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LA “CONFERENZA SULL'ETICA” DI L.

WITTGENSTEIN
Author(s): Sergio Marini
Source: Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Vol. 76, No. 1 (gennaio-marzo 1984), pp. 122-134
Published by: Vita e Pensiero – Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
Stable URL: https://www.jstor.org/stable/43061209
Accessed: 17-01-2019 08:33 UTC

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Sergio Marini *

LA CONFERENZA SULL'ETICA DI L. WITTGENSTEIN

« Non si può condurre gli uomini al bene: si può


condurli solo da qualche parte. Il bene è al di fuori
dello spazio dei fatti » (L. Wittgenstein, 1929).

La convinzione di Wittgenstein di avere, con il Tractatus, « definitiva-


mente risolto nell'essenziale i problemi » l, è probabilmente la spiegazione
del silenzio che seguì l'apparizione dell'opera. È noto infatti che negli anni
immediatamente successivi alla pubblicazione del Tractatus , Wittgenstein
si dedicò essenzialmente all'insegnamento elementare in piccoli villaggi
montani dell'Austria2, riaccostandosi alla filosofia solo attorno agli anni
1929-1930. È proprio a questi anni che risale la famosa Conferenza sull'etica ,
che il filosofo pronunciò presso un'associazione chiamata « The Heretics »
a Cambridge 3. Può in effetti sembrare strano che il ritorno alla filosofia di
Wittgenstein sia avvenuto attraverso l'analisi di un tema che la conclu-
sione del Tractatus dichiarava « indicibile » e per il quale solo il « silenzio »
sembrava adeguato4. In effetti la Conferenza (come d'altronde buona parte
del materiale wittgensteiniano successivo al 1929) sembra quasi assumere
il carattere di un lavoro preparatorio a quello che sarà il « secondo »
Wittgenstein, per il quale, come è noto, etica e religione risultano « dici-
bili » all'interno di uno specifico « gioco linguistico ». Nella Conferenza
sull'etica tuttavia il filosofo austriaco non nega quelle che erano le linee

* Università Cattolica, Brescia.


1 Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 19Î4-
1916, trad. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1979, p. 4.
2 Frutto di questa esperienza fu la pubblicazione, nel 1926, di un Dizionario per le
scuole elementari (trad. it. a cura di D. Antiseri, Armando, Roma 1978).
3 La Conferenza venne pubblicata postuma nel iyo5 m « ine jrnnosopnicai Keview »,
ed è stata tradotta in italiano a cura di M. Ranchetti in L. Wittgenstein, Lezioni e con-
versazioni sull'etica, l'estetica, la psicologia e la credenza religiosa , Adelphi, Milano 1980
(Ia ed. 1976), pp. 5-18.
4 « È chiaro che letica non può formularsi. L etica e trascenaentaie » u r act at us...,
prop. 6.421, trad, cit., p. 79). La « trascendentalità » dell'etica va intesa non nel s
che essa sia composta di proposizioni riguardanti verità trascendentali, ma nel se
che le sue proposizioni « mostrano qualcosa che pervade tutto il dicibile, ma che
sua volta indicibile» (G.E.M. Anscombe, Introduzione al «Tractatus » di Wittgenst
trad, it., Ubaldini, Roma 1966, p. 152; l'affermazione della Anscombe si riferisce m eff
alla prop. 6.13: « La logica è trascendentale », ma è chiaro che il termine è usato
Wittgenstein nello stesso significato in ambedue i casi). La distinzione tra ciò ch
esser « detto » e ciò che può solo esser « mostrato » è all'origine della famosa prop.
chiude il Tractatus : « Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere » (trad, cit., p
nella quale si può dire è riassunto il « misticismo » wittgensteiniano.

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La « Conferenza sull'etica » di Wittgenstein 123

essenziali della concezione etico-religiosa del Tractatus, in certo qual mod


anzi le riafferma (si potrebbe in effetti dire che per questo aspetto del s
pensiero Wittgenstein rimase legato ad alcune linee fondamentali, al di
delle differenze, anche notevoli, che sono riscontrabili tra la sua « prima »
e la sua « seconda » speculazione). Ciò non toglie tuttavia che tra i due
testi sono osservabili alcune differenze che vanno appunto nella direzion
di una dichiarazione di « dicibilità » dell'etica. Questo breve lavoro si pro-
pone proprio di esaminare il contenuto della Conferenza, cercando di mo-
strarne i legami con il Tractatus , ma insieme considerandola separata-
mente, nella convinzione che comunque in essa sono rintracciabili alcune
delle più sentite convinzioni etico-religiose del Wittgenstein.

1. La definizione di etica che Wittgenstein qui assume come punto


di partenza è la stessa offerta dal Moore nei suoi Principia Ethica, secondo
la quale « etica è la ricerca generale su ciò che è bene » 5. Wittgenstein
avverte subito tuttavia di voler usare il termine « etica » in un senso
più ampio di quanto non facesse il Moore, includendovi anche « la parte
più essenziale di ciò che di solito viene chiamata estetica » 6. In effetti
poi l'analisi che egli sviluppa è solo marginalmente rivolta alla determina
zione di ciò che è il « bene », sembrando piuttosto indirizzata alla delinea
zione di un ambito di significati riferibili all'etica e all'interno dei qual
trovare una qualche caratteristica comune.
Al posto di « ricerca su ciò che è bene », l'etica potrebbe altrettanto
correttamente essere definita « ricerca su ciò che ha valore », o « su ciò
che è realmente importante », o « sul significato della vita », o « sul modo
giusto di vivere »; Wittgenstein riconosce cioè la possibilità di una serie di
definizioni diverse in grado di « suggerire » o comunque di dare « un'idea
approssimativa » di ciò che si intende quando si parla di « etica ». In
definizioni di questo genere ciò che immediatamente colpisce è che certi
termini, e termini fondamentali quali « bene », « valore », « giusto », pos-
sono in effetti essere usati in due sensi « molto diversi », che Wittgenstein
chiama « senso corrente, o relativo » e « senso etico, o assoluto ». In senso
relativo questi termini sono usati per indicare il raggiungimento di un
determinato fine o livello stabilito in precedenza (definire « buona » una
sedia significa semplicemente affermare ad es. che essa è comoda: definire
« giusta » una strada significa solo affermare che essa è la strada adatta
per raggiungere un certo luogo prestabilito). È evidente peraltro che non
è questo il modo in cui l'etica utilizza questi stessi termini. Quando infatti
essi sono usati « eticamente » sembra intervenire nel loro senso un ulteriore

