libro
«Sono Loubou.»
«Ma non ti chiamavi Clorinda?»
«Mi riferisco a loro», e indico le scarpe, mostrandogli la suola rossa.
«Ragazzi, non si finisce mai di imparare. Non sapevo che le scarpe
avessero un nome.»
Ebbene sì, Clorinda dà alle sue scarpe nomi e vezzeggiativi, come
nel caso del magnifico paio francese che indossa per una serata che le
cambierà la vita. Da sempre pensa che il suo destino non sia scritto sul
palmo delle mani bensì sotto la pianta dei piedi: ogni momento
importante, da quando ha cominciato a gattonare sui tacchi della madre,
è stato scandito da un paio di scarpe. Le ballerine del primo bacio, con la
frangia storta e l’apparecchio ai denti. I polacchini indossati per il primo
esame sotto la neve, che l’hanno accompagnata fino alla laurea in un
torrido mese di luglio. Le décolleté gialle che hanno catturato
l’attenzione del Leader Minimo, divenuto poi suo datore di lavoro. Ma
soprattutto il primo paio di suole rosse regalate dal suo amore a senso
unico, Giulio, destinato ahimè al soprannome di “Grande Asfaltatore” per
la sua propensione al tradimento...
A Clorinda, con il cuore ridotto in cocci, restano solo un armadio
pieno di pezzi da collezione e due amiche che credono in lei: «Rotto un
tacco se ne fa un altro» le ricorda Baby. Ma a mettere in discussione le
poche certezze di Clo, e soprattutto a portare scompiglio nella sua
scarpiera, arriva Mr Buk, un dinoccolato alternativo in sneakers e dread,
cresciuto nel mito di Bukowski, che gira con due simpatici quadrupedi, il
lillipuziano Maciste e l’arruffato Bobby Marley. Se lei, creativa di punta
alla Metello & Partners, è il giorno, lui, scapigliato e accalappiaguai, è la
notte. Eppure una scommessa costringe Clo a una scelta imprevista...
In una corsa contro il tempo, partendo dal leggendario Palazzo
Ranieri – regno di Ivanna Tramps e delle scatenate eroine dei due
precedenti episodi della serie – e passando per una Parigi da sogno,
Clorinda potrà scoprire quanto gli opposti si attraggano, se solo si è
capaci di vincere le proprie paure e respirare a fondo la libertà, per
quanto azzardata e assurda.
D’altronde, come ha sempre creduto, “la vita è una Loubou
meravigliosa”.
L’autrice
Bea Buozzi, giornalista e scrittrice (Beati e Bannati e Chi dice donna
dice tacco), vive a Milano. Cura la rubrica Beati&Appagati, all’interno del
portale www.cosmopolitan.it.
Collabora con “Donna Moderna” e “Cosmopolitan”.
Il suo sito è hotmag.me/beabuozzi.
Fai parte anche tu del Club dei tacchi a spillo? Non perdere gli altri
due romanzi della serie: Matta per Manolo e Tutte Choo per terra!
Bea Buozzi
Il club dei tacchi a spillo
– 1 giorno al matrimonio
Dicono che il destino di una persona sia scritto sul palmo della sua
mano: la linea dell’amore, il monte di Mercurio, che sembra un callo ma
illustra le prospettive professionali meglio di un cacciatore di teste, e la
linea della felicità che, se marcata e netta, come nel mio caso, racconta di
una vita destinata a grandi soddisfazioni. Se chiudi il pugno, poi, puoi
arrivare perfino a intuire quanti figli avrai: io uno, a detta di una
chiromante incontrata in una sera d’estate a Brera.
Non le avevo creduto.
Una vita non si può sintetizzare guardando quattro segni sulle
mani. Sarebbe riduttivo. La foto nella cornice azzurra sul tavolino
all’ingresso mi dà ragione. Mi ritrae all’età di un anno e mezzo, quando
da poco avevo intuito i vantaggi del camminare eretto e, un po’ incerta,
mi tenevo salda all’anta di un armadio – legno di rovere scuro, ingiallito
in quell’immagine vecchia di una trentina d’anni. Io spunto appena, ma
non sto giocando a nascondino, sono lì per fare la cosa che più mi
diverte: guardarmi allo specchio dopo aver frugato tra le cose di mia
madre. Una pashmina colorata e una giacca di seta buttate per terra, ma,
soprattutto, un piedino dentro una décolleté blu. Il tacco non si vede, si
intuisce solo la punta squadrata, come imponeva la moda dei tardi anni
Settanta. Otto centimetri, a occhio e croce.
All’epoca, non sarebbe stato consono portarne di più alti. E poi mia
mamma, seppure modaiola alla massima potenza, oltre non era ancora
andata; restava pur sempre una ragazza di provincia, e mio padre per gli
eccessi aveva una vera e propria idiosincrasia. È evidente che ho
ereditato da lei la passione per gli accessori, perciò se litigo con Mr Buk o
se al lavoro Leader Minimo mi fa uscire di testa, ho il rimedio: spendo in
scarpe come se fosse l’ultima cosa che faccio al mondo, come se la carta
di credito non avesse un limite.
Insomma, confrontata a me, Suri, la figlia di Tom Cruise, è una
dilettante. Una sequenza di Polaroid lo testimonia. Se la moda voleva
gonne sempre più corte, i tacchi al contrario cominciarono ad alzarsi,
tanto che i tre anni mi vedevano già arrampicata sui dodici centimetri.
Unendo l’utile, ossia arrivare a oggetti per la mia altezza
irraggiungibili, al dilettevole, indossavo ciò che non era alla mia portata.
E come dimenticare quella volta in cui, Wanda Osiris in miniatura,
mi sono cimentata nell’arte di scendere le scale sfoggiando una gonna
asimmetrica di lamé? Nonostante le critiche degli infermieri del pronto
soccorso che mi hanno visitato dopo la rovinosa caduta, mia madre
gongolava. Buon sangue non mente. Ero figlia di una fashion victim e
sarei cresciuta nel nome di quel credo che intimava alle sue seguaci: “Se
bella vuoi apparire, un poco devi soffrire”.
Osservo, riflessa nello specchio, la gobbetta sul naso, ricordo di quel
giorno. Da lì in poi i tacchi hanno segnato ogni momento importante
della mia vita.
A cominciare dal primo bacio.
Indossavo un paio di Mary Jane di vernice nera col fiocco di raso e
cinque centimetri di rinforzo per aiutarmi a essere più vicina alla bocca
del potenziale fidanzato – un perticone secco secco, alto quasi due metri.
La sua lingua si era impigliata negli elastici del mio apparecchio per i
denti e lui non aveva più voluto vedermi, ma non importava: io avevo
superato la prova e mi ero lasciata alle spalle l’ansia da prestazione.
Per non parlare poi della maturità, che sarebbe stata un flagello se
non ci fossero stati i tacchi ad aiutarmi. Naturalmente, avevo avuto il
cambio materia all’orale: l’ostico Greco al posto del mio rassicurante
cavallo di battaglia, Storia dell’arte. Così, dopo quattro giorni di apnea in
aoristi irregolari e defunti piuccheperfetti, ero tornata alla luce con
un’idea luminosa. Avrei indossato il sandalo rosa di Prada, regalo dei
miei diciotto anni, potente talismano a portata di piede contro cui nulla
avrebbe potuto la polvere della lingua morta. E in effetti il commissario,
in odore di reparto geriatrico, non aveva resistito. Indifferente alla mia
fantasiosa interpretazione delle tragedie di Euripide, aveva trascorso
l’intera interrogazione con il naso puntato in basso per vedere, oltre la
cattedra, le meraviglie che sfoggiavo.
Risultato: sessanta sessantesimi e una pacca sulla spalla.
Varcate le porte dell’università, la ritualità scaramantica aveva
acquisito un ruolo preponderante rispetto alla preparazione dell’esame.
Il varo del libretto era avvenuto in gennaio. Nevischiava e la città,
ricoperta da un velo bianco, offriva la scenografia perfetta per i miei
nuovi polacchini in pelo turchese. Ero stata tentata di riproporre il look
della maturità ma, immaginando la notizia che sarebbe comparsa sulla
pagina “Filosofi oggi (disoccupati domani)” del giornaletto satirico della
facoltà – “Clorinda Benvenuti, anni 19, ha calcato il pavimento della
facoltà di Filosofia, con una falcata degna di Gisele Bündchen, e infatti è
scivolata arrivando lunga distesa sotto la postazione del docente” –, mi
aveva convinto a tener conto del meteo.
Avevo optato per i polacchini, senza sospettare che mi stavo
scavando la fossa da sola.
Il trenta a suggello della prestazione divenne un incentivo a
continuare: venti esami e sempre gli stessi stivaletti. Perfino a luglio,
indossandoli appena prima di entrare in aula. Neanche a dirlo, mi sono
laureata in corso col massimo dei voti, condizione che non si sarebbe
certamente verificata se non avessi adottato le misure precauzionali di
cui sopra.
Anche la foto della laurea mi ritrae con il fantomatico paio di
tronchetti – passati dalla tonalità carta da zucchero iniziale a un ormai
indistinto color polvere.
Avevo scelto un elegante completo Armani, da abbinare alla
pelliccia di mammut che avevo ai piedi.
Oggi sono un senior account per merito, ancora una volta, dei
tacchi.
In realtà, devo ringraziare un capo feticista che, come il trombone
di Greco ai tempi del liceo, è rimasto imbambolato per tutto il tempo del
colloquio. Sotto di me ho una squadra di creativi e passo il tempo a
brevettare slogan. Ho scelto di anteporre il lavoro a qualsiasi forma di
rapporto ed è grazie a questo che, all’età di trentaquattro anni, mi trovo
alle soglie della dirigenza.
Ecco la foto che mi fa soffrire più di tutte. Ai piedi, le splendide
Pigalle. Quella sera caracollavo a Parigi, tra i marciapiedi affollati di
persone e il profumo della carta ingiallita dei bouquinistes sul
lungosenna – era il nostro primo week-end insieme –, la Gare D’Orsay
sullo sfondo: le sculture all’ingresso, guardiani in porfido con spade e ali,
l’enorme orologio, dietro al quale sono custodite le meraviglie
dell’Impressionismo francese. Il pomeriggio l’avevamo trascorso lì, dopo
aver mangiato una niçoise.
È il sorriso più bello di tutte le foto. Ingentilito dall’amore, perché
l’amore regala grazia perfino a chi non l’ha. Il vento mi spettina i capelli,
raccolti in una coda distratta. Un basco in testa, il viso inclinato, occhiaie
leggere a ricordo di notti in cui il sonno non era la priorità, un
impermeabile comprato in saldo al Forum des Halles, le mani in tasca.
Sono appoggiata a un lampione, un piede sollevato per mostrare meglio
le Pigalle e le loro suole rosse. E dietro l’obiettivo c’è lui, il mio personale
Helmut Newton: Giulio Autieri, G.A., ovvero il mio folle Grande Amore,
colui che, dopo avermi fatto sentire una regina, mi ha asfaltato il cuore,
gettandoci sopra mozziconi di sigaretta incandescenti. Gli stessi che non
avevamo mai smesso di spegnere durante il lungo viaggio in spider tra
Parigi e Milano.
E, proprio quando mi ero convinta che non ci sarei più cascata e
avevo giurato a me stessa che tutte le mie fatiche le avrei usate per
aggiungere nuovi pezzi alla mia collezione, avevo incontrato lui, Mr Buk,
un tizio un po’ più grande di me dal sorriso contagioso e i modi rudi.
Non c’entrava nulla con me ma, come due poli opposti, eravamo
irresistibilmente attratti l’uno dall’altra. Le prime cento sere –
ribattezzate ironicamente da lui, facendo riferimento alla campagna
napoleonica, “l’esilio di Santa Clorinda” –, le avevamo trascorse in casa.
Senza cimentarci in siparietti domestici tipo: “Tesoro, cosa ti preparo
questa sera per cena?”. Io avevo fame di lui e lui di me: non ci serviva
altro per il confino più dolce che la vita potesse concederci.
La cornice, questa volta coloratissima, ospita uno scatto molto
particolare. I protagonisti sono i nostri piedi. O meglio, i nostri piedi
calzati nelle scarpe: un paio di All Star blu dalla punta sfondata per lui e
un sandalo Chanel tacco dodici in pelle spazzolata per me. Nulla può
rappresentarci meglio di quella foto, fatta un po’ per scherzo con il
cellulare, per dimostrare quello che agli occhi dei nostri amici era
evidente: vivevamo in mondi paralleli. Anzi, eravamo due scarpiere
appartenenti a galassie diverse.
Litigavamo come gatti, giuravamo di lasciarci eppure bastava una
notte distanti a farci tornare insieme più uniti che mai. E la cosa buffa è
che, prima di conoscerlo, avevo fatto una promessa a me stessa e alle mie
amiche – stanche di sopportare un muro del pianto ambulante –,
arrivando a tatuarmi sul collo la scritta: “Meglio single che mal
accompagnata”. Io che i tatuaggi li detestavo: come tutto ciò che è
permanente, d’altronde. Gli uomini, perciò, sarebbero stati meteore in
transito nella mia vita o stelle cadute nel mio letto, destinate a durare il
tempo di una notte. Del resto le storie più belle, come testimonia la
relazione con il Grande Amore, sono quelle a distanza, cioè quelle in cui
la sera ognuno va a dormire sereno nel suo letto e ci si incontra nel fine
settimana. Diventando così un concentrato delle tavole più intense di
Peynet.
Ma i sentimenti sono come il mare e, mentre stai adornando di
merli le torri di un castello di sabbia, arriva l’onda che te lo butta giù.
Anche in questo caso, devo dire grazie a un paio di scarpe. A
dimostrazione che il mio destino non è scritto sul palmo delle mie mani
ma sotto la pianta dei piedi. E nei dodici centimetri che cambieranno la
mia vita. Domani mi sposo. Sempre che lui lo voglia ancora.
MALEDETTO IL GIORNO IN CUI INCIAMPAMMO
– 1 giorno al matrimonio
Latte, avorio, confetto, titanio, zinco. Il bianco sembrerebbe il
colore acromatico per antonomasia, eppure… quante tonalità di bianco
esistono? Lo penso mentre mi guardo. D’altronde cosa si può fare davanti
a uno specchio se non srotolare la matassa dell’inconscio?
Il tulle tocca terra, sembra bava di lumaca, e il faretto sul soffitto lo
rende evanescente, acuendo il contrasto col blu della moquette. A questo
giro è toccato a me essere la più bella del reame. Le mani riprendono a
sudarmi. È da una settimana che va avanti così. Basta che pensi alla data
fatidica che la traspirazione, mio tallone d’Achille, impazzisce, passando
da una sudorazione leggera come la bruma primaverile a una cascata di
liquidi, neanche avessi attraversato un monsone indiano.
Inclino lo specchio. Il bustino di seta enfatizza la scollatura e il
reggiseno rigorosamente bianco.
Immagino la faccia di mio padre.
Domani non parlerà e saranno gli occhi inondati di lacrime a farlo
per lui.
Il gioco di lunghezze della gonna di taffettà non sarà gradito a Irene.
Era stata categorica su questo punto: «Niente stravaganze o modifiche: il
vestito deve rientrare nell’armadio nel medesimo stato in cui è uscito».
Dovrò cercare di calmarla domani, sempre che il matrimonio sia
confermato, dopo quello che è successo.
Dicono che l’abito di una sposa sia fatto su misura per lei, perché
quel giorno si senta unica, perfetta.
A me è mancato il tempo per le classiche tre prove, però, grazie agli
abili ritocchi di Baby, sembra che mi sia stato cucito addosso. Il bustino
finemente decorato e la gonna svasata con una leggera coda.
Bianco assoluto. Bianco sposa, ecco la tonalità.
Dopo un mese vissuto al cardiopalma, il tempo, da quando Mr Buk
se n’è andato insieme ai cani dalla tana di Palazzo Ranieri, ha
improvvisamente rallentato.
Sposto ancora la specchiera.
L’immagine, ora, è quella di una trentenne. Gli occhi gonfi di
lacrime.
Non dovevo provarmi il vestito da sola. Il velo, poi. Io non lo volevo,
eppure Baby aveva insistito: «Il padre della sposa la conduce a braccetto
per la navata e, solo quando la consegna nelle mani dello sposo, la mostra
sollevandole il velo».
Il citofono suona. Una, due, tre volte. Alla quarta mi alzo, svogliata.
«Signola, sono colliele.» Una voce sottile e un roboante clacson sullo
sfondo.
Rispondo in automatico, come farei per la spesa a domicilio, dando
le coordinate esatte in una battaglia navale in cui non si colpiscono
portaerei e non si corona la vittoria con un “colpito e affondato!”.
«Primo piano, a destra.»
Sono in apnea da due giorni, e ho ignorato parenti e amici, venuti in
processione per consolare la sposa triste: decisamente una
contraddizione. Ettore, il portinaio, realizzato il mio desiderio di isolarmi
dal resto del mondo, ha smesso di informarmi dell’arrivo dei fiori. Solo
ora, aprendo la porta, mi rendo conto che, oltre la mia soglia, è stato
eretto un muro bianco dal profumo ipnotico. Alzate di orchidee e trionfi
di calle e gigli, accumulati nel corso delle ore. Un ragazzo minuto si apre
un varco nella landa candida.
«Condoglianze» esordisce il corriere.
Interpretando il silenzio come commozione da parte mia, conclude:
«Mi spiace».
Quel melting pot floreale deve avergli dato alla testa, penso.
«Scusi, perché?»
Allarga le braccia. «Il bianco è per il lutto. Ma non si pleoccupi: con
la leincalnazione andrà meglio.»
Strane tradizioni. Ciò non toglie che metempsicosi, trasmigrazioni
delle anime e perfino la possibilità di vita in universi paralleli o di
attacchi terroristici al Vaticano da parte di sette oscure diventino temi
secondari rispetto al contenuto del pacco: sintesi ed essenza del mio
ultimo mese di vita. Il cuore prende a battere all’impazzata, le emozioni
si moltiplicano.
Firmo, verificando che il mittente sia lui, il grande Bernard de
Trumon. Congedo il ragazzo e, insieme alla penna, gli porgo un mazzo di
calle.
Lo accetta, stringendomi le mani nelle sue.
«La licoldelò nelle mie pleghiele. Si faccia colaggio.»
