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5 dicembre 2017

Per il preappello: Cap.1, 2,3, 4, 5, 6


Metteremo il cap.8 in relazione con il 5.

Discriminazioni e parità di trattamento


Vedremo il legame tra la garanzia della parità di trattamento e il divieto di discriminazione. Il punto
di partenza fondamentale è contenuto nell’art.3 cost. che è il fondamento dell’intero diritto del lavoro.
ART.3 COST.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza discriminazioni
di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Quindi abbiamo un primo elenco di fattori vietati di discriminazione e di garanzia della parità di
trattamento. La nostra Costituzione elenca questi come possibili fattori di discriminazione e
aggiunge con il comma 2:
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando
di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese.
Quindi, già nell’art.3 cost. noi troviamo da un lato un elenco di fattori vietati di discriminazione che
comprende: sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. E mette
in relazione questo elenco di fattori vietati con la garanzia della parità di trattamento a prescindere
da questi fattori vietati e con l’attribuzione alla Repubblica del compito di rimuovere questi ostacoli
in modo da garantire l’uguaglianza in senso sostanziale. Come abbiamo detto, l’art.3 disegna sia il
l’uguaglianza formale sia l’uguaglianza in sensi sostanziale. Quindi il principio di uguaglianza
formale e il principio di uguaglianza sostanziale e un elenco di fattori vietati di discriminazione. Non
c’è un unico elenco di fattori vietati: ci sono varie disposizioni a livello interno e a livello europeo che
elencano i fattori vietati, ma questo elenco ha dei punti fissi (p. es.: sesso, razza, religione li
ritroviamo), ma altri che sono variabili. Quindi disponiamo di più elenchi di fattori vietati di
discriminazione, anche se alcuni sono presenti in tutti gli elenchi, altri, invece, compaiono in maniera
diversa a seconda dell’estensione del raggio di fattori che vengono considerati. Si ricordi che quando
abbiamo parlato di agenzie per il lavoro (politiche attive e politiche passive per il lavoro), abbiamo
detto che le agenzie per il lavoro non devono discriminare, in base a un elenco che è il punto, il più
esteso, il più ampio: introduce persino le discriminazioni legate al fatto che quel lavoratore abbia
intentato una controversia contro un precedente datore di lavoro. Quella è l’estensione massima
dell’elenco. Un elenco molto esteso, il massimo che noi possiamo incontrare nelle fonti legislative.
Quelle che vediamo adesso (che è basilare del 1948), invece, è uno dei più tradizionali. Quasi sempre
questi fattori sono elencati anche in diverse altre disposizioni. Mettiamo a confronto questo con la
Carta dei diritti fondamentali, che all’art.20 nel titolo III dedicato all’uguaglianza, anziché scrivere il
principio nello stesso articolo (come l’art.3 cost.: uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale)
introduce due articoli: il 20: l’uguaglianza davanti alla legge: “Tutte le persone sono uguali davanti
alla legge” (principio di uguaglianza formale) e poi aggiunge il divieto di discriminazione, quindi
l’art.21: non discriminazione.
È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore
della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le
convinzíoni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una
minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale.
Qui ci troviamo di fronte un altro elenco. Questo è un elenco più ampio di quello dell’art.3 cost.
Quindi cominciamo a vedere come passando anche da testi fondamentali come la costituzione e la
carta fondamentale dell’UE che, in qualche modo, viene considerata, la costituzione europea, in
asesenza di una costituzione europea. L’elencazione è diventata più ampia e ricomprende più fattori
vietati. Viene anche aggiunto che nell’ambito dell’applicazione dei Trattati, fatte salve disposizioni
specifiche in esse contenute è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità. (Ci
torneremo). Dobbiamo poi aggiungere la parità tra donne e uomini: ART. 23 Carta. Quindi qui c’è un
pacchetto più ampio non solo di fattori di discriminazione vietati, ma c’è anche una diversificazione
maggiore: non c’è unico articolo onnicomprensivo, ma un intero titolo dedicato all’uguaglianza.
ART.23 CARTA: Parità tra donne e uomini
La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di
occupazione, di lavoro e di retribuzione.
Il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano
vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato.
