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La filosofia di David Bowie

Capitolo 1
Oscar Wilde, David Bowie e la nascita della pop star postmoderna

Il film Velvet Goldmine (1998) racconta di David Bowie agli inizi degli anni Settanta, attraverso la figura del
protagonista Brian Slade, il quale descrive il suo alter ego musicale, Maxwell Demon, una creatura dello
spazio paragonabile a Ziggy Stardust, attraverso un’intervista simile ai famosi processi contro Oscar Wilde
per oscenità. La storia del glam si basa sulle maschere, sulla reinvenzione e sulla costruzione di personaggi in
grado di annullare ogni normale approccio riguardo l’identità, soprattutto di genere. Per questa ragione è
semplice mettere a confronto Bowie – Stardust ad un’opera teatrale. Tra il ventesimo e il ventunesimo secolo
si assiste ad una rinascita di Oscar Wilde, il quale diventerà fonte d’ispirazione per diversi artisti oltre Bowie,
in particolare proprio per l’approccio ironico all’identità di genere.

Nel suo film, Todd Haynes riesce a stabilire un rapporto tra Wilde e la cultura pop, offrendo due tipi di
performance, quella di un giovanissimo Wilde e quella di alcuni personaggi maschili, ed analizza un rilevante
fenomeno della cultura postmoderna, ovvero quello del glam rock, emerso in Gran Bretagna agli inizi degli
anni Settanta, concentrandosi sul gender binding. I glamsters erano in grado, infatti, di costruire un’identità
di genere totalmente ibrida in contrasto ai performer della seconda metà degli anni Sessanta, attraverso
platform shoes, glitter e altri segni visivi come il trucco. La cultura glam poneva al centro il concetto di artificio
contro identità normale e normativa, oltre che la costruzione dell’identità dell’artista. Il film, similmente a Il
ritratto di Dorian Gray, ruota intorno a tre figure maschili: Arthur Stuart, il quale indaga sulla scomparsa dalle
scene di Brian Slade, star del glam, e quella di Curt Wild, che avrà una particolare relazione con lo stesso
Slade. Per Haynes, il vero padre del rock è proprio Oscar Wilde, infatti il film si propone come un’applicazione
degli aforismi wildiani al nostro presente, al periodo postmoderno.

Il lungometraggio ha inizio con Wilde che fa il suo ingresso sulla Terra con una navicella spaziale, e questo
può essere inteso come una parodia: si riferisce alla visione aliena dell’autore rispetto al panorama vittoriano,
ma anche allo spazio caro alla poetica di Bowie, il quale aveva rifiutato di offrire le sue canzoni e la sua vicenda
per il film. Nella sequenza successiva, in una scuola vittoriana, un piccolo Wilde afferma di voler diventare,
da grande, un pop idol, frase pronunciata proprio da Bowie. Esattamente come lui, Wilde sceglie Londra
come proprio palcoscenico, poiché assegna grande importanza alla sua immagine e alla costruzione di questa
sia in termini visivi che verbali. Inoltre, l’immagine del dandy, lo aveva reso un attore unico di quella società.
In questo senso, Wilde fu precursore del pop inteso come spazio artistico in cui è proprio l’immagine a
fungere da trampolino di lancio verso il successo. Allo stesso tempo, costruì accuratamente la propria
immagine con il preciso scopo di vendersi. Si può parlare, tra i suoi ammiratori post moderni, di culto
wildiano. In De Profundis, Wilde mette la sua vicenda a stretto contatto con quella di Cristo. Cercò di costruire
la sua immagine al dine di diventare una celebrità, cosa che effettivamente, accadde durante il 1882, durante
il suo tour degli Stati Uniti, come molte pop star per le quali è indispensabile sfondare in America per il
successo, e qui tenne celebri conferenze. Quella di Wilde era una lingua pensata come se fosse musica. Nella
sua performance musicale, la forma diventava spesso più rilevante del contenuto. Gli epigrammi wildiani
rappresentavano delle melodie e dei temi sui quali improvvisava in diversi contesti sociali. Un aspetto
centrale della sua scrittura, quindi, è il suono in senso infunzionale, perciò non c’è da stupirsi che Bowie sarà
colui che riuscirà meglio nella rielaborazione di questo autore anglo – irlandese. Wilde aveva un senso
drammatico della vita, la sua interiorità era costituita da persone che parlavano continuamente fra loro senza
mai diventare una. Fu proprio il teatro, infatti, a conferirgli fama e celebrità letteraria. L’opera più importante,
L’Importanza di chiamarsi Ernesto, fa riferimento al concetto di performance, all’importanza di mettere in
scena un’identità specifica in un dato contesto, cosa che farà anche Bowie. La queerness della vicenda di
Ernesto, è stata spesso semplificata; per molti, infatti, si tratta di una politica omosessuale. L’importanza,
invece, risiede nella sovversione e nella parodia dell’approccio al genere e alla sessualità tipici dell’età
vittoriana, una sovversione alla moralità che viene espressa dal personaggio di Gwendoleen, la quale agisce
contro ogni norma di comportamento femminile. Come afferma Waldrep, solo mettendo in scena un genere
o una sessualità, si può iniziare a manipolare e cambiare lo status quo attraverso l’uso delle maschere. Un
altro tema essenziale trattato dalla vicenda di Wilde è, di fatti, una mascolinità in netto contrasto con quella
normativa del suo tempo. Si è parlato spesso della sua omosessualità, anche in relazione ai famosi processi,
ma in realtà, secondo Alan Sinfield, ad esempio, degli aspetti dell’autore venivano percepiti come una certa
effiminacy, più che omosessualità. La sua vicinanza al genere femminile veniva manifestata anche dal sentirsi
a proprio agio in ambienti solitamente dedicati alle donne, perciò Stertz parla di un Wilde bisociale; il suo
lato più interessante, proprio come per Bowie, è la sua liminalità, la capacità di non schierarsi mai
apertamente, di rifiutare ogni posizione che si ponga come unica, di conciliare realtà contradditorie ed
opposte.

In Velvet Goldmine il “masculity – as- enactment” è un aspetto che emerge a partire dallo stesso titolo, che
fa riferimento alla dimensione corporea. Vi si racconta una storia che viene dal margine e finisce per tessere
un elogio al margine stesso, ossia alla cultura glam come intervallo critico nei confronti dell’ideologia
dominante. La spilla verde che Wilde indossa sin dalla nascita nel film, è un oggetto magico che avrà un ruolo
importante nella pellicola, in quanto passerà da lui a Fairy (incarnazione dell’omosessualità) a Slade e a Wild
(suo amante), che incarnano la sensibilità altra e aliena, e li metterà in relazione come straordinari attori della
scena musicale degli anni Settanta.

