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Il

libro
«Sono Loubou.»
«Ma non ti chiamavi Clorinda?»
«Mi riferisco a loro», e indico le scarpe, mostrandogli la suola rossa.
«Ragazzi, non si finisce mai di imparare. Non sapevo che le scarpe
avessero un nome.»
Ebbene sì, Clorinda dà alle sue scarpe nomi e vezzeggiativi, come
nel caso del magnifico paio francese che indossa per una serata che le
cambierà la vita. Da sempre pensa che il suo destino non sia scritto sul
palmo delle mani bensì sotto la pianta dei piedi: ogni momento
importante, da quando ha cominciato a gattonare sui tacchi della madre,
è stato scandito da un paio di scarpe. Le ballerine del primo bacio, con la
frangia storta e l’apparecchio ai denti. I polacchini indossati per il primo
esame sotto la neve, che l’hanno accompagnata fino alla laurea in un
torrido mese di luglio. Le décolleté gialle che hanno catturato
l’attenzione del Leader Minimo, divenuto poi suo datore di lavoro. Ma
soprattutto il primo paio di suole rosse regalate dal suo amore a senso
unico, Giulio, destinato ahimè al soprannome di “Grande Asfaltatore” per
la sua propensione al tradimento...
A Clorinda, con il cuore ridotto in cocci, restano solo un armadio
pieno di pezzi da collezione e due amiche che credono in lei: «Rotto un
tacco se ne fa un altro» le ricorda Baby. Ma a mettere in discussione le
poche certezze di Clo, e soprattutto a portare scompiglio nella sua
scarpiera, arriva Mr Buk, un dinoccolato alternativo in sneakers e dread,
cresciuto nel mito di Bukowski, che gira con due simpatici quadrupedi, il
lillipuziano Maciste e l’arruffato Bobby Marley. Se lei, creativa di punta
alla Metello & Partners, è il giorno, lui, scapigliato e accalappiaguai, è la
notte. Eppure una scommessa costringe Clo a una scelta imprevista...
In una corsa contro il tempo, partendo dal leggendario Palazzo
Ranieri – regno di Ivanna Tramps e delle scatenate eroine dei due
precedenti episodi della serie – e passando per una Parigi da sogno,
Clorinda potrà scoprire quanto gli opposti si attraggano, se solo si è
capaci di vincere le proprie paure e respirare a fondo la libertà, per
quanto azzardata e assurda.
D’altronde, come ha sempre creduto, “la vita è una Loubou
meravigliosa”.
L’autrice
Bea Buozzi, giornalista e scrittrice (Beati e Bannati e Chi dice donna
dice tacco), vive a Milano. Cura la rubrica Beati&Appagati, all’interno del
portale www.cosmopolitan.it.
Collabora con “Donna Moderna” e “Cosmopolitan”.
Il suo sito è hotmag.me/beabuozzi.
Fai parte anche tu del Club dei tacchi a spillo? Non perdere gli altri
due romanzi della serie: Matta per Manolo e Tutte Choo per terra!
Bea Buozzi
Il club dei tacchi a spillo

LA VITA È UNA LOUBOU MERAVIGLIOSA


La vita è una Loubou meravigliosa

Questo romanzo è frutto dell’immaginazione. Gli eventi di cronaca e


i personaggi realmente esistenti o esistiti, così come i marchi e i prodotti
citati, sono trasfigurati dallo sguardo del narratore.
Per il resto, ogni riferimento a persone e fatti reali è da ritenersi
puramente casuale.
Alle mie due P – Paolo e Priscilla –, che convivono con la mia
ossessione per le suole rosse, e a Christian Louboutin, da parte di tutte le
donne, che con le sue meraviglie ai piedi si sentono ogni giorno dive.

Amare qualcuno significa desiderare di invecchiare accanto a lui.


ALBERT CAMUS
L’illustrazione di Palazzo Ranieri è di Chiara Oriani.
PRIMA PARTE
Dicono che il primo amore non si scorda mai. Io, con la collezione di
scarpe che mi ha regalato, non potrei nemmeno se volessi.
CLORINDA BENVENUTI

La passione è un’ipoteca da metter sotto teca.


Il matrimonio se è d’amore
non può colpire il cuore,
se invece ti va male
non versar sopra del sale
ma corri in discoteca
che il futuro non si spreca.
Se però ti piace più aspettare
usa il tacco per pazientare.
Così magari incontrerai
il principe che vorrai…

Mi chiamo Ettore e faccio il portinaio. Sono passati pochi mesi da


quando l’inquilina del sottotetto si è sposata, ma pare che la moda sia
contagiosa. Ha colpito anche la coppia del primo piano. Non che qualcuno
mi abbia avvisato. Anzi, lui da qualche giorno è latitante. Me ne sono
accorto ieri, quando montagne di fiori bianchi sono arrivati all’attenzione
della “pubblicitaria”.
Lei è una ragazza schiva e fredda, di poche parole e ancora meno
confidenze. A dire il vero, me l’ero immaginata diversa. Credevo fosse
una votata alla carriera, e invece pare che stia per capitolare. Anche se
non ho ricevuto nemmeno uno straccio di confetto!
D’altronde, sono solo il portinaio, che scrive poesie e si diletta nel
raccontare la telenovela di questo palazzo del centro di Milano.
Gentilissimo Maestro,
non saprei come definirla altrimenti perché lei, con le sue
stroncature e la sua capacità di trasformare una fusciacca in un
capospalla, per me è un’icona. Preziosa al pari di quelle dorate che si
vedono a Istanbul o, se come il mio portinaio odia volare, nelle chiese di
Ravenna, incantevole città che tra l’altro sorge in una zona d’Italia in cui
preparano un’ottima piadina.
L’ha mai assaggiata, Monsieur de Trumon? La ricetta classica,
intendo. Quella con lo strutto e i cereali. Perché, in caso contrario, potrei
provvedere io a colmare la lacuna. Scommetto che a Parigi lo
squacquerone non arriva e il prosciutto crudo non è buono come a
Parma. Insomma, metto tutti gli ingredienti in un trolley e vengo a
cucinarle la piadina direttamente nel suo studio nel Marais, dove so che
ogni mese riceve una sua lettrice. Quanto mi piacerebbe essere quella
fortunata!
Sia chiaro: non è che voglio corrompere il suo genio assoluto con
una piadina, cerco di esprimere la mia totale ammirazione per lei che,
alzando un pollice come l’imperatore del IV arrondissement, decreta il
successo di una collezione.
Le voglio fare una confidenza, Monsieur de Trumon, ma resti tra
noi, per carità: aveva assolutamente ragione a criticare quei due
eccentrici stilisti catalani. Concordo su tutto, il velluto damascato non è
adatto che ai divani e le cinture di passamaneria è meglio lasciarle sui
tendoni alle finestre. Infine, il rosso pompeiano sta bene solo sulle
pendici del Vesuvio!
Lei è il faro nel caos della moda. La segnaletica orizzontale nella
nebbia delle passerelle.
Spero di ricevere una sua risposta. Altrimenti, continuerò a
scriverle perché, forse gliel’ho già detto, vorrei sopra ogni cosa essere
una delle prossime fortunate che varcherà la soglia del suo regno.
Devotamente,
Clorinda Benvenuti
P.S. Parigi val bene una scommessa!
TACCO REGALO

– 1 giorno al matrimonio
Dicono che il destino di una persona sia scritto sul palmo della sua
mano: la linea dell’amore, il monte di Mercurio, che sembra un callo ma
illustra le prospettive professionali meglio di un cacciatore di teste, e la
linea della felicità che, se marcata e netta, come nel mio caso, racconta di
una vita destinata a grandi soddisfazioni. Se chiudi il pugno, poi, puoi
arrivare perfino a intuire quanti figli avrai: io uno, a detta di una
chiromante incontrata in una sera d’estate a Brera.
Non le avevo creduto.
Una vita non si può sintetizzare guardando quattro segni sulle
mani. Sarebbe riduttivo. La foto nella cornice azzurra sul tavolino
all’ingresso mi dà ragione. Mi ritrae all’età di un anno e mezzo, quando
da poco avevo intuito i vantaggi del camminare eretto e, un po’ incerta,
mi tenevo salda all’anta di un armadio – legno di rovere scuro, ingiallito
in quell’immagine vecchia di una trentina d’anni. Io spunto appena, ma
non sto giocando a nascondino, sono lì per fare la cosa che più mi
diverte: guardarmi allo specchio dopo aver frugato tra le cose di mia
madre. Una pashmina colorata e una giacca di seta buttate per terra, ma,
soprattutto, un piedino dentro una décolleté blu. Il tacco non si vede, si
intuisce solo la punta squadrata, come imponeva la moda dei tardi anni
Settanta. Otto centimetri, a occhio e croce.
All’epoca, non sarebbe stato consono portarne di più alti. E poi mia
mamma, seppure modaiola alla massima potenza, oltre non era ancora
andata; restava pur sempre una ragazza di provincia, e mio padre per gli
eccessi aveva una vera e propria idiosincrasia. È evidente che ho
ereditato da lei la passione per gli accessori, perciò se litigo con Mr Buk o
se al lavoro Leader Minimo mi fa uscire di testa, ho il rimedio: spendo in
scarpe come se fosse l’ultima cosa che faccio al mondo, come se la carta
di credito non avesse un limite.
Insomma, confrontata a me, Suri, la figlia di Tom Cruise, è una
dilettante. Una sequenza di Polaroid lo testimonia. Se la moda voleva
gonne sempre più corte, i tacchi al contrario cominciarono ad alzarsi,
tanto che i tre anni mi vedevano già arrampicata sui dodici centimetri.
Unendo l’utile, ossia arrivare a oggetti per la mia altezza
irraggiungibili, al dilettevole, indossavo ciò che non era alla mia portata.
E come dimenticare quella volta in cui, Wanda Osiris in miniatura,
mi sono cimentata nell’arte di scendere le scale sfoggiando una gonna
asimmetrica di lamé? Nonostante le critiche degli infermieri del pronto
soccorso che mi hanno visitato dopo la rovinosa caduta, mia madre
gongolava. Buon sangue non mente. Ero figlia di una fashion victim e
sarei cresciuta nel nome di quel credo che intimava alle sue seguaci: “Se
bella vuoi apparire, un poco devi soffrire”.
Osservo, riflessa nello specchio, la gobbetta sul naso, ricordo di quel
giorno. Da lì in poi i tacchi hanno segnato ogni momento importante
della mia vita.
A cominciare dal primo bacio.
Indossavo un paio di Mary Jane di vernice nera col fiocco di raso e
cinque centimetri di rinforzo per aiutarmi a essere più vicina alla bocca
del potenziale fidanzato – un perticone secco secco, alto quasi due metri.
La sua lingua si era impigliata negli elastici del mio apparecchio per i
denti e lui non aveva più voluto vedermi, ma non importava: io avevo
superato la prova e mi ero lasciata alle spalle l’ansia da prestazione.
Per non parlare poi della maturità, che sarebbe stata un flagello se
non ci fossero stati i tacchi ad aiutarmi. Naturalmente, avevo avuto il
cambio materia all’orale: l’ostico Greco al posto del mio rassicurante
cavallo di battaglia, Storia dell’arte. Così, dopo quattro giorni di apnea in
aoristi irregolari e defunti piuccheperfetti, ero tornata alla luce con
un’idea luminosa. Avrei indossato il sandalo rosa di Prada, regalo dei
miei diciotto anni, potente talismano a portata di piede contro cui nulla
avrebbe potuto la polvere della lingua morta. E in effetti il commissario,
in odore di reparto geriatrico, non aveva resistito. Indifferente alla mia
fantasiosa interpretazione delle tragedie di Euripide, aveva trascorso
l’intera interrogazione con il naso puntato in basso per vedere, oltre la
cattedra, le meraviglie che sfoggiavo.
Risultato: sessanta sessantesimi e una pacca sulla spalla.
Varcate le porte dell’università, la ritualità scaramantica aveva
acquisito un ruolo preponderante rispetto alla preparazione dell’esame.
Il varo del libretto era avvenuto in gennaio. Nevischiava e la città,
ricoperta da un velo bianco, offriva la scenografia perfetta per i miei
nuovi polacchini in pelo turchese. Ero stata tentata di riproporre il look
della maturità ma, immaginando la notizia che sarebbe comparsa sulla
pagina “Filosofi oggi (disoccupati domani)” del giornaletto satirico della
facoltà – “Clorinda Benvenuti, anni 19, ha calcato il pavimento della
facoltà di Filosofia, con una falcata degna di Gisele Bündchen, e infatti è
scivolata arrivando lunga distesa sotto la postazione del docente” –, mi
aveva convinto a tener conto del meteo.
Avevo optato per i polacchini, senza sospettare che mi stavo
scavando la fossa da sola.
Il trenta a suggello della prestazione divenne un incentivo a
continuare: venti esami e sempre gli stessi stivaletti. Perfino a luglio,
indossandoli appena prima di entrare in aula. Neanche a dirlo, mi sono
laureata in corso col massimo dei voti, condizione che non si sarebbe
certamente verificata se non avessi adottato le misure precauzionali di
cui sopra.
Anche la foto della laurea mi ritrae con il fantomatico paio di
tronchetti – passati dalla tonalità carta da zucchero iniziale a un ormai
indistinto color polvere.
Avevo scelto un elegante completo Armani, da abbinare alla
pelliccia di mammut che avevo ai piedi.
Oggi sono un senior account per merito, ancora una volta, dei
tacchi.
In realtà, devo ringraziare un capo feticista che, come il trombone
di Greco ai tempi del liceo, è rimasto imbambolato per tutto il tempo del
colloquio. Sotto di me ho una squadra di creativi e passo il tempo a
brevettare slogan. Ho scelto di anteporre il lavoro a qualsiasi forma di
rapporto ed è grazie a questo che, all’età di trentaquattro anni, mi trovo
alle soglie della dirigenza.
Ecco la foto che mi fa soffrire più di tutte. Ai piedi, le splendide
Pigalle. Quella sera caracollavo a Parigi, tra i marciapiedi affollati di
persone e il profumo della carta ingiallita dei bouquinistes sul
lungosenna – era il nostro primo week-end insieme –, la Gare D’Orsay
sullo sfondo: le sculture all’ingresso, guardiani in porfido con spade e ali,
l’enorme orologio, dietro al quale sono custodite le meraviglie
dell’Impressionismo francese. Il pomeriggio l’avevamo trascorso lì, dopo
aver mangiato una niçoise.
È il sorriso più bello di tutte le foto. Ingentilito dall’amore, perché
l’amore regala grazia perfino a chi non l’ha. Il vento mi spettina i capelli,
raccolti in una coda distratta. Un basco in testa, il viso inclinato, occhiaie
leggere a ricordo di notti in cui il sonno non era la priorità, un
impermeabile comprato in saldo al Forum des Halles, le mani in tasca.
Sono appoggiata a un lampione, un piede sollevato per mostrare meglio
le Pigalle e le loro suole rosse. E dietro l’obiettivo c’è lui, il mio personale
Helmut Newton: Giulio Autieri, G.A., ovvero il mio folle Grande Amore,
colui che, dopo avermi fatto sentire una regina, mi ha asfaltato il cuore,
gettandoci sopra mozziconi di sigaretta incandescenti. Gli stessi che non
avevamo mai smesso di spegnere durante il lungo viaggio in spider tra
Parigi e Milano.
E, proprio quando mi ero convinta che non ci sarei più cascata e
avevo giurato a me stessa che tutte le mie fatiche le avrei usate per
aggiungere nuovi pezzi alla mia collezione, avevo incontrato lui, Mr Buk,
un tizio un po’ più grande di me dal sorriso contagioso e i modi rudi.
Non c’entrava nulla con me ma, come due poli opposti, eravamo
irresistibilmente attratti l’uno dall’altra. Le prime cento sere –
ribattezzate ironicamente da lui, facendo riferimento alla campagna
napoleonica, “l’esilio di Santa Clorinda” –, le avevamo trascorse in casa.
Senza cimentarci in siparietti domestici tipo: “Tesoro, cosa ti preparo
questa sera per cena?”. Io avevo fame di lui e lui di me: non ci serviva
altro per il confino più dolce che la vita potesse concederci.
La cornice, questa volta coloratissima, ospita uno scatto molto
particolare. I protagonisti sono i nostri piedi. O meglio, i nostri piedi
calzati nelle scarpe: un paio di All Star blu dalla punta sfondata per lui e
un sandalo Chanel tacco dodici in pelle spazzolata per me. Nulla può
rappresentarci meglio di quella foto, fatta un po’ per scherzo con il
cellulare, per dimostrare quello che agli occhi dei nostri amici era
evidente: vivevamo in mondi paralleli. Anzi, eravamo due scarpiere
appartenenti a galassie diverse.
Litigavamo come gatti, giuravamo di lasciarci eppure bastava una
notte distanti a farci tornare insieme più uniti che mai. E la cosa buffa è
che, prima di conoscerlo, avevo fatto una promessa a me stessa e alle mie
amiche – stanche di sopportare un muro del pianto ambulante –,
arrivando a tatuarmi sul collo la scritta: “Meglio single che mal
accompagnata”. Io che i tatuaggi li detestavo: come tutto ciò che è
permanente, d’altronde. Gli uomini, perciò, sarebbero stati meteore in
transito nella mia vita o stelle cadute nel mio letto, destinate a durare il
tempo di una notte. Del resto le storie più belle, come testimonia la
relazione con il Grande Amore, sono quelle a distanza, cioè quelle in cui
la sera ognuno va a dormire sereno nel suo letto e ci si incontra nel fine
settimana. Diventando così un concentrato delle tavole più intense di
Peynet.
Ma i sentimenti sono come il mare e, mentre stai adornando di
merli le torri di un castello di sabbia, arriva l’onda che te lo butta giù.
Anche in questo caso, devo dire grazie a un paio di scarpe. A
dimostrazione che il mio destino non è scritto sul palmo delle mie mani
ma sotto la pianta dei piedi. E nei dodici centimetri che cambieranno la
mia vita. Domani mi sposo. Sempre che lui lo voglia ancora.
MALEDETTO IL GIORNO IN CUI INCIAMPAMMO

– 390 giorni al matrimonio


«Allora, siamo d’accordo?» Con questo esordio la telefonata non
sembra promettere granché.
«Su cosa, scusa?»
«Puntuale. Detesto le donne che si fanno aspettare.»
«E io gli uomini che parlano per luoghi comuni.»
«Vale a dire?»
«Credere che per noi ragazze il ritardo sia inevitabile, perché
inscritto nel nostro DNA insieme ai cicli ormonali. Per non parlare della
misteriosa sindrome, che a un certo punto, secondo voi, ci trasforma in
megere tagliagola!»
«Non stai bene?»
«In che senso?»
«Questo pistolotto me l’hai servito perché non mi faccia illusioni sul
dopo serata?»
«Te l’hanno mai detto che chi mal comincia…?»
Nonostante il pessimo inizio mi sono imposta di uscire con lui. Per
me, ma soprattutto per Irene e le altre amiche che non ce la fanno più a
sopportare un “rubinetto rotto”, come mi chiamano da quando il Grande
Amore mi ha lasciato. Devo ricominciare, dicono. Guardare avanti,
chiudendo il capitolo precedente; d’altronde tutte le ragazze hanno
all’attivo un asfaltatore di cuori, ovvero l’esatto contrario del re. Se il re
costruisce un castello, l’asfaltatore ti fa credere di aver buttato le
fondamenta per una relazione a tempo indeterminato, e invece sta
scavando la tua fossa: per lui sei un’interinale. Ma gli errori servono a
crescere e bisogna solo elaborare il lutto. Peccato che io vesta il nero dei
suoi ricordi da quasi un anno e, pur avendo provato a uscire con altri, al
primo non è mai seguito un secondo appuntamento.
Il ragazzo in All Star, non essendo il mio tipo d’uomo, andrà ad
allungare la lista. Mi piacciono i cinquantenni da quando ho vent’anni.
Un’amica pensa che io abbia un complesso irrisolto, ma non è vero,
semplicemente l’uomo maturo è quello arrivato – eccezion fatta per tutti
quelli che ho incrociato io sulla mia strada: Peter Pan irredenti in cerca di
un’isola non mappata da Google, ma soprattutto di una fatina di un’età
vicina a quella delle loro figlie. Quindi, in accordo con il club delle
Zen&theCity, il cui codice deontologico prevede la regola del “chiodo
scaccia chiodo” per risolvere i problemi di cuore, ho accettato l’invito.
Sempre che lui arrivi. È già in ritardo di mezz’ora, alla faccia della
puntualità. E io che mi sono scapicollata per essere pronta in tempo! La
dieta naturale succeduta all’asfaltatore ha dato i suoi frutti e il tubino
nero sopra il ginocchio mi valorizza – vita sottile e gambe affusolate. Ho
scelto un look sobrio, discreto senza essere lezioso, anche perché volevo
fosse la scarpa a parlare per me: un paio di peep toe in pelle turchese e
suola rosso fuoco. Per il resto, una postina nera con piccole borchie e una
giacca da uomo in pelle. Un giusto compromesso casual chic, anche
perché, se ama Charles Bukowski come dice, troppa eleganza potrebbe
lasciarlo interdetto.
Il cellulare vibra.
È da mezz’ora che sono qua sotto. Se non ti vedo entro sessanta
secondi, noi ce ne andiamo.
Perché parla al plurale? Ma soprattutto, voglio davvero uscire con
un tizio che è simpatico come un ascesso?
Certo che ci esco, fosse solo per rimetterlo in riga!
Mi precipito fuori di casa, ma l’ascensore è bloccato. Il portinaio l’ha
ribattezzato Ernesto (“l’ascensore sempre in arresto”), proprio per il suo
carattere volubile. Io credo che abbia un’anima al posto della centralina e
che qualche filo o scheda elettronica ce l’abbia con me. Mi baso sui fatti,
ovviamente. Quando sono in ritardo (ovvero sempre) o sono piegata
sotto il peso delle bottiglie, Ernesto dà forfait.
«Chiudete la porta!» grido su per le scale. Sento una serratura
scattare. È la signora Innominata, solo di cognome, perché di fatto
l’intero palazzo ne parla – perfino per andare a buttare la pattumiera,
ostenta preziosi balconcini sotto la felpa della tuta. Si affaccia dal piano di
sopra in baby-doll e vestaglia.
«Buonasera, suo marito non è in casa?» le chiedo.
«L’ascensore è rotto» mi spiega. «Quanto a mio marito, è via per
lavoro. Perché me lo chiede?»
Naturalmente per poterne parlare domani in guardiola con Ettore.
È risaputo che la signora, in orario d’ufficio, smette i completi di ciniglia
per trasformarsi nella tigre di Palazzo Ranieri. Non c’è manutentore che
non conosca le sue virtù private o non ne apprezzi la mirabolante
fantasia.
«Niente, signora. Era così per dire.»
Faccio per scendere le scale, ma lei non accenna a rientrare in casa.
«Tutto bene, signora Innominata?»
Mi indica la porta: «Qua dietro c’è il mio animaletto».
«Oh, ha preso un gattino perché le faccia compagnia?»
Un’ombra le si avvicina.
«Ibrahima» dice spazientita, «torna subito dentro.»
«Scusi se mi permetto, signora Innominata, ma definirlo animale mi
sembra eccessivo…»
Quelle pareti devono ospitare molti più segreti di quanti siano
sospesi tra cielo e terra. Lucrezia Innominata sgrana gli occhi,
stringendosi nelle braccia nel tentativo di coprirsi perché la dispettosa
vestaglia di seta, scivolando sulle spalle, sembra non volerne sapere di
stare chiusa.
«Ma cosa ha capito, signorina Benvenuti, non parlavo di lui…lui è il
mio nipotino dal Senegal…»
Ha più parenti lei, tra figli adottati durante i suoi viaggi in Africa e
cugini provenienti dal Sud America, di Ignes, la moglie peruviana di
Ettore: un’ampia casistica di tribù subsahariane, dai Dogon ai Bambara, e
non mi stupirei un giorno di riconoscere in ascensore il naso camuso e il
viso tatuato di un maori – con in mano un boomerang e una tracolla fatta
con la pelle di qualche malcapitatomarsupiale trafitto dalle sue lance.
Ma se i capelli scuri e la vita larga quanto i fianchi non danno adito
a dubbi circa l’origine dei parenti di Ignes, le pelli ambrate e le spalle
scolpite dei nipotini della signora Innominata fanno chiacchierare i
pianerottoli.
«È un animale vero. Sa, me l’ha regalato lui» dice indicando la porta.
«Un’iguana?» azzardo, spaventata dall’ipotesi che voglia
presentarmi una lucertola gigante.
«Ma scherza!», si porta le mani alla bocca. «Mi terrorizzano quelle
miniature di dinosauri, sopravvissute alla glaciazione!»
Sospiro. Meno male.
«Odio anch’io tutto ciò che striscia.»
Di nuovo mi fissa. «Le iguane hanno le zampe e io adoro i serpenti.»
Indietreggio, paventando il peggio.
«Scusi, signora, mi aspettano… devo proprio scappare.»
«Ma volevo presentarle Gegia, il mio pitone reale…»
«Sarà per la prossima volta, signora. Saluti Gegia da parte mia. A
proposito, gran bel nome!»
Perfino un merlo parlante con la raucedine si ribellerebbe. Ma
d’altronde, scovare un inquilino normale a Palazzo Ranieri è un’impresa
impossibile, un po’ come sperare di trovare l’oro nell’atrio della Stazione
Centrale – dove, al massimo, facendo il rabdomante di pagliuzze, puoi
racimolare qualche centesimo di euro, biglietti della metropolitana usati
e gomme masticate, attaccate alle suole delle scarpe.
L’ombra torna ad agitarsi sulla soglia e questa volta le intravedo
una sciarpa sgargiante intorno al collo.
«Ibrahima e allora, questo caffè?» chiede l’Innominata. Poi,
abbassando la voce: «Bisogna essere perentori con loro: son ragazzi! Se
gli dai un dito, si prendono tutto il braccio. È proprio sicura di non volersi
fermare a conoscere Gegia?»
«Sarà per la prossima volta. Mi saluti il nipote e il cucciolo» dico,
mentre ormai sto scendendo le scale.
«Passi a trovarmi, signorina Benvenuti, e non si preoccupi; Gegia
non farebbe male a una mosca!»
Mi tolgo le scarpe e comincio a correre. Non ho messo le calze
perché a Milano, salvo nevicate improvvise o rari abbassamenti della
temperatura sotto lo zero, sono bandite. E io, pur avendo origini
provinciali, ormai mi sento a pieno titolo una meneghina: nei
comportamenti eccentrici, nelle fobie smaccate e nelle fissazioni prive di
senso. Ma quando il portone del palazzo si chiude alle mie spalle, rischio
un mancamento.
E non si tratta dell’effetto di una congestione fulminante, ma dello
shock che mi provoca chi ho di fronte.
Ha la barba ancora più lunga che nelle foto su facebook. Quanto ai
capelli, io che sono abituata a uomini, diciamo, d’esperienza – e dunque
ampiamente stempiati, se non addirittura calvi –, quasi svengo davanti
alla massa che ha in testa: un cespo di carciofi, stopposi e pieni di cera.
Da giamaicano trasferitosi al quartiere Isola.
Mi squadra dall’alto in basso, e sembra aver appena avuto
un’apparizione mariana. Quanto vorrei poter dire lo stesso, e invece…
Indossa jeans con strappi in più punti lungo la gamba, sneaker con
prese d’aria e, scommetto, anche i calzini sono in condizioni simili. Se
potessi scegliere un’auto anch’essa con prese d’aria, opterei per un coupé
da scoperchiare aspettando che l’inverno ceda il passo alla primavera;
invece mi apre la portiera di uno sgangherato pullmino Volkswagen. È
subito chiaro che io e lui non faremo molta strada insieme.
Due cani scodinzolano felici nel retro, mentre prendo posto.
«Calma ragazzi, la nostra amica pare scossa», li ammonisce mentre
si siede al posto del guidatore.
Se non barcollassi sui tacchi come la torre di Pisa, tornerei
immediatamente sui miei passi e, piuttosto, passerei la serata con la
signora Innominata, l’improbabile nipote e la cordiale Gegia. In fondo,
bere un caffè sotto lo sguardo pieno di cupidigia di un pitone reale non
capita mica tutti i giorni.
«Ma no, che dici!», tento di minimizzare.
«Dài, guardati: braccia incrociate, gambe accavallate e borsa stretta
al petto.»
In realtà sto cercando di limitare al minimo la superficie
d’appoggio.
Su quel pullmino la polvere si è depositata dagli anni di piombo fino
a oggi e le mie Louboutin, invece, sono state appena consegnate dal
corriere – ultimo folle acquisto online.
Un gigante mi alita addosso. Mi volto con estrema calma. «Lui è
Bobby Marley.»
Gli allungo la mano nel tentativo di evitare che mi sbavi sulla spalla.
«Piacere, Clorinda.»
Il bernese dalla pelliccia lucente mi stampa una linguata in faccia,
mangiandosi il trucco preparato per il suo padrone, e vanificando i miei
sforzi per stare alla larga dalla sua saliva.
«Gli piaci!» esulta lui.
«Che fortuna!» rispondo, mentre sto già frugando nella borsa in
cerca dello specchietto. Bobby Marley è un rasta mancato, come il suo
padrone. Il pelo lungo è intrecciato in nodi ma, a differenza dell’uomo
alto e dinoccolato, ha una struttura possente.
«A occhio e croce pesa più di me.»
«Cinquantaquattro chili. Pelliccia inclusa.»
Da sola quella coltre di pelo ne peserà cinque.
«Tosarlo pareva brutto, eh?»
«Portare dal barbiere me o dal toelettatore lui sarebbe una
contraddizione, come tagliare i capelli a Sansone. Siamo una coppia di
alternativi, per la cronaca e a scanso di equivoci. Deve ancora nascere la
donna che ci costringerà a dare un taglio. O sei forse interessata a
candidarti?»
Un riflesso incondizionato mi fa scuotere la testa.
L’altro cane è un meticcio e mi salta in braccio cercando coccole. Il
piccolo conserva nel patrimonio genetico reminiscenze diverse: il corpo
allungato dall’inconfondibile forma a salsiccia del bassotto, le zampe
muscolose del bulldog, le orecchie del cocker e la coda corta del
barboncino. Il colore è un intruglio come il resto, il nero del manto sulle
zampe si fa bianco, disegnandogli calze di pelo.
«I calzini bianchi sono out!» dico accarezzandogli il muso.
«Lui è Maciste.»
«Eh, be’, date le dimensioni, non poteva essere altrimenti» ironizzo.
«È lui che comanda. Bobby Marley gli fa da gregario.»
«Interessante: uno è il braccio e l’altro la mente.»
«Accade sempre così nelle coppie migliori. E tu come ti senti, più
braccio o più mente?», e mi strizza l’occhio.
Fingo di non aver sentito e cambio argomento: «Ti facevo uomo da
Mini».
«Scherzi, guarda lo spazio che ho qui. E poi, loro viaggiano sempre
con me.»
Il pullmino è un residuato a quattro ruote degli anni Settanta. I
sedili sfondati e le tendine fiorate ne fanno un pezzo da museo.
«Dove l’hai trovato?»
Batte una mano sul volante.
«Tramandato dai miei genitori. Classe 1969.»
«Erano figli dei fiori?»
«Radicati.»
Mi sento sempre peggio.
Immagino la faccia di mio padre, conservatore convinto, davanti a
questo ragazzo naïf, ma scaccio subito il pensiero: ci uscirò stasera e mai
più. Anzi, domani le mie amiche mi sentiranno per aver insistito!
Il pullmino percorre corso Buenos Aires e, raggiunti i Bastioni di
Porta Venezia, non punta verso il centro ma svolta a sinistra, passando
davanti al Diana Majestic, luogo in cui l’asfaltatore mi portava per
l’aperitivo in attesa che arrivasse l’ora per l’orecchia d’elefante.
«Navigli?» tento.
«Non proprio.»
Porta Romana, Porta Genova. Identifico Milano in base alle stazioni
della metropolitana, fari per i navigatori della Madonnina.
Quando vedo che non accenna a fermarsi comincio ad avere paura.
Il traffico si fa rarefatto mentre le luci si assottigliano, diventando ombre
intermittenti nella notte. Costeggiamo il naviglio in direzione di Pavia.
«Vuoi portarmi alla Certosa?»
«È chiusa la sera.»
Guarda dritto, controllando il traffico, si ferma puntualmente per
far attraversare i pedoni sulle strisce e commenta i cani che incrociamo.
«Carina la cockerina, anche il cappottino le dona», «Pelo splendido il
pastore tedesco al guinzaglio del vecchio signore».
Sono quasi tentata di buttarmi fuori, ho imparato come fare dai film
d’azione: bisogna aspettare che il mezzo rallenti, approfittando di una
curva o di una rotonda, verificare che non si stia costeggiando un fosso
per non finirci dentro e proteggersi il viso con le mani per scongiurare
abrasioni e cicatrici permanenti. Infine, pregare che qualcuno dall’alto ti
assista, aggiungo io, visto che nei film d’azione nessuno crede mai a nulla.
D’altronde questo tizio l’ho conosciuto su facebook e non so niente
di lui. Prima di fare il grande salto, con il terrore di rovinarmi le scarpe,
tento il tutto per tutto.
«Credo che dovremmo tornare indietro.»
«Impossibile. Ho un reading.»
«Un che?»
«Un reading. Leggo i miei testi a una platea. Come faceva il vecchio
Hank.»
«Ma chi? Quell’erotomane maschilista di Bukowski?»
«Luoghi comuni.»
E mi racconta di come, leggendo i suoi racconti, gli sia venuta voglia
di licenziarsi dal lavoro di sportellista alle Poste.
«Mi è apparso in sogno, sai?» continua.
«Avevi mangiato pesante la sera prima?»
Lui mi ignora e prosegue: «Mi ha consigliato di scrivere».
«Ti avesse invitato a lanciarti dal sesto piano sarebbe stato peggio.»
A questo punto inchioda.
«Di’, ma tu di sogni non ne hai?»
Bella domanda.
Li avevo quando frequentavo l’asfaltatore, ma li ho accantonati
mettendo il cuore nel congelatore e, appena percepisco un battito
irregolare o avverto un sussulto imprevisto, diminuisco la temperatura.
Per evitare di stare di nuovo male.
«Prima della glaciazione» mi limito a rispondere.
Ma non mi ascolta, preso com’è a girare il volante.
«Non ha il servosterzo.»
«Se è per quello, non è l’unico optional che manca.»
«Un mezzo serve per spostarsi, e lui ci sta portando alla meta.
Quindi, non potrebbe andare meglio!»
Guardo fuori dal finestrino.
Insomma, sono salita su un pullmino (i serial killer ne hanno
sempre uno) con un ragazzo incontrato su un social network, il cui idolo
è uno Scrittore universalmente considerato maledetto. A me sembra che
peggio di così non potrebbe andare, ma mai porre limiti alla sfiga.
Quando finalmente accosta, si mette a piovere.
«Siamo arrivati» mi informa.
Intorno, una landa desolata: un parcheggio di terra battuta.
«Scusa, il locale dove sarebbe?»
«Laggiù.»
Ma non vedo nulla a parte una fioca luce nel buio.
«Sembra un capannone.»
«In realtà è un hangar dismesso. Lo usano per i rave e i reading
alternativi come quello che stai per vedere, cara Linda.»
«Clorinda!» esclamo seccata.
«Linda-Clorinda: non noti anche tu un’assonanza perfetta?»
Strabuzzo gli occhi, è completamente pazzo.
«Prego?»
«Linda è la musa del vecchio Buk!»
Porto una mano alla testa: la situazione è preoccupante. Un pazzo
ossessionato da uno sporcaccione maschilista.
«E poi, fai caso alle iniziali: C.B., anche tu come me, Candido
Bergonzoni e Clorinda Benvenuti.»
Sospira, e in sottofondo il motore singhiozza.
«È il karma che ci ha fatto incontrare, Linda! E noi, piccoli esseri
destinati alla polvere, nulla possiamo contro le leggi superiori della
natura.»
Mi correggo: un fanatico ossessionato da uno sporcaccione, affetto
da deliri di onnipotenza propri di un predicatore invasato.
«Andiamo», apre la portiera e i cani lo seguono a ruota. Io resto
inchiodata al mio posto. Intorno a noi c’è solo terra e fango, sempre più
zuppo d’acqua, e il terrore è all’altezza dei miei piedi.
«Non posso scendere.»
Osservo la pelle turchese, senza nemmeno un segno, il tacco fine
ma strutturato. È vero che le ho acquistate con il dieci per cento di
sconto, ma non meritano una sorte così infausta.
Lui mi porge una mano. «Sua maestà la principessa ha bisogno di
un aiuto per scendere dal cocchio?»
Io non muovo un muscolo, ancorata a quel sedile unto con le dita a
uncino.
«Sono Loubou.»
«Ma non ti chiamavi Clorinda?»
«Mi riferisco a loro», e indico le scarpe, mostrandogli la suola rossa.
Lui guarda i cani.
«Ragazzi, non si finisce mai di imparare. Non sapevo che le scarpe
avessero un nome.»
«No, guarda, il modello è Pigalle.»
«Ma non è il quartiere di Parigi dove si trova il Moulin Rouge?»
«Lascia stare.»
«Eppure, sono quasi sicuro di esserci stato. Mi ricordo certi
balletti… Uno si chiamava can-can.»
Maciste lancia un guaito.
Sospiro. Con chi sono uscita questa sera? Ma, ormai zuppo d’acqua,
Candido pronuncia la frase che aspettavo.
«Vorrà dire che rischierò la sciatica per portarti in braccio.»
«Guarda che sono uno scricciolo» lo rassicuro.
«Sì sì, anche Bobby Marley pensa di esserlo, ma mi è venuta
un’ernia per colpa sua. Comunque», e mi porge di nuovo la mano, «io
sono un signore e non bado alla mia salute per te.»
«Un vero Mr Buk!»
E mentre gli cingo il collo, penso a quanto la vita sia strana e a come
io possa essere finita così in basso: in braccio a un rasta alto due metri,
per andare in un magazzino a Rozzangeles a bere birra calda in bicchieri
di plastica. Veramente un battesimo indegno per le mie splendide suole
rosse.
PODALICHE SI NASCE!
Posted by Ivy, on January 7th, 2013
Care amiche,
dopo una breve assenza torno perché il tacco è tratto e volevo
informarvi che, incredibile ma vero, mi sono innamorata anch’io. Di lui
non vi dirò niente, se non che è il mio principe azzurro. Non che non mi
fidi di voi, per carità, ma la pubblicità è l’anima del commercio, e non
vorrei scatenare orde di rivali.
Però i consigli per trovare il vostro principe continuerò a darveli.
Rigorosamente dall’alto dei dodici centimetri, perché – la storia insegna –
ne uccide più il tacco che la spada. E infatti lo stiletto giusto può far
capitolare anche il più recalcitrante degli uomini, quello che pensa che
uscire due sere di fila con la stessa donna sia già sinonimo di arresti
domiciliari.
Carola mi scrive per un consulto.
Ha conosciuto un ragazzo che le piace ma, se sull’abito non ha
dubbi, qualche riserbo le resta sugli accessori.
Il mio consiglio è di evitare la borsa alla Mary Poppins,
indispensabile quando il principe dovrà spingere una carrozzina, ma
inutile al primo incontro. Certo, il terrore di non avere il filo interdentale,
le sigarette per ingannare l’attesa e le gomme per occultare le tracce di
fumo, la Moleskine su cui appuntare le prime impressioni, il rossetto per
ritoccare il make-up dopo aver bevuto, le salviette struccanti, perché non
si sa mai, può atterrire.
Fatevi passare le paure: una clutch sarà più che sufficiente per un
gloss, i fazzoletti, il cellulare e i soldi per il taxi (metti mai che tra una
portata e l’altra il principe si trasformi in un rospo in giacca e cravatta).
Non serve altro.
Quanto alla scarpa, mi permetto di suggerirne una non troppo alta
per tre motivi: il principe azzurro tendenzialmente non vuole una
principessa claudicante; feticista nella favola, raramente lo è nella realtà;
ergo, passi lunghi e ben distesi su scarpe che non siano nuove – il dolore
per una pianta stretta o una punta troppo “a punta” è dietro l’angolo.
Ora, Carola, aspetto i racconti, anche se sono certa che andrà alla
grande. Perché non c’è niente di più impetuoso di un amore al suo
sbocciare per trasformare una donna in un essere di una bellezza
superiore.
Un caro saluto dalla vostra Ivy,
dea del tacco ma anche donna con quel quid in più.
Gentilissimo Bernard,
finalmente ci siamo. Mancano tre giorni al grande momento e io
sono più emozionata che mai.
Dall’incontro a Parigi, la mia vita è cambiata. E non finirò mai di
ringraziarla per essere riuscito a farmi uscire dalle paludi del dubbio.
Perché giurarsi fedeltà eterna e amore senza fine spaventa anche il più
temerario al mondo. Io non mi sentivo pronta, lo ammetto, ma
soprattutto non mi rendevo conto che la persona che avevo accanto fosse
quella giusta: andare in vacanza insieme è una cosa, convivere ha certo
un peso, ma giurare davanti a testimoni di stare insieme per tutta la vita
è tutto un altro paio di maniche. Credevo di essere allergica alle relazioni
troppo lunghe. Mi andavano bene quelle da eterni fidanzatini: incontri
passionali nei fine settimana e, per il resto, serate con le amiche
all’insegna di chiacchiere e cene. Per cui, al di là delle scarpe – che ancora
non sono arrivate –, credo che non smetterò mai di ringraziarla per
avermi aperto gli occhi.
Adesso sono tranquilla. Certo, con tutte le ansie di una sposa a tre
giorni dal matrimonio, ma con la consapevolezza che ho fatto la scelta
giusta e che Mr Buk è il porto in cui voglio fermarmi.
Lo so, ho parlato un’infinità di volte del Grande Amore e di come sia
stato lui a iniziarmi al bello delle scarpe (che lei mi omaggerà per
l’occasione). E delle volte in cui sono salita su un TGV all’alba
infilandomele prima di scendere in modo da essere perfetta per lui che
mi aspettava al binario. Quando il Grande Amore mi ha lasciato senza
troppi giri di parole mi sono sentita crollare il mondo addosso. Come se il
Pirellone o la Tour Eiffel – in omaggio alla sua splendida Parigi – mi fosse
cascato in testa.
Lo amavo. Lo amavo alla follia.
Di quell’amore che è pancia, ma non futuro. Di quell’amore che è
possesso, ma non altruismo. Di quell’amore che è una mongolfiera gonfia
di promesse, ma che non sa camminare sui marciapiedi. L’esatto
contrario dell’uomo che sposerò. Un ragazzo concreto, pieno di sogni ma
con la testa sulle spalle e la voglia di continuare a credere. Sarò una sposa
classica, in bianco, per far commuovere mio padre, ma con la
meravigliosa suola rossa per colorare di passione il mio futuro.
Clorinda
P.S. Ci sono novità sulla spedizione? Perché a me non è arrivato
ancora nulla. Se ci fosse un numero di tracciatura potrei verificare
direttamente online.
P.P.S. A Mr Buk non ho detto niente della nostra scommessa, non
capirebbe, ne sono certa. Ma, in fondo, non gli ho detto una bugia, più che
altro è una mancata verità.
P.P.P.S. Tra piadina e tigella opto per la prima, ed essendo una
tradizionalista con prosciutto crudo e squacquerone. Praticamente la
pizza margherita delle piadine!
LA SPOSA IN ROSSO

– 1 giorno al matrimonio
Latte, avorio, confetto, titanio, zinco. Il bianco sembrerebbe il
colore acromatico per antonomasia, eppure… quante tonalità di bianco
esistono? Lo penso mentre mi guardo. D’altronde cosa si può fare davanti
a uno specchio se non srotolare la matassa dell’inconscio?
Il tulle tocca terra, sembra bava di lumaca, e il faretto sul soffitto lo
rende evanescente, acuendo il contrasto col blu della moquette. A questo
giro è toccato a me essere la più bella del reame. Le mani riprendono a
sudarmi. È da una settimana che va avanti così. Basta che pensi alla data
fatidica che la traspirazione, mio tallone d’Achille, impazzisce, passando
da una sudorazione leggera come la bruma primaverile a una cascata di
liquidi, neanche avessi attraversato un monsone indiano.
Inclino lo specchio. Il bustino di seta enfatizza la scollatura e il
reggiseno rigorosamente bianco.
Immagino la faccia di mio padre.
Domani non parlerà e saranno gli occhi inondati di lacrime a farlo
per lui.
Il gioco di lunghezze della gonna di taffettà non sarà gradito a Irene.
Era stata categorica su questo punto: «Niente stravaganze o modifiche: il
vestito deve rientrare nell’armadio nel medesimo stato in cui è uscito».
Dovrò cercare di calmarla domani, sempre che il matrimonio sia
confermato, dopo quello che è successo.
Dicono che l’abito di una sposa sia fatto su misura per lei, perché
quel giorno si senta unica, perfetta.
A me è mancato il tempo per le classiche tre prove, però, grazie agli
abili ritocchi di Baby, sembra che mi sia stato cucito addosso. Il bustino
finemente decorato e la gonna svasata con una leggera coda.
Bianco assoluto. Bianco sposa, ecco la tonalità.
Dopo un mese vissuto al cardiopalma, il tempo, da quando Mr Buk
se n’è andato insieme ai cani dalla tana di Palazzo Ranieri, ha
improvvisamente rallentato.
Sposto ancora la specchiera.
L’immagine, ora, è quella di una trentenne. Gli occhi gonfi di
lacrime.
Non dovevo provarmi il vestito da sola. Il velo, poi. Io non lo volevo,
eppure Baby aveva insistito: «Il padre della sposa la conduce a braccetto
per la navata e, solo quando la consegna nelle mani dello sposo, la mostra
sollevandole il velo».
Il citofono suona. Una, due, tre volte. Alla quarta mi alzo, svogliata.
«Signola, sono colliele.» Una voce sottile e un roboante clacson sullo
sfondo.
Rispondo in automatico, come farei per la spesa a domicilio, dando
le coordinate esatte in una battaglia navale in cui non si colpiscono
portaerei e non si corona la vittoria con un “colpito e affondato!”.
«Primo piano, a destra.»
Sono in apnea da due giorni, e ho ignorato parenti e amici, venuti in
processione per consolare la sposa triste: decisamente una
contraddizione. Ettore, il portinaio, realizzato il mio desiderio di isolarmi
dal resto del mondo, ha smesso di informarmi dell’arrivo dei fiori. Solo
ora, aprendo la porta, mi rendo conto che, oltre la mia soglia, è stato
eretto un muro bianco dal profumo ipnotico. Alzate di orchidee e trionfi
di calle e gigli, accumulati nel corso delle ore. Un ragazzo minuto si apre
un varco nella landa candida.
«Condoglianze» esordisce il corriere.
Interpretando il silenzio come commozione da parte mia, conclude:
«Mi spiace».
Quel melting pot floreale deve avergli dato alla testa, penso.
«Scusi, perché?»
Allarga le braccia. «Il bianco è per il lutto. Ma non si pleoccupi: con
la leincalnazione andrà meglio.»
Strane tradizioni. Ciò non toglie che metempsicosi, trasmigrazioni
delle anime e perfino la possibilità di vita in universi paralleli o di
attacchi terroristici al Vaticano da parte di sette oscure diventino temi
secondari rispetto al contenuto del pacco: sintesi ed essenza del mio
ultimo mese di vita. Il cuore prende a battere all’impazzata, le emozioni
si moltiplicano.
Firmo, verificando che il mittente sia lui, il grande Bernard de
Trumon. Congedo il ragazzo e, insieme alla penna, gli porgo un mazzo di
calle.
Lo accetta, stringendomi le mani nelle sue.
«La licoldelò nelle mie pleghiele. Si faccia colaggio.»
Esattamente quello di cui ho bisogno ora che, finalmente, ho
ottenuto l’opera con cui ho barattato la libertà.
Domani mi sposo.
Forse.
L’ASFALTATORE DI CUORI