5 Conferenza..., cit., p. 7; la definizione (leggermente diversa) si trova a p. 45 della


trad. it. di G.E. Moore, Principia Ethica, a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1964.
6 Conferenza..., cit. L identita etica-estetica e chiaramente attermata dalla prop. ó.4Zl
del Tractatus : « Etica ed estetica son uno» (trad, cit., p. 79), e dai Quaderni 1914-1916 :
« L'opera d'arte è l'oggetto visto sub specie aeternitatis; e la vita buona è il mondo
visto sub specie aeternitatis. Questa è la connessione tra arte ed etica » (trad, cit.,
p. 185; annotazione del 7 ottobre 1916). Tale identità è giustificata dal fatto che « le
proposizioni non possono esprimere nulla ch'è più alto » (prop. 6.42), sicché l'etica finisce
con il trovare la sua più esatta collocazione nella sfera artistica. Wittgenstein « assegna
all'arte un posto centrale nella vita umana, poiché solo essa può esprimere il significato
della vita, solo essa può esprimere la verità morale e solo l'artista può insegnare le cose
più importanti della vita » (A. Janík - S. Toulmin, La grande Vienna, trad, it., Garzanti,
Milano 1980, pp. 199-200).

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significato, non ricond


L'esempio che Wittgen
è molto significativo:
tore che glielo fa nota
la sua risposta non pr
statazione » di giocare
per desiderare di gioca
« male » è usato in sen
che con esso si indica
qualcuno gioca male a
a « descrivere » un certo fatto, cioè il fatto che quel qualcuno gioca a
tennis ad un livello inferiore a quello che si considera « buono »). In effetti,
secondo Wittgenstein, « ogni giudizio relativo » non è altro che pura « asser-
zione di fatti », in quanto appunto non è altro che la « descrizione » di un
certo fatto. Nel caso del giudizio etico invece l'uso del termine « male »,
avendo o volendo avere significato « assoluto », implica la presenza in
esso di qualcosa di più di una semplice constatazione di fatti; il « com-
portarsi male » (in senso etico) non può equivalere al « giocare male a
tennis ». Infatti mentre chi gioca male a tennis può anche non voler
giocare meglio, chi si « comporta male » non può (o comunque si suppone
che non dovrebbe) non desiderare di comportarsi meglio. La conclusione
che Wittgenstein trae da tutto questo è che non solo ogni giudizio relativo
è pura asserzione di fatti, ma anche che « nessuna asserzione di fatti può
mai essere, o implicare, un giudizio di valore assoluto » 7. Riaffermando
quanto già aveva detto nel Tractatus, Wittgenstein dice chiaramente che
tutto ciò che noi possiamo « dire » è « fatto », un libro di etica, che « fosse
veramente un libro di etica » non può quindi essere scritto. In ciò che
noi diciamo non c'è niente che lo indichi come dotato di carattere etico:
parlare di un delitto significa solo descrivere un « fatto », equivalente, in
quanto « fatto », a qualsiasi altro, come ad es. la caduta di una pietra:
« saranno sempre fatti, semplicemente, fatti e fatti, e non etica » 8. Così
la conclusione è che in effetti « l'etica, se è qualcosa, è soprannaturale,
mentre le nostre parole potranno esprimere solamente fatti » 9. L'indici-
bilità dell'etica, conseguenza della sua « trascendentalità » o « sopranna-
turalità », come si vede non è affatto negata, ma al contrario riaffermata.
Mentre però nel Tractatus Wittgenstein si limitava a negare la « dicibi-
lità » dell'etica giustificandola con la « delimitazione » del « pensabile »
(dicibile) ad opera della logica, nella Conferenza egli cerca anche di spie-
gare perché, nonostante questa indicibilità, fra le proposizioni che si usano
vi siano anche proposizioni a carattere etico-religioso, o comunque propo-
sizioni a cui si attribuisce un simile significato. Questo indirizzo wittgen-

7 Conferenza..., cit., p. 9. Già nel Tractatus, Wittgenstein aveva affermato che « tutte
le proposizioni sono d'egual valore » »(prop. 6.4, ibid., p. 79), cioè in effetti prive di
qualsiasi valore. Nel mondo infatti tutto ciò che vediamo potrebbe anche essere altri-
menti. Tutto ciò che possiamo comunque descrivere potrebbe essere altrimenti » (prop.
5.634, ibid., p. 64), sicché il « valore » (che non può essere accidentale) non può essere
« nei » fatti, ma tutt'al più può manifestarsi « attraverso » essi.
* Conferenza..., cit., p. lü.
9 Ibid., p. 11. In un'annotazione dello stesso periodo della Conferenza , Wittgenstein
osserva che « solo il soprannaturale può esprimere il soprannaturale » (in Pensieri
diversi, a cura di G H. von Wright, trad. it. di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1980, p. 19).