Esattamente quello di cui ho bisogno ora che, finalmente, ho
ottenuto l’opera con cui ho barattato la libertà.
Domani mi sposo.
Forse.
L’ASFALTATORE DI CUORI
– 45 giorni al matrimonio
Come da copione nessuno risponde al citofono. Faccio ancora un
paio di tentativi, ma senza successo.
E il portinaio non c’è mai quando serve. Nonostante il sistema di
telecamere, distribuite nell’atrio e sopra la pulsantiera, che permette a
Ettore di controllare i movimenti di Palazzo Ranieri perfino di notte.
Anche quando non dovrebbe. Non stasera, però.
Citofono in guardiola ma nessuno mi apre. Sarà in cucina con Ignes,
la moglie peruviana, a preparare una teglia di arroz con mariscos – la
loro versione del risotto ai frutti di mare che, per come lo pronuncia lei,
ha il rumore della risacca dell’oceano e l’odore della foresta pluviale. Da
quando si sono messi insieme, varcare il portone significa entrare in una
friggitoria sudamericana. L’odore di ammoniaca sulle scale si alterna a
quello del pollo a la brasa.
Maciste si agita nella borsa. Succede appena sente il richiamo di
Bobby Marley. Finché è fuori non si ricorda di essere il capobranco ma,
appena ci avviciniamo, annusa l’aria e comincia a guaire. Lo stesso fa il
gigante da casa. Inutile sperare che Mr Buk deduca dai comportamenti
del vitello che io sia fuori dalla porta.
Al terzo tentativo fallito decido di chiedere aiuto a Lucrezia
Innominata. Dall’altra parte mi torna una voce squillante. «Signora, mi
scusi per l’ora, potrebbe aprirmi? Sono Clorinda Benvenuti.»
La porta scatta, mentre la mia vicina mi informa: «Signorina
Benvenuti, non si sarà mica dimenticata le chiavi in casa? Perché la
ospiterei volentieri, visto che mio marito non c’è, ma è venuto a trovarmi
un nipote dal Texas e ne approfitto per migliorare il mio inglese…»
Si sente un melenso «Oh yeah, darling» di sottofondo, che viene
zittito con un imperioso «Shut up!».
«Complimenti per l’accento, signora. La ringrazio per
l’interessamento, ma il mio fidanzato è in casa. Solo che probabilmente
sta ascoltando la musica e non mi sente.»
«Meno male, signorina Benvenuti, e non si preoccupi se dovesse
succederle ancora in futuro. Sa, io dormo poco…»
Che fine avrà fatto Gegia, il pitone reale con il nome da vecchia zia?
Probabilmente sarà stato rispedito al mittente insieme al nipote
senegalese.
Maciste si precipita scodinzolando verso l’ascensore e il guaito si
trasforma in un ululato, lungo e monocorde. «Zitto, Maciste che ci
sgridano.» Non che il terrorismo psicologico su di lui abbia effetto, ma
per fortuna Palazzo Ranieri è pet friendly.
L’unica volta che abbiamo rischiato un incidente diplomatico è
stato quando il porcellino d’India che vive nel sottotetto è scappato. La
padrona non se n’è accorta subito e Maciste stava per addentare quel
succulento salsicciotto impellicciato, senonché la tragedia è stata
sventata da Bobby Marley che, afferrata la cavia per la collottola, l’ha
restituita allo zerbino di casa sua.
Arrivati davanti alla porta, si mette a saltare come un canguro in
miniatura, rovesciando il portaombrelli. Esce di tutto: sacchetti per le
deiezioni canine, scarpe di ricambio, un cappellaccio rotto e… una chiave
della porta blindata. Adesso mi sente!
«Candidooooo!» urlo entrando in casa, mentre Maciste corre dal
pastore bernese e gli sale in groppa come fosse un puledro. Nessuna
risposta. Mr Buk è al computer, sta scrivendo. Gli batto un dito sulla
spalla.
«Ahhh!» Porta le mani al viso. «Ma sei impazzita? Ho rischiato
l’infarto.»
«E io l’assideramento. È mezz’ora che citofono!» e intanto gli sfilo le
cuffie.
«Ascoltavo la musica, sono in fase creativa. Ma fatti dare un bacio,
Linda. Sei bellissima, stasera.» Mi cinge i fianchi e Maciste, geloso, gli
ringhia. «Sì, lei è il mio amore» gli spiega, «ma tu sei il mio cagnetto
preferito.»
E, come se avesse capito, il meticcio resta a fissarlo in adorazione.
«A proposito», gli sventolo la chiave davanti agli occhi, «cosa ci
faceva questa nel portaombrelli?»
Lui mi guarda stupito.
«Preferisci che la tenga sotto lo zerbino? Dimmi tu, per me è lo
stesso.»
«Zerbinooo? Per me è lo stessooo? Tu guardi troppi telefilm
americani. Ti ricordo che non viviamo in un paesino sperduto
dell’Oklahoma dove tutti si conoscono e dove ci si sposa tra
consanguinei. Se ho speso duemila euro per una porta blindata, non l’ho
fatto per lasciare la chiave a portata di mano di chiunque ci passi davanti!
Ma non li leggi i giornali? Da quando è cambiata la giunta comunale, la
microcriminalità è schizzata alle stelle.»
«La solita esagerata di destra. Ma, se dimentichi le chiavi come è
successo oggi, almeno puoi entrare!»
Inutile tentare di farlo ragionare. Le sue teorie hanno del surreale e
certe volte non capisco se sto parlando a lui o ai suoi cani.
«Come ti sembra?» Davanti, la schermata azzurrina di facebook.
«Mr Buk, il dog-sitter underground.»
«È una minaccia?» chiedo.
«Diciamo, piuttosto, una dichiarazione di intenti.» Si alza e va
cucina. Apre il freezer ed estrae una bottiglia ghiacciata di birra. «Ho
pensato che hai ragione tu.»
«Vuoi far nevicare? Non è da te dire una cosa del genere.»
La stappa, usando il piano della cucina come apribottiglie.
«Così si riga» gli faccio notare. «E poi se apri il cassetto c’è un
comodissimo attrezzo per questo specifico utilizzo che si chiama…»
«Ricordi? Sono underground.»
Sospiro e penso alla reazione che avrebbe ora mio padre. Il
contenuto della bottiglia finirebbe in testa a Mr Buk, perché il luppolo fa
bene e gli impacchi alla birra lasciano i capelli lucidi e lisci come un
trattamento alla cheratina, ma soprattutto perché mio padre, da buon
conservatore, non sopporta l’anglicizzazione dell’italiano.
“Underground non vuol dire metropolitana? E allora di’ metrò, che
così capiamo tutti.” Mr Buk mi porge la bottiglia da cui ha bevuto a canna.
«Tesoro, gradisci?»
«Mi hai mai visto bere una birra?»
«Spero sempre che tu ti redima.»
«E per farlo mi passi una bottiglia da cui hai già bevuto?»
«Tesoro, direi che siamo in confidenza ormai.»
Si avvicina e fa per sbottonarmi la camicetta, ma lo scanso.
«Aiutami a stendere, va’, che è meglio.»
«Ops. Credo di aver fatto un guaio.»
Apro l’oblò e vengo travolta da un fetore disgustoso: pelliccia di
cane bagnato e vomito in mezzo ai panni appena lavati.
«Sai, Bobby Marley non si è sentito bene. Deve aver mangiato
qualcosa in giro… così ho pulito con l’asciugamano del bagno.»
«Il miooo?»
«No, cara, quello che uso io, però poi ho buttato tutto in lavatrice…»
«Sui panni appena lavati?»
«Esatto. Ma adesso la faccio ripartire subito.»
Armeggia con il timer, imposta la temperatura, sceglie il
programma.
La pompa dell’acqua si attiva e una cascata cola sull’oblò, ma solo
allora realizza che manca il detersivo e lo rovescia nella vaschetta in
quantità industriale.
«Domani vado a comprarne dell’altro.» Agita il flacone vuoto. «Ho
l’impressione che sia finito.»
«Se usi metà confezione per ogni lavaggio… E comunque, quella
pagina facebook cosa sarebbe?»
«L’inizio della mia nuova vita! Ho capito che devo darmi da fare.»
Curioso che lo realizzi dopo aver ricusato un contratto a tempo
indeterminato da impiegato delle Poste.
«Stanotte non ti ho svegliato…»continua.
«Vorrei ben vedere.»
«Ma mi è apparso in sogno il vecchio Hank!» È raggiante.
«Ancora? Dobbiamo smettere di mangiare il risotto con l’ossobuco
alla sera.»
«No, sul serio: mi ha detto che devo lavorare con chi amo di più al
mondo.»
Non mi vedo, ma sono certa di essere sbiancata.
«Ma tu non hai competenze da copy…» Mi manca il fiato. «E poi la
conosci la policy della mia azienda: nessun rapporto tra colleghi.»
Mr Buk mi afferra una mano, posa le labbra sul dorso sfiorandolo
con un bacio.
«Tranquilla, tesoro, c’è qualcuno che viene prima di te nella mia
scala di valori.»
Maciste, sentendosi chiamato in causa, guaisce felice e, se non fossi
certa che non è possibile, giurerei che sta leggendo con attenzione il testo
dell’annuncio.
«Voglio fare il dog-sitter» proclama Mr Buk.
«Mi sembra perfetta come dicitura da inserire nei documenti alla
voce: professione.» Non riesco a trattenere il sarcasmo.
«Ho creato questa pagina e investito cinquanta euro per farmi
pubblicità. Sono certo che verrò contattato. Siamo in una zona
centralissima e di cani è pieno il circondario.»
«Hai già stabilito un tariffario?» chiedo, fingendo interessamento
per quello che mi sembra l’ennesimo volo pindarico del mio fidanzato.
«No, saranno i padroni a decidere quanto darmi. In fondo io faccio
qualcosa che amo e non si può dare un prezzo all’amore.»
Sospiro. A modo suo è romantico: non certo uno che mi stupirà con
un solitario da tre carati o un fine settimana alle terme di Saturnia, ma
comunque è un cuore gentile.
Chi ama gli animali generalmente lo è. Gli do un bacio e lui mi
prende in braccio, portandomi in camera da letto. Ma quando mi posa sul
materasso uno spuntone mi trafigge la schiena.
«Ahi, cos’è?»
«Tesoro, non sono io!»
Sotto di me trovo un tacco.
«Oh, mio Dio!» Urlo impazzita.
Bobby Marley si affaccia scorato e Mr Buk va da lui per
accarezzarlo.
«Piccolino, allora era per colpa di queste brutte scarpe che sei stato
male?» gli chiede.
E il tacco turchese della nostra prima uscita gli arriva dritto in
fronte.
THE DAY AFTER
– 44 giorni al matrimonio
«E meno male che ti ostini a ripetere che lo ami.»
«Irene, fattene una ragione. È così!»
«Pensa all’energia sprecata per uno che mette un pulcioso
quadrupede al primo posto nella sua scala di valori, e che gli permette di
trasformare un paio di gioielli da cinquecento euro in vomito di cane.»
La franchezza di Irene è disarmante, ma non posso che darle
ragione.
«Due.»
«Due cosa?»
«Due pulciosi quadrupedi vengono prima di me nella scala di valori
del mio fidanzato.»
«Ancora peggio! E poi, questa fissazione di chiamarlo fidanzato…
non te l’hanno detto che ci vuole un anello?» È il ritornello preferito della
mia migliore amica, lo ripete sempre a inizio e a chiusura delle nostre
telefonate. «Ma come ancora niente? Se per un altro mese fa orecchie da
mercante, giura che lo lasci.»
Io annuisco sempre, sorrido, ma i mesi continuano inesorabilmente
a scorrere. In effetti, sogno come tutte le ragazze di ricevere un anello,
ma non sono certa di desiderarlo da Mr Buk. Mi rende insicura non
l’anello, ma quello che comporta. La cosa che più mi spaventa è l’idea che
lui, chiedendola mia mano, possa smettere di scegliermi giorno dopo
giorno, e io diventi una certezza e non più una necessità.
«Sei cinica.»
«No, sono realista, Clorinda! Sei tu che ti aggiri per Milano con gli
occhi foderati di prosciutto. No, anzi, li hai foderati di bresaola, che è più
scura e scherma meglio. Ma fette belle spesse!»
«Semmai di illusioni, i salumi li preferisco in un panino.»
La sento sospirare. È da quando sono uscita dall’ufficio che siamo
appese alle nostre “chiacchiere della sera”. Abbiamo battezzato così
l’appuntamento telefonico, divenuto una routine come tra due fidanzati,
in cui ci facciamo il resoconto dettagliato della giornata.
«Sono quasi a casa» annuncio.
«Chissà cosa troverai stasera. Magari, con la storia del dog-sitter, ha
adottato altri portatori di zecche.»
«Invece, io trovo nobile il fatto che si sia deciso a rimettersi a
lavorare.»
«Certo, perché portare a passeggio dei quadrupedi, raccogliendo i
loro escrementi, tu lo chiami lavoro? A differenza di te che non conosci la
parola “riposo” e passi la vita a correre? Ti ricordi, vero, che sono mesi
che lo mantieni? Vitto, alloggio in centro e servizi extra… mica un bed
and breakfast vista tangenziale!»
«È un creativo: ha bisogno del luogo giusto per esprimere la sua
arte, e il lavoro da impiegato era una sanguisuga per la sua ispirazione…»
«In compenso adesso la sanguisuga ce l’hai attaccata tu, che porti a
casa lo stipendio e paghi il mutuo affinché lui possa preparare i suoi
reading!»
Se ci atteniamo ai fatti e adottiamo un punto di vista esterno e
oggettivo, non possiamo che dare ragione a Irene, eppure… Mr Buk è
pieno di difetti, è vero, ma non potrei immaginare di vivere un giorno
senza averlo accanto. Potrei sembrare affetta da una sorta di sindrome di
Stoccolma: più il mondo si accanisce contro il carceriere del mio cuore,
più io mi sento indissolubilmente legata a lui.
D’altronde, l’amore per me è una radice quadrata a cinque cifre, un
algoritmo insolubile, un’equazione tra la passione e il sentimento. Un
enigma, insomma, visto che in matematica sono sempre stata una
schiappa.
«Di’, ma cos’è sto casino?»
«Un artista di strada.»
«Semmai di metro.»
«Ire, le tue battute hanno l’osteoporosi da tanto sono vecchie.»
«Ma cosa strimpella?» chiede.
«Libertango?»
«Sì, crede di essere la reincarnazione di Astor Piazzolla con la
fisarmonica» spiego.
«Anche se Piazzolla prediligeva il bandoneón» puntualizza lei.
«Dettagli, mica siamo in Argentina, qua!»
«E io che pensavo abitassi nei pressi di Buenos Aires», e scoppia a
ridere.
«Invece tu, ogni giorno, aspetti il miracolo in piazzale Loreto,
eppure… ancora niente!»
«Questa è bella, zecca!» Irene mi chiama così perché mi riconosce la
capacità di attaccarmi succhiando energie alla vittima. In inverno sono
“zecca”, in estate divento “cozza”, per trasformarmi in “acaro” in autunno
e perfino in “tarma” in primavera. Si adegua alle stagioni, lei.
«Dài, sono arrivata», cerco di tagliare corto.
«Non mi hai poi più detto come va con il tuo amore platonico.»
«Tutto tace.»
«Non prendertela, Clo. Prima o poi ti risponderà.»
Irene, innamorata come me del segugio della moda Bernard de
Trumon, è l’unica a sostenermi. Continuando di questo passo, invece,
probabilmente rischio che mi arrivi la lettera di un avvocato parigino in
cui mi chiedono di smettere di importunarlo se non voglio una citazione
per stalking.
«Intanto, fatti trovare pronta venerdì sera. Si parte. Una gita in
montagna ti aiuterà a schiarire i pensieri» conclude.
«Ciao!»
Il cielo era bigio quando sono entrata nelle viscere della città, ma
bastano venti minuti di metro per trasformare il grigio in una bomba
d’acqua. Lo capisco sulle scale mobili, ombrelli sgocciolanti e piumini
zuppi di pioggia.
«Piccolo, tre. Grande, cinque euro.»
I cingalesi hanno il monopolio del business degli acquazzoni,
spuntando come funghi appena accenna a piovere. Leggende
metropolitane raccontano che si nascondano sotto i tombini e che, alla
prima goccia, la comunità attivi un passaparola che li fa uscire allo
scoperto. Nessuno sa dove realmente alloggino, insieme a una riserva
inesauribile di ombrelli che sembra non avere fine. Uno mi insegue. Mi
fermo e lo guardo.
«Come fai?» gli chiedo.
«Eh?» Dalla sua espressione risulta chiaro che è pronto alla
trattativa sul prezzo, ma non a una domanda come la mia.
«A sapere che nella borsa non ho un ombrello. E poi, dove vivete?
Dicono che abitate sotto i tombini. Ma sia chiaro che io non ci credo, eh!»
Ammicco in attesa di una risposta, ma lui tace e sorride
mostrandomi nuovamente la sua mercanzia. Frugo nelle tasche in cerca
di monete e indico un ombrellino rosa. Lui me lo allunga.
«Ma soprattutto come fate a spuntare fuori tutti insieme?»
«Segreto! Vorrei ma non posso dirlo.»
Un agente della CIA avrebbe meno remore di riservatezza di questo
minuto figlio dell’isola del tè. Si prende i tre euro e va a inseguire un’altra
persona, per poi catapultarsi fuori dalla metropolitana appena intravede
due poliziotti.
Apro il mio ombrello rosa, una macchia di colore nel grigiore della
città, e, cercando di schivare le pozzanghere, raggiungo Palazzo Ranieri.
Stranamente Mr Buk risponde subito al citofono ed Ernesto,
l’ascensore sempre in arresto, mi porta a destinazione senza problemi.
Ancora più strano è come lo scenario dell’apocalisse, dopo la distruzione
delle mie amate décolleté a opera di Bobby Marley, possa aver lasciato
un orizzonte di tranquillità. L’armonia sembra ritrovata.
Mr Buk mi apre la porta, sfiorandomi le labbra con un bacio.
«Bentornata Linda!»
La casa inaspettatamente è ordinata. I panni stesi a modo suo,
ovvero uno sopra l’altro. Il letto rifatto a modo suo, ovvero senza
rimboccare i bordi delle lenzuola, che penzolano come tovaglie
stropicciate da sotto la trapunta. Ha perfino fatto la spesa. Anche questa a
modo suo, ovviamente, lasciando i surgelati a smollarsi nei sacchetti.