È un modo diverso di affrontare il tema dell’uguaglianza sostanziale. Nell’art.3 cost. c’è scritto: “è
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che non consentono l’effettivo raggiungimento
dell’uguaglianza” (principio di uguaglianza sostanziale), mentre nel linguaggio europeo, invece,
condizionati da una serie di atti e di disposizioni in materia di azioni positive, chi ha steso questa
carta, ha introdotto il principio non tanto del fondamento importante del raggiungimento
dell’uguaglianza sostanziale come nella Costituzione, ma il principio che quelle misure, quelle azioni
positive in favore, ad esempio delle donne, per consentire il raggiungimento dell’uguaglianza
sostanziale sono delle misure che non ostano al principio di parità. Potremmo arrivare a dire che era
più avanzata la Costituzione nel 1948 di quanto non sia il legislatore europeo nel momenti in cui, nel
2000, arriva all’approvazione della Carta, perché è molto più forte, molto più potente è dire che
l’uguaglianza formale c’è, ma nella sostanza non c’è e un conto è dire: “è compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli che non consentono questa uguaglianza altro è dire che tutte le azioni che
vanno fatte per riequilibrare sostanzialmente e non solo formalmente il divario nella parità tra donne
e uomini non osta al principio di parità. Uno dei punti importanti di questo ragionamento è questo:
abbiamo più elenchi a livello interno e a livello europeo, le fonti principali sono comunque la
Costituzione e la Carta di Nizza, poi abbiamo tutta una serie di leggi nell’ordinamento nazionale o
direttive nell’ordinamento dell’UE che fanno riferimento a specifici fattori di rischio di
discriminazione, disciplinandoli con legislazione e con direttive e non solo a livello di principio nelle
Carte fondamentali. Guardiamo l’evoluzione che c’è stata nel nostro Paese. I primi interventi in
materia di parità hanno preso la forma della tutela. Questo è avvenuto nel nostro Paese, in realtà, se
noi mettessimo a confronto tutti i Paesi europei, il primo passo, il primo atto legislativo nei confronti
della parità si realizza partendo dalla protezione, dalla tutela. Questo avviene più di un secolo fa, a
cavallo tra la fine dell’800 e l’inizio de ‘900, quindi siamo a più di un secolo fa, quando, nel nostro
Paese, inizia a comparire una prima legge, che è una legge di limitazione dell’orario di lavoro delle
lavoratrici, quindi delle donne e dei fanciulli. Questa legge che interviene sull’orario di lavoro per
limitare lo sfruttamento eccessivo delle donne e dei fanciulli che stanno lavorando è il primo
embrione, è il primo atto, è l’inizio del lungo percorso che parte come legislazione sociale e si
sviluppa, subito dopo, nella materia del diritto del lavoro. Il diritto del lavoro, la legislazione del
lavoro nasce lì. Non ancora percepita come diritto del lavoro, ma come legislazione sociale, cioè una
legislazione che interviene nel momento in cui arriva l’industrializzazione, il passaggio dall’economia
agricola all’economia industriale, quella che adesso, in termini moderni, chiameremo industria uno
punto zero. Il primo momento in cui c’è un passaggio dall’agricoltura all’industria, le prime fabbriche
tessili, il primo avvio è nel tessile. Queste prime disposizioni che vanno a tutelare l’orario di lavoro
nei confronti di due specifiche categorie di lavoratori che sono le lavoratrici e i fanciulli lavoratori
sono la nascita dell’odierno diritto del lavoro, quantomeno della legislazione protettiva del
lavoratore. Nel nostro Paese questo si realizza a cavallo tra l’800 e il 900, negli ultimi anni dell’800 e
nei primi anni del 900. Ovviamente nei Paesi che si sono industrializzati prima, come la Gran
Bretagna, la legislazione protettiva nasce prima, ma, in tutti i Paesi, la nascita della legislazione del
lavoro avviene con una disciplina che cerca di proteggere il lavoro delle donne e dei fanciulli e, dal
punto di vista della ricostruzione dell’evoluzione del principio di parità di trattamento e dei divieti
di discriminazione, non possiamo non tener conto che, all’inizio, tutto questo si realizzava attraverso,
non tanto il principio della parità di trattamento, ma, invece, attraverso il principio della protezione
contro lo sfruttamento, contro un eccessivo/lungo orario di lavoro, la protezione era riservata non a
tutti: la regolamentazione dell’orario di lavoro non riguarda tutti, ma riguardava solo donne e
fanciulli. Da lì nasce anche la formula che per lungo tempo, fino al 1966 verrà adottata, cioè la
protezione che riguarda le donne e i fanciulli è la protezione delle c.d. mezze forze del lavoro. In realtà,
donne e fanciulli erano molto adatti all’industria tessile, ma si pone un problema di protezione contro
lo sfruttamento che è una protezione contro lo sfruttamento di donne e fanciulli perché questa è la
protezione nei confronti non tanto e non solo di un principio sociale, umanitario, difensivo, ma anche
perché c’era la consapevolezza che donne eccessivamente sfruttate e bambini eccessivamente
sfruttati significava un danno nei confronti delle future generazioni: donne eccessivamente sfruttate
non avrebbero mai fatto nascere bambini sani e bambini eccessivamente sfruttati non sarebbero mai
diventati adulti sani. Il tema dell’orario di lavoro è sia un tema di protezione conto lo sfruttamento,
ma è anche uno sguardo verso il futuro e verso la protezione delle generazioni successive. Quelle che
allora, pero, (siamo ai primi del ‘900) era soprattutto la protezione della razza. Quindi il primo
embrione è la protezione. Fino al 1966 c’è una legislazione sulla protezione dell’orario di lavoro che
accomuna le lavoratrici e i fanciulli e gli adolescenti.

Possiamo dire, per semplificare, che la protezione, in questo momento, nei confronti delle donne
(lasciamo stare i minori) è rimasta nella tutela della maternità di cui ci occuperemo di seguito.