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La « Conferenza sull'etica » di Wittgenstein 125

steiniano è già chiaramente sulla linea di un allontanamento dagli esiti


finali del Tractatus, in quanto implica già, in certo modo, un'affermazione
di « possibile dicibilità » dell'etica.
Per spiegare l'esistenza di proposizioni dotate, almeno apparentemente,
di « senso » etico, Wittgenstein introduce il concetto di « similitudine ».
Caratteristica delle « proposizioni etiche » sarebbe dunque quella di
implicare un « valore assoluto », tale cioè da valere per ogni possibile
situazione:
« bene assoluto , se è uno stato di cose descrivibile, sarebbe quello
che chiunque, indipendentemente dai propri gusti e dalle proprie inclina-
zioni, dovrebbe necessariamente conseguire, o sentirsi colpevole per non
conseguirlo » 10,
cioè quel bene che si impone a tutti per « necessità logica ». Nessuna
situazione tuttavia possiede un simile « potere coercitivo », non esiste
alcun caso in cui il « bene » sia tale da imporsi per se stesso. Ciono-
nostante, nel linguaggio quotidiano, espressioni quali « bene assoluto » e
« valore assoluto » sono frequentemente usate e considerate come « signi-
ficanti ». La causa di ciò sta per Wittgenstein in un « certo caratteristico
uso errato della nostra lingua ». Questo uso errato consiste appunto nel
servirsi di « similitudini »: le proposizioni etiche e religiose sarebbero
proposizioni in cui l'uso di termini quali « giusto », « bene », ecc., è dovuto
ad un'analogia con l'uso che di questi termini si fa in proposizioni non
etiche. In virtù di questa analogia le proposizioni a carattere etico-religioso
« sembrano » a loro volta dotate di senso e dunque « dicibili ». Si tratta
però per Wittgenstein di un grave errore: la similitudine è infatti simi-
litudine « per qualcosa », e dunque ciò che in essa è espresso, se è « signi-
ficante », dovrebbe poter essere espresso anche senza di essa. Al con-
trario nelle proposizioni etico-religiose se si toglie la similitudine, sembra
non esistere più nulla; nel caso del discorso etico-religioso cioè l'elimina-
zione della similitudine coincide con l'eliminazione del discorso stesso.
Ciò sembrerebbe suggerire l'idea che tale discorso non può che esser
discorso « per similitudini », dietro le quali tuttavia non vi sono fatti.
In effetti Wittgenstein conclude proprio che il discorso etico-religioso è
« puro nonsenso », è discorso in cui in definitiva non si « dice » nulla,
pur « esprimendo » qualcosa. Le esperienze che il filosofo nella Confe-
renza introduce per spiegare il suo modo di considerare l'etica, sono in
effetti esperienze prive di « senso » se si cerca di parlarne « al di là » del
fatto che esse descrivono. D'altronde l'etica si caratterizza proprio per
questo voler « andare al di là del mondo, ossia al di là del linguaggio
significante » n, dove evidentemente « linguaggio significante » equivale a
« linguaggio dotato di senso » (cioè esprimente un « fatto »). Così la con-
clusione a cui l'analisi del filosofo perviene è che proprio la « mancanza
di senso » è 1'« essenza peculiare » delle proposizioni etiche. Etica e reli-
gione non sono che un insieme di proposizioni « insensate » (ma non
false) che nulla possono aggiungere a ciò che già conosciamo. L'etica
non è una scienza, non è dunque qualcosa di verificabile o infirmabile con
strumenti logici o con l'osservazione empirica. La pretesa della scienza

10 Conferenza..., cit.
11 Ibid., p. 18.

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di risolvere i problemi d
da; dire che la scienza «
Wittgenstein confonder
vanno tenute ben distinte
nisca il tentativo di « p
contro i limiti del lingu
mente disperato ».
Occorre tuttavia notare
l'etica proprio come que
ficante ed insieme occor
detto che l'etica è « ind
autorizzano comunque u
traddizione dipende pro
denza, Wittgenstein sta
« logico » (dicibile) e lin
stinzione che era il pres
riamente a quanto avven
tezza » del linguaggio et
immediatamente con l'af
tosto intesa nel senso di
di questo stesso linguag
significativa una conversa
esprime la propria opin
zione, posto di fronte
comanda » o di afferma
genstein afferma essere
taglia la strada a qualsia
prio la seconda concezion
si potesse ancora motiv
potersi concludere che
questo periodo è rivolt
preoccupa di sottolinear
gico » per « parlare » de
questa impossibilità si tr
dell'etica stessa (è eviden
che sia adatto a questa).

12 Ibid., p. 17.
13 Esiste naturalmente la possibilità di dare un senso a quell airermazione conside-
rando il termine « miracolo » come indicativo di « ciò che la scienza non ha ancora
spiegato »; questo però significherebbe ammettere che, almeno in linea di principio, la
scienza è effettivamente in grado di spiegare tutto, principio che Wittgenstein rifiuta
decisamente: « Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scienti-
fiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati.
Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta» (Tracta-
tus..., cit., prop. 6.52, p. 81).
14 F. Waismann, Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna, traa. it., La Nuova
Italia, Firenze 1975, pp. 105-108 (riportata anche in Lezioni e conversazioni..., cit., pp.
22-25). Le osservazioni risalgono al dicembre 1930.
15 Ibid., p. 105 ( Lezioni e conversazioni..., cit., pp. ¿L-L5, leggermente diversa;, uia
nei Quaderni 1914-1916, cit., Wittgenstein aveva affermato che « l'etica non tratta del
mondo. L'etica deve essere una condizione del mondo, come la logica » (p. 178), e dun-
que, come « condizione del mondo », non ulteriormente fondabile.

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La « Conferenza sull'etica » di Wittgenstein 127

l'avventarsi disperato contro i limiti del linguaggio, occorre tener


del fatto che comunque « il linguaggio non è una gabbia » 16.

