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Jean-François Courtine

E sse n z a , so sta n z a , su ssiste n z a , esisten za*

Oggi come ieri il vocabolario dell’essere, qualora lo si consideri nel suo senso
più erudito e più tecnico, non sembra sollevare delle vere e proprie difficoltà di
traduzione, dal momento che esso è costituito da formazioni artificiali che si la­
sciano facilmente trasferire, con uguale violenza, da una lingua all’altra. Così, il
greco o ntotês [óvxóxr|c;] viene reso immediatamente con essen tita s (Mario Vitto­
rino), e da esso si deduce senza difficoltà la serie e n tità , e n tity , S e ie n d h e it, e per­
sino essen tità . La cosa cambia completamente, invece, qualora si consideri che
quello che noi assumiamo come vocabolario ontologico fondamentale procede in
realtà da molteplici sedimentazioni, riappropriazioni e reinterpretazioni dei ter­
mini della lingua più comune. Platone non ha inventato Y o u sia [obcda] più di
quanto Seneca o Quintiliano abbiano inventato la s u b sta n tia . Alla profondità di
alcuni dei termini-chiave dell’ontologia, dovuta alla loro storia pre-filosofica -
ciò che giustifica riappropriazioni, rovesciamenti e nuove gerarchizzazioni —vie­
ne ad aggiungersi uno sconfinamento di àmbiti: più precisamente, quando la tra­
duzione dei Settanta o quella di Girolamo (la Vulgata) reintroducono dei termi­
ni già filosoficamente pregnanti (è il caso, in particolare, di h yp o sta sis [hxóaxa -
olç] nella Scrittura, che impone progressivamente i suoi metodi esegetici propri,
o nella dogmatica conciliare). Il modello della trasposizione ve rb u m e verbo, o
quello del calco, pur apparendo di primo acchito immediatamente evidente
(hypo-stasis —su b -sta n tia ), rivelano ben presto la loro insufficienza.
Continuiamo ancora un istante con la metafora geologica: la sedimentazione
a più livelli, e che bisogna tentare di riconoscere stratigraficamente (su di un
fondo prefilosofico, si può cogliere un uso platonico, aristotelico, stoico, filonia­
no, plotiniano, neoplatonico...), è essa stessa profondamente alterata da una se­
rie di slittamenti del terreno o da forti tensioni geologiche, allorché si passa, per

* Q uesto studio, tratto dal «Vocabulaire européen des philosophies, D ictionnaire des intraduisibles»,
sotto la direzione di B arbara C assin, S euil/Le R obert 2004, appare qui in traduzione italian a (di F ra n ce­
sco Marrone) con la cortese autorizzazione d ell’editore.

«Quaestio», 3 (2003), 27-59


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la precisione, dall’ontologia aristotelica o stoica alla teologia neoplatonica o a


quella dei Padri, quando, cioè, alle distinzioni filosofiche vengono a sovrappor­
si le complesse formulazioni del dogma trinitario.
La duplice ipotesi che intendiamo illustrare qui di seguito riguarda: 1) il ra­
dicarsi dei «concetti ontologici fondamentali» nell’idioma, e lo sforzo traduttivo
supplementare che costringe a ricorrere a delle locuzioni prefilosofiche seman­
ticamente pregnanti (come il latino substantiam habere, substantiam capere); 2)
il nuovo quadro dottrinale che permette sia di forgiare termini mai sentiti prima
(essentia è probabilmente l’esempio più significativo), sia di riappropriarsi di vo­
caboli più antichi, aprendo loro una nuova storia (è il caso, in particolare, del
termine existentia).
Sul piano dei «concetti ontologici fondamentali», le parti in gioco sono tan­
to più complesse per il fatto che la distribuzione delle carte, alla fine, risulta es­
sere molto limitata: sono le stesse carte, o quasi, quelle che si trovano ridistri­
buite, ma ciascuna grande partita impone le proprie regole e dei nuovi vincoli.
Si comprende allora come la stessa idea di «retroversione» possa essere appli­
cata in maniera molto limitata, e che non è possibile tornare dall’existentia al-
Yhyparxis [mapljic;] o alla questione aristotelica «ei esti?» [el écrn;], senza dis­
farne il contesto concettuale e problematico.

I. Le molteplici accezioni dell’«è» nella pluralità delle lingue

Nel suo System of Logic, John Stuart Mill metteva in guardia i lettori a proposi­
to del «duplice significato» del verbo essere (l’è), che serve sia come «segno di
predicazione», sia come «segno per l’esistenza»:

«Volumi e volumi si potrebbero riem pire nelle vane speculazioni sulla natura dell’es­
sere (to óv, o lia la , Ens, Entitas, Essentia, e simili) che sono sorte dall’aver trascurato
questo doppio significato della parola “essere” , dall’aver supposto che quando signi­
fica esistere e quando significa “essere qualche cosa specifica” , come essere un uomo,
essere Socrate, essere visto, essere detto, essere un fantasma, e addirittura essere una non­
entità, debba tuttavia, alla fin fine, corrispondere alla m edesim a idea, e che si debba
per forza trovare un significato che si adatta a tutti questi casi. La nebbia che si alzò
da questa piccola m acchia si diffuse, nell’antichità, sull’intera superficie della m eta­
fisica. [...] E raram ente i Greci conoscevano altre lingue oltre alla loro. Questo ren ­
deva loro di gran lunga più difficile di quanto non lo sia per noi l’acquisizione di una
certa prontezza a coglierne le am biguità. Uno dei vantaggi derivanti dall’aver studia­
to accuratam ente una certa quantità di lingue, specialm ente quelle lingue che em i­
nenti pensatori hanno usato come veicolo dei loro pensieri, è la lezione che abbiamo
im parato circa le am biguità delle parole, quando ci siamo resi conto che in una lingua
la m edesim a parola corrisponde, in occasioni diverse, a parole diverse in un’altra lin ­
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gua. Quando non siano così esercitate, anche le intelligenze più robuste trovano diffi­
cile il credere che cose che hanno un nome in comune non abbiano, per un aspetto o
per l’altro, una natura comune; e spesso, come accade frequentem ente ai due filosofi
appena menzionati [riferimento a Platone e ad Aristotele, N.d.T.], spendono senza pro­
fitto una gran fatica nei vani tentativi di scoprire in che cosa consista questa natura
com une»1.

a. Una spaventosa ambiguità

In The Principles of Mathematics, Bertrand Russell classificava in maniera mol­


to più precisa l’ambiguità del verbo «essere»:

«La parola è è straordinariam ente ambigua, e si deve avere molta cura per non con­
fondere fra di loro i suoi diversi significati. Abbiamo: 1. il senso che il term ine è pos­
siede quando asserisce l’essere come in «A è»; 2. il senso dell’identità; 3. il senso del­
la predicazione, come in «A è umano»; 4. il senso di «A è un-uomo» [...], che è mol­
to simile all’identità. Si hanno inoltre usi meno comuni, come «essere buono è essere
felice», frase con cui si vuole significare una relazione fra asserzioni (e precisam ente
quella relazione che produce, quando esiste, una im plicazione formale)»2.