Un mazzo di girasoli costretto in un vasetto di pelati mi saluta
insieme a Maciste che mi salta addosso, seguito a ruota da Bobby Marley
che, con il suo dolce peso, mi fa cadere a terra.
«Ciao ragazzi, sono contenta anch’io di vedervi.»
«Ciao mamma…» La voce è di Mr Buk, in falsetto. «Sai, ieri ci siamo
comportati male e allora abbiamo pensato di farci perdonare.»
Vivere con loro tre è come trovarsi nell’asilo di un piccolo paese:
pochi alunni, ma estremamente impegnativi. Il più problematico è l’unico
che cammina in posizione eretta. Mi porge una scatola. È rosa, decorata
con brillanti. La agito e riconosco l’inconfondibile rumore dei tacchi che
urtano contro il cartone.
«Be’, cosa aspetti?», mi invita lui.
Per un attimo ho un’immagine fugace: Mr Buk che entra
all’Excelsior, lo scrigno del lusso nel centro di Milano, prende l’ascensore,
sale all’ultimo piano e mi compra un paio di suole rosse nuove di zecca.
La mia fantasia dura il tempo di sollevare il coperchio – con il conto in
banca verde speranza che si ritrova, Mr Buk nemmeno portando fuori i
cani per sei mesi di fila potrebbe permettersi un acquisto del genere.
«Ti piacciono?» mi chiede, speranzoso.
I cani scodinzolano felici, elargendo leccate e regalando guaiti.
Estraggo una scarpa di plastica. Guardo la suola: giallognola e itterica.
Insieme c’è una bomboletta spray e un biglietto.
Rosso come il mio cuore, rosso come le tue suole.
Mi viene da piangere, ma non per la commozione. Ovviamente, lui
fraintende. «Linda, non sai come mi fai felice. Le ho viste oggi su una
bancarella in Benedetto Marcello.»
«Vuoi dire quella “Tutto a 10 euro” del mercato?»
«Sì, mi sono sembrate simili a quelle che Bobby Marley ti ha
distrutto ieri.»
Tasto la scarpa. Cigola e geme solo tenendola in mano.
«Solo la suola è diversa» continua. «Così, sono andato in colorificio
e ho comprato la bomboletta. Sapessi quanto mi è costata…»
«Sicuramente più delle scarpe!» dico, con una punta di sarcasmo.
«In effetti sì. Però mi hanno garantito che è la migliore al mondo. Il
colore non sbiadisce quando cammini e resta intenso.»
Se fossi una persona mite lo ringrazierei. Il suo è un tentativo goffo
di scusarsi, eppure una lacrima mi riga la guancia. Perché io e Mr Buk
non riusciamo a imparare una lingua comune, un esperanto dei tacchi da
usare nel momento del bisogno?
Non solo il suo cane ha distrutto il prezioso cimelio della nostra
prima uscita disegnato dallo stilista francese, ma ora cerca di rimediare
regalandomi un paio di scarpe made in Hong Kong. Se è uno scherzo, non
è per niente divertente.
«Provale, dài!»
Mi porge la sinistra. Infilo il piede, ma la plastica è appiccicosa ed è
così stretta che mi pare di soffocare. Qualcosa non torna.
Guardo la suola: 36.
«Ma io porto il 37!» urlo stizzita, con la voce resa stridula dall’ira
più profonda.
Lui mi consegna l’altra senza battere ciglio. «La destra è giusta,
tesoro. L’altra non c’era uguale. Comunque, guarda il lato positivo:
comprandole spaiate mi hanno fatto anche uno sconto. E poi, lo sanno
tutti che i piedi sono diversi tra loro, e di norma il destro è più grande.»
Peccato che, in realtà, io ho il sinistro più lungo.
Devo farmene una ragione. Mr Buk è come le scarpe che indossa:
sneaker sfondate con alluce a vista. Come può capire la differenza tra una
cineseria gialla e una suola rosso China?
SCARPIERA O CARTUCCIERA?
«Se mai un giorno dovessi avere un figlio maschio lo chiamerei
Louboutin.»
Baby mi fissa stupito. «Be’, Christian è un gran bel nome.»
«No, no, proprio Louboutin. Se non hanno avuto problemi a
registrare all’anagrafe Chanel, non vedo perché dovrebbero farne a me.»
«E al battesimo lo presenteresti vestito di rosso?» chiede.
«È un’idea!»
«E se poi ne fai un altro?»
«Lo chiamerò Trumon!»
Che la moda sia una mia fissazione è un dato di fatto. E, in
particolare, all’interno di quel meraviglioso universo fatto di chiffon e
stole in seta, di cachemire e pelli di struzzo, amo il sottogruppo delle
scarpe. Qualcuno potrebbe parlare di ossessione, ma la mia, semmai, è
una passione. Sono un’attenta osservatrice. D’altronde, dalla scelta di una
scarpa si possono intuire dettagli che le persone nemmeno sanno di
comunicare: per esempio, lo stiletto appartiene a una donna sicura di sé,
che non teme le insidie nascoste tra i marciapiedi o i tombini della città;
mentre quella che cammina in flat è spesso dinamica. Forse è anche
troppo facile da intuire. Fatto sta che, dopo la prima uscita con Mr Buk, è
stato chiaro a entrambi che veniamo da due galassie diverse. E le nostre
scarpiere sono lo specchio della vita che abbiamo scelto. La mia è
maniacale. Le scarpe sono riposte in ordine per altezza del tacco e poi
per gradazione di colore, in modo da creare una scala cromatica come
quella nelle scatole di pastelli Caran d’Ache. I pezzi da collezione invece li
custodisco nelle scatole, che impilo nell’armadio e negli angoli più
impensabili della casa. Le scarpe di Mr Buk giacciono a casaccio in giro
per l’appartamento, quasi mai nella scarpiera in ingresso e talvolta
perfino fuori dalla porta – per “farle sgasare”, dice. A volte i suoi cani le
masticano. Sono tutte sneaker e sono tutte bucate.
LE MILLE E UNA SUOLA
«Io non ho una figlia, ma un millepiedi» aveva sentenziato mio
padre, scuotendo la testa mentre assisteva alla metamorfosi della
dispensa in una scarpiera. Travolta dalla follia dell’abbandono del
Grande Asfaltatore e per elaborare il lutto della separazione, infatti,
avevo svuotato la mensola dei piatti, trasformandola in una capace
cabina armadio a vista.
Nonostante la vita avesse poi assunto un andamento più regolare
con l’avvento di Mr Buk, la bulimia da suole non era guarita. Così avevo
avuto l’illuminazione: dovevo conoscere colui che possiede tutte le
scarpe più belle al mondo, Bernard de Trumon.
Ma, soprattutto, dovevo visitare il suo studio: un magazzino sui tetti
di Place des Vosges in cui è conservato il meglio della moda, e di cui non
esistono foto in rete. Una volta dentro il palazzo, viene chiesto di lasciare
all’ingresso cellulari e qualsiasi dispositivo dotato di telecamera o
registratore. Non esistono tracce della sua voce, né sue fotografie. Di lui
non si sa praticamente niente, comunica attraverso i social network – i
capi che mette su instagram ricevono in pochi minuti migliaia di “like”,
scatenando un effetto domino sulle vendite, e la sua pagina facebook ha
milioni di sostenitori. Il suo blog viene aggiornato con un contributo
diverso al giorno; ogni post raggiunge il milione di visualizzazioni e
genera centinaia di commenti.
Le fortunate lettrici – una al mese – che sono state accolte nel suo
tempio sono state poi intervistate, ma nessuna si è lasciata sfuggire
niente di quello che accade oltre quelle porte. E in più, alla domanda
“Trumon di che colore ha gli occhi?” fatta dall’inviata di un importante
tabloid francese a tre di queste signore, tutte hanno dato risposte
differenti.
Tanto che un medico, consultato sul tema, ha diagnosticato in loro
una declinazione della sindrome di Stendhal. E perciò, in onore del
grande maestro, quella particolare euforia che travolge noi donne
davanti ai saldi, caratterizzata da brividi e isteria, è stata chiamata
“sindrome di Trumon”.
Colei che varca quella soglia, infatti, deve firmare un accordo di
riservatezza su quanto vedrà e, in cambio, la fortunata può scegliere un
ricordo da portare via. C’è chi ha voluto un foulard di Hermès o se n’è
andata con un bauletto di Vuitton special edition. Io non ho dubbi: se
riuscissi a entrare in quel sancta sanctorum delle meraviglie, ne uscirei
con un paio di suole rosse.
A un certo punto, quindi, per cercare di dare una svolta alla nostra
storia, dai commenti pubblici ai suoi post ho cominciato un regolare
invio di mail. Una al giorno, come si fa con i mariti in trasferta di lavoro o
con i fidanzati in missione di pace. E, dall’iniziale ”Gentilissimo Maestro”,
sono scivolata all’amichevole “Caro Bernard”.
Tutti i messaggi del mio monologo si chiudono con un congedo che
rimanda a una non ben precisata trasferta di lavoro in terra francese.
Perché sia chiaro che non cerco rimborsi per il viaggio o cose simili.
Eppure Trumon continua a tacere, tanto che, trascorsi tre mesi dall’inizio
di questa parabola, mi trovo allo stesso punto da cui sono partita. Io a
Milano, lui a Parigi.
Ho tenuto segreta questa follia ai miei amici, fatta eccezione per
Irene, che è l’unica che può comprenderne il senso. Il senso che non c’è,
in verità.
«Ma come fa?» chiede Irene, leggendo i consigli di seduzione sul
blog di Trumon.
«Geni si nasce, non si diventa» sentenzio, rassegnata.
È inutile opporsi all’evidenza, l’uomo dei miei sogni non mi
considererà mai. D’altronde, cos’ho io di diverso dalle altre migliaia che
lo seguono con religiosa devozione? Evidentemente, agli occhi del guru
della moda io non esisto.
Per distogliermi da quest’ossessione a senso unico, Irene mi ha
convinto a una fuga fuori porta. Io e lei da sole. Senza zavorre al seguito –
Mr Buk o i cani. I magnifici tre rimarranno a casa a fare la guardia,
mentre noi ci rilasseremo tra vasche termali e grolle di vino.
«Gli scriverai lunedì» cerca di consolarmi Irene. «Se per due giorni
non ti legge, credo che se ne farà una ragione. E poi, lontano dagli occhi
non sempre coincide con lontano dal cuore. La distanza aiuta a mettere
meglio a fuoco i sentimenti: questione di diottrie e di lenti.»
Sono grave: innamorata, non corrisposta, e abbandonata ancora
prima di esserci uscita una volta.
SUL CUCUZZOLO DELLA MONTAGNA
– 41 giorni al matrimonio
«Perché Pré Saint Didier? Le Terme di Milano non andavano bene?»
chiedo.
«Clo, mi stupisci, in fondo sei tu la creativa.»
Faccio spallucce. L’asfalto corre veloce sotto le ruote dell’auto.
«Ci sono un sacco di tipi interessanti fuori da Milano ed è arrivato il
momento di diversificare.»
«Ma diversificare, che? Sarà una succursale di corso Como e poi io
sono fidanzata!» mi difendo.
«Be’, ma io no! Fortunatamente non tutti fanno gli stessi errori, e
comunque c’è sempre tempo per redimersi. Finché non percorri la
navata di una chiesa a braccetto di tuo padre vestita di bianco, direi che
non è troppo tardi.»
«Io non mi vestirò mai di bianco!» esclamo.
«E non ti sposerai mai in chiesa, magari» aggiunge Irene.
«Esatto.»
Irene scala: è perfettamente a suo agio al volante della Z4 color
cachemire. Stasera ho fatto in tempo ad arrivare a casa e buttare al volo
qualcosa nel trolley che lei già mi invitava a scendere. E siamo corse via.
Di solito succede quando vogliamo festeggiare qualcosa – l’inizio o
l’epilogo dei nostri amori immaginari che durano lo spazio di una notte,
le promozioni o i litigi sul lavoro – con appuntamenti che scandiscono la
nostra amicizia e sono per noi un bene prezioso a cui non sappiamo né
vogliamo rinunciare.
«Camogli?» propongo, vedendo il cartello che segnala l’area di
servizio.
«Date le latitudini sarebbe meglio un valdostano.» Irene non ne se
fa scappare una.
«Ma non esiste!» fingo d’indignarmi.
«Perché tu sai a memoria tutti i panini dell’Autogrill?»
Ci fermiamo vicino Aosta per un panino da camionista e una Coca-
Cola Zero per corrodere quel mattone.
«Comunque Baby dà veramente degli ottimi consigli», mi racconta
Irene mentre mastichiamo di gusto. «Mi ha decantato le bellezze delle
terme valdostane al punto da persuadermi a partire.»
«Con quale grimaldello?» chiedo, ironica.
«Dice che c’è un sacco di gente interessante.»
«Non che voglia infrangere i tuoi sogni, Ire, ma alle terme si va in
coppia.»
«Cosa vuol dire? Anche noi andiamo in coppia senza esserlo, e
comunque le terme Saint Didier sono una colonia meneghina. Massimo
risultato con il minimo sforzo.»
«Devono essere “interessati” più che interessanti…»
«Dettagli!»
«Piuttosto, mi spieghi come mai un armadio a due ante come lui si
fa chiamare Baby?»
«Patrick Swayze.»
«Ma non è morto?»
«Sì, ma ha sempre sognato che lui gli dicesse la frase di Dirty
Dancing: “Nessuno può mettere Baby in un angolo”.»
«Per un attimo ho pensato che si ispirasse al maialino
coraggioso…»
«Quello era Babe, cretina! E comunque lui è vegano.»
«Perché non sa quanto è buono il prosciutto!» dico, finendo l’ultimo
morso della mia focaccia. Il seguito del viaggio vola e, ancora con i resti
del Camogli che si dibattono nello stomaco, ci troviamo immerse in una
vasca caldissima, circondate da gente impettita in accappatoio bianco e
ciabatte di spugna. Vagano come fantasmi, gli occhi fissi sulla tisana
drenante che posano a bordo piscina. Io non potrei stare meglio e,
abbandonandomi allo sciabordio di questa marea artificiale, metto la
testa in acqua per attutire i rumori.
«Chi l’avrebbe detto», il getto dell’idromassaggio rende
intermittente la voce di Irene.
«Che cosa?» chiedo.
«Non c’avrei scommesso un euro, eppure ne è passato di tempo da
quando tu e Mr Buk vi siete messi insieme!»
«No, infatti ne hai vinti cinquanta» le ricordo.
Dalla serata del reading nella landa desolata e allagata, di mesi, in
effetti, ne sono passati. Ho superato lo scoglio dei due, raggiunto il quale
di solito il pretendente di turno mi veniva a noia. Ho guadato le paludi
del terrore, che solitamente arrivano puntuali allo scoccare della sesta
luna, di restare ingabbiata in una convivenza che mi spaventa più di
Shining. A nove mesi ho poi superato l’ansia di tornare a casa e trovare
un Cervino di vestiti appallottolati dalla sua parte del letto.
Un sacco di conquiste per chi, come me, detestava dividere il piatto
con qualcuno, figuriamoci il letto. Una considerevole crescita personale
in un annetto, ma ancora insufficiente per pensare di attraversare il
Rubicone del “per tutta la vita”. Capelli rasta e All Star non ci azzeccavano
granché con l’idea dell’uomo che avrei desiderato avere accanto.
Durante la nostra prima uscita a Rozzangeles mi aveva offerto una
birra in un bicchiere di plastica e, nonostante la roboante lotta tra i
cuscini che era seguita, avevo scommesso con Irene una cifra
stranamente alta: cinquanta euro che non l’avrei più visto. Aveva vinto
lei.
Quando l’ho conosciuto si era appena licenziato. Impiegato alle
Poste, si sentiva alienato e così, come il suo idolo, aveva deciso di mollare
le raccomandate, voltando le spalle a uno stipendio sicuro fino alla
pensione, per inseguire il suo sogno. «Bisogna tornare a sentire i battiti
del cuore, ormai coperti dal rumore delle tastiere.»
Mi piaceva come approccio e così mi sono lasciata conquistare al
punto che, nonostante la mia devozione per le scarpe griffate, ora le sue
All Star popolano la casa con il loro fetore di cane bagnato.
Tutto è avvenuto in modo graduale. Qualche uscita la sera e poi
sempre più spesso insieme. Un crescendo lineare, senza sforzi né
progetti. Con lui che mi continuava a offrire birre e io che gli restituivo il
bicchiere dopo pochi sorsi. Con lui che mi veniva a prendere col pullmino
scassato e io che mi ostinavo ad andare nei centri sociali con i tacchi a
spillo. Con lui che seminava i calzini sporchi come Pollicino le briciole e
io che continuavo a buttarli in lavatrice.
Abbiamo vissuto un presente cristallizzato, che ogni mattina al
risveglio era una conferma. Lo spazzolino, un cambio per la notte e i miei
armadi, per cui ho una vera fissazione, sono stati piano piano colonizzati
dai suoi vestiti – qualche felpa e qualche maglietta, dei jeans rattoppati e
le fantomatiche sneaker. Le maschere maori, regalo propiziatorio dei
suoi genitori, sono state lo spartiacque.
Ho capito di amarlo quando ho accettato che quegli orrendi pezzi di
legno scolpito entrassero nella mia “bomboniera”, accogliendo i visitatori
sulla porta d’ingresso. A quel punto non è stata più casa mia, ma è
diventata casa nostra e, sebbene incapaci di verbalizzare l’evoluzione, ci
siamo trovati a dividere i metri quadri a Palazzo Ranieri, facendo ben
attenzione a evitare di chiamarla “convivenza”.
Un po’ per mio padre, che non avrebbe capito, un po’ per i miei
amici, che erano anni luce lontani dallo stile di vita di Mr Buk, ma
soprattutto per il terrore che una storia nata senza impegno ci sfuggisse
di mano.
«Perché non vi sfasate?» L’acqua bolle nella pentola tiepida della
vasca esterna. Intorno, le cime delle Alpi, denti asimmetrici sfregiati di
neve.
«In che senso?» Mi sposto in modo che il getto mi arrivi sul collo.
«Voglio dire, ormai è da un po’ che andate avanti e allora, perché
non vi sposate?»
