o panno di lana, i cui lembi inferiori
sono uniti da una striscia dello stesso tessuto.
Calzoni: confezionati in tela o diagonale di cotone o di lino, qualche volta di sottile orbace o tela di
lana, sempre di colore bianco, rappresentano, l’indispensabile complemento dei calzoni a
gonnellino. Il modello ha tale diffusione in Europa, presso le classi popolari, che è davvero arduo
fare ipotesi sulla sua origine. Quello sardo è realizzato unendo tra loro elementi di tessuto di forma
rettangolare non sagomati, e presenta varianti determinate unicamente dall’ampiezza dell’inserto
quadrato cucito all’altezza del cavallo.
Calzoni a campana: spesso confusi con i calzoni a gonnellino molto lunghi, i calzoni a campana
costituiscono un modello a sé stante diffuso in prevalenza nel Sulcis Iglesiente, ma attestato anche
in alcune località della costa orientale. Si tratta sempre di calzoni sagomati, confezionati in pesante
orbace o panno di lana nero, con la parte superiore piuttosto ampia e leggermente arricciata in
corrispondenza del punto vita, rifinita con cinturino in tessuto di varia altezza.
Pantaloni a tubo: la descrizione prende in considerazione soltanto i modelli di pantalone lungo,
indossati con camicie, gilet, capispalla e copricapo di tipo tradizionale.

I grembiuli da lavoro non si differenziano da quelli usati ancora oggi, con o senza pettorina. I
materiali variano per le differenti professioni: sono in gran parte in tela pesante, anche incerata, per
mugnai, casari, pescivendoli, in cuoio per macellai, fabbri, maniscalchi. Le informazioni si traggono
dalle fonti antiche e dalle testimonianze orali perché non se ne conserva alcun esemplare come
accade per tutti gli indumenti da lavoro e di poco pregio che si utilizzano fino alla loro completa
distruzione.
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Le ghette o uose sono indispensabile indumento dell’abbigliamento maschile nell’insieme
costituito da calzoni a gonnellino e calzoni di tela, ma possono anche essere indossate con pantaloni
a tubo. Se ne conoscono modelli a gamba chiusa, da infilare, detti càrzas, e modelli
a gamba aperta,
da allacciare o chiudere con bottoni, che vengono chiamati burzighìnos. Entrambi
possono essere in cuoio o orbace; in panno sono confezionati solo gli esemplari più
recenti. Sia le càrzas che i burzighìnos sono gambaletti ben sagomati per seguire la
linea della caviglia e del polpaccio, dotati di una parte allungata che copre
parzialmente la tomaia della calzatura e che può essere munita o meno di sottopiede
in cuoio. In entrambi i modelli sembra essere più comune la lunghezza al ginocchio o a metà
ginocchio, ma non mancano esemplari che arrivano alla coscia. La parte superiore viene sempre
fermata con lacci, nastri allacciati o affibbiati che possono essere in vista, anche a scopo
ornamentale, o nascosti sotto la piega superiore della stessa uosa.

Le calzature
Coperte quasi totalmente dalle uose, sono rappresentate in modo approssimativo nell’iconografia
antica, ad eccezione di quelle dotate di grandi fibbie d’argento. Grazie alle fonti orali, alla
consultazione di fondi fotografici e all’esame delle raccolte pubbliche e private è possibile
affermare che, tra la prima metà dell’Ottocento e i primi decenni del
Novecento, le calzature più utilizzate sono gli scarponcini allacciati
(bottìnos) sia per un uso giornaliero che festivo.
Solo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, ma di rado,
compaiono scarpe allacciate (iscàrpas, iscàrpas de cròmo), più eleganti,
da indossare con insiemi festivi e nuziali. Gli scarponcini allacciati sono quasi sempre in pelle
naturale, scurita per l’uso e l’applicazione di grasso; non mancano anche esemplari più raffinati in
pelle nera con tomaia alta, quasi a stivaletto, dotati di elastici ai lati. Tutti gli scarponcini hanno
tacco medio - alto, spesso sagomato e rientrante; la tomaia è sempre a punta rialzata e con
allacciatura impostata in corrispondenza del collo del piede.
Di estremo interesse sono le scarpe basse, di chiara origine settecentesca, con tacco ridotto, che
presentano lacci e fibbia in lamina d’argento applicata in prossimità della punta. Questa tipologia di
scarpa è spesso rappresentata nelle illustrazioni del primo Ottocento, raffiguranti gli abiti festivi dei
macellai e dei pescatori di Cagliari o insiemi vestimentari dei ceti agiati.