Un altro segno dell’onnipresenza di Wilde nel film è dato dall’inclusione nella sceneggiatura di numerosi suoi
epigrammi; l’epigramma wildiano rappresenta una cesura critica rispetto all’ordine del discorso, in grado di
generare un cortocircuito linguistico che proietta verso il rumore e la dissonanza glam. L’aspetto prettamente
musicale del glam è una musica elaborata, per certi versi travestita, che traeva ispirazione dal sound anti –
hippy dei Velvet Underground e dalla forza sessuale che quelle band esprimevano, nonché dalla tradizione
del vaudeville tipica della musica inglese in cui la voce acquisiva un ruolo centrale. La moda acquisì un ruolo
fondamentale per le star del glam, le quali inventarono uno stile senza adottarne uno preciso. I segni più
glamours – ad esempio, platform shoes e glitter – venivano combinati in maniera sempre nuova, creando
testi visivi che commentavano ironicamente la musica e a tratti rimandavano all’horror gotic (Rocky horror
picture show).

Come Bowie, Slade metterà in scena l’uccisione del suo alter – ego Maxwell Demon durante un concerto, ma
i fan rimarranno molto delusi, perciò giunge al termine della sua carriera artistica. Occorre precisare che gli
anni Settanta verranno ricostruiti attraverso i ricordi personal del giornalista Arthur Stuart, fan del glam, e di
quelli della moglie di Slade e del suo primo produttore. Attraverso queste immagini si scopre la metamorfosi
di Slade in Tommy Stone, una star autrice di facili successi, di mascolinità normale e normativa. In questo si
può leggere un ennesimo riferimento a Wilde e al suo essere contemporaneamente mainstream e social
deviant.

Se da un lato il regista sembra sviluppare un parallelo Slade – Bowie per far riferimento alla sua svolta
commerciale degli anni Ottanta, il fatto che la scoperta di Stuart avvenga nel 1984 pare rimandare a Orwell
e ad una società basata sull’olomogazione, oltre che ad una povertà di inventiva rispetto al decennio
precedente.

Inoltre, Haynes affronta con molta maturità argomenti quali l’esclusione delle donne rispetto alla rivoluzione
sessuale. Velvet Goldmine rappresenta, quindi, un viaggio non solo negli anni Settanta, ma specialmente
nella coscienza di Stuart. Ricostruendo il suo passato, infatti, ri – scopre l’importanza del glam nella sua
adolescenza.

Uno dei momenti più intensi del film è l’incontro fra Stuart e Curt Wild in un bar, negli anni Ottata; Stuart
vede in lui, infatti, un segno autentico di un passato scintillante, ed è proprio Curt a donare al giornalista la
spilla appartenuta ad Oscar Wilde. Il film si conclude in maniera circolare attraverso la ri – comparsa
dell’oggetto magico wildiano. La ricerca di Stuart rappresentano una possibilità di riappropriazione e
riarticolazione di un’esperienza.
Capitolo 2
Ashes to ashes. Bowie, Lindsay Kemp e l’Oriente

Sin dagli inizi della sua carriera, Bowie manifesterà insofferenza rispetto al rock di quegli anni e alle sue
pretese di autenticità; addirittura confesserà di odiarlo. I primi anni Settanta rappresentarono il momento
non solo di Bowie ma del glam come risposta ironica alla chiusura del decennio precedente. L’esigenza di
Bowie di creare un discorso artistico in cui la musica divenisse teatro era finalizzata alla costruzione di una
mascolinità nuova, complessa, in cui l’aggressività del rock fosse decostruita soprattutto a livello d’immagine.
Aspirava, in breve, ad un elogio dell’artificio.

Nel 1967 avvenne l’incontro con Lindsay Kamp, celebre mimo inglese, che formò Bowie in quegli anni e lo
introdusse alla cultura queer. Si unì a lui nello show di Pierrot in Turquoise, nel quale ricoprì il ruolo di Cloud,
una maschera pensata ad Hoc per lui, che gli permetteva di eseguire canzoni tratte dal suo album,
muovendosi liberamente sul palco per mostrare il minimo indispensabile del linguaggio da mimo.

L’arte di Kemp doveva rappresentare un modello imprescindibile per quella dello stesso Bowie. La sua
grandezza sta nella capacità di integrare elementi come il design e il teatro in una nuova eccitante unità che
ha le sue origini nella Commedia dell’arte. Inoltre la performance di Kemp rimanda al teatro giapponese.
Contribuì a cambiare il clima intellettuale nei confronti dell’omosessualità nel mondo dell’arte e la sua figura
ha avuto un impatto sulla cultura inglese pari a quella di Bowie. Kemp aspirava ad un’arte capace di generare
eccitazione attraverso un teatro che fosse in grado di eccedere barriere di classe, genere ed etò e che non
confondesse il glamour, il rischio del mondo del circo, la sessualità del rock e il rituale della morte. Sia in
Bowie che in Kemp la performance diventa compresenza di sé ed altro nella stessa persona; l’attore diventa
veicolo di traduzione del fruitore in uno spazio altro, che risulta in grado di condurlo dall’ordine del magico
in una complessa confusione di realtà ed artificio.

Il ritratto di Kemp è molto simile a quella che approderà nell’indagine bowiana di Simon Critchley, che vede
in Bowie la compresenza di opposti. Lo stesso Wilde sarà punto di riferimento per Kemp.

Il rapporto con il pubblico conserva sia in Kemp che in Bowie la pulsione dell’artista a superare e distruggere
le inibizioni degli stessi spettatore; Kemp insegnerà a Bowie a liberarsi dalle costrizioni accettando la
frammentazione come dimensione costitutiva dell’identità. La collaborazione di Bowie con Kemp per Pierrot
ebbe su di lui un effetto profondo, poiché gli permise di lasciare liberi l’angelo e il demone che portava dentro
di sé.

Un’altra influenza fondamentale per Bowie sarà lo stile orientale; come in Wilde e in Kemp, l’Oriente divenne
possibilità di pensare e presentare l’androginia come una sorta di iperstilizzazione basata su fantasie
trasgressive su creature mono o bisessuate.