– 720 giorni al matrimonio


Tutto passa. Dipende come, però. Se ti passa, ti sorpassa o ti
trapassa. Il modo in cui una cosa transita fa differenza. Se poi ondeggia
sul tacco alto, avrà un’andatura incerta, ma di grande fascino. Ma se
cammina rasoterra, magari con i piedi a papera, be’, la prospettiva
cambia.
La causa dei miei mali è stata una donna in ballerine. Anzi, una
neolaureata che ha fatto uno stage in azienda come copy junior.
Essendo l’ultima arrivata, e nonostante una laurea conseguita in
una università prestigiosa, era stata sfruttata per ogni mansione. Dalla
più infima in giù. Il primo compito era stato imparare i gusti e le
preferenze di tutti per il caffè – l’art director lo beveva macchiato freddo
mentre l’account lo preferiva con il dolcificante, il copy senior lo
correggeva con una goccia di sambuca, di nascosto dai colleghi, e la
segreteria alle dieci ne aveva già bevuti tre. Era diventata cintura nera
delle fotocopie. Era l’unica in ufficio che riusciva a non prendere a calci
quel catafalco da rottamare, che era solito sputare fogli bianchi come una
rotatoria inceppata. Si vestiva in modo sobrio, nonostante il fisico snello,
senza cedere a esuberanze: jeans di colori diversi, in tinta con le
scarpette di vernice che la facevano sembrare ancora più giovane e
innocente. Il suo mito era, guarda caso, Audrey Hepburn, colei che nei
suoi film aveva sdoganato le prime vere flat.
La ragazza mi aveva fatto tenerezza e l’avevo presa sotto la mia ala,
perché in lei avevo rivisto me alla sua età: ambiziosa e decisa. Me e
l’insegnamento con cui sono cresciuta, per cui, se porgi l’altra guancia,
qualcosa di buono tornerà di certo.
E, invece, schiaffoni su sberle.
L’avevo portata a casa mia, servendola al Grande Amore –
trasformatosi poi nel Grande Asfaltatore – su un vassoio d’argento in
guanti bianchi.
Nonostante fosse giovane e dannatamente carina, detestava i tacchi
ed ero tranquilla perché lui non si sarebbe mai potuto innamorare di una
tizia in ballerine.
Invece, c’è sempre l’eccezione che conferma la regola. Lei,
Benedetta – di nome, ma Maledetta di fatto –, aveva raccolto le sue cose
al termine dello stage, durante il quale aveva lavorato gratis per cinque
mesi, e io avevo raccolto lei, presentandola a Giulio. L’avevo ammansito
per una settimana, inventandomi di sana pianta capacità che Benedetta
non aveva, millantando un libretto universitario eccellente e vendendola
come una ragazza seria e professionale.
Giulio, fotografo di fama, cercava una segretaria, qualcuno che gli
organizzasse l’agenda per gli shooting fotografici in giro per il mondo.
Lavorava a stretto contatto con le modelle più pagate. Se Gisele lo
svegliava al mattino con un emoticon di buongiorno, cosa potevo temere
da una ragazzina che non sapeva neanche camminare sui tacchi? Il
colloquio era durato pochissimo. Lui non aveva praticamente neanche
alzato lo sguardo dal computer, su cui stava elaborando una foto di Kate
Moss, e si era limitato a dire: «Ok, sei dei nostri». E io, che credevo nel
concetto di squadra, non avevo pensato che stesse usando il plurale
maiestatis, come i vip.
I due avevano cominciato a viaggiare insieme – Parigi, New York,
Londra –, avendo accesso ai front row delle principali settimane della
moda. In quei giorni le città si popolano di tutte le etnie del mondo, e
perfino chi a Milano è immune al contagioso fascino del quadrilatero di
Montenapoleone saccheggia gli armadi in cerca dell’abbinamento più
estroso. Pellicce da yeti, ma peep toe e piede nudo. Voluminose sciarpe
da dejeuner sur pack, ma minigonna inguinale. E intanto Benedetta era
andata ad aggiungersi alla già folta schiera dell’eccentrico popolo dello
street style, di quelli che passano le giornate aspettando di essere
immortalati dalla reflex di un professionista. Avrei dovuto notare l’inizio
della metamorfosi: da incerta paperina, con una goffa montatura di
occhiali, stava diventando la musa di Giulio.
La faceva mettere in posa sui binari del tram davanti al Diana
Majestic, il “nostro” Diana, visto che le sue mura avevano accolto i nostri
primi incontri profumati di Martini. Una mano sul fianco e sorriso
ammiccante, ma se durante lo stage Benedetta si nascondeva in jeans a
zampa e informi maglioni, con l’arrivo della bella stagione si era
trasformata in un temibile cigno nero, sfoggiando un intero guardaroba
di vestitini impalpabili che, in controluce, lasciavano intuire le sue forme
acerbe.
«Mi aiuta con lo street style» mi aveva risposto l’Asfaltatore quando
gli avevo fatto notare che Benedetta era ormai onnipresente.
E lui, di contro, era diventato un’ameba, incapace di prendere una
decisione senza coinvolgerla – che dovesse selezionare i provini da
spedire a “Vogue” o scegliere un filtro di Photoshop. E lei non si sentiva
in imbarazzo a telefonare di sera o a unirsi a noi in orari improbabili.
Al nostro anniversario era arrivata senza neanche annunciarsi.
«Giulio sta cercando parcheggio», mi aveva informata, e così ci
eravamo ritrovati nel nostro ristorantino preferito io, Giulio, Benedetta e
una candela a dividerci; spartendo, neanche a dirlo, il profiterole al
cioccolato bianco che avevo fatto preparare apposta per lui. Ma anche
quella volta, quando, rientrati a casa, avevo cercato di metterlo con le
spalle al muro intimandogli di confessare, lui mi aveva risposto:
«Troppa gelosia annienta i rapporti. Quindi non esagerare. E poi, se
parto con Gisele non hai niente da ridire, ma se fotografo Benedetta sui
binari del 9 scoppia la tragedia. Capisci che non ha senso?».
Non è, però, che Benedetta se ne stesse lì, immobile come per gli
scatti sui binari del tram, e neppure che lo sferragliante tram che unisce i
Navigli alla Stazione Centrale, vedendola imbambolata, accelerasse la
corsa, investendola. Lei, le sue ballerine, i suoi poco più che vent’anni e la
sua laurea in Scienze della comunicazione.
Stando alle parole di Giulio, non dovevo preoccuparmi. Eppure la
spia di cui siamo dotate noi donne, il radar che ci fa percepire l’odore di
corna in arrivo, si era messa a lampeggiare furiosamente. Perciò la colpa
è stata anche mia. Mia e della mia irruenza nel voler fare una sorpresa.
Volevo riappacificarmi con Giulio, farmi perdonare per l’attacco della
sera prima, così avevo chiesto due ore di permesso ed ero andata nel suo
studio. Ambar, il portinaio indiano, si era dimostrato più solerte del
solito, anticipandomi per le scale, ripetendo: «Avviso il signore?». Non
avendo le chiavi dell’ascensore mi ero fatta cinque piani con una torta di
profiterole bianchi su cui avevo fatto scrivere “Grande Amore”, ma
quando con il mazzo di scorta avevo fatto scattare la serratura, mi era
apparso uno spettacolo riprovevole.
Lei era nuda, con le ballerine.
Non so se fu peggio vedere un’altra con l’uomo della mia vita,
oppure realizzare che lui si stava trastullando con una in flat. O forse il
vero colpo fu vedere le sue gambe: mi arrivavano quasi al mento. Riuscii
solo ad aprire la scatola del dolce e, una a una, gli tirai addosso le palle di
crema.
Sull’ultima mi leccai l’indice, ma a loro mostrai il medio prima di
lasciarmi alle spalle l’ex.
Il Grande Amore è così diventato, per colpa di un paio di ballerine, il
Grande Asfaltatore.
LE BALLERINE LASCIAMOLE SUL PALCO
Posted by Ivy, on January 15th, 2013
Care amiche,
ve l’ho mai detto che adoro il balletto?
Dal Lago dei cigni alla Bella addormentata, da Giselle allo
Schiaccianoci. Adoro vedere uomini che si cimentano in salti da
stambecchi e donne dal peso di una farfalla che si librano in aria. Da
piccola volevo fare la ballerina classica ma mia madre me lo impedì. A
Maracaibo lo sport nazionale era il baseball, e così fui costretta a battere
una pallina con la mazza, pur sognando di cimentarmi in meravigliose
pirouettes. Ma se vedendo volteggiare sul palco queste silfidi in tutù
restiamo a bocca aperta, volerne emulare le calzature fuori dalla scena
non è decisamente una buona idea.
A tal riguardo veniamo al consiglio del giorno. Mi scrive Roberta,
terrorizzata dai tacchi troppo sottili. Sottile, vorrei ricordare a lei e a
tutte, non è sinonimo di alto. Esistono scarpe con il plateau che aiutano a
sentirsi meno instabili, e tacchi larghi, facili da portare.
D’altronde, se volete conquistare un uomo, lasciate nell’armadio le
ballerine. Seduzione e flat difficilmente vanno di pari passo. Le scarpe
basse sono comode, dubbio non v’è, ma è opportuno portarle poche ore
al giorno – camminare rasoterra sembra comporti un aggravio eccessivo
sulle ginocchia, causando una postura sbagliata. Inoltre sono causa di
problemi alla schiena e costringono a ripiegare le dita in modo innaturale
– per non perdere la scarpina come Cenerentola –, cosa che difficilmente
solleticherà i desideri del vostro partner.
Coraggio!
Un tacco (non esagerato) non ha mai fatto male a nessuno – mentre
una ballerina, certe volte, sì.
Attendo tue, Roberta!
Un saluto dalla vostra Ivy, dea del tacco e donna con quel quid in
più.
IL MIO REGNO PER UN TACCO

– 180 giorni al matrimonio


Irene appoggia la flûte alle labbra, lasciando sul cristallo un’ombra
color corallo.
«È nuovo?» le chiedo.
Estrae la miniatura di un rossetto dalla borsa. «Mi sono appena
fatta truccare al piano di sopra. Ti avrei tenuto il posto, se non ti
presentassi puntualmente in ritardo.»
«È un ossimoro» le faccio notare.
«Cosa?»
«Puntualmente in ritardo. Due concetti antitetici che insieme ne
creano un terzo» spiego.
«Si vede che stai con uno… scrittore», e dicendolo mette una certa
enfasi sull’ultima parola.
«Be’, a modo suo lo è. E poi anche Bukowski, prima di venire
scoperto, lavorava in un ufficio postale. Lo sai che mi sono sempre
piaciuti i self-made man.»
«Quando sono arrivati, però.»
«È un dettaglio.»
«Ma il conto in banca non lo è!» insiste Irene. «Puoi passare sopra a
un calzino bianco, chiudere un occhio davanti a un pelo che spunta
dall’orecchio, ma mai, dico mai, puoi fare finta di niente se davanti a te c’è
un disoccupato.»
«Ma è colpa della crisi, mica sua!»
«Ti ricordo che licenziare uno statale è complicato quanto
rinunciare ai carboidrati per più di una settimana.»
Irene indossa un cappottino sciancrato rosa e tiene due flûte in
mano, e mentre parla scruta l’orizzonte in cerca di un etero appetibile. È
ufficialmente aperta la “stagione della caccia”, come la chiama lei, ovvero
la ricerca di un uomo papabile che sia alla sua altezza – in senso letterale
dal momento che con i tacchi supera il metro e ottanta –, ma soprattutto
all’altezza delle sue esigenze – e quindi un generoso benefattore
desideroso di investire a fondo perduto in armadi di borse.
«Hai paura che finiscano?» le chiedo indicando i bicchieri.
«Scema, questo è per te.» Me ne porge uno. Intorno a noi sfilano gli
habitué della settimana della moda. Donne impellicciate, cappelli calcati
in testa, tacchi vertiginosi e profumi prorompenti.
«A chi dobbiamo dire grazie, stasera?»
Irene è una primatista nel recuperare inviti, tanto che la sua agenda
è più fitta di quella di un alto prelato: ore 9.00 colazione da Cova; ore
11.00 incontro da Dolce&Gabbana; ore 13.00 sushi da Nobu. Questa la
prima parte della sua giornata tipo, poi nel pomeriggio si scatena. Se
fosse un quadrupede sarebbe un segugio. Capace di fiutare risotti al
tartufo e champagne millesimati nel raggio di chilometri.
«Amici di amici» risponde vaga.
Però pare lei la padrona di casa. Saluta, stringe mani e non smette
di sorridere, tanto che non c’è persona che non venga a far tintinnare il
bicchiere contro il suo.
Maciste mi fissa languido dalla borsa in cui l’ho infilato, ha lo
sguardo scorato del cane che tenta di ipnotizzarti. Quando azzarda un
guaito, lo zittisco precipitosamente. Se io lì sono infiltrata, lui lo è due
volte. Ma continua ad agitarsi, scuotendo le parabole che ha al posto delle
orecchie.
«Certo che sembrano le pale di un elicottero» commenta Irene, «o
un ventaglio perfetto per l’estate. Vedi la comodità? Pensa se ti fossi
portata dietro il vitello capellone.»
«Bobby Marley è un bovaro bernese!»
«Appunto, un cane perfetto per coordinare un armento di pecore in
Maremma, mica per vivere in sessanta metri quadri a Porta Venezia.»
Maciste starnutisce. Ci troviamo in una profumeria di San Babila,
all’interno dell’omonima galleria. Tre piani di chicche da tutto il mondo,
eleganti banconi di legno e profumazioni inebrianti. Note d’orchidea ed
echi di sandalo. Irene si sbraccia per salutare un dandy che, appena la
vede, si avvicina. Si tratta di un omone dal punto vita di un baobab.
Giacca di raso dal cui taschino spunta un vezzoso fazzoletto.
«Baby, tesoro, sei stupendo!»
I due si schioccano tre baci, tenendosi per mano. Un cappello a tesa
larga gli nasconde la calvizie incipiente. Lui mi porge la mano con lo
slancio di un lottatore di sumo. «Piacere, Baby, stilista-trasformista!», si
presenta.
E mentre gli allungo la mia, Maciste si avventa sulla tartina che ha
in mano.
«Devi scusarlo», mi affretto a rimettere il cane nella borsa. «Non è
abituato agli eventi mondani.»
«Ooohhh, che meravigliaaa!» urla, impazzito. Tutti si voltano a
guardarci e, dopo un primo momento di imbarazzo, comincia una
processione di mani sul muso di Maciste che, generoso, risponde a tutti
con una leccata. Non per amore, però, ma per l’odore di cibo che hanno
sulle dita.
«E tu, bevi e basta?» indaga Baby, che di piccolo e minuto ha solo il
nome.
«Ho cominciato la dieta liquida, ma non per mia scelta.»
«Ahhh, l’amore! Questa storia della dieta liquida è stupenda. Io lo
dico sempre che lo champagne dovrebbe passarlo la mutua!»
«Credo sia un Valdobbiadene» puntualizzo.
«Tutto ciò che ha un perlage è champagne, tesoro, che importa se
viene dai colli di Custoza o dalla route des vins!» E conclude: «In fondo i
francesi sono i nostri cugini snob. Ma tu cosa fai nella vita, cara?».
«Lavoro nella pubblicità. Tu, invece?»
«Trasformista di abiti.» Batte i tacchi e china la testa, prendendomi
la mano. «Per servirla.»
«È un genio delle forbici, Clo» mi spiega Irene. «Può trasformare un
abito da sposa in uno da cubista.»
«Si chiama destrutturazione di materia» chiarisce Baby. «Togliere
per creare. Come faceva Rodin con il marmo. Un giorno userò il mio
bisturi anche sul tuo vestito» dice ammiccando a Irene.
«Neanche se mi appare in sogno la Madonna con tutti gli angeli e mi
intima di consegnarti il velo, guarda. Piuttosto lo lascio ingiallire
nell’armadio.»
«Per il giallo si trova una soluzione, non temere, quanto alle
tarme… Va bene, amori, vado a fare un po’ di PR in giro. Qui c’è un’orda di
potenziali clienti che potrebbe farmi arrivare alla pensione senza
problemi.»
Bacia la mano a me e a Irene e dà una carezza a Maciste
andandosene via, con la sua giacca che pare un tendone da circo.
«Originale, il tuo amico!» dico a Irene.
«Un genio della sartoria… le sue mani possono far diventare bella
qualsiasi donna.»
«Dopo il sarto di Panama, il sarto di Lourdes?» ironizzo.
«Si vede che fai la creativa, eh? Piuttosto, è da una settimana che sei
sparita. Non me la racconti giusta. Delle due, l’una: o ti sei fatta un
amante attempato come piace a te oppure qualcosa bolle in pentola.»
Sorseggio il prosecco.
«In parte hai ragione.»
«Quello nuovo ha la dentiera o usa un buon mastice?» insiste lei.
«Smettila! Hai ragione perché è vero che c’è un altro, ma per ora
solo nella mia testa» le spiego.
«Strano: non succede mai!»
Prima che conoscessi Mr Buk, le mie fallimentari esperienze – un
catalogo completo di errori più completo e dettagliato di un elenco
telefonico – erano per Irene il pretesto per dissacrare il mio concetto di
amore, secondo lei troppo evanescente e adolescenziale: mi innamoravo
di un’idea, prima di capire se l’uomo che avevo davanti fosse reale o
frutto di una mia proiezione, e costruivo il castello in cui il principe e la
principessa vivevano felici. Con i letti separati e magari appartamenti
comunicanti, ma con ingressi indipendenti.
«Scommetto che gli hai già rovesciato addosso tutto il tuo amore!»
mi prende in giro.
So che non avrei dovuto dirlo. Sono consapevole che parlare
d’amore, pur in modo apparentemente innocuo, è uno scacciamaschi
infallibile, eppure ci casco tutte le volte.
«Ma nooo! Anche se però mi basta pensare alle creature con cui
convive che il cuore comincia a battermi all’impazzata.»
«Ecco: hai perso di nuovo la testa per uno sposato con prole.
Ricominciamo tutto daccapo.» Irene sembra scoraggiata. Ferma un
cameriere e afferra al volo altri due bicchieri. Poi si siede su uno sgabello,
spostando con un colpo di fianchi una donna in visone che sbuffa
scocciata.
«Siediti qua» mi ordina, indicando lo sgabello accanto al suo. «Come
l’hai conosciuto? Voglio sapere tutto nei dettagli.»
«A essere sinceri, lo conosci.»
«Ma chi, il tizio del concessionario Jaguar? Tipo rude ma bella
carrozzeria», e ride di gusto.
«Acqua.»
Sgrana gli occhi.
«Non dirmi che è quel cuoco convinto di essere il fratello minore di
Cracco da cui siamo andati a cena settimana scorsa e che ci ha fatto
pagare due risotti alla milanese come un’aragosta in bellavista? Mi sa che
è braccino, il tipo!»
«Ma vaaa’! Dài che è facile.»
«George Clooney?»
«Meglio. Anche lui è amato da tutte le donne, ma forse le conosce
meglio.»
Abbassa lo sguardo a terra. «Non dirmi che sei riuscita ad avere un
contatto con Bernard de Trumon!»
«Quasi!» prendo un respiro. «Ci sto lavorando…»
Si alza in piedi e, portando le mani alla bocca, rischia di far cadere il
calice. «L’imperatore della moda che con un battito di ciglia può decidere
la fortuna di una capsule collection?»
Annuisco.
«L’uomo a cui tutti gli stilisti mandano, a capo chino e in anteprima,
il meglio della loro produzione in cerca di un lampo di popolarità
all’interno del suo blog con un milione di visitatori al mese?»
«Esatto!»
«Il Willy Wonka della moda, che apre le porte del suo studio a una
fortunata lettrice ogni mese?»
«Precisamente, e io sarò la prossima.»
Irene non sta più nella pelle, e rovescia addosso alla donna a cui ha
tolto lo sgabello l’intero contenuto del suo bicchiere. «Mi scusi tanto ma
sa, la questione è seria!»
Afferra altre due flûte.
«E come pensi di fare?» mi chiede.
«Come la goccia che scava la pietra.»
Irene beve d’un fiato e restituisce il bicchiere a un cameriere.
«Ovvero?»
«Ho intenzione di scrivergli tutti i giorni fino a quando mi
risponderà.»
«Tu sei pazza. Ma pensi davvero che ti risponda?»
«Gli ho scritto oggi la prima mail, con il pretesto del suo ultimo
articolo, la stroncatura feroce di un marchio emergente. Ovviamente, gli
ho dato ragione in tutto quanto detto.»
«Un nemico va blandito sempre e u n a captatio benevolentiae al
giorno leva il medico di torno»
«Diamogli tempo: volere è potere!» E sull’onda dell’entusiasmo mi
alzo in piedi prima di concludere: «E io valgo».
Maciste mi cade dalla borsa schiantandosi a terra e comincia a
guaire.
«Ci credo» commenta la mia amica, «con quel tacco avrai l’alluce
schiacciato.»
CONVIVENZA O CONVENIENZA?

– 45 giorni al matrimonio
Come da copione nessuno risponde al citofono. Faccio ancora un
paio di tentativi, ma senza successo.
E il portinaio non c’è mai quando serve. Nonostante il sistema di
telecamere, distribuite nell’atrio e sopra la pulsantiera, che permette a
Ettore di controllare i movimenti di Palazzo Ranieri perfino di notte.
Anche quando non dovrebbe. Non stasera, però.
Citofono in guardiola ma nessuno mi apre. Sarà in cucina con Ignes,
la moglie peruviana, a preparare una teglia di arroz con mariscos – la
loro versione del risotto ai frutti di mare che, per come lo pronuncia lei,
ha il rumore della risacca dell’oceano e l’odore della foresta pluviale. Da
quando si sono messi insieme, varcare il portone significa entrare in una
friggitoria sudamericana. L’odore di ammoniaca sulle scale si alterna a
quello del pollo a la brasa.
Maciste si agita nella borsa. Succede appena sente il richiamo di
Bobby Marley. Finché è fuori non si ricorda di essere il capobranco ma,
appena ci avviciniamo, annusa l’aria e comincia a guaire. Lo stesso fa il
gigante da casa. Inutile sperare che Mr Buk deduca dai comportamenti
del vitello che io sia fuori dalla porta.
Al terzo tentativo fallito decido di chiedere aiuto a Lucrezia
Innominata. Dall’altra parte mi torna una voce squillante. «Signora, mi
scusi per l’ora, potrebbe aprirmi? Sono Clorinda Benvenuti.»
La porta scatta, mentre la mia vicina mi informa: «Signorina
Benvenuti, non si sarà mica dimenticata le chiavi in casa? Perché la
ospiterei volentieri, visto che mio marito non c’è, ma è venuto a trovarmi
un nipote dal Texas e ne approfitto per migliorare il mio inglese…»
Si sente un melenso «Oh yeah, darling» di sottofondo, che viene
zittito con un imperioso «Shut up!».
«Complimenti per l’accento, signora. La ringrazio per
l’interessamento, ma il mio fidanzato è in casa. Solo che probabilmente
sta ascoltando la musica e non mi sente.»
«Meno male, signorina Benvenuti, e non si preoccupi se dovesse
succederle ancora in futuro. Sa, io dormo poco…»
Che fine avrà fatto Gegia, il pitone reale con il nome da vecchia zia?
Probabilmente sarà stato rispedito al mittente insieme al nipote
senegalese.
Maciste si precipita scodinzolando verso l’ascensore e il guaito si
trasforma in un ululato, lungo e monocorde. «Zitto, Maciste che ci
sgridano.» Non che il terrorismo psicologico su di lui abbia effetto, ma
per fortuna Palazzo Ranieri è pet friendly.
L’unica volta che abbiamo rischiato un incidente diplomatico è
stato quando il porcellino d’India che vive nel sottotetto è scappato. La
padrona non se n’è accorta subito e Maciste stava per addentare quel
succulento salsicciotto impellicciato, senonché la tragedia è stata
sventata da Bobby Marley che, afferrata la cavia per la collottola, l’ha
restituita allo zerbino di casa sua.
Arrivati davanti alla porta, si mette a saltare come un canguro in
miniatura, rovesciando il portaombrelli. Esce di tutto: sacchetti per le
deiezioni canine, scarpe di ricambio, un cappellaccio rotto e… una chiave
della porta blindata. Adesso mi sente!
«Candidooooo!» urlo entrando in casa, mentre Maciste corre dal
pastore bernese e gli sale in groppa come fosse un puledro. Nessuna
risposta. Mr Buk è al computer, sta scrivendo. Gli batto un dito sulla
spalla.
«Ahhh!» Porta le mani al viso. «Ma sei impazzita? Ho rischiato
l’infarto.»
«E io l’assideramento. È mezz’ora che citofono!» e intanto gli sfilo le
cuffie.
«Ascoltavo la musica, sono in fase creativa. Ma fatti dare un bacio,
Linda. Sei bellissima, stasera.» Mi cinge i fianchi e Maciste, geloso, gli
ringhia. «Sì, lei è il mio amore» gli spiega, «ma tu sei il mio cagnetto
preferito.»
E, come se avesse capito, il meticcio resta a fissarlo in adorazione.
«A proposito», gli sventolo la chiave davanti agli occhi, «cosa ci
faceva questa nel portaombrelli?»
Lui mi guarda stupito.
«Preferisci che la tenga sotto lo zerbino? Dimmi tu, per me è lo
stesso.»
«Zerbinooo? Per me è lo stessooo? Tu guardi troppi telefilm
americani. Ti ricordo che non viviamo in un paesino sperduto
dell’Oklahoma dove tutti si conoscono e dove ci si sposa tra
consanguinei. Se ho speso duemila euro per una porta blindata, non l’ho
fatto per lasciare la chiave a portata di mano di chiunque ci passi davanti!
Ma non li leggi i giornali? Da quando è cambiata la giunta comunale, la
microcriminalità è schizzata alle stelle.»
«La solita esagerata di destra. Ma, se dimentichi le chiavi come è
successo oggi, almeno puoi entrare!»
Inutile tentare di farlo ragionare. Le sue teorie hanno del surreale e
certe volte non capisco se sto parlando a lui o ai suoi cani.
«Come ti sembra?» Davanti, la schermata azzurrina di facebook.
«Mr Buk, il dog-sitter underground.»
«È una minaccia?» chiedo.
«Diciamo, piuttosto, una dichiarazione di intenti.» Si alza e va
cucina. Apre il freezer ed estrae una bottiglia ghiacciata di birra. «Ho
pensato che hai ragione tu.»
«Vuoi far nevicare? Non è da te dire una cosa del genere.»
La stappa, usando il piano della cucina come apribottiglie.
«Così si riga» gli faccio notare. «E poi se apri il cassetto c’è un
comodissimo attrezzo per questo specifico utilizzo che si chiama…»
«Ricordi? Sono underground.»
Sospiro e penso alla reazione che avrebbe ora mio padre. Il
contenuto della bottiglia finirebbe in testa a Mr Buk, perché il luppolo fa
bene e gli impacchi alla birra lasciano i capelli lucidi e lisci come un
trattamento alla cheratina, ma soprattutto perché mio padre, da buon
conservatore, non sopporta l’anglicizzazione dell’italiano.
“Underground non vuol dire metropolitana? E allora di’ metrò, che
così capiamo tutti.” Mr Buk mi porge la bottiglia da cui ha bevuto a canna.
«Tesoro, gradisci?»
«Mi hai mai visto bere una birra?»
«Spero sempre che tu ti redima.»
«E per farlo mi passi una bottiglia da cui hai già bevuto?»
«Tesoro, direi che siamo in confidenza ormai.»
Si avvicina e fa per sbottonarmi la camicetta, ma lo scanso.
«Aiutami a stendere, va’, che è meglio.»
«Ops. Credo di aver fatto un guaio.»
Apro l’oblò e vengo travolta da un fetore disgustoso: pelliccia di
cane bagnato e vomito in mezzo ai panni appena lavati.
«Sai, Bobby Marley non si è sentito bene. Deve aver mangiato
qualcosa in giro… così ho pulito con l’asciugamano del bagno.»
«Il miooo?»
«No, cara, quello che uso io, però poi ho buttato tutto in lavatrice…»
«Sui panni appena lavati?»
«Esatto. Ma adesso la faccio ripartire subito.»
Armeggia con il timer, imposta la temperatura, sceglie il
programma.
La pompa dell’acqua si attiva e una cascata cola sull’oblò, ma solo
allora realizza che manca il detersivo e lo rovescia nella vaschetta in
quantità industriale.
«Domani vado a comprarne dell’altro.» Agita il flacone vuoto. «Ho
l’impressione che sia finito.»
«Se usi metà confezione per ogni lavaggio… E comunque, quella
pagina facebook cosa sarebbe?»
«L’inizio della mia nuova vita! Ho capito che devo darmi da fare.»
Curioso che lo realizzi dopo aver ricusato un contratto a tempo
indeterminato da impiegato delle Poste.
«Stanotte non ti ho svegliato…»continua.
«Vorrei ben vedere.»
«Ma mi è apparso in sogno il vecchio Hank!» È raggiante.
«Ancora? Dobbiamo smettere di mangiare il risotto con l’ossobuco
alla sera.»
«No, sul serio: mi ha detto che devo lavorare con chi amo di più al
mondo.»
Non mi vedo, ma sono certa di essere sbiancata.
«Ma tu non hai competenze da copy…» Mi manca il fiato. «E poi la
conosci la policy della mia azienda: nessun rapporto tra colleghi.»
Mr Buk mi afferra una mano, posa le labbra sul dorso sfiorandolo
con un bacio.
«Tranquilla, tesoro, c’è qualcuno che viene prima di te nella mia
scala di valori.»
Maciste, sentendosi chiamato in causa, guaisce felice e, se non fossi
certa che non è possibile, giurerei che sta leggendo con attenzione il testo
dell’annuncio.
«Voglio fare il dog-sitter» proclama Mr Buk.
«Mi sembra perfetta come dicitura da inserire nei documenti alla
voce: professione.» Non riesco a trattenere il sarcasmo.
«Ho creato questa pagina e investito cinquanta euro per farmi
pubblicità. Sono certo che verrò contattato. Siamo in una zona
centralissima e di cani è pieno il circondario.»
«Hai già stabilito un tariffario?» chiedo, fingendo interessamento
per quello che mi sembra l’ennesimo volo pindarico del mio fidanzato.
«No, saranno i padroni a decidere quanto darmi. In fondo io faccio
qualcosa che amo e non si può dare un prezzo all’amore.»
Sospiro. A modo suo è romantico: non certo uno che mi stupirà con
un solitario da tre carati o un fine settimana alle terme di Saturnia, ma
comunque è un cuore gentile.
Chi ama gli animali generalmente lo è. Gli do un bacio e lui mi
prende in braccio, portandomi in camera da letto. Ma quando mi posa sul
materasso uno spuntone mi trafigge la schiena.
«Ahi, cos’è?»
«Tesoro, non sono io!»
Sotto di me trovo un tacco.
«Oh, mio Dio!» Urlo impazzita.
Bobby Marley si affaccia scorato e Mr Buk va da lui per
accarezzarlo.
«Piccolino, allora era per colpa di queste brutte scarpe che sei stato
male?» gli chiede.
E il tacco turchese della nostra prima uscita gli arriva dritto in
fronte.
THE DAY AFTER

– 44 giorni al matrimonio
«E meno male che ti ostini a ripetere che lo ami.»
«Irene, fattene una ragione. È così!»
«Pensa all’energia sprecata per uno che mette un pulcioso
quadrupede al primo posto nella sua scala di valori, e che gli permette di
trasformare un paio di gioielli da cinquecento euro in vomito di cane.»
La franchezza di Irene è disarmante, ma non posso che darle
ragione.
«Due.»
«Due cosa?»
«Due pulciosi quadrupedi vengono prima di me nella scala di valori
del mio fidanzato.»
«Ancora peggio! E poi, questa fissazione di chiamarlo fidanzato…
non te l’hanno detto che ci vuole un anello?» È il ritornello preferito della
mia migliore amica, lo ripete sempre a inizio e a chiusura delle nostre
telefonate. «Ma come ancora niente? Se per un altro mese fa orecchie da
mercante, giura che lo lasci.»
Io annuisco sempre, sorrido, ma i mesi continuano inesorabilmente
a scorrere. In effetti, sogno come tutte le ragazze di ricevere un anello,
ma non sono certa di desiderarlo da Mr Buk. Mi rende insicura non
l’anello, ma quello che comporta. La cosa che più mi spaventa è l’idea che
lui, chiedendola mia mano, possa smettere di scegliermi giorno dopo
giorno, e io diventi una certezza e non più una necessità.
«Sei cinica.»
«No, sono realista, Clorinda! Sei tu che ti aggiri per Milano con gli
occhi foderati di prosciutto. No, anzi, li hai foderati di bresaola, che è più
scura e scherma meglio. Ma fette belle spesse!»
«Semmai di illusioni, i salumi li preferisco in un panino.»
La sento sospirare. È da quando sono uscita dall’ufficio che siamo
appese alle nostre “chiacchiere della sera”. Abbiamo battezzato così
l’appuntamento telefonico, divenuto una routine come tra due fidanzati,
in cui ci facciamo il resoconto dettagliato della giornata.
«Sono quasi a casa» annuncio.
«Chissà cosa troverai stasera. Magari, con la storia del dog-sitter, ha
adottato altri portatori di zecche.»
«Invece, io trovo nobile il fatto che si sia deciso a rimettersi a
lavorare.»
«Certo, perché portare a passeggio dei quadrupedi, raccogliendo i
loro escrementi, tu lo chiami lavoro? A differenza di te che non conosci la
parola “riposo” e passi la vita a correre? Ti ricordi, vero, che sono mesi
che lo mantieni? Vitto, alloggio in centro e servizi extra… mica un bed
and breakfast vista tangenziale!»
«È un creativo: ha bisogno del luogo giusto per esprimere la sua
arte, e il lavoro da impiegato era una sanguisuga per la sua ispirazione…»
«In compenso adesso la sanguisuga ce l’hai attaccata tu, che porti a
casa lo stipendio e paghi il mutuo affinché lui possa preparare i suoi
reading!»
Se ci atteniamo ai fatti e adottiamo un punto di vista esterno e
oggettivo, non possiamo che dare ragione a Irene, eppure… Mr Buk è
pieno di difetti, è vero, ma non potrei immaginare di vivere un giorno
senza averlo accanto. Potrei sembrare affetta da una sorta di sindrome di
Stoccolma: più il mondo si accanisce contro il carceriere del mio cuore,
più io mi sento indissolubilmente legata a lui.
D’altronde, l’amore per me è una radice quadrata a cinque cifre, un
algoritmo insolubile, un’equazione tra la passione e il sentimento. Un
enigma, insomma, visto che in matematica sono sempre stata una
schiappa.
«Di’, ma cos’è sto casino?»
«Un artista di strada.»
«Semmai di metro.»
«Ire, le tue battute hanno l’osteoporosi da tanto sono vecchie.»
«Ma cosa strimpella?» chiede.
«Libertango?»
«Sì, crede di essere la reincarnazione di Astor Piazzolla con la
fisarmonica» spiego.
«Anche se Piazzolla prediligeva il bandoneón» puntualizza lei.
«Dettagli, mica siamo in Argentina, qua!»
«E io che pensavo abitassi nei pressi di Buenos Aires», e scoppia a
ridere.
«Invece tu, ogni giorno, aspetti il miracolo in piazzale Loreto,
eppure… ancora niente!»
«Questa è bella, zecca!» Irene mi chiama così perché mi riconosce la
capacità di attaccarmi succhiando energie alla vittima. In inverno sono
“zecca”, in estate divento “cozza”, per trasformarmi in “acaro” in autunno
e perfino in “tarma” in primavera. Si adegua alle stagioni, lei.
«Dài, sono arrivata», cerco di tagliare corto.
«Non mi hai poi più detto come va con il tuo amore platonico.»
«Tutto tace.»
«Non prendertela, Clo. Prima o poi ti risponderà.»
Irene, innamorata come me del segugio della moda Bernard de
Trumon, è l’unica a sostenermi. Continuando di questo passo, invece,
probabilmente rischio che mi arrivi la lettera di un avvocato parigino in
cui mi chiedono di smettere di importunarlo se non voglio una citazione
per stalking.
«Intanto, fatti trovare pronta venerdì sera. Si parte. Una gita in
montagna ti aiuterà a schiarire i pensieri» conclude.
«Ciao!»
Il cielo era bigio quando sono entrata nelle viscere della città, ma
bastano venti minuti di metro per trasformare il grigio in una bomba
d’acqua. Lo capisco sulle scale mobili, ombrelli sgocciolanti e piumini
zuppi di pioggia.
«Piccolo, tre. Grande, cinque euro.»
I cingalesi hanno il monopolio del business degli acquazzoni,
spuntando come funghi appena accenna a piovere. Leggende
metropolitane raccontano che si nascondano sotto i tombini e che, alla
prima goccia, la comunità attivi un passaparola che li fa uscire allo
scoperto. Nessuno sa dove realmente alloggino, insieme a una riserva
inesauribile di ombrelli che sembra non avere fine. Uno mi insegue. Mi
fermo e lo guardo.
«Come fai?» gli chiedo.
«Eh?» Dalla sua espressione risulta chiaro che è pronto alla
trattativa sul prezzo, ma non a una domanda come la mia.
«A sapere che nella borsa non ho un ombrello. E poi, dove vivete?
Dicono che abitate sotto i tombini. Ma sia chiaro che io non ci credo, eh!»
Ammicco in attesa di una risposta, ma lui tace e sorride
mostrandomi nuovamente la sua mercanzia. Frugo nelle tasche in cerca
di monete e indico un ombrellino rosa. Lui me lo allunga.
«Ma soprattutto come fate a spuntare fuori tutti insieme?»
«Segreto! Vorrei ma non posso dirlo.»
Un agente della CIA avrebbe meno remore di riservatezza di questo
minuto figlio dell’isola del tè. Si prende i tre euro e va a inseguire un’altra
persona, per poi catapultarsi fuori dalla metropolitana appena intravede
due poliziotti.
Apro il mio ombrello rosa, una macchia di colore nel grigiore della
città, e, cercando di schivare le pozzanghere, raggiungo Palazzo Ranieri.
Stranamente Mr Buk risponde subito al citofono ed Ernesto,
l’ascensore sempre in arresto, mi porta a destinazione senza problemi.
Ancora più strano è come lo scenario dell’apocalisse, dopo la distruzione
delle mie amate décolleté a opera di Bobby Marley, possa aver lasciato
un orizzonte di tranquillità. L’armonia sembra ritrovata.
Mr Buk mi apre la porta, sfiorandomi le labbra con un bacio.
«Bentornata Linda!»
La casa inaspettatamente è ordinata. I panni stesi a modo suo,
ovvero uno sopra l’altro. Il letto rifatto a modo suo, ovvero senza
rimboccare i bordi delle lenzuola, che penzolano come tovaglie
stropicciate da sotto la trapunta. Ha perfino fatto la spesa. Anche questa a
modo suo, ovviamente, lasciando i surgelati a smollarsi nei sacchetti.
Un mazzo di girasoli costretto in un vasetto di pelati mi saluta
insieme a Maciste che mi salta addosso, seguito a ruota da Bobby Marley
che, con il suo dolce peso, mi fa cadere a terra.
«Ciao ragazzi, sono contenta anch’io di vedervi.»
«Ciao mamma…» La voce è di Mr Buk, in falsetto. «Sai, ieri ci siamo
comportati male e allora abbiamo pensato di farci perdonare.»
Vivere con loro tre è come trovarsi nell’asilo di un piccolo paese:
pochi alunni, ma estremamente impegnativi. Il più problematico è l’unico
che cammina in posizione eretta. Mi porge una scatola. È rosa, decorata
con brillanti. La agito e riconosco l’inconfondibile rumore dei tacchi che
urtano contro il cartone.
«Be’, cosa aspetti?», mi invita lui.
Per un attimo ho un’immagine fugace: Mr Buk che entra
all’Excelsior, lo scrigno del lusso nel centro di Milano, prende l’ascensore,
sale all’ultimo piano e mi compra un paio di suole rosse nuove di zecca.
La mia fantasia dura il tempo di sollevare il coperchio – con il conto in
banca verde speranza che si ritrova, Mr Buk nemmeno portando fuori i
cani per sei mesi di fila potrebbe permettersi un acquisto del genere.
«Ti piacciono?» mi chiede, speranzoso.
I cani scodinzolano felici, elargendo leccate e regalando guaiti.
Estraggo una scarpa di plastica. Guardo la suola: giallognola e itterica.
Insieme c’è una bomboletta spray e un biglietto.
Rosso come il mio cuore, rosso come le tue suole.
Mi viene da piangere, ma non per la commozione. Ovviamente, lui
fraintende. «Linda, non sai come mi fai felice. Le ho viste oggi su una
bancarella in Benedetto Marcello.»
«Vuoi dire quella “Tutto a 10 euro” del mercato?»
«Sì, mi sono sembrate simili a quelle che Bobby Marley ti ha
distrutto ieri.»
Tasto la scarpa. Cigola e geme solo tenendola in mano.
«Solo la suola è diversa» continua. «Così, sono andato in colorificio
e ho comprato la bomboletta. Sapessi quanto mi è costata…»
«Sicuramente più delle scarpe!» dico, con una punta di sarcasmo.
«In effetti sì. Però mi hanno garantito che è la migliore al mondo. Il
colore non sbiadisce quando cammini e resta intenso.»
Se fossi una persona mite lo ringrazierei. Il suo è un tentativo goffo
di scusarsi, eppure una lacrima mi riga la guancia. Perché io e Mr Buk
non riusciamo a imparare una lingua comune, un esperanto dei tacchi da
usare nel momento del bisogno?
Non solo il suo cane ha distrutto il prezioso cimelio della nostra
prima uscita disegnato dallo stilista francese, ma ora cerca di rimediare
regalandomi un paio di scarpe made in Hong Kong. Se è uno scherzo, non
è per niente divertente.
«Provale, dài!»
Mi porge la sinistra. Infilo il piede, ma la plastica è appiccicosa ed è
così stretta che mi pare di soffocare. Qualcosa non torna.
Guardo la suola: 36.
«Ma io porto il 37!» urlo stizzita, con la voce resa stridula dall’ira
più profonda.
Lui mi consegna l’altra senza battere ciglio. «La destra è giusta,
tesoro. L’altra non c’era uguale. Comunque, guarda il lato positivo:
comprandole spaiate mi hanno fatto anche uno sconto. E poi, lo sanno
tutti che i piedi sono diversi tra loro, e di norma il destro è più grande.»
Peccato che, in realtà, io ho il sinistro più lungo.
Devo farmene una ragione. Mr Buk è come le scarpe che indossa:
sneaker sfondate con alluce a vista. Come può capire la differenza tra una
cineseria gialla e una suola rosso China?
SCARPIERA O CARTUCCIERA?
«Se mai un giorno dovessi avere un figlio maschio lo chiamerei
Louboutin.»
Baby mi fissa stupito. «Be’, Christian è un gran bel nome.»
«No, no, proprio Louboutin. Se non hanno avuto problemi a
registrare all’anagrafe Chanel, non vedo perché dovrebbero farne a me.»
«E al battesimo lo presenteresti vestito di rosso?» chiede.
«È un’idea!»
«E se poi ne fai un altro?»
«Lo chiamerò Trumon!»
Che la moda sia una mia fissazione è un dato di fatto. E, in
particolare, all’interno di quel meraviglioso universo fatto di chiffon e
stole in seta, di cachemire e pelli di struzzo, amo il sottogruppo delle
scarpe. Qualcuno potrebbe parlare di ossessione, ma la mia, semmai, è
una passione. Sono un’attenta osservatrice. D’altronde, dalla scelta di una
scarpa si possono intuire dettagli che le persone nemmeno sanno di
comunicare: per esempio, lo stiletto appartiene a una donna sicura di sé,
che non teme le insidie nascoste tra i marciapiedi o i tombini della città;
mentre quella che cammina in flat è spesso dinamica. Forse è anche
troppo facile da intuire. Fatto sta che, dopo la prima uscita con Mr Buk, è
stato chiaro a entrambi che veniamo da due galassie diverse. E le nostre
scarpiere sono lo specchio della vita che abbiamo scelto. La mia è
maniacale. Le scarpe sono riposte in ordine per altezza del tacco e poi
per gradazione di colore, in modo da creare una scala cromatica come
quella nelle scatole di pastelli Caran d’Ache. I pezzi da collezione invece li
custodisco nelle scatole, che impilo nell’armadio e negli angoli più
impensabili della casa. Le scarpe di Mr Buk giacciono a casaccio in giro
per l’appartamento, quasi mai nella scarpiera in ingresso e talvolta
perfino fuori dalla porta – per “farle sgasare”, dice. A volte i suoi cani le
masticano. Sono tutte sneaker e sono tutte bucate.
LE MILLE E UNA SUOLA
«Io non ho una figlia, ma un millepiedi» aveva sentenziato mio
padre, scuotendo la testa mentre assisteva alla metamorfosi della
dispensa in una scarpiera. Travolta dalla follia dell’abbandono del
Grande Asfaltatore e per elaborare il lutto della separazione, infatti,
avevo svuotato la mensola dei piatti, trasformandola in una capace
cabina armadio a vista.
Nonostante la vita avesse poi assunto un andamento più regolare
con l’avvento di Mr Buk, la bulimia da suole non era guarita. Così avevo
avuto l’illuminazione: dovevo conoscere colui che possiede tutte le
scarpe più belle al mondo, Bernard de Trumon.
Ma, soprattutto, dovevo visitare il suo studio: un magazzino sui tetti
di Place des Vosges in cui è conservato il meglio della moda, e di cui non
esistono foto in rete. Una volta dentro il palazzo, viene chiesto di lasciare
all’ingresso cellulari e qualsiasi dispositivo dotato di telecamera o
registratore. Non esistono tracce della sua voce, né sue fotografie. Di lui
non si sa praticamente niente, comunica attraverso i social network – i
capi che mette su instagram ricevono in pochi minuti migliaia di “like”,
scatenando un effetto domino sulle vendite, e la sua pagina facebook ha
milioni di sostenitori. Il suo blog viene aggiornato con un contributo
diverso al giorno; ogni post raggiunge il milione di visualizzazioni e
genera centinaia di commenti.
Le fortunate lettrici – una al mese – che sono state accolte nel suo
tempio sono state poi intervistate, ma nessuna si è lasciata sfuggire
niente di quello che accade oltre quelle porte. E in più, alla domanda
“Trumon di che colore ha gli occhi?” fatta dall’inviata di un importante
tabloid francese a tre di queste signore, tutte hanno dato risposte
differenti.
Tanto che un medico, consultato sul tema, ha diagnosticato in loro
una declinazione della sindrome di Stendhal. E perciò, in onore del
grande maestro, quella particolare euforia che travolge noi donne
davanti ai saldi, caratterizzata da brividi e isteria, è stata chiamata
“sindrome di Trumon”.
Colei che varca quella soglia, infatti, deve firmare un accordo di
riservatezza su quanto vedrà e, in cambio, la fortunata può scegliere un
ricordo da portare via. C’è chi ha voluto un foulard di Hermès o se n’è
andata con un bauletto di Vuitton special edition. Io non ho dubbi: se
riuscissi a entrare in quel sancta sanctorum delle meraviglie, ne uscirei
con un paio di suole rosse.
A un certo punto, quindi, per cercare di dare una svolta alla nostra
storia, dai commenti pubblici ai suoi post ho cominciato un regolare
invio di mail. Una al giorno, come si fa con i mariti in trasferta di lavoro o
con i fidanzati in missione di pace. E, dall’iniziale ”Gentilissimo Maestro”,
sono scivolata all’amichevole “Caro Bernard”.
Tutti i messaggi del mio monologo si chiudono con un congedo che
rimanda a una non ben precisata trasferta di lavoro in terra francese.
Perché sia chiaro che non cerco rimborsi per il viaggio o cose simili.
Eppure Trumon continua a tacere, tanto che, trascorsi tre mesi dall’inizio
di questa parabola, mi trovo allo stesso punto da cui sono partita. Io a
Milano, lui a Parigi.
Ho tenuto segreta questa follia ai miei amici, fatta eccezione per
Irene, che è l’unica che può comprenderne il senso. Il senso che non c’è,
in verità.
«Ma come fa?» chiede Irene, leggendo i consigli di seduzione sul
blog di Trumon.
«Geni si nasce, non si diventa» sentenzio, rassegnata.
È inutile opporsi all’evidenza, l’uomo dei miei sogni non mi
considererà mai. D’altronde, cos’ho io di diverso dalle altre migliaia che
lo seguono con religiosa devozione? Evidentemente, agli occhi del guru
della moda io non esisto.
Per distogliermi da quest’ossessione a senso unico, Irene mi ha
convinto a una fuga fuori porta. Io e lei da sole. Senza zavorre al seguito –
Mr Buk o i cani. I magnifici tre rimarranno a casa a fare la guardia,
mentre noi ci rilasseremo tra vasche termali e grolle di vino.
«Gli scriverai lunedì» cerca di consolarmi Irene. «Se per due giorni
non ti legge, credo che se ne farà una ragione. E poi, lontano dagli occhi
non sempre coincide con lontano dal cuore. La distanza aiuta a mettere
meglio a fuoco i sentimenti: questione di diottrie e di lenti.»
Sono grave: innamorata, non corrisposta, e abbandonata ancora
prima di esserci uscita una volta.
SUL CUCUZZOLO DELLA MONTAGNA

– 41 giorni al matrimonio
«Perché Pré Saint Didier? Le Terme di Milano non andavano bene?»
chiedo.
«Clo, mi stupisci, in fondo sei tu la creativa.»
Faccio spallucce. L’asfalto corre veloce sotto le ruote dell’auto.
«Ci sono un sacco di tipi interessanti fuori da Milano ed è arrivato il
momento di diversificare.»
«Ma diversificare, che? Sarà una succursale di corso Como e poi io
sono fidanzata!» mi difendo.
«Be’, ma io no! Fortunatamente non tutti fanno gli stessi errori, e
comunque c’è sempre tempo per redimersi. Finché non percorri la
navata di una chiesa a braccetto di tuo padre vestita di bianco, direi che
non è troppo tardi.»
«Io non mi vestirò mai di bianco!» esclamo.
«E non ti sposerai mai in chiesa, magari» aggiunge Irene.
«Esatto.»
Irene scala: è perfettamente a suo agio al volante della Z4 color
cachemire. Stasera ho fatto in tempo ad arrivare a casa e buttare al volo
qualcosa nel trolley che lei già mi invitava a scendere. E siamo corse via.
Di solito succede quando vogliamo festeggiare qualcosa – l’inizio o
l’epilogo dei nostri amori immaginari che durano lo spazio di una notte,
le promozioni o i litigi sul lavoro – con appuntamenti che scandiscono la
nostra amicizia e sono per noi un bene prezioso a cui non sappiamo né
vogliamo rinunciare.
«Camogli?» propongo, vedendo il cartello che segnala l’area di
servizio.
«Date le latitudini sarebbe meglio un valdostano.» Irene non ne se
fa scappare una.
«Ma non esiste!» fingo d’indignarmi.
«Perché tu sai a memoria tutti i panini dell’Autogrill?»
Ci fermiamo vicino Aosta per un panino da camionista e una Coca-
Cola Zero per corrodere quel mattone.
«Comunque Baby dà veramente degli ottimi consigli», mi racconta
Irene mentre mastichiamo di gusto. «Mi ha decantato le bellezze delle
terme valdostane al punto da persuadermi a partire.»
«Con quale grimaldello?» chiedo, ironica.
«Dice che c’è un sacco di gente interessante.»
«Non che voglia infrangere i tuoi sogni, Ire, ma alle terme si va in
coppia.»
«Cosa vuol dire? Anche noi andiamo in coppia senza esserlo, e
comunque le terme Saint Didier sono una colonia meneghina. Massimo
risultato con il minimo sforzo.»
«Devono essere “interessati” più che interessanti…»
«Dettagli!»
«Piuttosto, mi spieghi come mai un armadio a due ante come lui si
fa chiamare Baby?»
«Patrick Swayze.»
«Ma non è morto?»
«Sì, ma ha sempre sognato che lui gli dicesse la frase di Dirty
Dancing: “Nessuno può mettere Baby in un angolo”.»
«Per un attimo ho pensato che si ispirasse al maialino
coraggioso…»
«Quello era Babe, cretina! E comunque lui è vegano.»
«Perché non sa quanto è buono il prosciutto!» dico, finendo l’ultimo
morso della mia focaccia. Il seguito del viaggio vola e, ancora con i resti
del Camogli che si dibattono nello stomaco, ci troviamo immerse in una
vasca caldissima, circondate da gente impettita in accappatoio bianco e
ciabatte di spugna. Vagano come fantasmi, gli occhi fissi sulla tisana
drenante che posano a bordo piscina. Io non potrei stare meglio e,
abbandonandomi allo sciabordio di questa marea artificiale, metto la
testa in acqua per attutire i rumori.
«Chi l’avrebbe detto», il getto dell’idromassaggio rende
intermittente la voce di Irene.
«Che cosa?» chiedo.
«Non c’avrei scommesso un euro, eppure ne è passato di tempo da
quando tu e Mr Buk vi siete messi insieme!»
«No, infatti ne hai vinti cinquanta» le ricordo.
Dalla serata del reading nella landa desolata e allagata, di mesi, in
effetti, ne sono passati. Ho superato lo scoglio dei due, raggiunto il quale
di solito il pretendente di turno mi veniva a noia. Ho guadato le paludi
del terrore, che solitamente arrivano puntuali allo scoccare della sesta
luna, di restare ingabbiata in una convivenza che mi spaventa più di
Shining. A nove mesi ho poi superato l’ansia di tornare a casa e trovare
un Cervino di vestiti appallottolati dalla sua parte del letto.
Un sacco di conquiste per chi, come me, detestava dividere il piatto
con qualcuno, figuriamoci il letto. Una considerevole crescita personale
in un annetto, ma ancora insufficiente per pensare di attraversare il
Rubicone del “per tutta la vita”. Capelli rasta e All Star non ci azzeccavano
granché con l’idea dell’uomo che avrei desiderato avere accanto.
Durante la nostra prima uscita a Rozzangeles mi aveva offerto una
birra in un bicchiere di plastica e, nonostante la roboante lotta tra i
cuscini che era seguita, avevo scommesso con Irene una cifra
stranamente alta: cinquanta euro che non l’avrei più visto. Aveva vinto
lei.
Quando l’ho conosciuto si era appena licenziato. Impiegato alle
Poste, si sentiva alienato e così, come il suo idolo, aveva deciso di mollare
le raccomandate, voltando le spalle a uno stipendio sicuro fino alla
pensione, per inseguire il suo sogno. «Bisogna tornare a sentire i battiti
del cuore, ormai coperti dal rumore delle tastiere.»
Mi piaceva come approccio e così mi sono lasciata conquistare al
punto che, nonostante la mia devozione per le scarpe griffate, ora le sue
All Star popolano la casa con il loro fetore di cane bagnato.
Tutto è avvenuto in modo graduale. Qualche uscita la sera e poi
sempre più spesso insieme. Un crescendo lineare, senza sforzi né
progetti. Con lui che mi continuava a offrire birre e io che gli restituivo il
bicchiere dopo pochi sorsi. Con lui che mi veniva a prendere col pullmino
scassato e io che mi ostinavo ad andare nei centri sociali con i tacchi a
spillo. Con lui che seminava i calzini sporchi come Pollicino le briciole e
io che continuavo a buttarli in lavatrice.
Abbiamo vissuto un presente cristallizzato, che ogni mattina al
risveglio era una conferma. Lo spazzolino, un cambio per la notte e i miei
armadi, per cui ho una vera fissazione, sono stati piano piano colonizzati
dai suoi vestiti – qualche felpa e qualche maglietta, dei jeans rattoppati e
le fantomatiche sneaker. Le maschere maori, regalo propiziatorio dei
suoi genitori, sono state lo spartiacque.
Ho capito di amarlo quando ho accettato che quegli orrendi pezzi di
legno scolpito entrassero nella mia “bomboniera”, accogliendo i visitatori
sulla porta d’ingresso. A quel punto non è stata più casa mia, ma è
diventata casa nostra e, sebbene incapaci di verbalizzare l’evoluzione, ci
siamo trovati a dividere i metri quadri a Palazzo Ranieri, facendo ben
attenzione a evitare di chiamarla “convivenza”.
Un po’ per mio padre, che non avrebbe capito, un po’ per i miei
amici, che erano anni luce lontani dallo stile di vita di Mr Buk, ma
soprattutto per il terrore che una storia nata senza impegno ci sfuggisse
di mano.
«Perché non vi sfasate?» L’acqua bolle nella pentola tiepida della
vasca esterna. Intorno, le cime delle Alpi, denti asimmetrici sfregiati di
neve.
«In che senso?» Mi sposto in modo che il getto mi arrivi sul collo.
«Voglio dire, ormai è da un po’ che andate avanti e allora, perché
non vi sposate?»
Quella che sembra una presa salda al bordo mi tradisce e finisco
sott’acqua. Un liquido amniotico a trentotto gradi che bevo in
abbondanza. Mi lascio andare sul fondo e riemergo tossendo.
«Io con una fede al dito? Di’, ma sei impazzita?», riesco a malapena
a parlare. «Perché? Sai come la penso, sono contraria alle storie che non
prendono una piega definita.»
«O definitiva? Io sono fatta per il carpe diem» concludo seria.
«Macché, tu sei fatta e strafatta», mi corregge Irene, «ma per lo
scarpe diem.»
E, con una risata, il discorso si esaurisce nella sauna e si estingue in
un bicchiere di Chardonnay per reintegrare i liquidi.
Complice un campo latitante, i giorni alle terme trascorrono
nell’isolamento più completo. A due passi dal cielo, l’aria pura facilita la
rimozione del mio pensiero fisso per Trumon, ed è già ora di rifare i
bagagli. Irene si rimette al volante e la strada sfila con la sua girandola di
cartelli.
«Grazie per aver insistito.»
Irene mi guarda incuriosita. «A far che?»
«A portarmi via da Milano. Credo che questo week-end mi sia
servito.»
«Se lo dici tu: torniamo a bocca asciutta, esattamente come siamo
partite. Adesso Baby mi sente, lui e le sue fantasie da “mille e una
vasca”!»
«Non dire che non ti avevo avvisato che nella stanza del sale ci
sarebbero state solo amabili coppiette. Io sono soddisfatta, invece. Stavo
proprio esagerando!» concludo.
«L’ultima grolla ti ha aperto gli occhi sulla durata della relazione
con Mr Buk?»
«Ma va’, ho una gran voglia di vederlo.»
«Non è che il bombardino ti è entrato in circolo e hai capito che è
arrivato il momento di battere cassa?»
«Figurati! Userà il suo cagnolino in ceramica per metterci gli
spiccioli che guadagna come dog-sitter.»
«Merita rispetto anche come interior designer, allora. Vediamo»,
scala la marcia e supera un tir, «forse la cipolla allucinogena della
fricassea ti ha fatto capire che è ora di chiedere un aumento di stipendio
al tuo capo?»
«Ricordi? Sindrome di Stoccolma sia per lui che per Mr Buk, e
perciò non riesco mai a chiedere nulla né all’uno né all’altro.»
«Va bene, getto la spugna. So che c’entra il risotto ai porcini, che
avevano un sapore troppo psichedelico per provenire dalle valli locali,
ma non ci arrivo. Cos’è
successo?»
«Mi sono lasciata andare troppo.
Con il guru della moda, intendo.»
Irene si volta verso di me e mi picchietta delicatamente il pugno
sulla testa. «C’è nessuno, qui? Ma ti rendi conto che ti sei fatta un film
tutto da sola?»
«Ma non eri tu che all’inizio mi davi manforte?»
«Hai detto bene: all’inizio. Passi per scrivergli una volta. Vada per
due. Ma poi esageri.»
«E comunque, ho deciso: smetto.»
«Ohhh, finalmente!»
Il cellulare vibra all’uscita di Saint Vincent per una notifica di
facebook.
«Ci fermiamo per un chemin de fer?» chiedo, mentre Irene imbocca
lo svincolo e in lontananza scorgo il casinò.
«Ci fermiamo prima che il chemin de fer», e dà un colpetto sul
volante, «ci lasci a piedi. Sono senza benzina e c’è il distributore
automatico. Non è che mi aiuti?» Le amiche servono nel momento del
bisogno.
DITELO CON UN’E-MAIL

– 39 giorni al matrimonio
Le italiane! Ostinate e caparbie, eppure quando non ci siete si sente
la vostra mancanza.
Ci sei riuscita, cara Clorinda, a convincermi a risponderti.
Allora, quando passi per Parigi?
Bernard de Trumon
P.S. Aspettando la piadina, ça va sans dire.