Nessuno ha l’intenzione di contestare questa «terribile» ambiguità dell’essere o


dell’è nelle lingue filosofiche europee. E tuttavia:
1. ci si può domandare - assieme a Charles Kahn - se, attraverso analisi con­
cettuali differenziate, sostenute di volta in volta da sforzi di traduzione, quel­
l’ambiguità non abbia costituito uno degli elementi-motore dello sviluppo logi­
co, ontologico e teologico della filosofia occidentale:

«Non intendo qui dar battaglia alla tesi generale del relativismo linguistico, e soprat­
tutto non voglio negare il fatto che l’unione in un unico verbo della funzione predica­
tiva, di quella locativa, di quella esistenziale e di quella veritativa sia una particola­
rità sorprendente <delle lingue> indo-europee. [...] Al contrario, vorrei suggerire che
l’assenza di un verbo specifico per esprim ere “esistere” e l’espressione dell’esistenza
e della verità (e anche della realtà) con un verbo la cui funzione originaria era predi­
cativa, avrebbe senza dubbio fornito un punto di partenza eccezionalm ente favorevo­
le e fecondo per la riflessione filosofica sul concetto di verità e sulla natura della real­
tà, intesa come oggetto di conoscenza»3.

1 J. STUART M ill, A system o f logic ratiocinative a n d inductive: being a connected view o f the principles
o f evidence a n d the methods o f scientific invenstigation, R outledge, London 1892; trad. it. di M. T rinche­
rò, Sistem a d i Logica deduttiva e induttiva, 2 voll., U tet, Torino 1988, vol. I, 145-146 [corsivi nostri].
2 B. R USSELL, Principles o f M athem atics, Cam bridge UP, London 1903, 64 n.; trad. it. di L. Geym onat,
I P rincipi della M atem atica, L onganesi, M ilano 1963, 117 n .7 (trad. mod.).
3 C.H. K ahn, Retrospect on the Verb ‘To B e ’ a n d the Concept o f B eing, in S. K nuuttila / J. H lNTIKKA
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2. Si può contestare, con Jaakko Hintikka, l’onnipotenza delle distinzioni fre-


geano-russelliane e denunciare non soltanto quanto sia anacronistica l’applica­
zione retrospettiva di queste distinzioni ad autori classici (a cominciare da Pla­
tone e Aristotele), ma anche, e ancor più seriamente, quanto essa interferisca,
sia nell’analisi delle nozioni, sia nelle riprese e nelle traduzioni, intra-linguisti-
che e da una lingua all’altra. Hintikka si spinge fino a denunciare «il mito se­
condo cui vi è una distinzione netta tra l’è dell’identità, l’è della predicazione,
l’è dell’esistenza, l’è dell’implicazione generica...»4.
Si noterà altresì che, se si ha l’intenzione di portare allo scoperto e di chiari­
re le grammatiche (filosofica, logica, teologica) del termine essere, l’etimologia
non è di alcuna utilità, per la ragione fondamentale che in nessuna delle lingue
filosofiche europee si trova un verbo essere unitario ed omogeneo. Ora, ciò che
qui vale per l’essere, preso grammaticalmente come verbo, vale anche per l’in­
sieme del vocabolario ontologico, il quale - come possiamo osservare prenden­
do in considerazione i termini essenza, sostanza, esistenza, sussistenza... - in
principio non viene elaborato in funzione di qualche «etymon» (*es, *bhû, *wes),
ma piuttosto in funzione delle risorse della lingua, considerata nei suoi molte­
plici usi.

b. Essere-essenza e atto d’essere - «actus essendi»

Un’altra «ambiguità» è quella che viene messa a fuoco da Jacques Maritain, nel­
le sue Sept leçons sur l’être:

« . l ’essere presenta due aspetti: l’aspetto essenza, che risponde innanzitutto alla p ri­
ma operazione dello spirito (la formazione dei concetti è ordinata innanzitutto a co­
gliere, sia pure in molti casi ciecam ente, le essenze, che sono attitudini positive ad
esistere); e l’aspetto esistenza, l’esse propriam ente detto, che è il term ine perfettivo del­
le cose, il loro atto, la loro “energia” per eccellenza, la suprem a attualità di tutto ciò
che è»5.

A Maritain fa eco Étienne Gilson in L’Être et l’Essence, sottolineando anch’egli

(eds.), The Logic o f Being. Historical studies, D. R eid el P ublishing Company, D ordrecht-B oston-L anca­
ster-Tokyo 1986, 4.
4 J. H intikka, The varieties o f being in Aristotle, in K nuuttila / H intikka (eds.), The Logic o f B eing
cit., 82.
5 J. MARITAIN, Sept leçons sur l ’être et les premiers principes de la raison spéculative, P ierre T équi, P a ­
ris 1934, 25-26; trad. it. di M. B racchi, M. Inzerillo, L. F rattini, Sette lezioni su ll’Essere e sui p rim i prin-
cipî della ragione speculativa, E ditrice M assim o, M ilano 1981, 48.
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questo «aspetto esistenza» dell’essere che Tommaso d’Aquino sarebbe stato il


primo a mettere in luce senza ambiguità:

«Sia che si dica è, o esiste, o vi è, il senso rim ane invariato. Tutte queste formule si­
gnificano l’azione prim a che un soggetto possa esercitare. E prim a essa lo è, infatti,
giacché senza di lei non vi sarebbe alcun oggetto»6.

Si tratta di un fatto linguistico da cui viene tratta con abilità una grammatica lo­
gica e metafisica: il verbo è non è una copula, ma significa «l’atto primo in vir­
tù del quale un essere esiste, e la funzione principale dei verbi è allora quella
di significare, non già degli attributi, ma delle azioni»7. A partire da questa tesi
Gilson ritrova la canonica definizione di Prisciano:

«Verbum est pars orationis cum tem poribus et modis, sine casu, agendi vel patienti si­
gnificativum [Il verbo è quella parte del discorso che significa, con i tempi e i modi,
ma senza i casi della declinazione, l’agire o il patire]»8.