Quella che sembra una presa salda al bordo mi tradisce e finisco
sott’acqua. Un liquido amniotico a trentotto gradi che bevo in
abbondanza. Mi lascio andare sul fondo e riemergo tossendo.
«Io con una fede al dito? Di’, ma sei impazzita?», riesco a malapena
a parlare. «Perché? Sai come la penso, sono contraria alle storie che non
prendono una piega definita.»
«O definitiva? Io sono fatta per il carpe diem» concludo seria.
«Macché, tu sei fatta e strafatta», mi corregge Irene, «ma per lo
scarpe diem.»
E, con una risata, il discorso si esaurisce nella sauna e si estingue in
un bicchiere di Chardonnay per reintegrare i liquidi.
Complice un campo latitante, i giorni alle terme trascorrono
nell’isolamento più completo. A due passi dal cielo, l’aria pura facilita la
rimozione del mio pensiero fisso per Trumon, ed è già ora di rifare i
bagagli. Irene si rimette al volante e la strada sfila con la sua girandola di
cartelli.
«Grazie per aver insistito.»
Irene mi guarda incuriosita. «A far che?»
«A portarmi via da Milano. Credo che questo week-end mi sia
servito.»
«Se lo dici tu: torniamo a bocca asciutta, esattamente come siamo
partite. Adesso Baby mi sente, lui e le sue fantasie da “mille e una
vasca”!»
«Non dire che non ti avevo avvisato che nella stanza del sale ci
sarebbero state solo amabili coppiette. Io sono soddisfatta, invece. Stavo
proprio esagerando!» concludo.
«L’ultima grolla ti ha aperto gli occhi sulla durata della relazione
con Mr Buk?»
«Ma va’, ho una gran voglia di vederlo.»
«Non è che il bombardino ti è entrato in circolo e hai capito che è
arrivato il momento di battere cassa?»
«Figurati! Userà il suo cagnolino in ceramica per metterci gli
spiccioli che guadagna come dog-sitter.»
«Merita rispetto anche come interior designer, allora. Vediamo»,
scala la marcia e supera un tir, «forse la cipolla allucinogena della
fricassea ti ha fatto capire che è ora di chiedere un aumento di stipendio
al tuo capo?»
«Ricordi? Sindrome di Stoccolma sia per lui che per Mr Buk, e
perciò non riesco mai a chiedere nulla né all’uno né all’altro.»
«Va bene, getto la spugna. So che c’entra il risotto ai porcini, che
avevano un sapore troppo psichedelico per provenire dalle valli locali,
ma non ci arrivo. Cos’è
successo?»
«Mi sono lasciata andare troppo.
Con il guru della moda, intendo.»
Irene si volta verso di me e mi picchietta delicatamente il pugno
sulla testa. «C’è nessuno, qui? Ma ti rendi conto che ti sei fatta un film
tutto da sola?»
«Ma non eri tu che all’inizio mi davi manforte?»
«Hai detto bene: all’inizio. Passi per scrivergli una volta. Vada per
due. Ma poi esageri.»
«E comunque, ho deciso: smetto.»
«Ohhh, finalmente!»
Il cellulare vibra all’uscita di Saint Vincent per una notifica di
facebook.
«Ci fermiamo per un chemin de fer?» chiedo, mentre Irene imbocca
lo svincolo e in lontananza scorgo il casinò.
«Ci fermiamo prima che il chemin de fer», e dà un colpetto sul
volante, «ci lasci a piedi. Sono senza benzina e c’è il distributore
automatico. Non è che mi aiuti?» Le amiche servono nel momento del
bisogno.
DITELO CON UN’E-MAIL
– 39 giorni al matrimonio
Le italiane! Ostinate e caparbie, eppure quando non ci siete si sente
la vostra mancanza.
Ci sei riuscita, cara Clorinda, a convincermi a risponderti.
Allora, quando passi per Parigi?
Bernard de Trumon
P.S. Aspettando la piadina, ça va sans dire.
– 37 giorni al matrimonio
Ci sono giorni speciali e a suggerirlo è sempre un indizio, spesso
minimo, un dettaglio impercettibile.
Striscio il badge, si alza la sbarra, parcheggio, la guardia alla
reception mi consegna la chiave del mio ufficio, il logorroico dall’alito alla
caffeina commenta i titoli dei giornali per i sei piani di ascensore, la pigna
dei comunicati stampa davanti alla porta di Leader Minimo.
Tutto come da copione, insomma.
Ma, svoltato l’angolo, trovo la sorpresa: un uomo fermo davanti al
mio ufficio, due barattoli di vernice e un pennello in mano.
«Ha presente il color pervinca?»
A seguito del successo riscosso dalla campagna “per tutta la vita”,
ho ottenuto che le pareti del mio ufficio siano ridipinte del colore che
preferisco.
L’imbianchino, un ometto tozzo dalla barba sfatta, mi guarda
perplesso.
«Si tratta del celeste dal fondo grigiastro che prende il nome
dall’omonimo fiore. Una via di mezzo tra il blu Savoia e il fiordaliso, ma
un po’ meno turchese del Tiffany, insomma ceruleo quanto basta per non
risultare stucchevole.»
«Fiordaliso? Savoia? Tiffany?» Si gratta la testa. Sta pensando che
sono matta, ne sono certa. È completamente perso e, dopo cinque minuti
di lezione sulle sfumature, il suo sguardo è così vitreo da farlo sembrare
vittima di una paresi fulminante. Se ne va sbuffando, e torna con altre
latte, cercando di propinarmi un turchese evidenziatore.
«Sì, ma adesso mi procura anche il camice!»
Poche vigorose pennellate hanno trasformato l’ufficio in una sala
operatoria. Tanto che Leader Minimo, affacciandosi mentre la tintura è
ancora fresca, lo battezza con una freddura delle sue: «Benvenuti alla
clinica Benvenuti!».
E, comunque, devo dargli ragione.
«Insomma, possibile che lei non abbia mai visto un Rembrandt?»
sbotto con l’imbianchino. «Il pervinca è il colore dei suoi cieli.»
L’uomo con la tuta a spruzzi mi scruta con occhi speranzosi, come
se il futuro si fosse posizionato all’orizzonte. Oltre quella parete di cui
ignora il colore. Lui conosce tutti i grigi del cielo di Milano: l’intera scala
con le sue duecentocinquantasei tonalità, dal piombo, all’antracite, fino al
perla.
«Orpo, e non va bene quello di Milano?»
Sto per gettare la spugna quando, in un lampo di lucidità, tento
l’ultima possibilità: «Lei conosce facebook?».
«Certo, più tardi le chiedo l’amicizia» replica, stampandosi sulle
labbra un sorrisetto ironico.
«Bene, che ne dice se tentiamo di avvicinarci a quel blu?»
«Dovrei rivederlo…»
Mi collego e giro il monitor in modo che lui possa osservare la
schermata pervinca del mio pc.
«Bastava dirlo che voleva le pareti lavanda con una punta di
polvere!» esclama in tono un po’ scocciato.
Sospiro e decido di sfruttare la poca forza che mi è rimasta dopo
l’interazione dialettica più complessa degli ultimi anni per accedere al
mio profilo. Non che mi aspetti una risposta da Bernard de Trumon,
anche se in cuor mio mi piacerebbe.
E invece, ad attendermi c’è un messaggio, custodito in una bustina
color lavanda, stemperato da una punta di polvere.
Pervinca, appunto.
«Oh, mio Dio! Oh, mio Dio! Oh, mio Dio!»
L’urlo trafigge i timpani del tinteggiatore, che scivola dalla scala,
rovesciando la tolla di vernice.
«Si sente male, signorina?»
Giro intorno alla scrivania e corro ad abbracciarlo. «Lei è testimone
di un evento storico.»
Alza le braccia, mentre la tinta continua la sua corsa verso terra.
«Lei non capisce… si è appena realizzato il sogno di milioni di
donne. Nella mia persona!»
La tinta cola sulla moquette senape, che si impregna restituendo un
colore itterico.
«Incontrerò il maestro, il genio assoluto della moda! Ci vedremo a
Parigi, all’ombra della Tour Eiffel. Ma non è un sogno?», ed esco
dall’ufficio salutandolo con la mano.
«Tutto da ricominciare» lo sento sbuffare prima di voltare l’angolo.
«Va’ su l’ostia, ti e il to pervinca!»
SECONDA PARTE
Amore, per quest’anno, a San Valentino, niente rose ma un mazzo di
décolleté dalle suole rosse.
CLORINDA BENVENUTI
VINCERE FACILE
– 34 giorni al matrimonio
Alla fine l’ho spuntata io. Con le pareti, che nonostante schizzi,
impronte e segni delle pennellate ora evocano un prato di violette, ma
soprattutto con Bernard de Trumon.
Leader Minimo si affaccia alla mia porta con un Arbre Magique al
lillà: «Consideralo un omaggio della Metello & Partners, per
un’esperienza lavorativa multisensoriale.» Appendendo alla maniglia
l’alberello di cartone, continua: «Avevo pensato, poi, di regalarti un
pastorale da usare come appendiabiti o una mitra svuotatasche… o
preferisci qualcos’altro?»
«Vuoi veramente farmi felice?»
«Ah, ecco! Ho trovato una candela all’incenso che si chiama Spiritus
Sancti e sembra di entrare in Notre-Dame ogni volta che l’accendi. È un
salasso, ma te la sei meritata: procedo con l’acquisto?»
«Hai detto la parola magica. Anzi ne hai dette due: Notre-Dame e
acquisto.»
«Vuoi andare in pellegrinaggio a chiedere un miracolo? Non che me
ne intenda, ma di solito non si va a Lourdes?»
«Non scomodare i santi: a me basta un biglietto aereo.»
So che mi si ritorcerà contro, ma non ho alternative. Tra spesa,
bollette e mutuo, ogni mese mi destreggio per mettere da parte qualche
soldo in vista delle vacanze estive, e non posso permettermi anche la
follia di Parigi.
«Ah! E quindi non mi chiederai altro quest’anno?»
Bacio le dita incrociate. «Parola di lupetto.»
In verità, siamo in ballo per una promozione e vorrei ricordarglielo,
invece taccio e sorrido. Alla fine, qualche mese in più non farà una gran
differenza, mentre perdere quest’occasione vorrebbe dire rinunciare a
stringere la mano al guru parigino.
Senza ulteriori domande, chiama la sua segretaria dal mio telefono.
«Desidera, dottor Minimali?»
«Pamela, per cortesia, chiama l’agenzia viaggi e prenota un biglietto
su Parigi per Clorinda Benvenuti. Sarà lei a darti gli estremi» dice
lanciandomi un’occhiata d’intesa.
«Ah, ovviamente scegli la tariffa più conveniente e, se non trovassi
niente, procedi con una compagnia low cost. Come progetto, inserisci
“miracolo a Parigi”… No, non stiamo lanciando un nuovo profumo. Sì, in
caso chiederò di usarti come tester. Grazie mille.»
E attacca.
«Ti sei giocata la promozione per un volo, contenta te…»
Facendo appello alla calma interiore che ho imparato in un corso di
yoga su internet, respiro profondamente e gli regalo un sorriso
bianchissimo – grazie alla fornitura a vita regalatami dal cliente.
Devo assolutamente avvisare Irene delle novità.
«Se mi scusi, vorrei chiudere alcune pratiche» dico a Lucio prima di
rimettermi su facebook.
«Al tuo rientro da Parigi ti aspetta qualcosa di molto grosso.»
Lo guardo incuriosita. «Non puoi accennarmi nulla?»
«Diciamo piuttosto che non ho intenzione di accennarti nulla.
Salutami la Tour Eiffel.»
E se ne vanno, lui e la sua scia di dopobarba.
VOLERE VOLARE
– 30 giorni al matrimonio
Il gigante d’acciaio rulla sulla pista, le ruote calcano l’asfalto mentre
le eliche iniziano a girare per portarmi via da Milano, in una giornata al
suo debutto.
La testa è già ad alta quota e il cuore mi batte all’impazzata.
Ancora non mi capacito di quanto sta accadendo. Alla fine Pamela
ha scelto un’ottima tariffa, con la pessima controindicazione di orari
improbabili: risveglio antelucano per essere a Linate all’alba e rientro
alle cinque di pomeriggio. Ho programmato tutto nei minimi dettagli, se
non sgarro riesco perfino a tornare a casa senza che Mr Buk se ne
accorga. Un lavoro pulito, senza lasciare tracce del miopassaggio.
Incontrerò Bernard de Trumon.
Tanto basta.
«Signorina, potrebbe alzare lo schienale?»
Il colosso, presa la rincorsa, si stacca da terra. Sotto di me, la
scacchiera ortogonale meneghina, l’Idroscalo, la torre televisiva. Vedo la
mia piccola Manhattan sbiadire tra le nuvole di smog sul verde della
pianura padana.
Sfoglio il giornale per darmi un contegno ma ho il cuore in gola. E
non solo per Trumon.
L’ho notato agli imbarchi e ho pensato a un’allucinazione dovuta
alla melatonina. Mi sono strofinata gli occhi per controllare meglio, ma
lui era ancora lì, in fila davanti a me. Non c’erano dubbi, dunque: il
Grande Asfaltatore stava salendo sul mio stesso volo. Benedetta non
pervenuta, ma con lui c’era una vezzosa trentenne. Niente a che vedere
con la ragazza in ballerine, questa era molto più grintosa, in Borsalino da
uomo calcato in testa, pantalone in raso a sigaretta e Oxford ai piedi. Lui
non mi aveva visto, ne ero certa, era troppo concentrato a flirtare con la
nuova conquista. L’avevo seguito con lo sguardo fino a quando si era
imbarcato.
Noi ci siamo conosciuti così, su un volo per Parigi. Il caso aveva
voluto sedessimo accanto e io ero rimasta subito affascinata dal suo
profumo. Era stato lui a cercare un pretesto per attaccar bottone,
allungando il collo per capire quale pagina del quotidiano che avevo in
mano stessi leggendo e dando origine a una lunga serie di
fraintendimenti. Io, che per prima cosa leggo l’oroscopo, non avevo fatto
eccezione e quel giorno fu così rivoluzionario nella mia vita che il testo
mi è rimasto impresso: “Chiudete in un cassetto la vostra relazione e
cogliete al volo una passione. Toccherete così il cielo con un dito”. A
quell’epoca, in realtà, ero sola o, come teneva a precisare Irene,
felicemente single.
Dunque non avevo storie da chiudere, né passati da archiviare.
Vivevo alla giornata. Il Grande Asfaltatore, pensando stessi leggendo un
pezzo su un film di Kurosawa, sfoggiò la sua erudizione. Perché tutto si
poteva dire di lui, ma non che fosse un intellettuale incompleto, il cui
interesse spaziava da Proust a Cartier-Bresson. Mi piacque subito
quando capii che mi stava parlando di un regista. In verità non sono
un’appassionata di cinema: di solito mi addormento, e l’ultimo film che
avevo visto con Irene era stato il secondo atto della saga tra Carrie e Mr
Big. Ma, oltre a non essere propriamente una cinefila, se mi avesse
chiesto di dissertare sulla trama, sarei rimasta a bocca aperta: l’unica
ragione per cui avevo investito i sette euro dell’ingresso era la collezione
disegnata da Manolo per le riprese.
Posato il giornale, l’avevo osservato: il ciuffo brizzolato obliquo e
scolpito dal pettine, sobri gemelli in oro bianco a far capolino dalla
manica della giacca, le dita lunghe e le mani curate. Nell’aria un vago
sentore di mughetto.
Ne avevo incontrati, di uomini, nei miei viaggi. Alti, magri, bassi,
stempiati o capelloni, eleganti o trasandati, potevano essere divisi in due
grandi categorie: logorroici o taciturni. I primi interpretavano il volo
come momento per esplorare il pianeta donna, vomitando addosso alla
sciagurata vicina di posto inverosimili racconti sulle mogli, arpie incapaci
di amare, e sui figli ingrati, refrattari all’educazione. Gli altri, invece,
trascorrevano quel tempo tra decollo e atterraggio concentrati sulle
schermate dei portatili, che avviavano appena era consentito.
Tutti mi avevano fin lì lasciato indifferente, ma quell’uomo
incontrato sul volo per Charles de Gaulle mi piacque dal primo istante.
Ero anche riuscita a rovesciargli addosso il caffè. E lui non si era
scomposto, nonostante la macchia sulla camicia candida, ma mi aveva
lasciato di stucco con la frase che aveva dato inizio alla nostra storia, e
non avrei più dimenticato: «Porterò con me il ricordo di questo caffè per
tutto il giorno».
“Toccherete così il cielo con un dito.” Era stata una relazione
intensa, appassionata: fatta di aerei per Parigi e di binari per Milano, di
arrivi a Charles de Gaulle che erano già atterraggi a Linate e ripartenze
dalla Stazione Centrale aspettando di veder comparire la Gare de Lyon.
Di vini bianchi degustati ai tavolini di un bistrot sui boulevard
davanti ai magazzini Lafayette e di panzerotti seduti sui marciapiedi
protetti dalle vetrine della Rinascente e stretti dall’abbraccio delle guglie
del Duomo. Di baci nascosti agli sguardi dei passanti e di occhi lucidi e di
nasi soffiati su quei taxi che portavano via.
Guardo fuori dal finestrino, tra venti minuti atterreremo.
La hostess sta passando con il carrello e chiede se i passeggeri
desiderano un secondo giro di caffè o tè. Mi allungo per richiamare la sua
attenzione.
«Posso avere un caffè?» domando.
La ragazza, uno chignon stretto sulla nuca e la camicia con il nome
della compagnia stampato sul cotone, versa l’inchiostro marrone in un
bicchiere di carta e me lo porge. A quel punto le faccio capire con un
cenno del capo che devo passare e lei arretra il carrello per permettermi
di alzarmi. Durante la manovra fingo di perdere l’equilibrio e il caffè
finisce sul Grande Asfaltatore, che finalmente si accorge di me.
«Ops, scusa.»
Questa volta ad arrossire è lui, ma di vergogna.
«Non si preoccupi» risponde freddo, fingendo di non conoscermi.
«Così, porterà con sé il ricordo di questo caffè per tutto il giorno»,
lo cito e torno a sedermi.
Anche questo giorno cambierà la mia vita, ne sono certa.
PARIGI VAL BENE UNA SCOMMESSA!
Appena atterrati, esco di corsa dall’aeroporto, buttandomi alle
spalle l’incontro con il Grande Asfaltatore e infilandomi in un taxi.