2. L'impostazione di fondo della Conferenza (riassumibile nell'a


mazione secondo la quale l'etica non è una scienza in quanto risulta
tuita da proposizioni « insensate ») spiega il modo particolare con cui
Wittgenstein affronta il tema. L'impossibilità di trovare situazioni in cui
si realizzi il valore assoluto (l'impossibilità di trovare in particolari « stati
di cose » dicibili il « bene assoluto » oggetto dell'etica) indirizza la ricerca
nel senso delle « esperienze individuali ». L'unico modo di affrontare il
tema etico-religioso è appunto quello, sembra suggerire Wittgenstein,
di « descrivere » particolari esperienze personali (che in quanto « espe-
rienze » sono trattabili come « fatti » e dunque sono « dicibili »), in modo
che « attraverso » esse si faccia presente all'ascoltatore un « qualcosa », un
« senso » che le parole per sé non sono in grado di esprimere. La que-
stione etico-religiosa è così questione « del tutto personale », nel senso
che ciò che si vuol comunicare viene « espresso » attraverso esperienze
individuali, tali cioè da poter essere, in quanto « fatti », anche diverse tra
loro, ma tutte comunque riconducibili ad un « senso » ultimo comune.
In altre parole, stante l'impossibilità di trovare un linguaggio etico-reli-
gioso comunicabile alla stregua di un linguaggio « logico » (impossibilità
che, come notato, deriva dall'essenza stessa dell'esperienza etico-religiosa),
l'unico mezzo di comunicazione di un tale tipo di esperienza è proprio quel-
lo di ricorrere a fatti-esperienze personali (descrivibili), tali che in essi
si « avverta », si « faccia presente » un senso ulteriore che altri potrebbero
avvertire in fatti-esperienze diversi. Il carattere « personale » del sentire
etico-religioso è del resto chiaramente sottolineato dallo stesso Wittgen-
stein: « Alla fine della mia conferenza sull'etica ho parlato in prima per-
sona: credo che sia qualcosa di molto essenziale. A questo punto non si
può più constatare nulla, posso solo presentarmi in quanto individualità
e parlare in prima persona. Per me la teoria non ha valore. Una teoria
non mi dà niente » 17 .
L'aver negato all'etica il carattere di « scienza » comporta, come logica
conseguenza, l'impossibilità di « parlare » di essa nel senso di un'effettiva
comunicazione di « stati di fatto ». Se l'essenza dell'etica è di essere « insen-

16 Ibid., p. 107 ( Lezioni e conversazioni..., cit., p. 25, leggermente diversa). A dire


il vero nella Conferenza Wittgenstein parla del linguaggio proprio come « della nostra
gabbia » (p. 18), mentre nella conversazione citata esprime l'opinione riportata. Non mi
sembra però che si possa parlare di contraddizione; come osservano Janik e Toulmin
{La grande Vienna, cit., p. 209): « la tendenza umana a travalicare i limiti del linguaggio
può condurre (come avviene in Moore) a una ciarla filosofica che confonde dati concet-
tuali ed empirici, oppure, alternativamente (come avviene in Kierkegaard) ad un tenta-
tivo religioso di rendere in parole ciò che non si può esprimere verbalmente ». Si po-
trebbe quindi dire che il linguaggio « deve » essere una gabbia se con esso si cerca
di « fondare » l'etica (dando a questa quindi un significato ed una spiegazione intellet-
tuali), mentre non lo è più se si cerca di esprimere ciò ch'è più alto « attraverso » ciò
che è dicibile. Si deve anche ricordare che Wittgenstein ritiene presente nell'uomo « una
sentita aspirazione al trascendente» ( Pensieri diversi, cit., p. 38; annotazione del 1931),
aspirazione che si manifesta appunto come « urto » contro i limiti del linguaggio. È lo
stesso Wittgenstein a far notare l'affinità tra questo suo « urto » e il « paradosso »
kierkegaardiano (cfr. Lezioni e conversazioni..., cit., p. 21; F. Waismann, Ludwig Witt-
genstein..., cit., p. 55).
17 F. Waismann, Ludwig Wittgenstein..., cit., pp. 106-107 ( Lezioni e conversazioni...,
cit., p. 24, leggermente diversa).

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sata », non si può com


(se la proposizione « m
senso « logico », essa r
ma esprimerebbe un
puramente « descritti
comunicare; ciò che rende questa espressione « etica » è proprio la sua
« insensatezza » dal punto di vista logico e dunque la sua incomunicabilità
come « fatto etico »). « Non si può insegnare l'etico » 18 è l'altrettanto logica
conclusione.
Wittgenstein in definitiva nega la possibilità di una qualsiasi « teo-
ria » etica, che, in quanto teoria, pretenderebbe appunto ad una fonda-
zione dell'etica stessa, fondazione che, come si è visto, è invece decisa-
mente negata dal filosofo. Questo rifiuto della « teoria » è esteso da Witt-
genstein ad ogni tentativo di affermare un legame tra etica e indagine di
tipo sociologico o psicologico. Nella conversazione riferita da Waismann,
Wittgenstein si mostra particolarmente avverso all'idea di Shlick di una
fondazione sociologica dell'etica, all'idea cioè che l'osservazione dei « fatti »
della vita umana possa condurre alla delineazione di norme o valori etici.
L'indagine sociologica in quanto tale è pura descrizione di fatti, la socio-
logia « può riferire solo ciò che accade. Ma nella descrizione del sociologo
non deve mai comparire la proposizione "Questo significa un progresso" » 19.
Il « fatto » in se stesso non ha alcun valore e dunque in ciò che la sociolo-
gia descrive non c'è, non ci « deve » essere nulla di più di quanto è
« dicibile » 70 .
Questo rifiuto di considerare l'etica nell'ambito del « fattuale », di
riconoscere una sua « dicibilità-fondazione » (a carattere intellettuale) sem-
bra potersi collegare al « misticismo » con cui si chiudeva il T ractatus
(e d'altra parte la prima delle « esperienze personali » a carattere etico-