Ma in questo Étienne Gilson ritrova anche un’antica terminologia scolastica che


forse gli era servita segretamente sin dall’inizio come filo conduttore. L’essere
inteso come «verbo d’azione», di quell’«azione prima che un soggetto può eser­
citare» significa l’esistere come atto (actus exercitus): «Per soddisfare le confu­
se aspirazioni che sembrano qui guidare il linguaggio - nota Gilson -, bisogne­
rebbe ammettere la presenza, al centro stesso del reale, di quelli che un tempo
si chiamavano “atti primi”, ossia quegli atti di esistere in virtù dei quali ogni es­
sere è, e ciascuno dei quali si dispiega in una molteplicità più o meno ricca di
“atti secondi”, che sono le sue operazioni»9. Così, l’esistenza, nel senso pieno,
è sempre l’esistenza «ut exercita, proprio in quanto esercitata o posseduta»10.
Compreso come atto, o meglio, come «atto esercitato», l’essere è «actus es-
sendi [atto d’essere]», ciò che vi è di più intimo e di più profondo in ogni cosa
che è: «esse autem est illud quod est magis intimum cuilibet et quod profundius
omnibus inest, cum sit formale respectu omnium quae in re sunt [l’essere è ciò

6 É. G ilson, L’Être et l ’Essence, 2 e éd. revue e t augm enté, Vrin, P aris 1962, 279; trad. it., qui talvolta
m odificata, di L. F rattini e M. Roncoroni, L ’Essere e l ’Essenza, E ditrice M assim o, M ilano 1988, 267.
7 Gilson fa qui riferim ento a F. B runot, La Pensée et la langue. Méthodes, principes et p la n d ’une théo­
rie nouvelle d u la ngage appliquée au fra n ç a is, M asson, P aris 1926.
8 P riscianus Caesariensis, Institutionum gram m aticarum libri X V III, 2 t., ed. M. H erz, Teubner, L eip­
zig 1855-1859 (rist. an. G. Olms, H ildesheim 1961), VIII, 1, 1 (t. 1, 369).
9 G ilson, L ’Ê tre et l ’Essence, cit., 27 9 [trad. it., 267].
10 M aritain, Sept leçons sur l ’être cit., 26 [trad. it., 49]. Cfr. anche ivi, 105 [trad. it., 123 ]: « .. .esiste­
re vuol dire tenersi ed essere tenuto fuori d al nulla, l’esse è un atto, u n a perfezione, la perfezione suprem a,
un fiore lum inoso in cui si afferm ano le cose».
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che di più intimo e di più profondo vi è in tutte le cose, dal momento che esso è
l’elemento formale rispetto a tutte le cose che sono realmente]»11.
Quello che, peraltro, Gilson e Maritain non riuscivano assolutamente a ve­
dere era che questa interpretazione «esistenzialista» dell’essere, che essi ac­
creditavano generosamente al tomismo, rimandava ad una lunga storia, intessu­
ta di traduzioni, di trasposizioni, di rovesciamenti, e nella quale aveva giocato
un ruolo decisivo il neoplatonismo.

II. «Essere», «esistere», «existo»

Exista fa parte dei numerosi composti di sisto «fermarsi, fermare; presentarsi,


comparire, far presentare (davanti a un tribunale)», come absisto «allontanarsi»,
desisto «abbandonare, smettere di...», obsisto «fermarsi avanti, opporsi», insisto
«appoggiarsi su/a, p rem ere.» . Exsisto (existo), nella sua accezione classica, si­
gnifica dunque «venire da, uscire dalla terra, sorgere».
Proprio in questo senso se ne serve Cicerone nel De officiis (I, 30, 107): «Ut
in corporibus magnae dissimilitudines sunt, sic in animis existunt majores etiam
varietates»12, o Lucrezio nel De Rerum Natura (II, 871-872): «Quippe videre li­
cet vivos existere vermes / stercore de ta e tr o .» 13.

a. L’«existentia» come «ex-sistere»

Nel XII secolo, nella canonica distinzione presente nel De Trinitate (1148) di
Riccardo di San Vittore, si riscontra l’eco, amplificata e trasposta sul piano me­
tafisico e teologico, di questa prima accezione concreta del verbo latino exsisto:

«Possumus autem sub nomine exsistentiae utram que considerationem subintelligere,


tam illam scilicet quae pertinet ad rationem essentiae, quam scilicet illam quae per­
tinet ad rationem obtinentiae. Tam illam , inquam , in qua quaeritur quale sit de quoli­
bet exsistenti, quam illam in quae quaeritur unde habeat esse. Nomen exsistentiae tra­
hitur verbo quod est exsistere. In verbo sistere notari potest quod pertinent ad consi-

11 T homas de A quino, S u m m a theologiae, Ia, qu. 8, art. 1, ad 4.


12 Marcus T ullius C icero, De Officiis, ed. M. W interbottom , Oxford UP «Oxford C lassical Texts», Ox­
ford 1994, I, 30, 107, (pp. 43, 28 - 44, 4); trad. it. di D. A rfelli, I Doveri, M ondadori, M ilano 1994, 87:
«Invero, com e nei corpi ci sono grandi differenze [ . ] così negli anim i appariscono dissom iglianze anche
maggiori».
13 T itus L ucretius Carus, De R erum N atura libri sex, ed. C. Bailey, Oxford U P «Oxford C lassical
Texts», Oxford 19222 (I ed. 1900), II, 871-872; trad. it. di L. C anali, La natura delle cose, B iblioteca U ni­
versale Rizzoli, M ilano 1994, 221: «Infatti si possono scorgere vermi prendere vita / d a fetido s t e r c o . » .
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derationem unam; sim iliter per adjunctam praepositionem ex notari potest quod per­
tinet ad aliam. P er id quod dicitur aliquid sistere, primum rem oventur ea quae non tam
habent in se esse quam alicui inesse, non tam sistere, ut sic dicam, quam insistere,
hoc est alicui subjecto inhaerere. Quod autem sistere dicitur, ad utrum que se habere
videtur et ad id quod aliquo modo et ad id quod nullo modo habet subsistere; tam ad
id videlicet quod oportet quam ad id quod omnino non oportet subjectum esse. Unum
enim est creatae, alterum increatae naturae. Nam quod increatum est sic consistit in
seipso ut nihil ei insit velut in subjecto. Quod igitur dicitur sistere tam se habet ad ra ­
tionem creatae quam increatae essentiae. Quod autem dicitur exsistere, subintelligi-
tur non solum quod habeat esse, sed etiam aliunde, hoc est ex aliquo habet esse. Hoc
enim intelligi datur in verbo composito ex adjuncta sibi praepositione. Quid est enim
exsistere nisi ex aliquo sistere, hoc est substantialiter ex aliquo esse. In uno itaque hoc
verbo exsistere, vel sub uno nomine exsistentiae, datur subintelligi posse et illam con­
siderationem, quae pertinet ad rei qualitatem et illam quae pertinent ad rei origi­
nem »14.

b. «Existentia», «existentialitas»

Bisognerà probabilmente aspettare Candido l’Ariano (noto a Mario Vittorino, ca.