Mi abbandono contro il sedile, riprendo finalmente fiato.
“Bonjour, je suis Clorinda ”, “Comment ça va?”, “Quel honneur
d’être ici!”.
Improvvisamente niente di quello che potrei dire mi sembra
all’altezza del guru.
Il taxi si immette sulla périphérique, rischiando di speronare un tir,
e mi devo ancorare alla maniglia tanto la guida è scellerata. Sulle note di
Non, je ne regrette rien l’autista si cimenta in sonori e incomprensibili
gorgheggi.
Quando imbocchiamo l’uscita “Paris - Centre ville”, il mio cuore
sembra un orologio impazzito: sussulta a ogni buca e non so se sia per
colpa dello squilibrato al volante, per lo sconvolgente incontro in aereo o
per quello che mi aspetta. In ogni caso, rischio un infarto.
Il tassista mi osserva dallo specchietto.
«Se vuoi sembrare una diva, devi assomigliarle», mi aveva ricordato
Irene.
Avevamo passato in rassegna le star più amate da Trumon, ovvero
quelle con cui civettava su twitter e che si affidavano a lui per la mise da
sfoggiare sul red carpet a Hollywood o sulla promenade di Cannes, e
avevamo optato per una bomba sexy in miniatura: una ballerina di
burlesque.
Poi eravamo andate in un negozio di roba vintage consigliato da
Baby a cercare un abito anni Cinquanta.
Avevo provato praticamente tutto: dalle gonne a palloncino ai
bustini steccati, dai vestiti a ruota alle giacche a trapezio. Niente che
stupisse e, soprattutto, nulla che fosse della mia misura. Le maniche
troppo lunghe o i fianchi stretti, le vite sottili a prova di respiro e i colori
sgargianti.
Era stato Baby a deliberare: «Ho deciso: leggings in ecopelle con
bustino abbinato».
«Mi sembra un po’ eccessivo» avevo azzardato.
«L’eccesso è la regola nel mondo della moda!», mi aveva zittito lui.
«Dunque, ora cerchiamo qualcosa da metterti in testa.» E aveva
recuperato una parrucca in acrilico nera come la pece. Se solo qualcuno
mi si fosse avvicinato con una sigaretta avrei preso fuoco.
«Portati un estintore, mi raccomando!» aveva concluso.
Irene mi aveva guardato con attenzione – profilo destro, profilo
sinistro, frontale –, prima di commentare: «A me ricordi Dita…».
«Von Teese?», avevo sperato.
«Macché, una travesDita!»
Nonostante il sarcasmo di Irene, il timore di non essere
sufficientemente diva mi ha convinto a buttare in una borsa tutto
quell’armamentario e, sperando che il tassista non si scomponesse,
procedo con la trasformazione.
Prima di partire ho controllato su Google Maps il tragitto da Charles
de Gaulle al centro città. Il guru, anzi, la sua segretaria aveva richiesto
categoricamente la puntualità: il tempo di Bernard de Trumon era oro –
ogni suo secondo valeva una clutch di coccodrillo e ogni minuto era una
pelliccia di ocelot.
Trenta minuti di taxi, che con questo traffico lieviteranno a
quaranta. Ma ho già sforato di venti la mia tabella di marcia, a causa del
ritardo del volo.
Sfilo i jeans e tento di scivolare nei leggings.
«Merde, sono stretti!»
La respirazione si fa difficoltosa appena mi ritrovo avvolta in
questa specie di muta da sub che mi fa sembrare un capitone.
Indossare il bustino di raso da sola è complicatissimo. I ganci sono
infiniti e la chiusura sul retro mi costringe a contorsioni da circense.
Allacciato anche l’ultimo fiocco, prendo la trousse, cercando di ricordare i
passaggi suggeriti da Baby: «La pelle deve sembrare cristallo e le labbra
rosse».
Spalmo un primer e della cipra avorio per rendere l’incarnato più
luminoso. Solo che sul più bello, con la punta del rossetto poggiata alle
labbra, il tassista inchioda. Il rossetto si spezza e il moncone mi disegna
uno sfregio sulla guancia.
Non gli risparmio il mio risentimento, ma lui fa spallucce,
strizzandomi l’occhio attraverso lo specchietto. La macchina riparte.
Manca poco. Fuori dal finestrino vedo sfilare i luoghi che mi ha fatto
conoscere il Grande Asfaltatore, e poi finalmente scorgo la mia meta.
Trumon ha scelto per il suo quartier generale la perfezione
architettonica nel cuore del Marais.
Ci sono alcuni bouquinistes in lontananza e profumo di croissant
appena sfornati. La piazza è delimitata da nove caseggiati, che formano
una parete ininterrotta di tre piani e un ampio solaio, e in uno di quelli
c’è lo studio del genio della moda.
Sto già sorridendo.
«Cent euro, s’il vous plaît», mi riporta alla realtà il tassista.
«Ehhh???» Sconvolta gli indico le tariffe esposte su una tabella
attaccata al sedile. «Ma se c’è scritto cinquanta.»
«Sans périphérie!» risponde. Per evitare dei lavori stradali, ha
dovuto fare una deviazione. Che mi costa come un viaggio a Roma in
treno.
Mi faccio ripetere la cifra e gli allungo la banconota. Oggi sarà una
giornata meravigliosa e niente potrà rovinarmela. Mi isso sugli stiletti di
vernice che ho stipato nel trolley e scendo dal taxi, atterrando su una
cacca di cane così grande che nemmeno Bobby Marley potrebbe
eguagliarla.
«Merde!» grido.
Sbatto la portiera dell’auto, neanche fossi una tennista a
Wimbledon alle prese con uno smash che le regalerà la partita.
«Madaaaaaame. S’il vous plaît!», sento alle mie spalle. Ma io, dopo
aver strofinato la scarpa contro un marciapiede, tiro dritto.
Dicono che porti fortuna e, dati i presupposti, non posso non
averne.
ALLA CORTE DEL MAESTRO
Succede così: gli dei per punirci avverano i nostri desideri e la
scaletta, che ho redatto nei minimi dettagli, non serve a calmarmi.
Digito veloce il numero di Irene che, al secondo squillo, risponde in
un sussurro: «Ciao, zecca, ti ricordi che sto lavorando, vero?».
«Sì, ma mi sento male. Forse ho sbagliato tutto.»
«La pressurizzazione ti ha dato alla testa? Ma non dovresti già
essere con Trumon?»
«Mancano dieci minuti…»
«Quindi io ti servo per passare il tempo?»
«No, per placare la mia ansia.»
«Non ti sei portata le gocce?»
«No, pensavo di riuscire a controllarmi.»
«Male! Hai ripassato il discorso che abbiamo scritto?»
«Sono solo frasette idiote, potevi sforzarti di più.»
«Aspetta che me lo segno. La prossima volta che mi chiedi aiuto,
risponderò “Arrangiati”.»
«Scusa, ma sono sottosopra: è successa una cosa incredibile.»
«Ovvero?»
«Ho rivisto G.A.»
«Ussignur! E come stai?»
«A livello di pancia non mi sento benissimo, ma se avessi assistito
alla scena, saresti stata orgogliosa di me. Gli ho rovesciato il caffè
addosso.»
«Come la prima volta?»
«Ma apposta e con gran soddisfazione.»
«Brava, zecca, goditi il trionfo: comunque vada, sarà un successo. E
ricorda, questa volta sei tu ad avere il tacco dalla parte del manico!»
La saluto e citofono al numero 66, come mi ha detto Nadine, la
segretaria. Aspetto. Poi risuono e come da istruzioni sorrido alla
telecamera, ma oltre allo scatto del portone non ottengo altro. Mi
accoglie un androne con una scala in marmo bianco e ballatoi intarsiati.
Mi incammino muovendomi con cautela sui tacchi, ma al secondo
piano ho la tentazione di sfilarli perché tra i leggings a prova di respiro e
l’equilibrio precario questa ascesa comincia a presentare difficoltà
impreviste. L’incertezza però dura lo spazio di un minuto, sono arrivata.
Prendo fiato, sistemando la parrucca e asciugandomi la fronte
imperlata di sudore. «Per aspera ad astra» sussurro mentre apro la
porta. «È permesso?» domando, timida.
Una valchiria, forse la stessa con cui ho intrattenuto il carteggio, mi
si avvicina spigliata. «Mademoiselle Benvenuti? Bienvenue!» E intanto mi
allunga il documento di riservatezza. Senza neanche leggere, siglo veloce
e glielo restituisco. «Il cellulare, prego.»
Allunga una mano, dita affusolate e all’anulare un’imponente
pantera.
Obbedisco.
«Ha con sé altri dispositivi che possano registrare, come tablet o
computer?»
«Non ho niente», riesco finalmente a parlare.
«E lì dentro?» Indica il trolley.
«Solo un cambio… e gli ingredienti per la piadina.»
«Vous avez dix minutes avec Monsieur Trumon.»
Mi invita a seguirla nella stanza adiacente, in cui è indaffarato un
intero esercito di impiegate sui tacchi a spillo. Mi sforzo di intercettare i
contenuti delle conversazioni ma il mio francese zoppica come me… e,
distratta dal via vai, finisco con l’inciampare. Nel tentativo di ritrovare
l’equilibrio mi piego di scatto e mi si squarcia la cucitura posteriore dei
leggings.
Sotto lo sguardo impaziente della segretaria, mi metto a frugare
nella valigia e ne estraggo una sciarpa che mi annodo intorno ai fianchi.
La stangona striscia il badge e una porta a vetri si apre, mentre io mi sto
ancora sistemando.
PROPOSTA COCENTE
«Dieci minuti a partire da ora!» Su quelle parole la porta di vetro si
chiude alle mie spalle. Pur negata in matematica, non mi serve la
calcolatrice per capire che ho 600 secondi a disposizione. Seicento
secondi che, scritti in lettere, sembrano ancora più lunghi. Ma mentre i
pensieri si avvolgono a spirale su questa considerazione, non mi accorgo
che venti sono già bruciati.
Non ho neppure il coraggio di alzare gli occhi. Intravedo intorno a
me pellicce e sciarpe di seta abbandonate sulle poltrone, guanti in pitone
e borse di coccodrillo. La stanza è invasa dai manichini – riconosco un
trench dell’ultima collezione Burberry’s e una splendida Kelly, becco
d’oca – e da relle appendiabiti piene di vestiti.
Se il paradiso esiste, deve essere questo. Prendo coraggio e mi
guardo intorno, in cerca delle mie Louboutin.
«Buongiorno Clorinda.»
Nove minuti e trenta secondi.
Non ho ancora aperto bocca.
Ripercorro mentalmente le frasi redatte da Irene. Opto per
qualcosa che non sia troppo confidenziale, perché un conto è scrivere e
un altro parlare. Prendo un respiro profondo dal diaframma,
sforzandomi di tenere la voce più ferma possibile, in modo che non
tradisca la mia insicurezza: «Bonjour, monsieur!».
Nove minuti.
«Puoi parlare italiano: lo capisco bene.»
Mi volta le spalle. Vedo solo una poltrona di velluto rosso affacciata
su place des Vosges.
Otto minuti.
Provo a concentrarmi sul respiro, lungo e profondo. Se solo sapesse
che ho barattato uno scatto di stipendio per incontrarlo o che ho mentito
al mio fidanzato per essere qui, cosa penserebbe?
Sette minuti e trenta secondi.
Ossigeno, questione di ossigeno.
Respira Clorinda. Inspira ed espira, senza fretta. Certo, se non
avessi uno squarcio sul fondoschiena, mi sentirei un po’ più a mio agio.
Sette minuti.
«Quale spot state girando a Parigi?»
E finalmente parla di nuovo, sempre senza guardarmi e purtroppo
ponendomi una domanda a cui non so rispondere. Le gambe iniziano a
tremare, si fanno improvvisamente molli.
Sei minuti e trenta secondi.
«Non c’è nessuna campagna. Volevo incontrarla e sarei stata
disposta a fare qualsiasi cosa.» La sincerità paga, no?
«Lo sospettavo.»
«E comunque, ci terrei a precisare che non ho mentito: piuttosto ho
omesso. D’altronde, per lei sarei disposta a tutto.»
Cinque minuti.
Un respiro più profondo.
«Tutto è un concetto relativo, Clorinda. Sai quante mail come le tue
ricevo ogni giorno?»
«Immagino…»
«Migliaia!»
«Be’, per quel che vale, io ho rinunciato a un aumento per essere
qui oggi.»
Finalmente la poltrona si gira, ma lui è controluce e il bagliore che
emana mi acceca. Mi riparo gli occhi. Così riesco ad accorgermi di alcuni
dettagli: il prezioso anello col monogramma sul mignolo, le dita lunghe,
un ascot che spunta dal taschino.
«Ne deduco che sul lavoro sei tranquilla. Che cosa temi, allora,
Clorinda?»
Ogni volta che mi chiamano per nome ho un sussulto. Lo faceva mia
madre quando stava per sgridarmi, la maestra per redarguirmi e anche
Mr Buk, per il quale sono Linda nei giorni della felicità ma torno a essere
Clorinda quando succede qualcosa.
«Be’, non saprei…»
«Prova a riflettere.»
«Ho il terrore del dentista», è la prima cosa che mi viene in mente.
«Qui, come vedi, non ci sono trapani. Ma se non sei qui per lavoro,
cosa sei venuta a fare?»
Su “Vogue” di questo mese hanno scritto che Trumon ha ricevuto in
anteprima l’ultima collezione delle mie scarpe preferite. Non c’erano
foto, naturalmente, ma su twitter lui si è lasciato sfuggire che i toni sono
quelli tenui del cipria e del beige.
«Be’, ho letto che ha ricevuto in anteprima una capsule di scarpe…»
«Ecco svelato l’arcano! Vorresti essere tra le prime a vederla?»
Non sto più nella pelle, ma tengo a bada la banshee che mi farebbe
gridare “Sììì!” con tutto il fiato che ho in gola, e mi limito a un pacato:
«Effettivamente».
Quattro minuti e trenta secondi.
«Non mi hai ancora detto, però, qual è la paura che affolla i tuoi
incubi. Coraggio, ormai siamo in confidenza…»
E in un attimo rivedo il mio incubo ricorrente: una navata piena di
fiori, le amiche che piangono, Irene che mi aspetta all’altare agitando le
braccia per farmi tornare indietro, mio padre che mi ripete: “Resta con
me!”, e l’organo che stona mentre le rose al mio passaggio avvizziscono.
Lo strascico del vestito diventa nero e Mr Buk al microfono scandisce a
voce alta: “Ci ho ripensato. È meglio se viviamo alla giornata”. Come se
non bastasse, la porta della chiesa si apre e il Grande Asfaltatore mi
lancia l’anatema finale: “Tu resterai per sempre sola”.
A questo punto mi sveglio e Mr Buk deve stringermi nel suo
abbraccio per riuscire a calmarmi.
Non gli ho raccontato il contenuto del sogno, né gli ho detto che è
sempre lo stesso.
È chiaro che è il matrimonio a spaventarmi ma gli rispondo: «Tutto
ciò che è eterno».
Tre minuti e mezzo.
«Interessante. E magari non ti piacciono i diamanti.»
«Uno basta e avanza.»
«Ma di scarpe non ce n’è mai a sufficienza, giusto?»
Annuisco convinta.
Tre minuti.
«Mai. Nemmeno una scarpiera piena da scoppiare può diminuire la
voglia di possederne un paio nuovo.»
Trumon alza la cornetta e fa una breve comunicazione in francese
che non capisco – maledetto il giorno in cui non ho scelto la facoltà di
Lingue, a quest’ora non mi arrampicherei sugli specchi!
Restiamo in silenzio ad ascoltare il ticchettio del grande orologio
sulla parete. O sono i battiti del mio cuore?
Quando la porta si apre l’algida signorina che mi ha accolto fa il suo
ingresso spingendo un carrellino coperto da un drappo amaranto.
Porto le mani alla bocca, emozionata.
«Ecco il modello che ti interessa», annuncia Trumon.
L’assistente tocca il tessuto e come un prestigiatore sta per
sollevarlo, ma si ferma.
«Trentasette, giusto?» chiede.
«Ma… come ha fatto?»
Trumon deve essere un mago.
«Sono numeri di campionario» mi spiega, «per cui se sei venuta qui
per loro o porti questo numero o puoi rientrare a Milano.»
Con un gesto plateale lei toglie il panno. Non sono cipria, ma color
avorio, il bianco da sposa.
Sospiro. «Che meraviglia!»
Il tacco delicatissimo sembra puntare verso il cielo mentre la pelle è
decorata da intarsi perlati. Sono aperte in punta e un ricamo di cristalli
disegna la tomaia di un mare in bonaccia. L’assistente prende la sinistra,
reggendola per il tacco come fosse lo stelo di un calice da degustazione, e
me la avvicina. Colgo l’inconfondibile firma all’interno, che anche a
questa distanza mi pare morbido come un guanto.
Mi porge la scarpa, per allontanarla subito.
«Saresti disposta a superare le tue paure in cambio di queste?»
chiede Trumon.
I tacchi brillano nel sole del mattino parigino, e le suole paiono
catalizzare i raggi di una giornata tiepida. I pensieri mi si affollano in
testa. Mi restano ancora due lunghissimi minuti.
«Le paure sono fatte per essere superate, soprattutto con una posta
del genere in gioco, ma dovrei prima capire di cosa si tratta.»
Un minuto e mezzo.
«Dell’eternità» ripete Trumon.
Il ticchettio dell’orologio sempre più pressante.
Un minuto.
«Non la seguo, potrebbe essere più chiaro?»
«Hai detto che ti spaventa ciò che è eterno. Quindi, ne deduco che
non sei sposata.»
«Esatto.»
«Eppure immagino che tu sia fidanzata.»
«Fino a prova contraria, sì.»
«Quello che ti chiedo», l’assistente mi fa passare sotto il naso le
décolleté come fossero tartufo d’Alba ipnotizzandomi con il profumo di
cuoio conciato, «è che tu superi le tue paure sposandoti.»
«Cosaaa?»
«Avrai un mese di tempo e, se riuscirai nell’intento, indosserai
queste scarpe il giorno del tuo matrimonio.»
«E se lui non fosse dell’idea?»
«Non scherzare: sono le donne a far credere agli uomini di aver
deciso di non volersi sposare.» Poi, con fare mellifluo, mi provoca: «Vuoi
provarle, ora?».