La biancheria
Dalla trattazione sulla biancheria sono escluse le camicie che vengono descritte come capo esterno;
per il resto il corredo minimo è costituito da maglie e mutande, rarissime nelle raccolte pubbliche e
private, data anche la diffusione relativamente recente di questo tipo di indumenti, entrati in uso
diffusamente solo a partire dalla prima metà del Novecento.

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L’ABBIGLIAMENTO INFANTILE

«Custu pizzinneddu non porta manteddu, nemmancu curittu, in dies de frittu non narat titia»
(“Questo bambinello non indossa fasce, né camicina, non si lamenta nelle giornate più fredde”).
Con questi versi di un canto natalizio, noto e diffuso mediante numerose varianti in tutta la
Sardegna, può avere inizio una breve analisi dell’abbigliamento infantile nella Sardegna
tradizionale in un periodo di tempo compreso tra la prima metà
dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento. Mantéddu e corìttu
dunque, corredo minimo necessario per vestire il Bambino Gesù, al
quale il canto fa riferimento, ma anche corredo minimo di ogni altro
neonato sardo. Mantéddu è il termine con il quale si indica la copertina
o piccolo manto per il neonato, mantèddos sono anche dette le fasce da
cui è avvolto il corpo dei lattanti.
Corìttu, vocabolo anche questo ampiamente diffuso nell’isola per i capi
destinati agli adulti, indica, per l’abbigliamento infantile, una camicina,
con o senza maniche, confezionata con tessuti leggeri di cotone o di
lana; lo stesso termine vale anche per definire un corpetto realizzato in
panno di lana variopinto, destinato a bambini un po’ più grandi, e per il
quale sono note nell’isola diverse denominazioni affini a quelle dei
capi per adulti.
La pratica della fasciatura doveva essere ampiamente diffusa. È noto che l’uso di fasciare i bambini
non è naturalmente esclusivo dell’isola, ma è diffuso in tutto il mondo, in paesi distanti
geograficamente e culturalmente differenti, ed ha attraversato indenne i diversi momenti storici per
arrivare fino a tempi a noi prossimi. La fasciatura, modellando artificialmente il corpo del bambino
consente di omologarne l’aspetto a determinati valori ideali ed estetici, adornandolo secondo la
tradizione e la classe sociale di appartenenza.
Con tempi e modalità differenti da zona a zona, alla fasciatura
completa succede quella parziale che riguarda il tronco, avvolgendo
l’addome e sostenendo la schiena. La parte superiore del corpo
viene ricoperta con camiciole e coprifasce, quella inferiore con
panni stratificati e con sacchetti allacciati mediante lunghi nastri. Si
utilizzano anche vestine, la cui lunghezza supera di gran lunga
l’altezza del bambino, confezionate con materiali più o meno
pregiati in relazione al momento di utilizzazione. Per le occasioni che presuppongono una visibilità
pubblica anche il neonato ed eventualmente la sua balia devono confermare la posizione sociale
della famiglia mediante una dotazione vestimentaria adeguata. Fin dai primi giorni di vita la testa
del piccolo viene coperta con cuffie modellate di vario genere, in panno, tela di lino e cotone, raso o
taffettà di seta, chiamate carètta, cambùssu, iscòffia. Un capitolo a sé stante meritano gli abitini da
battesimo. Fin dalla seconda metà dell’Ottocento inizia a scomparire l’uso degli insiemi tradizionali
caratterizzati da colori squillanti, soprattutto per le copertine in panno rosso
bordate con nastri colorati, e si attesta gradualmente l’impiego dei lunghi abiti
bianchi comuni, anche fuori dall’isola, in area italiana ed europea. Talvolta questi
abitini sono completati da copertina e cuscino coordinati.
Dalla fonti scritte e iconografiche si deduce che nel periodo compreso tra la prima
metà dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento i bambini, dopo il primo
anno di vita e fino all’età di tre o quattro anni, indossano abiti che possono essere
ricondotti a due grandi gruppi. Abitini con breve carré e gonna a pieghe o arricciature, modello
indifferenziato per entrambi i sessi e di lunghezza variabile, talvolta eccessiva; a ciò fa riferimento