Il sole di un crepuscolo imbronciato taglia le ombre dei palazzi


mentre rileggo, per la trentacinquesima volta, le parole del guru. Bernard
de Trumon, l’indiscusso re della moda, ha deciso di instaurare un legame
con me. Scrive in un italiano perfetto, e si è palesato, ne sono certa, in
risposta al mio silenzio.
Aveva ragione Irene, allora: l’allontanamento ha portato i suoi
frutti. Il passaggio da lenti da miope a quelle da presbite ha felicemente
influenzato Bernard de Trumon. L’ho ignorato per due giorni e lui,
notando l’assenza, ha sentito il bisogno di commentarla.
La cura disintossicante da social network e la mancanza di
copertura di rete sulle vette hanno portato questo risultato. Il maestro è
entrato in scena.
Corro al computer e, di getto, inoltro la mail a Irene. Il tempo
dell’invio e lei è già in chat.
IRENE: Ave, zecca!
CLORINDA: Che dici? L’ho preso per sfinimento?
IRENE: Non guardare i mezzi ma l’effetto ottenuto. Ci sei riuscita.
Punto e basta. Evidentemente la fortuna aiuta gli audaci e io mi
sbagliavo…
CLORINDA: Cosa scusa, puoi ripetere?
IRENE: Che la fortuna aiuta gli audaci?
CLORINDA: No, la seconda parte. La immagino sospirare.
IRENE: Lo so che è incredibile dover constatare che anch’io posso
essere fallace, ma i fatti mi davano ragione: passati tre mesi nessuno si
sarebbe illuso di ricevere una risposta, tranne un’ostinata sognatrice
come te.
M’invade una soddisfazione pari a quella che proverei acquistando
un paio di suole rosse con il 70% di sconto.
CLORINDA: Oggi è un giorno da segnare sul calendario!
IRENE: ?
CLORINDA: Lascia stare. Piuttosto, che gli rispondo? E cosa vorrà
dire “quando passi per Parigi”?
IRENE: Che sei una simpatica stalker? Comunque complimenti, la
mamma non ti ha insegnato che le bugie hanno le gambe corte?
CLORINDA: Non ho detto una bugia… ho solo colorato un po’ la
realtà!
IRENE: Sì, sì certo! Ciao zecca, ricordati di salutarmi Monsieur de
Trumon quando lo incontri.
Chiude la chat.
Andrò a Parigi. Entrerò nel sancta sanctorum. Chiacchiererò
amabilmente con il genio della moda e come souvenir, per dirla in
francese, porterò con me un paio di suole rosse, che preferisco
nettamente alle rose.
Apro la cabina armadio. Una pila di scatole colorate mi riporta
indietro nel tempo. Il Grande Asfaltatore scandiva le ricorrenze
regalandomi un paio di Louboutin. Il primo era stato un modello in
vernice, poi, per celebrare i tre mesi, mi aveva regalato quello che avevo
battezzato il “trilogy”: una peep toe di quattordici centimetri tempestata
di cristalli. Che resta il pezzo più bello dell’intera collezione.
Le indosso e, se non mi trovassi a Milano e non avessi il terrore di
rovinarle, proverei a battere i tacchi come Dorothy del Mago di Oz. Con
quelle scarpe ai piedi trovo il coraggio.
Accolgo questa sua mail come un invito. Sarò a Parigi per lavoro la
prossima settimana. Potrei ritagliarmi uno spazio. Se per lei non ci sono
problemi, ça va sans dire.
So già cosa direbbe Irene:
“Guarda che non ti ha invitato. La sua era una formula di cortesia
per chiudere la bocca a una groupie delle scarpe. Non ti ha mica detto che
eri la vincitrice del mese!”. Ma non la ascolto. È il mio giorno fortunato,
me lo sento, nonostante abbia mentito a Trumon.
Insomma, il lavoro in terra francese è inesistente, ma è una bugia a
fin di bene che serviva per motivare la mia calata sui Campi Elisi.
Sono stata assunta alla Metello & Partners come addetto stampa –
matricola numero 9170 –, per trasformare in veline i rigurgiti dei piani
alti, da inoltrare poi a giornalisti e direttori di testata.
Presto sono diventata famosa per i titoli che davo ai comunicati, più
incisivi degli slogan che giravano per i corridoi del sesto piano. Lì dove
c’erano i creativi, quelli che inventano il claim ideale per qualsiasi
prodotto. Insomma, un’utopia per l’ultima arrivata all’ufficio stampa… e
invece, il mio nome era giunto alle orecchie di “Leader Minimo”, un
virtuoso dirigente che mi ha trasformato nella sua creativa di
riferimento.
Merito dei tacchi gialli che indossavo il giorno del colloquio.
Il dottor Lucio Minimali vorrebbe incontrarla.
La sua segretaria, con poche parole che non lasciavano possibilità
di replica, mi aveva invitato a raggiungerlo.
Minimali si era autonominato il Leader Maximo dell’agenzia.
Peccato che, accecato dal suo ego smisurato, non si rendesse conto che
per tutti era il “Leader Minimo”. Nome in codice “ElleEmme”.
Quando avevo bussato alla porta del suo ufficio avevo notato la
scritta che campeggiava accanto al suo nome: “La competizione è
fondamentale per perseguire gli obiettivi, perché il fine giustifica i
mezzi”. Mi aveva fatto accomodare, offerto un caffè per mettermi a mio
agio, e poi mi aveva presentato la proposta.
Complice il tavolo di cristallo, era stato ipnotizzato dai miei stiletti
gialli. Merito o colpa loro, perciò, se Minimali è diventato la mia croce.
Dal lancio di un mastice per dentiere ero passata alla pubblicità del
dentifricio – e lo slogan “Sbianco e non ti faccio andare in bianco” era
diventato un tormentone televisivo. Poi era arrivato il successo.
Ci eravamo aggiudicati la campagna per il lancio della nuova
collezione di solitari di un’importante griffe di gioielli, quella che era
diventata in codice l’operazione “per tutta la vita”.
Durante quei mesi mi ero isolata nel mio nuovo ufficio –
conquistato grazie al dentifricio che più bianco non si può –, e avevo
rivisto a ciclo continuo i film con Audrey Hepburn in cerca dell’idea
giusta, che desse contemporaneamente un senso di continuità e di
innovazione.
Mi presentavo al lavoro con guanti di raso sopra il gomito, gonne a
palloncino strizzate in vita a prova di respiro e cappottini a trapezio per
non dimenticare che Audrey doveva essere il mio modello. Il buffo era
che proprio io, terrorizzata dall’idea del matrimonio, fossi finita a
occuparmi di quella campagna.
Adoravo partecipare ai matrimoni degli altri – mi piacevano gli
abiti, mi divertivo a sparlare delle mise altrui, a contestare i canapè dei
banchetti e a verificare quanto kitsch potessero essere certe bomboniere
–, ma lo spettro della routine mi spaventava quasi quanto il trapano del
dentista.
Eppure, quando provavo quelle pietre preziose che ogni mattina la
guardia giurata mi portava in ufficio per poi riprenderle la sera, mi
trasformavo in una moglie, con l’arrosto caldo nel forno in attesa del
rientro di un marito felice. E un giorno l’illuminazione era arrivata. Avevo
presentato la campagna nella sala riunioni di Ambrogio Metello, il
proprietario dell’agenzia, al cospetto dei partner impettiti in giacca e
cravatta riuniti intorno all’immenso tavolo ovale in radica.
Il filmato era partito e le note di For Once in My Life avevano
accompagnato la mia Audrey che si chiudeva alle spalle un mondo in
bianco e nero per entrare in un’elegante boutique di Montenapoleone.
Il mercato italiano aveva risposto talmente bene alla campagna, che
l’amministratore delegato dell’azienda mi aveva regalato uno dei loro
anelli. Avevo perciò ottenuto il brillante di fidanzamento, senza dovermi
poi sposare. Lo conservavo nella sua scatoletta, e non ne avevo nemmeno
parlato a Mr Buk. Una sera, per l’ennesimo reading, l’avevo indossato e
lui si era intristito.
«Mi spiace che tu metta i ricordi di un tuo ex.»
Ma non mi ero dilungata in spiegazioni e, da allora, rimiravo quella
meraviglia quando ero sola in casa.
Anche se non potrò mai ricevere un gioiello del genere dal mio
fidanzato, a me Mr Buk, con tutte le sue mancanze e i suoi difetti, piace.
Scrive poesie, comunica con i cani e cucina benissimo. Ha la mappatura
completa dei mercati milanesi – anche se, a detta sua, per frutta e
verdura il migliore è quello di Benedetto Marcello –, e va in giro a
scovare i prodotti a chilometro zero.
La sua è una vita circolare, rotonda come la tangenziale di Milano:
terminato il giro dei cani, passa dal computer al letto, dal letto al divano,
dal divano al frigo e dal frigo di nuovo al letto. Si aggira per casa in cerca
d’ispirazione in una bionda gelata, anche se il termometro fuori dalla
finestra indica temperature polari, con indosso un pigiama a righe che
non toglie nemmeno in caso di visite. I miei genitori hanno ridotto
drasticamente i saluti alla loro unica erede, quanto a quelli di Mr Buk,
non li ho mai incontrati. Li ho chiamati un paio di volte per augurare loro
buon Natale o una splendida estate o ringraziare per le maschere maori,
ma il tutto si è esaurito in un repertorio di battute formali.
I giorni in cui mi sveglio storta sento che il rapporto con Mr Buk
non mi basta. Ma quel pungolo, così come arriva, subito torna a placarsi.
D’altronde, mi dico, sono ancora libera di scegliere e come ripete Irene:
«Senza la fede al dito, puoi aver fede d’incontrare Clooney».
Insomma, mi basta guardare l’anulare sgombro per pensare che la
vita può ancora riservarmi infinite sorprese, e il mio cuore tumultuoso
torna a chetarsi.
PERVINCA BACCO!

– 37 giorni al matrimonio
Ci sono giorni speciali e a suggerirlo è sempre un indizio, spesso
minimo, un dettaglio impercettibile.
Striscio il badge, si alza la sbarra, parcheggio, la guardia alla
reception mi consegna la chiave del mio ufficio, il logorroico dall’alito alla
caffeina commenta i titoli dei giornali per i sei piani di ascensore, la pigna
dei comunicati stampa davanti alla porta di Leader Minimo.
Tutto come da copione, insomma.
Ma, svoltato l’angolo, trovo la sorpresa: un uomo fermo davanti al
mio ufficio, due barattoli di vernice e un pennello in mano.
«Ha presente il color pervinca?»
A seguito del successo riscosso dalla campagna “per tutta la vita”,
ho ottenuto che le pareti del mio ufficio siano ridipinte del colore che
preferisco.
L’imbianchino, un ometto tozzo dalla barba sfatta, mi guarda
perplesso.
«Si tratta del celeste dal fondo grigiastro che prende il nome
dall’omonimo fiore. Una via di mezzo tra il blu Savoia e il fiordaliso, ma
un po’ meno turchese del Tiffany, insomma ceruleo quanto basta per non
risultare stucchevole.»
«Fiordaliso? Savoia? Tiffany?» Si gratta la testa. Sta pensando che
sono matta, ne sono certa. È completamente perso e, dopo cinque minuti
di lezione sulle sfumature, il suo sguardo è così vitreo da farlo sembrare
vittima di una paresi fulminante. Se ne va sbuffando, e torna con altre
latte, cercando di propinarmi un turchese evidenziatore.
«Sì, ma adesso mi procura anche il camice!»
Poche vigorose pennellate hanno trasformato l’ufficio in una sala
operatoria. Tanto che Leader Minimo, affacciandosi mentre la tintura è
ancora fresca, lo battezza con una freddura delle sue: «Benvenuti alla
clinica Benvenuti!».
E, comunque, devo dargli ragione.
«Insomma, possibile che lei non abbia mai visto un Rembrandt?»
sbotto con l’imbianchino. «Il pervinca è il colore dei suoi cieli.»
L’uomo con la tuta a spruzzi mi scruta con occhi speranzosi, come
se il futuro si fosse posizionato all’orizzonte. Oltre quella parete di cui
ignora il colore. Lui conosce tutti i grigi del cielo di Milano: l’intera scala
con le sue duecentocinquantasei tonalità, dal piombo, all’antracite, fino al
perla.
«Orpo, e non va bene quello di Milano?»
Sto per gettare la spugna quando, in un lampo di lucidità, tento
l’ultima possibilità: «Lei conosce facebook?».
«Certo, più tardi le chiedo l’amicizia» replica, stampandosi sulle
labbra un sorrisetto ironico.
«Bene, che ne dice se tentiamo di avvicinarci a quel blu?»
«Dovrei rivederlo…»
Mi collego e giro il monitor in modo che lui possa osservare la
schermata pervinca del mio pc.
«Bastava dirlo che voleva le pareti lavanda con una punta di
polvere!» esclama in tono un po’ scocciato.
Sospiro e decido di sfruttare la poca forza che mi è rimasta dopo
l’interazione dialettica più complessa degli ultimi anni per accedere al
mio profilo. Non che mi aspetti una risposta da Bernard de Trumon,
anche se in cuor mio mi piacerebbe.
E invece, ad attendermi c’è un messaggio, custodito in una bustina
color lavanda, stemperato da una punta di polvere.
Pervinca, appunto.
«Oh, mio Dio! Oh, mio Dio! Oh, mio Dio!»
L’urlo trafigge i timpani del tinteggiatore, che scivola dalla scala,
rovesciando la tolla di vernice.
«Si sente male, signorina?»
Giro intorno alla scrivania e corro ad abbracciarlo. «Lei è testimone
di un evento storico.»
Alza le braccia, mentre la tinta continua la sua corsa verso terra.
«Lei non capisce… si è appena realizzato il sogno di milioni di
donne. Nella mia persona!»
La tinta cola sulla moquette senape, che si impregna restituendo un
colore itterico.
«Incontrerò il maestro, il genio assoluto della moda! Ci vedremo a
Parigi, all’ombra della Tour Eiffel. Ma non è un sogno?», ed esco
dall’ufficio salutandolo con la mano.
«Tutto da ricominciare» lo sento sbuffare prima di voltare l’angolo.
«Va’ su l’ostia, ti e il to pervinca!»
SECONDA PARTE
Amore, per quest’anno, a San Valentino, niente rose ma un mazzo di
décolleté dalle suole rosse.
CLORINDA BENVENUTI
VINCERE FACILE

– 34 giorni al matrimonio
Alla fine l’ho spuntata io. Con le pareti, che nonostante schizzi,
impronte e segni delle pennellate ora evocano un prato di violette, ma
soprattutto con Bernard de Trumon.
Leader Minimo si affaccia alla mia porta con un Arbre Magique al
lillà: «Consideralo un omaggio della Metello & Partners, per
un’esperienza lavorativa multisensoriale.» Appendendo alla maniglia
l’alberello di cartone, continua: «Avevo pensato, poi, di regalarti un
pastorale da usare come appendiabiti o una mitra svuotatasche… o
preferisci qualcos’altro?»
«Vuoi veramente farmi felice?»
«Ah, ecco! Ho trovato una candela all’incenso che si chiama Spiritus
Sancti e sembra di entrare in Notre-Dame ogni volta che l’accendi. È un
salasso, ma te la sei meritata: procedo con l’acquisto?»
«Hai detto la parola magica. Anzi ne hai dette due: Notre-Dame e
acquisto.»
«Vuoi andare in pellegrinaggio a chiedere un miracolo? Non che me
ne intenda, ma di solito non si va a Lourdes?»
«Non scomodare i santi: a me basta un biglietto aereo.»
So che mi si ritorcerà contro, ma non ho alternative. Tra spesa,
bollette e mutuo, ogni mese mi destreggio per mettere da parte qualche
soldo in vista delle vacanze estive, e non posso permettermi anche la
follia di Parigi.
«Ah! E quindi non mi chiederai altro quest’anno?»
Bacio le dita incrociate. «Parola di lupetto.»
In verità, siamo in ballo per una promozione e vorrei ricordarglielo,
invece taccio e sorrido. Alla fine, qualche mese in più non farà una gran
differenza, mentre perdere quest’occasione vorrebbe dire rinunciare a
stringere la mano al guru parigino.
Senza ulteriori domande, chiama la sua segretaria dal mio telefono.
«Desidera, dottor Minimali?»
«Pamela, per cortesia, chiama l’agenzia viaggi e prenota un biglietto
su Parigi per Clorinda Benvenuti. Sarà lei a darti gli estremi» dice
lanciandomi un’occhiata d’intesa.
«Ah, ovviamente scegli la tariffa più conveniente e, se non trovassi
niente, procedi con una compagnia low cost. Come progetto, inserisci
“miracolo a Parigi”… No, non stiamo lanciando un nuovo profumo. Sì, in
caso chiederò di usarti come tester. Grazie mille.»
E attacca.
«Ti sei giocata la promozione per un volo, contenta te…»
Facendo appello alla calma interiore che ho imparato in un corso di
yoga su internet, respiro profondamente e gli regalo un sorriso
bianchissimo – grazie alla fornitura a vita regalatami dal cliente.
Devo assolutamente avvisare Irene delle novità.
«Se mi scusi, vorrei chiudere alcune pratiche» dico a Lucio prima di
rimettermi su facebook.
«Al tuo rientro da Parigi ti aspetta qualcosa di molto grosso.»
Lo guardo incuriosita. «Non puoi accennarmi nulla?»
«Diciamo piuttosto che non ho intenzione di accennarti nulla.
Salutami la Tour Eiffel.»
E se ne vanno, lui e la sua scia di dopobarba.
VOLERE VOLARE

– 30 giorni al matrimonio
Il gigante d’acciaio rulla sulla pista, le ruote calcano l’asfalto mentre
le eliche iniziano a girare per portarmi via da Milano, in una giornata al
suo debutto.
La testa è già ad alta quota e il cuore mi batte all’impazzata.
Ancora non mi capacito di quanto sta accadendo. Alla fine Pamela
ha scelto un’ottima tariffa, con la pessima controindicazione di orari
improbabili: risveglio antelucano per essere a Linate all’alba e rientro
alle cinque di pomeriggio. Ho programmato tutto nei minimi dettagli, se
non sgarro riesco perfino a tornare a casa senza che Mr Buk se ne
accorga. Un lavoro pulito, senza lasciare tracce del miopassaggio.
Incontrerò Bernard de Trumon.
Tanto basta.
«Signorina, potrebbe alzare lo schienale?»
Il colosso, presa la rincorsa, si stacca da terra. Sotto di me, la
scacchiera ortogonale meneghina, l’Idroscalo, la torre televisiva. Vedo la
mia piccola Manhattan sbiadire tra le nuvole di smog sul verde della
pianura padana.
Sfoglio il giornale per darmi un contegno ma ho il cuore in gola. E
non solo per Trumon.
L’ho notato agli imbarchi e ho pensato a un’allucinazione dovuta
alla melatonina. Mi sono strofinata gli occhi per controllare meglio, ma
lui era ancora lì, in fila davanti a me. Non c’erano dubbi, dunque: il
Grande Asfaltatore stava salendo sul mio stesso volo. Benedetta non
pervenuta, ma con lui c’era una vezzosa trentenne. Niente a che vedere
con la ragazza in ballerine, questa era molto più grintosa, in Borsalino da
uomo calcato in testa, pantalone in raso a sigaretta e Oxford ai piedi. Lui
non mi aveva visto, ne ero certa, era troppo concentrato a flirtare con la
nuova conquista. L’avevo seguito con lo sguardo fino a quando si era
imbarcato.
Noi ci siamo conosciuti così, su un volo per Parigi. Il caso aveva
voluto sedessimo accanto e io ero rimasta subito affascinata dal suo
profumo. Era stato lui a cercare un pretesto per attaccar bottone,
allungando il collo per capire quale pagina del quotidiano che avevo in
mano stessi leggendo e dando origine a una lunga serie di
fraintendimenti. Io, che per prima cosa leggo l’oroscopo, non avevo fatto
eccezione e quel giorno fu così rivoluzionario nella mia vita che il testo
mi è rimasto impresso: “Chiudete in un cassetto la vostra relazione e
cogliete al volo una passione. Toccherete così il cielo con un dito”. A
quell’epoca, in realtà, ero sola o, come teneva a precisare Irene,
felicemente single.
Dunque non avevo storie da chiudere, né passati da archiviare.
Vivevo alla giornata. Il Grande Asfaltatore, pensando stessi leggendo un
pezzo su un film di Kurosawa, sfoggiò la sua erudizione. Perché tutto si
poteva dire di lui, ma non che fosse un intellettuale incompleto, il cui
interesse spaziava da Proust a Cartier-Bresson. Mi piacque subito
quando capii che mi stava parlando di un regista. In verità non sono
un’appassionata di cinema: di solito mi addormento, e l’ultimo film che
avevo visto con Irene era stato il secondo atto della saga tra Carrie e Mr
Big. Ma, oltre a non essere propriamente una cinefila, se mi avesse
chiesto di dissertare sulla trama, sarei rimasta a bocca aperta: l’unica
ragione per cui avevo investito i sette euro dell’ingresso era la collezione
disegnata da Manolo per le riprese.
Posato il giornale, l’avevo osservato: il ciuffo brizzolato obliquo e
scolpito dal pettine, sobri gemelli in oro bianco a far capolino dalla
manica della giacca, le dita lunghe e le mani curate. Nell’aria un vago
sentore di mughetto.
Ne avevo incontrati, di uomini, nei miei viaggi. Alti, magri, bassi,
stempiati o capelloni, eleganti o trasandati, potevano essere divisi in due
grandi categorie: logorroici o taciturni. I primi interpretavano il volo
come momento per esplorare il pianeta donna, vomitando addosso alla
sciagurata vicina di posto inverosimili racconti sulle mogli, arpie incapaci
di amare, e sui figli ingrati, refrattari all’educazione. Gli altri, invece,
trascorrevano quel tempo tra decollo e atterraggio concentrati sulle
schermate dei portatili, che avviavano appena era consentito.
Tutti mi avevano fin lì lasciato indifferente, ma quell’uomo
incontrato sul volo per Charles de Gaulle mi piacque dal primo istante.
Ero anche riuscita a rovesciargli addosso il caffè. E lui non si era
scomposto, nonostante la macchia sulla camicia candida, ma mi aveva
lasciato di stucco con la frase che aveva dato inizio alla nostra storia, e
non avrei più dimenticato: «Porterò con me il ricordo di questo caffè per
tutto il giorno».
“Toccherete così il cielo con un dito.” Era stata una relazione
intensa, appassionata: fatta di aerei per Parigi e di binari per Milano, di
arrivi a Charles de Gaulle che erano già atterraggi a Linate e ripartenze
dalla Stazione Centrale aspettando di veder comparire la Gare de Lyon.
Di vini bianchi degustati ai tavolini di un bistrot sui boulevard
davanti ai magazzini Lafayette e di panzerotti seduti sui marciapiedi
protetti dalle vetrine della Rinascente e stretti dall’abbraccio delle guglie
del Duomo. Di baci nascosti agli sguardi dei passanti e di occhi lucidi e di
nasi soffiati su quei taxi che portavano via.
Guardo fuori dal finestrino, tra venti minuti atterreremo.
La hostess sta passando con il carrello e chiede se i passeggeri
desiderano un secondo giro di caffè o tè. Mi allungo per richiamare la sua
attenzione.
«Posso avere un caffè?» domando.
La ragazza, uno chignon stretto sulla nuca e la camicia con il nome
della compagnia stampato sul cotone, versa l’inchiostro marrone in un
bicchiere di carta e me lo porge. A quel punto le faccio capire con un
cenno del capo che devo passare e lei arretra il carrello per permettermi
di alzarmi. Durante la manovra fingo di perdere l’equilibrio e il caffè
finisce sul Grande Asfaltatore, che finalmente si accorge di me.
«Ops, scusa.»
Questa volta ad arrossire è lui, ma di vergogna.
«Non si preoccupi» risponde freddo, fingendo di non conoscermi.
«Così, porterà con sé il ricordo di questo caffè per tutto il giorno»,
lo cito e torno a sedermi.
Anche questo giorno cambierà la mia vita, ne sono certa.
PARIGI VAL BENE UNA SCOMMESSA!
Appena atterrati, esco di corsa dall’aeroporto, buttandomi alle
spalle l’incontro con il Grande Asfaltatore e infilandomi in un taxi.
Mi abbandono contro il sedile, riprendo finalmente fiato.
“Bonjour, je suis Clorinda ”, “Comment ça va?”, “Quel honneur
d’être ici!”.
Improvvisamente niente di quello che potrei dire mi sembra
all’altezza del guru.
Il taxi si immette sulla périphérique, rischiando di speronare un tir,
e mi devo ancorare alla maniglia tanto la guida è scellerata. Sulle note di
Non, je ne regrette rien l’autista si cimenta in sonori e incomprensibili
gorgheggi.
Quando imbocchiamo l’uscita “Paris - Centre ville”, il mio cuore
sembra un orologio impazzito: sussulta a ogni buca e non so se sia per
colpa dello squilibrato al volante, per lo sconvolgente incontro in aereo o
per quello che mi aspetta. In ogni caso, rischio un infarto.
Il tassista mi osserva dallo specchietto.
«Se vuoi sembrare una diva, devi assomigliarle», mi aveva ricordato
Irene.
Avevamo passato in rassegna le star più amate da Trumon, ovvero
quelle con cui civettava su twitter e che si affidavano a lui per la mise da
sfoggiare sul red carpet a Hollywood o sulla promenade di Cannes, e
avevamo optato per una bomba sexy in miniatura: una ballerina di
burlesque.
Poi eravamo andate in un negozio di roba vintage consigliato da
Baby a cercare un abito anni Cinquanta.
Avevo provato praticamente tutto: dalle gonne a palloncino ai
bustini steccati, dai vestiti a ruota alle giacche a trapezio. Niente che
stupisse e, soprattutto, nulla che fosse della mia misura. Le maniche
troppo lunghe o i fianchi stretti, le vite sottili a prova di respiro e i colori
sgargianti.
Era stato Baby a deliberare: «Ho deciso: leggings in ecopelle con
bustino abbinato».
«Mi sembra un po’ eccessivo» avevo azzardato.
«L’eccesso è la regola nel mondo della moda!», mi aveva zittito lui.
«Dunque, ora cerchiamo qualcosa da metterti in testa.» E aveva
recuperato una parrucca in acrilico nera come la pece. Se solo qualcuno
mi si fosse avvicinato con una sigaretta avrei preso fuoco.
«Portati un estintore, mi raccomando!» aveva concluso.
Irene mi aveva guardato con attenzione – profilo destro, profilo
sinistro, frontale –, prima di commentare: «A me ricordi Dita…».
«Von Teese?», avevo sperato.
«Macché, una travesDita!»
Nonostante il sarcasmo di Irene, il timore di non essere
sufficientemente diva mi ha convinto a buttare in una borsa tutto
quell’armamentario e, sperando che il tassista non si scomponesse,
procedo con la trasformazione.
Prima di partire ho controllato su Google Maps il tragitto da Charles
de Gaulle al centro città. Il guru, anzi, la sua segretaria aveva richiesto
categoricamente la puntualità: il tempo di Bernard de Trumon era oro –
ogni suo secondo valeva una clutch di coccodrillo e ogni minuto era una
pelliccia di ocelot.
Trenta minuti di taxi, che con questo traffico lieviteranno a
quaranta. Ma ho già sforato di venti la mia tabella di marcia, a causa del
ritardo del volo.
Sfilo i jeans e tento di scivolare nei leggings.
«Merde, sono stretti!»
La respirazione si fa difficoltosa appena mi ritrovo avvolta in
questa specie di muta da sub che mi fa sembrare un capitone.
Indossare il bustino di raso da sola è complicatissimo. I ganci sono
infiniti e la chiusura sul retro mi costringe a contorsioni da circense.
Allacciato anche l’ultimo fiocco, prendo la trousse, cercando di ricordare i
passaggi suggeriti da Baby: «La pelle deve sembrare cristallo e le labbra
rosse».
Spalmo un primer e della cipra avorio per rendere l’incarnato più
luminoso. Solo che sul più bello, con la punta del rossetto poggiata alle
labbra, il tassista inchioda. Il rossetto si spezza e il moncone mi disegna
uno sfregio sulla guancia.
Non gli risparmio il mio risentimento, ma lui fa spallucce,
strizzandomi l’occhio attraverso lo specchietto. La macchina riparte.
Manca poco. Fuori dal finestrino vedo sfilare i luoghi che mi ha fatto
conoscere il Grande Asfaltatore, e poi finalmente scorgo la mia meta.
Trumon ha scelto per il suo quartier generale la perfezione
architettonica nel cuore del Marais.
Ci sono alcuni bouquinistes in lontananza e profumo di croissant
appena sfornati. La piazza è delimitata da nove caseggiati, che formano
una parete ininterrotta di tre piani e un ampio solaio, e in uno di quelli
c’è lo studio del genio della moda.
Sto già sorridendo.
«Cent euro, s’il vous plaît», mi riporta alla realtà il tassista.
«Ehhh???» Sconvolta gli indico le tariffe esposte su una tabella
attaccata al sedile. «Ma se c’è scritto cinquanta.»
«Sans périphérie!» risponde. Per evitare dei lavori stradali, ha
dovuto fare una deviazione. Che mi costa come un viaggio a Roma in
treno.
Mi faccio ripetere la cifra e gli allungo la banconota. Oggi sarà una
giornata meravigliosa e niente potrà rovinarmela. Mi isso sugli stiletti di
vernice che ho stipato nel trolley e scendo dal taxi, atterrando su una
cacca di cane così grande che nemmeno Bobby Marley potrebbe
eguagliarla.
«Merde!» grido.
Sbatto la portiera dell’auto, neanche fossi una tennista a
Wimbledon alle prese con uno smash che le regalerà la partita.
«Madaaaaaame. S’il vous plaît!», sento alle mie spalle. Ma io, dopo
aver strofinato la scarpa contro un marciapiede, tiro dritto.
Dicono che porti fortuna e, dati i presupposti, non posso non
averne.
ALLA CORTE DEL MAESTRO
Succede così: gli dei per punirci avverano i nostri desideri e la
scaletta, che ho redatto nei minimi dettagli, non serve a calmarmi.
Digito veloce il numero di Irene che, al secondo squillo, risponde in
un sussurro: «Ciao, zecca, ti ricordi che sto lavorando, vero?».
«Sì, ma mi sento male. Forse ho sbagliato tutto.»
«La pressurizzazione ti ha dato alla testa? Ma non dovresti già
essere con Trumon?»
«Mancano dieci minuti…»
«Quindi io ti servo per passare il tempo?»
«No, per placare la mia ansia.»
«Non ti sei portata le gocce?»
«No, pensavo di riuscire a controllarmi.»
«Male! Hai ripassato il discorso che abbiamo scritto?»
«Sono solo frasette idiote, potevi sforzarti di più.»
«Aspetta che me lo segno. La prossima volta che mi chiedi aiuto,
risponderò “Arrangiati”.»
«Scusa, ma sono sottosopra: è successa una cosa incredibile.»
«Ovvero?»
«Ho rivisto G.A.»
«Ussignur! E come stai?»
«A livello di pancia non mi sento benissimo, ma se avessi assistito
alla scena, saresti stata orgogliosa di me. Gli ho rovesciato il caffè
addosso.»
«Come la prima volta?»
«Ma apposta e con gran soddisfazione.»
«Brava, zecca, goditi il trionfo: comunque vada, sarà un successo. E
ricorda, questa volta sei tu ad avere il tacco dalla parte del manico!»
La saluto e citofono al numero 66, come mi ha detto Nadine, la
segretaria. Aspetto. Poi risuono e come da istruzioni sorrido alla
telecamera, ma oltre allo scatto del portone non ottengo altro. Mi
accoglie un androne con una scala in marmo bianco e ballatoi intarsiati.
Mi incammino muovendomi con cautela sui tacchi, ma al secondo
piano ho la tentazione di sfilarli perché tra i leggings a prova di respiro e
l’equilibrio precario questa ascesa comincia a presentare difficoltà
impreviste. L’incertezza però dura lo spazio di un minuto, sono arrivata.
Prendo fiato, sistemando la parrucca e asciugandomi la fronte
imperlata di sudore. «Per aspera ad astra» sussurro mentre apro la
porta. «È permesso?» domando, timida.
Una valchiria, forse la stessa con cui ho intrattenuto il carteggio, mi
si avvicina spigliata. «Mademoiselle Benvenuti? Bienvenue!» E intanto mi
allunga il documento di riservatezza. Senza neanche leggere, siglo veloce
e glielo restituisco. «Il cellulare, prego.»
Allunga una mano, dita affusolate e all’anulare un’imponente
pantera.
Obbedisco.
«Ha con sé altri dispositivi che possano registrare, come tablet o
computer?»
«Non ho niente», riesco finalmente a parlare.
«E lì dentro?» Indica il trolley.
«Solo un cambio… e gli ingredienti per la piadina.»
«Vous avez dix minutes avec Monsieur Trumon.»
Mi invita a seguirla nella stanza adiacente, in cui è indaffarato un
intero esercito di impiegate sui tacchi a spillo. Mi sforzo di intercettare i
contenuti delle conversazioni ma il mio francese zoppica come me… e,
distratta dal via vai, finisco con l’inciampare. Nel tentativo di ritrovare
l’equilibrio mi piego di scatto e mi si squarcia la cucitura posteriore dei
leggings.
Sotto lo sguardo impaziente della segretaria, mi metto a frugare
nella valigia e ne estraggo una sciarpa che mi annodo intorno ai fianchi.
La stangona striscia il badge e una porta a vetri si apre, mentre io mi sto
ancora sistemando.
PROPOSTA COCENTE
«Dieci minuti a partire da ora!» Su quelle parole la porta di vetro si
chiude alle mie spalle. Pur negata in matematica, non mi serve la
calcolatrice per capire che ho 600 secondi a disposizione. Seicento
secondi che, scritti in lettere, sembrano ancora più lunghi. Ma mentre i
pensieri si avvolgono a spirale su questa considerazione, non mi accorgo
che venti sono già bruciati.
Non ho neppure il coraggio di alzare gli occhi. Intravedo intorno a
me pellicce e sciarpe di seta abbandonate sulle poltrone, guanti in pitone
e borse di coccodrillo. La stanza è invasa dai manichini – riconosco un
trench dell’ultima collezione Burberry’s e una splendida Kelly, becco
d’oca – e da relle appendiabiti piene di vestiti.
Se il paradiso esiste, deve essere questo. Prendo coraggio e mi
guardo intorno, in cerca delle mie Louboutin.
«Buongiorno Clorinda.»
Nove minuti e trenta secondi.
Non ho ancora aperto bocca.
Ripercorro mentalmente le frasi redatte da Irene. Opto per
qualcosa che non sia troppo confidenziale, perché un conto è scrivere e
un altro parlare. Prendo un respiro profondo dal diaframma,
sforzandomi di tenere la voce più ferma possibile, in modo che non
tradisca la mia insicurezza: «Bonjour, monsieur!».
Nove minuti.
«Puoi parlare italiano: lo capisco bene.»
Mi volta le spalle. Vedo solo una poltrona di velluto rosso affacciata
su place des Vosges.
Otto minuti.
Provo a concentrarmi sul respiro, lungo e profondo. Se solo sapesse
che ho barattato uno scatto di stipendio per incontrarlo o che ho mentito
al mio fidanzato per essere qui, cosa penserebbe?
Sette minuti e trenta secondi.
Ossigeno, questione di ossigeno.
Respira Clorinda. Inspira ed espira, senza fretta. Certo, se non
avessi uno squarcio sul fondoschiena, mi sentirei un po’ più a mio agio.
Sette minuti.
«Quale spot state girando a Parigi?»
E finalmente parla di nuovo, sempre senza guardarmi e purtroppo
ponendomi una domanda a cui non so rispondere. Le gambe iniziano a
tremare, si fanno improvvisamente molli.
Sei minuti e trenta secondi.
«Non c’è nessuna campagna. Volevo incontrarla e sarei stata
disposta a fare qualsiasi cosa.» La sincerità paga, no?
«Lo sospettavo.»
«E comunque, ci terrei a precisare che non ho mentito: piuttosto ho
omesso. D’altronde, per lei sarei disposta a tutto.»
Cinque minuti.
Un respiro più profondo.
«Tutto è un concetto relativo, Clorinda. Sai quante mail come le tue
ricevo ogni giorno?»
«Immagino…»
«Migliaia!»
«Be’, per quel che vale, io ho rinunciato a un aumento per essere
qui oggi.»
Finalmente la poltrona si gira, ma lui è controluce e il bagliore che
emana mi acceca. Mi riparo gli occhi. Così riesco ad accorgermi di alcuni
dettagli: il prezioso anello col monogramma sul mignolo, le dita lunghe,
un ascot che spunta dal taschino.
«Ne deduco che sul lavoro sei tranquilla. Che cosa temi, allora,
Clorinda?»
Ogni volta che mi chiamano per nome ho un sussulto. Lo faceva mia
madre quando stava per sgridarmi, la maestra per redarguirmi e anche
Mr Buk, per il quale sono Linda nei giorni della felicità ma torno a essere
Clorinda quando succede qualcosa.
«Be’, non saprei…»
«Prova a riflettere.»
«Ho il terrore del dentista», è la prima cosa che mi viene in mente.
«Qui, come vedi, non ci sono trapani. Ma se non sei qui per lavoro,
cosa sei venuta a fare?»
Su “Vogue” di questo mese hanno scritto che Trumon ha ricevuto in
anteprima l’ultima collezione delle mie scarpe preferite. Non c’erano
foto, naturalmente, ma su twitter lui si è lasciato sfuggire che i toni sono
quelli tenui del cipria e del beige.
«Be’, ho letto che ha ricevuto in anteprima una capsule di scarpe…»
«Ecco svelato l’arcano! Vorresti essere tra le prime a vederla?»
Non sto più nella pelle, ma tengo a bada la banshee che mi farebbe
gridare “Sììì!” con tutto il fiato che ho in gola, e mi limito a un pacato:
«Effettivamente».
Quattro minuti e trenta secondi.
«Non mi hai ancora detto, però, qual è la paura che affolla i tuoi
incubi. Coraggio, ormai siamo in confidenza…»
E in un attimo rivedo il mio incubo ricorrente: una navata piena di
fiori, le amiche che piangono, Irene che mi aspetta all’altare agitando le
braccia per farmi tornare indietro, mio padre che mi ripete: “Resta con
me!”, e l’organo che stona mentre le rose al mio passaggio avvizziscono.
Lo strascico del vestito diventa nero e Mr Buk al microfono scandisce a
voce alta: “Ci ho ripensato. È meglio se viviamo alla giornata”. Come se
non bastasse, la porta della chiesa si apre e il Grande Asfaltatore mi
lancia l’anatema finale: “Tu resterai per sempre sola”.
A questo punto mi sveglio e Mr Buk deve stringermi nel suo
abbraccio per riuscire a calmarmi.
Non gli ho raccontato il contenuto del sogno, né gli ho detto che è
sempre lo stesso.
È chiaro che è il matrimonio a spaventarmi ma gli rispondo: «Tutto
ciò che è eterno».
Tre minuti e mezzo.
«Interessante. E magari non ti piacciono i diamanti.»
«Uno basta e avanza.»
«Ma di scarpe non ce n’è mai a sufficienza, giusto?»
Annuisco convinta.
Tre minuti.
«Mai. Nemmeno una scarpiera piena da scoppiare può diminuire la
voglia di possederne un paio nuovo.»
Trumon alza la cornetta e fa una breve comunicazione in francese
che non capisco – maledetto il giorno in cui non ho scelto la facoltà di
Lingue, a quest’ora non mi arrampicherei sugli specchi!
Restiamo in silenzio ad ascoltare il ticchettio del grande orologio
sulla parete. O sono i battiti del mio cuore?
Quando la porta si apre l’algida signorina che mi ha accolto fa il suo
ingresso spingendo un carrellino coperto da un drappo amaranto.
Porto le mani alla bocca, emozionata.
«Ecco il modello che ti interessa», annuncia Trumon.
L’assistente tocca il tessuto e come un prestigiatore sta per
sollevarlo, ma si ferma.
«Trentasette, giusto?» chiede.
«Ma… come ha fatto?»
Trumon deve essere un mago.
«Sono numeri di campionario» mi spiega, «per cui se sei venuta qui
per loro o porti questo numero o puoi rientrare a Milano.»
Con un gesto plateale lei toglie il panno. Non sono cipria, ma color
avorio, il bianco da sposa.
Sospiro. «Che meraviglia!»
Il tacco delicatissimo sembra puntare verso il cielo mentre la pelle è
decorata da intarsi perlati. Sono aperte in punta e un ricamo di cristalli
disegna la tomaia di un mare in bonaccia. L’assistente prende la sinistra,
reggendola per il tacco come fosse lo stelo di un calice da degustazione, e
me la avvicina. Colgo l’inconfondibile firma all’interno, che anche a
questa distanza mi pare morbido come un guanto.
Mi porge la scarpa, per allontanarla subito.
«Saresti disposta a superare le tue paure in cambio di queste?»
chiede Trumon.
I tacchi brillano nel sole del mattino parigino, e le suole paiono
catalizzare i raggi di una giornata tiepida. I pensieri mi si affollano in
testa. Mi restano ancora due lunghissimi minuti.
«Le paure sono fatte per essere superate, soprattutto con una posta
del genere in gioco, ma dovrei prima capire di cosa si tratta.»
Un minuto e mezzo.
«Dell’eternità» ripete Trumon.
Il ticchettio dell’orologio sempre più pressante.
Un minuto.
«Non la seguo, potrebbe essere più chiaro?»
«Hai detto che ti spaventa ciò che è eterno. Quindi, ne deduco che
non sei sposata.»
«Esatto.»
«Eppure immagino che tu sia fidanzata.»
«Fino a prova contraria, sì.»
«Quello che ti chiedo», l’assistente mi fa passare sotto il naso le
décolleté come fossero tartufo d’Alba ipnotizzandomi con il profumo di
cuoio conciato, «è che tu superi le tue paure sposandoti.»
«Cosaaa?»
«Avrai un mese di tempo e, se riuscirai nell’intento, indosserai
queste scarpe il giorno del tuo matrimonio.»
«E se lui non fosse dell’idea?»
«Non scherzare: sono le donne a far credere agli uomini di aver
deciso di non volersi sposare.» Poi, con fare mellifluo, mi provoca: «Vuoi
provarle, ora?».
So che se le indosso non riuscirò più a farne a meno ma non posso
evitarlo: la calzata è perfetta. Un guanto morbido per i miei piedi.
«È un sogno» dico di slancio travolta dall’entusiasmo.
«Non te l’hanno detto che io sono un mago?»
Annuisco, mentre il cervello mi dice di scappare.
Quindici secondi.
«Attendo la partecipazione. Appena ricevuta il pacco partirà da
Parigi.»
Cinque secondi.
L’assistente mi fa un cenno. Il tempo è scaduto. Rendo la scarpa e,
scortata dal granatiere in longuette, esco dall’ufficio. Ma, quando la porta
sta per chiudersi alle mie spalle, il guru torna a parlare: «Perché ti sei
vestita così?».
«Per emulare le muse con cui si intrattiene su twitter!» esclamo.
Lui mi guarda stupito.
Evidentemente, come fabbricante di sosia Baby non è il massimo.
SUOLE ROSSE PER TE, HO INDOSSATO STASERA
Posted by Ivy, on January 17th, 2013
Care amiche,
tutte le donne sono dive. No, non sono impazzita, ne sono
fermamente convinta. A livello potenziale, ovviamente, poi spetta a
ciascuna di noi far fruttare la propria femminilità.
Ma per piacere bisogna piacersi: questa è la prima regola! E per
piacersi bisogna imparare ad appagarsi. Come, volete sapere?
Ritagliando scampoli di tempo dalle nostre vite frenetiche – che ci
vogliono contemporaneamente compagne, lavoratrici, fidanzate, mogli,
amanti e madri –, costringendoci a giornate che dovrebbero essere di
trentasei ore, invece delle canoniche ventiquattro, in cui ci servirebbero
cloni di noi stesse con lo smalto sempre a posto e la piega fresca di
parrucchiere.
Rispondo con piacere a Patrizia, neomamma che desidera tornare a
riappropriarsi della sua vita di coppia. Un tacco sistema tutto. Lascia il
bambino dai nonni e vai a provare scarpe per un pomeriggio intero.
Fior di psicologi, e perfino importanti filosofi come Elio, si sono
divertiti a scrivere sulla misteriosa attrazione che lega una donna alle
scarpe. E poi, se ci pensate, care amiche, cosa sono le banconote se non
pezzi di carta dall’immenso valore in cambio delle quali collezionare
splendide scarpe?
Scegli il paio più bello, Patrizia, e fatti trovare da tuo marito con
quello indosso. Così questa sera, quando tornerà dal lavoro, scoprirà la
diva che c’è in te. E ricorda: il tacco dona allure perché, quando lo
indossa, una donna si sente più femminile. E allora ondeggia con
movenze sensuali e fallo impazzire di desiderio. Addirittura, il mio
suggerimento è di non toglierle nemmeno sotto le lenzuola!
In bocca al lupo per stasera! E un saluto a tutte voi,
da Ivy,
dea del tacco e donna con quel quid in più.
TERZA PARTE
«La mia vita per un suo tacco!»
«Un tacco, da solo, è come un uomo: non vale nulla.»
«Facciamo due, allora, e non se ne parli più!»
CLORINDA e BABY
SUSHI, IL RITARDO!