Collegandoci all’orario di lavoro, non c’è un orario diverso tra lavoratori e lavoratrici, se non un
residuo di protezione nei confronti del lavoro notturno. Per il resto, lavoratrici e lavoratori non hanno
una diversità di trattamento nei confronti dell’orario di lavoro. Quindi, questa prima parte di
protezione si limita, attualmente, alla protezione della salute della donna nella maternità o
collegandola al lavoro di cura e quindi ad alcune parti di protezione nei confronti del lavoro notturno.
L’evoluzione, quindi, della protezione: dalla tutela si passa alla parità di trattamento, inizialmente
vista soprattutto come parità di trattamento formale e poi si completa, a partire dal 1991, con la parità
sostanziale. Ancora qualche cenno a questo percorso evolutivo, poi vediamo qual è la disciplina
vigente. La parità di trattamento e il divieto di discriminazione formale porterebbe a dire che le parti
sono tutte sullo stesso piano (principio, appunto, di uguaglianza formale). Nel campo, inizialmente,
solo delle discriminazioni tra lavoratrici e lavoratori, quindi discriminazioni legate a donne e uomini
nel lavoro, non donne e uomini in generale, ma donne e uomini nel lavoro, in questo campo
l’evoluzione dal principio di parità formale al principio di parità sostanziale si realizza attraverso uno
strumento che sono le azioni positive, che sono esattamente quello che viene evocato nella Carta dei
diritti fondamentali all’art.23, parte II. Le azioni positive sono quelle misure che sono evocate
nell’art.23, parte II:
Il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano
vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato (in favore del gruppo discriminato).=
AZIONI POSITIVE
Le zioni positive vengono dall’esperienza nordamericana (“affirmative action”) ed erano misure ce
inizialmente erano state previste per superare le discriminazioni di razza. Erano le misure che sono
iniziate e comparire negli USA, ma collegate non tanto alla parità di trattamento e alla parità
sostanziale tra lavoratore e lavoratrice, tra donne e uomini, ma per superare le discriminazioni
razziali. Quando sono arrivate in Europa, in Italia e negli altri Paesi e a livello di istituzioni europee,
sono arrivate nell’ambito, invece, della discriminazione di genere. Abbiamo utilizzato la parola
genere che non è nell’elenco: nell’elenco c’è sesso. Nelle interpretazioni è più inclusivo parlare di
genere che di sesso, perché significa parlare della persona donna e della persona uomo non solo
legandola alla sessualità, ma nella sua compiutezza. Quindi, a volte, nelle letture e nelle analisi,
ultimamente, si preferisce utilizzare la parola genere al posto di sesso. Negli elenchi, formalmente,
compare sesso. Quindi, c’è un passaggio dalla protezione (primissima fase) alla parità di trattamento
(seconda fase) alla parità di opportunità (terza fase) e in questa non c’è solo il divieto di discriminare,
ma c’è anche l’adozione di azioni positive per superare le disuguaglianze. Quindi, si inizia con il
principio di protezione (tutela), si passa alla garanzia della parità di trattamento e poi alla garanzia
della parità di opportunità, attraverso, per esempio, queste misure (azioni positive) che intervengono
per una soluzione di svantaggio. Questo significa che su questi temi nell’evoluzione che c’è stata, a
partire soprattutto dagli anni ’90, quindi in tempi relativamente recenti (nel nostro Paese a partire
dal 1991) si utilizza sia lo strumento repressivo: divieti di discriminazione, lotta alla discriminazione,
sia quello promozionale che non è repressivo, che parte da una situazione di fatto di disuguaglianza,
di disparità di trattamento, per cercare di superarla attraverso l’adozione di misure, come le azioni
positive. Sono due forme: quella repressiva e quella promozionale che, molto spesso si intrecciamo e
che cercano di raggiungere l’obiettivo della parità sostanziale, quindi di dare attuazione nel nostro
Paese a quello che è scritto nell’art.4, co.2 cost. Quindi, rilevare una situazione di discriminazione
può portare sia a lottare contro questa discriminazione, reprimendola, quindi portandola davanti a
un giudice ottenendo il superamento della discriminazione, perché è una discriminazione vietata, sia,
invece, attraverso lo strumento del prendere atto che quella discriminazione c’è e c’è stata e viene dal
passato e c’è una situazione di disequilibrio si possa, anziché usare solo utilizzare lo strumento
repressivo, utilizzare lo strumento positivo (non negativo) che porti a superare la condizione di
svantaggio. L’evoluzione su questi temi nel nostro Paese e a livello di UE è partita e si concentrata
fino agli anni 2000 (nel nostro Paese un po' prima in realtà: 1997-1998) tutta la prima fase è una fase
che riguarda le disparità di trattamento e le disuguaglianze tra lavoratori e lavoratrici. Quindi per
lungo tempo è stata incardinata sulla questione delle discriminazioni di sesso o di genere. Nel nostro
Paese una prima legge in materia è del 1977 la n.903. Fino ad allora c’era solo protezione. È dal 1977
che si parla, invece, di parità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici e, a livello europeo, è una
direttiva del 1976. Quindi è a metà degli anni ’70 che ci sono interventi sia a livello di istituzioni
europee sia a livello di legislazioni nazionali (come in Italia nel 1977) che si occupano del tema della
parità di trattamento e dei divieti di discriminazione tra lavoratori e lavoratrici. Quindi donne e
uomini nel lavoro. Questo significa nel nostro Paese, si ricordi l’art.37 cost.:
La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano
al lavoratore.
Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione
familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
Come vediamo, il principio della parità dei diritti, della parità retributiva, della protezione della
maternità. Parità di diritti tra lavoratrice e lavoratore, parità di retribuzione tra lavoratrice e
lavoratore e protezione della maternità con quell’ingombro all’essenzialità della funzione familiare
della donna, tipica del ‘48 e dintorni. Sulla parità retributiva si ricordi che fino al 1960 questo
principio non era affatto attuato, anzi, nella contrattazione collettiva (nei contratti collettivi che
sono nati soprattutto per dettare la retribuzione e quindi introduceva tabelle retributive), queste
tabelle retributive erano doppie: a seconda del livello di professionalità la retribuzione era distinta
tra la retribuzione dei lavoratori e delle lavoratrici: tabelle doppie, con mediamente una retribuzione
delle lavoratrici inferiore del 30% a quella dei lavoratori. Questo, fino al 1960, si giustificava,
attraverso una lettura dell’art.37 cost. che faceva aggiungere il riferimento al rendimento. A parità di
lavoro andava intesa come a parità di rendimento di lavoro. Quindi le lavoratrici hanno la stessa
retribuzione dei lavoratori a parità di lavoro, cioè a parità di rendimento di lavoro e in quegli anni
si diceva che era noto e ampiamente dimostrato che le lavoratrici rendono almeno il 30% in meno dei
lavoratori e su questo si basavano le tabelle differenziate. Su questo c’è stato uno dei primi interventi
della CGUE in alcune importanti sentenze di quegli anni. Il caso specifico che veniva portato davanti
alla CGUE era la diversa retribuzione delle hostess rispetto agli steward di una compagnia di
bandiera belga (la Sabena) che non esiste più ovviamente. In quegli anni le prime sentenze sono della
CGUE a cui segue nel nostro Paese nel 1960 segue un accordo tra le confederazioni sindacali, un
accordo sindacale che aboliva la tabella a doppia entrata. Le retribuzioni, dal 1960 in avanti diventano
uguali tra lavoratori e lavoratrici. La parità di diritti retributivi non è stata ancora raggiunta. Le
disparità di trattamento ci sono, in materia retributiva, anche adesso, ma non tanto perché c’è una
retribuzione definita diversa tra donne e uomini, ma attraverso meccanismi molto più sottili che
portano a sotto inquadrare i lavori femminili, dove prevalentemente l’occupazione femminile
mediamente si guadagna di meno dei settori dove l’occupazione è prevalentemente maschile.

Il fattore determinante è soprattutto la riduzione dell’orario di lavoro. Il part-time è soprattutto


svolto dalle donne. Questo porta, ovviamentee, non tanto a una diversa retribuzione per ora lavorata,
ma mediamente il reddito da lavoro delle lavoratrici è inferiore a quello degli uomini. Attenzione: le
disparità di trattamento retributivo crescono, in media (non in tutti casi), tendenzialmente, al
crescere del livello della qualificazione del lavoro: più il lavoro è, nella scala gerarchica, importante
più crescono le discriminazioni retributive. Ci sono meno discriminazioni retributive nelle qualifiche
più basse, nelle retribuzioni più basse del lavoro che non nei livelli più alti delle professionalità. Non
è esente il diverso reddito tra i liberi professionisti. Anzi! Per es., da sempre, associazioni di avvocate
analizzano i redditi degli avvocati e delle avvocate e dimostrano che c’è una disparità molto ampia
nel reddito delle avvocate e degli avvocati. Le determinanti sono molte: il cliente preferisce l’avvocato
all’avvocata, perché si sente più sicuro, talvolta le avvocate scelgono di specializzarsi in ambiti che
danno meno reddito (diritto di famiglia più che il diritto societario). Varie sono le determinanti anche
analizzate dalle associazioni di avvocate che tentano di interpretare un dato evidente: la diversità di
reddito passa attraverso il diverso genere.

Ci sono sentenze anche molto recenti, quindi non è una cosa legata al passato: nel 1960 si sono
superate le discriminazioni palesi, quelle dirette, quelle evidenti: il trattamento delle lavoratrici era
diverso dal trattamento dai lavoratori nelle tabelle. Tutto il resto è un diverso inquadramento
professionale, una diversa valorizzazione del lavoro. Quindi, tutto questo porta anche a decisioni
della giustizia anche recenti sulle retribuzioni inferiori, per es. in un caso che la Corte di Appello di
Torino nel 25 settembre 2017 (non importa saperlo, è solo per dire che questo tema arriva fino a noi)
che parla di un licenziamento discriminatorio, perché la dirigente, nel caso specifico, percepiva una
retribuzione inferiore a quella dei dirigenti. Questo lo ricordiamo perché è una conferma che le
decisioni davanti alla CGUE continuano anche attualmente e riguardano quasi sempre le fasce più
alte, non le fasce più basse dell’inquadramento professionale. Sul tema della parità retributiva
abbiamo detto che la CGUE aveva iniziato fin dagli anni ’60 un’importante operazione di promozione
dell’uguaglianza, di sostegno a questi principi. La CGUE è intervenuta a lungo anche su altri temi
legati alla parità. Quindi, diciamo, più legati alla parità di diritti in generale, non solo alla parità
retributiva. Lo ha fatto (si ricordi un tema che abbiamo trattato in precedenza) quando, per es., ha
analizzato le diversità di trattamento, anche ingiustificate o le ha rilevate come ingiustificate, nel
part-time. Si ricordi che quando abbiamo visto i contratti di lavoro atipici abbiamo visto che nel
contratto di lavoro a termine, nel contratto di lavoro part-time, nell’interinale è garantita la parità di
trattamento col lavoratore comparabile. Questo principio viene proprio da una giurisprudenza della
CGUE nata nell’ambito del part-time. La CGUE ha ritenuto che un conto è differenziare la paga base,
un conto è differenziare, invece, effetti indiretti, come le promozioni di carriera, come gli scatti
retributivi che non possono essere commisurati in maniera aritmetica al diverso orario di lavoro.