281/291-361) per veder comparire il femminile singolare existentia, accompa­
gnato dal termine astratto existentialitas, mentre in Calcidio, per la precisione
nella traduzione e nel commento del Timeo, existentia è ancora un termine neu­
tro plurale che rinvia a onta [ovxa]: «tria [...] auta onta [xpia (...) a m a ovxa]»,
che Calcidio rende appunto con il termine existentia (neutro plurale).
Ora, solo più tardi (seconda metà del IV secolo), e a seguito di una serie di

14 R icardus de Sancto V ictore, De Trinitate, lib. 4, c. X II, PL 196, 937C , 937D , 938A ; trad. it di M.
Spinelli, La Trinità, C ittà N uova E ditrice, R om a 1990, 163-164: «Ora, con il term ine esistenza noi pos­
siam o in ten d ere entram be le considerazioni: tanto, cioè, qu ella che riguarda la n atu ra d ell’essenza, q u an ­
to q u ella che si riferisce alla n atu ra d ell’ottenim ento; sia, voglio dire, q u ella che in ogni essere ricerca
che cosa esso è, sia qu ella con cui si cerca di sapere d a dove trae l ’essere. L a parola “esistenza” deriva
dal verbo [latino] exsistere. Si può osservare nel term ine sistere ciò che h a rapporto con la prim a conside­
razione; parim enti, n ella posizione ex si può notare ciò che riguarda la seconda. Q uando si dice che q u al­
cosa esiste (nel senso di sistere), subito si tolgono di mezzo quelle realtà che non hanno l’essere in se ste s­
so, m a piuttosto in q u alcu n [altro], che non tanto esistono —per d ir così —quanto insistono, cioè ad eri­
scono ad un q ualche soggetto. Il term ine sistere, però, sem bra adatto a tutt’e due, sia a ciò che sussiste in
qualch e modo sia a ciò che non può assolutam ente sussistere, tanto a ciò che è necessariam ente subordi­
nato quanto a ciò che non può esserlo in nessu n modo. In effetti, la prim a condizione è p ropria d ella n a ­
tu ra creata, la seconda di qu ella increata, dal m om ento che ciò che è increato sussiste in se stesso in m o­
do tale che nien te si trova in esso com e in un soggetto. P er questo la parola sistere si può riferire tanto a l­
la n atu ra creata quanto a qu ella increata. Il term ine exsistere, d al canto suo, esprim e non solam ente il pos­
sesso d ell’essere; m a anche la su a provenienza d all’esterno, cioè il fatto che si possiede l’essere grazie a
q u alcu n [altro]. Ciò, infatti, è reso evidente, nel verbo com posto, dalla preposizione ad esso aggiunta. Che
cosa significa exsistere, infatti, se non sistere “d a ” [ex] qualcuno, cioè aver ricevuto il proprio essere so­
stanziale d a qualcuno? Di conseguenza, con q u est’unico verbo esistere —o con la sola parola esistenza —si
può in ten d ere sia ciò che riguarda la n atu ra d ell’oggetto sia ciò che si riferisce alla su a origine».
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traduzioni, il termine troverà in filosofia la sua consacrazione ufficiale nel con­


testo latino della teologia trinitaria: in Mario Vittorino, il termine serve come tra­
duzione di hyparxis [bxapljic;], diversamente da substantia, che traduce ousia
[obolo], e da subsistentia, che viene riservato per tradurre hypostasis [bxóoxa-
olç].
Quanto alle accezioni dell’essere, la differenza fondamentale che si delinea
- facendo eco a quella greca tra hyparxis e ousia - è la differenza tra existentia
e substantia:

«Multo magis autem differt existentia a substantia, quoniam existentia ipsum esse est,
et solum est, et non in alio non esse, sed ipsum unum et solum esse; substantia vero
non solum habet esse, sed et quale et aliquid esse»15.

c. «Quid» - «quod» («was» - «dafi»)

Sarebbe sbagliato, tuttavia, se in ciò si volesse vedere una mera traduzione, a


cui sarebbe sempre possibile applicare un’eventuale «retroversione», come per
esempio nel caso della «ben nota» opposizione dell’essenza e dell’esistenza; e
ci si guarderà bene, contro Suzanne Mansion16, dal sovrapporre incautamente
tale «nota distinzione» alle questioni aristoteliche: ti esti? ei esti? [xl èoxt; el
£0X1;].
In effetti, di una cosa, altro è sapere to ti esti [xò xl ecm], il «che cos’è», o
meglio, to ti einai [xò x'nrjv etvai], il «cosa significa essere per x», la «quiddi­
tà», altro è sapere che è (hoti estin [oxt eoxi/v]), che accade (dafi), la «quoddità»:

(/.ver/io] yàp xò EiÒóxct xò xl è a x iv ctvGpcoitoç i] t'ûSt.o àxLocv, e lò é v a i rccù ò x i (xò y à p


\ « ’ 0 ' « » / »• • \ \ / t « / ì\ \ ir ti ir
jLll^l OV OD08LÇ OLO£V O TL £O TLV , C lX h a TL |1£V OT|[!CtLV£L O À O yO Ç TO O V O pC t, OTOV £ LJtCO

T payéX a^oç, tl ô ’ £Gt'l T payéX a^oç à ô iiv a T o v £lòévaL ). [...] to Ô£ tl è c m v av0pcojroç


KCt'l TÒ £LV aL CtV0pCOJtOV o k i k o .

«Infatti chi conosce che cos’è l’uomo o qualunque altra cosa, necessariamente sa che
è (in effetti ciò che non è, nessuno sa ciò che è, ma sa tutt’al più che cosa significa il
discorso o il nome, <come> quando io pronunci “capricervo"; però è impossibile sa­

15 M arius V ictorinus, C andidi E pistola a d Victorinum, I, 2, 18-22, in Traités théologiques sur la tri­
nité, ed. P. Henry, introduction, traduction française e t notes par P. H adot, Cerf, «Sources chrétiennes»,
n° 68-69, 1960, 109: «Tra l’esistenza e la sostanza vi è u n a differenza molto p iù grande, poiché l’esisten ­
za è l ’essere stesso il solo <essere>; non è non-essere in altro, m a è lo stesso ed unico essere; la sostan­
za, invece, non soltanto possiede l ’essere, m a è anche qualche cosa di qualificato».
16 S. M ANSION, Le rôle de la connaissance de Texistence dans la science aristotélicienne, in É tudes a ri­
stotéliciennes. Recueil d'articles, éd. par J. F OLLON, É ditions de l ’In stitu t su p é rieu r de philosophie, Lou-
vain-la-N euve 1984, 183-203.
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pere che cos’è). [...] m a che cos’è l’uomo e il fatto che l’uomo esiste sono due cose d i­
verse»1718920.

d. «Hyparxis» —«ous^a»