– 30 giorni al matrimonio, sera


Lanterne di carta di riso, origami e ikebana ad accompagnare
l’avventore nel cuore del Sol Levante di corso Como. Se altrove l’odore
che impregna i cappotti d’inverno e il satin d’estate viene detto “fritto”,
qui si chiama tempura. La migliore della città.
L’unica nota stonata in questo francobollo d’Oriente sono i calici di
vino. Nessuno beve sakè.
«Vi sembra l’ora di arrivare?»
Indico l’orologio.
Spuntano dalla porta lasciandosi alle spalle un impetuoso
temporale.
Il gruppo sembra ancora più scombinato del solito.
«Scusa, tesoro, è tutta colpa sua» irrompe Baby. Indossa una cerata
di vernice rosa che lo fa sembrare la voluminosa tenda di uno
stabilimento balneare. «Ti piace? Ultimo acquisto di McQueen.»
«Bello è bello» rispondo, «ma con la stazza che ti ritrovi poteva
essere griffato McDonald’s che non faceva differenza.»
«Tornata acida da Parigi, eh?»
Baby si scuote, come farebbe un cane, bagnando metà dei
commensali. Lo raggiunge Irene, rossa amaranto.
«Ad ogni modo, perché questa convocazione all’ultimo? È anche un
posto inutile per la caccia. Per noi, intendo, visto che tu hai praticamente
un piede nella fossa.»
«E qui casca l’asino», cerco di prendere coraggio.
«Cos’è? Divento zia, tesoro?» domanda Baby, ironico.
Il mio silenzio li lascia attoniti.
«Perché vi sembro, forse, ingrassata?» chiedo alla fine indispettita.
«Non vorrai farci credere che…»
Irene è visibilmente interdetta per non essere stata ancora
informata. Di certo lei è una che le notizie le vuole in anteprima.
«Non preoccupatevi, non ci sono cicogne in vista: sapete come la
penso. Non potrei avere un figlio con la vita che faccio.»
«E allora di che cosa si tratta?» indaga Irene.
«Pensate al bianco e a ciò che precede il ritrovamento di un
bambino sotto il cavolo.»
Baby quasi si strozza, ingoiando senza masticare il gambero fritto
rubato all’ingresso.
«Stai scherzando vero? Sarebbe un paradosso: la regina delle single
in abito bianco!»
«E invece vi stupirò: ho deciso di sposarmi.»
«Ma perché?» balbetta Irene. «Voglio dire, cosa c’entri tu, che emani
zolfo ogni volta che traspiri, con uno strascico e la navata di una chiesa?
Le rose appassirebbero al tuo passaggio!»
La guardo stupita. «Come hai fatto a entrare nei miei sogni?! E
comunque, i miei sarebbero felici se smettessi di convivere.»
«Ma non dire cazzate: tuo padre farà i fuochi d’artificio quando ti
deciderai a lasciare Mr Buk. Facciamo una prova?» Prende il cellulare,
frugando nella rubrica per trovare il numero. «Se tu lo chiamassi in
lacrime dicendo che sei stata appena scaricata per una ventenne, ti
regalerebbe un viaggio intorno al mondo. Tu e lui, da soli, visto che passa
la vita a ricordare i vostri viaggi insieme!»
«Vi sbagliate. La state facendo sembrare peggio di quel che è.»
«Credimi, Clorinda, stai facendo una cazzata» continua Irene. «E,
poi non ci hai nemmeno raccontato come e quando te l’ha chiesto. Lo sai
che dobbiamo vedere il carato per decidere se è all’altezza.»
Bevo un sorso generoso di vino, prendo un respiro, ben sapendo
che sto per sganciare una bomba.
«Non c’è nessun carato, perché non mi ha chiesto di sposarlo.»
Baby fa cadere il sakè che la cameriera in kimono gli aveva
consegnato all’ingresso come segno di benvenuto e Maciste si tuffa per
leccarlo dal pavimento.
«Ricapitoliamo: l’anello non c’è, lui non te l’ha chiesto ma tu hai
deciso che lo sposi.»
«Esatto.»
Irene mi prende le mani.
«Tesoro, sei sicura di non essere incinta? Un piccolo ritardo può
capitare, e con la vita stressante che facciamo è ancora più facile.»
«Nessun ritardo. Sono regolare come un orologio svizzero.»
Lascia la presa, scorata. «Ma allora, perché lo fai?»
«Non vi ho convocato qui per avere il vostro parere. La decisione è
presa e il tacco è tratto.»
«Quindi cosa ci stai nascondendo?»
«Se vi mettete calmi vi racconto cosa è successo oggi.» Bevo un
altro sorso di vino. «Mi sposo per scommessa.»
Un «Cooosaaa» simultaneo si leva dal tavolo.
«Per un paio di scarpe. E ho un mese di tempo.»
Un secondo e un terzo «Cooosaaa» più forti del precedente
accompagnano le mie parole.
Veniamo interrotti dalla cameriera.
«Ordiniamo» dico. «Abbiamo una cena intera per discuterne.»
UN INVOLTINO NON FA PRIMAVERA
Il ripieno degli involtini primavera non è ben identificato. Si
riconosce il cavolo, certo, e la carota, quanto alla carne, leggende
metropolitane narrano che in Cina il randagismo si combatta a colpi di
involtini, appunto. Io ne sono ghiotta. E anche Maciste, che tenta di
ipnotizzare con lo sguardo da cane bastonato i vicini di tavolo. Basta
un’incertezza, un secondo di troppo, che lui si lancia sul boccone.
Irene lo sgrida: «Vuoi fare anche tu la stessa fine?», e il cane sembra
capire e va a rintanarsi nella sua borsa.
«Non maltrattarlo, dài.»
«Se fosse un pechinese ci sarebbe la foto segnaletica all’ingresso:
“Io non posso entrare, a meno che non voglia diventare ripieno per i
ravioli al vapore”. Che poi non capisco perché tu debba sempre portarti
dietro sto toporagno casinista.»
«Conosci il significato dell’espressione “aiutare il prossimo”? Mr
Buk non si sentiva bene, così ho portato Bobby e Maciste a fare il giro e
mi sono buttata in taxi.»
Una ragazza urta per sbaglio Maciste, che atterra fuori dalla borsa.
Baby non gliele manda a dire: «Screanzata, ti auguro di confondere il
wasabi con il detergente intimo».
Raccolgo il cane che, sebbene non si sia fatto nulla, guaisce.
«Smettila Baby, è di gomma e sa cadere meglio dei gatti!»
interviene Irene.
In realtà, Maciste è l’attrazione della serata. Non c’è donna o
diversamente etero che non si fermi ad accarezzarlo. Questa sera indossa
un cappottino Bauberry – imitazione canina della nota griffe inglese –, e i
fashion addicted non mancano di notarlo.
«Maddài, Ire, è carino.» Baby gli accarezza il muso e Maciste
ringhia.
«Ha racimolato più complimenti lui che se si fosse materializzata
Cameron Diaz! E comunque, stiamo perdendo il filo del discorso. Clo,
racconta bene.»
Entro nel merito della scommessa, mentre la cameriera ci serve una
barca di sushi e sashimi.
«Sembra una portaerei. Ma quanti pezzi sono?»
Afferro con le bacchette una fetta di tonno mentre racconto loro i
dettagli dell’incontro. Quando arrivo all’uramaki California sopravvissuto
sulla poppa della nave, sto sciorinando i miei dubbi e poi, finalmente, mi
interrompono.
«Ma un mese è pochissimo per organizzare un matrimonio!»
«Lo so, Ire, è per questo che ho bisogno di voi. L’organizzazione è
un dispendio enorme di energie.»
«E di denaro» irrompe Baby.
«Non ci hai ancora detto la cosa più importante. Qual è il budget a
disposizione?»
«Non ne ho idea. Dovrei controllare il conto corrente. Credo intorno
ai cinquemila euro…»
In realtà, sono certa di non avere così tanti soldi.
«Cooosaaa??? Ma non ti compri nemmeno il vestito!»
«Non è colpa mia: il mutuo è un salasso e poi tra bollette e imposte
varie non si riesce a mettere da parte un euro!»
«Di’ piuttosto che tra Zara, H&M, Mango…»
«Sì. Però Mr Buk, quando capirà che dovrà sposarti, sempre che
realizzi prima del fatidico giorno, parteciperà attivamente ai costi della
cerimonia?» indaga Irene.
Maciste, sentendosi responsabile per il suo padrone, ha un sussulto.
«Non ne se sarei così convinta: ha appena iniziato a lavorare.»
«Appunto!»
«Sì, ma senza un vero e proprio tariffario. Praticamente si fa dare
un contributo a discrezione del padrone del cane.»
Baby scuota la testa. «Siamo messi male. Per non dire malissimo,
ma qualcosa ci inventeremo. Sarà la nostra personale mission
impossibile. Prima di dare inizio alle danze, però», Baby agita una
bacchetta come un direttore d’orchestra, «Mr Buk dovrà chiederti in
moglie.»
«E come?» domando.
«Tu hai già l’anello, giusto?»
Penso al meraviglioso gioiello custodito nella sua scatoletta azzurra
e annuisco.
«Ottimo, già questo è un gran risparmio. Ora bisogna convincerlo
che non vede l’ora di sposarti.»
«Ma non è vero!» Non riesco a trattenere l’urlo.
«Questo è un dettaglio e poi lui non lo sa. Andiamo per gradi. Qual è
il ristorante della vostra prima uscita? Quello che vi ricorda l’inizio della
vostra storia.» Baby è un fiume in piena.
«Ci sarebbe un toscano in porta Venezia…»
«Benissimo, domani sera dagli appuntamento lì.»
«È da una vita che non usciamo da soli. Sapete», accarezzo la testa
di Maciste, «a causa dei cani. Maciste sta in borsetta e non è un problema,
ma Bobby Marley si deprime se sta a casa da solo e lascia “ricordi”
ovunque…»
«Vuoi che te li tenga io?» azzarda Irene.
«Ma non sei allergica al pelo?»
«Mi farò di antistaminico, che insieme al vino ha effetti psichedelici.
D’altronde per un’amica questo e altro.»
Irene allunga le mani sopra il tavolo e noi aggiungiamo le nostre:
«Un tacco per tutti e tutti i tacchi per una! Ce la faremo».
E con questa promessa chiediamo il conto che, insieme alla grappa
di riso, lascerà sulle labbra il profumo di una serata tra amici.
QUESTO MATRIMONIO S’HA DA FARE!

– 29 giorni al
matrimonio
Anello di
fidanzamento: pervenuto e riciclato
Fidanzamento: non
ancora avvenuto
Budget: 4207 euro
«Mi sono dimenticato del nostro anniversario, vero?»
Le bugie hanno le gambe corte, ma spesso, per sembrare più alte,
portano tacchi vertiginosi. Questa sera io ho dato il meglio di me.
Nonostante la figuraccia parigina, ho seguito i consigli di Baby,
mediando questa volta la sua posizione estrema – mi voleva scosciata,
scollata e taccata –, e ho scelto un tubino turchese con scarpe di vernice a
contrasto.
D’altronde, la regola aurea è chiara: se l’abito è corto e il tacco è
alto, la scollatura è bandita – per scampare l’effetto “bella di notte ma da
non portare all’altare”.
«Te l’ho già detto che stasera sei splendida, Linda?»
«Almeno trenta volte.»
È tutto un déjà-vu. L’abito della nostra prima cena, Porta Venezia
annegata di luci, l’insegna al neon del ristorante, le stesse facce modaiole.
Prenotando ho specificato che volevo proprio quel tavolo accanto
all’uscita della cucina – la ragione per cui, la prima volta, avevo chiesto
uno sconto.
«Non è il tuo compleanno, giusto?» Mr Buk mi lancia occhiate
indagatrici, alla ricerca di un errore che non ha commesso.
«Ho capito: ti sei tagliata i capelli!» Il suo imbarazzo ormai è
palpabile. «Ieri erano lunghi quarantatré centimetri e adesso sono
quaranta?»
«Scherzi? Quarantadue!» Sorrido ironica, ma mi sento in colpa per
quanto sto facendo. I tacchi rispecchiano le mie bugie: più sono alti più
loro sono grosse. «Stai tranquillo, non è successo niente di grave», cerco
di rassicurarlo.
«E allora, perché tutta questa fretta di uscire? Senza cani, poi.»
Ho ancora gli occhi pesti dalla notte passata. Tornata a casa dopo il
sushi, e non riuscendo a prendere sonno, sono rimasta in salotto con
Maciste in braccio per cercare in rete una lista delle cose da fare in vista
di un matrimonio. L’elenco pareva infinito.
«Questo locale è importante per noi. Ricordi?» Alza il calice.
«Un brindisi a chi eri e a chi non sarai più.»
Lo fisso stupita.
«C’era una volta una gattina maliziosa, c’è adesso una bradipa con i
guanti di gomma e l’aspirapolvere.» Io divento paonazza, e la vicina di
tavolo allunga l’orecchio. Ma lui, imperterrito, continua. «Il tuo è stato un
furto con destrezza. Sei riuscita ad accalappiare un brillante talento
perché hai saputo leggere tra le righe.»
Come no, signore e signori: sono lieta di presentarvi il teorico del
pigiama 24 su 7.
«Il problema è che le donne non dicono la verità. Sulla carta
d’identità alla voce “professione” dovrebbero scrivere: camaleonti
trasformiste. Appena portano l’uomo a casa, tolgono le unghie finte e si
mettono in tuta.»
«Be’, se è per questo, siamo in due. E poi dovresti essere felice: è
perché mi fai star bene. Non era mai successo che qualcuno avesse
l’effetto che hai tu sulla mia insonnia.»
A porre fine a questo siparietto arriva la cameriera, blocco e matita
alla mano. «I signori desiderano?»
Sono io a parlare.
«Prendiamo una fiorentina con le patate. Bella al sangue!»
«Ma non stavi facendo una crociata contro la Dukan?» chiede Mr
Buk, sempre più stupito.
«Non potrei cambiare idea per te?» Per trascinare un nemico nella
propria rete, bisogna parlare la sua lingua.
Sgrana gli occhi.
Appena la cameriera si allontana, mi versa da bere e brindiamo. È il
momento di andare in scena: senza che lui se ne sia accorto, ho lasciato
cadere l’anello nel mio bicchiere. Ora devo solo riuscire a non mandarlo
giù insieme al vino!
«Ma questo cos’è?» domando con un sorriso di gioia incontenibile,
che neanche una seguace del metodo Stanislavskij riuscirebbe a
riprodurre.
«Boh, non è mio. Ci deve essere un errore.» Fa per richiamare la
cameriera, ma lo blocco.
«Tesoro: non dovevi!» continuo sentendomi sempre più nella parte.
Sguardo liquido, sul punto di piangere, ma senza vere lacrime.
Le crocchette roventi che ci hanno portato come antipasto
potrebbero aiutarmi. Ne faccio scivolare una per terra e fingo che mi sia
caduto il tovagliolo. Un uomo normale si chinerebbe a raccoglierlo ma
con Mr Buk sono certa di non correre questo rischio. Così, afferro quella
specie di polpetta incandescente, stringendola più che posso. Il ripieno, al
trito d’aglio, si spappola riempiendomi il palmo. Le lacrime prima
riottose sgorgano abbondanti. Quasi singhiozzo mentre,
nell’interpretazione migliore della mia vita, mi scappa uno stucchevole:
«Che modo meraviglioso hai usato per chiedermelo…».
Con la mano non imbrattata di crocchetta prendo il bicchiere: sul
fondo una luce incendia il cristallo sotto gli occhi sempre più
interrogativi di Mr Buk.
«Chiederti cosa, scusa?»
Prendi un bel respiro e ricorda: “Sguardo vitreo con venature
bovine, labbro tremante per aprirsi in un sorriso disarmante”. Le parole
di Baby riecheggiano nella mia mente: gli uomini hanno bisogno di una
spinta e Mr Buk è ormai sull’orlo del precipizio. Deve prendere il solitario
dal fondo del bicchiere e, magari mettendosi in ginocchio per
coreografare meglio il momento, infilarlo al mio anulare.
Ma come al solito, mi spiazza.
«Ma quello non è l’anello del tuo ex?»
«Ma no! Che dici? Ci assomiglia ma questo…»
«Allora, mi stai dicendo che c’è un altro?»
Se per una persona normale più indizi fanno una prova, per lui no:
duro come la pietra e inespugnabile quanto la muraglia cinese. Rimetto
l’anello in tasca mentre la cameriera posa la costata da un chilo tra me e
Mr Buk. La candela si spegne e io mi alzo, pronta ad andarmene: una
débâcle del genere non l’avevo prevista.
«Dove vai, tesoro?», e mi afferra un braccio.
«A casa! Lo sai che non mangio la carne al sangue!»
«Ma se l’hai ordinata tu!»
«Taglio?» domanda la cameriera mentre, impalata con due enormi
coltelli in mano, assiste alla scena.
«Che c’entra!» ribatto.
«E questo ben di Dio?» mi implora, gli occhi lucidi dalla
commozione. Mi convinco che abbia capito, che voglia fermarmi per
dirmi: “Hai visto come ti ho preso in giro? Sei proprio una boccalona!”.
Così tento di assumere nuovamente il labbro tremulo e l’occhio bovino,
lui mi prende la mano e finalmente parla.
«Linda…»
Ma allora Dio esiste! Se mi chiama così vuol dire che ha capito
davvero e rispondo alla sua stretta.
«Due cose: non c’è un altro vero?»
Scuoto la testa: l’unico di cui può essere geloso ha ricevuto giusto
ieri un caffè bollente sulla camicia. Mr Buk, improvvisamente rilassato,
torna a sorridere, lascia la presa e allora sono io a domandare: «E la
seconda?».
Avvicina una mano alla bocca, come dovesse confidare un segreto.
In realtà non me l’ero immaginato così, bensì una scena più plateale.
Anche se ammetto che in una trattoria toscana il kit del perfetto principe
azzurro è difficile da reperire e, con il disastro che ho fatto per terra con
la crocchetta, inginocchiarsi vorrebbe dire buttar via i pantaloni.
Lui mi guarda, poi fissa la borsetta: «Anche se te ne vai, mi
lasceresti la carta di credito? Sono uscito senza contanti».
E io mi sento peggio di quella fetta di carne grandguignolesca.
TACCHI(NARE) ALLO SPECCHIO
Posted by Ivy, on January 19th, 2013

Specchio, specchio delle mie brame, qual è il tacco più bello del
reame?
Ognuna di voi, amiche mie, risponderà diversamente, però, mentre
camminate per strada o siete in un locale, guardate in basso e osservate
le scarpe che avete intorno. Noterete come riflettono l’umore delle donne
meglio degli specchi.
Se scelgono le flat, oltre al desiderio di stare comode, non hanno
mire di conquista. Se, invece, optano per la zeppa è perché
probabilmente dovranno camminare, ma non rinunciano ad ammiccare.
Il tacco alto è per chi o ha un cavaliere verso cui scoccare una freccia o
chi quel cavaliere vorrebbe conquistarlo.
E vengo al consiglio del giorno. Mi scrive Alessandra, titubante sulle
scarpe da indossare per convincere il suo amato a chiederle di sposarla
(ma ne sei sicura?). Perché, ricordate, è la donna a decidere, ma all’uomo
bisogna lasciare l’impressione di essere l’artefice della rivoluzionaria
idea.
Quindi, ammainate le vele dell’orgoglio, smorzate gli spigoli – quelli
che vi fanno borbottare come una vaporiera: “Io non sto zitta se ho torto.
Figurati se ho ragione!” –, mettete i tappi alle orecchie del vostro amor
proprio e partite per portare a casa l’obiettivo, ovvero, nel caso di
Alessandra, l’incontro con i potenziali suoceri (ripeto, ne sei proprio
sicura?).
Dopo il colpo della strega, a livello di stress, viene il tacco della
suocera.
Siccome l’incertezza fa più danni di un iceberg sulla rotta di un
transatlantico, raccomando sorriso e motivazione perché il sogno si
trasformi in realtà. Può funzionare rivivere le sensazioni della prima
volta, che fosse una cenetta a lume di candela o una pizza al taglio poco
importa.
Fondamentale è che lui abbia l’impressione di essere salito sulla
macchina del tempo: indossa le scarpe che ti fanno sentire bella e poi
introduci il discorso, lasciando sempre finire a lui le frasi: «Ormai è un
anno, sai…» (tu), «… che stiamo insieme» (lui) e così via fino al «Vuoi
sposarmi?» (sempre lui).
E ricorda: con il tacco giusto, e le parole opportune, si va ovunque.
Un abbraccio da Ivy,
dea del tacco e donna con quel quid in più.
PRONTA AL PIANO B

– 28 giorni al
matrimonio
Anello di
fidanzamento: riciclato ma pervenuto
Budget
rimasto: 4127 euro (causa conto imprevisto per cena toscana)
«Quindi com’è andata?»
«Hai una domanda di riserva?» Irene si sistema il ciuffo
specchiandosi nella finestra della chat. Sono l’unica copy della Metello &
Partners che ha Skype sul computer dell’ufficio. Nonostante i divieti
aziendali, infatti, sono riuscita a farmi installare applicazioni altrimenti
bandite – come Photoshop, per ritoccare le foto delle vacanze – da un
romantico nerd dell’assistenza tecnica che mi fa il filo.
«Mr Buk è un caso complesso…» sentenzia Irene.
«Sì, e io mi ritrovo con ottanta euro in meno sul conto.»
«Non ha offerto lui?»
«Ti dico solo che è uscito senza contanti, e non possedendo una
carta di credito…»
«Vivi con l’uomo di Neanderthal e te lo vuoi pure sposare! Chi ti
capisce è bravo.»
«Dettagli. Te lo ricordi l’obiettivo, vero?»
Quel paio di scarpe stava rivoluzionando le mie certezze,
trasformando una creativa in carriera in una ragazza in cerca del sogno.
E se fossi meno cinica di quanto pensavo di essere?
«Certo, le scarpe più belle del mondo. Ti aiuto solo per questo. Il
fine giustifica il tacco, no?»
«Così sembra…»
«Comunque, stamattina quando il tuo bello è venuto a recuperare i
quadrupedi ho avuto il sospetto che qualcosa fosse andato storto.»
«Ti ha raccontato quello che è successo?»
«No, no, però mi ha chiesto se hai un altro. Poi, dopo averlo
rassicurato dicendogli che sei troppo imbranata per il multitasking, ha
caricato i cani sul pullmino e se n’è andato. Non ti dico quanto sono stata
tentata di inventarmi che hai un uomo meraviglioso che ti corteggia…»
«Ma allora sei stronza vera!»
«O amica al cento per cento. Quando gli uomini fanno orecchie da
mercante è perché ci stanno dando per scontate, e per farli smettere
basta dar loro l’impressione che gli stiamo sfuggendo di mano.»
«Mah, se lo dici tu.»
«In amore vince chi fugge. In fondo, anche col guru è andata così.»
«Un caso.»
«Esistono parametri oggettivi. Se il diamante deve essere luminoso,
un compagno deve essere coinvolto.»
«Ma adesso cosa dovrei fare, secondo te, Ire?»
«Metterlo alle strette. Facciamogli credere che qualcuno stia
facendo breccia nel tuo cuore. Non hai detto che c’è un tizio in azienda
che ti ronza intorno?»
«Come un’ape sul miele!»
«O una mosca sulla…»
«Ireneee!»
«Inventati che porti i vitelli a pascolare in via Morgagni e invece
fatti trovare seduta su una panchina ai giardini di via Palestro con il
moscone. Io porterò lì con l’inganno Mr Buk, e casualmente avrò il
diamante in tasca.»
«E come pensi di convincerlo a venire con te?»
«Con una bugia a metà.»
Sono perplessa.
«Voglio presentargli un amico che sta cercando un animatore per
organizzare eventi nel suo nuovo locale in Brera…»
«Da quando sei così altruista?»
«Da quando la beneficenza è un domino. Oggi a te, domani a me.»
«Eh?»
«Faccio un favore al titolare, tra l’altro un gran pezzo di titolare, che
mi ha chiesto se conosco qualcuno di competente nell’intrattenimento,
così ho pensato a Mr Buk. Lui legge poesie, no?»
«Hai capito il genio del male! Unisci l’utile al dilettevole e magari
accalappi il gran pezzo di titolare.»
«Vedo che mi segui.»
«Ma Mr Buk non ha esperienze come animatore!»
«Ma se passa il tempo a organizzare reading. Vedrai che messi
insieme, quei due qualcosa tireranno fuori dal cappello. Tutto chiaro per
oggi?»
«Già oggi?»
Irene sospira sonoramente.
«Tesoro, mancano ventotto giorni all’ora X e tu non sei ancora
riuscita a farti chiedere in moglie. Bisogna inserire il turbo, anche perché
nemmeno ti immagini le cose che ancora ci aspettano.»
«E se l’informatico non accetta?»
«Scommettiamo che non vede l’ora? Fatti trovare alla
panchinandavanti alla statua di Montanelli, all’incrocio con via Manzoni,
puntuale alle 18.10.»
«Va bene, capo.»
«Ci vediamo dopo. Tacco e chiudo!»
IN GINOCCHIO DA TE!

Secondo
tentativo di richiesta/proposta di matrimonio
Anello di
fidanzamento: ancora in mio possesso
Budget: 4027
euro
«Non mi aspettavo mi chiedessi di uscire con te.»
Le pessime idee di Irene.
Sebbene quella davvero pessima sono io. Prima do retta a un amico
che mi trasforma nella brutta copia di Lady Gaga e poi a una sorella
mancata che si crede la reincarnazione del Dottor Stranamore.
Terminata la chat, ho chiamato il nerd che, professionale, ha
risposto: «Come ti posso aiutare, questa volta? Serve un aggiornamento
di Skype o una nuova app sullo smartphone?».
Quando gli ho proposto di accompagnarmi a fare una passeggiata
con i cani, ho sentito un tonfo.
«Tutto bene?»
«Sì, passo a prenderti subito.»
«No, stasera alle 18.00.»
«Ah, ma ce la fanno a tenere fino alle 18.00?»
«Sì, certo, prima li porta il mio fidanzato.»
«Ah, perché sei fidanzata?»
«Ehm, sì, ma siamo una coppia moderna.»
«Allora, potresti cambiare idea.»
«No, ti ripeto: siamo una coppia moderna.»
Quali spiragli, passaggi nascosti o cassetti con doppi fondi possa
aver aperto la storia della coppia aperta, lo sa solo lui che, mosso
probabilmente dal sottile terrore della mia volubilità, inizia a mandarmi
una mail ogni mezz’ora. Spero solo che questa uscita non diventi già da
domani l’argomento di conversazione dei colleghi alla macchinetta del
caffè.
Gli ho detto di essere puntuale e così è stato. Ha addirittura pulito
l’auto: una Punto con gli interni grigio perla, che Bobby Marley trasforma
immediatamente in un cupo antracite.
«Scusa, adesso lo spengo.»
Tenevo il cellulare in mano, saldo tra le dita come i grani di un
rosario.
Il tragitto da casa alla panchina dell’appuntamento con Irene è
estremamente imbarazzante. Bobby che, pur avendo la stazza di un
vitello, ha la vescica piccola, guaisce senza requie. Io sono nervosa per il
ritardo, e il nerd mi sgancia da sola con i cani arrivando trafelato dieci
minuti dopo, quando ormai manca una manciata di secondi all’arrivo di
Mr Buk.
Fai il giro lungo. Siamo in ritardo.
Non so che cosa si sia inventata, ma Irene è riuscita prendere
tempo per permettere al nerd di cingermi le spalle con un braccio e farmi
avvicinare pericolosamente alle sue labbra.
In lontananza sento finalmente la voce di Irene che urla, come
un’attrice tragica: «Non guardare, per carità!». Faccio finta di niente e mi
stringo ancora di più al nerd, con il pretesto di avere freddo. Lui tenta di
baciarmi mentre i passi sul ghiaino si fanno veloci e concitati. Il mio
cavaliere viene afferrato per il bavero della giacca da Mr Buk e tirato in
piedi.
«Ma come ti permetti? Lei è la mia fidanzata.»
Il povero informatico balbetta: «Ma-ma-ma io avevo capito che
eravate una coppia moderna!».
«Che cosaaa?»
E Mr Buk, il placido Mr Buk, colui che non farebbe male a una
mosca perché tutti hanno diritto di esistere su questa Terra, gli sferra un
gancio che fa fare un triplo carpiato ai suoi occhialetti. Fulmino con lo
sguardo Irene che fa spallucce, come a dire “Non era prevedibile un
epilogo del genere. Non è mica colpa mia”.
Invece, la colpa è sua.
Mi avvicino a lei che, non sapendo cosa fare, si fruga in tasca e mi
porge l’anello: «Vuoi fidanzarti con me?» ironizza. Ma io non ho voglia di
ridere.
«Adesso spieghi tutto a tutti» dico rivolta a Irene.
I cani si mettono a ringhiare.
Bobby Marley butta le zampe sulle spalle di Irene e quel
meraviglioso anello, conquistato con la spremitura dei miei neuroni, vola
via.
Lo inseguo e sto per raccoglierlo da terra, quando Maciste lo spinge
con la zampina dentro un tombino.
«Noooooooooo!» urlo con tutto il fiato che ho in gola. Cerco di
infilare una mano ma a stento passa un dito. Gli altri sembrano
finalmente chetati.
Mr Buk indaga: «Qualcuno mi spiega cosa sta succedendo?».
E allora lo sceneggiatore di questa pantomima si mette a parlare.
«Sono stata io», sospira Irene. «Ma l’ho fatto a fin di bene: sono due
giorni che Clorinda sta cercando di dirti che vorrebbe diventare tua
moglie.»
Un velo di imbarazzo cala su di noi.
«Sì, come no?» Mr Buk si riprende in fretta. «E nel frattempo se la
spassa con uno statale con gli occhialini.» Da ex impiegato delle Poste,
per Mr Buk quello è il peggior insulto. «Tra l’altro mi scusi» rivolto al
nerd ancora a terra «non sono solito colpire i non vedenti ma fosse stato
al posto mio avrebbe fatto lo stesso, vero?»
Il ragazzo terrorizzato annuisce.
Probabilmente gli darebbe ragione anche se gli stesse offrendo una
spremuta di lassativo. Infatti, quando Mr Buk gli allunga la mano per
aiutarlo ad alzarsi, si ritrae spaventato.
«Vi ricordo che un anello da cinquemila euro è finito dentro questo
tombino.»
L’unico interessato sembra essere Maciste, che allunga la zampetta
oltre la grata. «Senti qualcosa?» gli chiedo.
«Adesso credi che un cane ti risponda?» indaga Irene.
Mi rialzo in piedi. «Tu e i tuoi piani B. Adesso sono senza fidanzato
e senza anello.»
«E senza aiuti informatici.» Il nerd si sistema la giacca, spazzolando
via la polvere. «Facciamo così: non cercarmi più» conclude.
«E se ho problemi con il computer?»
«Chiedi aiuto al tuo fidanzato. Tanto», e mi scimmiotta usando il
tono da gatta morta che ho usato io al mattino, «voi siete una coppia
aperta.»
Posso solo guardarlo allontanarsi.
«Qualcuno di voi gentilmente mi aiuterebbe?»
«Ma a far cosa?» domanda Mr Buk. «Io ero uscito con Irene perché
doveva presentarmi un suo amico che ha un locale a Brera.» Poi si ferma,
come se all’improvviso avesse scoperto il filo della nostra trama. «Mi
avete messo in mezzo voi due, vecchie stronze!» grida.
«Non siamo vecchie!» rettifica Irene.
«Me e quel poveraccio che non c’entrava nulla e che si è preso un
pugno senza avere la benché minima colpa!»
«Detta così sembra peggiore di quel che è. Il proprietario del locale
esiste e ci sta aspettando», tenta di calmarlo Irene.
«Pazze. Siete due pazze. Non c’è nessun altro, quindi?»
Scuoto la testa. «Io amo solo te.»
Ma lui se ne va. Con i cani che gli trotterellano dietro. Mentre il mio
anello, in viaggio nelle fognature, sarà già diventato il pegno d’amore di
una pantegana ladra del Lambro.
VIENI VIA CON ME

– 27 giorni al matrimonio
Ancora sfidanzata (ormai ho una S scarlatta
tatuata sulla fronte, che non sta per Single, ma per Sfortuna)
Anello di fidanzamento: perduto nei giardini di
Palestro, sotto gli occhi attoniti della statua di Indro Montanelli

Un gamberetto, ma senza salsa rosa. Un gamberetto malato, affetto


da labirintite che, invece di andare per la sua strada, si perde in
acrobazie per ritrovarsi molto più indietro del punto da cui era partito.
Quel gamberetto sono io. Dalla scommessa sono passati tre giorni,
per un totale di settantadue ore, in cui sono riuscita a peggiorare
nettamente la mia situazione.
Ho aspettato che la sera ammantasse la città e Irene mi è rimasta
accanto come una presenza muta; perfino la guardia del parco ci ha fatto
compagnia tra le panchine dei giardini di Palestro.
Voleva sincerarsi che il maniaco non ci spaventasse. Niente di che,
rispetto allo shock del carato perduto: il classico esibizionista che esce
dai cespugli con calzino bianco, dettaglio più inquietante della sua nudità
ostentata senza pudore. Il guardiano, un uomo secco e alto, si è chinato
calando una calamita nel pertugio del tombino per sondare se l’anello
fosse ancora lì, ma appurato che vi scorre acqua, ci ha scortate fino
all’uscita e lì ci siamo divise. Irene si è buttata nelle viscere della
metropolitana rossa e io ne ho approfittato per fare una passeggiata fino
a casa. Un chilometro a passo spedito tra le luci e il traffico caotico di
corso Buenos Aires. Ho cercato di riavvolgere i pensieri che, però, sono
aggrovigliati come il nastro di musicassetta quando lo srotoli. Non ci
sono giustificazioni per il mio comportamento – forzare un altro a un
passo di cui non è convinto –, e ce ne sono ancora meno se considero il
movente.
Sono atterrita: sto facendo tutto questo per un paio di scarpe?
Arrivata a casa, non ho trovato le chiavi nella toppa. Mr Buk doveva
essere molto risentito se si è ricordato di toglierle. La porta del salotto è
chiusa e i cani sono con lui. Mi hanno sentito, hanno mugolato,
soprattutto Maciste che sa che il mio ritorno significa un biscottino.
«Vieni a dormire con me?»
Gliel’ho chiesto attraverso la porta, ma lui non ha risposto. Ha
aspettato invece che spegnessi la tv in camera da letto per portare giù i
cani. Ho rispettato la sua volontà, e sono rimasta sola a piangere sui miei
errori. Nella notte, occhi sbarrati al soffitto, ho ripercorso il crescendo
degli ultimi giorni. Ma, adesso che la sveglia è suonata puntuale alle otto
e la sua parte di letto è intatta e i cani non arrivano per la consueta danza
del risveglio, sento un groppo in gola ancora più grosso.
Si può scoprire di amare una persona attraverso gli errori
commessi?
Mr Buk è già uscito. Mi faccio un caffè e seguo il suo esempio. Mi fa
male sapere che ha perso la stima nei miei confronti.
La giornata si trascina lenta.
Leader Minimo si affaccia alla mia porta, poi ci ripensa. «Lunedì ti
affido una cosa grossa. Ho bisogno di una mano per un cliente
importante.» Ma quando gli chiedo delucidazioni, lo vedo andare via con
la sacca da golf sulla spalla. «Ho un incontro di lavoro, fuori sede» mi
spiega.
«Nove o diciotto?»
Non coglie l’allusione alle buche e mi risponde: «Alle diciassette.
Vieni lunedì alle dieci da me».
Il viaggio in metro per tornare a casa lo passo al telefono con Irene,
che continua a chiamarmi da stamattina per scusarsi e analizzare con me
l’accaduto. Vuole trovare la falla in quello che doveva essere l’infallibile
piano B. In realtà, non ci sono spiegazioni possibili: in una relazione se
viene meno la fiducia è la fine. E io, per un paio di scarpe, ho perso Mr
Buk.
Arrivata a casa, superato lo scoglio dell’ascensore bloccato, trovo
una sorpresa. Le chiavi sono nella toppa. Suono, convinta che Mr Buk stia
ascoltando la musica in cuffia, ma al primo scampanellio mi apre
sorridente.
«Era ora! Ti stavo dando per dispersa.»
«Ma… io…» Sono sorpresa.
Mi dà un bacio distratto e noto, dietro le maschere maori, il trolley
delle mie trasferte.
«Mi stai buttando fuori di casa?» domando perplessa.
«Ma non dir cazzate, dài! La valigia è pronta, manchi solo tu.»
Poi abbassa lo sguardo. «Lascia a casa i trampoli e mettiti comoda:
dove andiamo non servono.»
Obbedisco senza fiatare, senza fare domande. Maciste e Bobby
Marley sono pronti con guinzaglio e pettorina della festa. Ma la curiosità
è una scimmia e la scimmia, fin dal nome, è femmina. Quindi provo a
prenderla alla lontana: «Non mi ricordavo ci fosse un reading fuori porta
questa sera».
LINGUE DI GUSTO
«Sai perché si chiamano Langhe?»
Fuori dal finestrino la nebbia sottile si insinua nei filari delle viti,
avvolgendo la valle di una massa lattiginosa, rendendo impalpabile il
confine delle cose.
«Per le lingue di nebbia?» provo.
«Anche. Devi sapere che la differenza la fa il terreno, argilloso e
sabbioso.»
«Simile a quello di una spiaggia?»
«Esattamente, qui una volta c’era il mare. E le viti sono quelle che
daranno corposi Barolo, giovani Freisa e profumati Nebbiolo.»
Maciste dorme da quando siamo partiti, accoccolato sulle mie
gambe, come una boule pelosa. Ho proposto di fermarci a recuperare un
panino in Autogrill, ma Mr Buk è stato categorico: «Ti rovineresti la
cena».
E quindi ci siamo buttati sulla Milano-Genova lasciandoci alle spalle
il traffico della tangenziale.
Le uscite hanno cominciato a sfilare accanto a noi – Bereguardo,
Tortona – e, poco prima di Alessandria, azzardo un timido: «Andiamo al
mare?», mentre lo stomaco borbotta, vagheggiando della focaccia di
Recco accompagnata da un calice di bianco fruttato pied dans l’eau. Mr
Buk lascia il cambio per posare la mano sul mio ginocchio: «Tu le
sorprese proprio non le gradisci, eh?». Così decido di tacere e di lasciarmi
andare al dondolio dei sedili a molla, che sobbalzano a ogni buca. Mi
assopisco e quando riapro gli occhi, perché i cani si agitano per le curve,
la nebbia è ormai sotto di noi, ovatta a riempire la valle. Superiamo
paeselli di poche anime; alcuni cani, sentendo l’odore dei nostri, ci
inseguono per un breve tratto e a San Maurizio il rumoroso van si
spegne.
«Siamo arrivati.»
Colline e crinali mangiati dal nero della notte. Non si vede nulla,
oltre al casolare con l’insegna Ca’ Rustica. È un cane ad accoglierci.
Annusa Bobby Marley, si inchina davanti a lui e poi corre da
Maciste, che gli abbaia. Allora, una luce si accende e una porta si apre sul
profumo delizioso di pomodori e carne.
«Mmm, spezzatino?» chiedo con l’acquolina in bocca.
La signora, una corpulenta cinquantenne con la cuffia in testa, si
strofina le mani sul grembiule, annuendo.
«Pensavo sareste arrivati prima, così non vedendovi mi sono messa
a preparare.»
Allunga una mano verso di me: «La signora Bergonzoni?».
Ho un sussulto. È la prima volta che mi scambiano per sua moglie e
mi verrebbe da rettificare: “Siamo solo fidanzati. Anzi, nemmeno quello”,
e intanto guardo Mr Buk per cogliere il suo imbarazzo. Che invece non
c’è. Lui continua a sorridere impassibile.
La signora afferra la valigia. «Se mi seguite vi mostro “la tana”.»
Attraversiamo la sala da pranzo e saliamo una scala a chiocciola
finemente intarsiata nel legno. La nostra stanza è essenziale: un grande
letto in massello dalla testata in bronzo, un mobile pieno di foto delle
generazioni passate, una stufa a pellet e due brandine a terra.
«Ma che gentile, ha pensato anche ai cani!»
«È la prima cosa che mi ha detto suo marito!»
“Suo marito” ripeto mentalmente mentre un brivido mi percorre la
schiena.
«Se ha freddo può alzare la temperatura della stufa.»
La signora ci mostra il bagno, lasciando la chiave nella toppa.
«Vi aspetto giù tra una decina di minuti.» E se ne va.
Nell’aria c’è profumo di lavanda.
Mr Buk si avvicina: «Non è il mare ma spero ti piaccia comunque».
Mi lascio stringere nel suo abbraccio.
«È bellissimo, amore!»
Lui mi guarda stupido. «Due volte in ventiquattr’ore, vuoi far
nevicare?»
«In che senso?»
«È la seconda volta che ripeti quella parola bandita dal tuo
vocabolario fino a ieri.»
«Quella che comincia con “amo” e finisce con “re”?»
Annuisce.
«Forse perché ho cominciato a mettere fuoco che tu sei il Re che mi
ha preso all’Amo.»
La tavola è imbandita con i prodotti locali. Nocciole tostate e
moscato a bassa gradazione come aperitivo.
«Spero sia di vostro gradimento. Noi andiamo a ritroso: partiamo
dal dolce per arrivare al secco nella mescita.»
La proprietaria del bed&breakfast ci versa il vino e la schiuma
tracima dai bicchieri. Lei ci intinge un dito e lo picchietta dietro le
orecchie, come fosse una goccia di profumo. «Fatelo anche voi, porta
fortuna.»
La imito d’istinto e Mr Buk mi segue a ruota. I cani sono tranquilli,
accoccolati sotto il tavolo.
«Spero che non siate vegetariani.» Sentendosi tirato in causa,
Bobby Marley guarda languido la signora. «Su voi due non avevo dubbi,
ma i vostri padroni non li conosco.» Maciste annuisce abbaiando. «Lo
prendo per un sì. E allora cominciamo.»
La fiamma di una candela a dividerci e il crepitio del fuoco che
scalda lo stanzone dai muri possenti.
«Da segnare in agenda.»
«Che cosa?»
Lo guardo incuriosita.
«Dobbiamo imparare a ritagliarci dei momenti per noi. Come
questa sera. E tu devi promettermi», fa una pausa, «che almeno una volta
a settimana dedicherai un momento a noi.»
Bevo e la testa si fa leggera, come i pensieri: se fosse possibile mi
trasferirei in questo luogo meraviglioso.
Assaggiamo dell’ottimo vitello tonnato alla maniera monferrina –
fetta di carne e salsa a parte –, poi arriva il piatto forte: lo spezzatino –
bocconcini di manzo stufati in un sugo di pomodoro.
«Deve essere ottimo, signora!»
«Ve lo lascio qua. Così, se ne volete ancora…» Ha un accento da
madamina. L’aria profuma di fuoco, quel sapore bruciato che riporta la
memoria agli inverni in campagna, e se non ci fosse il camino farebbe
decisamente freddo.
«Per dolce c’è il bonnet»annuncia la nostra ospite.
A vederlo sembra un budino al cioccolato, ma è la prova al
cucchiaio che rivela la sorpresa degli amaretti tostati. Briciole profumate
al sapore di nebbia.
«Gradite un rosolio?» Fosse per me, andrei dritta a dormire: è dalla
trasferta a Parigi che, per motivi diversi, fatico a prendere sonno, ma la
signora insiste. Ci lascia una bottiglia sul tavolo, in cristallo soffiato con la
bocca panciuta.
«Questo lo produciamo noi, senza conservanti, con le rose delle
nostre siepi. Non potete non assaggiarlo. E poi, come si dice qui, il rosolio
sta alle signore come il Barolo chinato ai loro mariti.» E, guardando Mr
Buk: «Il signore preferisce forse un Barolo chinato?».
Lui accetta l’offerta.
Il bicchiere della staffa è quello meditativo, delle ultime
chiacchiere; quelle che lambiscono il sonno, con gli occhi stropicciati
dalla giornata e le mani intrecciate.
Il sapore del cibo sfuma in bocca e le parole si fanno confuse, ma Mr
Buk è sveglio. Chiama a sé Maciste, lo vedo armeggiare e poi lasciarlo
andare. Bevo un altro sorso di rosolio, e quel profumo di petali
fermentati con il gelsomino mi riporta alla mia infanzia, quando mia
nonna lo beveva con le amiche.
Maciste cerca la mia mano sotto il tavolo.
«Sembra inquieto» dico.
«Magari vuole dirti qualcosa.»
«Hai imparato a leggergli nel pensiero?» domando con una punta
d’ironia.
«Chissà… oppure ho comprato in rete un collare traduttore. Sai quei
gadget che traducono le vibrazioni in parole. Tipo “pappa”, “nanna”,
“pipì”. Secondo me vuole essere preso in braccio. Perché non provi?»
Ma come? Mr Buk sa che non lo faccio mai salire fino a che il tavolo
è non completamente sparecchiato per evitare che, istinto da alano nel
corpo di un microbo, salti sulla tovaglia.
«Conosci il ragazzo: se lo prendo ora poi se ne approfitta.»
Mr Buk batte le mani. «Maciste, in piedi.»
Gli ha insegnato a camminare come gli acrobati del circo e riesce a
stare su due zampe per parecchi secondi.
«Lascialo tranquillo, poverino!» replico. Solo che, osservando il
cane in quella posizione, noto che ha qualcosa appeso al collo. È una
scatoletta di pelle rossa.
«E questo cos’è?»
«Il messaggio che Maciste voleva darti.»
Sciolgo il fiocco di raso e afferro la scatoletta. Mr Buk si avvicina a
me, tenendo le mani in tasca. E mi sembra un ragazzino con la barba
sfatta e i capelli esplosi in testa.
«Aprilo.»
Faccio scattare il gancino: all’interno c’è una veretta di platino
tempestata di diamanti.
«Oh mio Dio!»
Sono contenta e confusa al tempo stesso. Sento le lacrime premere,
ma ho sempre trovato strane le persone che piangono di felicità. Credo
che si debba scoppiare di gioia quando succede qualcosa di bello, perché
i momenti di serenità sono così rari che, se li passiamo a soffiarci il naso
o a singhiozzare, sono già finiti. Le mie insicurezze crollano quando Mr
Buk toglie le mani dalle tasche e si inginocchia davanti a me.
«E adesso, che fai?»
«I tuoi tentativi sono stati pessimi», sospira. «Non so se sia stata più
imbarazzante la scena al ristorante, con l’anello nel bicchiere e tutti che
ci fissavano, o ieri sera, con quel poveretto sulla panchina. Irene mi ha
spiegato tutto.»
«Mai farsi i fatti suoi, quella.»
«E meno male che non se li è fatti, a questo giro, perché, lo
ammetto, c’ero rimasto male. Mi ha detto di averti convinto lei a tirare in
mezzo quel ragazzo. Comunque, tornando ai tuoi rocamboleschi
tentativi, che alla fine, ma molto alla fine, e che a modo loro, ma molto a
modo loro, avevano un fondo di romanticismo, come dice il proverbio:
non c’è il due…»
«… senza il tre» concludo io.
«Quindi, visto che per due volte ci hai provato tu», mi prende la
mano stringendola tra le sue, d’improvviso fredde, «voglio toglierti il
peso di trovare un terzo modo per chiedermelo e anticiparti: vuoi tu
Clorinda Benvenuti diventare mia moglie?»
Bobby Marley posa il muso sulle mie gambe e Maciste, sentendosi
escluso, comincia a saltare fino a quando il pastore bernese si abbassa
per permettergli di salire sulla groppa. Il quadretto è completo, non
manca nessuno.
«Certo che lo voglio.»
E lo stringo con tutta la forza che ho. Piango e rido, come quei
temporali estivi in cui i fulmini si alternano agli arcobaleni. Singhiozzo e
sorrido, il rimmel colato e il rossetto sbavato.
«So che questo anello non avrà lo stesso valore di quello che hai
perso» intanto lo fa scivolare sul mio anulare, «ma per me è molto
importante.» Calza perfettamente.
«Non l’avrai rubato, vero?»
Mr Buk sorride indulgente.
«In un certo senso sì… a mia mamma e, prima, era stato rubato a
mia nonna. Viene tramandato di generazione in generazione. È da un po’
che lo avevo a casa.»
«Davvero?»
«Mia mamma ha sempre detto che eri quella giusta.»
Sorrido compiaciuta. «E dove lo tenevi?»
«L’avevo messo nel mio nascondiglio segreto. Hai presente il
salvadanaio a forma di cane che c’è in cucina?»
«E io che credevo ci fossero solo monetine lì dentro.»
«Perché ti fermi alle apparenze.»
Il boxer, un oggetto di dubbio gusto in ceramica dipinta, era stato,
insieme allo zerbino, la prima cosa che Mr Buk aveva lasciato
nell’appartamento di Palazzo Ranieri. Tintinnava appena lo spostavi per
fare la polvere ed era pesantissimo.
«Per un attimo ho creduto…»
«Sì, l’hai già detto, che l’avessi rubato. Guarda, Clorinda, io non
potrò portarti nei resort a cinque stelle, ma se ti piace la vita che
abbiamo sarò felice di dividerla con te, giorno dopo giorno. Quindi,
quando ti senti pronta, andiamo dai nostri genitori per annunciare che ci
sposeremo. Possiamo fare domenica prossima, che ne dici?»
E, d’improvviso, torna nitida la scadenza che avevo ormai
accantonato. E soprattutto, la ghiottissima posta in gioco: quel
meraviglioso paio di scarpe.
«Mi sembra tardi. Dopodomani è domenica: perché aspettare una
settimana? Facciamo a pranzo dai tuoi e a cena dai miei.»
«Non capisco il motivo di tutta questa fretta se non abbiamo
nemmeno la data!»
«Ah, perché, non te l’avevo detto che ci sposiamo tra ventisette
giorni?»
Mr Buk svuota il bicchierino di Barolo chinato, poi grida verso la
porta della cucina: «Non è che ha qualcosa di più forte, signora, in casa?».
TI PRESENTO I MIEI!

– 25 giorni al matrimonio
(rientrati alla base fidanzati)
1 anello di fidanzamento
perduto, 1 anello di fidanzamento ereditato
Budget: inalterato (le due
notti nelle Langhe le ha offerte Mr Buk)

«Sì, mamma, siamo in viaggio. No, non so tra quanto arriveremo.