So che se le indosso non riuscirò più a farne a meno ma non posso
evitarlo: la calzata è perfetta. Un guanto morbido per i miei piedi.
«È un sogno» dico di slancio travolta dall’entusiasmo.
«Non te l’hanno detto che io sono un mago?»
Annuisco, mentre il cervello mi dice di scappare.
Quindici secondi.
«Attendo la partecipazione. Appena ricevuta il pacco partirà da
Parigi.»
Cinque secondi.
L’assistente mi fa un cenno. Il tempo è scaduto. Rendo la scarpa e,
scortata dal granatiere in longuette, esco dall’ufficio. Ma, quando la porta
sta per chiudersi alle mie spalle, il guru torna a parlare: «Perché ti sei
vestita così?».
«Per emulare le muse con cui si intrattiene su twitter!» esclamo.
Lui mi guarda stupito.
Evidentemente, come fabbricante di sosia Baby non è il massimo.
SUOLE ROSSE PER TE, HO INDOSSATO STASERA
Posted by Ivy, on January 17th, 2013
Care amiche,
tutte le donne sono dive. No, non sono impazzita, ne sono
fermamente convinta. A livello potenziale, ovviamente, poi spetta a
ciascuna di noi far fruttare la propria femminilità.
Ma per piacere bisogna piacersi: questa è la prima regola! E per
piacersi bisogna imparare ad appagarsi. Come, volete sapere?
Ritagliando scampoli di tempo dalle nostre vite frenetiche – che ci
vogliono contemporaneamente compagne, lavoratrici, fidanzate, mogli,
amanti e madri –, costringendoci a giornate che dovrebbero essere di
trentasei ore, invece delle canoniche ventiquattro, in cui ci servirebbero
cloni di noi stesse con lo smalto sempre a posto e la piega fresca di
parrucchiere.
Rispondo con piacere a Patrizia, neomamma che desidera tornare a
riappropriarsi della sua vita di coppia. Un tacco sistema tutto. Lascia il
bambino dai nonni e vai a provare scarpe per un pomeriggio intero.
Fior di psicologi, e perfino importanti filosofi come Elio, si sono
divertiti a scrivere sulla misteriosa attrazione che lega una donna alle
scarpe. E poi, se ci pensate, care amiche, cosa sono le banconote se non
pezzi di carta dall’immenso valore in cambio delle quali collezionare
splendide scarpe?
Scegli il paio più bello, Patrizia, e fatti trovare da tuo marito con
quello indosso. Così questa sera, quando tornerà dal lavoro, scoprirà la
diva che c’è in te. E ricorda: il tacco dona allure perché, quando lo
indossa, una donna si sente più femminile. E allora ondeggia con
movenze sensuali e fallo impazzire di desiderio. Addirittura, il mio
suggerimento è di non toglierle nemmeno sotto le lenzuola!
In bocca al lupo per stasera! E un saluto a tutte voi,
da Ivy,
dea del tacco e donna con quel quid in più.
TERZA PARTE
«La mia vita per un suo tacco!»
«Un tacco, da solo, è come un uomo: non vale nulla.»
«Facciamo due, allora, e non se ne parli più!»
CLORINDA e BABY
SUSHI, IL RITARDO!
– 29 giorni al
matrimonio
Anello di
fidanzamento: pervenuto e riciclato
Fidanzamento: non
ancora avvenuto
Budget: 4207 euro
«Mi sono dimenticato del nostro anniversario, vero?»
Le bugie hanno le gambe corte, ma spesso, per sembrare più alte,
portano tacchi vertiginosi. Questa sera io ho dato il meglio di me.
Nonostante la figuraccia parigina, ho seguito i consigli di Baby,
mediando questa volta la sua posizione estrema – mi voleva scosciata,
scollata e taccata –, e ho scelto un tubino turchese con scarpe di vernice a
contrasto.
D’altronde, la regola aurea è chiara: se l’abito è corto e il tacco è
alto, la scollatura è bandita – per scampare l’effetto “bella di notte ma da
non portare all’altare”.
«Te l’ho già detto che stasera sei splendida, Linda?»
«Almeno trenta volte.»
È tutto un déjà-vu. L’abito della nostra prima cena, Porta Venezia
annegata di luci, l’insegna al neon del ristorante, le stesse facce modaiole.
Prenotando ho specificato che volevo proprio quel tavolo accanto
all’uscita della cucina – la ragione per cui, la prima volta, avevo chiesto
uno sconto.
«Non è il tuo compleanno, giusto?» Mr Buk mi lancia occhiate
indagatrici, alla ricerca di un errore che non ha commesso.
«Ho capito: ti sei tagliata i capelli!» Il suo imbarazzo ormai è
palpabile. «Ieri erano lunghi quarantatré centimetri e adesso sono
quaranta?»
«Scherzi? Quarantadue!» Sorrido ironica, ma mi sento in colpa per
quanto sto facendo. I tacchi rispecchiano le mie bugie: più sono alti più
loro sono grosse. «Stai tranquillo, non è successo niente di grave», cerco
di rassicurarlo.
«E allora, perché tutta questa fretta di uscire? Senza cani, poi.»
Ho ancora gli occhi pesti dalla notte passata. Tornata a casa dopo il
sushi, e non riuscendo a prendere sonno, sono rimasta in salotto con
Maciste in braccio per cercare in rete una lista delle cose da fare in vista
di un matrimonio. L’elenco pareva infinito.
«Questo locale è importante per noi. Ricordi?» Alza il calice.
«Un brindisi a chi eri e a chi non sarai più.»
Lo fisso stupita.
«C’era una volta una gattina maliziosa, c’è adesso una bradipa con i
guanti di gomma e l’aspirapolvere.» Io divento paonazza, e la vicina di
tavolo allunga l’orecchio. Ma lui, imperterrito, continua. «Il tuo è stato un
furto con destrezza. Sei riuscita ad accalappiare un brillante talento
perché hai saputo leggere tra le righe.»
Come no, signore e signori: sono lieta di presentarvi il teorico del
pigiama 24 su 7.
«Il problema è che le donne non dicono la verità. Sulla carta
d’identità alla voce “professione” dovrebbero scrivere: camaleonti
trasformiste. Appena portano l’uomo a casa, tolgono le unghie finte e si
mettono in tuta.»
«Be’, se è per questo, siamo in due. E poi dovresti essere felice: è
perché mi fai star bene. Non era mai successo che qualcuno avesse
l’effetto che hai tu sulla mia insonnia.»
A porre fine a questo siparietto arriva la cameriera, blocco e matita
alla mano. «I signori desiderano?»
Sono io a parlare.
«Prendiamo una fiorentina con le patate. Bella al sangue!»
«Ma non stavi facendo una crociata contro la Dukan?» chiede Mr
Buk, sempre più stupito.
«Non potrei cambiare idea per te?» Per trascinare un nemico nella
propria rete, bisogna parlare la sua lingua.
Sgrana gli occhi.
Appena la cameriera si allontana, mi versa da bere e brindiamo. È il
momento di andare in scena: senza che lui se ne sia accorto, ho lasciato
cadere l’anello nel mio bicchiere. Ora devo solo riuscire a non mandarlo
giù insieme al vino!
«Ma questo cos’è?» domando con un sorriso di gioia incontenibile,
che neanche una seguace del metodo Stanislavskij riuscirebbe a
riprodurre.
«Boh, non è mio. Ci deve essere un errore.» Fa per richiamare la
cameriera, ma lo blocco.
«Tesoro: non dovevi!» continuo sentendomi sempre più nella parte.
Sguardo liquido, sul punto di piangere, ma senza vere lacrime.
Le crocchette roventi che ci hanno portato come antipasto
potrebbero aiutarmi. Ne faccio scivolare una per terra e fingo che mi sia
caduto il tovagliolo. Un uomo normale si chinerebbe a raccoglierlo ma
con Mr Buk sono certa di non correre questo rischio. Così, afferro quella
specie di polpetta incandescente, stringendola più che posso. Il ripieno, al
trito d’aglio, si spappola riempiendomi il palmo. Le lacrime prima
riottose sgorgano abbondanti. Quasi singhiozzo mentre,
nell’interpretazione migliore della mia vita, mi scappa uno stucchevole:
«Che modo meraviglioso hai usato per chiedermelo…».
Con la mano non imbrattata di crocchetta prendo il bicchiere: sul
fondo una luce incendia il cristallo sotto gli occhi sempre più
interrogativi di Mr Buk.
«Chiederti cosa, scusa?»
Prendi un bel respiro e ricorda: “Sguardo vitreo con venature
bovine, labbro tremante per aprirsi in un sorriso disarmante”. Le parole
di Baby riecheggiano nella mia mente: gli uomini hanno bisogno di una
spinta e Mr Buk è ormai sull’orlo del precipizio. Deve prendere il solitario
dal fondo del bicchiere e, magari mettendosi in ginocchio per
coreografare meglio il momento, infilarlo al mio anulare.
Ma come al solito, mi spiazza.
«Ma quello non è l’anello del tuo ex?»
«Ma no! Che dici? Ci assomiglia ma questo…»
«Allora, mi stai dicendo che c’è un altro?»
Se per una persona normale più indizi fanno una prova, per lui no:
duro come la pietra e inespugnabile quanto la muraglia cinese. Rimetto
l’anello in tasca mentre la cameriera posa la costata da un chilo tra me e
Mr Buk. La candela si spegne e io mi alzo, pronta ad andarmene: una
débâcle del genere non l’avevo prevista.
«Dove vai, tesoro?», e mi afferra un braccio.
«A casa! Lo sai che non mangio la carne al sangue!»
«Ma se l’hai ordinata tu!»
«Taglio?» domanda la cameriera mentre, impalata con due enormi
coltelli in mano, assiste alla scena.
«Che c’entra!» ribatto.
«E questo ben di Dio?» mi implora, gli occhi lucidi dalla
commozione. Mi convinco che abbia capito, che voglia fermarmi per
dirmi: “Hai visto come ti ho preso in giro? Sei proprio una boccalona!”.
Così tento di assumere nuovamente il labbro tremulo e l’occhio bovino,
lui mi prende la mano e finalmente parla.
«Linda…»
Ma allora Dio esiste! Se mi chiama così vuol dire che ha capito
davvero e rispondo alla sua stretta.
«Due cose: non c’è un altro vero?»
Scuoto la testa: l’unico di cui può essere geloso ha ricevuto giusto
ieri un caffè bollente sulla camicia. Mr Buk, improvvisamente rilassato,
torna a sorridere, lascia la presa e allora sono io a domandare: «E la
seconda?».
Avvicina una mano alla bocca, come dovesse confidare un segreto.
In realtà non me l’ero immaginato così, bensì una scena più plateale.
Anche se ammetto che in una trattoria toscana il kit del perfetto principe
azzurro è difficile da reperire e, con il disastro che ho fatto per terra con
la crocchetta, inginocchiarsi vorrebbe dire buttar via i pantaloni.
Lui mi guarda, poi fissa la borsetta: «Anche se te ne vai, mi
lasceresti la carta di credito? Sono uscito senza contanti».
E io mi sento peggio di quella fetta di carne grandguignolesca.
TACCHI(NARE) ALLO SPECCHIO
Posted by Ivy, on January 19th, 2013
Specchio, specchio delle mie brame, qual è il tacco più bello del
reame?
Ognuna di voi, amiche mie, risponderà diversamente, però, mentre
camminate per strada o siete in un locale, guardate in basso e osservate
le scarpe che avete intorno. Noterete come riflettono l’umore delle donne
meglio degli specchi.
Se scelgono le flat, oltre al desiderio di stare comode, non hanno
mire di conquista. Se, invece, optano per la zeppa è perché
probabilmente dovranno camminare, ma non rinunciano ad ammiccare.
Il tacco alto è per chi o ha un cavaliere verso cui scoccare una freccia o
chi quel cavaliere vorrebbe conquistarlo.
E vengo al consiglio del giorno. Mi scrive Alessandra, titubante sulle
scarpe da indossare per convincere il suo amato a chiederle di sposarla
(ma ne sei sicura?). Perché, ricordate, è la donna a decidere, ma all’uomo
bisogna lasciare l’impressione di essere l’artefice della rivoluzionaria
idea.
Quindi, ammainate le vele dell’orgoglio, smorzate gli spigoli – quelli
che vi fanno borbottare come una vaporiera: “Io non sto zitta se ho torto.
Figurati se ho ragione!” –, mettete i tappi alle orecchie del vostro amor
proprio e partite per portare a casa l’obiettivo, ovvero, nel caso di
Alessandra, l’incontro con i potenziali suoceri (ripeto, ne sei proprio
sicura?).
Dopo il colpo della strega, a livello di stress, viene il tacco della
suocera.
Siccome l’incertezza fa più danni di un iceberg sulla rotta di un
transatlantico, raccomando sorriso e motivazione perché il sogno si
trasformi in realtà. Può funzionare rivivere le sensazioni della prima
volta, che fosse una cenetta a lume di candela o una pizza al taglio poco
importa.
Fondamentale è che lui abbia l’impressione di essere salito sulla
macchina del tempo: indossa le scarpe che ti fanno sentire bella e poi
introduci il discorso, lasciando sempre finire a lui le frasi: «Ormai è un
anno, sai…» (tu), «… che stiamo insieme» (lui) e così via fino al «Vuoi
sposarmi?» (sempre lui).
E ricorda: con il tacco giusto, e le parole opportune, si va ovunque.
Un abbraccio da Ivy,
dea del tacco e donna con quel quid in più.
PRONTA AL PIANO B
– 28 giorni al
matrimonio
Anello di
fidanzamento: riciclato ma pervenuto
Budget
rimasto: 4127 euro (causa conto imprevisto per cena toscana)
«Quindi com’è andata?»
«Hai una domanda di riserva?» Irene si sistema il ciuffo
specchiandosi nella finestra della chat. Sono l’unica copy della Metello &
Partners che ha Skype sul computer dell’ufficio. Nonostante i divieti
aziendali, infatti, sono riuscita a farmi installare applicazioni altrimenti
bandite – come Photoshop, per ritoccare le foto delle vacanze – da un
romantico nerd dell’assistenza tecnica che mi fa il filo.
«Mr Buk è un caso complesso…» sentenzia Irene.
«Sì, e io mi ritrovo con ottanta euro in meno sul conto.»
«Non ha offerto lui?»
«Ti dico solo che è uscito senza contanti, e non possedendo una
carta di credito…»
«Vivi con l’uomo di Neanderthal e te lo vuoi pure sposare! Chi ti
capisce è bravo.»
«Dettagli. Te lo ricordi l’obiettivo, vero?»
Quel paio di scarpe stava rivoluzionando le mie certezze,
trasformando una creativa in carriera in una ragazza in cerca del sogno.
E se fossi meno cinica di quanto pensavo di essere?
«Certo, le scarpe più belle del mondo. Ti aiuto solo per questo. Il
fine giustifica il tacco, no?»
«Così sembra…»
«Comunque, stamattina quando il tuo bello è venuto a recuperare i
quadrupedi ho avuto il sospetto che qualcosa fosse andato storto.»
«Ti ha raccontato quello che è successo?»
«No, no, però mi ha chiesto se hai un altro. Poi, dopo averlo
rassicurato dicendogli che sei troppo imbranata per il multitasking, ha
caricato i cani sul pullmino e se n’è andato. Non ti dico quanto sono stata
tentata di inventarmi che hai un uomo meraviglioso che ti corteggia…»
«Ma allora sei stronza vera!»
«O amica al cento per cento. Quando gli uomini fanno orecchie da
mercante è perché ci stanno dando per scontate, e per farli smettere
basta dar loro l’impressione che gli stiamo sfuggendo di mano.»
«Mah, se lo dici tu.»
«In amore vince chi fugge. In fondo, anche col guru è andata così.»
«Un caso.»
«Esistono parametri oggettivi. Se il diamante deve essere luminoso,
un compagno deve essere coinvolto.»
«Ma adesso cosa dovrei fare, secondo te, Ire?»
«Metterlo alle strette. Facciamogli credere che qualcuno stia
facendo breccia nel tuo cuore. Non hai detto che c’è un tizio in azienda
che ti ronza intorno?»
«Come un’ape sul miele!»
«O una mosca sulla…»
«Ireneee!»
«Inventati che porti i vitelli a pascolare in via Morgagni e invece
fatti trovare seduta su una panchina ai giardini di via Palestro con il
moscone. Io porterò lì con l’inganno Mr Buk, e casualmente avrò il
diamante in tasca.»
«E come pensi di convincerlo a venire con te?»
«Con una bugia a metà.»
Sono perplessa.
«Voglio presentargli un amico che sta cercando un animatore per
organizzare eventi nel suo nuovo locale in Brera…»
«Da quando sei così altruista?»
«Da quando la beneficenza è un domino. Oggi a te, domani a me.»
«Eh?»
«Faccio un favore al titolare, tra l’altro un gran pezzo di titolare, che
mi ha chiesto se conosco qualcuno di competente nell’intrattenimento,
così ho pensato a Mr Buk. Lui legge poesie, no?»
«Hai capito il genio del male! Unisci l’utile al dilettevole e magari
accalappi il gran pezzo di titolare.»
«Vedo che mi segui.»
«Ma Mr Buk non ha esperienze come animatore!»
«Ma se passa il tempo a organizzare reading. Vedrai che messi
insieme, quei due qualcosa tireranno fuori dal cappello. Tutto chiaro per
oggi?»
«Già oggi?»
Irene sospira sonoramente.
«Tesoro, mancano ventotto giorni all’ora X e tu non sei ancora
riuscita a farti chiedere in moglie. Bisogna inserire il turbo, anche perché
nemmeno ti immagini le cose che ancora ci aspettano.»
«E se l’informatico non accetta?»
«Scommettiamo che non vede l’ora? Fatti trovare alla
panchinandavanti alla statua di Montanelli, all’incrocio con via Manzoni,
puntuale alle 18.10.»
«Va bene, capo.»
«Ci vediamo dopo. Tacco e chiudo!»
IN GINOCCHIO DA TE!
Secondo
tentativo di richiesta/proposta di matrimonio
Anello di
fidanzamento: ancora in mio possesso
Budget: 4027
euro
«Non mi aspettavo mi chiedessi di uscire con te.»
Le pessime idee di Irene.
Sebbene quella davvero pessima sono io. Prima do retta a un amico
che mi trasforma nella brutta copia di Lady Gaga e poi a una sorella
mancata che si crede la reincarnazione del Dottor Stranamore.