18 Ibid., p. 106 ( Lezioni e conversazioni..., cit., p. 24); questa espressione non ha


riscontro nella Conferenza, tuttavia essa sembra esprimere perfettamente « uno » dei
risultati di questa.
19 Ibid., p. 106 ( Lezioni e conversazioni..., cit., p. 23; leggermente diversa). Lafterma-
zione che un certo fatto costituisce un « progresso » non può essere ricavata dall'osser-
vazione di quel fatto (« una simile possibilità implicherebbe che da quel fatto sia dedu-
cibile un « valore »); la sociologia cioè, in quanto si propone come scienza non può che
limitarsi ad una « descrizione » di ciò che osserva senza però pretendere di andare « al
di là » di questo. Allo stesso modo nel T ractatus la considerazione che la logica è
« descrizione » di fatti, impediva ad essa di dire alcunché « oltre » ciò che è descrivibile,
ossia il fatto così come si presenta (la logica ad es. non può riguardare l'esistenza di
ciò di cui parla, non può dire « questo e quest'altro v'è nel mondo, quello no », prop. 5.61,
ibid., p. 63). In ambedue i casi, superando l'ambito del « descrivibile », si commette-
rebbe l'errore di invadere una « sfera » diversa da quella dei fatti, unica « dicibile ».
Anche nelle Note sul « Ramo d'oro » di Frazer, Wittgenstein accusa il famoso antropologo
inglese di aver voluto sovrapporre la « sua » interpretazione a quanto descriveva; gli
rimprovera appunto di non aver capito che « qui si può solo descrivere e dire: così è
la vita umana » (trad, it., Adelphi, Milano 1975, p. 19).
20 Anche se Wittgenstein non lo dice, sembra però evidente che dall'analisi sociolo-
gica sia possibile « dedurre » valori «Telativi » (nel senso indicato in precedenza). Ad es.
la sociologia può anche arrivare a concludere che un certo comportamento costituisce,
al fine di una più completa vita associata, un « progresso » rispetto ad un altro (in que-
sto caso infatti vi sarebbe il riscontro dei fatti). Ciò che il filosofo austriaco vuol stig-
matizzare è la pretesa di ricavare non già « valori relativi », ma valori assoluti », cioè
etici. Nel pensiero di Schlick egli nota una grave contraddizione: se si ammette che
l'etica è « scienza di fatti » occorre necessariamente concludere ch'essa è puramente
descrittiva, e dunque chi « parla » di etica in effetti « non » parla di etica, ma solo di
« fatti » (cfr. nota 63 in F. Waismann, Ludwig Wittgenstein..., cit., pp. 105-106; nota 1
in Lezioni e conversazioni..., cit., p. 23).

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La «Conferenza sull'etica» di Wittgenstein 129

religioso della Conferenza, cioè il « meravigliarsi per l'esistenza del


do », era già presente nel Tractatus ed era anzi, si può dire, la giustifica-
zione del « misticismo » stesso) 21. Ciò che infatti conduceva nell'opera
alle finali proposizioni includenti il « mistico », era proprio lo « stupore »
che prende l'osservatore di fronte all'« esistere » del mondo (non dedu-
cibile per via logica). Punto culminante della « logica » (intesa come l'in-
sieme delle proposizioni « dicibili » e dunque puramente descrittiva) è
proprio 1'« avvertire », il « sentire » che i fatti del mondo non sono poi
tutto, che il mondo è un « tutto limitato », il cui « senso » è oltre esso
(e dunque inattingibile per la logica). Allo stesso modo la Conferenza
riafferma che l'etica si situa in uno spazio diverso da quello dei fatti,
« oltre » questi, e dunque « al di là » di una possibile comprensione intel-
lettuale. Ancora una volta però occorre notare come la concidenza fra
le due opere non sia totale; la Conferenza infatti non conclude al « silen-
zio », ma ammette, come si è osservato, la « possibilità » di un linguaggio
etico (a condizione però che questo non sia caratterizzato intellettual-
mente).

3. Il rifiuto di una « fondazione » dell'etica si collega al « misticismo »


del Tractatus anche per altro aspetto. Nel Tractatus l'indicibilità dell'etica
conduceva ad un'identità che se pure non espressamente dichiarata era
tuttavia facilmente avvertibile: l'identità tra etica e religione. Si può
anzi dire che in certo qual modo è proprio questa identità la giustifica-
zione ultima della posizione mistica (o anche, rovesciando il rapporto,
si può dire che il « sentire mistico » è la giustificazione dell'identità etica-
religione; in ogni caso sembra possibile istituire una chiara connessione tra
questi due elementi, ed è questa connessione ciò che si vuol qui sottoli-
neare). La « trascendentalità » dell'etica, fondata sul « contingentismo »
del mondo 22 , era intesa ad offrire a quest'ultimo un « senso », un « valore »
non accidentali, sottratti al relativismo dell'apparire « così ». In un'anno-
tazione del 1916 Wittgenstein però osserva che:
« il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio » 23 ,
e nel Tractatus :
« Come il mondo è, è affatto indifferente per ciò ch'è più alto, Dio
non rivela sé nel mondo » 24.
Tralasciando la pur interessante questione relativa al preciso signifi-
cato di quest'ultima proposizione, ciò che qui importa sottolineare è che
la netta distinzione tra ciò che è « dicibile » e ciò « ch'è più alto » (e può
quindi solo « mostrarsi »), implica necessariamente l'impossibilità di distin
guere tra l'etico e il religioso e quindi l'altrettanto necessaria loro identifi-
cazione. Il « senso » del mondo è sì un senso « etico », ma in quanto questo
risulta « indicibile » si può anche affermare che il senso del mondo è
religioso. In effetti è chiaro che la possibilità di distinguere tra etica e
religione è connessa alla possibilità di « parlare » di esse, ma una volta

21 « Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è » (prop. 6.44, p. 81). Natural-
mente dati gli scopi del presente lavoro ci si limiterà solo ad accennare ad alcuni
aspetti di questo « misticismo » wittgensteiniano.
22 V. le proposizioni riportate alla nota 7.
23 Quaderni 1914-1916, cit., p. 173.
24 Prop. 6.432, p. 80.