Calcola una mezz’oretta. La tangenziale è un po’ intasata. No, mamma,
Clorinda non è incinta. Sono d’accordo con te è presto per buttare la
pasta. Vedi tu se rigatoni o spaghetti: per noi non fa differenza. Ti sto
perdendo. Il segnale è disturbato. Non ti sento più, mammaaaaaa.»
«Non sai quanto pagherei per capire cosa sta frullando in quella
testolina bionda» mi dice.
«Ossigenata, prego!»
Lo guardo. Ho il terrore che ritorni sui suoi passi. Se all’idea del
matrimonio pare ormai rassegnato, avendomelo chiesto lui, lo stesso non
si può dire del tempo che abbiamo a disposizione.
Dopo aver oziato tutto il sabato, complice il tempo freddo e umido,
stamattina ci siamo svegliati all’alba e, aprendo la finestra, mi sono resa
conto di quale luogo meraviglioso abbia scelto come cornice per la sua
dichiarazione.
Ci siamo vestiti di corsa, tanto da sorprendere la signora che
pensava avremmo approfittato di quella vacanza per poltrire ancora un
po’.
Il tavolo è un banchetto di prodotti locali: marmellata al peperone
biologico da accompagnare alla toma DOP, salami nostrani e brioche
artigianali.
Io ho tentato di spiegarle che dobbiamo correre dai nostri genitori
per annunciare il matrimonio e lei, con la spontaneità della campagna, mi
ha accarezzato la pancia chiedendo se c’è un dono in arrivo.
Ho evitato di entrare nei dettagli, non capirebbe se le spiegassi che
il dono è un paio di tacchi quattordici provenienti da Parigi. Mi sono
limitata a sorridere e lei ha frainteso. Ha preparato un cestino con
confettura di fichi e passata di pomodoro: «Portate qualcosa ai vostri
genitori. Oggi è una giornata di festa. Anzi, di doppia festa».
«Insomma, non me lo vuoi proprio dire? Guarda che se aspettiamo
un bambino io sono solo contento. Sai come la penso: se ce la facciamo in
quattro non ci sono problemi in cinque.»
È il caso ad aiutarmi. Rischiamo di tamponare un’auto che si sposta
nella nostra corsia all’improvviso.
«Tieniti forte!»
Mr Buk inchioda per evitare l’incidente e mi ritrovo Bobby Marley
addosso e Maciste sbalzato da una zampata del grande tra i miei piedi.
«La corsia dei ritardati è quella di destra!» grida Mr Buk alla volta
dell’autista imprudente.
In realtà più a destra di noi c’è solo la corsia di emergenza. Il van
arranca e ogni volta che Mr Buk scala ho l’impressione che qualcosa si
stacchi e resti sul ciglio della strada.
«Avessi saputo che saremmo andati dai tuoi, avrei fatto pulire il
Volkswagen.»
Avessi saputo che le cose avrebbero preso questa piega, avrei
proposto il noleggio di un’auto. Lo avevamo già fatto, in occasione del
loro incontro. Allora avevo insistito perché Mr Buk andasse dal barbiere,
affittasse un completo e infine guidasse un’auto che sembrasse un’auto.
Avevamo anche parcheggiato i quadrupedi a casa di Irene. Dopo quel
primo surreale incontro in cui Mr Buk, davanti a un inginocchiatoio del
Seicento e a un tondo di scuola fiamminga raffigurante un Cristo in croce,
aveva esordito dicendo: «Manca l’incenso ma sembra di stare in chiesa»,
mi ero guardata bene dal farli incrociare di nuovo. E, da allora, mio padre
sonda con regolarità se io stia ancora con il “badola” – termine dialettale
per indicare chi non la vede come lui e, quindi, ha per forza qualche
rotella fuori posto.
Mi sembra di vederlo mio padre, con un parco macchine degno di
un concessionario di marchi di lusso, scuotere la testa appena vedrà il
pullmino, ma rispondo: «Non ti preoccupare, tesoro. Come tu mi insegni,
l’auto serve per andare da A a B».
«O da S a S» corregge lui. «Da un suocero all’altro.»
Sorrido.
«Come credi la prenderanno i tuoi?»
«Te l’ho detto: mia mamma senza nemmeno conoscerti ha insistito
che io tenessi, per il momento giusto, l’anello che ha ereditato dalla
nonna. Da buona sensitiva ha avuto subito ottimi presagi sul tuo conto.»
Ah be’, convinta lei!
Sul suo conto, invece, io sapevo davvero poco. Ci aveva pensato
Irene con la sua campagna di terrorismo ad atterrirmi, dicendomi che di
certo era un’arpia che ha per il suo bambino di quasi quarant’anni lo
stesso morboso amore che mio padre ha per me. Da Mr Buk avevo avuto
stentati racconti, da cui avevo spremuto quel minimo di informazioni per
placare la curiosità morbosa di mio padre Saverio: artisti, senza entrare
nel dettaglio.
Quando aveva scoperto che loro stessi erano opere d’arte che,
partecipando ad happening simili a Woodstock in giro per il mondo,
catalizzavano energia dai dolmen, c’era rimasto malissimo, realizzando
che erano pazzi visionari. E mi aveva telefonato preoccupato: «Di’, ma i
genitori del bad» – nel tempo era passato a un nomignolo più
confidenziale – «sono dei delinquenti? Perché magari il badola non ti ha
detto niente ma sono stati in galera».
E io, colta in fallo, ero stata costretta a rispondere senza conoscere i
fatti, liquidando il tutto con un’omonimia.
Dicono che la cosa più difficile per una futura sposa sia farsi
accettare dalla madre del marito.
Specie in Italia, dove il cordone ombelicale sembra impossibile da
recidere, e non è un mistero che l’incontro con la suocera spesso sia uno
dei momenti più traumatici delle storie d’amore. Talvolta, addirittura,
coincide con l’epilogo delle stesse. Invece, se superi la prova suocera, il
settanta per cento dei problemi che insorgeranno nella vita a due è già
risolto.
Guardo l’anello al dito: una gran bella veretta. Complimenti, Carla!
SATURNO IN TRIGONO

– 25 giorni al matrimonio, pranzo

«Finalmente ci conosciamo. D’altronde tutto è scritto.»


Mi accoglie così Carla Boschi in Bergonzoni, afferrandomi le mani
con un gesto in cui riconosco i modi del figlio. Ha i capelli mossi, un
cespuglio di agrifoglio, crespo e irto, radicato sulla testa, e quegli
inconfondibili occhi che sorridono prima delle labbra. A tenere ferma la
massa ribelle, una fascia verde che riprende i toni della tunica che
indossa. Ai piedi sandali di cuoio con calzini bianchi. I cani le saltano
letteralmente addosso e lei li rassicura:
«Ragazzi, in cucina troverete qualcosa per voi». Poi, tornando a me:
«Prego, accomodati. Posso darti del tu, vero?».
«Certo, signora.»
«Ma scherzi? Io per la moglie di mio figlio sono semplicemente
Carla.»
Guardo Mr Buk e sottovoce, facendo in modo che non mi senta, gli
domando: «Le hai anticipato qualcosa?».
«Te l’ho detto che è sensitiva» mi risponde senza scomporsi.
Comincio a sentirmi a disagio: se la sensitiva scopre che ho messo
in piedi un matrimonio per un paio di scarpe, potrei compromettere il
rapporto suocera/nuora ancora prima di instaurarne uno – per non
parlare di quello appena ricucito con Mr Buk.
Mi guardo intorno. La casa sembra la succursale di un negozio
etnico: statue maori, tappeti peruviani intrecciati a mano, un arazzo indù.
Occupa l’intera parete del salotto con al centro un coloratissimo elefante
che irradia luce da uno specchietto.
«Ti piace?» chiede Carla. «È Ganesh, il dio che infonde saggezza e
quindi permette di superare i problemi. È di buon auspicio tenerlo in
casa e potrebbe essere un regalo per due spo…»
Mr Buk la interrompe.
«Mamma, dài! Non hai ancora bevuto e già parli a sproposito.»
La stessa fossetta quando accennano un sorriso, la stessa spruzzata
di efelidi sulle guance, lo stesso amore per gli animali. Carla si
inginocchia, permettendo ai quadrupedi di leccarle la faccia e, senza
lavarsi le mani dopo averli stropicciati e accarezzati, torna alle faccende
in cucina. Affetta il pane con quello che sembra un machete.
«L’abbiamo comprato a Bali. Servirebbe per aprire i cocchi ma va
benissimo anche per tagliare altro.»
La punta aguzza e la forza con cui lo scaglia contro il tagliere lo fa
sembrare una mannaia. «Spero tu non sia allergica al sesamo. Il pane
l’abbiamo fatto noi. Qui è tutto prodotto a chilometro zero. Celso è fuori
che sta raccogliendo l’insalata. Perché non andate a trovarlo? Io resto qui
con i ragazzi, mi aiuteranno loro ad apparecchiare, vero?» Maciste si
cimenta in uno dei suoi show, alzandosi su due zampe e azzardando un
paio di passi.
Mr Buk mi precede in un fazzoletto di giardino. Due girasoli, una
piccola magnolia e file di pomodori e cavoli.
«Ma con l’inquinamento che c’è si fidano?»
«Perché tu credi che quanto ci propinano al super abbia origini
diverse? Ciao papà!»
Celso lo abbraccia e mi invita a unirmi. L’uomo, di un’età indefinita,
ha lunghi capelli bianchi, raccolti in una coda di cavallo che scivola
morbida sulle spalle. Indossa una tunica chiara, imbrattata di terra. Le
mani ruvide e la pelle bruciata dal sole in contrasto con i denti
bianchissimi.
«Finalmente ci conosciamo.»
Non vedevano l’ora! E immagino con terrore il giorno in cui i
suoceri si incontreranno. Le sgomitate di mio padre nel vedere gli emuli
di Bob Dylan che aspettano la risposta nel vento e gli sguardi di mia
madre davanti al pachiderma trasformato in dio. Celso mi porge il
cestino: carote, finocchi, due pomodori acerbi.
«Vedi, Linda, questa è l’insalata del giorno. È il giardino che decide
cosa farci mangiare.»
Una volta seduti a tavola gustiamo una ratatouille di melanzane,
una quiche di spinaci e un’insalata mista. Cibi semplici, ma estremamente
saporiti. Non c’è la pasta che aveva annunciato nella telefonata.
«Noi siamo vegetariani, ma non siamo riusciti a trasmetterlo a
Candido, che però ha già imparato più cose di quante ne
immaginassimo.»
«Lo avete chiamato Candido per avere tutti la stessa iniziale?»
Rondelle di carote rotolano dalla padella al piatto.
«No, per Charles Bukowski. È da sempre il nostro idolo e l’incontro
con Celso è stato decisamente karmico. Vedi: io mi chiamo Carla Boschi,
lui Celso Bergonzoni e nostro figlio, che è la sintesi di noi due, non poteva
che avere una C nel nome.»
«Sì, ma perché proprio Candido?»
«Quella notte nevicava e non siamo nemmeno riusciti ad arrivare in
ospedale. È nato in macchina e tutto intorno era candido.»
«Che bella storia!»
«Noi crediamo molto nelle relazioni tra cielo e terra e nei messaggi
che il cosmo ci invia quotidianamente. Così, quando Candido mi ha detto
le tue iniziali ho capito che…»
«Mamma!»
«… che eri una dei nostri!» conclude.
Una fetta di pomodoro mi va per traverso: «Prego?».
«Clorinda Benvenuti: C.B. Dunque, karmicamente parlando, sei
l’ideale per nostro figlio. Vedi?», e con un gesto fa un gioco con l’indice e
il pollice. «C.B. La tradizione si perpetua, Celso!» dice, guardando
estasiata il marito.
Decido di cambiare discorso.
«Candido mi ha raccontato molto di voi» mento. «Mi ha detto che
siete degli artisti.»
Lei fa un buffetto al figlio, che si ritrae spazientito. «Mamma, non ho
più otto anni!»
«Ma per noi resti sempre il nostro bambino. Comunque sono
contenta: di solito si vergogna del nostro mestiere. Fa il vago» dice,
agitando le mani, come fossero ali.
«Non è da tutti avere dei genitori che sono parte integrante di
opere d’arte!»
Mr Buk affonda la testa nel piatto e, non fosse riparato dalla coltre
di dread, scommetterei sia arrossito d’imbarazzo.
«Sei mai stata a Stonehenge?»
Scuoto la testa, masticando le carote più dure della mia vita. Mi è
oscura l’attrattiva di un gruppo di pietre conficcate al centro di un ettaro
di terra nel cuore del nulla.
«Male! Potreste andarci in viaggio di nozze, le energie lì si
sprecano.»
«Mammaaa!» Mr Buk alza la testa ed è più paonazzo dei pomodori
che ha nel piatto.
«Scusa, tesoro, sono un’entusiasta, mi conosci. Comunque, cara»
dice addentando una forchettata di ratatouille avanzata direttamente
dalla teglia, realizziamo installazioni nei siti megalitici. Aspettando il
momento propizio, quando le congiunzioni astrali permettono di
influenzare meglio il magnetismo della natura.»
Per me sta parlando arabo, ma per gentilezza annuisco.
«E l’amore per Bukowski da dove nasce?»
«Be’, c’era scritto nei nostri nomi, così da giovani abbiamo deciso di
dedicare una rivista indipendente al vecchio Hank, che ha mandato
parecchi contributi. Anzi, ti vado a prendere qualche numero.»
«Maaammaaa.»
«Un presente per i tuoi genitori, così avranno modo di conoscerci
attraverso le nostre parole prima di….»
«Mammaaaaaa!»
«… incontrarli di persona!» finisce lei imperterrita.
Vorrei risponderle di non disturbarsi, immaginando la reazione di
mio padre – fronte corrucciata e sguardo torvo. Invece annuisco e la
ringrazio, e lei torna felice porgendomi dei fogli ingialliti e impolverati,
con i bordi mangiati dai topi. Poi, come se una nube avesse diradato i
dubbi, riprende dal punto lasciato in sospeso.
«Piuttosto, siete qui per comunicarci l’arrivo di un erede?» si
avvicina a me, guardando furtiva la pancia nascosta dal tovagliolo.
«Nooo!» Mr Buk sembra ormai indignato.
Torna a sedersi, compita, aspettando che a questo punto sia lui a
prendere la parola: e infatti Candido leva un calice di sidro e ci invita al
brindisi.
«L’avrete capito che Clorinda e io abbiamo intenzione di convolare
a nozze.»
Carla si alza in piedi e mi abbraccia. «Ho sempre desiderato avere
una figlia.»
E lo stesso fa Celso. Mi manca l’aria tanto mi stringono e
fortunatamente, penso, qualcuno lassù mi ama se, nonostante Carla sia
dotata di una sensibilità superiore alla media, non ha visto l’inganno
nelle mie azioni.
Quando mi sciolgono dall’abbraccio, Carla chiede: «Non avete dato
l’informazione più importante: qual è la data? La mia sarta sta a Bali!».
E, ironico, Mr Buk la guarda.
«Visto che è da quando siamo entrati che hai capito che ci saremmo
sposati, prova a indovinarla tu.»
«Tesoro, l’indizio era sull’anulare della tua fidanzata: va bene
essere intuitivi, ma io non sono una veggente. Comunque, accetto la
sfida.» Leva gli occhi al cielo, in cerca di un’ispirazione sul soffitto
adornato di stelle.
«Due sono le date fondamentali quest’anno. Il solstizio d’autunno
oppure» fa una pausa di alcuni secondi che mi paiono minuti «tra
venticinque giorni.»
Rovescio il sidro sulla tovaglia.
«Ma come ha fatto?», guardo sbalordita Mr Buk.
«Te l’ho detto che è maga!»
«Nessuna magia, piccolo mio: ringrazia Saturno. Quel giorno
entrerà in trigono con Venere! Coraggio, ragazzi, non perdete tempo.
Andate a comunicare ai genitori di Clorinda il felice evento e tu, Celso»
dice indicando il salotto, «avvolgi l’arazzo del dio Ganesh. Porterà fortuna
a questa nuova coppia di sposi.»
Così con due cani, il cestino di prodotti delle Langhe dimezzato,
qualche carota dell’orto vista tangenziale e un arazzo arrotolato con un
elefante gigante al centro, partiamo alla volta del natio borgo selvaggio, a
bordo di un pullmino con le tendine di pizzo. Dove ci aspetta la cena più
lunga della mia vita.
IL TACCO DELLA SUOCERA
Posted by Ivy, on January 24th, 2013

La prima impressione è quella che conta. Care amiche, quante volte


ce l’avranno ripetuto? Fino allo sfinimento! Perfino a Maracaibo, le madri
lo ripetono alle figlie.
A tal riguardo, oggi rispondo volentieri a Roberta, che mi chiede
come persuadere sua suocera a farsi i fatti suoi sulla scelta delle scarpe.
Se prima non si era mai potuta intromettere, ora che Roberta tre mesi fa
le ha dato un paffuto erede si sente autorizzata: l’una non vuole attaccare
il tacco al chiodo e l’altra non manca di puntualizzare il pericolo,
lanciandole contro i più svariati anatemi: «Se scivoli da quei trampoli
finisci all’ospedale»,
«Se poi ti fai male chi cura il bambino?», «Con quei cosi ai piedi
come pretendi di spingere una carrozzina?».
Ovviamente non è interessata alla sorte di Roberta. Che lei si
fratturi una caviglia o comprometta il malleolo, poco importa. Ogni suo
pensiero è per la creatura. D’altronde, tra moglie e marito (la suocera)
mette volentieri il dito!
Il mio consiglio? Assecondala… ma di facciata! Dalle ragione e poi,
ovviamente, continua a fare di testa tua. Gioca d’astuzia, comportandoti
in maniera contraria a quello che lei si aspetta. Ovvero, tieni un paio di
flat in borsetta e, quando porti da lei il bambino o sai che sta per
arrivare, dismetti il tacco per le slippers. La suocera tornerà a sorridere,
vedendoti rasoterra, e ti lascerà in pace.
Ma non ti scordare che i genitori, che siano i tuoi o quelli di tuo
marito, sono come le scarpe: più sono stretti, più fanno male.

La vostra Ivy,
dea del tacco e donna con quel quid in più
PARENTI TAGLIENTI

– 25 giorni al matrimonio, cena


«Posteggia qua.» Gli indico lo spiazzo davanti all’ospedale.
Mr Buk, due mani sul cambio per riuscire a inserire la retro, tenta
una manovra di parcheggio tra un’automedica e l’ingresso del pronto
soccorso. Rischiando di lasciare una fiancata sulla macchina con la croce
rossa in campo bianco pronta per le emergenze.
«Mi ricordavo che casa tua fosse più avanti, dall’altra parte della
strada.»
«Sì, ma almeno qui troviamo parcheggio.»
«Tuo papà non aveva un garage da otto posti auto?»
«Ma che dici?»
Così almeno mio padre non vede con quale mezzo Mr Buk porta in
giro la sua adorata figlia.
Scarichiamo il pullmino. I cani trotterellano in giro cercando il
posto adatto per lasciare un segno del loro passaggio. Recupero un paio
di bottiglie dal cestino e la conserva di pomodoro. Lascio le carote ai gas
di scarico e le riviste inneggianti allo scrittore maledetto donatemi da
Carla.
«Mamma, siamo arrivati» urlo nel citofono, ma il vociare di Osso, il
pincher di casa, ha già anticipato la nostra venuta. Il cane si precipita
correndo giù per i gradini fino al giardino che, nonostante la pioggia
inquieta degli ultimi giorni, è di un verde perfetto, simile all’erba finta di
San Siro prima di una partita.
È una questione di principio. Per i miei quello è il biglietto da visita
del proprietario: un prato curato anticipa quanto si troverà all’interno.
Armonia e ordine maniacale. Osso non smette di saltare, cimentandosi in
una danza per rincorrere le code dei suoi nuovi amici.
«Invidia della coda!» dice ridendo Mr Buk, già con le braccia
allargate verso mio padre.
«Badola, ma ti sei messo la pelliccia in testa? Di’ un po’, ma il BMW
dov’è che l’hai parcheggiato?»
«Clorinda ha detto che non c’era posto, così ho lasciato il van nel
piazzale dell’ospedale.»
«Ah, bravo! Ti sei fatto il SUV? Auto sportiva e brillante. Alla tua età
sarebbe piaciuta anche a me. E poi, con la qualità tedesca non si sbaglia
mai. Di’, ma sta parrucca è uno scherzo, vero?»
Vedesse il vecchio pullmino con le tendine, un infarto o un colpo
apoplettico non glielo toglierebbe nessuno. Saverio gli batte una mano
sulla spalla, ma quando Mr Buk fa per abbracciarlo lui lo scansa.
«Va’ che non so come funziona da voi a Milano, ma qui in provincia
si baciano le donne, mica gli uomini. Vieni dal vecchio, Clorinda!»
Mia mamma si sbraccia dalla porta, brandendo un mestolo.
«Ragazzi, ma che piacere!»
Mr Buk le va incontro e i cani lo seguono a ruota. Bobby Marley
appoggia le zampe sulle spalle di mia madre, rischiando di farla cadere, e
Maciste diventa l’ombra di Osso, trotterellandogli tra le zampe e
continuando a leccarlo. Tanto che mio padre si rivolge a Mr Buk: «Ma l’ha
capito che è un maschio? No, perché voi di città mi sembrate tutti un po’
strani. Te che mi vieni incontro per baciarmi, il tuo cane che lecca dove
non dovrebbe. Io non ho niente in contrario, per carità, ognuno a casa
sua fa quel che vuole ma, a casa mia, le regole le decido io».
«A tavola» intona mia madre.
Capello raccolto in uno chignon spettinato, ballerine di vernice e
grembiule a quadretti, da casalinga degli anni Cinquanta, uscita da una
puntata di “Happy Days”.
Entriamo in casa e veniamo dirottati direttamente a sederci. Al
centro del tavolo troneggia un cotechino, attorniato di lenticchie.
«Meno male che a pranzo siamo stati leggeri» commenta Mr Buk.
«Prenditela con tua suocera» ribatte mio padre. Ho un sussulto:
passi che Carla sia sensitiva, ma lui no. Più che prevedere il meteo del
giorno dopo, guardando come si muovono le nuvole sulle montagne, non
ce la fa. O almeno così credevo. «L’aveva dimenticato in fondo alla madia
e, scadendo tra quindici giorni, ha creduto che una fettina come antipasto
non avrebbe fatto male a nessuno.»
Mr Buk sta fissando catatonico il ritratto di un gentiluomo in
calzamaglia nera. È un dipinto antico, che ritrae un oscuro conte. Barba a
macchia di leopardo, naso a uncino, cappello vittoriano calcato in testa e
camicia a sbuffo.
«Ma è un vostro parente?»
«Chi? Il conte di Valmont? È una tela che viene dal castello di
Chatillon.»
«Sì» insiste Mr Buk, «ma lui è un vostro parente?»
Saverio lo guarda come se avesse davanti un alieno e risponde
stizzito: «Ovviamente, no!».
«E allora perché lo tenete appeso nel vostro soggiorno?»
«Perché è bello!»
«Insomma… ho visto uomini più belli in vita mia.»
Gianna allunga il vassoio, servendo due fette di cotechino a testa.
«Auguriii» interviene Mr Buk.
«Dov’è lo spumante? E il telecomando? Non vorrei per nulla al
mondo perdere il conto alla rovescia su Raiuno.»
Mio padre lo squadra con un’occhiata sarcastica e tagliente.
«Papà, Candido voleva dire…»
«Ho capito perfettamente. Ma poi come fai a stare con uno che si
chiama Candido e mi chiede se il conte di Valmont è mio parente!»
«Io lo trovo un nome romantico» interviene Gianna, mia mamma.
«Ricorda la luna piena.»
«In realtà è perché sono nato in macchina durante una nevicata e,
comunque, trovo originale l’idea di servire il cotechino in qualsiasi
momento dell’anno. Forse, l’avrei accompagnato con una crema di
ananas. Per dare un tocco di modernità a una ricetta classica.»
Gianna, adepta del Cucchiaio d’argento, è punta sul vivo. Fa mente
locale. Cerca di ricostruire una ricetta a lei ignota. L’ananas lo mette nella
macedonia. Può accompagnare il bollito misto al posto della mostarda.
Ma cosa c’entra con il cotechino? Certo, la salsiccia negli antipasti
piemontesi si abbina alla prugna, frutto che cresce senza problemi
coltivato dentro le serre.
«C’è un programma che si intitola “Sapori dell’altro mondo” in cui
gli ingredienti locali vengono abbinati a gusti esotici, partendo dagli
avanzi che si hanno in frigorifero. Nell’ultima puntata la conduttrice
consigliava di fondere il sapore casereccio del cotechino con quello
esotico dell’ananas.»
Gianna è interessatissima.
«Dobbiamo provarlo, vero Saverio?»
Osso e Maciste lo guardano: gli occhi fissi per ipnotizzare il nonno e
convincerlo a cedergli un boccone.
«Ma che bella ricetta!» Mio padre sfodera l’arma del sarcasmo.
«Alle fine te lo serve uno zulù con un gonnellino di foglie di banano? Di’,
ma come mangiate in città? Pesce crudo? Ananas col cotechino? Qui
siamo in Italia, mica a Rio de Janeiro e il cotechino, la tradizione insegna,
si serve con le lenticchie.»
La cena procede con agnolotti alla fonduta – che Mr Buk neanche
assaggia per un’allergia ai latticini – e un luculliano arrosto con patate. La
bottiglia di Barolo tocca il fondo e con esso il tenore dei discorsi.
Terminato il gelato al maraschino – che con mia sorpresa anche Mr
Buk mangia pur odiando il maraschino –, batto il cucchiaio contro il
bicchiere di cristallo, attirando l’attenzione dei commensali. I cani sono
stranamente silenziosi. Avrei dovuto badare di più ai dettagli, notare gli
sguardi assenti di Osso e Maciste esausti sotto il tavolo, vedere Bobby
Marley accasciato su un preziosissimo tappeto kilim.
«Papà, mamma, nelle Langhe l’altra sera è successa una cosa molto
importante.»
«Vi è apparsa la Madonna del Roero. Lo so, il Barolo fa brutti
effetti.»
«No, papà, il vino non c’entra.»
Tiro un calcio sotto il tavolo, colpendo lo stinco di Mr Buk. Ho
sempre immaginato fosse l’uomo a dover prendere la parola. Ma lui
reagisce con un sussulto che mi spinge a continuare.
«Volevamo informarvi di una cosa…»
Osso guaisce ma è l’unico a emettere un verso. Per il resto tutto
tace, fino al rigurgito. Una macchia gialla sulla moquette.
«Eppure ha mangiato le solite crocchette!» Gianna si china sulla
chiazza e, con la dedizione tipica delle madri, analizza la composizione
delle tracce biologiche. «Crocchette, ma anche maraschino. Saverio, sei
stato tu a dare del liquore al cane?»
«Ma no, cosa dici, Gianna?» Osso non sembra l’unico a soffrire.
Maciste si mette a rincorrersi la coda, come farebbe un ubriacone che
tenta di infilare la chiave nella serratura senza riuscirci, e Saverio
finalmente delibera: «Qualcuno li ha avvelenati. Dobbiamo chiamare i
carabinieri».
«Semmai il veterinario» replica preoccupata mia madre, il cui
interesse è che i quadrupedi si rimettano prima di rovinarle il parquet o i
preziosi tappeti. L’unico tranquillo sembra Bobby Marley, fino a quando
non sgancia una ventata di gas nervino. Roboante e dal fetore mefitico.
Squadro Mr Buk, che in questo scenario apocalittico, pare
tranquillo.
«Hai qualche idea sull’accaduto?» domando con fare accusatorio.
Lui capisce a cosa mi sto riferendo e sorride. «Vedrai che si
ristabiliranno in fretta.»
I cani non sono stati avvelenati. O, almeno, non da estranei: Mr Buk
passava loro sotto il tavolo tutte le cose che a lui non piacciono. Gelato al
maraschino compreso. Bobby, all’ennesimo subbuglio intestinale, chiede
di uscire, ma Gianna è concentrata sulla rimozione della macchia con un
panno umido impregnato di sapone. Saverio sta ricostruendo le
dinamiche della scena del delitto, io sto incenerendo con lo sguardo Mr
Buk, e nessuno si accorge che Bobby Marley, in preda alle coliche, cerca
di aprire la porta sul giardino. Nonostante graffi la parete, lasciando
segni indelebili sullo stucco veneziano, io realizzo l’imminente tragedia
quando ormai è troppo tardi. Ed è un’esplosione sul kilim. Il cane
mortificato viene a guaire da me, e mio padre si alza in piedi e grida:
«Portate fuori quel gigante dall’intestino pazzo».
Il salotto si trasforma in un pronto soccorso: due cani ubriachi e un
terzo in preda a sconquassi gastroenterici. L’odore è disgustoso e Mr Buk
chiede a Gianna l’armamentario per sciacquare il pavimento. Non faccio
nemmeno il gesto di aiutarlo. «Conta fino a dieci» mi dice sottovoce, ma i
mantra che usa di solito per calmarmi non hanno effetto. Non oggi. Siamo
qui per un motivo, ma con questi presupposti la reazione di Saverio sarà
prevedibilmente la peggiore.
«Perché l’hai fatto? Ma soprattutto, perché oggi?»
Lui scrolla le spalle e torna a pulire, tanto che in dieci minuti la
situazione è già rientrata. Saverio è in poltrona, un patriarca dell’Antico
Testamento, Osso da una parte e Maciste dall’altra. Li accarezza
entrambi, avvolgendoli in una copertina di pile. In fondo sono i nipoti che
non ha e ai bambini, che camminino su due o quattro zampe, si perdona
tutto.
«Sedetevi.» Calmata la tempesta e con l’odore di pino silvestre
nell’aria, riprende a parlare: «Allora, ragazzi», allunga la mano, cercando
la complicità della moglie, «ho come l’impressione che vogliate dirci
qualcosa di grosso.»
Prendo fiato e, nel modo più solenne che conosca, tento di dire con
voce ferma: «Candido mi ha chiesto di diventare sua moglie».
Pronuncio la frase tutta d’un fiato, il più velocemente possibile per
non incespicare nelle parole ma, soprattutto, per non vedere il sorriso di
mio padre adombrarsi e la ruga del dubbio spuntare tra le sopracciglia.
Nella stanza cala il gelo.
Venti secondi? Trenta? Poi una voce si insinua. Sottile come lo
spiffero di una finestra, penetrante quanto il trapano del dentista,
invadente quasi fosse la coscienza.
«E l’anello?» È Saverio, atterrito dalla notizia: la sua bambina over
trenta, votata a quello che sembrava un fiero zitellaggio, capitola.
Lo capisco dal suo sguardo, improvvisamente accigliato.
«Pervenuto!» dico in un tono un po’ troppo stridulo.
Allungo la mano sinistra. All’anulare splende la veretta di diamanti.
Mio padre la sfila, osservandola con l’attenzione di un gioielliere. Le
pietre brillano catturando la luce.
«Sembra vero.»
«Appartiene alla sua famiglia e viene passato di generazione in
generazione.»
«Capisco: contenta te di sposare uno che mangia l’ananas col
cotechino, ma di’ un po’, non è che sei in attesa di un “pandorino”?»
«Cosa ti viene in mente, papà?»
«Perché i matrimoni riparatori non mi hanno mai convinto, e poi ti
ho visto un po’, come dire, lievitata!»
«Grazie per il tatto! Comunque, stai tranquillo: non c’è nessun
pandorino, panettoncino o colombina nell’aria. Mangio fuori, mangio
male e il mio fisico ne risente. Tutto qui.»
«Meglio così, sono ancora troppo giovane per diventare nonno, e
poi» dice rivolto a Mr Buk «vorrei avere qualche dettaglio in più sulla vita
del badola.»
«Sono qui per risponderti, Saverio.»
Mio padre è un osso duro.
«La tua fidanzata», mi afferra la mano, «è sempre stata vaga in
merito al tuo lavoro ma, come avrai capito», e allarga le braccia a
mostrare il salotto, «mia figlia è abituata a questo», e indica una statua di
marmo di un pescatore bambino.
«A ospitare i pescatori in casa?»
Saverio è stranito. Non riesce a capire quanto Mr Buk interpreti una
parte o quanto sia realmente così, ma insiste.
«Qual è il nome dell’azienda per cui lavori?»
«Sono un freelance.»
«Vuol dire che non hai uno stipendio fisso, ma sei un
imprenditore?»
«Più o meno!»
«Ti capisco. Io alla tua età ho lasciato la sicurezza del dipendente
per mettermi in proprio. Bravo», e gli dà una vigorosa pacca sulla spalla.
«E quale sarebbe il tuo settore?»
Terrorizzata da quanto potrebbe rispondere, lo anticipo. «Animal
care.»
«Be’, adesso anche tu ti metti a parlare in inglese? Cos’è sta roba?
C’entra con i cari estinti? Non dirmi che vuoi metter su un’impresa di
pompe funebri? Un po’ macabro, però i clienti si trovano sempre! Giusto
qui di fronte c’è l’obitorio…»
«Ma no, papi: è un settore in grande espansione», mi arrampico
sugli specchi, «dedicato alla cura dei… surrogati dei figli.»
«Interessante: quindi l’ambito è sociale. Certo», e fa un cenno con le
dita, «profitti… poca roba. Io consiglierei un settore in cui la speculazione
sia maggiore, però, ripeto, contenti voi. Almeno dormirete tranquilli
senza il terrore dei controlli della guardia di finanza. Detto ciò, da parte
mia, avete la mia benedizione. Gianna, mi prendi il calendario?»
Mia mamma gli consegna un’agenda della banca. Fogli bianchi
suggellati in alto a destra dai cicli lunari e dal santo del giorno.
«Direi di non metterci tanto tempo, perché uno più ci pensa più
rischia di tornare sui suoi passi, e poi non mi piacciono le carnevalate con
duecento persone. Pochi ospiti e ben scelti» che tradotto dal “saveriese”
all’italiano, vuol dire: “la lista la faccio io e la data la scelgo sempre io”.
«Siete d’accordo, vero?»
Ovviamente annuiamo.
«Bene, allora lascerei passare questi mesi e potremmo pensare a
una cerimonia intima a giugno.»
«No, papi. Io preferirei prima.»
«Ma tesoro, in primavera il tempo potrebbe fare degli scherzi, e poi
se subentra un acquazzone… comunque va bene.» Sfoglia le pagine a
ritroso, fermandosi a un giorno di maggio. «Facciamo il 18 e non se ne
parli più.»
«No, papi, noi una data l’abbiamo già decisa.»
«Ah, sì, e quando sarebbe?»
«Tra venticinque giorni!»
Lo vedo sbiancare. «Gianna, prepara i bicchierini per la grappa, ho
l’impressione di avere un giramento di testa.»
«Ma papà, non sei felice?» Gli butto le braccia al collo, come facevo
da bambina per fargli credere che il due preso a scuola era dovuto alla
migrazione di uno stormo di draghi che avevo osservato dalla finestra.
«Be’, sì. Ma venticinque giorni sono pochi!»
«Non preoccuparti, Saverio» interviene Mr Buk, finalmente
sorridente. «Facciamo in tempo a invitare anche il conte di Valmont.»
COUNTDOWN VERSO L’ALTARE

– 25 giorni al matrimonio, notte


Il lunotto abbraccia l’orizzonte di una giornata che è stata infinita.
Mr Buk guida, sorridendo sotto i baffi che non ha.
«Una ventiquattr’ore al cardiopalma.»
«Assurda.»
«Ma no, dài: poteva andare peggio!»
«Sì, alla notizia tua madre avrebbe potuto offrirmi la passata
dell’orto, oltre al dio Ganesh, e mio padre infilzarti con una delle lance
medioevali che tiene nel suo studio insieme alle armature appartenute a
Enrico VIII. Per il resto, direi che non ci siamo fatti mancare nulla. Cani
avvelenati e parenti sull’orlo all’ischemia: un successo!»
Bobby Marley non si è ancora ripreso e, nonostante la temperatura,
tengo il finestrino giù per evitare di essere travolta dalle ondate
mefitiche che arrivano dal retro del Van.
«La prossima volta chiederò a tua madre gli ingredienti del dolce»,
sghignazza Mr Buk.
«Facciamo che la prossima volta eviterai direttamente di passare i
bocconi sotto il tavolo, se non vuoi che chieda il divorzio prima del
matrimonio.»
Mr Buk è concentrato sulla guida, e la mia mente vola altrove.
«Venticinque giorni, quindi.» La sua voce mi riporta nel Van.
«Chissà se mi dirai la verità sul perché ti sei incaponita su questa data…
non mi pare ci siano ricorrenze particolari che ci riguardano.»
«Ma come, te l’ha detto tua madre: c’è Saturno in trigono!»
«Con Venere, certo. Ma non ti è mai importato nulla dell’astrologia,
e adesso di punto in bianco conosci le mappature complete
dell’oroscopo?»
«Hai ragione: restiamo alla pratica. Dobbiamo fare un piano di
battaglia.»
«Ovvero?» Si volta verso di me.
«Dobbiamo stilare un elenco delle cose da fare e dividercele. Il
tempo è poco e innanzitutto bisogna procedere con i documenti.»
«Vuoi che ci pensi io, Linda? Domani posso andare in comune.»
«Mi sembra un ottimo inizio. Io vedrò di recuperare i due abiti e
trovare la location per il rito. Ovviamente, decade l’ipotesi della chiesa,
perché non abbiamo il tempo per avere tutti gli incartamenti necessari.»
«Tuo padre ci rimarrà male.»
«Se ne farà una ragione! E poi così evitiamo il corso
prematrimoniale, non credo che tu abbia voglia di sottoporti a un
semestre di catechismo e parabole domenicali.»
Quasi inchioda. «No! Il corso prematrimoniale, no! Da piccolo
detestavo andare all’oratorio e non ho intenzione di ripetere
l’esperienza.»
«Ero certa che avremmo trovato un punto d’incontro! Poi, il marito
non deve vedere l’abito, perciò non resta che procedere con le
partecipazioni.»
«Mi metto all’opera appena a casa. Quanto alle fedi, se mi dai carta
bianca, avrei un’idea.»
«Aggiudicato.» E battiamo un cinque. Il van rallenta imboccando
l’uscita di un Autogrill.
«Dopo tutto quello che hai mangiato, non dirmi che hai ancora
fame!»
Mr Buk mi indica la lancetta della benzina. «È lui ad aver sete.
Siamo a secco e conosci questo vecchietto, si ferma sempre sul più bello.»
Le luci brillano in lontananza, Mr Buk apre la portiera e Bobby si
allunga verso di me rilasciando l’ennesima ventata, a memento del
maraschino indigesto. Abbasso il finestrino, perfino Maciste preferisce
l’odore della benzina al fetore dell’abitacolo, ormai trasformato in
camera a gas. Mr Buk armeggia con la pompa.
«Dobbiamo fare qualcosa per Bobby» gli comunico, «oppure
stanotte rischiamo di morire intossicati.»
«Una pastiglia di carbone e passa la paura.»
«Dici che vanno bene anche per loro?»
«Tentar non nuoce: tanto, peggio di così!»
Bobby posa il muso sulle mie ginocchia, come a chiedere scusa. Gli
stropiccio il pelo e accarezzo le orecchie.
«Vecchio puzzone: che figure mi fai fare in giro per il mondo?»
Sembra che capisca tutto. Mr Buk si affaccia al finestrino. Alzo la
testa.
«Non mi hai detto la cosa più importante.»
«E cioè?»
«Qual è il nostro budget?» chiede.
Il “nostro” budget!
«4027 euro.»
«Allora, adesso facciamo cifra tonda. Mi servono ventisette euro per
la benzina.»
La “nostra” benzina.
I SOLDI (NON) FANNO LA FELICITÀ

– 24 giorni al matrimonio (rientrati alla


base finalmente fidanzati)
Anello di fidanzamento: ce l’ho
Annuncio fidanzamento: fatto
Budget a disposizione: 4027 euro (– 27
euro della benzina)

«Una Caporetto.» Baby infila in bocca una forchettata di insalata di


riso così grande da sembrare una montagna, un monte Fuji di chicchi
splendenti.
«Dopo la sposa cadavere, la sposa spiantata!»
«Non ho alternative. Abbiamo poco più di quattromila euro e
dobbiamo farceli bastare.»
Baby è venuto a trovarmi in ufficio per una pausa pranzo che è
cominciata presto e dura ormai da un paio di ore. Cercando di non dare
nell’occhio, ci siamo messi sulla terrazza affacciata sul traffico di Sesto
San Giovanni.
Cappello magrebino e coloratissimo caftano hanno insospettito le
guardie all’ingresso, che gli hanno consegnato il badge visitatore solo
dopo avermi chiamato per accertarsi che davvero avesse un
appuntamento con me.
«Di’, ma con il tuo capo hai parlato? Non voglio menar gramo, ma ci
sono datori di lavoro molto fiscali sui congedi matrimoniali.»
Mi stringo nel piumino, il sole è ancora timido.
«Tu porti sfiga, Baby. Guarda chi si sta avvicinando.»
«Clorinda, ti ho cercato al tuo interno. Ecco dov’eri finita!»
«Ho il cellulare aziendale, se non rispondo in ufficio sai come
trovarmi. Volevo presentarti il mio amico…»
«Che piacere conoscerla», Baby allunga la mano a Leader Minimo.
«Sento molto parlare di lei!» E io gli tiro un calcio d’ammonimento sotto
il tavolo, a titolo preventivo.
«Non posso dire lo stesso. Ah» ammicca ironico, «complimenti per
la tunica.»
E Baby in visibilio. «La ringrazio: è un capo della mia collezione.»
«Pensavo l’avesse comprata su una bancarella del mercato! Vi
lascio proseguire con il vostro pranzo. Quanto a te, Clorinda, oggi
pomeriggio devo scappare per una riunione fuori ufficio, ma domani
mattina ci vediamo, visto che il nostro appuntamento di stamattina alle
dieci è saltato.»
Annuisco svogliata.
«Non sarai mica incinta? Perché mia sorella, alla prima gravidanza,
si dimenticava tutto.»
Si allontana prima di darmi il tempo di rispondere, con la sua
andatura goffa, i suoi capelli troppo ricci e il suo dozzinale dopobarba.
Baby mi abbraccia. «Ottimo, tesoro. Veramente, ottimo!»
«Che cosa? Il fatto che tutti sospettino che io sia in dolce attesa o
che il mio capo sia l’essere più insensibile dell’universo? No, perché io
non trovo motivo di gaudio in nessuno dei due casi.»
«Quel vizio di non leggere tra le righe. Ti ostini a fermarti alle
apparenze!»
«Cioè?»
«Rifletti! Ti ha appena dato il pomeriggio libero, dicendoti che non
ci sarà!»
«E quindi?»
«Andiamo a provare meringhe da sposa: gli abiti premaman sono
bellissimi e poi», scosta la sedia, «in un mese il pancino non può
esplodere.»
«Oh, ma cosa avete tutti? Non aspetto niente!»
«Tanto meglio, arriverai perfetta all’ultima prova dell’abito, allora.»
«Che non ho e che non posso permettermi. Tra l’altro detesto il
bianco, e nel mio armadio non ho niente di elegante con cui tu ti possa
sbizzarrire.»
«È un errore porre limiti alla provvidenza: hai qui il trasformista
della stoffa. Capirai che è il tuo abito perché sarà lui a trovarti. Coraggio,
sbrigati a finire!»
L’insalata transgenica mi guarda: due foglie di lattuga verde
speranza, qualche pachino rosso passione e un paio di fettine di pollo
esangui. O più semplicemente bianche, come gli abiti, voluminosi e
ingombranti, follemente cari ed estremamente scomodi che sto per
provare.
L’ABITO FA LA SPOSA, MICA IL MONACO!
La sposa è il suo abito. Quel giorno tutti, perfino quelli che soffrono
di sciatica, aspettano il suo ingresso per alzarsi – si volta anche chi è
vittima del torcicollo –, e rimanere a bocca aperta ad ammirarla.
«A occhio e croce», la commessa mi squadra senza pudore, «direi
che la signora porta una quarantadue/quarantaquattro. Vi lascio da soli
qualche minuto. Se vedete qualcosa che vi piace, giratelo in questo
modo», ne sposta uno verso di me: una cascata di tulle su più strati e un
bustino strettissimo intarsiato di brillanti. «E ricordate che l’abito va
provato e non guardato.»
«Iniziamo male: il mio genere è l’esatto contrario di questo» e lo
rimetto a posto.
Devo veramente mettermi a dieta, se da una quaranta scarsa sono
aumentata di due taglie senza nemmeno accorgermene. Quella distesa di
bianco è abbacinante: forse peggio di una nevicata.
«Ci vorrebbero gli occhiali da sole!» Do una gomitata a Baby. «Di’,
ma le spose sono alte tutte un metro e novanta?»
«Ma no, tesoro, gli abiti vengono rifiniti in un secondo momento.
Ricorda: ce n’è uno per ogni sposa. Ne puoi provare duemila, ma solo uno
farà al caso tuo.»
Controllo i cartellini. Cinquemila, seimilatrecento, diecimila euro.
«Qui dentro non posso permettermi neanche il velo!» sussurro
all’orecchio del mio amico.
«Tu lascia fare a me, nella peggiore delle ipotesi, ho già pronto il
piano B!»
Mi sto già preoccupando, visto com’è andata con l’ultimo piano B.
«Proviamo questo.» Ne gira uno fasciato fin sotto i fianchi. «E
questo.» Ne volta un secondo avorio con una lunghissima coda di pizzo.
«Non è male» dico, avvicinandomi a guardarlo. Stile impero,
essenziale ma con una vistosa fascia con fiocco sotto il corpetto.
«E questo», Baby continua la ricerca, «è meraviglioso.»
Un modello interamente in pizzo, con la schiena nuda.
«Sembra un abito da sera, se mio padre mi vede così cosa penserà
di me?»
«Tuo padre, tuo padre… ancora con questa solfa! Sei tu la sposa,
tesoro.»
Timidamente controllo il cartellino. «Quindicimila euro??? Ma io
non lo provo neanche!»
«Dai retta a Baby.»
Mi spinge in camerino.
«Mutande e reggiseno.»
«Cosa?»
«Devi aspettare così la signorina per la prova abito,
scommettiamo?»
«Ma tu fai il wedding planner nel tempo perso?»
«Diciamo che sono un uomo dalle mille risorse, darling!»
La commessa mi offre una salvietta per rimuovere il trucco, poi mi
chiede di mettermi a piedi uniti e braccia alzate sopra la testa. Una posa
da tuffatrice della domenica, ma, invece di spanciare sulla superficie di
una piscina, mi tuffo nel tulle del primo abito – una sirena dalla coda
voluminosa. La commessa mi porge un braccio per reggermi mentre
calzo un paio di décolleté grigio perla. Mi sistema la lunghezza e pinza
l’abito sulla schiena in modo che segua la linea dei miei fianchi.
Mi sembra di essere una geisha: chiusa dentro un kimono a prova
di respiro. La ragazza mi raccoglie i capelli con un fermaglio e,
prendendomi per mano, mi conduce fino alla pedana del salottino dove
mi aspetta Baby.
«Amore, che sposa splendida sarai!» Si sta già commuovendo.
Alla commessa brillano gli occhi.
«Ottimo gusto, il signore. Quest’abito, appartenendo alla scorsa
collezione, costa solo cinquemila euro!»
Io sto per sentirmi male, ma lui scuote la testa.
«Girati verso di me, amore.»
Si alza e sistema lo strascico.
«Fianchi.»
Me li tasta con fare esperto.
«Sei uno scricciolo e ti fa dei fianchi da fattrice.»
La commessa si sistema gli occhiali per vedere meglio. «Basta fare
una pince qua e un taglio là», e stringe fino a togliermi il fiato.
«No, non va. Possiamo passare al prossimo» sentenzia Baby.
La fascinazione del secondo sparisce appena lo indosso. Mi sento
Puffetta: con quella coda chilometrica divento ancora più piccola di
quanto sono normalmente. Non solo, le scarpe troppo grandi mi fanno
inciampare e l’abito è pesantissimo. «Se devo portarlo per un giorno
intero, muoio!» E, prima ancora che Baby deliberi, sono io a decidere che
non va bene.
La sua voce, fuori dal camerino, mi ricorda: «È l’abito a scegliere te
e te ne renderai conto appena l’avrai indossato».
Il terzo pare più accessibile. Di organza candida con un piccolissimo
strascico. Raggiungo la pedana e vedo Baby strabuzzare gli occhi. «Ti sta
un incanto!»
La commessa guarda il prezzo.
«Quattromila euro: che occhio! Ha scelto il più scontato in
assoluto.»
Baby mi gira intorno, sistemando il bustino e fotografando il fiocco.
«Sì, però, signorina, con questo fiocco sembra un uovo di Pasqua.
Andrebbe bene su una valchiria di due metri, non su una che a stento
arriva al metro e mezzo.»
«Sono alta un metro e cinquantotto!»
«Vede? Cosa le avevo detto?»
Ormai la commessa ignora me e parla solo con lui.
«Se il signore non gradisce l’inserto, possiamo sempre
rimpicciolirlo.»
«Sì, ma poi mi perde corpo la struttura. Non sono molto convinto.
Possiamo procedere con il successivo?»
La commessa rassegnata annuisce. «Le ricordo, signore, che è
l’ultimo.»
Dedica grande cura alla vestizione. Per la quarta volta assumo la
posizione del pesce missile, e lascio che il corpetto di seta scivoli sulla
pelle.
È sicuramente l’abito più prezioso, con la scollatura a cuore e la
schiena nuda. Le braccia disegnate dal pizzo di cui è fatto anche il
bustino. La commessa aggiunge un velo, di pizzo anch’esso, lungo un paio
di metri. “Grace Kelly” penso senza potermi ancora vedere. Mi
accompagna alla pedana e, quando vedo la mia immagine riflessa nello
specchio, i ragionamenti sulla follia degli abiti che metti per un giorno e
poi tornano a prendere polvere negli armadi, dove diventano il fiero
pasto di altrettante fiere tarme, sfumano in un colpo.
È lui. È il mio abito. E mi ha trovato.
Sento gli occhi riempirsi di lacrime, ma resisto.
«Sei uno schianto.» Baby è in estasi.
«I signori hanno un ottimo gusto. Hanno scelto il pezzo più bello del
nostro atelier. Quindicimila euro, e il velo lo regaliamo noi.»
Quasi svengo a sentire la cifra.
Baby invece scatta foto all’impazzata, come se lo spirito di un
giapponese si fosse impossessato di lui. Indugia sui dettagli del pizzo,
conta i ganci del bustino, controlla le cuciture e gli strati di tulle sotto la
gonna. Con i gesti sembra dire “È l’abito per la vita”, ma le parole
suonano diverse: «Sì, grazioso».
La commessa sgrana gli occhi.
Sentire etichettare il più bel pezzo della collezione con un tiepido
“grazioso” è troppo.
«Bene, se i signori non hanno trovato nulla, invito la signora a
seguirmi.»
Mi sveste velocemente, si carica sopra la testa i vestiti e se ne va. Io
mi ritrovo in intimo da battaglia con scarpe grigio perla dalla punta
troppo lunga.
«E adesso che si fa?» chiedo a Baby che infila la testa nel camerino e
mi mostra lo smartphone.
«Ho tutto sotto controllo. Ti fidi di me?» chiede.
Ho alternative?
MAI ACCETTARE RACCOMANDATE DAI CONOSCIUTI
Appena varco il portone di Palazzo Ranieri, Ettore mi mostra una
busta bianca.
«Scommetto che si tratta di una raccomandata da firmare.»
Da quando siamo in ballo con il supercondominio, ovvero la fusione
del nostro palazzo con quello adiacente con cui spartiamo il cortile, c’è
un gran fermento. Il più fervido sostenitore è Ettore che, da quando si è
sposato con Ignes, desidera uno stipendio più sostanzioso.
Il piccolo bilocale in cui abitano – pochi metri quadri che Ignes,
peruviana purosangue, ha decorato con i ninnoli delle sue terre – non
basta più. Non perché abbiano idea di moltiplicarsi, ma perché Ignes ha
invitato i parenti a venire in Italia e, da soli, riempirebbero due piani di
Palazzo Ranieri.
Ettore, naturalmente, credendo fermamente che la famiglia sia la
finalità di ogni vita, non se l’è sentita di rispedire moglie e parentado da
dove sono venuti.
Strappo la busta.
«Un’altra assemblea straordinaria? Appena a casa leggo, e se posso
partecipo.»
Trafelata, mi raggiunge la vicina del sottotetto. Sei bottiglie d’acqua
da una parte e un voluminoso sacchetto da cui spunta un pacco di pasta
surgelata dall’altra.
«Ernesto funziona?»
Il trucco che a fine giornata pare appena fatto, i capelli in ordine, le
gambe chilometriche, camicia bianca con un fiocco malizioso all’altezza
del seno e splendido trench di pelle nera come la gonna al ginocchio.
Con un gusto per le scarpe decisamente favoloso, Ivanna Tramps,
così si chiama, è la vicina di casa che ogni donna dovrebbe avere. Da
contratto, riportata sulla piantina catastale come il solaio o la cantina.
Ogni volta che ci incrociamo lei mi sorride, deve essere simpatica.
Ettore è pronto per fare l’annuncio anche a lei, ma decido di
anticiparlo.
«C’è una raccomandata!»
«Oh madre de dios, un’altra assemblea? Per pagare cosa, questa
volta. Questa casa costa come una residenza in via della Sfiga.»
Penso che si potrebbe usare nel claim di un’agenzia immobiliare:
“Proponiamo immobili in via della Sfiga: facciate rotte, scale cigolanti e
inquilini pittoreschi compresi nel prezzo”. Cancello il pensiero e le porgo
la mano. Vista da vicino, con quegli stiletti di quattordici centimetri,
sembra una modella.
«Piacere, Clorinda.»
«Ma non mi dire che anche tu ti sposi?»
«Scusa, come hai fatto a capirlo?»
«Be’, o sei maschilista oppure perché comprare “Vogue Sposa”?»
«No, non sono masochista.»
È un regalo di Baby. Dopo la sessione al centro Sposi per sempre!, si
è fermato all’edicola di Loreto ed è tornato con una copia della rivista per
cercare spunti.
«Hai già trovato l’abito?» continua Ivanna.
«Purtroppo no, ma ho un ottimo stilista che mi aiuterà. Nel settore
lo conoscono come Baby…»
«Meraviglioso!» esclama entusiasta. «È un genio della stoffa e a
Milano è un’istituzione. È capace di trasformare una tuta in un abito da
cerimonia. Sei in buone mani! Anzi, se posso darti un consiglio, guarda
questa sera la trasmissione “Sposami subito”. L’autrice del programma
abita qui, di fronte a me.»
La trasmissione non la conosco. Tra l’altro la tv ha dato forfait il
mese scorso e non me ne posso permettere una nuova ma mi limito a
rispondere: «Non guardo la tv».
Mentre si allontana, Ivanna conclude: «Tesorito, non si può vivere
senza la scatola magica. Stasera ti aspetto da me. Chiama Baby, se vuoi. Ci
vediamo alle otto. Non portare nulla. L’alcol in casa mia non manca mai!».
Constatato che l’ascensore è fermo, si incammina per le scale e,
slacciato il cinturino delle Mary Jane e sfilati i trampoli, sale verso casa
ancheggiando come una diva.
CASA DOLCE CASA
La chiave non entra – sai che novità! Suono il campanello e sento la
zampa di Bobby Marley graffiare sul legno della blindata, e Maciste si
mette ad abbaiare con tutto il fiato che ha in gola. «Siete in casa?» Due su
tre di sicuro e, se c’è una chiave nella serratura, significa che o Mr Buk è
collassato nella vasca da bagno o, più probabilmente, sta ascoltando la
musica al massimo.
«Ragaaaaaazziii!» urlo, sentendomi la conduttrice del “Grande
Fratello” quando verifica che l’audio sia aperto nella casa dei concorrenti.
Nell’appartamento di Palazzo Ranieri l’audio deve essere chiuso. Lo
chiamo sul cellulare e mi risponde con voce squillante, come se fosse lì
ad aspettarmi.
«Lindaaa, amore mio, ti stavo dando per dispersa! Che fine hai
fatto?»
Rassegnata, mi siedo su un gradino.
«Aspetto!»
«Ma dove?»
«Sul pianerottolo di casa nostra!»
«E perché stai lì?»
Taccio e lui interrompe la comunicazione, realizzando. Passi veloci
e la blindata che scatta.
«Scusa, avevo la cuffia. Però sto migliorando, eh? Ho tenuto il
cellulare vicino con la vibrazione attivata e ti ho risposto subito.»
Se non l’avessi scelto come compagno per la vita, un calcio sullo
stinco, a questo punto, non glielo leverebbe nessuno, ma sorrido.
«Sono un po’ sbadato, Linda! Comincio a sentire l’emozione di
questi preparativi. A proposito», e mi dà un bacio leggero sulle labbra,
«com’è andata la tua giornata?»
Gli racconto della prova degli abiti da sposa, di come più che una
sirena mi sia sentita una sardina dentro una scatoletta e di Baby che si è
messo a fare il giapponese.
«Che ne sai: magari te ne fa trovare uno uguale!»
Vorrei credergli, ma la storia insegna che è andata bene solo a
quella biondina di Cenerentola e a Kate, che il principe se l’è portato a
casa veramente.
«Con il budget che ci ritroviamo è già tanto se mi rimette in pista un
abito che ho nell’armadio.»
«Mai dire mai e mai dire per sempre.»
«Che, detto da uno che sta per sposarsi, mi pare un’ottima
premessa.»
Mr Buk mi abbraccia e sento il suo profumo. «Ma non sei tu che
ripeti quanto bravo sia Baby nelle trasformazioni? E allora lascia che ti
stupisca.»
«Manca la materia prima.»
Mi accarezza i capelli.
«Perché non chiedi un prestito a Irene? È tua amica, e per un’amica
si fa questo e altro.»
Mr Buk ha ragione. Telefonerò a Irene. La supplicherò, se è il caso.
«E tu mi saprai stupire stasera?»
Lui ammicca strizzandomi l’occhio, se alzasse i pollici al cielo
sembrerebbe Fonzie – dread e pigiama rovesciato a parte. «Hai
programmi bellicosi, Linda?» Mi stringe forte a sé e quasi mi manca il
respiro.
«No, caro Mr Buk, non fraintendermi. Lo sai che il pigiama non è
propriamente un’istigazione a pensieri…», gioco con un bottone, «impuri.
Tra l’altro, da quanto tempo non finisce in lavatrice? Puzza di cane
bagnato!»
«Per creare ho bisogno di stare comodo e i jeans stringono in vita,
se stai seduto. E poi, lo faccio per te: non voglio mica vederti seppellita
dai panni da stirare!»
«Che pensiero gentile. Però, fidati», e gli sfilo la giacca, «il tuo
strumento di lavoro ha bisogno di un bagno a novanta gradi.»
Lui torna a stringermi.
«A che punto sei tu con il piano del matrimonio?» gli chiedo in tono
professionale.
«E io che immaginavo una seratina tutta per noi!»
«Allora?» Lo scanso per la seconda volta.
«Vediamo se riesco a farti star tranquilla con queste.» Sbuffando,
raggiunge il tavolo. Accanto alle cuffie c’è una montagna di carta, lui ci
butta la testa dentro e si mette a smistarla. «Guarda.» Prove su prove. «In
rete si trova di tutto, come vedi. Ho fatto qualche ipotesi per la
bomboniera e, secondo me, questa è la migliore.» Mi porge la stampa di
una tazza con sopra una foto di Maciste con il velo da sposa e Bobby
Marley in papillon sormontati dalla scritta “Clorinda e Candido oggi
sposi”.
«Lo so che magari tuo padre storcerà il naso, ma loro fanno parte
della nostra famiglia. Saranno le nostre BAUmboniere. Che ne pensi?»
«Bellissime, anche se Maciste potrebbe risentirsi perché l’hai
vestito da femmina.»
«All’interno potremmo metterci dei confetti, che recupereremo in
pasticceria.»
«Ma dove si comprano?»
«In rete, naturalmente! In una settimana le abbiamo. Procedo con
l’ordine?»
Annuisco.
Mr Buk compila il modulo e, quando arriva alla fine, mi guarda
scorato. «Serve la carta di credito.»
Frugo nella borsetta e gliela passo.
«Per la cronaca, quanto costano?»
«Sette euro a tazza. Quante ne servono?»
Faccio mente locale, penso a mia madre che da quando sono piccola
mi ripete che tutti si aspettano la bomboniera. Che sia un centrino o un
posacenere di cristallo, finirà sul fondo di un cassetto o direttamente
nella spazzatura, ma non importa.
La bomboniera è il trofeo di ogni matrimonio che si rispetti.
«Cinquanta?» L’ammontare di trecentocinquanta euro lampeggia
sullo schermo. Deglutisco. «Però!»
Mr Buk procede. «Tipo di spedizione? Rischiamo con la classica o
optiamo per quella fast?»
Vedendomi titubante, mi spiega:
«La prima garantisce la consegna entro venti giorni lavorativi.»
Non serve essere un genio per capire che saremmo a rischio.
«Mentre l’altra?»
«In cinque giorni arrivano, ma costa cinquanta euro di più.»
«Ti pareva.»
Penso che avendo fatto trenta possiamo fare trentuno.
«Crepi l’avarizia: vada per quella fast.» Solo quando dà l’invio,
capisco l’avventatezza di quel gesto. Ora ci restano 3600 euro e non
abbiamo nemmeno l’idea di dove fare la festa.
SEPARATE ALLA MESCITA
Anello di fidanzamento:
presente
Annuncio fidanzamento:
effettuato (senza infarti dei parenti)
Bomboniere: acquistate
(chissà se arriveranno)
Abito da sposa: mare forza
nove!
Budget a disposizione: 3600
euro