Alcuni degli abiti futuristici di Ziggy Stardust erano stati creati dal giapponese Kansai Yamamoto ed erano
considerati alcuni dei più costosi del periodo. Yamamoto aveva fatto il suo debutto londinese nel 1971 e
divenne, tra l’altro, fonte d’ispirazione per il taglio avveniristico di Ziggy.

Nella performance multimediale di Ziggy, un ruolo centrale lo ebbe soprattutto la fotografia, in quanto
modalità di scrittura in grado di instaurare un rapporto dialogico con musica e parole. Alcuni dei più bei scatti
di Bowie furono opera di Marayoshi Sukita. Sarà il fotografo a muoversi in direzione del soggetto, restando
folgorato dal manifesto promozionale di un concerto. Sukita apprezza lo stile innovativo di Bowie legato alle
sue influenze cinematografiche e, uno degli scatti più celebri, ritrae il cantante in posizione incurvata, le
braccia dietro come un manga, un disco dipinto sulla fronte. Molto belli saranno anche gli scatti del periodo
berlinese, che ritroviamo sulla copertina di Heroes.

Teatro, fotografia, cinema e televisione giocarono un ruolo fondamentale nel processo di costruzione e
vendita, di produzione e consumo di un testo la cui fruibilità nascondeva una complessa politica di resistenza
e sovversione all’ordine del discorso. Nel suo periodo glam, il cantante capirà come il corpo vestito fosse
letteralmente in grado di riscrivere il genere e per certi versi la sessualità; il suo gender bending divenne
liberatorio per un’intera generazione. Quella di Bowie è dunque una teatralità alternativa, discontinua e
verticale della modernità. Fu in grado di creare un’estetica diversa per ogni suo album. La filosofia orientale
lo aveva portato a rinunciare all’idea di un self stabile, e finì in breve per considerarsi un hollow vessel da
ridefinire ogni volta in modo diverso. I changes, ovvero le scelte e le mutazioni di Bowie, furono dettate anche
dal mercato, in un processo in cui sperimentazione avanguardistica e successo di pubblico finirono per
coincidere. Si tratta di una delle contraddizioni più importanti del discorso bowiano, insieme al suo rapporto
con la religione. Se è vero, infatti, che nel corso della sua vita prenderà le distanze dalla religione in quanto
sistema, desiderando una true religiosity, una dimensione spirituale non contaminata, è anche vero che
Bowie stesso assumerà a tratti una connotazione religiosa. Diventerà immagine di culto, la cui forza è
rappresentata da una pulsione dissacrante e carnevalesca, che gli ha permesso di essere, allo stesso tempo,
icona e iconoclasta.
Capitolo 3
Changes. L’officina dell’immagine Bowiana.

Un anno memorabile nella vicenda artistica e personale di Bowie fu senz’altro il 1965, quando abbandonò
l’identità di David Jones per diventare Bowie.

Negli anni Sessanta vi erano molte differenza fra il sud e il nord dell’Inghilterra. I northeners amavano la
musica rock e i giubbotti in pelle, i mods erano ragazzi dai capelli corti e curatissimi, mai seguaci del
mainstream musicale, che amavano il jazz e il soul. Si trattava di una cultura quasi unisex e, fra le band più
importanti, spiccano sicuramente gli Who. Un aspetto che Bowie considerava particolarmente interessante
dei mod era rappresentato da una certa androginia dei suoi adepti. Il trucco diventerà strumento con cui
fuggire la mascolinità normale e normativa che definiva, invece, la logica hippy.

Nel 1967, pubblicò il suo primo album, il quale non ottenne il riscontro sperato. Si trattava di un album che
ignorava il rock in favore di un approccio molto più lineare, ma piuttosto teatrale. Uscì lo stesso giorno di
Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, e questo non andò a suo favore.

L’anno successivo, il cantante e il manager Pitt, iniziarono a pensare alla tv in maniera più sistematica per
diffondere l’immagine di Bowie. In questo contesto, fu scritta Space Oddity. Oltre a diventare uno dei brani
più celebri di Bowie, fu anche l’apertura del suo nuovo album. Sulla copertina troviamo l’immagine del
cantante che rimanda ad un look post – hippy, ed è un’altra delle many faces delle immagini di Bowie.
Particolare attenzione merita anche la copertina del suo secondo album, The man who sold the worls. Qui
ritroviamo una foto che si pone come una sorta di parodia dell’arte del celebre scrittore e pittore Davide
Rossetti. La cover ritrae Bowie con i capelli lunghi e un abito femminile, disteso su una chaise longue. L’effetto
deformante è dato ovviamente dal fatto che Bowie è un uomo, ma anche dai temi trattati, quali follia,
frammentazione e alienazione, che vengono detti attraverso una sorta di hard – rock – soul, in cui è
fondamentale la collaborazione fra Bowie e il bassista Tony Visconti. L’immagine in copertina, oltre a
problemizzare questioni di gender, risulta anche profondamente dissonante con la musica stessa.

Ziggy Stardust è la maschera più celebre di Bowie, e fu uno sforzo artistico complesso, in cui il suo esercizio
performativo doveva svolgersi in più contesti contemporaneamente, utilizzando media e linguaggi allo stesso
tempo. Trynka, in uno studio biografico dedicato all’artista, fa riferimento ad una sua storica esibizione in
una puntata di Top of the Pops, in cui Bowie introduce un’immagine profondamente destabilizzante rispetto
all’approccio normativo a questioni di genere e di sessualità nell’austero contesto inglese dei primi anni
Settanta. Bowie invitò Ronson sul palco con lui, poggiò il braccio intorno al suo collo e, mentre intonavano il
ritornello, l’invito rivolto agli spettatori fu di fuggire ai confini della sessualità, in una post – sessualità in cui
molti si identificarono. La sua immagine qui diventa spazio di accesso all’universo di Ziggy, in cui gli outsider
si sentiranno a casa.

Un altro momento epico nell’epopea di Ziggy è legato al suo ritiro definitivo dalle scene, messo in scena
paradossalmente durante il celebre live all’Hammersmith, il 3 luglio 1973. La dimensione privata e quella
pubblica si sovrapposero; tuttavia, l’immagine di Bowie era diventata quella di Ziggy e decretarne la morte
da un momento all’altro metteva in discussione quel rapporto di identificazione continua e progressiva con
Ziggy, messia del rock. Quella di Bowie, era una vera e propria strategia in cui passare da un ruolo all’altro
significava immergersi in un processo di non divenire, il cui fuggire il self in quanto spazio costrittivo e
prevedibile, mettendo in discussione la logica identitaria e l’autenticità cara all’estetica del rock.