Quindi, si è iniziato a dire che ogni disparità di trattamento all’interno del lavoro a tempo parziale,
poiché nel lavoro a tempo parziale, in quei settori in tutti i Paesi sono occupate soprattutto le donne,
queste disparità di trattamento sono discriminazioni tra lavoratori e lavoratrici, aprendo la strada
alla protezione lavori atipici, attraverso questo meccanismo: poiché nei lavori atipici ci sono più
donne che uomini, soprattutto nel part-time ci sono più lavoratrici che lavoratori, ogni disparità di
trattamento nel lavoro a tempo parziale è una discriminazione di genere. Poi la CGUE si è trovata di
fronte, negli anni ’90, a una serie di discipline nazionali, quelle degli anni ’90 che puntavano alle azioni
positive, non solo alla repressione delle discriminazioni, ma alle azioni positive, alle azioni di
sostegno per riequilibrare le situazioni svantaggiate. Su questo, però, non c’era una direttiva europea,
ma c’era solo una raccomandazione (come sappiamo la raccomandazione non ha la forza della
direttiva) e c’erano disposizioni nazionali. Il trend ascendente, espansivo di protezione della CGUE
si infrange a metà degli anni ’90. Questo passaggio è importante per capire perché fino agli ’90 c’è una
determinata evoluzione e poi c’è un’evoluzione diversa. Lo spartiacque, poi, è il 2000. Ma lo
spartiacque del 2000, come sempre, avviene, inizia a metà degli anni ’90 e inizia, di nuovo, con una
sentenza della CGUE. Il caso sottoposto alla CGUE è abbastanza semplice ed è un caso conosciuto
come “caso Kalanke” che ci porta a capire meglio l’impatto delle azioni positive. Vediamo il caso per
capire di cosa ci stiamo occupando. Il caso sottoposta a questa decisione nasce da una legislazione
regionale tedesca, che, come quella italiana, a partire dal 1991, introduceva azioni positive. Quindi la
promozione di azioni positive per superare gli storici svantaggi. Questa legislazione regionale
prevedeva che, nelle promozioni di carriera, qualora un candidato e una candidata alla promozione
di carriera avessero parità di qualificazione professionale, arrivassero allo stesso livello della
graduatoria, se in quella fascia professionale un gruppo è sotto rappresentato (e ovviamente era il
gruppo delle lavoratrici), il posto andava assegnato alla lavoratrice. Questa era la disciplina di base:
nelle promozioni di carriera, a parità di qualificazione professionale, vado a vedere se c’è un gruppo
sotto rappresentato e se vedo che c’è un gruppo sotto rappresentato, darò quella promozione di
carriera all’appartenente al gruppo sotto rappresentato, perché, in questo modo, riequilibro la
situazione. Il caso Kalanke è così: c’è un posto di capo giardiniere nella citta di Brema, arrivano due
candidati alla pari: il signor Kalanke che è quello che è quello che poi impugnerà. (La maggior parte
di questi ambiti, quello di cui stiamo parlando adesso i ricorsi alla CGUE sono sempre intentati dagli
uomini, dai lavoratori e non dalle lavoratrici. Nella caso della protezione, della rivendicazione sono
le lavoratrici, ma in questi ambiti in cui parliamo di azioni positive, le azioni positive producono
quella che viene chiamata nel linguaggio giuridico una discriminazione alla rovescia. Il rischio delle
azioni positive è che producono una discriminazione alla rovescia. Questo diventa evidente nel caso
Kalanke: posto di capo giardiniere, arrivano un lavoratore e una lavoratrice allo stesso punteggio di
graduatoria, con la stessa qualificazione, a chi spetta quel posto? Sulla base della legislazione
regionale tedesca, poiché nei livelli maggiori dell’inquadramento professionale la presenza delle
donne è scarsissima e c’è una prevalenza di lavoratori, il genere sottorappresentato è quello
femminile, quindi il posto spetta alla signora. Il signor Kalanke si rivolge alla CGUE, per una
discriminazione alla rovescia, dicendo che quel meccanismo lo ha penalizzato. Tutti pensavano che
non sarebbe successo niente, che la CGUE avrebbe continuato ad espandere le sue aperture nei
confronti dei principi di parità e dei divieti di discriminazione. L’avvocato generale di quella causa è
italiano ed è Tesauro che in Europa è diventato famosissimo con quelle conclusioni in cui ha suggerito
alla CGUE di ritenere illegittima la legislazione regionale tedesca, perché quella quota era
automatica, contestando l’automaticità. Il fatto non lasciava nessun margine di manovra a valutazioni
ulteriori: se i due candidati erano sullo stesso piano, l’amministrazione doveva preferire il genere
sotto rappresentato a prescindere. Su questo costruisce le conclusioni e, inaspettatamente, lo stesso
Tesauro sostiene di essere rimasto sorpreso che la CGUE ha accettato le sue conclusioni e ha ritenuto
quella quota illegittima, perché automatica. A sentire Tesauro, Tesauro riteneva che le sue
conclusioni fossero una sorta di ultimo lamento maschile nei confronti di un meccanismo che
penalizzava, ed è così, gli attuali lavoratori per discriminazioni che erano nate in precedenza, cioè
finivano per penalizzare gli attuali lavoratori, ma per discriminazioni non determinate oggi, ma
determinate per una storica esclusione delle donne dal mercato del lavoro e soprattutto dallo scarso
impiego delle lavoratrici nei livelli dirigenziali.