«Ma in casa vostra non si cena mai?»


«Perché?»
«Mi chiami sempre quando mi sto mettendo a tavola. Aspetta che ti
metto in vivavoce.»
Rumore di frullatore a velocità massima, acqua versata in un
bicchiere e i titoli del Tg.
«Potresti spegnere il televisore, Ire?»
«Desidera altro, padrona?»
Passi veloci sul parquet e finalmente silenzio. Un cucchiaio che
rovista sul fondo di un piatto.
«Se indovino cosa stai mangiando, prometti di dirmi sì?»
«Sei matta? Tanto non ti avvicini nemmeno.»
«Proviamo, dài. Passata di zucca con crostini e acqua minerale.»
«Come sensitiva fai veramente pena.»
Capisco ora che si tratta di una forchetta.
«Penne all’arrabbiata!»
«Il tentativo te lo sei giocato. Comunque sono trenette al pesto con
Vermentino di Gallura. Non hai indovinato e dunque, purtroppo, non
potrò accondiscendere alla richiesta del giorno. Peccato, mi sarebbe
piaciuto così tanto dire di sì a qualche tua proposta idiota e per di più a
scatola chiusa» ironizza tra una forchettata e l’altra. «Piuttosto com’è
andata la giornata? Stanno procedendo i preparativi?»
«Abbiamo appena ordinato le bomboniere. Saranno molto
particolari, vedrai!»
«Non ho dubbi, se sono state scelte dai neuroni avvizziti del tuo
fidanzato.»
La sento masticare.
«E invece ti ricrederai.»
«C’è altro da dirmi o posso tornare alla mia attività?»
«In realtà, qualcosa ci sarebbe.»
«Magari prima che la pasta si appiccichi tutta, grazie.»
«Irene, sto per chiederti una cosa a cui non potrai dire di no,
sebbene, appena avrò finito di formulare la domanda, tu non desidererai
rispondere niente di diverso da quel no.»
Un preoccupante silenzio corre sul filo che ci unisce.
«Tutto questo per dire, Benvenuti?»
In cinque anni di ponderata amicizia e sette di frequentazione
coordinata e continuativa, è la prima volta che Irene si rivolge a me
usando il cognome. Il tono acido a cui piega la voce è la conferma che il
mio margine d’errore si sta facendo circoscritto.
«Insomma», prendo tempo, «come dire», arranco, «avrei bisogno di
un favore, ecco. Uno con la F maiuscola, per intenderci.»
«F come Fede nel Futuro?»
«Ti ringrazio ma alle fedi ci pensa Candido. Però, F di Fuochino.»
«Comunque c’entra con le nozze. Hai bisogno di una dritta sulla
scelta del wedding planner?»
«Ma che wedding planner d’Egitto! Ho un budget di tremilaseicento
euro e devo far star dentro tutto. Insomma, Ire, mi rendo conto che è una
richiesta grossa ma giuro che ti sarò debitrice in eterno, e quando la
filippina tornerà dai parenti pulirò io casa tua, passerò la cera sul marmo,
idraterò i mobili con la crema d’api… ma prestami l’abito da sposa.» Lo
dico tutto d’un fiato.
Perché se certe frasi le spezzi perdono d’intensità.
«Potresti gentilmente ripetere?»
«Che cosa? La storia della filippina? Ti servirò a tavola mettendo il
grembiule e una crestina come una cameriera. Dài, cosa ti costa? Noi,
praticamente, siamo sorelle!»
«Non di fatto, cara mia. Io una sorella ce l’ho già nel corredo di
famiglia.»
Fingo di tirare su col naso.
«Non fare scene. Guarda che ti vedo, falsa come Giuda!»
«Ma vuoi mettere il valore della nostra amicizia? Abbiamo vissuto
praticamente in simbiosi per cinque anni.»
«Certo, escludendo l’avvocato, il reporter, il vitellone, Mr Buk, che si
sono frapposti nel nostro ménage.»
«Come sei fiscale. Il nostro è un PACS. Ci vogliamo bene, e l’una
senza l’altra smette di esistere. E poi, dài, cosa sono gli uomini se non
meteore nella nostra vita!»
«Disse quella che si sta per sposare…»
«L’hai fatto anche tu.»
«Sì, ma io mi sono pentita per tempo.»
«Be’, però ammetti che sposarsi in cambio di un paio di scarpe fa
acquistare punti nella classifica delle single ciniche.»
«Anche questo è vero.»
«E allora come fai, sorella dal DNA dissimile, a ripudiare questa
figliola venuta a supplicare il tuo aiuto?»
Segue il silenzio carico di tensione che precede la resa.
«Quindi, la richiesta?»
«Te l’ho detto: mi servirebbe in prestito il tuo abito.»
Tu-tu, tu-tu. Riprovo a chiamarla.
«Ire, deve essere caduta la linea.»
«Non è caduta. Si è suicidata. Non stavi scherzando? Come pretendi
di poter entrare in un abito confezionato su misura? E non c’entra la
taglia, ma cosa pensi di fare con la lunghezza dello strascico?»
«Sarà un po’ più lungo del tuo, e poi che tacchi avevi quel giorno?»
«Otto centimetri, come raccomandano etichetta e bon ton.»
«Quindi, visto che io e il galateo non andiamo a braccetto e i tacchi
che dovrei ricevere da Parigi saranno di quattordici centimetri, potrebbe
non aver bisogno di interventi.»
«Tesoro, non ci siamo capite. Se mai, sotto influsso di psicofarmaci
somministrati a mia insaputa, dovessi decidere di prestarti l’abito bianco,
scordati di modificarlo anche di una virgola. E poi sarà ingiallito. Sono
cinque anni che è sottovuoto nell’armadio.»
«Una centrifuga nella candeggina e il colore torna come nuovo. E
poi c’è Baby che con la sua fantasia…»
«Sei da internare. E io faccio raffreddare le trenette e scaldare il
Vermentino per dar retta a una psicolabile! Non pronunciare quel nome:
il mio vestito non lo getti in pasto al trasformista.»
«Per favore! Cosa ti cambia? Tanto per tenerlo lì a diventare una
colonia di tarme… non vorrai mica riciclarlo per un secondo
matrimonio?»
«Potrebbe essere di cattivo gusto, ma sempre meglio di chi si sposa
per scommessa. E per una posta che è tutta un programma. Pensa se quel
pacco da Parigi non arrivasse mai: come ci rimarresti?»
Irene parla, ma la sua voce sembra allontanarsi. Il rumore di una
zip.
«Arriverà. Quel pacco arriverà.
Bernard de Trumon fa sognare ogni donna e non si tirerà indietro.
Allora, ci stai?»
«Solo se porti una Nabucodonosor di Mumm.»
«Certo, che cosa festeggiamo?»
«Una dilagante sindrome di follia non ti sembra un buon pretesto?
Appuntamento a domani sera, zecca!»
TACCO DEL DELITTO
Se si trattasse di un delitto, gli investigatori cercherebbero per
prima cosa l’arma, seguita dal movente. Nel mio caso sarebbe semplice,
arma e movente sono un paio di scarpe. Gli splendidi tacchi della nuova
collezione: la suola per ipnotizzare, il tacco per tramortire e trafiggere un
cuore, tutto per poterle poi ammirare ogni giorno.
Un buon motivo per sublimare un delitto. Più forte di un’iniezione
di autostima. Ma il morto per fortuna non c’è, qui si parla di un
matrimonio. O, peggio, del mio matrimonio. Le cose stanno cominciando
a prendere forma e i pezzi a incastrarsi. In poche ore ho portato a casa:
un fidanzamento ufficiale; un anello di fidanzamento (di grande valore
emotivo, in quanto appartenuto alle “donne” del mio futuro marito, che
va a compensare la perdita di uno di valore economico, che deve aver
fatto felice qualche pantegana del Lambro che – spero – mai incontrerò);
un annuncio incrociato alle famiglie (in cui nessuno è stramazzato a
terra); le BAUmboniere più originali del mondo; un abito da sposa da
sistemare.
Il problema è che manca tutto il resto. Le partecipazioni non si
possono fare perché non abbiamo ancora scelto il luogo del rito e,
ovviamente, il catering è subordinato all’orario della celebrazione. Non
ho il vestito per Mr Buk, ma mi auguro che, anche in questo caso, Baby
sappia tirare fuori dal cappello una delle sue geniali idee. Non ho il
congedo matrimoniale dell’azienda, anche perché Leader Minimo non ne
sa ancora nulla. E mancano solo ventiquattro giorni.
Un rumore assordante di pugni contro la porta. Maciste corre in
cerchio su se stesso, inseguendosi la coda e abbaiando.
«Stai aspettando qualcuno?» domando a Mr Buk.
«Io no, magari cercano te.»
Attraverso lo spioncino vedo solo una cascata di capelli biondi.
«Tesoooritoooo, sono Ivanna.»
I cani si mettono a latrare impazziti quando apro la porta.
«Ma un’ora fa eri mora o sbaglio?»
«Sai, sono eclittica.»
«Vuoi entrare?», ma lei sta già scuotendo la testa. «Hai finito lo
zucchero? Forse ti serve del sale? O vuoi una tazza di detersivo per la
lavatrice?»
Sgrana gli occhi. «Tesorito, sei un disastro! Ti aspettavo a casa mia.
Ricordi: la trasmissione dei matrimoni!»
«Ah, già! Scusa, ma sono molto presa. Te l’ho detto che mi sposo tra
meno di un mese?»
«Infatti, mi era parso di capire che tu non sapessi dove sbattere la
testa.»
Entra e i cani le annusano i tacchi.
«Sentono l’odore di Priscilla.»
«Hai un cane anche tu?»
«No, è il ratòn della mia vicina, lo tengo in pensione quando lei è via
per lavoro.»
«Un topo?»
«Ma no! Come li chiamate voi? I maialini d’India, ecco.»
«I porcellini?»
«E io che ho detto?»
«Comunque, muoviti» e mi afferra per un braccio «tra cinque
minuti comincia la trasmissione e non possiamo perderci l’inizio. Questa
volta sono a Londra e il matrimonio verrà celebrato direttamente sulla
torre del Big Ben.»
«Ma dalla regina?»
«No, che dici! È un matrimonio civico.»
«Intendi civile?»
«E io che ho detto?»
«Ma come fanno se il Big Ben comincia a suonare?»
«Sanno quando andare in pubblicità. Hanno lo scalone preparato»
«La scaletta?»
«E io che ho detto?»
«Di’ un po’», la guardo stupita, «non è che tu sei l’autore di questa
trasmissione sugli sposi?»
«Io no, ma la mia vicina di casa sì.»
«Già, me l’avevi detto!»
E in un attimo mi si apre un mondo.
«Tesoro, non aspettarmi questa sera. Farò tardi» dico rivolta a Mr
Buk. «Perché» aggiungo sottovoce, «forse ho trovato la soluzione per un
matrimonio da favola!»
SEI COME LA MIA MOTO
Posted by Ivy, on January 30th, 2013

Chi l’ha detto che per sedurre serve necessariamente il tacco alto?
Opsss, non ditemi che sono stata io! Be’, care amiche, errare è umano.
Forse, senza accorgermene, l’avrò detto un paio di volte. Ah, è da almeno
sedici post che lo scrivo? Allora, tengo a precisare che la coerenza, pur
essendo femminile sul dizionario, non è sinonimo di femmina. Quindi,
cosa volete da me? Dei consigli!
E, a tal riguardo, sono lieta di rispondere oggi a Cristina che,
maschiaccio impenitente, invece di sgambettare sul dodici alterna biker a
sneaker. Che sembra un giro di parole ed è, invece, una competizione tra
stringhe e borchie. E mi chiede se esiste un modo per “femminilizzare”
un look da harleysta, lei che adora la sua 883 più del suo fidanzato.
Cristina cara, ti voglio dare una bella notizia: sono anni che il biker
è stato sdoganato sulle passerelle, e anche l’indiscusso maestro Jimmy
Choo l’ha inserito nelle sue collezioni. Non solo: il biker può
accompagnare leggins o mini vertiginose.
Permette insomma di osare, mostrando le gambe (sempre che,
avviso alle naviganti, siano uno spettacolo degno di essere guardato: non
tutti gradiscono due cotechini inguainati in una rete se non è
Capodanno), ed è incredibilmente pratico per correre in città.
Dunque, Cristina, non temere se il tacco non fa per te, di alternative
ce ne sono in abbondanza. Sdrammatizza con delle T-shirt lunghe oppure
con maglioni morbidi. Ma se vorrai stupirlo, opta per un miniabito.
Completa il look con una borsetta e un giubbottino in pelle. Il
motore del suo cuore andrà su di giri e lui ti dirà la frase più romantica
del suo repertorio: sei come la mia moto!
A presto, ragazze, da Ivy,
dea del tacco e donna con quel quid in più
CONGEDATA DI NOZZE

– 23 giorni al matrimonio

La notte si srotola in una matassa onirica che non lascia tracce al


risveglio. Come i sogni chimici da sonnifero in cui mi dibattevo prima che
Mr Buk facesse irruzione nella mia vita.
La radio si mette a cantare, puntuale sull’ora programmata, e io la
spengo per accendere il cellulare. Allungo il braccio ma non trovo Mr
Buk. Della guerra contro la notte, restano le lenzuola stropicciate. Una
leggera vibrazione anticipa l’arrivo della prima chiamata e non serve
nemmeno che faccia lo sforzo di sollevare le palpebre per sapere chi è.
Recupero il telefono e ripiombo nell’apnea del trapuntino.
«Novità?»
«Intanto buongiorno, Irene.»
«Ah, certo, per te che poltrisci. Io sono in piedi dalle sei e mezzo e
ho già fatto sei chilometri di corsa.»
«Brava, tu sì che sei stoica» dico stirandomi, ma cercando di restare
avvolta dal tepore delle coperte.
«Semmai salutista.»
«Rispose Sue Ellen…»
Ci sono delle sere in cui Irene deve avere un tasso alcolico nel
sangue superiore a quello di Mr Buk quando è in fase creativa, ovvero
quando, attraverso l’estasi etilica, tenta di mettersi in contatto con lo
spirito del vecchio Hank.
«Va così da quando mi piace il tizio del bar di Solferino.»
«Ah, quello che dovevi presentare a Mr Buk?»
«In realtà si sono già incontrati.»
«Ma siete due stronzi, non mi avete detto niente!»
«Sarà perché di questi tempi non è che sei una buona ascoltatrice.
Da quando sei tornata da Parigi parli solo di veli, bomboniere… e di
tacchi!»
«Shhh!»
«Ma mica può sentirmi!»
Tento di aprire gli occhi, ma la luce oltre gli spiragli delle tapparelle
è uno schiaffo.
«Ho avuto un’idea luminosa per organizzare la cerimonia al volo»
dico.
«Ah, dove?»
«Assolutamente non lo so.»
«Ma chi officerà il rito?»
«E che ne so?»
«E quindi quale sarebbe questa idea luminosa?»
«Più che altro sono ottime sensazioni.»
«Ah, be’, allora siamo a posto! Ti aspetto stasera per l’abito.
Ricorda, recupera salmone e champagne. E non lesinare perché un favore
del genere merita un’adeguata ricompensa e un saldo immediato.»
«Prepara il pane integrale e il burro salato! Ire, ti ho mai detto che,
se non fossi un’etero ortodossa, mi innamorerei di te?»
«Ti lascio volentieri al tuo fidanzato rasta», e attacca.
Dalla cucina arriva odore di caffè appena fatto.
«Non sei ancora alzata e già telefoni?» chiede Mr Buk dalla porta.
«Conosci Irene, è curiosa come una scimmia e voleva sapere se
c’erano novità.»
«Da ieri sera alle nove…»
«Appunto.»
«Con quella del sottotetto com’è andata?»
«Alla grande. La trasmissione è molto carina e forse ho trovato il
modo di ottimizzare le spese, ma per scaramanzia non chiedermi ancora
nulla. Tu invece, con il tizio che piace a Irene? Potevate dirmelo che
sareste usciti insieme. Devo forse essere gelosa?»
«Certo, come io lo sono dell’informatico.»
Si avvicina e mi sfiora le labbra, contravvenendo alla regola che
bandisce i baci prima del caffè.
All’inizio, quando le sue All Star non avevano ancora colonizzato la
mia casa, mi alzavo di nascosto, assecondando una sveglia interna.
Scivolavo in bagno, mi lavavo i denti, sciacquavo il viso, mettevo un po’ di
crema idratante, stendevo un velo di cipria e chiudevo il trucco da
risveglio con una passata leggera di mascara. Dopo una ravvivata ai
capelli ero pronta per l’ultima mezz’ora di sonno. Che poi quel tempo non
lo occupavamo a dormire. Anche senza tutta questa trafila, Mr Buk
sembra guardarmi con gli stessi occhi di allora. Mi appoggio a lui,
accarezzandogli il collo.
«Ma allora mi ami?» civetto.
«Be’, non esageriamo, accontentati del fatto che ti sposo» mi dice
mentre lo seguo in cucina.
Le cialde, sigillate nelle buste a prova di chiazza marrone, sono
finite da un mesetto. Pochi gesti e la bevanda era pronta.
Non gorgheggiava quando usciva, non si bruciava se la si
dimenticava sul fuoco, e non lasciava quel retrogusto tostato sulle dita
quando, col cucchiaino, si pestava la superficie del caffè.
Era profumato e anche asettico, colorato di spezie ma spento di
colore, come una stanza ospedaliera.
Mr Buk aveva interpretato come un segno del destino la loro fine.
Così una sera, rientrando dal lavoro, avevo trovato una moka nuova sui
fornelli, mentre l’astronave dispensatrice di acqua colorata era sparita.
Depositata di diritto in cantina. «Guarda che ne vendono ancora» avevo
puntualizzato, ma non aveva voluto sentire ragioni. Lui, che credeva di
avere per merito del karma geni simili a quelli dello scrittore maledetto,
non accettava l’idea di non assecondare il fato. E chi ero io per frappormi
tra lui e il destino?
L’odore del caffè, la stessa miscela che usava mia nonna, riempie la
cucina. Nero, bollente e intenso. Le tovagliette americane sistemate sul
tavolo, le fette biscottate spalmate di burro, il bricco del latte e il
barattolo di confettura.
Ed è un evento miracoloso pensare che sia stato Mr Buk l’artefice
del quadretto mattutino. C’è perfino la spremuta d’arancia.
«Mi sposi e non ti ricordi che mi causa acidità di stomaco.»
«Non mettermi alla prova, Linda!»
Afferro una fetta e scappo sotto la doccia. «Ehi, dove vai?»
«Devo incontrare il capo per il permesso matrimoniale, ricordi?»
«Speriamo non metta i bastoni tra le ruote.»
«Oddio, hai delle sensazioni negative?»
Da quando ho conosciuto sua madre Carla, ho l’ossessione che
anche Mr Buk sappia leggere nel futuro, indovinando cosa accadrà prima
che avvenga.
«Mi baso sui tuoi racconti e non mi pare la persona più affabile
dell’universo.»
«Purtroppo no ma sono sicura che non potrà dirmi di no» e appena
pronuncio quelle parole, mi pento. La sicurezza ha per suo degno
complemento la sfiga. «Ad ogni modo, nella peggiore delle ipotesi, ho
pronto il piano B.» Ora sono terrorizzata: quando Irene ha pronunciato
questa frase, il mio Tiffany è finito nella rete fognaria di Milano!
«E quale sarebbe?»
«Ho controllato le ferie: ho circa venti giorni esclusi i permessi
retribuiti e sono tre anni che non prendo nessuno dei due.»
«Esclusa la scorsa settimana quando te ne sei andata a Parigi per
conto tuo.»
Inizio a sudare freddo. Si è accorto che gli ho mentito ma non vuole
mettermi in imbarazzo. Mi passo una mano sulla fronte, sperando non lo
noti.
«Non fasciamoci la testa prima di romperla.» Ma appena lo dico una
fitta di emicrania, che sboccia all’improvviso come una margherita in un
campo d’estate, mi fa capire che devo imparare a tenere la bocca cucita.
QUESTO MATRIMONIO NON S’HA DA FARE!
«Macchiato e con una spruzzata di cacao. Come piace a te.»
Leader Minimo è alla finestra del suo open space: cento metri
quadrati di vetrate, perché, alla Metello & Partners, i livelli sono
direttamente proporzionali alla metratura degli uffici. Fino al settimo sei
costretto a quattro timbrature, anche se nei tuoi geni scalpita la
creatività del migliore pubblicitario al mondo, disponi di una scrivania
che è poco più del banco che avevi alle elementari, su cui gira senza fine
la ventola di un computer sopravvissuto all’ultima glaciazione, nella
stessa stanza con altre dieci teste. E, visto che si parla al telefono per
gran parte della giornata, si creano dei veri ingorghi vocali – le “linee
nette” diventano “le trenette”, così come i “claim” diventano “dilemmi”.
Chi diventa quadro riduce il numero di timbrature giornaliere e
guadagna un ufficio tutto per sé, con le pareti in cartongesso che
permettono di sentire perfettamente gli starnuti del vicino, ma con una
porta e perfino una chiave per poterla chiudere.
Leader Minimo vive nell’iperuranio dei dirigenti. Poltrone in pelle,
ficus benjamina dal diametro di un baobab, scrivania di cristallo, ma
soprattutto tre finestre. Indossa solo vestiti sartoriali dal taglio perfetto –
che si fa disegnare apposta da uno stilista –, camicie serigrafate e
cravatte diverse ogni giorno. Porta occhiali dalla montatura importante e
ha un neo, all’altezza del labbro, che lui, vezzosamente, ha
soprannominato il “tirabaci”. Ma pare che, in realtà, sia un potentissimo
“scacciabaci” – colpa dei peli che spuntano beffardi –, visto che nessuno
alla Metello & Partners lo ha mai visto accompagnarsi a una signora.
Afferra la tazza che gli porgo. Ognuno di noi ne ha una
personalizzata, sulla sua c’è scritto “Simply the best”, a conferma del fatto
che l’umiltà è una delle sue qualità. Si siede e appoggia i piedi sulla
scrivania mostrandomi le inconfondibili suole rosse. Pochi graffi. «Ultima
collezione?»
«Direttamente da Parigi, bellezza.»
Devo ammettere che, nel tempo, ha acquisito stile.
«Cosa vuoi?» mi chiede a bruciapelo. Beve un sorso dalla tazza,
scottandosi la lingua, ma stringe gli occhi a fessura e mi squadra dall’alto
in basso. «Sei arrivata qui in ghingheri, portandomi un caffè, sicuramente
è perché ti serve qualcosa.»
Mr Buk ha insistito affinché mi vestissi da “segretaria sexy”, ovvero
tacco di vernice, calza velata, tubino scollato e giacca da uomo, occhiale
con montatura in bachelite e rossetto rosso.
«Anche se mi guardi con quegli occhietti languidi dietro ai fondi di
bottiglia, ti sei giocata i benefit con quel volo a Parigi. Mi era sembrato di
essere stato chiaro in merito…»
«Sì, lo so: infatti non sono venuta a bussare per un aumento.»
Sposta i piedi dalla scrivania e si accomoda meglio. «E allora per
cosa?» Porta la tazza alla bocca. Io prendo un respiro profondo.
«Mi sposo.»
Il caffè gli va per traverso e alcune gocce gli finiscono sulla camicia.
«Puoi ripetere, scusa?»
«Ho detto che mi sposo.»
Si alza in piedi e torna alla vetrata, gli occhi fissi sul traffico.
«Pensavo di essere stato chiaro al momento dell’assunzione.»
Come dimenticare quel giorno. Dopo interminabili minuti di
sguardo catatonico fisso sulle scarpe gialle, aveva controllato l’anulare
della mano sinistra e mi aveva chiesto subdolamente, certo di farmi
inciampare nella risposta sbagliata: «Sei una che non porta la fede?». E
quando che gli avevo risposto che non era un vezzo ma che più
semplicemente non ero sposata, si era illuminato. «Non è che sei
fidanzata?»
«Niente di importante» gli avevo risposto. Così lui mi aveva preso
sotto la sua ala. E mi ero legata a un giovane conte Vlad senza rendermi
conto che mi avrebbe prosciugato le forze. Una continua trasfusione di
linfa vitale da me a lui. Da quando avevo iniziato a lavorare con Leader
Minimo, il medico mi aveva diagnosticato una misteriosa anemia. Mr Buk
non aveva dubbi: il mio capo era un vampiro.
«E se ti sottoscrivo un documento in cui ti prometto che nemmeno
l’anno prossimo verrò a questuare?»
«È più forte di te: non ce la faresti.»
«Firmo una carta bianca, la completi tu.»
«Sei proprio messa male, eh, cara Benvenuti? Ad ogni modo», si
accende una sigaretta, nonostante i cartelli di divieti sparsi in ogni
ufficio, «quando vorresti convolare a nozze?»
«C’è tempo.»
Cerco di non tossire, anche se lui mi soffia il fumo in faccia. Spero
anzi che si attivi l’allarme antincendio.
«Tra ventitré giorni.»
«Che cosa?» Si alza di scatto, lanciando la sigaretta accesa dalla
finestra aperta. Immediatamente riprende il controllo, torna mellifluo
con il suo sorriso mefistofelico.
«Dipendesse da me, ti verrei incontro. Purtroppo esistono delle
regole aziendali, a cui devo attenermi, che mi impediscono di concederti
il congedo matrimoniale senza il preavviso di almeno un mese.»
«Ma si tratta di uno scarto di pochi giorni. Cosa ti costa?» Decido di
cambiare registro perché di solito, aggiungendo alla supplica qualche
salamelecco, funziona. «Tu lo sai quanto ti stimo, capo.» Le mani giunte,
in una posa di preghiera. «Senti, facciamo così: io firmo una carta bianca
e il viaggio di nozze lo sposto in agosto. Che ne dici?»
«Il permesso matrimoniale diventa effettivo dal giorno del rito.»
«Potremmo falsificare le carte.»
«Oppure potresti non sposarti affatto.»
Tento con l’ultimo colpo che ho in canna. «E se prendo ferie?»
«E se io non te le firmo?»
«Allora dillo che ce l’hai con me!»
Minimali dismette il ghigno satanico. In compenso continua a
fissarmi e ha uno sguardo che lo rende ancora più spaventoso.
Elaboro mentalmente quanto appena accaduto: il permesso
matrimoniale me l’ha cassato e le ferie hanno fatto la stessa misera fine.
Non resta che una terza opzione: la menzogna. Chiederò al dottore della
mutua un certificato di malattia per due settimane, sperando non si
presenti alla porta di Palazzo Ranieri il controllo mentre mi trovo da
qualche parte a godermi la luna di miele.
«Non posso fare nulla, Clorinda, non insistere. E non provare a
farmi scherzi. Mi dispiacerebbe dover prendere provvedimenti, sei
l’elemento migliore della mia squadra.»
«Dovresti sapere che sono una professionista» mento, già
immaginando il viso afflitto e l’occhio spento che avrò dinnanzi al
medico.
«Bene, vedo che ci siamo capiti. Sei pronta per il nuovo incarico?»
Quando domanda Leader Minimo vuole sentirsi rispondere solo ed
esclusivamente “sì”. Meglio se seguito da “capo”, termine che titilla il suo
ego e fa ringalluzzire la sua autostima. Solo che, dopo la raffica di no che
ho ricevuto, non sono in vena di compiacerlo e rispondo un distratto:
«Dimmi».
«Ti avevo accennato dell’ultimo appalto vinto?»
Alla Metello & Partners non si parlava d’altro. Dall’amministratore
delegato all’ultimo dei galoppini, il contratto era sulla bocca di tutti. Un
exploit milionario per il lancio della NaviTiAmo, brand di traghetti di
lusso, che aveva aggiunto al catalogo la crociera sul Mediterraneo.
«Visto che sei la mia creativa di riferimento ho deciso di affidarti
questo cliente.»
Annuisco. Sebbene in testa abbia altro.
«Esposito De Filippo ti aspetta per concordare gli estremi della
campagna, venerdì mattina.»
«Di già?» ho un sussulto.
«La nave salpa da Savona venerdì e tu prenderai due piccioni con
una fava. Ti ho riservato una cabina, se vuoi viaggiare con loro, magari
potrebbe venirti qualche idea interessante. Non sei tu che, per entrare
nel mondo dei gioielli, passavi le ore a guardare quel vecchio film e a
rileggere il romanzo di Truman Capote?»
Colpita nel segno. «Sì, ma io…»
«Niente se o ma: ho fissato l’incontro per le undici.»
Prendo fiato.
«Certo.»
Lui si alza, si avvicina, mi dà una pacca sulla spalla come se fossi un
suo compagno di calcetto e conclude: «Così mi piaci, vecchia roccia!».
Ingoio quello che vorrei dirgli.
«Comunque, pensa che a bordo potrai seguire un matrimonio.
Tanto per entrare nel clima e cominciare a prendere spunti. Una troupe
del programma “Sposami subito” farà le riprese della cerimonia.»
«La conduttrice si chiama, per caso, Isotta?»
«Potrebbe, sì, ha un nome strano. Tra l’altro il cliente l’ha richiesta
come volto per la nuova campagna. Dicono che abbia un’immagine
rassicurante e familiare, per cui, durante la tua permanenza a bordo,
dovrai convincere anche lei.»
«Ma scusa, non è mica il mio lavoro. Io sono una creativa.»
«Benvenuti, non ci siamo capiti. Oggi per lavorare ci vuole
flessibilità. Dinamismo e flessibilità.»
Non so perché ma l’unica cosa che mi viene in mente è un quadro
futurista dal titolo Dinamismo di un cane al guinzaglio in cui un bassotto
è disegnato con le zampe in movimento. Io mi sento quel cane al giogo
del mio capo.
«Sì, ma dovrebbero farlo quelli dell’ufficio contratti!»
«E tu li aiuterai. Sforzati di essere carina con Isaura.»
«Isotta.»
«Vabbè, l’importante è che non ti sbagli tu. Cerca di essere
propositiva ma, al tempo stesso, mansueta.» Gioca con la penna che ha in
mano. «Diplomatica ma incisiva: in caso tutto andasse come spero potrei
tornare sulla mia decisione.»
Improvvisamente sono attenta.
«It’s up to you se avrai la mia benedizione…»
Quasi trattengo il fiato.
«E come fai a conoscere Isaura?» continua lui imperterrito. «Non
dirmi che guardi quella roba, come si chiama… “Impepata di nozze”?»
«Veramente si chiama “Sposami subito” ed è un format che sta
andando molto bene in tv. Le coppie si fidanzano e si sposano nella
stessa puntata.»
«Così uno non ha tempo di ripensarci. Meglio, perché se ci si ferma
a riflettere sull’errore che si sta facendo…»
«Il ragazzo organizza la festa all’innamorata e lei si trova
inconsapevole protagonista. Ma può capitare anche il contrario, che sia
lei a fargli la sorpresa.» Sono preparata: Ivanna non ha tralasciato
neanche un particolare, conosco i nomi di tutti, dal capo macchinista al
grafico, so come viene strutturato il copione e anche quali pubblicità
vengono inserite.
Il fatto che non abbia ancora incontrato la conduttrice di persona è
un dettaglio. La nebbia dell’imprevisto si sta diradando per lasciare il suo
posto a una giornata cristallina. Il progetto comincia ad avere contorni
più definiti e i dettagli prendono forma, mentre il crepuscolo
accompagna il mio rientro a Palazzo Ranieri.
BIANCA E IBERNI

– 23 giorni al matrimonio, sera


Abito da sposa: presente (ma da
adattare)
Congedo matrimoniale: negato (ma con
spiraglio)
Budget a disposizione: 3300 euro (ma –
300 euro spesi per il buffet pro-abito da sposa)

Tartare di salmone annegata nelle bollicine. Il drammatico


consuntivo della serata richiede, appena varcata la soglia di casa,
un’intera confezione di bicarbonato. Però, almeno, avendo speso circa
trecento euro tra cibarie e champagne, ho scongiurato gli imprevisti che
sarebbero potuti insorgere dal prestito dell’abito.
Irene, alla terza flûte di Mumm, si è arresa, sebbene l’idea di
lasciarmi l’abito bianco abbia riaperto la vecchia ferita.
Il suo quasi marito, la notte prima del matrimonio, per colpa di un
addio al celibato in cui la vodka aveva preso il sopravvento, aveva detto
di sì alla donna sbagliata. Si era sposato con una ballerina di lap dance,
che lo intratteneva da mesi con balletti privati, all’insaputa di Irene,
naturalmente. Quella doveva essere la loro ultima notte insieme. Quella
del “domani cambio vita” ma lei, nettamente più furba di lui, gli aveva
teso una trappola. Nell’appartamento dove si erano dati appuntamento,
lo stesso in cui si incontravano di solito, dopo averlo fatto bere, l’aveva
convinto a firmare delle carte in presenza di un sindaco di un oscuro
comune dell’hinterland milanese, che, con la fascia tricolore, li aveva
dichiarati marito e moglie.
Al mattino, in preda ai postumi della sbronza, il quasi marito non
ricordava nulla, aveva solo un odioso mal di testa che sembrava non
dargli tregua. Tutto sarebbe andato per il verso giusto se la ballerina non
si fosse presentata davanti alla chiesa, facendo una scenata e mostrando
la carta.
Da allora, Irene ha conservato quell’abito nell’armadio, come
monito per il futuro. Quando sono entrata in casa la cascata di tulle era in
bella mostra sul divano e quella cinica della mia amica è scoppiata in
lacrime, come se tutto fosse appena successo. Così le ho proposto il rogo
del passato. Ho acceso il caminetto del suo salotto e tra una tartina al
salmone e una flûte di champagne abbiamo bruciato le foto di quel
giorno e quelle della loro storia d’amore – un viaggio in una romantica
isola caraibica e la fuga sotto il ponte dei Frati Neri; un selfie all’ombra
del Partenone e un bacio sotto la Tour Eiffel. Anche un orso di pezza e
due cuscini sono diventati fiamme: niente di eccellente o che meritasse di
essere conservato, esattamente come quell’uomo.
Eppure le raccomandazioni sono state infinite.
«Attenta al tulle. Non spiegazzarlo così. Il bordo, in pizzo Chantilly è
impossibile da stirare.»
«E io che pensavo che la Chantilly fosse una crema per farcire i
bignè!»
«Se scopro che Baby ci ha messo le mani, ti tolgo il saluto!»
«Devo firmare una liberatoria?»
«Sono seria: evita di modificarlo e, in ogni caso, avvisami prima di
procedere con qualsiasi intervento. Che quel pazzo non si sogni di
toccarlo senza il mio permesso.»
«Ma non era il magnifico trasformista della stoffa?»
«Sì, ma non del mio abito da sposa.»
L’ultima immagine che ho di lei è il suo viso diafano che irrompe
nel nero di una notte illuminata dai lampioni, mentre dal balcone mi
guarda allontanarmi. Raggiungo la macchina col terrore di inciampare
nell’abito. Nove chili di tulle. Puro masochismo.
FELICE DI “ANDARE IN BIANCO”
«Baby, sei in viva voce.» Appena lasciata Irene, chiamo il mio
complice.
«Quindi mi stai dicendo che non posso cimentarmi nei miei
virtuosismi dialettici?»
Mani sulle dieci e dieci, come da insegnamenti della scuola guida
GuidaRe, sono pronta per il resoconto della serata.
«Sono sola, tranquillo. La prima parte è andata.»
Il tragitto tra Città Studi e corso Buenos Aires si snoda in un
percorso più lungo del solito. Colpa dei sensi unici e dei lavori che
interrompono, con i coni rossi e i segnali a terra gialli, il panorama
d’asfalto e semafori.
«Amooore, dammi gli aggiornamenti dell’operazione “Andare in
bianco”.»
È il nome in codice che abbiamo dato al ratto dell’abito di Irene.
Ovviamente io e Baby eravamo d’accordo: Irene era da compiacere,
al fine di recuperare l’oggetto del desiderio, dopodiché sarebbe entrato
in scena lui.
«Di’ un po’: l’hai provato?»
«Macché, non me l’ha permesso. Le faceva troppo male vederlo
addosso a un’altra. In compenso, abbiamo fatto un rogo.»
«Con il velo di pizzo? Dimmi di no. Mi serve assolutamente!»
«Tranquillo, nel fuoco sono finite solo le foto del suo ex.»
«Meno male, mi hai fatto prendere un colpo. E Mr Buk come si sta
comportando? Ti sta aiutando in qualcosa?»
«Ha ordinato le bomboniere, sta preparando le partecipazioni e
domani andrà in comune per i documenti.»
«Lo vedo sul pezzo. Alle fedi avete già pensato?»
«Sempre compito suo.»
Lo sento sospirare.
«Vedo che ti fidi.»
«Non che abbia grandi alternative. Devo lavorare come un somaro.
Leader Minimo mi ha appena affidato un nuovo cliente a cui tiene
particolarmente, e tra l’altro sta facendo ostruzionismo sul permesso
matrimoniale.»
«Ossia?»
«Se il cliente non è soddisfatto, non mi firma il congedo.»
«Pessima prospettiva. E come fai, quindi?»
«Diciamo che ho pronto il piano B.» Mi mordo la lingua. «Vabbè,
insomma, vado dal medico e mi faccio dare quindici giorni di malattia.
Come la vedi?»
«La vedo che sei un genio del male!»
Do uno sguardo al sedile del passeggero dove, piegato in due, si
erge il monumento bianco.
«Senti, ma la meringa quando passi a recuperarla?»
«Domani mattina, lasciala in portineria da Ettore.»
Guido piano sulla rotonda di piazza Piola. La città dorme, avvolta da
una bolla che la rende viva. Ascolto il suo silenzio e svolto nella via di
casa, dove avviene il miracolo che sogna ogni milanese rientrando la
sera: trovare posteggio nel raggio di un chilometro dal proprio portone.
«Puoi venire a ritirarlo dopo le nove. Adesso ti saluto, che forse ho
trovato un parcheggio.»
Inizio la manovra per incunearmi tra un passo carrabile e il carico e
scarico.
«Povero scatolotto rosa. Vedi di non rifargli la fiancata.»
«Non c’è problema, ho già dato. Ciao Baby e grazie!»
«Ciao, bimba!»
Nonostante l’età non faccia di me una novizia della patente, la
smart rosa, ribattezzata dal mio capo il “confettino con le ruote”, è la mia
prima macchina. Irene dice che sono un’attempata novizia della patente,
perché per anni mi sono ostinata a vivere a Milano spostandomi con i
mezzi o dipendendo dalla benevolenza degli amici che mi riportavano a
casa al termine della serata. E in effetti, tra multe, parcheggi, benzina,
bollo e assicurazione, col senno di poi avevo ragione.
Comunque, anche se Leader Minimo non apprezza che io lo
parcheggi tra le auto dei dirigenti della Metello & Partners, il confettino
rosa ha indubbi vantaggi.
Innanzitutto la tonalità – a metà tra un boa di piume di struzzo
fucsia e quella del maialino Babe – spicca nei parcheggi dei supermercati,
e poi si posteggia con facilità quasi ovunque.
Un’auto da single, insomma, che stride con la montagna di bianco
che al momento occupa il posto del passeggero.
«Miracolo a Milano» dico sorridente allo specchietto, «sono riuscita
a parcheggiare.»
LISCIA, GASSATA E COMUNQUE A CATINELLE!
Mr Buk mi raggiunge sulla porta, accogliendomi col consueto
abbraccio, e dietro di lui arriva Maciste che si cimenta nella sua danza
sulle zampe posteriori: quattro passi per poi cascare rovinosamente sul
sedere. Lo raccolgo dalla moquette.
«Ci sono, per caso, le finestre aperte?» indago.
«Sì, i cani avevano un odore strano…»
Intanto mastica una caramella, ma l’aroma di menta piperita non
serve a nascondere l’odore del Toscanello.
«Di’ un po’, non è che hai fumato in casa?»
«Ma se c’è solo odore di cibo!»
Tossisce per schiarirsi la voce, mentre si toglie dal polsino una
traccia di cenere sopravvissuta al lancio del mozzicone dalla finestra.
«Come siamo messi con le partecipazioni?»
«Molto bene: se mi dai l’ok domani procedo con la stampa. Ho
ragionato su una serie di preventivi.»
«Addirittura?» chiedo un po’ incredula mentre scuoto i cuscini del
divano in cerca della prove, ma non trovo nulla, al di là di briciole e un
fazzoletto sporco. «Quante volte ti ho detto di non mangiare sul divano?»
«Linda, sei nervosa? Non devi! Ho pensato a ogni cosa fin nei
minimi dettagli, tanto che», sospira, quasi dovesse annunciare la
scoperta di un vangelo apocrifo, «sono riuscito a trovare il tempo per
farti un regalo. Tra pochi giorni saremo sposi e molto probabilmente non
faremo in tempo a compilare una lista di nozze, ma provvederò io ai
pezzi che ci serviranno. A cominciare dal primo. Un complemento
d’arredo indispensabile.»
«Non dovevi.» Anche perché abbiamo già un budget così risicato
che qualsiasi spesa aggiuntiva mi terrorizza. La giornata è stata lunga e
sono reduce da una serata etilica con Irene. «Candido, sono stanca.»
Lui mi afferra per un braccio. «Questione di pochi minuti e ti metto
a letto.»
Avrei un unico desiderio: trovare l’idromassaggio pronto, se Mr
Buk non avesse intasato i bocchettoni coi suoi capelli.
«Hai riparato la vasca?» chiedo timida.
«Molto meglio.»
Mi fissa. Se avesse la coda comincerebbe ad agitarla come un
metronomo come fa Maciste, poi, con la grazia di un ippopotamo, mi
spinge verso la cucina. Lo osservo. Pantaloni della tuta e un buco con la
calza intorno. La barba è di quattro giorni, forse cinque. Le lenti degli
occhiali un campionario da laboratorio di impronte digitali. Sfilo le
scarpe per una forma di pudore verso la moquette, ma è uno scrupolo
inutile, visto che il percorso è disseminato di tracce della sua giornata.
Scavalco una collinetta formata da un paio di jeans, e Mr Buk mi copre gli
occhi con le mani.
«Sei prontaaa?» domanda, indifferente al mio sbuffare. «Da oggi
cambierà tutto.»
«Non dirmi che riordinerai i tuoi vestiti.»
«Meglio, molto meglio. Ogni risveglio sarà frizzante.»
Uno stock di bollicine. Un voucher per una fornitura annuale di
Veuve Cliquot. «E il regalo dove sarebbe?»
«Qui!» Mi indica una scatola impacchettata con carta di giornale.
«Un abbonamento al Corriere della Sera?» ironizzo.
«Ma va’…»
Prendo in mano il pacco. È pesante. Slego lo spago senza sgualcire
la carta e compare una scritta: “Chiare, frizzanti et dolci acque”. Il sogno
della fornitura annuale di champagne sbiadisce all’orizzonte. Non mi
resta che vedere fino a che punto si è spinto questa volta Mr Buk. Sposto
l’ultimo lembo di carta liberando l’ostaggio dal pacchetto.
«Ma cos’è? Una macchina per il caffè?»
«Acqua» risponde lui.
Ruoto la scatola, la agito ma lui mi ammonisce: «Fai attenzione: è
fragile».
«Uno spremiagrumi elettrico?», tento.
«Acqua, cara Linda. Una Fossa delle Marianne di acqua
limpidissima» ribatte lui.
«Addirittura?»
Sono confusa e mi sembra di parlare con un disco rotto.
«Ti sei incantato? L’ho capito che sono in alto mare ma, appunto
per questo, non potresti darmi un indizio?»
«Acqua!» ripete ancora.
Apro la scatola. Contiene due bottiglie di plastica, un filtro per il
calcare, una brocca antigraffio e una bombola di anidride carbonica.
«Ti dice niente, tesoro?»
Scuoto la testa.
«Effervescente, briosa, spumeggiante, ogni giorno della nostra vita»
mi spiega.
«Nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia,
finché bombola non ci separi» mi viene da aggiungere sottovoce.
Ma Mr Buk non mi ascolta, è già alle prese con il montaggio del
filtro nella brocca. Testa china, smanetta su uno degli oggetti più insulsi
dell’era contemporanea: un ingombrante gasatore. Alla faccia della
fornitura annuale di champagne, della vasca idromassaggio riparata.
Alla fine, Mr Buk pigia un tasto e dopo un rumore sinistro di
bomboletta esplosa, si volta verso di me e mi mostra la bottiglia,
tenendola come se contenesse un elisir di lunga vita.
«Siamo ufficialmente una famiglia ecologica. Non sei contenta?» Lo
guardo atterrita.
«Non ti preoccupare tesoro, è solo anidride carbonica.»
Nulla a che vedere con il metodo champenoise.
MI FIDO DI TE
«Siamo terribilmente indietro sulla tabella di marcia.»
Come parlare al vento. Il corpo di Mr Buk è accanto a me, nei panni
di un chimico che scopre la formula dell’acqua perfetta. La mente è
altrove, nel suo mondo di bolle, scoppiettante di freschezza.
«Non ti devi preoccupare, donna di poca fede, Saturno veglierà su
di noi!»
Sobbalzo a una nuova esplosione, più forte delle altre. “Mi ci
abituerò” penso.
Lui, entusiasta, mi mostra l’ennesima bottiglia. È la terza nell’arco
di venti minuti: la prima era finita nelle ciotole dei cani – «Troppo liscia»,
e Bobby Marley, il meno schizzinoso, pareva aver gradito salvo poi
mettersi a singhiozzare in giro per casa –, la seconda direttamente nel
lavandino – «Scarsamente effervescente».
«Dovrebbe essere al livello di una Perrier, forse qualcosa meno. Se
ci aggiungiamo un granello di sale potrebbe assomigliare alla Vichy
catalana.»
La versa in un bicchiere per birra e ne beve un sorso, tenendolo tra
lingua e palato come fanno i sommelier.
«Retrogusto citrino o note vanigliate?» chiedo, ormai stizzita.
«Acqua di sindaco depurata e frizzante. Non c’è niente di più
cosmopolita ed ecologico. Non trovi, Linda?»
La voce di Mr Buk è sospesa tra vantaggi e benefici dell’acqua fatta
in casa, e disserta su rapporti qualità-prezzo e sull’importanza del
risparmio che essa comporta.
Peccato che con l’acqua non si organizzi un matrimonio. E
nemmeno un rinfresco successivo alla cerimonia, visto che gli invitati
sopravvissuti al male ai piedi durante la cerimonia si aspettano l’open
bar.
«L’acqua è buona, ma cosa mi dici della fede?»
«Che bisogna averne tanta!» In un altro contesto avrei apprezzato
la battuta e la capacità di Mr Buk di sdrammatizzare la tensione, ma
comincio veramente ad agitarmi.
«Linda, abbiamo due opzioni: una realistica e una da sognatore.
Quale vuoi sentire per prima?»
«Quella più facilmente realizzabile.»
«Lo sono entrambe, in realtà. Non c’è molto tempo ma potremmo
farcela. La prima prevede l’utilizzo di un sito internet.»
«Almeno è e-Bay?»
«Nooo… deve avere sede a Hong Kong. Ma non ti devi
preoccupare!»
«Ok, ma cosa c’entra la fede in platino e diamanti che ti ho inviato
come modello con Hong Kong?»
«C’entra eccome!»
«Te la sei procurata in una gioielleria online? Non era più semplice
andare in un negozio e uscire con un pacchetto in mano?»
Avevo visto la pubblicità su una rivista e me n’ero innamorata al
punto che, pur non disponendo all’epoca di un futuro marito e neppure
di uno straccio di fidanzato, ero andata a provarla e a informarmi sui
prezzi. Era un modello semplice: un cerchietto di platino con una corona
di diamanti di piccola caratura. Alla richiesta di averne una sola, però, i
commessi, dapprima concilianti, mi avevano accompagnato alla porta,
aprendomela anche per agevolare la mia uscita. «Vengono vendute solo
in coppia. Al massimo le acquista e poi, al momento giusto, le verranno
utili.»
Peccato che io, reduce dalla storia con il Grande Asfaltatore, ero un
po’ restia a impegnare un tale gruzzolo per un immaginario matrimonio
che non pensavo neanche di volere. Me ne ero andata, incompleta come
un guanto senza il suo compagno. Le fedi vanno acquistate in coppia e,
finalmente, è arrivato anche il mio momento.
«Sul sito dell’azienda me l’avrebbero fatto pagare al prezzo di
listino, con l’aggiunta di una sovrattassa per la spedizione. Io, invece, ho
trovato la classica offerta a cui non si può dire di no. Siamo solo tre in
gara. E venerdì sera l’asta chiude. Poi, sai come succede, garantiscono
l’invio entro pochi giorni e, se non ce lo fermano alla dogana di
Malpensa…»
«… Costringendoci a pagare il dazio doganale. Lasciamo perdere,
dài: ho saputo di gente che si è indebitata per merci che provenivano
dall’Oriente. Qual è la seconda ipotesi?»
«Linda, lo sapevo che sotto quell’armatura batteva un cuore da
sognatrice!»
Armeggia aprendo il fondo del salvadanaio a forma di cane, da cui
estrae due fedi in oro giallo. Me le porge.
«E queste da dove spuntano?»
«Appartenevano ai miei nonni. Potremmo fonderle e ricavare le
nostre. Certo, non saranno belle come quelle che avresti scelto tu, ma per
me avrebbero un valore emotivo, e così ce la caveremmo con molto
meno.»
Mi mostra una stampata: le fedi che ho scelto costano più di mille
euro l’una.
Guardo gli anelli rigati dal tempo: racchiudono la storia di una
coppia che non ho mai incontrato, da cui discende l’uomo nei cui occhi si
specchia il mio domani.
«Vada per la seconda opzione.»
E mi lascio stringere nell’abbraccio più tenero del mio quasi marito.
CHI VA COL TACCO ROTTO, IMPARA A ZOPPICARE
Posted by Ivy, on January 31st, 2013
Care amiche,
la vita, che sia con o senza uomini, rischia di essere comunque
triste, come quelle diete in cui ti tolgono i lieviti e il cioccolato. Con, si
vive spesso male, come indossando un paio di scarpe troppo strette.
Senza, è come stare a piedi nudi: esperienza fantastica su una spiaggia
caraibica, ma un incubo sull’asfalto bollente di Montenapoleone.
“Chi va col tacco rotto, impara a zoppicare”, perché gli uomini non
sono diversi dalle scarpe. Dunque, occhio a cosa scegliete. Controllate
bene le finiture della tomaia, la stabilità del tacco e l’ampiezza della
suola, onde evitare di scivolare in un tombino dell’anima o di inciampare
in un marciapiede del cuore.
Amalia, che dal nome mi fa pensare a una grande ammaliatrice, mi
dice di aver incontrato la scarpa mancante del suo paio, ma ha bisogno di
rassicurazioni.
Dopo essere finita in ospedale con un femore rotto per colpa dell’ex
che era, a detta sua, uno stiletto troppo estremo, si è adagiata con
l’attuale compagno: un tacco medio e largo, perfetto per lunghi tratti di
vita. La pianta comoda è adatta alle salite e il tacco è modaiolo quanto
basta per uscite mondane e romantiche fughe fuori porta.
Nessun dubbio, Amalia: è l’uomo per te!
Alle lettrici meno fortunate di Amalia, che cercano ancora di
raccapezzarsi nella scarpiera del mondo maschile, mi sento di dare
alcune raccomandazioni: di uomini ce ne sono tanti, di tutti i tipi e per
tutti i piedi, quelli che ammiri dalle vetrine ma sai che non potranno mai
essere tuoi, quelli che sai in partenza che ti faranno soffrire ma che
desideri sopra ogni cosa. Ci sono anche quelli che potresti avere nelle
svendite di fine stagione, ma proprio non riesci a immaginarteli addosso.
Ci sono quelli comodi, perfetti per i lunghi viaggi, e quelli stabili, ideali
per non scivolare nei giorni di pioggia. Quelli a cui fai la posta da mesi, e
poi te li soffiano da sotto il naso all’ultimo. Quelli belli e impossibili, e
quelli che è stata l’attrazione fatale di una notte, il tempo di farsi venire
male ai piedi e capire che non erano quelli giusti. E quelli che diventano
un guanto tanto calzano perfettamente e non vorresti toglierli nemmeno
sotto la doccia o per andare a letto.
Ecco, amiche mie, l’indizio per intuire che chi avete di fronte non è
una meteora nella vostra vita ma il futuro fatto a scarpa è proprio quello.
Se trovate l’uomo che vi calza così bene da dimenticarvi di averlo
addosso, è la metà della vostra mela.
Anzi, la metà del vostro paio perfetto.
Buona ricerca a tutte! Un abbraccio da Ivy,
dea del tacco e donna con quel quid in più
MAL COMUNE (MEZZO GAUDIO)