Bowie riapparve sulle scene nella primavera del 1974 per pubblicizzare il nuovo album Diamond Dogs, con il
quale metteva in scena un nuovo e complesso personaggio, Halloween Jack, articolando una complessa
visione distopica in cui ritroviamo Orwell. L’eco di Jack viene descritto come a real cool cat dall’occhio
bendato, dai capelli che ricordano ancora quelli di Ziggy e le immancabili platform shoes.

Nell’estate dello stesso anno Bowie registrò l’album Young Americans, con il quale chiuderà la stagione del
glam e si reinventerà come soul boy; i suoi fan si ritroveranno davanti ad un Bowie quasi irriconoscibile in
abito e cravatta che, però, non rinuncia ai tacchi e al trucco marcato.

Nel 1975 Bowie registrò un album epocale, Station to Station, e qui nasce un’altra delle sue più celebri
maschere: The Thin White Duke, figura che rimanda al suo interesse per l’immaginario nazista, e si pone
come riferimento al duca di Milano, protagonista di La tempesta, ultimo album di Shakespeare.

L’immagine di copertina di questo disco, come del successivo di Low, proviene da una pellicola culto diretta
da Nicolas Roeg, che vede il cantante in veste di protagonista, ovvero The Man who fell to Earth. Qui Bowie
ha il ruolo di un alieno vulnerabile e distaccato che ha come scopo trovare acqua per il suo pianeta, ma
diventa capo di una multinazionale di hi – tech prima di perdere tutto, aprendosi alla corruzione offerta da
sesso, violenza, disperazione e alcolismo. Durante le riprese del film, il cantante iniziò un’autobiografia
intitolata The Return of the White duke, incentrata sull’idea di un europeo che, dall’America, vuole tornare
a casa. Questa è l’immagine del superuomo ariano che è onnipresente nel tour e nell’album successivo.

L’interesse per l’Europa e, in particolare, per la Germania, lo porterà a trasferirsi a Berlino, dove registrerà
Low e Heroes, album in cui il suono si tradurrà in teatro, in un processo in cui l’immagine visiva recupererà
una certa accessibilità, mentre le invenzioni musicali diventeranno complesse.

Nella costruzione visiva delle sue maschere, un ruolo centrale fu giocato soprattutto dai video promozionali.
Secondo Derek Jarman, il video è la sola estensione del linguaggio cinematografico, ma in quel periodo è
usato in maniera pretenziosa e superficiale. La risposta a questo mainstream sarà realizzare una scrittura
difficile. Lo stesso Bowie lavorerà con registi in grado di tradurre questa stessa complessità. Un’attenzione
particolare meritano i video girati fra il 1977 e il 1983, in pieno boom MTV. Questi ultimi, infatti, oltre ad
avere finalità commerciale, riuscivano a sviluppare e a ridefinire alcuni personaggi ponendosi come
commento e racconto – a tratti autobiografico -. Il video pensato da Dorfman per Be my Wife vede il cantante
in solitudine, mentre racconta una storia di solitudine e disperazione legata al disastroso rapporto con Angie.
Lo stesso Bowie dirigerà il video di Heroes. Girato a distanza di pochi mesi dal primo, sembra mettere in scena
un’altra persona, presentando un’immagine vittoriana, in grado di superare il senso di ansia e solitudine. Si
tratta di video che faranno uso discreto del colore, poiché ogni sfumatura si troverà nelle parole e nei suoni.
Alcuni dei video di questo periodo appaiono veri e propri esercizi intertestuali, in grado di eccedere la musica
per muoversi verso la letteratura, come Look back in anger, che rimanda a Il ritratto di Dorian Grey.
Come Wilde, Bowie sapeva che l’arte del proprio tempo non poteva essere pensata al di fuori del Capitalismo.
Si è detto, infatti, di come i changes avevano molto a che fare con quello che Waldrep definisci commerce:
un qualcosa che esercitava un profondo fascino in Bowie. In questo senso, i suoi video, come parte del
business musicale ma anche forma d’arte contemporanea, hanno esercitato un ruolo importante nella sua
carriera, anche per la loro capacità di creare un immagine che non funge da complemento alla musica, ma
ne rappresenta uno sviluppo autobiografico. Nel video di Look back in Anger, Bowie ricopre il ruolo di un
artista nell’atto di accarezzare un ritratto di se stesso come angelo. Mentre lo fa, il volto diventa grottesco,
quasi malato. Si tratta di una sorta di riscrittura di Dorian Gray, nella quale Bowie interpreta sia Basil che il
protagonista, reinterpretando il tema del doppio, centrale nel romanzo, fondendo l’artista e il soggetto.

Altri film importanti a descrivere il rapporto fra Bowie e il cinema, sono Furyo e Absolute Beginners. Il primo
è un film diretto da Mishima, ambientato in un campo di prigionia giapponese a Malta. I protagonisti
principali sono Bowie nei panni di Celliers e Skamoto nei panni di Captain Yonoi. Entrambi rappresentanti per
certi versi un archetipo. Bowie veste i panni di un prigioniero di guerra che viene portato al campo e finisce
per diventare ossessione erotica del giovane comandante del campo, in un contesto in cui l’alterità di razza
diventa elemento altro di attrazione omoerotica tra i due. Il punto di forza del film è dato proprio dal tipo di
recitazione dei due musicisti, lontanissima dal metodo naturalistico. La performance di Bowie nel film appare
come una sorta di visual aphorism, con cui vuol far comprendere al suo pubblico che sta mettendo in atto
una performance che altro non è, una sequenza di maschere quasi illusorie.

Absolute Beginners è ispirato all’omonimo romanzo di Colin MacInnes e fu diretto dal regista Julien Temple.
Nel film il ruolo del protagonista proto – mod venne affidato alla allora celebre cantante Patsy Kensit, mentre
Vendice Partners fu assegnato allo stesso Bowie, il quale si occupò anche di alcune tracce della colonna
sonora. Il film cercava in qualche modo di mettere in rapporto gli anni Cinquanta con gli anni Ottanta. Per
molti, fu un fallimento, eppure proprio qui emerge la dimensione più ironica di Bowie negli anni Ottanta; nel
film, infatti, è un produttore che promette successo a quelli che come lui, a cavallo tra gli anni Cinquanta e
Sessanta, si ponevano come absolute beginners in cerca di affermazione.