La Corte, quindi, ritiene che questi meccanismi automatici di promozione fossero illegittimi. Questo
porta a un ripensamento complessivo della normativa. Quindi abbiamo visto il caso Kalanke sia
perché è storicamente importante, sia perché produrrà un ripensamento della normativa e a livello di
UE, questa normativa viene riscritta a partire dal 2000 con quelle che ancora adesso si chiamano
direttive di nuova generazione (che ormai hanno 17 anni) e la ripartenza, però, a livello di UE rimette
in pari l’orologio gli USA, perché si riparte, nel 2000, non con una direttiva su lavoratori e lavoratrici,
ma con una direttiva su parità di trattamento tra uomini e donne per differenze legate alla razza e
all’origine etnica. Nel 2000 c’è una prima direttiva: 2000/43/CE sui divieti di discriminazione,
basati su razza e origine etnica, subito dopo una seconda direttiva, la 2000/78/CE, in cui i fattori
vietati erano età, disabilità, religione o convinzioni personali, orientamento sessuale. Di seguito
ci sarà la riscrittura delle direttive in materia di discriminazione tra lavoratori e lavoratrici, anche nei
servizi, quindi a partire dal 2000 (e questo ha un impatto anche nel nostro Paese) con la riscrittura
di tutte le direttive, l’UE inizia ad occuparsi per la prima volta degli altri fattori di discriminazione,
abbiamo questo nuovo impianto normativo che parla di divieti di discriminazione e parità di
trattamento, iniziando da razza, origine etnica, passando poi a età, disabilità, religione o convinzioni
personali, orientamento sessuale, a cui poi si aggiunge la riscrittura delle direttive sulla parità di
trattamento e i divieti di discriminazione fra lavoratori e lavoratrici, non solo subordinati, ma anche
nel settore dei servizi, quindi fattori di discriminazione che hanno una legislazione di attuazione dai
principi del Trattato e dai principi costituzionali sono questi: razza e origine etnica, età, disabilità,
religione o convinzioni personali e orientamento sessuale e la tradizionale normativa, però, riscritta
che riguarda lavoratori e lavoratrici. Questi sono i fattori che hanno legislazione derivata. Restiamo
nel campo del numero dei principali fattori di discriminazione, quindi restiamo ancora nel campo di
lavoratori e lavoratrici: la riscrittura della normativa precedente, attraverso anche l’imput derivato
dalla legislazione europea, porta nel 2006, con il d.lgs.198/2006, al codice delle pari opportunità tra
uomo e donna nel nostro Paese. Come vediamo è tra uomo e donna, non si occupa solo del lavoro,
anche se il lavoro è la parte prevalente. La prima parte di questo decreto legislativo che è stato più
volte riformato, quindi è il d.lgs. del 2006, ma più volte riformato fino al 2015 con uno dei d.lgs. del
Jobs Act. Tutta la prima parte riguarda l’istituzione della parità. Noi non ci occuperemo
dell’istituzione della parità, è importante sapere che esiste l’istituzione della parità, come le
consigliere di parità a livello provinciale, a livello regionale, a livello nazionale. Ci sono una serie di
soggetti impegnati nella lotta contro le discriminazioni di genere. Noi di questo non ci occuperemo.