– 21 giorni al matrimonio
Budget a disposizione: 2700 euro (– 30 euro per il primo
regalo di nozze: un gasatore dotato di tutti gli accessori per
addizionare al meglio l’acqua del rubinetto)
Fedi: work in progress
Ansia: alle stelle!

«Aggiornamenti?»
Mentire è la prima regola – «Sto lavorando per portare al cliente
alcune proposte di slogan» –, da usare con una determinata tipologia di
responsabili sul luogo di lavoro.
Leader Minimo questa mattina ha esagerato con il dopobarba. Una
nuvoletta di gas nervino gli aleggia intorno. Dire che ricorda il repellente
per le zanzare sarebbe un eufemismo, perché in quel caso saprebbe di
citronella e non di sarcofago ammuffito. Mi sforzo di respirare il meno
possibile.
«Benissimo, ricordati che prima voglio leggerle io.»
«Ovviamente.»
«Perché non respiri?»
«Sto cercando di farmi passare il singhiozzo.»
Lui scuote la testa, ma appena esce mi precipito alla finestra e la
apro. Meglio una boccata di smog dell’hinterland milanese che quel
fetore.
In realtà, non ho un’idea per la campagna e dubito che mi verrà in
giornata. Il tour de force degli ultimi giorni comincia a farsi sentire. In
più, nessuna notizia da Parigi. Se non fossi certa che Bernard de Trumon
è un signore, penserei di essere vittima di uno scherzo ma, in cuor mio,
so che non è così.
Purtroppo, la mia testa è in Comune con Mr Buk, alle prese con le
pratiche burocratiche. Mi terrorizza saperlo da solo in quei corridoi
statali che, se al posto dei marmi esagonali sul pavimento avessero della
moquette stampata optical, sembrerebbero quelli dell’Overlook Hotel.
Compongo il numero. Mr Buk risponde al primo squillo.
«Linda», in sottofondo un ringhio di Bobby Marley, «non puoi
capire che mattinata è stata: la fiera degli equivoci. Una cosa da non
credere!»
Solo che con lui anche i fenomeni paranormali diventano realtà, e a
occhi chiusi mi catapulto in un altro mondo. Quello delle sue parole.
«Salve, sono qui per la mia compagna.»
Il messo comunale nel suo completo antracite allunga la mano a
stringere il braccio di Mr Buk.
«Oh, mi dispiace.»
«Be’, non si preoccupi, prima o poi doveva accadere.»
«Sempre meglio poi che prima…»
«Dipende, guardi. Alla fine era diventato uno stillicidio.»
«Brutto periodo, eh?»
«Non me ne parli. Peccato che io non volessi capire.»
«Spesso, davanti a certe evidenze, si preferisce far finta di non
vedere. È normale, sa: potrei raccontarle un’ampia casistica a riguardo.»
Mr Buk lo osserva. Stempiato, di mezza età, la camicia dal colletto
liso chiusa da una lunga cravatta nera col nodo sghembo. Vorrebbe
dirglielo. Fare qualcosa. “Scusi, non vorrei sembrare invadente, ma il
nodo è storto.” Basterebbe un buffetto, un colpo assestato bene, ma lui
non sarebbe capace di raddrizzargliela. Mr Buk è una frana: la cravatta
non l’ha mai messa in vita sua. Dovrebbe cominciare ad allenarsi in vista
del matrimonio, magari con un tutorial su YouTube, ché tanto lì si trova
tutto. La voce del messo lo riporta alla realtà: «Come è successo? Era
pronto alla notizia?».
«Macché, tutto all’improvviso. Nemmeno un mese. Non mi sono
ancora abituato all’idea.»
Mr Buk nota un pacco di fazzoletti sulla scrivania e quello glielo
allunga.
«Se vuol favorire. Fa bene sfogarsi e non tenere tutto dentro. Sa, a
me è successo due volte.»
«Per me è la prima. Ma voglio vederla positivamente: in fondo ogni
fine è un nuovo inizio, no?»
«Be’, com’è ottimista. È forse induista?»
«No, interista!»
«Comunque, è un uomo veramente forte a presentarsi di persona.
Perché sa, di solito vengono quelli dell’agenzia.»
«Guardi, purtroppo la situazione economica non è facile nella
nostra famiglia. Vede, la crisi…»
«Lo confermo: lei è proprio forte e coraggioso.»
«La ringrazio, per certe cose poi non baderò a spese. Per lei dovrà
essere un giorno indimenticabile, perché succede una volta nella vita.»
«Assolutamente, è l’unica certezza che abbiamo. Bene, signor
Bergonzoni, se mi vuol dire il nome procediamo con la documentazione.»
Si mette al terminale a digitare. «La signora si chiamava..?»
Mr Buk ha un sussulto.
«Scusi? Voleva dire “si chiama”…»
«No, parlo della defunta. Suppongo si tratti di sua moglie.»
Mr Buk, pallido in volto, si alza di scatto. Ecco perché ad attendere
erano tutti anziani. Visi smunti, scolpiti dalle rughe e gonfi di lacrime. E
nessuno che scambiasse un sorriso o che volesse fare una carezza ai cani.
Lui, come promesso, è andato al comune di Milano. Peccato che,
invece che all’ufficio matrimoni, si sia messo in coda allo sportello dei
decessi.
«Hai capito, Linda? Era per quel motivo che la sala d’aspetto pareva
un mortorio!» Bobby Marley guaisce sullo sfondo. «Zitto!»
«Ottimo, direi che il nostro matrimonio nasce sotto una buona
stella. Ma che cos’ha il cane, che continua a mugolare?»
«Probabilmente un’urgenza. Solo che non lascio la coda nemmeno
sotto tortura. Di là, con i cari estinti, si faceva in fretta, qua, invece,
sembra che tutti vogliano sposarsi. Mancan ancora cinque persone. Mi
odierà, ma d’altronde è un ragazzino e io alla sua età…», gli dà una pacca
sulla collottola, «resistevo per ore.»
Purtroppo, l’unica coda che va d’accordo con i quadrupedi è quella
in fondo alla loro schiena e mezz’ora dopo, quando richiamo, ricevo la
conferma di ciò che paventavo.
«Allora, tesoro, come va?»
«Stiamo uscendo.»
«Be’, avete fatto in fretta alla fine.»
«Causa di forza maggiore. Bobby Marley ha trasformato in un lago
la sala d’aspetto.»
«Oh mio dio. E quindi con i documenti non sei riuscito a concludere
niente?»
«Sbagli, Linda. Una coppia mi ha ceduto il posto, solo che ti eri
scordata di farmi la delega.»
«Mica me l’avevi detto.»
«Secondo te lo sapevo? Anche per me questo è il primo matrimonio.
Comunque, ce l’ho fatta!»
«Sentiamo, chi hai mosso a pietà questa volta?»
«La signorina del comune si è innamorata di Bobby Marley, ha
chiuso un occhio e io ho falsificato la tua firma.»
«Quindi siamo a posto?»
«Assolutamente sì. Le pubblicazioni saranno affisse da domani e
rimarranno esposte per una settimana, dopodiché, dal quarto giorno,
potremo sposarci. Vedi? Facilissimo!»
«Detta così sembra quasi una passeggiata di salute: peccato che non
sappiamo ancora chi officerà il rito, né dove faremo il rinfresco.»
«Linda, andrà tutto bene! C’è tempo, sai quante cose possono
accadere in ventun giorni? E poi, ricordati cosa ti ha detto mia madre: ci
sposeremo sotto una buona stella, e lei è una sensitiva potentissima.»
Io non sono così convinta, ma evito di dirglielo. La mamma è pur
sempre la mamma. E Carla è, di certo, la suocera ideale ma Saturno, con
tutti quei cerchi, mi fa pensare al mal di testa e, perciò, non potrà portare
nulla di buono.
SE TELEFONANDO
La segreteria contiene tre messaggi non ascoltati.
Primo messaggio.
“Piccola, tu e il tuo vizio di non farti trovare. Colpa di queste
diavolerie tecnologiche. Quanto tempo ho a disposizione? Trenta
secondi, un minuto, due? Ma ti pare che devo avere un timer per poter
parlare con mia figlia? A proposito, gioietta, non hai ancora detto a me e
papà dove si terrà la cerimonia. Non vorrei che te la fossi presa per l’altro
giorno. Lo sai che sei sempre la nostra bambina e che per te desideriamo
il meglio, ma avrei bisogno di saperlo per tempo. Anche se tu lo frequenti
di rado, ti garantisco che è complicato trovare un parrucchiere che ti
faccia una bella acconciatura. A proposito: cambia tonalità di biondo,
quello che hai ora ti indurisce i lineamenti. E, almeno quel giorno, dovrai
essere uno splendore. E l’abito? Lo sai che fa la sposa!”
Fine del messaggio.
Per riascoltare premere due. Per cancellare premere cancelletto.
Secondo messaggio.
“Amooreeee, sono Baby. Chiamami quando senti questo messaggio,
ho trovato delle piume che sulla gonna di taffettà sono una delizia.
Ricordi la mise di Carrie nel giorno del grande sì? Ecco, ancora meglio!”
Fine del messaggio.
Per riascoltare premere due. Per cancellare premere cancelletto.
Terzo messaggio.
“Saccheggiatrice di armadi, volevo sapere se avevi già fatto la prova
abito, perché mi è venuta un’idea su come sollevare le balze senza dover
intervenire con il bisturi. L’importante è che tu non l’abbia dato a Baby.
Non l’hai fatto, vero? Ricorda che la meringa di tulle vale più della nostra
amicizia. Be’, forse è eccessivo. Comunque, guai a te se lo tocchi. Ciao
zecca!”
Fine del messaggio.
Per riascoltare premere due. Per cancellare premere cancelletto.
CHEZ BAUKOWSKI!

– 21 giorni al matrimonio, sera


Budget a disposizione: 2670 euro (– 16 euro
per marca da bollo pubblicazioni)
Pubblicazioni: fatte!
Numero di calorie ingerite per il nervosismo:
3200 (un tripudio di carboidrati e lieviti)

«Tutto sotto controllo.» Sono le prime parole che Mr Buk pronuncia


accogliendomi in casa. Maciste mi viene incontro zampettando e
saltellando e, fino a quando non lo prendo in braccio, continua a girarmi
intorno con occhi vivaci.
«E Bobby Marley?» domando incuriosita.
«Immagino che in comune abbiano messo una sua foto segnaletica
con la scritta: “Da oggi io non posso più entrare”.»
«Vedessi che casino ha fatto. Dall’alto sembravano quei rami del
lago di Como.»
«Immagino le reazioni.»
«Una signora anziana ha rischiato di scivolare, ma è stata salvata
dal quasi genero.»
«Captatio benevolentiae sulla suocera!»
«Direi di sì. Comunque, Linda, tra quindici giorni possiamo
sposarci!»
Mi mostra una ricevuta. «Tra nove vado a riprendere il documento
che certifica che nessuno si è opposto alle pubblicazioni e poi via! A
proposito, Leader Minimo è tornato sui suoi passi?»
«Macché. C’è sempre quel vincolo: se il cliente non è soddisfatto
della proposta di campagna che sottoporrò, niente congedo.»
Per rendere più chiaro il concetto, gli dondolo davanti alla faccia la
mano con pollice e indice tesi.
«Sei la migliore creativa della Metello & Partners, sicuramente la
tua spremuta di neuroni lascerà tutti a bocca aperta.»
Alzo le spalle. «Encefalogramma piatto: la spremuta più stitica
dell’universo.»
«Ma come?»
«Non ho concluso niente. Avevo in mente solo te.» Terrorizzata da
quanto poteva accadere in Comune e poi tra le mura di Palazzo Ranieri.
Ma Mr Buk fraintende.
«Cara la mia Linda. Anch’io penso a te circa venti volte al giorno e,
quando accade, Lazzaro… si sveglia!» E sospira.
Alzo gli occhi al cielo.
Allora mi prende per mano, portandomi in salotto. Ha la forza di un
tornado ed è capace di trasformare, in poche ore, un appartamento
relativamente ordinato in un campo profughi.
«Cosa ci fanno i boxer per terra?»
«Li ho messi ad asciugare: è il punto più caldo. Tocca!», e mi mette
la mano su una zona effettivamente tiepida.
«Il riscaldamento è a terra e qui deve esserci uno snodo delle
tubature.»
Un calzino di spugna spaiato giace accanto al pc. «E quello?»
«Lo uso per pulire il monitor.»
«Ma se puzza come una forma di groviera decomposta.»
«Il computer mica lo sente! Vedi?», strofina il panno contro lo
schermo. «Funziona, non riga e l’effetto è stupefacente.»
Decido che è meglio cambiare discorso.
«Cosa volevi farmi vedere?»
«Guarda qua.»
Sul monitor l’immagine di Bobby Marley e Maciste che abbiamo
usato per le tazze-bomboniere. La data del matrimonio, l’indirizzo di
Palazzo Ranieri, i nostri nomi e dei puntini di sospensione.
«Come vedi, le partecipazioni sarebbero pronte. Devi solo dirmi
luogo e ora della cerimonia e possiamo inviarle.»
Mi avvicino fino a toccare lo schermo con il naso. Fisso l’immagine:
un quadrato incorniciato da un filo d’argento.
Sembra carta di papiro, non fosse per i pixel che si sgranano come
nei videogiochi, impastandosi sul fondo ambrato.
«Ma dobbiamo proprio metterci la data?» chiedo.
«Vedi tu. Si chiamano partecipazioni perché gli invitati possano
presenziare. Altrimenti si chiamerebbero semplicemente “avvisi di
nozze” e chi s’è visto s’è visto!»
Ha ragione lui.
«Dammi ancora qualche giorno: forse domani avrò le idee più
chiare.»
«Altrimenti, io un’opzione ce l’avrei.»
«E quale sarebbe?»
«Lo organizziamo nel locale del mio amico.»
Lo guardo stupita.
«Hai degli amici?»
«Ma cosa fate tu e Irene al telefono ogni giorno? Passate le ore a
parlarvi senza dirvi le cose più importanti. Ti ricordi il giorno in cui ci
siamo incontrati ai giardini di Porta Venezia?»
Come potrei dimenticarlo? L’unico gioiello di valore che possedevo
è finito in un tombino.
«Non sono rientrato a casa subito perché avevo appuntamento con
lui. E, da allora, ci vediamo quasi tutte le mattine…»
«Mentre io lavoro…»
«E, perché, io cosa faccio? Porto i cani al parco e poi tutti insieme
andiamo a farci un caffè da Romeo. Così, dopodomani sera, organizziamo
il primo aperiBAU.»
Strabuzzo gli occhi.
«Un aperiche?»
«Un aperitivo cani/padroni. Un modo per conoscere gente. In
fondo, il locale è a due passi dal parco, e poi è meglio incontrare chi ha i
tuoi stessi gusti. Così metti mai che…»
«… le passioni tra i cani diventino le passioni tra i loro padroni.»
«Vedo che hai afferrato il concetto. Potenzialmente il business è
molto ampio.»
«E come si svolge la serata?»
«Ci sarà un mio velocissimo reading…»
«Quello non poteva mancare, eh?»
«Poi si aprirà il bar. Al prezzo di un aperitivo ogni cliente avrà
diritto a un drink per sé e a uno snack per il quadrupede. Inoltre, per
tutto il locale ci saranno ciotole piene d’acqua.»
«Studiato fin nei minimi dettagli.»
«E per me può essere un ottimo modo per farmi conoscere e
allargare la cerchia dei clienti. Capisci: due piccioni… con lo stesso
guinzaglio!»
«E come si chiama il cocktail della sera?»
«Il DOGtail, naturalmente!»
Maciste alza di scatto il muso, come illuminato. Il nome è azzeccato.
LOUBOU(JE)T’AIME
La vita si tesse sull’ordito dei giorni, fatti per lo più di quotidianità.
Far squillare un campanello e trovare chi ti apre. Partire per lavoro e
trovare che in aeroporto c’è chi ti aspetta. E capire che la tua casa non
può essere più solo tua se non pensi a un noi. Mr Buk ha riempito le
pareti di un appartamento che era un vaso vuoto. Una cornice priva di
quadro, e hanno saputo colorarla, lui e i suoi cani. Perché l’amore è una
parete da dipingere, una pagina bianca da trasformare in libro, un
pigiama di felpa da indossare nelle notti di freddo, un dolce da gustare
nei giorni della tristezza. Mr Buk è diventato questo e ancora di più. Mi
appoggio a lui, le spalle larghe e il viso coperto dalla barba.
«Per il matrimonio hai intenzione di tagliare la pelliccia?» chiedo,
tirandogli i peli sul mento con cui si potrebbe fare una treccia.
«Un orso senza pelo, non è un orso.»
I capelli, una cascata rasta tenuta insieme da un elastico.
«E sta chioma leonina?» Gli afferro una ciocca. «Sai che mio padre
non apprezza.»
«È per quello che sposo sua figlia.»
Lui non smette di accarezzarmi. Le dita lente tra i capelli cercano
nodi che non ci sono.
«Quindi, appurato che manca il luogo e l’indirizzo, procediamo
almeno con la lista, Linda?»
Prendo un foglio su cui avevo appuntato i primi nomi: genitori, zii
di primo grado, nonni, Irene e Baby. Lui mi mostra il suo: pochissimi
nomi.
«Guarda che se vuoi aggiungerne altri non c’è problema.»
«In realtà, pensavo a una cerimonia intima.»
«Ed è così: sotto i cento invitati è un matrimonio riservato.»
Sgrana gli occhi: «Riservatooo?».
«Tesoro, è il minimo sindacale e, non temere, la metà degli invitati
declinerà. Alcuni per il terrore di non aver la mise adatta. Altri per la
paura di dover mettere mano al portafoglio per il regalo di nozze. E
comunque meglio così, piuttosto che ritrovarmi con cinque vasi per fiori
che non ricevo e tre casseruole per arrosti che non preparo.»
«E allora non possiamo toglierli dall’imbarazzo evitando di inserirli
in elenco?»
Gli strappo la lista di mano.
«Tra l’altro», e torna a leggere l’elenco stilato da me, «conosco quasi
tutti tranne questo tale Bernard de Trumon. È forse cugino del conte di
Valmont che tenete in sala da pranzo?»
«E se anche fosse? Stai tranquillo, comunque. Non verrà!» Questa
volta lo accarezzo io. «Però se sei interessato a conoscere qualcosa di più
sul suo conto, posso mostrarti in che ramo lavora. Vieni…»
«È tutto il giorno che aspetto questo momento, Linda.» Le labbra mi
sfiorano l’orecchio. «Quando ero in Comune, in coda all’ufficio decessi,
avevo in mente pensieri che avrebbero svegliato un morto.»
I denti leggeri sul lobo.
«Il contesto era quello giusto!»
«In fondo, un piccolo grazie per quello che sto facendo me lo
merito. O no?» E strizza l’occhio allusivo.
«Ma ti levi sto pensiero dalla testa? Sta diventando un chiodo fisso.»
«In realtà, lo è sempre stato» ammette lui, disarmante.
Di malavoglia mi segue in camera. Apro l’armadio: impilate
ordinatamente ci sono infinite scatole di cartone. Un muro di mattoni in
cellulosa, costruito con la dovizia di un miniaturista. Ho archiviato le
scarpe, dividendole per genere, in base al modello e all’anno. Esuberanti
peep shoes per feste a cui non sono mai stata invitata, cuissard perfetti
sulla valchiria che non sono e zeppe artificiose per contrastare l’asfalto
liquefatto in estate. Un ripiano superiore è dedicato alle edizioni limitate:
quelle che, per mia insindacabile decisione, non potranno essere
indossate più di dieci volte nell’arco della vita. Su ognuna, una breve
sinossi della serata in cui sono state indossate.
Quasi tutte precedenti la data del mio incontro con Mr Buk,
avvenuto il quale, è il caso di dirlo, ho dovuto appendere i tacchi al
chiodo per modelli più confortevoli.
Scampoli di un passato mondano che credevo sarebbe divenuto un
consolidato futuro. E invece, mi guardo i piedi e quasi mi vergogno delle
ciabatte di pelo che indosso.
Estraggo una scatola. Scritta arabescata su cartone beige.
«Tesoro mio, il mancato prozio di Parigi è un guru della moda, e tra
i suoi pezzi più belli colleziona anche queste scarpe con la suola rossa…»
Strizzo l’occhio mentre gli appoggio sotto il naso il tacco di vernice.
Sfilo la coppia di conigli che calzo e, a piedi nudi, scivolo nelle décolleté.
Mi trasformo, in un attimo, in una diva.
«D’altronde avrei sposato lui, se tu non lo avessi anticipato.»
«Con i parenti non si può» mi schernisce lui.
Mentre parla sollevo il piede per mostrargli la firma marchiata sulla
suola.
«Dai un bacino a un pezzo che lo zio francese apprezzerebbe
molto!»
Finge di non sentire e si siede sul letto.
«Quindi fammi capire, oltre agli amici avremo un prozio francese?»
«Dubito verrà da Parigi. È sufficiente che riceva la partecipazione.»
Gli siedo in braccio e aspetto che mi baci. Mr Buk interpreta
correttamente il segnale e comincia a sbottonarmi la camicetta, le mani
che frugano furtive sotto la seta.
«Volevi il regalino? Vieni a prenderlo.»
Lui mi fa alzare e si inginocchia per sfilarmi le scarpe, ma lo fermo.
«Non ci siamo capiti, tesoro.
Toglimi tutto, ma non le mie Louboutin!»
QUARTA PARTE
La vita non è una fiaba. Se perdi la scarpa a mezzanotte vuol dire
che devi smettere con i Cosmopolitan.
BABY, il trasformista della stoffa
TUTTI AL MARE!

– 20 giorni al matrimonio
Budget a disposizione: 2500 euro
Calorie ingerite: incalcolabili (tra cui una teglia di parmigiana
intera e una stecca di cioccolato ripieno da duecento grammi)
Sigarette fumate: ho ripreso un vizio che non ho mai avuto,
dieci slim (mi hanno detto che valgono la metà)

La pioggia urta, arrogante, il parabrezza dello scatolotto rosa.


Seguendo il movimento ipnotico del tergicristallo da destra a sinistra,
prendo la A7 continuando a pensare alle cose ancora da fare. Mancano la
location e l’officiante. In più il budget scende come il jackpot dei quiz
televisivi: precipitevolissimevolmente.
Ieri sera, con il pretesto di portare fuori i cani, sono andata a
suonare a Ivanna che, per fortuna, era sola e mi ha stritolato in un
abbraccio sulla porta. Le ho raccontato della trasferta a Savona, dove
incontrerò la sua vicina di casa che girerà una puntata di “Sposami
subito” a bordo della nave, e lei mi ha rassicurato.
«Saprà darti degli ottimi consigli e, comunque, se ti sposassi in
trasmissione, tanti problemi te li risolverebbe direttamente la
produzione. Pensaci!»
E, da quando l’ho salutata, sul suo zerbino a forma di banana rosa,
non sono riuscita a smettere di pensare alle sue parole.
Più ci rifletto, più i pro sono nettamente superiori ai contro.
Certo, non sarebbe facile mettere alla mercé delle telecamere e dei
telespettatori il mio matrimonio ma, d’altronde, mi farebbe risparmiare
tempo e soldi. Questa considerazione fa pendere la bilancia a favore
dell’ipotesi più assurda: diventare la protagonista di una puntata di
“Sposami subito”.
«Ti regalano perfino il viaggio di cosse» ha puntualizzato Ivanna.
E anche questo è un elemento da non trascurare, poiché, con quello
che ho sul conto, ci potremmo permettere al massimo due notti alla
pensione Miramare di Valverde di Cesenatico, cucina casalinga e vista
ferrovia.
La resistenza di mio padre, uomo schivo e dalla malleabilità di un
troll, potrebbe essere un ulteriore scoglio ma, come ricorda Mr Buk, sono
io a sposarmi e non lui. Prenderebbe di sicuro male che in paese tutti,
dall’edicolante in piazza al pasticciere da cui si rifornisce di bignè la
domenica, assistano allo spettacolo del signor Benvenuti in preda
all’emozione, ma alla fine se ne farebbe una ragione. In fondo, anche per
un ortodosso vecchio stampo la cosa più importante resta vedere la figlia
felice con l’uomo giusto.
Lo sarò davvero?
«Diciotto euro e novanta centesimi.»
«Pensavo che la marca da bollo per il matrimonio costasse sedici. È
aumentata in questi ultimi giorni?»
«Signorina, si sente bene? Siamo al casello di Albissola.»
La casellante, una donna di un’età indefinibile dalle labbra
pronunciate e la ricrescita marcata, mi fissa stupefatta. Realizzo l’errore.
«Mi scusi: ero soprappensiero. Sa, mi sposo tra venti giorni.»
Accenna un sorriso. Non so chi delle due sia più imbarazzata.
«Congratulazioni! Fanno comunque sempre diciotto euro e novanta
centesimi.»
Dietro di me, un tir con una coda di pelliccia attaccata allo
specchietto retrovisore, la vetrofania di una madonnina e la scritta “Ora
pro me” a nascondere un calendario Pirelli. Alla guida, sovrastato da una
fila di luci intermittenti, c’è un gigante. Quando pigia il clacson, al posto
del familiare trombone, parte uno jodel altoatesino.
«Allora, signorina, vuole pagare?»
Già, signorina. “Ancora per poco” penso, ed entro in
iperventilazione. Sì, perché magicamente smetterò di essere una ragazza.
Comincio a sudare: sono convinta di quello che sto facendo?
«Si sente bene, signorina?»
Lo jodel del camionista torna a suonare e ho un sussulto.
«Sì, certo. Mi scusi per l’attesa.»
Frugo nella borsa, dove una banconota da venti euro fa capolino dal
portafoglio.
La voce di Gloria Gaynor gorgheggia dalla radio. I will survive,
convinta lei! L’importante è crederci. Io non so se sopravvivrò ai
prossimi venti giorni. In mano ho solo un vestito prestato da un’amica,
due fedi appartenute ai nonni del mio quasi marito e delle tazze-
bomboniere con la foto dei nostri cani. Appena supero la barriera il
telefono squilla.
«Dottoressa Benvenuti? Sono Gennaro Rotula di NaviTiAmo. Le
hanno spiegato il tragitto? Non appena arriverà alla sbarra del
parcheggio, faccia il mio nome. La aspetto.»
Non mi lascia nemmeno il tempo di rispondere. “Sarà una giornata
lunga” penso mentre il fumaiolo di quello che sembra un immenso
cetaceo d’acciaio ancorato alla banchina spunta oltre la curva.
CIAK SI GIRA!
«Dottoressa Benvenuti, benvenuta! Chissà in quanti vi avranno
fatto questo gioco di parole…» Mi accoglie un uomo cerimonioso, con
l’inconfondibile cantilena partenopea, porgendomi la mano. «Piacere,
Rotula Gennaro, commissario di bordo, ma per voi sono semplicemente
Gennaro o Genny, come amano chiamarmi i croceristi americani. Per
servirvi», e batte i tacchi delle scarpe, toccandosi la visiera in segno di
saluto.
«In realtà, ad oggi, lei è il primo: dunque, per me questo è un…
varo» rispondo, sorridendogli e indugiando sull’ultima parola. Mi dà una
pacca sulla spalla, a questo punto possiamo considerarci amici.
Gennaro Rotula è un ufficiale stempiato, tra i cinquanta e i
sessant’anni, dagli occhi cerulei e la pelle bruciata dal sole. Un lupo di
mare, con le mostrine su un’elegante divisa blu.
«Per tutte le richieste di carattere tecnico o amministrativo non
esitate a fare riferimento a me. Il dottor De Filippo è impegnato, ma mi
ha dato delega per farvi visitare il nostro gioiellino.»
La nave è un colpo d’occhio impressionante. Gli oblò, disposti in fila,
brillano, scaldati dalla luce del mattino.
«Avrà almeno quattro ponti.»
«In realtà sono sei, compresi quelli di poppa, con le piscine termali,
e di prua, con l’olimpionica.»
Certo… basterebbe sapere da che parte sia la prua e da quale la
poppa. «Mi sta dicendo» chiedo «che un ponte della nave ospita una
vasca da cinquanta metri?»
«Non esattamente. In realtà è una vasca da venticinque metri. Ma,
in tempi come questi, less is more», indugiando sulla erre.
L’imbarco pare una processione senza ostensori o statue di santi,
un esercito sorridente di formiche che reggono in mano il biglietto per la
felicità: quattro giorni all inclusive nel Mare Nostrum. Le auto sono già
state imbarcate nel ventre enorme. «Avrete una cucina grande quanto un
paese.»
«I ristoranti sono quattro. Di cui due attivi ventiquattr’ore al
giorno.»
«Si sale small e si scende large?» ironizzo.
«Dipende. Chi vuole bruciare le calorie in eccesso può dilettarsi con
palestra e terme. A bordo disponiamo di un percorso completo dotato di
bagno turco, calidarium e tepidarium. Oltre all’idromassaggio en plein
air. Un’esperienza imperdibile se fatta di notte durante la navigazione.»
«Perfetto per le coppiette.»
«Avete ragione. L’amore è una delle note dominanti su questa nave
ed è per questo che registriamo uno speciale della trasmissione “Sposami
subito”. La troupe si è imbarcata ieri sera», e le parole di Ivanna tornano
come il messaggio subliminale di una pubblicità.
«Il mio responsabile mi ha riferito che avevate pensato alla
conduttrice del programma come testimonial per il lancio delle
crociere.»
«NaviTiAmo è un marchio conosciuto per i traghetti, ma quello che
vogliamo fare oggi con questa nave fresca di cantiere è offrire una
crociera boat&drive: si parte con la nave ma si rientra con l’auto.»
«Interessante.»
«Abbiamo scelto il Mediterraneo, perché è la crociera classica e per
promuoverci, ci serve un volto come quello della signora Caligaris, noto
alle famiglie, che sono poi il target a cui ci rivolgiamo. È una donna
rassicurante e trasversale sulle generazioni.»
L’ufficiale, in preda a un attacco di logorrea, prosegue con la
descrizione della nave: numero di cabine e massima capienza auto,
quadriglie di fiati, intermittenti e psichedeliche, e collane offerte a chi
sale a bordo insieme al cocktail con l’ombrellino multicolore, il tocco
esotico promesso dal catalogo.
«Tutto molto interessante, ma avrei bisogno di parlare con
qualcuno della produzione di “Sposami subito”», riesco a interromperlo.
«Per servirvi, signora!», e batte ancora i tacchi. «Seguitemi, so dove
trovare chi fa al caso vostro.»
PROBLEMI… DI ROTULA
Gli ufficiali in divisa si tolgono il cappello incrociando Rotula. A chi
mi guarda interrogativo, mi presenta come “la signora dell’agenzia di
comunicazione”. Ma sono venti minuti che camminiamo nel ventre della
balena d’acciaio, superando il cuore pulsante della nave – la sala
macchine, la cucina, la lavanderia.
Pur essendo ancora attraccati alla banchina sento il lieve
ondeggiare dell’imbarcazione. Lo avverto maggiormente all’interno
dell’ascensore.
«Prego, seguitemi.»
Stretta dall’abbraccio delle pareti, mi informo sulle oscillazioni che
il mio corpo sta recependo e del leggero senso di nausea che sto
provando da quando ho messo piede sulla nave.
«Senta, ma è normale questo movimento?»
Rotula mi fissa, sgranando gli occhi, e si avvicina per guardarmi
meglio.
«Tipo primo stadio di un terremoto?»
«Spero di no» rispondo spaventata. «Anche se non ho idea di come
sia.»
«Più parabolico o elicoidale?»
Lo sguardo da pazzo sugli splendidi occhi verdi.
«Direi elicoidale.»
«Uniforme o perpetuo?»
«Senta, non lo so. Probabilmente si tratta di mal di mare. Forse è
meglio che le elenchi i sintomi.»
Rotula mi interrompe.
«Non serve, è il vostro viso a parlare per voi. Incarnato pallido,
pupille dilatate e percezioni alterate. Segni inequivocabili.»
«Di cosa, mi scusi?»
«Evidentemente, voi soffrite di una sindrome cronica di chinetosi.»
Mi appoggio alla parete, terrorizzata. «Oddio, è grave?!»
«Ma no, signuri’! È mal di mare. Dovrebbe trattarsi di un disturbo
passeggero. Sfuma nel giro di poche ore a meno che…»
Sospiro. «Credevo peggio.»
«… non sfoci in una labirintite fulminante. Seguite il mio dito.»
Lo muove, come il bilanciere di un pendolo, davanti alla mia faccia,
con la conseguenza che la testa mi si mette a girare vorticosamente. Mi
assale un conato di vomito, che reprimo appena in tempo perché la porta
dell’ascensore si apre sul piano nobile: soffice moquette e raffinata
boiserie sui toni del nocciola, e una musica suadente riempie l’aria.
Sembrerebbe uno scampolo di paradiso.
Il cameriere addetto alle suite si avvicina concitato all’ufficiale
Rotula. Gesticolando animosamente lo informa, in un inglese coloniale,
che nella stanza della signora si è verificato un problema.
LE TUBAZIONI PERICOLOSE
«Call immediatly the plumper» ordina Rotula con un accento alla
Broccolino Bill.
Sul piano pare regnare la calma e non si noterebbe nulla se un
secchiello giallo, con un cartello di pericolo, non chiudesse il corridoio di
fronte a noi. Appoggiata alla porta di una stanza, con una fascia in testa e
lo spazzolino in bocca, c’è una donna visibilmente agitata.
Struccata Isotta è diversa da come appare in tv. Mi avvicino e faccio
per allungarle la mano per presentarmi, ma lei guarda oltre, come fossi
trasparente e, deglutendo il dentifricio che ha in bocca, incrocia lo
sguardo di Rotula.
«Cosa è successo, signora Caligaris?»
«Lo sapessi, non l’avrei disturbata. La suite è ineccepibile: il
terrazzino privato è una chicca, ma dovete fare qualcosa con le tubature.
Credo ci siano dei problemi strutturali!»
«State tranquilla, abbiamo già chiamato l’idraulico. Tempo
mezz’ora e potrete rientrare in camera. Prima, però, potreste spiegarmi
dall’inizio cosa è successo?»
«Comincio da ieri sera?»
«Da dove volete.»
«È da quando ci siamo imbarcati che mi gira la testa e non riesco a
camminare con i tacchi senza rischiare di finire per terra: perché qui
ondeggia. Ho fatto finta di niente: ho ordinato una passata in camera, mi
sono struccata e mi sono addormentata, quando ho cominciato ad
avvertire un movimento sospetto.»
«È un effetto collaterale del rollio. Sembra di essere in una culla.
Dondolati da una bambagia d’ovatta di velluto e specchi. Quanta poesia.»
L’ufficiale, entrato nella parte, recita a mani giunte.
«Stavo parlando del mio stomaco.»
Isotta è una bambolina, vitino di vespa sui fianchi stretti, lunghi
capelli di tonalità ramata, sebbene come tutte le vedette del piccolo
schermo cambi colore a ogni stagione.
«Nella notte è cominciato il monologo del mio intestino. Sono
rimasta chiusa in bagno per due ore. L’avevo preventivato, visto che non
ho propriamente il piede marino, ma mai avrei potuto pensare che il
bagno mi si sarebbe ritorto contro. Insomma», guarda il cartellino su cui
è scritto il nome dell’ufficiale, «Rotula, mi ha capito, no?»
«Direi di sì. Procedete, pure.»
Rotula sta appuntando parola per parola su un taccuino.
«Il water ha cominciato a gorgogliare e poi, stamattina, è esploso in
stanza. Disgustoso. Ho cercato di spiegarlo al cameriere, ma quello non
capisce niente!»
Rotula ripercorre il racconto che ha trascritto.
«Scusate, signora Caligaris, mi manca un passaggio.»
«Dica.»
«Vi siete struccata con la spugna o avete usato una salvietta?»
«In trasferta porto solo le salviette.»
Rotula fa un segno sul foglio.
«E la salvietta dove l’avete buttata?»
Isotta sbuffa. La domanda è lecita, ma cosa importa a Rotula di
sapere dove l’ha buttata?
«Non in mare, di certo, ma nel wa…» E si ferma, le parole bloccate
tra lingua e palato. Porta le mani alla bocca.
Rotula chiude il taccuino e sospira, sollevato. Ha risolto
brillantemente il caso “tubazioni pericolose”.
«Ecco, spiegato l’arcano» si limita a dire.
Isotta diventa paonazza.
«Non è possibile che per così poco le vostre tubature si intasino.
Pretendo le scuse del capitano!» Il tono di voce è stridulo, ma lui resta
pacato.
«Signuri’, non facciamone un dramma, in fondo non è successo
niente. Non siete né la prima e non sarete nemmeno l’ultima!»
Le sue parole, se non sembrano sortire alcun effetto su Isotta, per
me sono una vera illuminazione per lo slogan da sottoporre
all’amministratore delegato di NaviTiAmo.
«Dovreste risistemare le tubature di questa bagnarola…»
Isotta non sembra placarsi.
Rotula la accompagna verso l’ascensore.
«Non temete, l’assicurazione provvederà ai rimborsi per ogni
eventuale danno ai vostri abiti: voi non preoccupatevi di nulla. Anzi,
rilassatevi con un massaggio alle terme, offro io. E al rientro troverete
tutto a posto!»
«NaviTiAmo e il naufragar m’è dolce in questo mare…» dico in
piena estasi creativa.
Isotta non ha ancora notato la mia presenza. Attiro l’attenzione di
Rotula, per ricordargli il motivo per cui sono lì.
«Signora Caligaris, scusatemi, ne approfitto per presentarvi la
signora Ben…»
Ma viene interrotto da una figura minuta che si avvicina lasciando
alle spalle una scia d’acqua.
«Qualcuno vuole spiegarmi cosa sta succedendo?»
NON CAPIRCI UN TUBO!
«Ce ne hai messo di tempo: ti ho chiamato mezz’ora fa!»
Spire di spugna in testa ripiegate in un turbante e le maniche
lunghe di un accappatoio che non è della sua misura. Ha la pelle chiara,
qualche efelide a scaldare il nitore del viso e gli occhi vispi. Una ciocca
chiara spunta dal turbante.
«Ma cosa dici, Isotta?», fruga in tasca e le porge il telefonino.
«Vedi? Sono passati dieci minuti.»
«I più lunghi della mia vita» dice la conduttrice, assumendo una
posa tragica – la mano stretta a pugno con il palmo contro la fronte.
«Esagerata! Stavo facendo la doccia.»
«Beata te. Avrei voluto farla anch’io e invece, guarda cosa è
successo!»
E indica l’interno della stanza.
«Sono venuta perfino a bussarti, ma tu niente.» La ragazza guarda
dentro e si allunga oltre la soglia, per ritirarsi subito disgustata.
«È esploso il bagno?»
Fisico esile ma tatto d’elefante, Ivanna me l’aveva descritta così, ma
per non incappare in un errore decido di accertarmene.
«Prooontoooooo.» Allontano di scatto il cellulare dall’orecchio.
«Tesoritooo, dimmi.»
Le due continuano a discutere nel corridoio, mentre tre inservienti
con scopettoni e secchi sono alle prese con la moquette.
«Ivanna…» dico sottovoce.
«Tesorito, parla più forte che non si sente un rasso.»
«Credo di aver incontrato la tua amica. È magra?»
«Una nanetta di un metro e messo.»
«Ha le lentiggini?»
«Cosa sono?»
«Piccole macchie sulle guance.»
«Sì, sembra come quei cani, i golgota.»
«Ultima domanda.»
«Ma dove siamo, a “Proposta per te”?»
«Dài, solo un’altra: Isotta le risponde male?»
«Peggio!»
Non ho più dubbi. «Allora è lei.»
«Stanno registrando?»
«No, si è appena consumata una tragedia nel bagno di Isotta.»
«L’hanno trovata morta nella vasca?»
«Peggio, il water è esploso.»
E, con la stessa grazia con cui ha risposto, mi attacca il telefono.
Faccio appena in tempo ad accorgermene che la ragazza si tocca la
tasca. Tira fuori di nuovo il cellulare e guarda il numero sul led.
Ci pensa un attimo ma, con un mezzo sorriso, risponde.
«Sto registrando Ivanna, scusa» dice. «Ah, e chi ti avrebbe detto che
non è vero? Una ragazza qui sulla nave? Abita anche lei a Palazzo Ranieri
e avrebbe bisogno del mio aiuto? Stai vaneggiando: tu bevi troppi mojito.
Qui non c’è nessuno…» si interrompe e finalmente mi vede. Accenno un
saluto con la mano e sorrido educata. «Ora ti devo lasciare.»
Inciampando nelle ciabatte di spugna mi viene incontro, «Piacere,
Palladiana.»
Le porgo la mano. «Sono Clorinda.»
«In cosa posso esserti utile, Clorinda?»
MANGIANDO S’IMPARA!
«Sembra di stare in un labirinto: siamo qua da ieri ma il senso
dell’orientamento ancora vacilla.»
Stiamo cercando di scortare Isotta alla SPA ma, dopo aver preso
due ascensori trasparenti e attraversato tre ponti, ci perdiamo.
«È il destino che lo vuole!» geme la conduttrice. «Piuttosto, sentite
anche voi quello che sento io?», e sembra rianimarsi.
Stimolata da una sirena olfattiva, Isotta allunga il collo
trasformandosi in un segugio.
«Mozzarella di bufala e basilico», dice sniffando l’aria. «Appena
servita» conclude. Guarda l’orologio in cerca di una conferma. «In effetti,
s’è fatta una certa!»
Palladiana alza le spalle rassegnata e Isotta si mette in testa alla
carovana. «Da quando siamo saliti a bordo non smette di mangiare.
Credo sia vittima di un attacco di bulimia nervosa.» Annuisco. «La diretta
le mette sempre ansia.»
Dal vivo Isotta ha un altro appeal: la tuta in ciniglia stempera la
bomba sexy che si dibatte in lei e senza trucco è una donna come tante.
Ed è decisamente più magra del previsto.
«Mi sa che è vero che la tv ingrassa. Vista dal vivo è la metà!»
Pur essendo qualche passo avanti a noi, Isotta si volta. «Due taglie
mi fa prendere il regista» mi spiega, «che è suo marito», conclude stizzita.
«Non è colpa di Eugenio, sono le ottiche.»
«E che andassero dall’oculista, allora, tuo marito e le ottiche!»
Riprende a camminare svelta e si piazza davanti al buffet.
«Ma è sempre così?» domando a Palladiana.
«Scherzi? Oggi è di ottimo umore.»
La conduttrice spintona la gente in fila e si insinua tra una coppia di
francesi che la fulmina con lo sguardo. «Scusate, ma stiamo lavorando»
spiega. Quando un turista in bermuda la trattiene per un braccio, lei
continua, con aria implorante: «Abbiamo pochissimo tempo. Mezz’ora
per mettere sotto i denti qualcosa». E le lasciano il campo libero.
Lei carica tre piatti di riso alla cantonese, riso alla provenzale, riso
alla milanese. Poi torna da noi e ci sediamo a un tavolo. «Guarda» si
rivolge a me, «io di mio seguo un regime rigoroso.» Palladiana alza gli
occhi al cielo. «Ho un nutrizionista a Milano, un mastino che mi costringe
a diete estenuanti. Pal, ma tu mi vedi ingrassata da ieri?»
«No, Isotta, da ieri no, ma se continui così…»
«Ecco!» dice, battendo il pugno sul tavolo. Il cucchiaio finisce a
terra. «Io ho bisogno di conferme e tu mi atterrisci. E come mi comporto
se la cerniera si inceppa poco prima della messa in onda, visto che non
possiamo nemmeno permetterci una costumista?»
«Non preoccuparti, Isotta: alla peggio ci appoggiamo alla sarta di
bordo.»
«E se i bottoni esplodono quando siamo in diretta?»
«Non ci sono bottoni sul tuo abito. Solo una zip, e prima di
distruggerla dovresti prenderne dodici di chili, cosa impossibile dato il
poco tempo a disposizione.»
«Sì, ma se non mi fermi, ora di domenica sembrerò una modella per
abiti conformati.»
Palladiana le sfila il piatto da sotto. Peccato ce ne siano altri due su
cui la conduttrice si avventa.
Isotta punta un cameriere e con la mano gli fa segno “tre”. Lui si
avvicina con un vassoio, offrendoci il cugino annacquato del mojito.
«Proporrei un brindisi!» Isotta rovista sul fondo del bicchiere con la
cannuccia, sollevando i cristalli di zucchero che disegnano una danza sul
vetro. «Alla nostra pubblicitaria!» I bicchieri di plastica si urtano senza
far rumore. «Senti, ma non mi hai detto perché esattamente sei venuta a
trovarci» mi chiede alla fine.
È Palladiana a togliermi dall’imbarazzo.
«Clorinda seguirà la campagna di cui tu sarai testimonial e… tra
poco si sposa.»
«Ottimo! Ma allora ti sposo io!»
SPOSAMI SUBITO!
Succede così: passi la vita a programmare, pianificando tutto nei
dettagli e cercando di anticipare i cambi in corsa. Appunti le battute,
prima in brutta per trascriverle una volta corrette in bella copia, con la
grafia migliore di cui sei capace. Calibri la lunghezza delle asticelle delle
vocali e limiti l’uso dei puntini di sospensione. Ma il momento poi arriva,
e succede quando meno te lo aspetti. Senza preavviso, con passo felpato,
solenne. Il mio è finalmente arrivato.
«E quindi, per quando è previsto il lieto evento?»
«Tra venti giorni!»
Lo sguardo della conduttrice ha un guizzo.
«Fantastico, raccontami i dettagli. Metti il velo o hai optato per una
tiara? E le bomboniere: non sarà il solito cucchiaino da zucchero o
l’inutile statuetta, vero?»
Isotta è un fiume in piena, tanto che avrei bisogno di una scialuppa
o perlomeno di un salvagente per starle dietro.
«Raccontami del catering. Ti sposi in chiesa o Comune?»
«Ehm, non ho ancora deciso…»
«Ma manca poco. Come pensi di farcela?»
Labbra serrate, sguardo attento e un improvviso silenzio: ho la sua
attenzione.
«Con il tuo aiuto, forse?» butto lì.
Sgrana gli occhi.
«Sì, però non me la conti giusta: perché tutta questa fretta?»
Parlare o tacere? Isotta e Palladiana sono donne e, con l’empatia
che appartiene al mondo femminile, sapranno capirmi.
«Ho scommesso con Bernard de Trumon che mi sarei sposata. In
palio c’è una posta molto particolare… un paio di scarpe, ma non uno
qualsiasi…»
Sussurro il nome dello stilista nelle orecchie delle due donne, che
mi guardano stupite.
«Le riceverò se gli mando le prove che mi sposo entro un mese
dalla scommessa.» Drizzano la schiena. «Le partecipazioni saranno la
prova del fatto.»
«D’accordo!» Palladiana e Isotta rispondono in coro.
Alleate nel nome di un tacco:
Clorinda Benvenuti, Isotta Caligaris e Palladiana Rebecchi,
un’associazione a delinquere.
«Accetto la sfida» continua Pal. «Mi piacciono le missioni
impossibili. C’è un però…» abbassa lo sguardo fino a terra, «tu che
numero porti?»
«Trentasette.»
«Fantastico, allora me le farai provare, d’accordo?»
«Voglio essere generosa: te le presterò per una sera.»
Cosa c’è più di un tacco per unire tre donne?
«Certo, non c’è tempo da perdere. Con i documenti sei a posto?»
chiede.
«Pubblicazioni fatte.»
«Con una delega potrei officiare io…»
La conduttrice guarda Palladiana che annuisce. «Non sarebbe la
prima volta che accade.»
La scintilla di prima si trasforma in un incendio. La mia storia
offerta a un programma televisivo.
«L’abito ce l’hai?»
«Praticamente nuovo: un prestito della mia migliore amica.»
«Amo il riciclo!»
«Fedi?»
«Facciamo stringere quelle dei nonni.»
«Originale!»
«Bomboniere?»
«Tazze e donazione al canile di Milano al posto dei fiori.»
«Ecologiche!»
«Allora è fatta. È l’abito che fa la sposa e i sogni nascono per essere
realizzati. Per la location, una nave intera ti basta? È una storia
incredibile. Nessuno se la sentirà di dirmi di no. Il direttore di rete
impazzirà. E poi, vuoi mettere? Due matrimoni al prezzo di uno, massimo
risultato con il minimo sforzo.»
«Isotta», questa volta è Palladiana a prendere la parola, «lungi da
me smontare i tuoi progetti, ma non possiamo utilizzare la stessa
location per due matrimoni nello stesso mese. I telespettatori non
gradirebbero.»
Poi si rivolge a me: «Ma scusa, non hai detto che ami i cani?».
«Sono la passione del mio quasi marito.»
«Perché potrei avere un’idea per un piano B.»
A queste parole incrocio le dita di nascosto e, senza farmi vedere,
tocco la base di ferro del tavolino.
RISCATTI ALLA RISPOSTA
I lampioni incorniciano la landa d’asfalto e io, piede leggero
sull’acceleratore e radio a palla, ascolto i successi degli anni Ottanta.
Accendo il cellulare e vengo travolta dalle notifiche della segreteria
telefonica.
Cinque messaggi in un crescendo rossiniano: dai toni tenui del
“tesoro, fammi sapere se ci sono novità sulle partecipazioni”, a quelli
tragici di “se non rispondi a questo giro, contatto ‘Chi l’ha visto’ e faccio
mandare una troupe a Savona”. È Mr Buk, naturalmente, l’uomo che sto
per sposare.
Il sesto messaggio è di Baby: “Tesoro, è una meraviglia, ti dico solo
questo! L’idea di utilizzare il velo trasformandolo in uno strascico
aggiuntivo è geniale. Sembrerai Grace Kelly. O forse Madonna in Like a
Virgin, che comunque, fisicamente, ti somiglia di più”.
Poi viene Irene. “Uè, zecca. Cos’era quella mail criptica che ho
trovato stamattina? A parte che se devi parlarmi di una questione
importante alzi la cornetta e chiami, e poi, se Baby si permette di tagliare
un solo centimetro dell’abito, è un uomo morto. Lo informi tu della sua
imminente condanna o preferisci che lo chiami io? Il silenzio è assenso: ti
do tempo dieci minuti e lo chiamo. A partire da ora. Nove minuti e
cinquantanove secondi, nove e cinquantotto, nove e cinquantasei…”
L’ultimo è di nuovo di Baby.
“Amore, io davo per scontato che tu e Irene vi foste sentite! Quella
vuole il mio scalpo ora. Meno male che sono calvo.” Gli ultimi venti
secondi della registrazione sono occupati dalla sua fragorosa risata.
Digito il numero di Mr Buk.
«Alla buon’ora. Stavo andando alla polizia a fare la denuncia di
sparizione con Maciste e Bobby Marley.»
«Tesoro, e se la televisione venisse a registrare il nostro
matrimonio?»
«Se è compreso nel servizio del fotografo, possiamo pensarci.»
«Ma no, che dici?»
«E allora, solo se andiamo a reti unificate come il messaggio del
presidente a Capodanno.»
Mr Buk è di buon umore, mi sembra di sentirlo ridere dall’altra
parte del telefono.
«Hai mai sentito parlare di FlyTv?»
«C’entra con Sky?»
«Ma figurati! È un’emittente piccolissima, non sarà nemmeno
rilevata dai dati d’ascolto, ma ho parlato oggi con la conduttrice e
l’autrice, che, guarda a caso, abita proprio nel nostro stesso condominio.»
«Noblesse oblige! L’ho sempre sostenuto che Palazzo Ranieri
avesse una marcia in più, come i suoi abitanti, d’altronde.»
«Sì, certo.» Sorrido, mentre mi cimento nel sorpasso di un tir. Lo
scatolotto rosa vibra impazzito.
Mr Buk sgranocchia qualcosa. Saranno i biscottini macrobiotici dei
cani, che ha acquistato in un negozio vegano. A detta sua, sono migliori
dei frollini che di solito inzuppiamo nel caffè.
«Stai togliendo il pasto ai pelosi?»
Smette di masticare.
«E tu stai diventando maga come mia madre, nonché la tua quasi
suocera? Sono proprio buoni.»
«Servirete quelli stasera all’aperitivo?»
«Per i quadrupedi saranno a disposizione ciotole con crocchette e
polpettine vegane, quanto ai bipedi», riprende a masticare, «avranno
l’imbarazzo della scelta. E tu finalmente hai deliberato sulla location?»
«Come se non avessimo gravi restrizioni di ordine economico!»
«Linda, i soldi non fanno la felicità!»
«Sì, ma senza non si fa nessun matrimonio!»
«Ricorda: zio Paperone ha costruito la sua fortuna partendo dalla
Numero 1.»
«Questo è vero ma, per il nostro giorno più bello» dico addolcendo
la voce su “nostro”, «ho pensato di venire incontro ai tuoi desideri.»
So quanto Mr Buk tenga che Maciste e Bobby partecipino alla
cerimonia, e so altrettanto bene quanto mio padre desideri
accompagnarmi tenendo Osso al guinzaglio.
«Quanto ami i tuoi cani da 1 a 10?»
«Approssimativamente mille direi.»
«E quanto ci terresti ad averli accanto a noi, vestiti come sulla
nostra bomboniera?»
«Vuoi dire Maciste con il velo e Bobby Marley in smoking e
papillon? Un sacco, è ovvio! Ma in Comune non credo possano entrare.»
«E chi ti ha detto che ci sposiamo in Comune? Ti anticipo solo che,
con la giornata di oggi, ho preso due piccioni con una fava. Anzi, con una
coda.»
E con questa frase sibillina, chiudo la conversazione tornando a
concentrarmi solo sulla riga bianca che mi riporterà a casa.
APERIBAU
Una grande zampa di polistirolo con una freccia che punta
all’interno del locale indica che sono arrivata. Mi faccio largo tra la gente,
ma un tacco finisce su qualcosa di morbido. Che ulula. È un Jack Russel
che digrigna i denti e mi ringhia contro. Della serie un ingresso, se non è
trionfale, non è un ingresso.
«Mi scusi» dico timidamente al padrone che mi guarda malissimo.
Mr Buk non comincia mai un reading senza di me. Sostiene che gli
porto fortuna. Chiaramente è una teoria non supportata dai fatti,
semplicemente credo che la mia presenza lo faccia sentire più tranquillo.
Infatti, mi sta aspettando. Mi faccio vedere, salutandolo con la mano.
Il microfono fischia e Irene, addetta al mixer, si scusa. In una mano
un Cosmopolitan che le ha preparato il suo “potenziale fidanzato”, come
ha iniziato a chiamare Romeo da una settimana a questa parte, nell’altra i
livelli.
«Carissimi amici, grazie per aver convinto i vostri bipedi a portarvi
al primo aperiBAU milanese. Non so se ci siano più zampe che gambe,
questa sera, ma devo dirvi che è un’emozione poter varare quella che
spero da oggi diventerà una moda. I cani sono i migliori amici degli
uomini non a caso…»
La voce fluttua tra code dritte e musi attenti alle ciotole pronte
dietro il bancone. La parte più complessa del viaggio è stata l’ingresso a
Milano, dalla barriera in poi. Una gimcana ininterrotta tra le auto,
cercando la corsia più scorrevole. Ho tentato di avvisare Mr Buk del mio
ritardo, ma il suo telefono deve essere rimasto a casa.
Lo guardo stando un po’ in disparte e da questa prospettiva
finalmente capisco. Ciò che unisce due persone è l’amore. Amo Mr Buk e
la folle decisione di barattare la mia libertà per un paio di tacchi mi ha
aperto gli occhi su quanto c’era già.
Mr Buk sfila il microfono dall’asta per chinarsi verso gli animali. «I
cani sanno aspettare», vedo che cerca me tra il pubblico. «I cani sanno
comunicare. I cani sanno superare le nostre insicurezze. Hanno tutto da
insegnarci e allora, benvenuti alla prima serata del BAUkowski. Luogo di
ritrovo per cani e per scrittori amanti del vecchio Hank!»
Irene alza per pochi secondi la musica, è Who Let the Dogs Out.
«Bravooo!» urlo e Maciste, sentendomi, mi raggiunge e mi salta in
braccio.
«Scusate.» Di nuovo la voce di Mr Buk. «Prima che i vostri amici
reclamino il loro happy-BAUr, con le specialità pensate apposta per loro,
volevo dire a quella donna lì in fondo…», mi guardo intorno. «Sì, proprio
alla biondina che sta facendo finta di nulla.» Prende fiato schiarendosi la
voce al microfono: si vede che è imbarazzato, lui non è tipo da gesti
plateali. «Credo di essere l’uomo più fortunato al mondo ad aver
incontrato chi tra venti giorni diventerà mia moglie.»
Un applauso parte spontaneo e una voce dal pubblico si staglia
nitida.
«Dove si terrà la cerimonia? Veniamo a lanciarvi il riso.»
È una signora elegante, con una levriera al guinzaglio. La riconosco,
vive anche lei a Palazzo Ranieri, è quella che Ettore chiama “la nomade a
cinque stelle”. Di lei so poco: lavora per una casa calzaturiera, viaggia
moltissimo e sembra che proprio nell’appartamento accanto al suo abbia
trovato il principe azzurro. Chissà se è vero, o cosa di vero ci sia nella sua
storia. Ettore adora romanzare le vite dei nostri pianerottoli.
Mr Buk non sa come rispondere e guarda me.
«Be’, abbiamo pensato di sposarci qui! Sarà un matrimonio da
cani.»
Il padrone del Jack Russel su cui sono inciampata entrando mi
lancia uno sguardo torvo e sinistro.
«Nel senso che sarà il primo matrimonio pet friendly. Iguane,
uccellini, gatti, cavie. Vi aspettiamo con il vostro amico per festeggiare
con noi. Ma questa non è l’unica sorpresa: ci sarà anche la troupe del
programma “Sposami subito” e l’evento andrà in onda su FlyTv.»
E quello che prima mi era sembrato un applauso assordante si
ripete ancora più forte. Appena si placa, torna la voce di Mr Buk.
«Sporchi e pulciosi, vi dicono. Bestie, vi chiamano. Ma io vi
preferisco agli uomini perché voi ci siete sempre. Siete amici sinceri, che
non tradiscono. E io brindo a voi! Anche se l’alcol non lo bevete, siete
l’ebrezza di questa mia vita balorda. » Solleva il bicchiere e ulula. Seguito
a ruota dai cani presenti. «Detto ciò buon happy-BAUr a tutti!» conclude.
Irene fa partire la musica, è una canzone di Eros in cui la sua voce
roca canta di sapere che lei è la donna giusta perché piace al suo cane. E
Mr Buk mi invita a ballare: la canzone è per me, me l’ha dedicata.
«Quindi abbiamo anche il viaggio di nozze?»
«Gentilmente offerto da FlyTv.»
«E chi ci sposerà?»
«Isotta, la conduttrice. Basta una delega del sindaco e una fascia
tricolore.»
«Siamo vicini al traguardo, Linda» dice sereno, posando la testa
sulla mia spalla. E, sebbene non sia ancora del tutto vero, mi abbandono
a quell’abbraccio. Morbido e saldo.
NUOTARE NELL’ORO… NERO