Gli anni Novanta vedranno Bowie mettere e dismettere le maschere più diverse, per giungere all’eleganza e
all’equilibrio che lo avrebbero distinto e che troveranno perfetta espressione nella sua magistrale
interpretazione nel film The prestige del 2006.

L’impressione è che fra gli anni Novanta e Duemila, l’enfasi nel discorso bowiano si sia spostata dall’immagine
al suono, attraverso il recupero di una dimensione verbale complessa che sa molto di letteratura. Appaiono
in questo senso piuttosto minimaliste le copertine dei suoi ultimi album, che lasciano spazio, ad esempio, al
bianco e nero con The Next Day – suo acclamato ritorno nel 2013 -. In questo caso, l’immagine di copertina
si pone come una obliterazione iconoclasta della copertina di Heroes del 77.

Nel video del primo singolo, ossia Where are we now? Il volto del cantante e quello dell’artista Jacqueline
Humphreys sono proiettati su un doppio ovale montato sulla sagoma di un pupazzo, mentre immagini della
Belino di fine anni Settanta, tanto amata dal cantante, scorrono sullo sfondo e il testo cita nomi e luoghi legati
al passato. Si tratta di un affascinante gioco di immagini e sguardi in cui la vita diventa scrittura sonora. Il
video di The Stars vede come protagonista, oltre al cantante, Tilda Swinton, e si compone come complessa
riflessione sulla celebrità, in cui la modella norvegese Iselin Steiro appare come una cantante dal genere
ambiguo mentre si esibisce su un palco con un taglio bowiano, con certo disappunto della star matura.

Prima della pubblicazione del suo ultimo album, Blackstar, la rete aveva già ospitato due nuovi video tratti
da due dei sette brani inclusi. Il video della title – track rappresenta uno dei corti più complessi girati negli
ultimi anni. Si tratta di un video surreale che si pone come commento, critica e traduzione visiva di uno dei
brani più lunghi e affascinanti di Bowie. Il video ha inizio con uno scheletro ingioiellato di un astronauta morto
scoperto da una sinistra signora, che trasporta il teschio in una città mentre le ossa dell’astronauta volano
verso un’onnipresente stella nera. Successivamente il video mette in scena immagini e situazioni molto
complesse e diverse.

Il video dell’addio di Bowie al mondo resta tuttavia Lazarus, visibile qualche giorno prima della sua scomparsa
10 gennaio 2016. Il video mette in scena un Bowie/Lazarus apparentemente solo, costretto a letto, con
ancora la benda dei button – eyes sugli occhi, come nel video precedente, e che tuttavia riesce
progressivamente a lievitare, alzarsi e resuscitare, mentre una figura femminile demoniaca si nasconde sotto
al letto. Durante il primo inciso fa inoltre il suo ingresso sulla scena un altro Bowie, in piedi con un abito che
sembra rimandare al Thin White Duke. Bowie come Lazarus abita la soglia tra vita e morte, senza appartenere
a nessuna delle due.
Capitolo 4
The Buddha of Suburbia. David Bowie e la scrittura letteraria.

Il punto di forza del Bowie scrittore è dato proprio dalla sua capacità di diventar qualcun altro per la durata
di una canzone, di un album o di un tour. Bowie era un ventriloquo, e non dobbiamo aver timore del falso in
Bowie perché esso è al servizio di una bodily truth, di una verità sentita e corporea, e i testi stessi delle sue
canzoni sono caratterizzati da una dimensione fortemente teatrale. La parola e più in generale la scrittura
letteraria non potrà mai appartenere a chi la utilizza; lo stesso Bachtin sottolinea come la parola letteraria
sia sempre parola altrui. Molti dei testi bowiani sono abitati da riferimenti sia diretti che indiretti a testi e
scrittori da lui particolarmente amati e metti in musica.

Un ruolo fondamentale ebbe il suo fratellastro Terry, il quale lo introdusse al jazz e alla scena dei club di Soho,
e gli farà conoscere gli autori della beat generation, fra cui Kerouac, la cui opera ha sempre a che fare con
una letteratura pensata nel senso di performance, di una performance tesa verso il recupero di un’oralità in
cui musica e poesia possano coincidere. Di qui l’idea di una scrittura che si fa emancipazione diretta a
qualcuno, in un processo in cui tempo, ritmo, accento, intonazione e grana vocale diventano fattori
determinanti del processo di significazione. L’invenzione di Kerouac è tradotta nelle molteplici forme che un
certo tipo di controcultura ha assunto a partire dagli anni Cinquanta sino ad oggi.

Bowie amerà molto la letteratura, e la sua lista di libri preferiti costituisce l’immagine di un lettore onnivoro
capace di comporre una biblioteca ideale e possibile, in grado di illuminare la sua scrittura pluristilistica e
pluridiscorsiva.

Il primo Bowie, dopo la parentesi mod, scrive la celebre Space Oddity ed era un avido lettore di fantascienza
e nello specifico di autori in grado di articolare un messaggio filosofico. La reazione bowiana rispetto
all’entusiasmo legato allo sbarco sulla luna fu di disillusione; la vita sulla luna gli appariva hollow ossia vuota,
insignificante al pari di quella sulla terra. Il brano nella sua apparente linearità mette in realtà in scena una
complessa dialogica che rende Major Tom una delle figure più amletiche emerse nell’ambito della popular
musica. Una bolta giunto nello spazio, diventa media commodity, ovvero merce mediatica. Sembra
rimandare allo Shakespeare di Amleto, ma in esso risuona l’alienazione e il senso di noia tipico della
letteratura esistenzialista. Questo stesso senso di alienazione caratterizzerà The man who sold the world, che
tuttavia include testi per certi versi più ambigui e sfuggenti del canone bowiano, come la pulsione
infunzionale che pone l’arte e il bello al centro del discorso musicale e la collocazione della musica all’interno
di un mercato che la rende merce di scambio e, allo stesso tempo, possibile spazio d’accesso a fama e
celebrità.

Il personaggio di Ziggy sarà scritto da Bowie con un approccio pienamente teatrale, coniugando il suo
interesse per la science fiction con una pulsione apocalittica e messianica e un gusto per la reinvenzione che
risultano ancora oggi uno dei maggiori esiti bowiani. L’alienazione viene vissuta da Bowie, attraverso Ziggy,
con distacco ed ironia e soprattutto viene messa in scena sui palchi di mezzo mondo attraverso un’estetica
profondamente destabilizzante ed alienante.
L’estensione di Ziggy, ossia Aladdin Sane, presenta invece dei rimandi intertestuali molto precisi; Nello
specifico il brano che dà titolo all’album risente dell’influenza del romanzo Corpi Vili, nel quale viene descritta
una Londra abitata da gente decadente e stupida, paralizzata dalla propria ignoranza che sembra non
accorgersi dello scoppio della guerra durante la vigilia di Natale; così il protagonista si ritrova all’improvviso
sul più grande campo da guerra. La dimensione narrativa del brano sarà perfettamente in grado di alternare
glamour e apocalisse.