Sembra che il primo ad aver utilizzato il sostantivo hyparxis, attestato nella ver­
sione dei Settanta, sia stato Filone di Alessandria (ca. 20 a.C. - 41 d.C.): nel De
opificio mundi, dopo aver notato (§ 170-171) che Mosé, con la sua narrazione
della creazione, ci ha insegnato «che il divino è ed esiste [hoti esti to theion kai
hyparxei (oxi ecm to 0eiov kocl xmdpljei)]», Filone precisa l’importanza di que­
sto insegnamento tramandato «rispetto agli atei, alcuni dei quali hanno dubita­
to ed esitato circa la sua esistenza...[ -
3ta[X(|)ox8pLoavx8Ç Jtep'i xfjç xmdpljeroc; axrnyO.. ,]»18.
Come sottolinea molto giustamente John Glucker19, l’invenzione di Filone
presuppone una marcata distinzione tra l,ous^a, l’essenza di qualcosa, ciò che
essa è - o meglio, «cosa è essere x» - e Yhyparxis. Quando si tratta di Dio o del
divino, è chiaro che la sua «essenza» è inaccessibile all’uomo (akatalêptos anth-
rôpôi [dKaxdk^xxoc; dvBprójtq)]): nella migliore delle ipotesi questi non può che
riconoscere la potenza o i «poteri» (dynameis [ôwdpeic;]) che ne rivelano la
provvidenza e l’“esistenza” (hyparxis).
Lasciando da parte, in questa sede, le serrate discussioni a proposito del­
l’interpretazione dei termini hyparxis-hyparchein [ùrcdpxeiv], o meglio, a propo­
sito dell’opposizione tra i due modi d’essere definiti rispettivamente dall’hypar-
chein et dall’hyphestêkenai (b^eaxr|K8vai)20, ci soffermeremo soltanto sulla di­
stinzione stabilita dal neoplatonismo, poiché, in ogni caso, si tratta della distin­
zione che motiva le principali decisioni di traduzione che qui ci interessano:
l’opposizione tra Yhyparxis, l’esistenza, associata all’essere puro e semplice (to
einai monon [ ]), da un lato, e Yous^a-suhstantia-to on [xò ov], dal­
l’altro.

17 A RISTOTELES, A n. Post., II, 7, 92b 4-11; trad. it. di M. Z anatta, in Organon, 2 voll., U tet, Torino 1996,
vol. II, 84.
18 P hilo A lexandrinus, Opera quae supersunt, 6 voll., B erlino 1896-1915 (rist. 1962), vol. I, 59, 18­
19; trad. it. di G. Calvetti, in F ilone DI A lessandria, La Creazione del Mondo. Le allegorie delle Leggi, a
cu ra di G. R eale, R usconi, M ilano 1978, § 170, 146.
19 J. G lucker, The O rigin o f vjictpxco a n d v jta p ^ tç as Philosophical Terms, in F. R omano / D.P. Taor­
mina (a cu ra di), Hyparxis e Hypostasis nel neoplatonismo, Leo S. O lschki, Firenze 1994, 1-23.
20 Cfr. P. H adot, Z u r Vorgeschichte des Begriffs «Existenz», Y llA P X E IN h e i den Stoikern, «Archiv für
B egriffsgeschichte», 13, 1969, 115-127.
36 Jean -F ran ço is Courtine

e. L’esistenza come «ipsum et solum esse»

È proprio nell’ambito di tale contesto che in Mario Vittorino il termine existen-


tia, preso come traduzione di hyparxis, designa l’essere senza determinazione, il
quale non è ancora né soggetto né predicato, a differenza dell’ente determina­
to21.
Come osserva giustamente Pierre Hadot: «In Vittorino e nella lettera di Can­
dido, l’esistenza è l’essere ancora indeterminato, è l’essere puro, preso senza
qualificazioni, senza soggetto e senza predicato; la sostanza invece è l’essere
qualificato e determinato, l’essere di qualcosa che è qualcosa»22.

«Exsistentiam quidem et exsistentialitatem , praeexsistentem subsistentiam sine acci­


dentibus, puris et solis ipsis quae sunt in eo quod est solum esse, quod subsistunt; sub­
stantiam autem, subjectum cum his omnibus quae sunt accidentia in ipsa inseparabi­
liter existentibus»23.

«Exsistentia ipsum esse est et solum esse, et non in alio esse aut subjectum alterius,
sed unum et solum ipsum esse, substantia autem non esse solum habet, sed et quale
aliquid esse. Subjacet enim in se positis qualitatibus et idcirco dicitur subjectum »24.

f. La «nuda entità»

È interessante notare che quando, alcuni secoli più tardi, qualcuno introdurrà
per la prima volta - a quanto pare - nella lingua francese la parola existence nel­
la sua accezione «tecnica», rinvierà anch’egli, se non all’«esse solum» (to einai
monon), almeno alla «nuda entità»:

«Il est donc certain qu’il y a notable différence entre l’existence et l’essence des cho­

21 Vedi Marius V ictorinus, Adversum A rium , I, 30, 21-26, e C andidi E pistola a d Victorinum, I, 2, 19­
24.
22 P. H adot, Porphyre et Victorinus, 2 vol., É tudes A ugustiniennes, P aris 1968, 269; trad. it. di G.
G irgenti, Porfirio e Vittorino, V ita e P ensiero, M ilano 1993, 235-236.
23 M arius V ictorinus, Adversus A rium , I, 30, 21-25, in H adot, Porfirio e Vittorino, cit., 236, n. 155:
«I filosofi definiscono l ’esistenza e l’esistenzialità com e il fondam ento iniziale preesistente a lla cosa ste s­
sa, senza i suoi accidenti, di m odo che in prim a istanza non esistano, puram ente e solam ente, se non le
sole realtà che costituiscono il suo essere puro, senza addizione, finché sono chiam ate poi a sussistere;
essi definiscono la sostanza come il soggetto preso con tutti gli accidenti che sono inseparabilm ente in e­
renti a lla sostanza» (trad.m odificata).
24 Marius V ictorinus, C andidi epistola a d Victorinum, I, 2, 19-22, in H adot, Porfirio e Vittorino, cit.,
2 36 n. 155 (ma anche 452, testo 23a): «l’esistenza è lo stesso essere e il solo essere, e non l ’essere in a l­
tro o il soggetto di un altro, m a l’essere in sé uno e solo, m entre la sostanza non ha soltanto l ’essere solo,
m a an ch e l ’essere qualificato. Infatti soggiace alle qu alità poste in se ste ssa e pertanto è d etta soggetto»
(H adot, Porfirio e Vittorino, cit., 453).
E ssenza, sostanza, sussistenza, esistenza 37

ses. Mais pour le mieux entendre il faut observer qu’en notre langue française nous
n’avons point de term e qui réponde énergiquem ent au latin existentia, qui signifie la
nue entité, le sim ple et nu être des choses sans considérer aucun ordre ou rang qu’el­
les tiennent entre les autres. Mais le mot essentia, que nous pouvons bien dire essen­
ce, m arque la nature de la chose, et par ainsi quel ordre ou rang elle doit tenir entre
les autres choses. Par exemple, quand je dis que l’homme est, c’est autant à dire, qu’il
a son acte, qu’il est dis-je actuellem ent: et en cela je ne m arque rien que sa nue enti­
té et simple existence. Mais quand je dis que l’homme est un anim al raisonnable, je
déploie et m anifeste toute son essence et nature, et lui attribuant son genre et sa dif­
férence il est aisé à voir qu’il est en l’ordre de la catégorie de substance sous le genre
d’anim al»25.