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130 S. Marini

negata tale possibilità


ch'è più alto », il « mistico ». È in questo senso che nella proposizione
riportata Wittgenstein può introdurre « Dio » come ciò che non si rivela
nel mondo, ma pure dà senso a questo. Nella Conferenza, nonostante l'ab-
bandono almeno parziale della rigida distinzione « esprimibile-inesprimi-
bile », questa identità è chiaramente riaffermata. Le esperienze etiche per-
sonali a cui il filosofo fa riferimento sono infatti da lui stesso ricondotte
ad altrettante esperienze religiose. Si può anzi dire che Wittgenstein attua
a questo proposito una vera e propria « traduzione » dall'etico al religioso
mostrando così inequivocabilmente come nel suo pensiero, sia dal punto
di vista dell'oggetto sia dal punto di vista del linguaggio, etica e religione
non possano essere distinte.
La prima delle esperienze etiche è riferita da Wittgenstein con le
parole: « mi meraviglio per l'esistenza del mondo ». Il filosofo si preoccupa
innanzitutto di distinguere questa da altre espressioni che apparentemente
possono sembrare voler « dire » una medesima esperienza, ad es. espres-
sioni quali « mi meraviglio per le dimensioni di un cane più grosso di
qualsiasi cane mai visto ». Le due espressioni, apparentemente appunto,
sembrano avere un medesimo significato (ambedue infatti esprimono una
medesima esperienza di partenza, quella del « meravigliarsi »), ma in realtà
sono molto diverse tra loro. Mentre infatti la seconda espressione è sen-
sata, la prima è all'opposto totalmente priva di senso (ma risulta, appa-
rentemente, sensata in virtù di un'analogia con il senso dell'altra). Mera-
vigliarsi per un cane molto grosso significa semplicemente meravigliarsi
per qualcosa che si potrebbe concepire diverso da come si presenta (si
potrebbe dire, ricorrendo all'iniziale distinzione wittgensteiniana, che si
tratta in questo caso di una meraviglia « relativa » ad un fatto particolare
che esula da quelli che sono i fatti conosciuti, ma che è pur sempre un
fatto). Meravigliarsi per l'esistenza del mondo invece non ha alcun senso
non potendosi comunque concepire il mondo come « non-esistente » (in
questo caso si tratterebbe quindi di una meraviglia « assoluta », per qual-
cosa che non può essere concepito diverso da come è, per cui il conce-
pirlo « diversamente » equivale ad affermare il « non-dicibile »). L'insensa-
tezza di questa espressione deriva da quello che Wittgenstein già aveva
osservato nel Tractatus, essere cioè la logica impossibilitata a dire alcun-
ché riguardo l'esistenza o inesistenza di ciò di cui parla. Se il discorso
« sensato » è discorso « descrittivo », e dunque riferibile a fatti, « mera-
vigliarsi per l'esistenza del mondo » sarebbe espressione sensata se fosse
possibile concepire ambedue le alternative: esistenza del mondo - inesistenza
del mondo; in questo caso infatti si sarebbe di fronte a fatti, e quell'espres-
sione acquisterebbe sensatezza in quanto comunque esprimerebbe un
« fatto ». Anche se Wittgenstein non lo dice, sembra che l'inesistenza del
mondo sia inconcepibile in quanto per pensare questo dovremmo anzitutto
pensare la negazione del mondo, e dunque pensare il mondo come esistente
(anche se solo per negarlo). Qualunque ne sia la ragione, ciò che qui im-
porta sottolineare è che Wittgenstein afferma decisamente l'insensatezza
di quell'espressione, come pure delle altre due esprimenti le esperienze a
cui egli fa riferimento, ossia l'esperienza del « sentirsi assolutamente al
sicuro » e del « sentirsi colpevoli ».
« Sentirsi assolutamente al sicuro » è espressione insensata in quanto

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La « Conferenza sull'etica » di Wittgenstein 131