Diamond Dogs del 1974 fu inizialmente pensato come un musical sul celebre romanzo 1984 di Orwell, ma la
vedova di Orwell non avallò il progetto. Tuttavia qui Bowie fu in grado di creare un paesaggio verbale e
musicale capace di tradurre alla perfezione i contenuti orwelliani. Questo è, come nota Critchley, il lavoro in
cui Bowie si libera del fantasma di Ziggy e inizia quel processo di trasformazione continua e incessante che lo
accompagnerà fino a Scary Monsters che addirittura si potrebbe aggiungere sino a Blackstar.

Con Station to Station Bowie dismesse definitivamente le sue maschere glam, si trasformò nel Sottile Duca
Bianco, maschera complessa che da un lato rimanda a Shakespeare, e dall’altro al suo interesse per
l’immaginario nazista, e fu in grado di interrogare e problematizzare alcuni aspetti della sua
contemporaneità. Nell’album Bowie appare un vero e proprio mago, in grado di dirigere un complesso teatro
sonoro. L’intenzione teatrale portò Bowie a operare una sintesi di tutte le sue influenze musicali in un elogio
dell’idea stessa di arte come processo.

Sarà la lettura di Christopher Isherwood, con le sue affascinanti descrizioni della Berlino prebellica, a spingere
Bowie a trasferirvisi nel 76 e a riscrivere la città nei suoi tre capolavori, vale a dire Low, Heroes e Lodger. Si
trattava infatti di una città fratturata, come lo era del resto il Bowie di questo periodo. Fondamentale sarà
l’interesse dell’artista per Brecht.

In Scary monsters, in particolare Ashes to Ashes, l’artista metterà in scena la parodia di se stesso, prendendo
le distanze dalle maschere indossate a cavallo tra anni Sessanta e Settanta. L’intertesto principale del brano
sarà proprio Space Oddity.

Negli anni Ottanta e Novanta, Bowie si misurerà con due scrittori che abranno la capacità di raccontare le
culture giovanili che meritano attenzione per la capacità di illuminare e raccontare l’epopea bowiana. Il film
Absolute Beginners è tratto dal romanzo di Colin MacInnes, ambientato nel 1958. Il protagonista di questo
romanzo è un inside – outsider, che sin dalle primissime pagine ci svela la sua occupazione, ovvero quella di
fotografo. MacInnes ci offre un’istantanea della cultura giovanile londinese di fine anni Cinquanta, e il
protagonista è sia dentro che fuori la scena. La rivoluzione dei teenager è strettamente legata al boom
economico post – bellico. Ed emerge così il mondo della youth culture che si afferma prima in America e poi
in Inghilterra nel secondo dopoguerra per giungere sino ai giorni nostri, diventando pop culture. I protagonisti
assoluti di questo mondo sono i giovani che utilizzano musica e moda per scrivere la propria identità e
segnalare la propria appartenenza a una certa sottocultura. Il protagonista di Absolute Beginners è appunto
un teenager. Soho è una zona di Londra particolarmente legata al fenomeno teenager; tuttavia, il
protagonista del romanzo vive a Notting Dale, soprannominato Napoli. MacInnes stesso introduce nel
romanzo un’immagine della musica in quanto linguaggio fluido, in quanto spazio di attraversamento e
commissione. MacInnes dimostra chiaramente di preferire il jazz al pop, poiché rappresenta un linguaggio
democratico in cui non ci sono gerarchie e discriminazioni. Si tratta di una pratica essenzialmente dialogica
in cui musicisti con storie e appartenenze diverse conversano in totale libertà su un dato tema, per riscriverlo
da punti di vista diversi eppure simultanei. Il Bowie degli anni Sessanta sarà un grande appassionato di jazz.
Il contributo di Bowie alla colonna sonora è principalmente rappresentato da due brani, That’s Motivation e
Absolute Beginners.

Nel 1993 Bowie si occuperà della colonna sonora dell’adattamento filmico del romanzo di Kureishi, IL Budda
delle periferie. L’opera ha assunto un ruolo centrale nel processo di riscrittura artistica della capitale,
ponendosi come risposta alla capacità di Londra di caratterizzare i londinesi in pratiche artistiche e sociali
diverse. Amir, il protagonista del romanzo, sembra coniugare curiosità sessuale ed esigenza stessa di
spostamento e trasformazione. Il romanzo mette subito in scena una complessa dialettica tra paralisi e
movimento, traducendola in senso geografico attraverso l’identificazione di un punto di partenza. Il romanzo
è articolato in due sezioni principali: In periferia e In città.

Il sound di Londra corrisponde sia a I suonatori di bongo di Hyde Park, sia a una canzone dei Doors, Light m
fire. Nel primo caso Kureishi fa riferimento alla musica come pratica improvvisata in uno spazio pubblico e,
in questo senso, le dissonanze di questa musica sono date proprio dal fatto che è una pratica libera, dunque
uno spazio artistico e sociale in cui voci diverse interagiscono in completa libertà. Il secondo riferimento,
introduce il tema del desiderio sessuale, ampliamente sviluppato nel romanzo.

I numerosi riferimenti alla popular music fatti di Kureishi all’interno del romanzo svolgono diverse funzioni.
Innanzitutto la precisione e la puntualità con cui l’autore cita brani, album e musicisti rimanda allo status di
reportage del romanzo, che può essere definito romanzo storico. Documenta, infatti, l’evoluzione della
musica pop e rock dai primi anni Settanta sino alla vigilia del governo Thatcher, per cui segna il passaggio dal
glam di Bowie alla musica punk. Per certi versi, è Bowie a porsi come autentico Budda delle periferie, icona
degna di venerazione.

Kureishi fa riferimento all’avvento dell’era del punk che attraverso delle band diventa espressione di disagio
artistico, sociale ed esistenziale; una risposta semplice alla complessità della musica progressive e al
conservatorismo dominante in ambito politico.