Terminata la chat, ho chiamato il nerd che, professionale, ha
risposto: «Come ti posso aiutare, questa volta? Serve un aggiornamento
di Skype o una nuova app sullo smartphone?».
Quando gli ho proposto di accompagnarmi a fare una passeggiata
con i cani, ho sentito un tonfo.
«Tutto bene?»
«Sì, passo a prenderti subito.»
«No, stasera alle 18.00.»
«Ah, ma ce la fanno a tenere fino alle 18.00?»
«Sì, certo, prima li porta il mio fidanzato.»
«Ah, perché sei fidanzata?»
«Ehm, sì, ma siamo una coppia moderna.»
«Allora, potresti cambiare idea.»
«No, ti ripeto: siamo una coppia moderna.»
Quali spiragli, passaggi nascosti o cassetti con doppi fondi possa
aver aperto la storia della coppia aperta, lo sa solo lui che, mosso
probabilmente dal sottile terrore della mia volubilità, inizia a mandarmi
una mail ogni mezz’ora. Spero solo che questa uscita non diventi già da
domani l’argomento di conversazione dei colleghi alla macchinetta del
caffè.
Gli ho detto di essere puntuale e così è stato. Ha addirittura pulito
l’auto: una Punto con gli interni grigio perla, che Bobby Marley trasforma
immediatamente in un cupo antracite.
«Scusa, adesso lo spengo.»
Tenevo il cellulare in mano, saldo tra le dita come i grani di un
rosario.
Il tragitto da casa alla panchina dell’appuntamento con Irene è
estremamente imbarazzante. Bobby che, pur avendo la stazza di un
vitello, ha la vescica piccola, guaisce senza requie. Io sono nervosa per il
ritardo, e il nerd mi sgancia da sola con i cani arrivando trafelato dieci
minuti dopo, quando ormai manca una manciata di secondi all’arrivo di
Mr Buk.
Fai il giro lungo. Siamo in ritardo.
Non so che cosa si sia inventata, ma Irene è riuscita prendere
tempo per permettere al nerd di cingermi le spalle con un braccio e farmi
avvicinare pericolosamente alle sue labbra.
In lontananza sento finalmente la voce di Irene che urla, come
un’attrice tragica: «Non guardare, per carità!». Faccio finta di niente e mi
stringo ancora di più al nerd, con il pretesto di avere freddo. Lui tenta di
baciarmi mentre i passi sul ghiaino si fanno veloci e concitati. Il mio
cavaliere viene afferrato per il bavero della giacca da Mr Buk e tirato in
piedi.
«Ma come ti permetti? Lei è la mia fidanzata.»
Il povero informatico balbetta: «Ma-ma-ma io avevo capito che
eravate una coppia moderna!».
«Che cosaaa?»
E Mr Buk, il placido Mr Buk, colui che non farebbe male a una
mosca perché tutti hanno diritto di esistere su questa Terra, gli sferra un
gancio che fa fare un triplo carpiato ai suoi occhialetti. Fulmino con lo
sguardo Irene che fa spallucce, come a dire “Non era prevedibile un
epilogo del genere. Non è mica colpa mia”.
Invece, la colpa è sua.
Mi avvicino a lei che, non sapendo cosa fare, si fruga in tasca e mi
porge l’anello: «Vuoi fidanzarti con me?» ironizza. Ma io non ho voglia di
ridere.
«Adesso spieghi tutto a tutti» dico rivolta a Irene.
I cani si mettono a ringhiare.
Bobby Marley butta le zampe sulle spalle di Irene e quel
meraviglioso anello, conquistato con la spremitura dei miei neuroni, vola
via.
Lo inseguo e sto per raccoglierlo da terra, quando Maciste lo spinge
con la zampina dentro un tombino.
«Noooooooooo!» urlo con tutto il fiato che ho in gola. Cerco di
infilare una mano ma a stento passa un dito. Gli altri sembrano
finalmente chetati.
Mr Buk indaga: «Qualcuno mi spiega cosa sta succedendo?».
E allora lo sceneggiatore di questa pantomima si mette a parlare.
«Sono stata io», sospira Irene. «Ma l’ho fatto a fin di bene: sono due
giorni che Clorinda sta cercando di dirti che vorrebbe diventare tua
moglie.»
Un velo di imbarazzo cala su di noi.
«Sì, come no?» Mr Buk si riprende in fretta. «E nel frattempo se la
spassa con uno statale con gli occhialini.» Da ex impiegato delle Poste,
per Mr Buk quello è il peggior insulto. «Tra l’altro mi scusi» rivolto al
nerd ancora a terra «non sono solito colpire i non vedenti ma fosse stato
al posto mio avrebbe fatto lo stesso, vero?»
Il ragazzo terrorizzato annuisce.
Probabilmente gli darebbe ragione anche se gli stesse offrendo una
spremuta di lassativo. Infatti, quando Mr Buk gli allunga la mano per
aiutarlo ad alzarsi, si ritrae spaventato.
«Vi ricordo che un anello da cinquemila euro è finito dentro questo
tombino.»
L’unico interessato sembra essere Maciste, che allunga la zampetta
oltre la grata. «Senti qualcosa?» gli chiedo.
«Adesso credi che un cane ti risponda?» indaga Irene.
Mi rialzo in piedi. «Tu e i tuoi piani B. Adesso sono senza fidanzato
e senza anello.»
«E senza aiuti informatici.» Il nerd si sistema la giacca, spazzolando
via la polvere. «Facciamo così: non cercarmi più» conclude.
«E se ho problemi con il computer?»
«Chiedi aiuto al tuo fidanzato. Tanto», e mi scimmiotta usando il
tono da gatta morta che ho usato io al mattino, «voi siete una coppia
aperta.»
Posso solo guardarlo allontanarsi.
«Qualcuno di voi gentilmente mi aiuterebbe?»
«Ma a far cosa?» domanda Mr Buk. «Io ero uscito con Irene perché
doveva presentarmi un suo amico che ha un locale a Brera.» Poi si ferma,
come se all’improvviso avesse scoperto il filo della nostra trama. «Mi
avete messo in mezzo voi due, vecchie stronze!» grida.
«Non siamo vecchie!» rettifica Irene.
«Me e quel poveraccio che non c’entrava nulla e che si è preso un
pugno senza avere la benché minima colpa!»
«Detta così sembra peggiore di quel che è. Il proprietario del locale
esiste e ci sta aspettando», tenta di calmarlo Irene.
«Pazze. Siete due pazze. Non c’è nessun altro, quindi?»
Scuoto la testa. «Io amo solo te.»
Ma lui se ne va. Con i cani che gli trotterellano dietro. Mentre il mio
anello, in viaggio nelle fognature, sarà già diventato il pegno d’amore di
una pantegana ladra del Lambro.
VIENI VIA CON ME
– 27 giorni al matrimonio
Ancora sfidanzata (ormai ho una S scarlatta
tatuata sulla fronte, che non sta per Single, ma per Sfortuna)
Anello di fidanzamento: perduto nei giardini di
Palestro, sotto gli occhi attoniti della statua di Indro Montanelli
– 25 giorni al matrimonio
(rientrati alla base fidanzati)
1 anello di fidanzamento
perduto, 1 anello di fidanzamento ereditato
Budget: inalterato (le due
notti nelle Langhe le ha offerte Mr Buk)
La vostra Ivy,
dea del tacco e donna con quel quid in più
PARENTI TAGLIENTI
Chi l’ha detto che per sedurre serve necessariamente il tacco alto?
Opsss, non ditemi che sono stata io! Be’, care amiche, errare è umano.
Forse, senza accorgermene, l’avrò detto un paio di volte. Ah, è da almeno
sedici post che lo scrivo? Allora, tengo a precisare che la coerenza, pur
essendo femminile sul dizionario, non è sinonimo di femmina. Quindi,
cosa volete da me? Dei consigli!
E, a tal riguardo, sono lieta di rispondere oggi a Cristina che,
maschiaccio impenitente, invece di sgambettare sul dodici alterna biker a
sneaker. Che sembra un giro di parole ed è, invece, una competizione tra
stringhe e borchie. E mi chiede se esiste un modo per “femminilizzare”
un look da harleysta, lei che adora la sua 883 più del suo fidanzato.
Cristina cara, ti voglio dare una bella notizia: sono anni che il biker
è stato sdoganato sulle passerelle, e anche l’indiscusso maestro Jimmy
Choo l’ha inserito nelle sue collezioni. Non solo: il biker può
accompagnare leggins o mini vertiginose.
Permette insomma di osare, mostrando le gambe (sempre che,
avviso alle naviganti, siano uno spettacolo degno di essere guardato: non
tutti gradiscono due cotechini inguainati in una rete se non è
Capodanno), ed è incredibilmente pratico per correre in città.
Dunque, Cristina, non temere se il tacco non fa per te, di alternative
ce ne sono in abbondanza. Sdrammatizza con delle T-shirt lunghe oppure
con maglioni morbidi. Ma se vorrai stupirlo, opta per un miniabito.
Completa il look con una borsetta e un giubbottino in pelle. Il
motore del suo cuore andrà su di giri e lui ti dirà la frase più romantica
del suo repertorio: sei come la mia moto!
A presto, ragazze, da Ivy,
dea del tacco e donna con quel quid in più
CONGEDATA DI NOZZE
– 23 giorni al matrimonio
– 21 giorni al matrimonio
Budget a disposizione: 2700 euro (– 30 euro per il primo
regalo di nozze: un gasatore dotato di tutti gli accessori per
addizionare al meglio l’acqua del rubinetto)
Fedi: work in progress
Ansia: alle stelle!
«Aggiornamenti?»
Mentire è la prima regola – «Sto lavorando per portare al cliente
alcune proposte di slogan» –, da usare con una determinata tipologia di
responsabili sul luogo di lavoro.
Leader Minimo questa mattina ha esagerato con il dopobarba. Una
nuvoletta di gas nervino gli aleggia intorno. Dire che ricorda il repellente
per le zanzare sarebbe un eufemismo, perché in quel caso saprebbe di
citronella e non di sarcofago ammuffito. Mi sforzo di respirare il meno
possibile.
«Benissimo, ricordati che prima voglio leggerle io.»
«Ovviamente.»
«Perché non respiri?»
«Sto cercando di farmi passare il singhiozzo.»
Lui scuote la testa, ma appena esce mi precipito alla finestra e la
apro. Meglio una boccata di smog dell’hinterland milanese che quel
fetore.
In realtà, non ho un’idea per la campagna e dubito che mi verrà in
giornata. Il tour de force degli ultimi giorni comincia a farsi sentire. In
più, nessuna notizia da Parigi. Se non fossi certa che Bernard de Trumon
è un signore, penserei di essere vittima di uno scherzo ma, in cuor mio,
so che non è così.
Purtroppo, la mia testa è in Comune con Mr Buk, alle prese con le
pratiche burocratiche. Mi terrorizza saperlo da solo in quei corridoi
statali che, se al posto dei marmi esagonali sul pavimento avessero della
moquette stampata optical, sembrerebbero quelli dell’Overlook Hotel.
Compongo il numero. Mr Buk risponde al primo squillo.
«Linda», in sottofondo un ringhio di Bobby Marley, «non puoi
capire che mattinata è stata: la fiera degli equivoci. Una cosa da non
credere!»
Solo che con lui anche i fenomeni paranormali diventano realtà, e a
occhi chiusi mi catapulto in un altro mondo. Quello delle sue parole.
«Salve, sono qui per la mia compagna.»
Il messo comunale nel suo completo antracite allunga la mano a
stringere il braccio di Mr Buk.
«Oh, mi dispiace.»
«Be’, non si preoccupi, prima o poi doveva accadere.»
«Sempre meglio poi che prima…»
«Dipende, guardi. Alla fine era diventato uno stillicidio.»
«Brutto periodo, eh?»
«Non me ne parli. Peccato che io non volessi capire.»
«Spesso, davanti a certe evidenze, si preferisce far finta di non
vedere. È normale, sa: potrei raccontarle un’ampia casistica a riguardo.»
Mr Buk lo osserva. Stempiato, di mezza età, la camicia dal colletto
liso chiusa da una lunga cravatta nera col nodo sghembo. Vorrebbe
dirglielo. Fare qualcosa. “Scusi, non vorrei sembrare invadente, ma il
nodo è storto.” Basterebbe un buffetto, un colpo assestato bene, ma lui
non sarebbe capace di raddrizzargliela. Mr Buk è una frana: la cravatta
non l’ha mai messa in vita sua. Dovrebbe cominciare ad allenarsi in vista
del matrimonio, magari con un tutorial su YouTube, ché tanto lì si trova
tutto. La voce del messo lo riporta alla realtà: «Come è successo? Era
pronto alla notizia?».
«Macché, tutto all’improvviso. Nemmeno un mese. Non mi sono
ancora abituato all’idea.»
Mr Buk nota un pacco di fazzoletti sulla scrivania e quello glielo
allunga.
«Se vuol favorire. Fa bene sfogarsi e non tenere tutto dentro. Sa, a
me è successo due volte.»
«Per me è la prima. Ma voglio vederla positivamente: in fondo ogni
fine è un nuovo inizio, no?»
«Be’, com’è ottimista. È forse induista?»
«No, interista!»
«Comunque, è un uomo veramente forte a presentarsi di persona.
Perché sa, di solito vengono quelli dell’agenzia.»
«Guardi, purtroppo la situazione economica non è facile nella
nostra famiglia. Vede, la crisi…»
«Lo confermo: lei è proprio forte e coraggioso.»
«La ringrazio, per certe cose poi non baderò a spese. Per lei dovrà
essere un giorno indimenticabile, perché succede una volta nella vita.»
«Assolutamente, è l’unica certezza che abbiamo. Bene, signor
Bergonzoni, se mi vuol dire il nome procediamo con la documentazione.»
Si mette al terminale a digitare. «La signora si chiamava..?»
Mr Buk ha un sussulto.
«Scusi? Voleva dire “si chiama”…»
«No, parlo della defunta. Suppongo si tratti di sua moglie.»
Mr Buk, pallido in volto, si alza di scatto. Ecco perché ad attendere
erano tutti anziani. Visi smunti, scolpiti dalle rughe e gonfi di lacrime. E
nessuno che scambiasse un sorriso o che volesse fare una carezza ai cani.
Lui, come promesso, è andato al comune di Milano. Peccato che,
invece che all’ufficio matrimoni, si sia messo in coda allo sportello dei
decessi.
«Hai capito, Linda? Era per quel motivo che la sala d’aspetto pareva
un mortorio!» Bobby Marley guaisce sullo sfondo. «Zitto!»
«Ottimo, direi che il nostro matrimonio nasce sotto una buona
stella. Ma che cos’ha il cane, che continua a mugolare?»
«Probabilmente un’urgenza. Solo che non lascio la coda nemmeno
sotto tortura. Di là, con i cari estinti, si faceva in fretta, qua, invece,
sembra che tutti vogliano sposarsi. Mancan ancora cinque persone. Mi
odierà, ma d’altronde è un ragazzino e io alla sua età…», gli dà una pacca
sulla collottola, «resistevo per ore.»
Purtroppo, l’unica coda che va d’accordo con i quadrupedi è quella
in fondo alla loro schiena e mezz’ora dopo, quando richiamo, ricevo la
conferma di ciò che paventavo.
«Allora, tesoro, come va?»
«Stiamo uscendo.»
«Be’, avete fatto in fretta alla fine.»
«Causa di forza maggiore. Bobby Marley ha trasformato in un lago
la sala d’aspetto.»
«Oh mio dio. E quindi con i documenti non sei riuscito a concludere
niente?»
«Sbagli, Linda. Una coppia mi ha ceduto il posto, solo che ti eri
scordata di farmi la delega.»
«Mica me l’avevi detto.»
«Secondo te lo sapevo? Anche per me questo è il primo matrimonio.
Comunque, ce l’ho fatta!»
«Sentiamo, chi hai mosso a pietà questa volta?»
«La signorina del comune si è innamorata di Bobby Marley, ha
chiuso un occhio e io ho falsificato la tua firma.»
«Quindi siamo a posto?»
«Assolutamente sì. Le pubblicazioni saranno affisse da domani e
rimarranno esposte per una settimana, dopodiché, dal quarto giorno,
potremo sposarci. Vedi? Facilissimo!»
«Detta così sembra quasi una passeggiata di salute: peccato che non
sappiamo ancora chi officerà il rito, né dove faremo il rinfresco.»
«Linda, andrà tutto bene! C’è tempo, sai quante cose possono
accadere in ventun giorni? E poi, ricordati cosa ti ha detto mia madre: ci
sposeremo sotto una buona stella, e lei è una sensitiva potentissima.»
Io non sono così convinta, ma evito di dirglielo. La mamma è pur
sempre la mamma. E Carla è, di certo, la suocera ideale ma Saturno, con
tutti quei cerchi, mi fa pensare al mal di testa e, perciò, non potrà portare
nulla di buono.
SE TELEFONANDO
La segreteria contiene tre messaggi non ascoltati.
Primo messaggio.
“Piccola, tu e il tuo vizio di non farti trovare. Colpa di queste
diavolerie tecnologiche. Quanto tempo ho a disposizione? Trenta
secondi, un minuto, due? Ma ti pare che devo avere un timer per poter
parlare con mia figlia? A proposito, gioietta, non hai ancora detto a me e
papà dove si terrà la cerimonia. Non vorrei che te la fossi presa per l’altro
giorno. Lo sai che sei sempre la nostra bambina e che per te desideriamo
il meglio, ma avrei bisogno di saperlo per tempo. Anche se tu lo frequenti
di rado, ti garantisco che è complicato trovare un parrucchiere che ti
faccia una bella acconciatura. A proposito: cambia tonalità di biondo,
quello che hai ora ti indurisce i lineamenti. E, almeno quel giorno, dovrai
essere uno splendore. E l’abito? Lo sai che fa la sposa!”
Fine del messaggio.
Per riascoltare premere due. Per cancellare premere cancelletto.
Secondo messaggio.
“Amooreeee, sono Baby. Chiamami quando senti questo messaggio,
ho trovato delle piume che sulla gonna di taffettà sono una delizia.
Ricordi la mise di Carrie nel giorno del grande sì? Ecco, ancora meglio!”
Fine del messaggio.
Per riascoltare premere due. Per cancellare premere cancelletto.