Quindi guardiamo il codice delle Pari Opportunità che ha riscritto e riproposto la normativa
precedente, a partire dalla nozione di discriminazione diretta e indiretta. Quello che ci interessa è la
nozione di discriminazione diretta e indiretta, che, per certi aspetti, semplificando un po', è la
differenza tra uguaglianza formale e sostanziale. Discriminazione diretta e discriminazione indiretta
è speculare. Che cos’è che costituisce discriminazione diretta? L’impianto normativo nazionale
recepisce le direttive europee, il ripensamento del post Kalanke. Quindi costituisce discriminazione
diretta qualsiasi disposizione, criterio, prassi, fatto o atto, comportamento, quindi un qualsiasi atto
o fatto, nonché l’ordine di porre in essere questo comportamento che produca un effetto
pregiudizievole, discriminando lavoratrici e lavoratori in ragione del loro sesso e comunque un
trattamento meno favorevole rispetto a quello di un altro lavoratrice o lavoratore in situazione
analoga. Dalla nota sotto, vediamo che il comma è stato prima modificato nel 2008 e poi nel 2010. In
realtà non è ancora apposto dal punto di vista della coerenza con ordinamento europeo, perché
l’ordinamento europeo parla di trattamento meno favorevole rispetto a quanto sia, sia stato o sarà il
trattamento nei confronti del soggetto appartenente all’altro gruppo. La nozione di discriminazione
diretta è un po’ più semplice nel linguaggio europeo e ritiene che sia vietato qualsiasi trattamento
meno favorevole di quanto sia (presente), sia stato (passato), sarà (addirittura ipotizza il futuro) il
trattamento riservato all’altro gruppo. Insomma, la discriminazione diretta è quando io tratto meno
favorevolmente una lavoratrice rispetto a un lavoratore comparabili, con le stesse caratteristiche. Se
io tratto meno in modo meno favorevole la lavoratrice rispetto al lavoratore, quella sarà
discriminazione diretta: trattamento meno favorevole evidente, io tratto diversamente la lavoratrice
rispetto al lavoratore dal punto di vista retributivo o dal punto di vista dell’esercizio dei diritti.
Questa discriminazione diretta è abbastanza semplice da capire. È la più evidente: tra una lavoratrice
e un lavoratore ho trattato meno favorevolmente la lavoratrice. Attenzione perché su questo c’è una
lunga discussione che parte da anni molto risalenti. Noi, in questo momento, ci occupiamo solo della
questione lavoro. Posso trattare in maniera diversa un lavoratore da un altro lavoratore comparabile?
Cioè la parità di trattamento, questo divieto di differenziare il trattamento fra lavoratrici e lavoratori
significa anche una parità di trattamento fra un lavoratore e un lavoratore dello stesso genere, quindi
una lavoratrice rispetto a una lavoratrice e un lavoratore rispetto a un lavoratore? La Corte di
cassazione aveva provato, ma non è un principio generale dell’ordinamento: non è che qualsiasi
trattamento meno favorevole di un lavoratore rispetto a un altro sia una discriminazione. Per essere
discriminazione deve essere all’interno di uno dei fattori vietati. Questo è un punto fondamentale da
capire: non ogni trattamento differenziato può essere qualificato come discriminazione: la diversità
di trattamento deve incrociare, per essere vietata, uno dei fattori protetti. Io ho due lavoratori con lo
stesso inquadramento, immaginiamo che siano assolutamente nella stessa condizione, sono un
datore di lavoro e a uno do dei superminimi, dei trattamenti più favorevoli che non do all’altro. Lo
posso fare, perché non c’è un principio generale di parità di trattamento. Non lo posso fare se una è
una lavoratrice e l’altro è un lavoratore. Se sto differenziando sulla base dell’età, se sto differenziando
sulla base dell’orientamento sessuale, se sto differenziando sulla base della religione, se sto
differenziando sulla base della disabilità, della razza, delle origini etniche, etc., di quelli che abbiamo
visto che sono i fattori preminenti, quelli che hanno anche legislazione derivata. Dopodiché ci si
potrebbe interrogare su queste diverse aree. Allora, abbiamo i fattori preminenti che sono quelli che
abbiamo detto, tratti dalla legislazione derivata: razza, origini etniche, età, disabilità, genere,
abbiamo dei fattori in più che sono evocati nei Trattati, nella Carta di Nizza, nella nostra
Costituzione e quelli sono, però, principi fondamentali di riferimento e poi ci sono dei possibili nuovi
fattori di discriminazione che non sono considerati da nessuna parte, ma che iniziano a comparire in
giudizio. Per esempio, ci sono delle controversie in giudizio sul fattore obesità. Non c’è nessun fattore
che evochi l’obesità, ma ci sono delle controversie sia negli USA sia in Europa sulla discriminazione
basata, per esempio, sull’obesità. Quindi abbiamo uno zoccolo duro che è quello che ha legislazione
derivata che sono quelli che abbiamo elencato, ambiti più o meno ampi a livello di Costituzione, a
livello di Carta dei diritti fondamentali, a livello di disposizioni generali dell’ordinamento e nuovi
eventuali fattori di discriminazione.