Un’altra funzione svolta dal libro è quella della caratterizzazione. E’ interessante notare come l’autore riesca
ad esprimere l’originalità di Haroon, padre di Karim, attraverso il riferimento ai suoi musicisti preferiti. Allo
stesso modo, l’alterità di Jamila, verrà espressa mediante i suoi gusti musicali, con riferimenti alle grandi voci
femminili del jazz. Inoltre, un particolare bravo può amplificare o addirittura contribuire alla creazione di un
certo mood, esemplificando la capacità propria della musica di attivare comportamenti e agire sul mondo, di
porsi come linguaggio.

Si è visto con Ziggy Stardust come gli album musicali spesso propongano una sequenza di brani legati da un
tema o da un argomento e da una forma musicale che risulta piuttosto omogenea. Una canzone diventa così
frammento di vita isolato dal continuum urbano.

La colonna sonora scritta da Bowie per la versione filmica del romanzo presenterà proprio questa
componente episodica. Nella title – track il cantante riscrive il suo passato nella periferia londinese, dando
corpo a versi e a immagini verbali tra i più memorabili della produzione di questi anni. Interessanti saranno
anche gli strumentali.

Un discorso a parte merita Strangers when we meet, considerate una gemma perduta nella produzione
bowiana, con un testo in cui solitudine e risentimento si confondono. Interessante notare come Kureishi al
cui lavoro Bowie si ispirerà per la composizione dell’album, scriverà egli stesso una short story intitolata
proprio Strangers when we mett, che racconta una manifestazione affettiva data proprio dalle suggestioni
del brano di Bowie.

Nel 1995 Bowie pubblicherà un concept album molto complesso 1. Outsider, che ha molto a che fare con la
scrittura pensata in rapporto alle altre arti e, in particolare, alla pittura. Infatti il progetto può essere
considerato sequel di Buddha, e l’artista coinvolge l’amico Brian Eno per lavorarvi. L’album rimanderà proprio
all’invenzione e all’inventiva della trilogia berlinese. Una suggestione importante per i due sarà una mostra a
Vienna nella quale vennero esposte opere create da pazienti affetti da patologie psichiatriche. Questi erano
i veri Outsiders, capaci di una scrittura visiva profondamente originale e suggestiva, come lo darà quella del
disco.
Heathens si pone come suggestiva narrazione che mette in scena a partire dallo splendido brano di apertura,
intitolato Sunday, la compresenza e simultaneità di pulsione e idee contrarie, esprimendo un aspetto
essenziale del percorso bowiano, e articolato in risposta ad un evento di portata planetaria. Reality si pone
invece come lettura del presente, tesa alla scoperta di una realtà altra, un surrealtà che solo l’arte può offrire.

The Next Day dice ancora di voglia di scrivere il presente in senso lineare guardando al passato. Cerca di
affrontare temi importanti come quelli dello stardom.

Blackstar mette nuovamente in scena atmosfere profondamente surrealistiche, che rimandano per certi versi
a Outside. Qui, tuttavia, gli intertesti principali solo la Bibbia e la vita di Bowie in quanto forma di scrittura.
Nella sua complessa verbalità sembra porsi come celebrazione della sacralità della vita in rapporto all’altro;
il desiderio d’amore è desiderio di un rapporto necessario, drammatico, intercorporeo, in cui la vita possa
affermarsi in tutta la sua caotica complessità. Solo se ci liberiamo dalle convenzioni sociali, dalla religione –
sistema e dal senso di felicità imposto dalla nostra cultura, possiamo accedere a quello Yes gioioso
rappresentato dalla sua musica.
Capitolo 5
Blackstar. Voce, suono, sperimentazione. La musica di Bowie come teatro.

Analizzando la forma di una canzone, non si possono prendere in considerazione le parole senza i suoni e
viceversa. Più che dalle parole, l’ascoltatore sarà attratto dall’intonazione e dal timbro di chi la canta. Per
comprendere a fondo l’importanza del suono/scrittura nell’universo bowiano occorre misurare nuovamente
la dimensione corporea. La voce può essere oggetto d’amore o di repulsione, ma mai d’indifferenza. Occorre
capire quali siano i meccanismi con cui ci relazioniamo, percepiamo, valutiamo il suono di una particolare
voce.

Il discorso di Barthes su lingua, suono, musica, pone accento particolare su una differenza che è capacità di
far parlare il proprio corpo, nel senso di far sì che il proprio corpo parli, proiettandoci verso una risposta
necessariamente affettiva. Nel canto Barthes individua due componenti testuali: il feno – canto e il geno –
canto. Il primo esprime la personalità, la soggettività dell’artista, il secondo, invece, è il canto di una fisicità
in divenire ed imprevedibile, lo spazio in cui i significanti germinano dall’interno della lingua e della sua
materialità. Si colloca fuori dalla comunicazione dominante, ma risulta in grado di creare dei percorsi
alternativi di significato, attraverso la significanza.

Il significato di una canzone, non è legato esclusivamente alle parole, per questo la voce di Bowie è in grado
di cantare mille personaggi, attraverso una singola parola. Anche le sue numerose interpretazioni delle grandi
canzoni del passato risultano complesse enunciazioni del presente. La sua voce è, inoltre, in grado di creare
un ponte tra narrazioni e linguaggi diversi grazie alla capacità di far risuonare nel suo corpo una grande varietà
di stili. La voce stessa di Bowie, quindi, è uno strumento destabilizzante che fa pensare all’arte come spazio
profondamente ironico. Egli enfatizza la sua voce sottolineando inflessioni spesso esagerate e grottesche,
per far comprendere al pubblico che la sua è una performance consapevole. E’ possibile parlare anche di uso
carnevalesco della voce, in cui le inflessioni rendono visibile il corpo apparentemente assente del performer.
Altri aspetti della teatralizzazione della voce sono rappresentati dal suo uso del melisma e del falsetto con
cui riesco ad accedere ad uno spazio sonoro femminile. Una componente drammatica essenziale è data dal
dialogo tra il cantante e i suoi musicisti. Nella sua capacità di alternare diversi generi musicali, Bowie è riuscito
ad interagire con paesaggi e personaggi sonori imprevisti.

E’ con The men who sold the world che assistiamo all’articolazione di una complessa dialogica musicale il cui
senso sta tutto nel rapporto fra Bowie e gli altri musicisti, fra cui Tony Visconti, che ridefinirà il ruolo del
basso. Il disco è caratterizzato da un’urgenza sonora senza precedenti e resta ancora oggi una delle cose
migliori di Bowie.
Diamond Dogs del 1974 proietta letteralmente l’ascoltatore su di un palcoscenico sonoro in cui il cantante
diventa protagonista di una trama dialogica all’interno della quale è lui stesso ad interagire con aspetti, voci,
maschere e inflessioni sonore diverse di se stesso.