[1] La «metafisica» di Porfirio: l’essere-agire senza soggetto

Questa stessa distinzione hyparxis-ousia corrisponde anche all’uso di Damascio


(462-538). Facendo perno sull’etimologia, Damascio interpreta hyp-arxis [Fjt-
apijic;] come «primo cominciamento, presupposizione, fondamento della sostan­
za»:

f| uitap|iç, oie òqUil xò ovoli//., xf)v Jtpcóxqv ùp'/qv òq// il xfjç ùitoaxâaEcoç ÈKcîaxqç,
oïov xiva 0epÉXiov q olov ’Éôa(|)oç itpoüitoxi0ÉpEvov xqç oXqç %cù itâaqç oucoôopq-
a ecoç
«l’hyparxis, come indica il suo nome, designa il principio primo di ciascuna ipostasi:
è comme une base o come un fondamento anteriorm ente posto sotto la totalità della so­
vrastruttura e sotto ogni sovrastruttura»26.

Come nota lucidamente Pierre Hadot, più che di hyparxis, «esistenza», qui si

25 S. D upleix [1569-1661], La M étaphysique ou science surnaturelle, P aris 1610; rist. d e ll’ed. 1640, a
cu ra di R. Ariew, «Corpus des œ uvres de philosophie en langue française», Fayard, P aris 1992, 127-128:
«È d u n q u e certo che tra l ’esistenza e l ’essenza delle cose c’è u n a notevole differenza. M a per inten d erla
meglio bisogna osservare che nella nostra lingua francese non abbiam o alcun term ine che corrisponda in
m an iera del tutto p ertinente al latino existentia, che significa la n u d a entità, il sem plice e nudo essere d el­
le cose, senza considerare m inim am ente l ’ordine o la posizione che occupano fra le altre. Ma il term ine
essentia, che possiam o dire essenza, in d ica la n atu ra della cosa e, in tal modo, l ’ordine e la posizione che
essa ricopre tra le altre. P e r esem pio, quando dico che l’uomo è, ciò equivale a dire che egli è in posses­
so del proprio atto, che è —dico —attualm ente: in ciò non segnalo altro se non la su a n u d a entità e la su a
sem plice esistenza. Q uando, invece, dico che l ’uomo è u n anim ale razionale, esplicito e m anifesto in te­
ram ente la su a essenza e la su a natura; e, attribuendogli il suo genere e la su a differenza, è facile vedere
che è n ell’ordine d e lla categoria d ella sostanza sotto il genere di anim ale».
26 D amascius, D ubitationes et solutiones de prim is principiis in P arm enidem , 2 voll., éd. C.-E. R u e l­
le, Im prim erie n ationale, 1889 (réimpr. B ruxelles 1964, A m sterdam , 1966), § 121, t. 1, p. 312, 15 =
Traité des premiers principes, 3 voll., ed. L.G. W esterink, traduction française par J. Com bès, Les Belles
L ettres, P aris 1986-1991, t. 3, 152, 19-22 (trad. mod.).
38 Jean -F ran ço is Courtine

dovrebbe parlare di «preesistenza». Nella sua semplicità, prima ancora di rin­


viare alla composizione della «sostanza», Yhyparxis rinvia all’Uno27.
È questa, in effetti, la tesi che spiega la definizione dell’esistenza formulata
da Vittorino: «praeexistens subsistentia»28 - ciò che Pierre Hadot traduce con
«il fondamento iniziale preesistente alla cosa stessa»29. S’impone qui la retro­
versione: prouparchousa hypostasis [rtpomdpxouoa ìmóaxaaic;]30. Pierre Hadot
commenta: «...è l’“Uno” di ogni cosa, la sua esistenza, lo stato in cui la sostan­
za è ancora essere puro, non determinato e non sviluppato. [ . ] esistenza e pree­
sistenza tendono a confondersi: si può dire che la sostanza preesiste a se stessa
nell’esistenza, che è il suo stato di unità e di semplicità trascendenti»31. Per
comprendere l’emergenza ed il successo delle traduzioni divenute usuali - esi-
stenza/essenza-sostanza - bisogna quindi ipotizzare un completo rovesciamen­
to, operato dal neoplatonismo in generale, e più in particolare dalla «metafisi­
ca» di Porfirio, della distinzione e della gerarchizzazione stoiche: per gli Stoici,
l’ente, to on [xò òv], to einai [ ] (solitamente tradotto con l’esistenza, l’esi­
stere), rinviava alla pienezza ontologica di ciò che è realmente presente, come un
corpo, mentre Yhyparxis, Yhyphistanai [ò^ioxdvoa] (solitamente tradotto con la
sussistenza, il sussistere) non designava che una realtà secondaria, quella che ap­
partiene all’incorporeo, caratteristica del predicato, del temporale, dell’acci­
dentale32.
Così l’originalità di Porfirio, non tanto in riferimento a Plotino quanto piutto­
sto rispetto allo stoicismo, è consistita sul piano ontologico nel rifiuto della di­
stinzione einai-hyphistanai e nell’identificazione delYhyparxis con l’«essere pu­
ro e semplice» [ ]: il che porta a considerare —questa volta contro
Aristotele - il verbo essere, nella sua funzione di copula, come un verbo piena­
mente significante e non semplicemente «co-significante», come un verbo es­
senzialmente attivo, che dice puramente e propriamente l’attività d’«essere»,
ousia-energeia [èvépyeia], quella dell’essenza pura, considerata nella sua più
grande indeterminazione. Rispetto alla tesi aristotelica del De interpretatione il
rovesciamento è completo:

ov yàp xò eÏ vcu ì] ut] eÏ vcu ut] ueIÓv fe ra xof) xpce'uc/.xoc, ovÒ’èàv xò ôv eijtijç <|>L/.óv
cdixò pèv yàp otjòÉv éaxiv, itpoaar|palvE i cróv0Ecnv x iv a ...2789301

27 D amascius, Traité des premiers principes, t. 2, 76, 22 - 77, 1.


28 M arius V ictorinus, Adversus A rium , I, 30, 21-25, in H adot, Porfirio e Vittorino, cit., 452, testo 23.
29 H adot, Porfirio e Vittorino, cit., 236, n. 155.
30 D amascius, Dubitationes et solutiones cit., § 34, t. 1, 66, 22 = Traité des premiers principes, t. 1,
1 0 0 ,1 3 -1 4 .
31 H adot, Porfirio e Vittorino, cit., 236.
32 Cfr. H adot, Porfirio e Vittorino, cit., 431.
E ssenza, sostanza, sussistenza, esistenza 39

«Infatti, l’essere o il non essere non è segno della cosa, neppure se si dica essente sen­
za aggiungere altro. Infatti, per se stesso non è nulla, m a significa in più una certa con­
giunzione»33.

Segnaliamo en passant —e si tratta di un punto rivelatore del cambiamento dei


significato dei termini greci —che Michele Psello (XI secolo) parafrasa come se­
gue il primo passo citato:

oi’òl yàp o r]u rlò Êcra xoiï Jtpctypaxoç xà prpraxa xoi) f ’xóp'/ELV, i] uf] cxc/.p/cru
«infatti, i verbi “essere/esistere” , “non-essere/non-esistere” non sono segno di alcuna
cosa»34.