Torniamo a noi, restiamo nel genere. Quando si ha, invece, discriminazione indiretta (non “io ti tratto
diversamente perché”, ma una discriminazione indiretta)? Che è la più difficile da cogliere, la più
subdola. Nel nostro ordinamento è quando, di nuovo, una disposizione, un criterio, una prassi, un
atto, un fatto, un comportamento, quindi un qualsiasi atto, fatto o comportamento, apparentemente
neutri (questo è il punto decisivo) possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una
posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino
requisiti essenziali per lo svolgimento dell’attività lavorativa e purché l’obiettivo sia legittimo e i
mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati. Guardiamo alla prima parte: quand’è
che si ha discriminazione indiretta nel linguaggio europeo che è un po' diverso dal linguaggio italiano,
è più ampio: quando c’è un criterio, una prassi, un atto, un fatto neutri, almeno apparentemente, ma
che producono uno svantaggio, un trattamento meno favorevole di quanto sia, sia stato o sarà il
trattamento. Quindi, è un criterio neutro, per es. colpisce sia lavoratori che lavoratrici, ma c’è un
impatto differenziato, perché colpisce di più un gruppo che un altro. Il caso più semplice per
comprendere di cosa parliamo quando parliamo di discriminazione indiretta e anche quello su cui c’è
giurisprudenza, tra l’altro anche recentissima della CGUE (c’è una decisione del 18/10/2017) è il
requisito dell’altezza. Se io inserisco un requisito di altezza dell’assunzione delle persone, quello è
un criterio neutro e, ovviamente, ci sono donne che possono superare quel requisito e ci sono uomini
bassi. Quindi l’altezza è un requisito neutro: non è che tutte le donne sono basse e tutti gli uomini
sono alti, solo che le statistiche dicono che la percentuale di donne che non superano un determinato
requisito è maggiore della percentuale di uomini, che tendenzialmente, comunque, la media delle
donne è più bassa della media degli uomini. Questo significa un requisito apparentemente neutro che
va colpire in un campo e nell’altro, ma con diversa ricaduta, con diversi effetti pregiudizievoli. Infatti.
una delle cause che ancora si ricordano nel nostro Paese è una causa nei confronti dei vigili urbani di
Milano, bando di assunzione con un determinato requisito di altezza: discriminazione indiretta. Il
requisito dell’altezza, però, lo potrei inserire in un bando, in un’assunzione se quel requisito se è
indispensabile, cioè se io ho bisogno di un lavoratore con una determinata altezza non è che non
posso perché è una discriminazione indiretta, se io dimostro, come datore di lavoro che per fare quel
lavoro bisogna avere quella determinata altezza, ovviamente, quello è un requisito essenziale allo
svolgimento dell’attività lavorativa, quindi è superabile: non è un divieto assoluto di discriminazione
indiretta, perché la discriminazione indiretta è quel requisito neutro superabile se io dimostro che
quel requisito è indispensabile per lo svolgimento dell’attività lavorativa e che l’obiettivo sia legittimo
e il conseguimento sia con mezzi appropriati. L’ultimo caso europeo è la sentenza della CGUE 18
ottobre 2017, in un caso greco: è il concorso per l’arruolamento alle scuole di polizia greche che
imponeva la statura minima di 1.70 m. E anche in questa sentenza si dice quello che abbiamo appena
detto, cioè lo stesso giudice del rinvio ha rilevato, nella sua decisione, che le donne che superano 1.70
m sono molto meno degli uomini, quindi le donne sarebbero nettamente svantaggiate rispetto agli
uomini. Quindi, le discriminazioni indirette sono l’applicazione di un criterio neutro che colpisce
donne e uomini ma con una diversa ricaduta. Cause successive che si sono intentate sono l’altezza
minima per le hostess e gli steward, dove la difesa delle compagnie di navigazione aerea era che le
hostess devono essere alte, perché devono aiutare a mettere nelle cappelliere. Famosi sono i casi
dell’altezza minima per essere macchinisti di treni. C’è un altezza minima per essere macchinisti di
treni e la motivazione adotta è (a quel tempo con le Ferrovie dello Stato, ma ancora adesso con
Trenitalia) l’altezza del predellino, cioè il requisito essenziale per lo svolgimento dell’attività
lavorativa è che occorre essere alti più di 1.55 m (quindi non un’altezza particolarmente elevata) per
salire dalla cabina con il predellino. Si tenga conto che molto spesso (non nel caso del predellino del
macchinista del treno) quando si sta parlando di hostess o di altri lavori, di fatto, l’altezza nasconde
il requisito della c.d. bella presenza. Ricordiamo un altro caso che poi è stato risolto: gli addetti
all’aula dell’assemblea regionale sarda, anche lì, come questi della polizia greca, era inserito il
requisito di altezza di 1.70 m e lì, però, la protesta è stata molto più ampia, perché i sardi sono,
tendenzialmente più bassi, anche gli uomini, molto spesso di 1.70 m. Questo per dire che il requisito
più semplice per spiegare la discriminazione indiretta è l’altezza. Ma ce ne sono molti altri. Per es.,
in un concorso pubblico aggiungere, nel caso nella polizia, non tanto 1.70 m (questa, appunto, è un
po' rimasta al passato), ma per es. il porto d’armi, le patenti di livello elevato: tutti requisiti che
possono essere posseduti anche dalle donne, perché non c’è nulla che impedisce alle donne di avere
il porto d’armi o di avere la possibilità di avere patenti di alto livello, ma dove c’è una cultura che
ancora, nella media, vede, soprattutto gli uomini avere il porto d’armi e questi requisiti. È per questo
che bisogna prendere con le pinze, con molta delicatezza il tema delle discriminazioni indirette,
perché ci sono degli evidenti requisiti di discriminazione diretta, ma altri molto più difficili da
riconoscere.

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