Station to Station del 1976 rappresenta uno dei migliori dischi di tutti i tempi. Il celebre brano di apertura
attraversa una giustapposizione senza precedenti di soluzioni sonore che qui più che altrove dicono di un
Bowie in grado di anticipare il futuro, di proiettare l’ascoltatore verso una fruizione e comprensione musicale
nuova e inaudita. Molto interessante sarà la figura di basso ribattuta. Quella che molti definiscono trilogia
berlinese è composta da tre narrazioni piuttosto diverse e si può parlare di una certa continuità in rapporto
soprattutto ai primi due capitoli, ovvero Low e Heroes. Il primo dei due è una sorta di colonna sonora in cui
vi sono dolore e alienazione che creano una bellezza senza precedenti. Il senso di Low resta tutt’oggi molto
complesso, ma ha molto a che fare con l’idea di confondere una sensibilità sperimentale, di matrice Europea
e un canale comunicativo essenzialmente americano. Heroes si pone come uno degli album più iconici del
corpus sonoro bowiano. Anche qui si registra la simultaneità e compresenza di pulsioni contrastanti e
contradditorie, ma è ciò che succede quando si cerca di leggere a fondo, di indagare l’umano. La title – track
vive di questa perfetta sintesi tra semplicità e complessità, in un arrangiamento che attraverso la sua
stratificazione esprime la molteplicità insita in Bowie.

Le soluzioni sonore dei due album successivi sembrano tuttavia raccontare un’altra storia, ossia un altro
approccio nella poetica bowiana, in cui gli spazi dilatati, le soluzioni quasi cinematografiche dei due album
precedenti sembrano messi da parte in nome di una scrittura veloce, ritmica e a tratti pungente.

Scary Monsters del 1980 presenta un art pop sofisticato nutrito da un dialogismo destabilizzante. Uno dei
momenti sonori più iconici dell’album è l’incipit di Ashes to Ashes, che sembra dire un ciclo che non può
concludersi, come quello artistico di Bowie.

L’album di maggiore successo commerciale è Let’s Dance del 1983. Le due tracce più note sono la title – track
e China girl, che rimanda ad un ritrovato interesse per l’oriente. Qui la ragazza del titolo diventa un oggetto,
un’immagine che Bowie traduce in maniera fin troppo diretta in una figura di chitarra per quarte, a tratti
quasi mortificata, dall’andamento ritmico del brano da classica pop song anni Ottanta. La musica sembra
raccontare una storia più interessante di quella offerta dai contenuti verbali.

Il migliore degli episodi musicali degli anni Ottanta resta Absolute Beginners per la straordinaria sintesi
operata qui da Bowie tra passato e presente, tra un certo mood anni Cinquanta e un’enunciazione in grado
di farsi scrittura urgente e maledettamente presente.

Per il disco che segna il suo rientro nelle scene negli anni Novanta, ossia Black the White Noise, il cantante si
avvarrà della collaborazione di uno dei più grandi jazzisti americani dell’epoca, ossia Lester Bowie.

Il più discusso album degli anni Novanta rimane Outsider, e la cosa interessante è la straordinaria inventiva
e innovazione che presenta la componente più strettamente musicale dell’album. Un aspetto probabilmente
più affascinante e interessante del lavoro è dato dal ricorso al tipo di jazz libero e imprevedibile di cui si è
detto a proposito di Aladdin Sane.

Un lavoro diametralmente opposto è rappresentato da Earthling del 97, in cui l’artista si misura con linguaggi
chiave della musica degli anni Novanta, quali techno, jungle e, soprattutto, drum n bass. Sebbene l’immagine
era quella di una sorta di vecchio papà in discoteca, il disco presenta brani molto efficaci, come Little Wonder.
Il disco appare tuttavia troppo legato alla ripetizione di formule e a volte suona come un loop di soluzioni
prevedibili.

Il nuovo millennio ci consegnerà invece un artista di grande spessore, intelligenza e capacità creativa,
all’altezza del Bowie degli anni Settanta. Anche qui la sua estetica sonora si definirà in rapporto dialogico
rispetto alla capacità di scrittura ed inventiva di alcuni musicisti straordinari.
Heathen del 2002 si pone come suggestiva e ispirata narrazione post 9/11, in grado di mettere in scena a
partire dal brano di apertura Sunday la compresenza e simultaneità di pulsione e idee contrarie. Torn è uno
dei maggiori chitarristi contemporanei attivi in ambito jazz e avant; mette in scena un chitarrismo
drammatico, sofferto, i cui il suono in saturazione vive del tempo incerto dato da un complesso uso di
riverberi e delay. Torn sarà presente anche in alcune tracce dell’album successivo, ossia Reality del 2003, che
offre un ventaglio sonoro più ampio rispetto al disco precedente, ma sembra tuttavia articolare
un’enunciazione musicale complessiva meno centrata e potente.

In Blackstar, Bowie metterà paradossalmente in scena la sua stessa fine, attraverso un sound aperto,
caratterizzato dalle intuizioni improvvisative dei musicisti e dalla sua straordinaria performance vocale, in
grado di eccedere ogni idea di chiusura e conclusione. Lazarus vive sin dalla prime battute del prezioso
lavoro di basso di Tim Lefevbre che si muove tra frequenze iper – low e una grana sonora preziosa e leggera.

Bowie è davvero unico per la sua capacità di vivere la musica come teatro, giocando con maschere sonore di
ogni tipo che, se da un lato danno corpo al suo virtuosismo e alla sua padronanza vocale in un periodo di
drammatica sofferenza fisica, dall’altro lasciano spazio al corpo in quanto spazio grottesco e risorsa
carnevalesca. Ad anni dalla sua scomparsa, è possibile ritrovare Bowie nell’ascolto di I can’t give everything
away, il brano che ci conferma che Blackstar è un disco che non si conclude, ma proietta necessariamente
verso un tempo a venire, verso un altrove che trova la forma di un drone di sintetizzatore che funge da
paesaggio sonoro accogliente. E’ possibile pensare l’afterlife di Bowie proprio a partire dal tappeto sonoro e
dal tacere vocale che ritroviamo in coda a questa sua ultima traccia.

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