Per questa ragione P. Hadot può ancora osservare sinteticamente: «Non c’è quin­
di distinzione nell’ontologia porfiriana tra l’esistenza e l’essenza. L’essere è in­
dissolubilmente agire e idea. L’opposizione fondamentale è qui quella che si in­
staura tra l’essere, agire senza soggetto, e l’ente, che è il primo soggetto, la pri­
ma forma che risulta dall’essere»35.
Se si accetta —come facciamo noi qui —l’attribuzione a Porfirio del «fram­
mento di Torino», pubblicato per la prima volta da Kroll nel 1892 e considera­
to da P. Hadot come un commento al Parmenide36, allora sarà opportuno sottoli­
neare l’effettiva audacia del suo autore, il quale, assumendo una posizione de­
cisamente non plotiniana, identifica l’Uno puramente Uno con l’essere. Si trat­
ta di una identificazione senza alcun dubbio inammissibile per Plotino (204­
270), ma che implica anche una profonda ridefinizione dell’essere (to einai [xò
eivoa] = to energein [xò évepyeiv]), considerato in un senso attivo e distinto rigo­
rosamente dall’ente. Ricordiamo il passaggio-chiave di questo frammento:

"Opa ÒÈ Llf] x a i (ÙVL(KTOUÓVO) eoikev Ò I I/.(/.XO)V, 0X1 xò EV xò ÈltÉKElVa of’ai(/.C KCÙ


ôvxoç òv pÈv otjk ’É axiv OTJÔÈ oxiaia oxjô'e ÈvépyEia, ÉvepyeXò'e pàXXov rccù cróxò xò è-
VEpveI v 7_(/.0(/.piiv, cooxe rccù c’tuxò xò eI vcu xò itpò xoiî ôvxoç- ov UEX(/.a'/òv xò ev
è§ a v r o v Ê/EL Èkk/. lvÓuevov xò eI vcu, òitEp Èaxi uexÉ / elv ôvxoç. "Q oxe Òixxòv xò
Y \ \ .. t \ o \ « » t ■> ~ W ~ ■) t t
-
\ ~ Y »/ \ > \^ \(» ’ o' ~ w V \ »/« «
VOÇ TOH £LVai OVTOÇ TO CtJTOÀHTOV K ai coajtup to sa TOH OVTOÇ, OH pXTaCT/OV ClkkO TI £V
yéyov£V, co anÇnyov to a jt’aHTOH £jTu()£pój.i£vov eivai* cbç £i voi^cmaç A£hkov elvcu

33 A RISTOTELES, De Int., 16b 22-24 (trad. it., Organon, vol. I, 225). Cfr. anche A RISTOTELES, An. Post.
II, 7, 92b 13-14 (trad. it. m odificata, in Organon, cit., vol. II, 84): « [Ma
l’essere non è la p roprietà (l’essenza) per n essu n a cosa]».
34 M ichael P sellus, Paraphrasis, fol. M. iiv, z 13f, citato in A RISTOTELES, Peri Hermeneias, übersetz
u nd erlau tert von H. 84.
35 H adot, Porfirio e Vittorino, cit., 432.
36 P. H adot, F ragm ents d ’un commentaire de Porphyre sur le P arm énide, in P lotin, Porphyre. Études
néoplatoniciennes, Les B elles L ettres, «L’âne d ’or», P aris 1999, 281 sgg.
40 Jean -F ran ço is Courtine

«Guarda ora se Platone non sem bra lasciar intendere un insegnam ento nascosto, e cioè
che l’Uno, che è al-di-là della sostanza e dell’Ente, non sia né Ente, né sostanza, né
atto, ma piuttosto agisca e sia lui stesso l’agire puro; di conseguenza lui stesso sareb­
be l’E ssere che è prim a dell’Ente. È partecipando di questo Essere, dunque, che il se­
condo Uno riceve da questo E ssere un essere derivato, e questo è il “partecipare del­
l’E nte” . In questo modo l’essere è duplice: il primo preesiste all’Ente, il secondo è
quello che è prodotto dall’Uno che è al-di-là dell’E nte e che è in assoluto esso stesso
l’E ssere ed è in qualche modo l’idea dell’Ente. Partecipando di questo Essere è stato
generato un altro Uno, e ad esso è abbinato l’essere [secondo] prodotto da questo E s­
sere [primo]. Come se tu pensassi “essere bianco” »37.

g. «Esistere»: essere al di fuori delle proprie cause e del nulla -


essere creato

Anche se ad Anselmo (1033-1109), nel capitolo 2 del Proslogion, capita di con­


cludere a suo modo che «Existit ergo procul dubio aliquid quo magis cogitari
non valet, et in intellectu et in re»38 —a rigor di termini l’esistenza non spetta
mai a Dio, ma solo alla creatura, della quale è quasi ridondante affermare che
esiste. Prima di esistere, essa è dotata unicamente di un essere essenziale (esse
essentiae) che appartiene al possibile e tradisce, più o meno, un’«aptitudo ad exi-
stendum», un’«esigenza di esistenza». Come sottolinea, ben prima di Christian
Wolff (1679-1754), Egidio Romano (1247-1316) —quello stesso pensatore che,
dopo Tommaso d’Aquino, introduce per la prima volta la distinzione esplicita
dell’essenza e dell’esistenza —, l’esistenza è allora proprio un «complemento»
dell’essenza39:

«[...] quaelibet res est ens per essentiam suam; tam en quia essentia rei creatae non
dicit actum completum sed est in potentia ad esse, ideo non sufficit essentia ad hoc
quod res actu existat nisi ei superaddatur aliquod esse quod est essentiae actus et com­
plementum. Existunt ergo res per esse superadditum essentiae vel naturae. P atet ita­
que quomodo differat ens per se acceptum et existens»40.

37 In H adot, Porfirio e Vittorino, cit., t. 2, 104, 22 - 106, 35; trad. it. di G. Girgenti (qui m odificata)
in P ORFIRIO, Comm entario al «Parm enide» di P latone, a cu ra di P. H adot, P resentazione di G. R eale, Vi­
ta e P ensiero, M ilano 1993, 90-91.
38 A NSELMUS CANTUARIENSIS, Proslogion, in Opera O m nia, 6 voll., ed. F.S. Schm itt, S eckau 1938 (vol.
I) e R om a - E dim burgh 1946-1961 (vol. II-VI), vol. I, p. 102, 2-3; trad. it di I. Sciuto, M onologio e Pros-
logio, Bom piani, «Testi a fronte», M ilano 2002, 319: «D unque ciò di cui non si può p ensare il maggiore
esiste, senza dubbio, sia n ell’intelletto sia n ella realtà».
39 Cfr., a questo proposito, il «dossier» m esso a punto d a A lain de L ibera e Cyrille M ichon, in T ho­
mas d’A quin / D ietrichDE F reiberg, L Ê tre et lEssence. Le vocabulaire m édiéval de Vontologie, traduction
française et com m entaire p a r A. de L ibera e t C. M ichon, Seuil, P aris 1996, 207-244.
40 A egidius R omanus, Theoremata de esse et essentia, ed. E. H ocedez, X III, 83: « .q u a l u n q u e cosa è
ente in virtù d ella su a essenza; tuttavia, poiché l ’essenza d ella cosa creata non esprim e un atto com pleto,
E ssenza, sostanza, sussistenza, esistenza 41