il termine incoeddàdu, usato in area logudorese per indicare il bambino che, così vestito, è
impacciato nei movimenti proprio per l’eccessiva lunghezza dell’abito che può formare una sorta di
strascico. Questi abitini hanno varie denominazioni, le più comuni sono: istiréddu, èste, bèste, ecc.
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Questi abiti vengono indossati per un lasso di tempo abbastanza breve prima del passaggio alla fase
successiva, compresa tra i cinque e gli undici anni, per la quale si ricorre a varianti semplificate
dell’abbigliamento degli adulti. Tra i cinque e gli undici anni, dunque, maschietti e femminucce
indossano abiti molto simili a quelli dei loro genitori, con le gradualità di pregio che le condizioni
sociali consentono, e con qualche differenza anche per l’uso festivo o giornaliero non tanto nel
modello quanto nell’ornamentazione e nelle condizioni di usura dell’abito stesso. La
documentazione sull’abbigliamento infantile per questa fascia di età non è vasta, né lo sono i capi
d’epoca arrivati sino a noi, destinati, infatti, a passare di fratello in fratello fino alla loro distruzione.
L’impiego dell’orbace per le gonne infantili scompare rapidamente sostituito dalle
indiane, più a lungo però resiste nelle zone montane. L’insieme costituito da
corpetto e camicia bianca è comune ancora nel primo ventennio del Novecento
quando inizia ad essere sostituito dalla camicia o blusa di cotone a piccoli decori,
tagliata nei modelli alla moda. Le calzature, che sono assai costose, non
differiscono dai modelli giornalieri delle donne adulte; dove le condizioni
climatiche lo consentono si utilizzano zoccoli di legno o si va del tutto scalze.
L’abbigliamento dei maschietti di pari età è anch’esso una versione semplificata di
quello degli adulti, composto da calzoni e camicia di tela di cotone o lino con o
senza l’uso del calzone a gonnellino di orbace. L’insieme di base è ovunque
costituito dai calzoni di tela bianca e dalla camicia di tela sulla quale può essere
sovrapposto un corpetto o un giubbetto; in questo caso le calzature sono spesso
assenti. Anche per i maschietti, dopo gli anni Venti del Novecento si assiste alla graduale
introduzione di calzoncini, camicie e copricapo di foggia moderna, che finiranno per soppiantare
l’insieme appena descritto.
La quotidianità e la festa prevedono una qualità vestimentaria differenziata anche per
l’abbigliamento infantile; è stato già detto che il primo requisito dell’abito festivo è quello di essere
in buono stato e non sembri cosa da poco in una società nella quale procurare anche una minima
dotazione vestimentaria per tutta la famiglia richiede una attenta gestione delle risorse e
frequentissimo è l’adattamento di capi smessi.
La biancheria intima è generalmente inesistente o ridotta all’essenziale ad eccezione delle
sottogonne, dei copribusto, delle sotto vestine e delle maglie intime che non differiscono da quelle
degli adulti. Per i maschietti i calzoni di tela dell’insieme tradizionale fungevano al contempo da
capo intimo e che solo con l’introduzione dei calzoni di foggia moderna si diffonde l’uso delle
mutande.
La condizione di lutto interessa anche i bambini. In caso di morte dei genitori i bambini più piccoli
portano sulle vestine dei bottoni o dei nastri neri; quelli più grandi indossano abiti neri o scuri per
un periodo di tempo che varia dai sei mesi ad alcuni anni; la prescrizione del nero riguarda
soprattutto le bambine, mentre per i bambini è sufficiente l’uso di abiti scuri. Al lutto stretto segue
almeno un anno di lutto intermedio o mezzo lutto segnato da abiti dalle tinte sobrie e dall’uso di un
fazzoletto giallo o nero per le femminucce. Lo stato di mezzo lutto o di lutto leggero interessa
soprattutto le bambine che, in caso di morte di fratelli, nonni o zii, aggiungono all’abito giornaliero
un fazzoletto scuro, mentre i maschietti portano una fascia di tessuto nero o bruno sul braccio o su
uno degli indumenti che coprono il tronco.

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