– 17 giorni al matrimonio
La sala riunioni della Metello & Partners incute timore. E non è la
parete di specchi o la voragine che si apre come un abisso oltre le enormi
finestre a suscitare diffidenza in chi entra, bensì la consapevolezza di ciò
che vi accade.
La segretaria, che magari dimentica di far firmare la nota spese di
un collaboratore ma non manca mai l’appuntamento dal parrucchiere,
sfoggia un paio di pump che vale quanto uno stipendio del suddetto
collaboratore.
Mi annuncia svogliata, la voce nasale e il trucco ritoccato dopo la
pausa pranzo. Dentro ci sono già tutti: il gotha dell’azienda. Una distesa
di cravatte di Hermès e modaiole calze a righe che sbucano dalle Oxford
sono il solo dettaglio eccentrico di questi creativi in giacche scure e
pantaloni attillati. L’art director è l’unico che può permettersi All Star
rosse e jeans slabbrati. Il responsabile del commerciale, quello
dell’ufficio stampa, sono tutti in attesa di conoscere il pay off della nuova
campagna NaviTiAmo. E c’è ovviamente anche il cliente: il dottor De
Filippo, l’amministratore delegato, venuto apposta da Savona.
Prendo una bottiglietta d’acqua frizzante e ne bevo un sorso. Ho la
gola secca. Batto sul microfono e mi alzo in piedi anche se rischio che le
gambe mi cedano. Poche frasi per ottenere il permesso matrimoniale.
«Buongiorno a tutti.»
La vicenda capitata nella suite di Isotta è stata davvero illuminante.
La massa scura sulla moquette mi ha ricordato infatti la reazione dell’olio
sull’acqua. Invito il tecnico a far partire il filmato.
Il gigante d’acciaio compare sulla parete di fronte, la ripresa è
dall’alto e si vedono la piscina olimpionica e le vasche termali. E poi,
sempre a volo d’angelo, la telecamera si avvicina al terrazzino di una
suite dove Isotta, le gambe allungate sulla chaise longue, cappello di
paglia a tesa larga e bikini a pois da pin-up degli anni Cinquanta, guarda
in camera e, dopo aver aspirato dalla cannuccia un po’ del cocktail
colorato che ha in mano, finalmente parla: «Per viaggiare lisci come l’olio,
NaviTiAmo. E il naufragar sarà dolce in questo mare». Il logo della
compagnia chiude il promo.
Durata complessiva venti secondi, dal primo fotogramma all’ultimo,
l’ideale per uno spot commerciale.
Nessuno applaude, però. Nemmeno un sorriso. Leader Minimo tace,
gli occhi fissi su De Filippo. Bevo un altro sorso d’acqua. A questo punto
l’arsura si sta trasformando nel primo passo verso la disidratazione. Il
dottor De Filippo si alza in piedi. Accenna un applauso e tutti lo seguono
a ruota.
Perfino il mio capo – che, seduto accanto a me, mi dà anche una
pacca sulla spalla, come a dire: “Lei è una mia creatura”.
Quando varco la porta di casa, brandendo il foglio del congedo
matrimoniale, Mr Buk mi accoglie con un grembiule da massaia. Nell’aria
profumo di pomodoro e basilico.
«Ce l’abbiamo fatta! Si parte!»
Mi solleva come fossi una piuma: «Lo sapevo, Linda. Te l’ho mai
detto che la mia quasi moglie è un geniaccio?».
«Mmm… non abbastanza.»
Mi prende per mano accompagnandomi in cucina, i cani felici dietro
di noi. «Tesoro, ho preparato la cena per festeggiare.»
Un mozzicone di candela su due tovagliette all’americana e il
microonde che tintinna. Nessuna pentola sui fornelli, ma un’intera
batteria incrostata nel lavandino.
«Da quant’è che non fai i piatti?»
«Un po’… a stare con una creativa lo sono diventato anch’io!»
«E la cena dove sarebbe?»
«Eccola.» Tira fuori dal forno una tazza e me la porge. «Occhio che
scotta.»
Guardo dentro. Una groviglio rosso annodato. Annuso. Profuma di
pomodoro e basilico.
«Ma perché gli spaghetti sono nella tazza della colazione?»
Indica la torre di Pisa di stoviglie.
«Cause di forza maggiore.»
Cara Clorinda,

ho perso le tue tracce. Sono passati dieci giorni, eppure non ho ancora
ricevuto alcuna partecipazione. Non dirmi che ci hai ripensato… ti facevo
più temeraria! Le scarpe sono pronte per partire. Ho personalizzato la
suola, inserendo la data del tuo matrimonio.
Sempre che sia confermato.
A proposito: lui come l’ha presa?
Bernard de Trumon
P.S. La piadina era veramente ottima!
CORRI CLORINDA, CORRI

– 4 giorni al matrimonio
250 euro per le partecipazioni (tra carta, stampa e francobolli)
800 euro (location BAUkowski, catering per cento persone +
pet)
300 euro (torta nuziale a forma di cane, creata da un cake
designer)
500 euro (donazione a un canile con i soldi predestinati ai
fiori)
500 euro (abito Mr Buk)
0 euro (trucco e parrucco fornito dalla produzione di “Sposami
subito”)
0 euro (noleggio auto: useremo il pullmino storico)
Budget rimanente: 214 euro

Dileguarsi, volatilizzarsi, svaporare, sparire. Il pioniere


dell’espressione “il tempo vola” deve averla coniata in occasione del suo
matrimonio. I giorni si sono sciolti come neve al sole, dileguati come gli
euro del nostro misero budget in una girandola di eventi.
Scartata l’opzione del noleggio dell’abito per Mr Buk – a causa del
costo pari a mille euro –, rifiutata la sua proposta, coerente con l’animo
bohémien, di indossare il “completo di tutti i giorni” – ovvero jeans
strappati e maglietta lisa –, io e Baby ci eravamo messi alla ricerca di un
abito con un buon rapporto qualità/prezzo.
Ovviamente nelle tre sartorie visitate i completi da cerimonia, dai
frac agli smoking, erano inavvicinabili per le nostre tasche.
Come al solito Baby aveva scattato foto.
Avevamo pensato di chiederlo in prestito al padre di Mr Buk, la sua
copia perfetta alla stessa età, ma quando Carla ci aveva mostrato una
tunica bianca – raccontandoci della splendida cremazione di gruppo
avvenuta a Bali, a cui era seguito il rito per suggellare la loro unione –,
avevamo realizzato che ci saremmo dovuti arrangiare con quello che
poteva offrirci Milano.
Ovvero Chinatown.
Avevamo girato tutti i negozi chiedendo se, oltre ai cinquanta
modelli di jeans, avessero anche abiti da cerimonia, ma non avevamo
trovato nulla di interessante, se non una tiara di plastica che Baby mi
aveva imposto di comprare. Se l’era messa in testa e, con il cerchietto in
finto platino a cingergli la pelata, aveva trovato la boutique giusta.
La proprietaria, una donnina dalla pelle perfetta e i capelli lucidati
dall’olio, ci aveva mostrato sui cataloghi varie opzioni. Con fasce a
contrasto e imbarazzanti fiori che spuntavano dagli occhielli.
Baby aveva insistito affinché scegliessi il modello base: costava
meno, era il più sobrio e offriva ampi margini di abbellimento.
Quindi era partita una serrata trattativa, che si era conclusa con
uno sconto del trenta per cento e un velo in omaggio per me. Più che una
sposa parevo ormai una danzatrice dei sette veli, tanti ne possedevo.
Le fedi erano arrivate. Lisce, adattate ai nostri anulari con i nomi e
la data del matrimonio impressi all’interno. Le partecipazioni erano
partite, mentre sulla porta del BAUkowski una locandina invitava i clienti
a partecipare alle nozze con i loro animali da compagnia. Data la
vicinanza alla sede del “Corriere”, alcuni giornalisti avevano voluto
conoscere i dettagli. Se fossero usciti con un boxino sull’evento, essendo
il matrimonio diventato aperto al pubblico, avremmo avuto un esubero
di partecipanti. Forti di ciò, avevamo strappato al proprietario un prezzo
di favore, visto che lui si sarebbe fatto un sacco di pubblicità. Non solo,
tra lui e Irene c’era stato un primo abboccamento. Niente di eclatante, un
bacio al termine dell’aperiBAU, che lei aveva interpretato come il debutto
di un grande amore. Ne era certa, se lo sentiva.
Sul fiorista, né io né Mr Buk avevamo avuto dubbi: l’intera cifra
preventivata era stata devoluta al canile municipale, e nelle tazze con
Maciste e Bobby vestiti da sposi avevamo messo un bigliettino con il
timbro dell’E.N.P.A. che certificava l’avvenuta donazione.
La produzione si era impegnata a prestarmi la truccatrice di Isotta
per l’acconciatura e saremmo arrivati a bordo del nostro sgangherato
Volkswagen – che era gratis, a differenza del coevo Maggiolone rosso
propostoci dal concessionario per la modica cifra di seicento euro.
C’era stato anche l’addio al nubilato. Irene e Baby avevano tramato
alle mie spalle e una giornata iniziata alle terme di Milano si era conclusa
con un etilico karaoke in uno scantinato, dove mi ero cimentata nella mia
stonatissima versione di Non sono una signora.
Avevo ottenuto il congedo matrimoniale: quindici giorni di cellulare
spento per i viaggi di nozze. Al plurale perché, alla fine, ne avevamo
conquistati due. Quello offerto dalla trasmissione e una crociera nel
Mediterraneo ricevuta in omaggio dall’amministratore delegato della
NaviTiAmo.
I tasselli, come aveva detto Mr Buk, si erano miracolosamente
incastrati.
Avevamo ancora duecentoquattordici euro in caso di emergenza.
Mancavano solo le scarpe, ma avevo la certezza che sarebbero
arrivate.
LE BUGIE HANNO LE GAMBE CORTE (MA I TACCHI ALTI)

– 3 giorni al matrimonio
«Questa volta mi dici davvero chi diavolo è Bernard de Trumon? O
preferisci che lo chiami il genio della moda? O piuttosto, ancora, il guru
degli abbinamenti?»
Mr Buk mi attende sulla porta, braccia incrociate e ruga nervosa tra
le sopracciglia. Anche Maciste e Bobby Marley mi aspettano, ma nessuno
dei due scodinzola. Orecchie basse e aria seria che non preannuncia nulla
di buono.
«Allora, vuoi parlare?»
Capisco cosa è successo abbassando lo sguardo. Mr Buk ha in mano
la cartellina rosa in cui conservo il carteggio con il guru. Regola n. 1: se
vuoi compiere il delitto perfetto, non lasciare indizi sulla tua strada. Ma
questa storia era troppo incredibile per non conservarne le prove. E se
fosse successo qualcosa alla mia casella di posta elettronica o al mio pc
avrei perso tutto.
Regola n. 2: se proprio devi lasciare tracce, evita di portarle a casa.
Ci avevo riflettuto a lungo ma mi ero immaginata la faccia del mio capo
che leggeva la storia e la conseguente lettera di licenziamento una
mattina sulla scrivania. Così, avevo optato per il luogo più sicuro che
conoscevo: casa mia. Dietro un mobile in corridoio, che non spostavo
nemmeno per passare l’aspirapolvere, tanto era pesante.
«Ma come hai fatto?» domando con voce tremante.
«È stato Maciste ad aprirmi gli occhi.» Il cane, sentendosi in colpa, si
fa ancora più piccolo, diventando una palla di pelo lucido. «Gli avevo dato
un premio al ritorno dalla passeggiata e il biscotto è finito dietro il
mobile e così, per recuperarglielo, ho trovato questo!»
Mi sventola la cartellina davanti alla faccia. Ha un’espressione
tirata, nervosa.
«E pensare che ero così contento di averti incontrato. Sono arrivato
a fare per te quello che non mi ero nemmeno sognato di fare per altre:
dichiararmi davanti a tutti al BAUkowski.»
Non avevo mai ricevuto, in vita mia, una dedica così romantica. La
voce poi si era sparsa nel palazzo, e l’intero condominio era venuto a
chiedermi dove stessimo facendo la lista nozze. Ettore e Ignes ci avevano
regalato una statua alta un metro raffigurante un inquietante dio
antropomorfo che, sistemato all’ingresso, impediva al male di entrare.
Ivanna, oltre a offrirsi di badare ai cani durante il nostro viaggio di nozze,
mi aveva regalato una copia del libro Il principe azzurro è
(diversamente) etero.
Valentina, direttore commerciale di Give Me Who che era al nostro
aperiBAU, mi aveva omaggiato di tre paia di scarpe della loro nuova
collezione – un paio di décolleté kitten heel, una pump da quattordici
centimetri e delle praticissime zeppe. La signora Innominata mi aveva
regalato un completino per la prima notte di nozze – pizzi da boudoir e
trasparenze adatte a un pubblico adulto. Baby ci aveva regalato
l’adattamento degli abiti, e Irene aveva firmato una carta in cui garantiva
che non avrebbe avuto reazioni inconsulte vedendo il suo abito
completamente trasfigurato.
Tutti i pacchetti, opportunamente richiusi per scaramanzia,
giacevano all’ingresso, aspettando di venire nuovamente scartati da me e
Mr Buk, finalmente sposi.
«Senti, posso spiegarti.»
«Clorinda, non c’è niente da aggiungere. Mi hai deluso: ma come ti è
passato per la testa di barattare la nostra storia per un paio di scarpe? E
io che mi illudevo che avessi imparato ad amarmi. E io che credevo che tu
volessi davvero questo matrimonio.»
«Ma lo desidero più di ogni altra cosa al mondo!» rispondo con le
lacrime agli occhi. Se anch’io avessi la coda, adesso sarebbe nascosta tra
le zampe. «Io ti amo» sussurro con un filo di voce. Ed è vero. «Sei tu
quello con cui voglio invecchiare» e ripeto la frase che ho sentito tante
volte nelle commedie americane che nelle sere di solitudine mi
inchiodavano al televisore, «nella gioia e nel dolore, nella salute e nella
malattia…»
Ma lui mi interrompe con un gesto della mano. Afferra un borsone
blu e recupera collari e pettorine.
«Ho chiesto che mettessero, come sottofondo musicale, quella
canzone perché veramente ci tenevo a sposarti ma ora…» dice a denti
stretti, «me ne vado con i cani dai miei.»
Faccio per trattenerlo. «Aspetta, tesoro, non lasciarmi ti prego.» Gli
afferro un lembo della giacca ma è troppo tardi.
«Non chiamarmi. Mi farò vivo io, se ne avrò ancora voglia,
ovviamente.»
COLPO DI TACCO

– 1 giorno al matrimonio
Tutta colpa di un tacco? Me lo chiedo mentre apro il pacchetto. Ho
aspettato questo momento per ventinove giorni e adesso, se potessi,
riavvolgerei il nastro e scriverei una storia diversa. “Ho sbagliato tutto”
penso, pulendomi il naso con il fazzolettino di pizzo che avrei dovuto
nascondere nel finto bouquet a forma d’osso, realizzato per l’occasione
da un produttore di alimenti per cani. L’avrei lanciato, come da
tradizione, e i cagnolini ci si sarebbero avventati.
“Chi è causa del suo mal pianga se stesso”, mi diceva mio padre
quando sbagliavo un’interrogazione perché la sera prima avevo fatto
tardi; quando il buco all’orecchio – a cui lui era contrario perché da
zingara – si era infettato; quando a quattro anni ero finita in ospedale per
un’indigestione di bignè. Se fosse qui con me in questo momento, non
smetterebbe di ripeterlo.
E avrebbe ragione.
Direbbe anche che è inutile piangere sul latte versato e che le mie
sono lacrime di coccodrillo. Non ho avvisato nessuno. Mi sono barricata
in casa e sono due giorni che non rispondo al telefono.
Mia mamma, trovando sospetta quest’interruzione di
comunicazioni, si è presentata sul pianerottolo con una teglia di
lenticchie – che contengono proteine ma non appesantiscono –, ma lei e il
sarcofago fumante sono stati rispediti al mittente. Anche Baby e Irene
sono venuti con il pretesto del vestito e una magnum di champagne, ma
dopo due ore davanti a una porta chiusa anche loro se ne sono andati.
Ettore, sollecitato da mio padre, mi ha suonato ripetutamente con
la scusa dei fiori, ma l’unico a cui ho aperto è stato il ragazzo del corriere
che, davanti al muro di orchidee e al mio viso rigato dalle lacrime, ha
creduto che stessi vegliando una salma.
Sono due giorni che non vedo Mr Buk, ma il telefono non ha mai
squillato. E pensare che mi sono portata il cordless dappertutto, perfino
sotto la doccia, per non rischiare che non mi trovasse. Ma di solito si
trova solo chi si sta cercando…
Guardo l’anulare con la veretta di diamanti e ripenso alle fedi
appartenute ai nonni di Mr Buk, che domani avremmo dovuto ereditare
se io non avessi rovinato tutto. Le lacrime tornano a sgorgare mentre
contemplo il mio vestito.
Baby ha fatto un gran lavoro. Il bustino stretto, la schiena nuda e un
immenso velo di pizzo. Mi ha dato un foglio con le indicazioni nel caso
voglia provarlo.
L’abito si infila dal basso, senza le scarpe e con l’aiuto di una
persona. Però, nel caso in cui decidessi di fare da sola, trattieni il respiro
quando tiri su la zip.
Dopo un’apnea di oltre quaranta secondi e contorsioni degne di
un’acrobata, sono riuscita a chiudere la cerniera. Alla fine, l’ho spuntata.
Finalmente ho anche le scarpe.
Strappo l’imballaggio e fisso la scatola.
Tolgo il coperchio, sposto la velina nera e un tacco costellato di
cristalli si svela nella sua bellezza. Il piede scivola dentro il sandalo
mentre a stento trattengo le lacrime.
Di rabbia, di gioia e di paura. Ce l’ho fatta. In un mese ho scoperto e
infranto un amore, ho vinto una scommessa e perso un futuro.
Abbasso lo sguardo. C’è chi dice che il destino sia scritto nel palmo
delle mani.
Io, in questo preciso momento, ci sto camminando sopra.
LA SCARPA DEL PRINCIPE AZZURRO
Posted by Ivy, on February 6th, 2013
Care amiche,
siamo arrivate all’ultimo tratto di questo viaggio insieme. Se
fossimo in autostrada, sarebbe il momento malinconico del pedaggio, la
sbarra alzata e il casellante impaziente; oppure, se volessimo concederci
uno slancio di romanticismo, come imporrebbe questo epilogo, avrebbe i
colori di un tramonto su Milano, scaldato dai toni dell’ocra da un
imbianchino dei cieli, e quel rumore sottile di tende di velluto del sipario
che si chiude.
Il consiglio del giorno è: aprite gli occhi e osservate con attenzione
l’uomo che vi piace. Perché, e ormai lo avrete capito che per me (spesso)
le donne sono le scarpe che indossano, lo stesso mi sento di dire dei
nostri corrispettivi.
Dunque, care lettrici, non fermatevi ai bicipiti guizzanti o agli
addominali scolpiti. Non lasciatevi travolgere dalle parole, vuote come un
vaso, con cui vi ammalieranno promettendo di scoprire insieme a voi
Americhe ancora sconosciute. Non lasciatevi sedurre dai loro sorrisi da
guasconi, bianchi come un crinale innevato, dalle dita affusolate o dai
nasi aquilini.
Abbassate lo sguardo, invece. A terra, per essere precise. Guardate
se l’uomo che avete scelto per un tratto di vita o fino alla fine del mondo
indossa mocassini, a torto reputati la cremazione del piacere, o Oxford in
pelle spazzolata. Verificate che la scarpa sia lucida e che la sneaker sia
quella giusta. E poi, abbandonatevi: al Peter Pan che a quarant’anni non
smette le All Star, sapendo che per lui le altre saranno un eterno gioco
ma voi resterete la sua Campanellino.
Affidatevi alle braccia sicure dell’uomo in mocassino, che vi
ricorderà vostro padre e che dunque non vi tradirà mai.
Tenete testa, anzi passo, all’uomo in Oxford, perché sarà un
professionista attento ai dettagli e alla forma. Gustate un brandy accanto
al dandy che vestirà le pantofole di velluto e, se cercate un personal
trainer delle lenzuola, scegliete chi indossa, anche per andare al lavoro,
un atletico paio di scarpe da running. A ognuna la sua scarpa, insomma.
Alle lettrici dubitanti, che sì ne hanno conosciuto uno, ma non sono
rimaste colpite dal suo gusto per gli accessori, mi sento di dire: se la
scarpa calza bene, anche se non è della stagione in corso, non
discriminatela e tenetela buona, perché, non scordatevelo, “è meglio
comode che mal accompagnate”.
Chi sono io per dirlo? Una di voi, che adora le scarpe quando sono
belle, che le odia quando fanno male, che le desidera a prescindere
perché per un paio in più in casa c’è sempre posto.
Dunque, se cercate l’esperta che sappia svelarvi i segreti per
camminare senza soffrire sulle décolleté più estreme o la veggente che vi
anticiperà i modelli più in voga nella prossima stagione, quella non sono
io. Che resto una vicina di casa chiacchierona e curiosa, innamorata di
quell’accessorio capace di trasformare le donne in dive.
Oppure, più semplicemente, Ivy,
la donna con quel quid in più
Cara Clorinda,

graziose le tue partecipazioni!


L’idea dei cani sposi è originale. Se non dovesse funzionare con la
pubblicità, potresti diventare un’ottima wedding planner, ma non
succederà… ho visto alcune campagne che hai seguito e mi sono piaciute
molto.
Non hai risposto alla mia domanda. Hai detto a tuo marito che la
fretta con cui ti sposi è dovuta a una scommessa e che la posta in palio è
un paio di scarpe?
A presto, Clorinda.
Buon matrimonio e, se non dovessimo sentirci più, buona vita.
Bernard de Trumon
P.S. Le tue amate décolleté sono in viaggio.
P.P.S. Meglio la piadina o la tigella?
IL CINGALESE SUONA SEMPRE DUE VOLTE (E NON SOLO LUI)
Ho aperto le scatole in cui conservo i nostri ricordi: dalla tessera
Arci del nostro primo reading, alla lastra dell’intestino di Maciste con la
sagoma della pallina antistress che aveva inghiottito. Sfoglio le foto delle
nostre fughe, sparse sulla moquette come tessere di un mosaico
impossibile da ricomporre. Un week-end a Londra, un viaggio in Turchia
inseguendo i camini delle fate e ascoltando la musica ipnotica che fa
andare in trance i monaci dervisci. Il risotto allo zafferano che mi faceva
trovare pronto quando rientravo a casa; il vino del contadino che
compravamo nelle nostre fughe a Soave; quella volta che di peso
abbiamo cacciato Bobby Marley nella vasca per un bagno e poi il bagno lo
abbiamo fatto noi quando lui si è scrollato l’acqua di dosso. E poi
l’ennesimo selfie che ci ritrae insieme, tutti e quattro, con le colline delle
Langhe sullo sfondo, e le prove dei vestiti per il matrimonio sui cani: il
papillon e la copertina similsmoking per Bobby Marley e il velo di
Maciste. Ritrovo perfino ciò che resta del tacco divorato da Bobby
Marley.
Migliaia di istanti bruciati in un soffio.
Il citofono suona ancora. Si saranno sbagliati, non aspetto nessuno.
Guardo il vestito. Mi calza come un guanto. Questa sera mi
addormenterò in bianco, con un capo che non mi appartiene ma che ho
sognato diventasse mio. Aveva ragione Irene: farsi prestare l’abito da
sposa porta sfortuna.
Di nuovo il sottile rumore del citofono. Una. Due. Tre volte. Al
quarto squillo decido di rispondere.
Mi alzo svogliata e apro senza nemmeno chiedere chi è.
A quest’ora può solo trattarsi di un mormone in vena di proseliti o
del ragazzo della pizzeria d’asporto.
Torno a sedermi, mentre una musica mi raggiunge dentro casa.
Riconosco la canzone, è quella che mi ha dedicato Mr Buk la sera
dell’aperiBAU. Qualcuno deve aver acceso una radio.
Come orario è un po’ strano, Ettore non transige: i rumori molesti
nelle parti comuni sono vietati con il calare del sole. Vado a guardare
dallo spioncino ma non vedo nulla. Faccio scattare la serratura ma, oltre
il muro di fiori, non noto niente di particolare. Poi qualcosa succede.
Rumore di zampe veloci sui gradini. Bobby Marley e Maciste sbucano
dalle scale correndomi incontro. Bobby in bombetta e papillon e Maciste
inciampando nel velo fissato alla tiara. Cado travolta dal peso del pastore
e, pur non capendo nulla di quanto stia succedendo, scoppio a piangere.
«Quanto mi siete mancati, piccoli.» Il cane mi leva quel poco di
trucco restante con una leccata che va dalle guance alla fronte. «Sei
meglio di un Kleenex, tu.» Quando alzo gli occhi vedo Mr Buk, sbarbato, i
capelli tagliati, l’abito da cerimonia adattato da Baby e un mazzo di rose
gialle con un osso al centro. Un principe azzurro, di una bellezza
sconvolgente.
Mi porge l’insolito bouquet e dice: «Ti sposerò perché ho visto
subito che il mio cane ti ha preso in simpatia».
Eros aveva proprio ragione. Lo guardo, gli occhi lucidi. «E i capelli
che fine hanno fatto?»
«Linda, non piacevano a mio suocero…»
«E questo mazzo cosa vuol dire?»
«Che sono follemente geloso di te.»
Abbassa lo sguardo. «Quindi è per loro che hai barattato la nostra
libertà?»
Nascondo i piedi sotto il vestito.
«Già.»
«Posso almeno vederle?»
Alzo l’abito: i cristalli sul tacco brillano alla luce.
«Belle.»
Sorrido lusingata. «Ma tu lo sei molto di più» specifico.
«Oh, questo lo so, ma tu, piuttosto, sai perché sono qui?»
«Ci hai ripensato e domani mi sposi?» Gli mostro la suola su cui è
stata scritta dal guru la data del nostro matrimonio.
«Meglio, cara Linda…»
Dalle scale compare Isotta con un microfono in mano e una
telecamera che la segue a ruota.
Dietro, Palladiana con un cartello su cui sono appuntate le battute.
Una cordata di persone: la signora Innominata – miracolosamente vestita
–, Ivanna – con una lunga parrucca rossa e un porcellino d’India in mano
–, Valentina di Give Me Who, con il suo elegante compagno accanto. C’è
perfino la loro levriera, che pesta un piede a Ignes, concentrata a
guardarci con le mani giunte come se stesse pregando, ed Ettore con gli
occhi gonfi per l’emozione.
Intravedo anche i miei genitori e quelli di Mr Buk: vestiti di bianco i
suoi e di nero i miei. Osso, in braccio a mio padre, Baby con il fazzoletto
per contenere le lacrime e Irene, le labbra tremanti e il rimmel sbavato
non so se per l’emozione della scena o per l’ira di vedere il suo abito
trasfigurato con piume e pizzi.
La mia vita, tutta stipata su un pianerottolo.
«In fondo, anche Cenerentola aveva confuso il principe azzurro
che», Mr Buk ride di gusto, «pur non essendo piacente come me, amava
quella pazza biondina drogata di tacchi, quindi, seguendo il suo esempio,
ho deciso di perdonarti. Sforzandomi di accettare il fatto a me estraneo
che le scarpe e le diete sono un chiodo fisso di tutte le donne. Ora però
sei tu che devi parlare…»
Gli butto le braccia al collo e lanciando il bouquet, con il gesto di
polso che mi ha insegnato Baby, grido: «Sposami subito».
Maciste si avventa sui fiori cercando l’osso al centro e, quando la
levriera si avvicina, ha un sussulto. Ringhia, ma poi spinge lo strano
mazzo verso il muso della sua bella.
Maciste, bulimico incorreggibile, è stranamente inappetente. Non
sarà innamorato?
«È peggio del morbillo!» dico.
«Che cosa, Linda?» mi chiedono tutti.
«L’amore. Si diffonde a macchia d’olio.» Osservo Maciste, il capo
chino. Arrossirebbe se ne fosse capace e sospirerebbe, ne sono certa. «È
stato contagiato anche lui.»
Nessuno si salva tra le mura di Palazzo Ranieri.
Mi alzo sulle punte dei piedi e bacio Mr Buk: la vita è una Loubou
meravigliosa.
Nota dell’autrice
Le alternative da bambina erano due. Alla domanda “Cosa farai da
grande?”, rispondevo infatti: “La ballerina, oppure il veterinario”. Che
c’entrano poco tra loro: il camice verde mal si abbina alle scarpette con la
punta in gesso e gli strati di tulle del tutù sarebbero ingombranti tra i
ferri di una sala operatoria.
Eppure, le due passioni sono rimaste inalterate. Ancora oggi
cammino sulle punte – non mancando di soffrire, alcune volte, come ai
tempi della scuola di danza – e adoro gli animali. Ma, se da piccola ogni
pretesto era buono per portare a casa un randagio – che poteva essere un
cane sopravvissuto all’autostrada, un gatto al suo ultimo bonus di vite
dopo la caduta dal cornicione, un anatroccolo che rischiava un futuro da
fois gras o un lattonzolo quello da porceddu –, le mie abitudini sono
rimaste inalterate e, pur vivendo in settanta metri quadrati, quel vizio
non mi è passato. Oggi ci sono Priscilla, il porcellino d’India che avete
trovato nelle pagine della trilogia, e Link, un pincher affetto da crisi di
identità e perciò convinto di essere un dobermann, che però vive in
campagna con i miei genitori.
Perciò, nonostante le eccentricità di Ivanna e i suoi tentativi di
trasformare Priscilla in un Mio Mini Pony applicandole extension
colorate, nessun animale è stato maltrattato nel corso di questi romanzi.
Vi invito a seguire l’esempio di Mr Buk: gli animali, a qualunque
specie appartengano, sono amici e, se è vero che chi trova un amico trova
un tesoro, chi adotta una vita è la persona più ricca di tutte.
Dunque, non maltrattate la vostra fortuna e buone vacanze con i
vostri amici pelosi!
Ringraziamenti
Non c’è due senza tre, dice il proverbio, ma questi ringraziamenti
sono diversi dai precedenti. Avete conosciuto chi, con passione e
dedizione, ha aiutato questa trilogia nel suo percorso editoriale, dalla
gestazione delle prime settimane alla nascita, e sono gli amici di
Mondadori: da Giulia Ichino, che l’ha letta per prima, a Federica
Bottinelli, che le ha dato le cure destinate a un figlio; da Elisa Martini, che
ne ha seguito la comunicazione, a Jacopo Milesi, che si è cimentato nel
creare divertenti video; da Laura Cerutti, che, entusiasta, mi ha inoltrato
copertine e commenti elettrizzati, a Loredana Grossi, che ha coordinato il
marketing.
Ovviamente, grazie per la terza volta a Vicki Satlow, l’agente-amica,
perché nei momenti di smarrimento si è presentata a casa mia con
scarpe di cioccolato rosa.
Grazie al meraviglioso trittico del natio borgo selvaggio – papà,
mamma e Link, i miei primi fan – e alle mie amiche: Bea, Vale, Paola,
AnnaMaria, Lidia e le Pink&thecity che conoscete già.
Grazie a Pier che, nonostante la stanchezza degli ultimi tempi, mi ha
trasformato nelle sue foto, togliendo le occhiaie e quella patina di grigio
che segna chi non va in vacanza da troppo tempo. Anzi, andate a vedere il
suo sito: www.orlerimages.com!
Grazie a Giò, perché c’è. Grazie alla famiglia Trumboldi – Cristina, la
mamma dei lemuri, Giuseppe, l’homo tatuatus, e Ferdinando, lo
scapigliato – che sopporta i miei karaoke molesti in auto al ritorno dalle
serate di pizza al metro.
Ma soprattutto, grazie a Paolo che con Priscilla ha imparato a
distinguere, nel corso degli anni, una Louboutin da una Jimmy Choo.
Grazie per essermi stato vicino in questi mesi di scrittura matta e
disperatissima e per avermi accompagnato per mano a scoprire i pregi e
le peculiarità dei personaggi che, nascendo dalla tastiera, cercavano la
loro personalità.
E allora, caro Mr Buk, tieniti forte perché voglio scriverti quello che
per pudore e timidezza tengo per me, ed è quel “ti amo” che dal 18 luglio
scorso è diventato il nostro “per sempre”.
Infine, caro lettore, arrivi tu. Mi chiedo senza di te cosa sarei...
perciò grazie per avermi seguito in questo viaggio entusiasmante.
Grazie per avermi fatto compagnia e per aver amato le eccentricità
dei protagonisti di Palazzo Ranieri.
E siamo giunti veramente al finale.
Dicono che il cerchio si chiude quando si torna da dove si è partiti.
Quasi quasi vorrei che fosse vero, non sarebbe male ricominciare
tutto daccapo. Ma, anche se questa storia è conclusa, ogni fine, come si
dice, è un nuovo inizio. Io ne sono convinta.
Ci vediamo presto e buon tacco a tutti!
Gli altri titoli in ebook di Bea Buozzi

Matta per Manolo


In una città frenetica come Milano è difficile, a trentacinque anni,
illudersi di trovare l’anima gemella. È molto più appagante collezionare
scarpe meravigliose: come fa Palladiana, la protagonista di questo
romanzo. Una trasferta a Napoli per lavoro sarà l’imprevedibile
occasione per calzare un paio di fantastiche Manolo Blahnik e saranno
queste décolleté rosse ad aprirle gli occhi. >
Tutte Choo per terra

Assorta nei suoi pensieri, avvolta nel lusso della business di una
delle compagnie aeree più blasonate al mondo, Valentina “festeggia” a
diecimila metri d’altezza il suo compleanno con un viaggio di lavoro:
l’attività frenetica per il noto marchio di moda di cui è responsabile
commerciale è l’antidoto per nascondere la solitudine, come si fa con la
polvere sotto i tappeti, e dimenticare. Dimenticare di essere una single
senza possibilità di recesso. >
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può
essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o
trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di
quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle
condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente
previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non
autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni
elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti
dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente
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ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è
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imposte anche al fruitore successivo.
www.librimondadori.it
La vita è una Loubou meravigliosa di Bea Buozzi
© 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788852052675
COPERTINA || ART DIRECTOR:
GIACOMO CALLO | PROGETTO GRAFICO:
NADIA MORELLI | FOTO © AMANA
PRODUCTIONS INC/GETTY IMAGES

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