Terzo messaggio.
“Saccheggiatrice di armadi, volevo sapere se avevi già fatto la prova
abito, perché mi è venuta un’idea su come sollevare le balze senza dover
intervenire con il bisturi. L’importante è che tu non l’abbia dato a Baby.
Non l’hai fatto, vero? Ricorda che la meringa di tulle vale più della nostra
amicizia. Be’, forse è eccessivo. Comunque, guai a te se lo tocchi. Ciao
zecca!”
Fine del messaggio.
Per riascoltare premere due. Per cancellare premere cancelletto.
CHEZ BAUKOWSKI!
– 20 giorni al matrimonio
Budget a disposizione: 2500 euro
Calorie ingerite: incalcolabili (tra cui una teglia di parmigiana
intera e una stecca di cioccolato ripieno da duecento grammi)
Sigarette fumate: ho ripreso un vizio che non ho mai avuto,
dieci slim (mi hanno detto che valgono la metà)
– 17 giorni al matrimonio
La sala riunioni della Metello & Partners incute timore. E non è la
parete di specchi o la voragine che si apre come un abisso oltre le enormi
finestre a suscitare diffidenza in chi entra, bensì la consapevolezza di ciò
che vi accade.
La segretaria, che magari dimentica di far firmare la nota spese di
un collaboratore ma non manca mai l’appuntamento dal parrucchiere,
sfoggia un paio di pump che vale quanto uno stipendio del suddetto
collaboratore.
Mi annuncia svogliata, la voce nasale e il trucco ritoccato dopo la
pausa pranzo. Dentro ci sono già tutti: il gotha dell’azienda. Una distesa
di cravatte di Hermès e modaiole calze a righe che sbucano dalle Oxford
sono il solo dettaglio eccentrico di questi creativi in giacche scure e
pantaloni attillati. L’art director è l’unico che può permettersi All Star
rosse e jeans slabbrati. Il responsabile del commerciale, quello
dell’ufficio stampa, sono tutti in attesa di conoscere il pay off della nuova
campagna NaviTiAmo. E c’è ovviamente anche il cliente: il dottor De
Filippo, l’amministratore delegato, venuto apposta da Savona.
Prendo una bottiglietta d’acqua frizzante e ne bevo un sorso. Ho la
gola secca. Batto sul microfono e mi alzo in piedi anche se rischio che le
gambe mi cedano. Poche frasi per ottenere il permesso matrimoniale.
«Buongiorno a tutti.»
La vicenda capitata nella suite di Isotta è stata davvero illuminante.
La massa scura sulla moquette mi ha ricordato infatti la reazione dell’olio
sull’acqua. Invito il tecnico a far partire il filmato.
Il gigante d’acciaio compare sulla parete di fronte, la ripresa è
dall’alto e si vedono la piscina olimpionica e le vasche termali. E poi,
sempre a volo d’angelo, la telecamera si avvicina al terrazzino di una
suite dove Isotta, le gambe allungate sulla chaise longue, cappello di
paglia a tesa larga e bikini a pois da pin-up degli anni Cinquanta, guarda
in camera e, dopo aver aspirato dalla cannuccia un po’ del cocktail
colorato che ha in mano, finalmente parla: «Per viaggiare lisci come l’olio,
NaviTiAmo. E il naufragar sarà dolce in questo mare». Il logo della
compagnia chiude il promo.
Durata complessiva venti secondi, dal primo fotogramma all’ultimo,
l’ideale per uno spot commerciale.
Nessuno applaude, però. Nemmeno un sorriso. Leader Minimo tace,
gli occhi fissi su De Filippo. Bevo un altro sorso d’acqua. A questo punto
l’arsura si sta trasformando nel primo passo verso la disidratazione. Il
dottor De Filippo si alza in piedi. Accenna un applauso e tutti lo seguono
a ruota.
Perfino il mio capo – che, seduto accanto a me, mi dà anche una
pacca sulla spalla, come a dire: “Lei è una mia creatura”.
Quando varco la porta di casa, brandendo il foglio del congedo
matrimoniale, Mr Buk mi accoglie con un grembiule da massaia. Nell’aria
profumo di pomodoro e basilico.
«Ce l’abbiamo fatta! Si parte!»
Mi solleva come fossi una piuma: «Lo sapevo, Linda. Te l’ho mai
detto che la mia quasi moglie è un geniaccio?».
«Mmm… non abbastanza.»
Mi prende per mano accompagnandomi in cucina, i cani felici dietro
di noi. «Tesoro, ho preparato la cena per festeggiare.»
Un mozzicone di candela su due tovagliette all’americana e il
microonde che tintinna. Nessuna pentola sui fornelli, ma un’intera
batteria incrostata nel lavandino.
«Da quant’è che non fai i piatti?»
«Un po’… a stare con una creativa lo sono diventato anch’io!»
«E la cena dove sarebbe?»
«Eccola.» Tira fuori dal forno una tazza e me la porge. «Occhio che
scotta.»
Guardo dentro. Una groviglio rosso annodato. Annuso. Profuma di
pomodoro e basilico.
«Ma perché gli spaghetti sono nella tazza della colazione?»
Indica la torre di Pisa di stoviglie.
«Cause di forza maggiore.»
Cara Clorinda,
ho perso le tue tracce. Sono passati dieci giorni, eppure non ho ancora
ricevuto alcuna partecipazione. Non dirmi che ci hai ripensato… ti facevo
più temeraria! Le scarpe sono pronte per partire. Ho personalizzato la
suola, inserendo la data del tuo matrimonio.
Sempre che sia confermato.
A proposito: lui come l’ha presa?
Bernard de Trumon
P.S. La piadina era veramente ottima!
CORRI CLORINDA, CORRI
– 4 giorni al matrimonio
250 euro per le partecipazioni (tra carta, stampa e francobolli)
800 euro (location BAUkowski, catering per cento persone +
pet)
300 euro (torta nuziale a forma di cane, creata da un cake
designer)
500 euro (donazione a un canile con i soldi predestinati ai
fiori)
500 euro (abito Mr Buk)
0 euro (trucco e parrucco fornito dalla produzione di “Sposami
subito”)
0 euro (noleggio auto: useremo il pullmino storico)
Budget rimanente: 214 euro
– 3 giorni al matrimonio
«Questa volta mi dici davvero chi diavolo è Bernard de Trumon? O
preferisci che lo chiami il genio della moda? O piuttosto, ancora, il guru
degli abbinamenti?»
Mr Buk mi attende sulla porta, braccia incrociate e ruga nervosa tra
le sopracciglia. Anche Maciste e Bobby Marley mi aspettano, ma nessuno
dei due scodinzola. Orecchie basse e aria seria che non preannuncia nulla
di buono.
«Allora, vuoi parlare?»
Capisco cosa è successo abbassando lo sguardo. Mr Buk ha in mano
la cartellina rosa in cui conservo il carteggio con il guru. Regola n. 1: se
vuoi compiere il delitto perfetto, non lasciare indizi sulla tua strada. Ma
questa storia era troppo incredibile per non conservarne le prove. E se
fosse successo qualcosa alla mia casella di posta elettronica o al mio pc
avrei perso tutto.
Regola n. 2: se proprio devi lasciare tracce, evita di portarle a casa.
Ci avevo riflettuto a lungo ma mi ero immaginata la faccia del mio capo
che leggeva la storia e la conseguente lettera di licenziamento una
mattina sulla scrivania. Così, avevo optato per il luogo più sicuro che
conoscevo: casa mia. Dietro un mobile in corridoio, che non spostavo
nemmeno per passare l’aspirapolvere, tanto era pesante.
«Ma come hai fatto?» domando con voce tremante.
«È stato Maciste ad aprirmi gli occhi.» Il cane, sentendosi in colpa, si
fa ancora più piccolo, diventando una palla di pelo lucido. «Gli avevo dato
un premio al ritorno dalla passeggiata e il biscotto è finito dietro il
mobile e così, per recuperarglielo, ho trovato questo!»
Mi sventola la cartellina davanti alla faccia. Ha un’espressione
tirata, nervosa.
«E pensare che ero così contento di averti incontrato. Sono arrivato
a fare per te quello che non mi ero nemmeno sognato di fare per altre:
dichiararmi davanti a tutti al BAUkowski.»
Non avevo mai ricevuto, in vita mia, una dedica così romantica. La
voce poi si era sparsa nel palazzo, e l’intero condominio era venuto a
chiedermi dove stessimo facendo la lista nozze. Ettore e Ignes ci avevano
regalato una statua alta un metro raffigurante un inquietante dio
antropomorfo che, sistemato all’ingresso, impediva al male di entrare.
Ivanna, oltre a offrirsi di badare ai cani durante il nostro viaggio di nozze,
mi aveva regalato una copia del libro Il principe azzurro è
(diversamente) etero.
Valentina, direttore commerciale di Give Me Who che era al nostro
aperiBAU, mi aveva omaggiato di tre paia di scarpe della loro nuova
collezione – un paio di décolleté kitten heel, una pump da quattordici
centimetri e delle praticissime zeppe. La signora Innominata mi aveva
regalato un completino per la prima notte di nozze – pizzi da boudoir e
trasparenze adatte a un pubblico adulto. Baby ci aveva regalato
l’adattamento degli abiti, e Irene aveva firmato una carta in cui garantiva
che non avrebbe avuto reazioni inconsulte vedendo il suo abito
completamente trasfigurato.
Tutti i pacchetti, opportunamente richiusi per scaramanzia,
giacevano all’ingresso, aspettando di venire nuovamente scartati da me e
Mr Buk, finalmente sposi.
«Senti, posso spiegarti.»
«Clorinda, non c’è niente da aggiungere. Mi hai deluso: ma come ti è
passato per la testa di barattare la nostra storia per un paio di scarpe? E
io che mi illudevo che avessi imparato ad amarmi. E io che credevo che tu
volessi davvero questo matrimonio.»
«Ma lo desidero più di ogni altra cosa al mondo!» rispondo con le
lacrime agli occhi. Se anch’io avessi la coda, adesso sarebbe nascosta tra
le zampe. «Io ti amo» sussurro con un filo di voce. Ed è vero. «Sei tu
quello con cui voglio invecchiare» e ripeto la frase che ho sentito tante
volte nelle commedie americane che nelle sere di solitudine mi
inchiodavano al televisore, «nella gioia e nel dolore, nella salute e nella
malattia…»
Ma lui mi interrompe con un gesto della mano. Afferra un borsone
blu e recupera collari e pettorine.
«Ho chiesto che mettessero, come sottofondo musicale, quella
canzone perché veramente ci tenevo a sposarti ma ora…» dice a denti
stretti, «me ne vado con i cani dai miei.»
Faccio per trattenerlo. «Aspetta, tesoro, non lasciarmi ti prego.» Gli
afferro un lembo della giacca ma è troppo tardi.
«Non chiamarmi. Mi farò vivo io, se ne avrò ancora voglia,
ovviamente.»
COLPO DI TACCO
– 1 giorno al matrimonio
Tutta colpa di un tacco? Me lo chiedo mentre apro il pacchetto. Ho
aspettato questo momento per ventinove giorni e adesso, se potessi,
riavvolgerei il nastro e scriverei una storia diversa. “Ho sbagliato tutto”
penso, pulendomi il naso con il fazzolettino di pizzo che avrei dovuto
nascondere nel finto bouquet a forma d’osso, realizzato per l’occasione
da un produttore di alimenti per cani. L’avrei lanciato, come da
tradizione, e i cagnolini ci si sarebbero avventati.
“Chi è causa del suo mal pianga se stesso”, mi diceva mio padre
quando sbagliavo un’interrogazione perché la sera prima avevo fatto
tardi; quando il buco all’orecchio – a cui lui era contrario perché da
zingara – si era infettato; quando a quattro anni ero finita in ospedale per
un’indigestione di bignè. Se fosse qui con me in questo momento, non
smetterebbe di ripeterlo.
E avrebbe ragione.
Direbbe anche che è inutile piangere sul latte versato e che le mie
sono lacrime di coccodrillo. Non ho avvisato nessuno. Mi sono barricata
in casa e sono due giorni che non rispondo al telefono.
Mia mamma, trovando sospetta quest’interruzione di
comunicazioni, si è presentata sul pianerottolo con una teglia di
lenticchie – che contengono proteine ma non appesantiscono –, ma lei e il
sarcofago fumante sono stati rispediti al mittente. Anche Baby e Irene
sono venuti con il pretesto del vestito e una magnum di champagne, ma
dopo due ore davanti a una porta chiusa anche loro se ne sono andati.
Ettore, sollecitato da mio padre, mi ha suonato ripetutamente con
la scusa dei fiori, ma l’unico a cui ho aperto è stato il ragazzo del corriere
che, davanti al muro di orchidee e al mio viso rigato dalle lacrime, ha
creduto che stessi vegliando una salma.
Sono due giorni che non vedo Mr Buk, ma il telefono non ha mai
squillato. E pensare che mi sono portata il cordless dappertutto, perfino
sotto la doccia, per non rischiare che non mi trovasse. Ma di solito si
trova solo chi si sta cercando…
Guardo l’anulare con la veretta di diamanti e ripenso alle fedi
appartenute ai nonni di Mr Buk, che domani avremmo dovuto ereditare
se io non avessi rovinato tutto. Le lacrime tornano a sgorgare mentre
contemplo il mio vestito.
Baby ha fatto un gran lavoro. Il bustino stretto, la schiena nuda e un
immenso velo di pizzo. Mi ha dato un foglio con le indicazioni nel caso
voglia provarlo.
L’abito si infila dal basso, senza le scarpe e con l’aiuto di una
persona. Però, nel caso in cui decidessi di fare da sola, trattieni il respiro
quando tiri su la zip.
Dopo un’apnea di oltre quaranta secondi e contorsioni degne di
un’acrobata, sono riuscita a chiudere la cerniera. Alla fine, l’ho spuntata.
Finalmente ho anche le scarpe.
Strappo l’imballaggio e fisso la scatola.
Tolgo il coperchio, sposto la velina nera e un tacco costellato di
cristalli si svela nella sua bellezza. Il piede scivola dentro il sandalo
mentre a stento trattengo le lacrime.
Di rabbia, di gioia e di paura. Ce l’ho fatta. In un mese ho scoperto e
infranto un amore, ho vinto una scommessa e perso un futuro.
Abbasso lo sguardo. C’è chi dice che il destino sia scritto nel palmo
delle mani.
Io, in questo preciso momento, ci sto camminando sopra.
LA SCARPA DEL PRINCIPE AZZURRO
Posted by Ivy, on February 6th, 2013
Care amiche,
siamo arrivate all’ultimo tratto di questo viaggio insieme. Se
fossimo in autostrada, sarebbe il momento malinconico del pedaggio, la
sbarra alzata e il casellante impaziente; oppure, se volessimo concederci
uno slancio di romanticismo, come imporrebbe questo epilogo, avrebbe i
colori di un tramonto su Milano, scaldato dai toni dell’ocra da un
imbianchino dei cieli, e quel rumore sottile di tende di velluto del sipario
che si chiude.
Il consiglio del giorno è: aprite gli occhi e osservate con attenzione
l’uomo che vi piace. Perché, e ormai lo avrete capito che per me (spesso)
le donne sono le scarpe che indossano, lo stesso mi sento di dire dei
nostri corrispettivi.
Dunque, care lettrici, non fermatevi ai bicipiti guizzanti o agli
addominali scolpiti. Non lasciatevi travolgere dalle parole, vuote come un
vaso, con cui vi ammalieranno promettendo di scoprire insieme a voi
Americhe ancora sconosciute. Non lasciatevi sedurre dai loro sorrisi da
guasconi, bianchi come un crinale innevato, dalle dita affusolate o dai
nasi aquilini.
Abbassate lo sguardo, invece. A terra, per essere precise. Guardate
se l’uomo che avete scelto per un tratto di vita o fino alla fine del mondo
indossa mocassini, a torto reputati la cremazione del piacere, o Oxford in
pelle spazzolata. Verificate che la scarpa sia lucida e che la sneaker sia
quella giusta. E poi, abbandonatevi: al Peter Pan che a quarant’anni non
smette le All Star, sapendo che per lui le altre saranno un eterno gioco
ma voi resterete la sua Campanellino.
Affidatevi alle braccia sicure dell’uomo in mocassino, che vi
ricorderà vostro padre e che dunque non vi tradirà mai.
Tenete testa, anzi passo, all’uomo in Oxford, perché sarà un
professionista attento ai dettagli e alla forma. Gustate un brandy accanto
al dandy che vestirà le pantofole di velluto e, se cercate un personal
trainer delle lenzuola, scegliete chi indossa, anche per andare al lavoro,
un atletico paio di scarpe da running. A ognuna la sua scarpa, insomma.
Alle lettrici dubitanti, che sì ne hanno conosciuto uno, ma non sono
rimaste colpite dal suo gusto per gli accessori, mi sento di dire: se la
scarpa calza bene, anche se non è della stagione in corso, non
discriminatela e tenetela buona, perché, non scordatevelo, “è meglio
comode che mal accompagnate”.
Chi sono io per dirlo? Una di voi, che adora le scarpe quando sono
belle, che le odia quando fanno male, che le desidera a prescindere
perché per un paio in più in casa c’è sempre posto.
Dunque, se cercate l’esperta che sappia svelarvi i segreti per
camminare senza soffrire sulle décolleté più estreme o la veggente che vi
anticiperà i modelli più in voga nella prossima stagione, quella non sono
io. Che resto una vicina di casa chiacchierona e curiosa, innamorata di
quell’accessorio capace di trasformare le donne in dive.
Oppure, più semplicemente, Ivy,
la donna con quel quid in più
Cara Clorinda,
Assorta nei suoi pensieri, avvolta nel lusso della business di una
delle compagnie aeree più blasonate al mondo, Valentina “festeggia” a
diecimila metri d’altezza il suo compleanno con un viaggio di lavoro:
l’attività frenetica per il noto marchio di moda di cui è responsabile
commerciale è l’antidoto per nascondere la solitudine, come si fa con la
polvere sotto i tappeti, e dimenticare. Dimenticare di essere una single
senza possibilità di recesso. >
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La vita è una Loubou meravigliosa di Bea Buozzi
© 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788852052675
COPERTINA || ART DIRECTOR:
GIACOMO CALLO | PROGETTO GRAFICO:
NADIA MORELLI | FOTO © AMANA
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