con essa si intende esprimere non già l'impossibilità del verificarsi di


fenomeni fisici (quale potrebbe essere il venir travolto da un autobu
mentre si è in una stanza), ma l'impossibilità del verificarsi della « totalit
dei fenomeni possibili. In questo caso cioè ciò che rende l'espressione
insensata è l'intervento dell'« assolutamente », che la esclude immediata-
mente dal novero delle proposizioni descrittive e dunque sensate. Per
quanto riguarda il « sentirsi colpevoli », Wittgenstein invece non spiega
assolutamente perché ritenga tale espressione « dello stesso genere » delle
altre due, cioè a sua volta insensata, ma è probabile che in questo caso
egli si limiti ad indicare un'esperienza del tutto personale a cui attribuisce
un significato etico, e che dunque in quanto così caratterizzata, « deve »
necessariamente non essere dicibile. In virtù della « traduzione », a cui si
accennava più sopra, il « meravigliarsi per l'esistenza del mondo » equivale,
dal punto di vista religioso, al « credere che Dio ha creato il mondo »
(espressione il cui significato è per Wittgenstein quello di « vedere il mondo
come un miracolo », cioè come qualcosa di « inspiegabile »); il « sentirsi
assolutamente al sicuro » equivale al sentirsi « sicuri nelle mani di Dio »,
e infine il « sentirsi colpevoli » equivale all'espressione religiosa per cui
« Dio disapprova la nostra condotta ». Ciò che occorre sottolineare a
proposito di questa traduzione è che Wittgenstein non considera l'un
gruppo di espressioni più o meno « sensato » dell'altro, etica e religione
in effetti finiscono proprio con l'avere lo stesso « linguaggio », identifica-
bile col tentativo di esprimere « mediante similitudini » esperienze altri-
menti indicibili. Ciò che era stato riconosciuto come « il » carattere pro-
prio del linguaggio etico, vale a dire il suo essere « insensato » in quanto
formato da proposizioni assolutamente prive di senso, vale anche, e per la
stessa ragione, per il linguaggio religioso.
In effetti già è stato osservato che « la religione ha per Wittgenstein
un significato essenzialmente etico » 25 , e, correlativamente, che « la sua
etica assume immediatamente,..., un carattere ascetico e religioso » 26 . Le
uniche spiegazioni offerte per questa identificazione etica-religione sem-
brano consistere da una parte nel ricondurla a ragioni « personali », legate
cioè all'« individuo » Wittgenstein; dall'altra, come indicato anche nel corso
di questo lavoro, all'impossibilità di distinguere tra le due una volta negata
la loro « dicibilità ». La Conferenza sull'etica sembra tuttavia suggerire
un'ulteriore spiegazione, non contraddittoria rispetto a quelle indicate,
ma maggiormente in grado, forse, da una parte di consentire un appro-
fondimento di ciò che Wittgenstein intende indicare con il termine « etica »,
e dall'altra di spiegare perché proprio in quest'opera, espressamente dedi-
cata all'etica, il filosofo affermi decisamente e chiaramente l'identità di
questa con la religione. Di fatto ciò che colpisce in modo particolare il
lettore della Conferenza è proprio il tipo di esperienze che Wittgenstein
qualifica come etiche. Il carattere « etico » di tali esperienze non è in realtà
immediatamente avvertibile (a parte il « sentirsi colpevoli » che implica,
anche se non chiarito, un qualche intervento del sentimento del bene e
del male, non risulta chiaro, a prima vista, perché l'etica annetta il « me-

25 M. Micheletti, Il problema teologico della filosofia analitica, La Garangola, Pado-


va 1971, I, p. 126.
26 Ibid., p. 127.

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132 S. Marini

ravigliarsi per l'esistenza del mondo » o il « sentirsi assolutamente al


sicuro »). Questa non immediata awertibilità del carattere etico delle
esperienze riferite è tuttavia significativa per comprendere in che senso
Wittgenstein parla di « etica ». Si tratta, come si è osservato in prece-
denza, di esperienze « assolutamente personali », non già nel senso che
« queste » siano le uniche esperienze possibili a definire Tética, ma piut-
tosto nel senso che sono « queste » le esperienze che consentono a Witt-
genstein, in quanto « individuo », di arrivare ad essa, sicché per un « altro »
individuo « altre » potrebbero essere le esperienze indicabili come etiche.
Si tratta in altre parole di esperienze il cui valore etico è rinvenibile non
in esse stesse, ma in ciò che « attraverso » esse è dato avvertire. Witt-
genstein dunque le qualifica come « etiche » in quanto consentono a lui,
come individuo, di giungere alla fonte stessa del « sentire » etico (così
come « altre » esperienze saranno « etiche » per altri individui, se consen-
tiranno a questi di avvertire, attraverso esse, il vero senso del mondo e
della vita). Queste considerazioni consentono di concludere che dunque
per Wittgenstein l'etica non è riconducibile ad una serie di regole, ma è
piuttosto 1'« avvertimento » che qualcos'altro dà senso al nostro vivere.
Il tentativo di Wittgenstein non è cioè quello di definire « una » nuova
etica, ma quello di arrivare alla « fonte » unica da cui nascono « tutte »
le etiche possibili27. L'etica in senso vero e proprio non è dunque un
insieme di regole o norme, più o meno coerentemente collegate fra loro,
in base alle quali decidere un certo comportamento, ma è proprio il « sen-
tire » (non ulteriormente spiegabile) che l'essere « è » e che quest'essere
dà senso a tutto il reale. L'etica è, fondamentalmente, un « atteggiamento
spirituale », questo sembra essere il risultato ultimo della ricerca wittgen-
steiniana. In questo senso il primo vero atteggiamento etico è quello che
riguarda il nostro stesso porci di fronte all'essere, e in tal modo si spiega
il « meravigliarsi per l'esistenza del mondo » o, in termini religiosi, il « ve-
dere il mondo come un miracolo ». Così intesa l'etica « necessariamente »
va identificata con la religione, in quanto anche questa non è che 1'« atteg-
giamento spirituale » totale dell'uomo verso il mondo. Etica e religione
nascono dalla stessa fonte, dallo stesso « sentire » che c'è qualcosa di in-
spiegabile che però spiega tuttoē Etica e religione sono la stessa cosa perché
comune è la loro origine, unico 1'« atteggiamento spirituale » che esse im-
plicano, semmai la differenza può avvenire solo a livello di « linguaggio »,

27 Questa esigenza « totale » è probabilmente la spiegazione ultima del rifiuto witt-


gensteiniano di aderire ad una qualsiasi religione « positiva ». Agli occhi del filosofo
austriaco ciascuna di queste commette l'errore di rivestire l'originario « sentire », l'ori-
ginaria « aspirazione al trascendente » con un apparato metafisico-razionalistico, che le
fa scadere a pure « teorie ». Nella conversazione riportata dal Waismann, Wittgenstein
nega che per la religione il « parlare » sia essenziale: « Posso immaginarmi molto bene
una religione in cui non esistono dottrine e in cui quindi non si parla. È chiaro che
l'essenza della religione non può essere legata al fatto che si parla, o piuttosto: se si
parla, allora ciò fa parte dell'azione religiosa e non è una teoria. Non ha quindi impor-
tanza che le parole siano vere o false o insensate » (F. Waismann, Ludwig Wittgenstein ...,
cit., p. 107; Lezioni e conversazioni ..., cit., pp. 24-25, leggermente diversa). La vera reli-
gione per Wittgenstein sembra consistere in quel sottofondo « indicibile » che è all'ori-
gine di ogni religione « storica »: « Allora Agostino era in errore, quando in ogni pagina
delle Confessioni invoca Dio? Ma - si può dire - se non errava Agostino, errava però
il santo buddista, o qualunque altro, la cui religione esprimesse concezioni affatto
diverse. Nessuno di essi invece sbagliava, se non quando enunciava una teoria » ( Note
sul « Ramo d'oro » di Frazer, cit., pp. 17-18).

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La « Conferenza sull'etica » di Wittgenstein 133

cioè solo nel momento in cui l'uomo cerca di « razionalizzare », di « teoriz-


zare » quell'unico atteggiamento. È chiaro che questa differenza di linguag-
gio è del tutto ininfluente sul sentimento etico-religioso, « Dio » è soltanto
il termine con cui l'uomo cerca invano di comprendere quel « mistero »
che spiega tutto, quel qualcosa di inspiegabile che « è » insieme etico e
religioso. « Se qualcosa è buono, allora è anche divino » 28, scrive Witt-
genstein in questo stesso 1929, ed è in effetti affermazione perfettamente
comprensibile se letta all'interno di quanto si sta dicendo.

4. Scopo di questo lavoro, come dichiarato all'inizio dello stesso, era


quello di esaminare la Conferenza wittgensteiniana al fine di rintracciare
in essa alcune delle fondamentali idee del pensiero etico-religioso del
filosofo austriaco. Si è cercato quindi di seguire lo sviluppo stesso del-
l'opera, raggruppando il suo contenuto attorno a tre temi che sono sembrati
centrali, senza pretendere tuttavia con ciò di esaurire la Conferenza stessa,
ma anzi nella piena convinzione che in questo modo venivano trascurati
altri spunti di riflessione forse altrettanto importanti. Fondamentalmente
si è cercato di mostrare come in questa Conferenza l'etica wittgensteiniana
si muova attorno a questi tre momenti: la sua indicibilità-fondazione, il
suo carattere « personale », il suo coincidere con il sentire religioso, mo-
mento quest'ultimo forse esplicativo degli altri due e con ciò dell'intera
opera. In effetti ad uno sguardo d'assieme la coincidenza tra etica e reli-
gione sembra proprio assumere il carattere di filo conduttore di tutto il
discorso. Tuttavia a questo proposito non si può non osservare come tale
identità sia affermabile solo a patto di una « riduzione » tanto dell'etica
quanto della religione ad un inspiegabile « sentire », che se pure può essere
accettato come punto di partenza tanto dell'uno quanto dell'altra, pure non
risulta esaustivo né nei confronti del sentimento etico, né soprattutto nei
confronti di quello religioso. In realtà la Conferenza sembra muoversi e
svilupparsi all'interno di un ben preciso ed insolubile dilemma, i cui corni,
non a caso, sembrano coincidere con le due diverse fasi del pensiero witt-
gensteiniano. L'aver ridotto l'etica e la religione all'« avvertimento » di
qualcosa d'inspiegabile non può che condurre al « silenzio » finale del
Tractatus, oppure, volendo comunque «parlare», alla delineazione (non
indicata nella Conferenza, ma la cui esigenza si fa fortemente avvertire)
delle regole di un « gioco linguistico », regole che tuttavia finiscono, dati
i presupposti, con il presentarsi come prive di un'effettiva garanzia di
valore. Wittgenstein resta di fatto sospeso tra queste due alternative:
rifiuta la « teorizzazione » etico-religiosa, ma nello stesso tempo sembra
voler riconoscere la « possibilità », e con ciò la « necessità », di un lin-
guaggio etico-religioso. Forse in questa sospensione sta la spiegazione di
uno degli aspetti più curiosi della figura di Wittgenstein, cioè la sua am-
mirazione per Soeren Kierkegaard, pensatore che pure sembrerebbe così
lontano da lui29. Forse in Kierkegaard, Wittgenstein intuì colui che seppe

28 Pensieri diversi, cit., p. 19.


29 Maurice Drury, amico e allievo di Wittgenstein, afferma che il filosofo austriaco
considerava Kierkegaard « il più importante pensatore del XIX secolo » (cit. in A.
Janik - S. Toulmin, La grande Vienna, cit., p. 22); Malcolm a sua volta ricorda che
Wittgenstein considerava Kierkegaard « di gran lunga troppo profondo » per lui, lo
sconcertava « senza avere quell'effetto positivo che avrebbe in spiriti più profondi »

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134 S. Marini

trovare un linguaggio
geva a dichiarare indicibile. Di fatto la Conferenza sembra proprio mo-
strare che anche Wittgenstein, come Kierkegaard, era mosso da un desi-
derio che non trova origine nell'intelletto, ma in qualcosa di più profondo,
di più radicale: in quella sentita « aspirazione al trascendente », in nome
della quale il filosofo deve combattere contro « molte malattie dell'intel-
letto » per poter infine giungere alle « nozioni del sano senso comune » 30 .

(N. Malcom, Ludwig Wittgenstein , trad, it., Bompiani, Milano 1974, p. 103). Sul rapporto
Wittgenstein-Kierkegaard, v. M.P. Gallagher, s.j., Wittgenstein's Admiration for Kier-
kegaard , « The Month », XXXIX, 1968, 1, pp. 4349.
30 Pensieri diversi, cit., p. 86 (annotazione del 1944).

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