Ciò che esiste dunque, come aveva indicato Riccardo di san Vittore, esiste (ex­
sistit) in rapporto ad un’origine (origo), a un ex...; ciò che esiste - come diran­
no, quasi facendo a gara, Tommaso de Vio, il Gaetano (1469-1534) e Suarez
(1548-1617) - esiste «extra suas causas et extra nihilum»41, per cui «id quod
realiter existit extra causas suas est ens reale»42. Anche per questa ragione si
può dire, con Leibniz, che forgia il termine, che Dio è «existentificans» e che le
essenze implicano un existiturire, un’esistenza che deve ancora accadere ed es­
sere ratificata. Il possibile porta in se stesso il proprio essere futuro:

«Est ergo causa cur E xistentia praevalet N on-Existentiae, seu Ens necessarium est
EXISTENTIFICANS. —Sed quae causa facit ut aliquid existat, seu ut possibilitas exigat exi-
stentiam, facit etiam ut omne possibile habeat conatum ad Existentiam , cum ratio re ­
strictionis ad certa possibilia in universali reperiri non possit. —Itaque dici potest Om­
ne possibile EXISTITURIRE, prout scilicet fundatur in E nte necessario actu existente, si­
ne quo nulla est via qua possibile perveniret ad actum ».43

III. «Essentia», «ous^a» —«essentia», «substantia»

a. «Ous^a»-«essentia»: un calco?

C.H. Kahn ha stabilito, sulla base di un ricco materiale documentario, che il


termine ousia, già attestato all’epoca di Erodoto, rimanda sempre ai composti
(presenti in Eschilo, per esempio) parousia-apousia [rtapouaia-àjtouaia],
«presenza-assenza». Aggiungiamo che è questa accezione fondamentalmente
temporale a costituire l’unità del termine, per cui esso designa, nel suo signifi-

bensì u n a potenza <rispetto> a ll’essere, l’essenza non è sufficiente a far sì che la cosa esista attualm en­
te, se non le viene aggiunto un certo essere, che è l ’atto e il com plem ento d ell’essenza. Le cose, quindi,
esistono in virtù di un essere che si aggiunge all’essenza o a lla natura. Così, è m anifesto in che modo dif­
feriscano l ’ente, considerato in se stesso, e l ’esistenza».
41 T homas DE V io [Caietanus], In De ente et essentia D. Thom ae A quinatis Com m entaria, ed. M.H.
L aurent, M arietti, Torino 1934, IV, 59, 92: « . a l di fuori delle sue cause e del nulla».
42 F. S uàREZ, Disputationes m etaphysicae, in Opera om nia, t. 25-26, ed. C. Berton, Vivès, P aris 1866
(repr., Olms, H ild esheim 1965), X X X I.6.21-22 (t. 26, 249): «ciò che esiste realm ente al di fuori delle sue
cause è un ente reale».
43 G.W. L EIBNIZ, Die Philosophischen Schriften, hrsg. v. C.I. G erhardt, B erlin 1875-1890 (repr. Olms,
H ild esh eim 1971), Bd. VII, 2 8 9 (Philosophische A bhandlungen, § VIII): «V’è d unque u n a cau sa per cui
l’E sisten za prevale su lla non-E sistenza, ovvero: l ’E nte necessario è esistentificante. —M a q u ella cau sa che
fa sì che qu alco sa esista o che la possibilità esiga l ’esistenza, fa sì che ogni possibile ab b ia u n a tensione
all’E sistenza, poiché, in generale, non è possibile trovare u n a ragione p e r lim itarla a certi possibili. —Si
può dire, pertanto, che Ogni possibile è un esistente fu tu ro , in quanto si fonda n ell’E nte necessario esi­
stente in atto, senza il quale non vi sarebbe alcun mezzo che faccia pervenire il possibile a ll’attualità»
(trad. it. m odifificata in G.W. L eibniz, Scritti filosofici, a cu ra di D.O. B ianca, 2 voll., U tet, Torino 1967,
vol. 1, 228).
42 Jean -F ran ço is Courtine

cato comune, il «bene», la «proprietà», il «fondo» (come nel caso del tedesco
Anwesen) e, in senso filosofico, l’«essenza» di qualcosa, vale a dire «ciò che la
cosa è» e «la-cosa-che-è»: nel Fedone (78c-d), per esempio, \,ous^a è ciò di cui
si dà un logos, ciò di cui si deve render conto in quanto tale, ma anche l’ente (to
on), e persino l’insieme degli esseri (pasês ous^as [xdo^ç obolaç], Repubblica
486a) e ciò che è la cosa stessa (auto hekaston ho esti [aùxò eKaaxov o ecm]),
tutto ciò che è, in se stesso, al di là dei suoi molteplici aspetti e delle sue mani­
festazioni e al di là delle diverse affezioni (pathê [xd0r|]) che possono sopravve­
nire come dall’esterno.

1. Com’è noto, al principio del trattato sulle Categorie, Aristotele distingue


due accezioni dell’ousta: l’essenza prima come «individuo [tode ti (xóòe xi)]»
(«Sostanza è quella detta nel senso più proprio e in senso primario e principal­
mente, la quale né si dice di qualche soggetto né è in qualche soggetto: ad esem­
pio, un certo uomo o un certo cavallo»44) e l’essenza seconda come «specie» o
«genere» («Invece sono dette sostanze seconde le specie nelle quali esistono
quelle che vengon dette sostanze in senso primario; queste ed i generi di queste
specie»45). Una delle classiche difficoltà dell’esegesi aristotelica, su cui non ci
soffermeremo in questa sede, dipende dal fatto che in altri luoghi del corpus, e
in particolare in Metafisica, Z, 3, Aristotele ricusa come «insufficiente» l’iden­
tificazione dell’ousta al «soggiacente» (hypokeimenon: «ciò di cui sono dette tut­
te le altre [determinazioni]»46) e definisce l’essenza prima in termini di forma
(morphê [pop^], eidos [elôoc;]): «eiôoc; ôe Xeym xò xi rjv eivoa kocl xr^v Jtpróxr|v
obolav [chiamo eidos (specie, forma) la “quiddità”, vale a dire l’essenza pri­
ma]»47.
2. Se mai i romani hanno cercato un calco erudito per rendere nella loro lin­
gua l’«ous^a» greca dovremmo pensare che sono stati i termini essentia o *entia
quelli che più spontaneamente son venuti loro in mente. Ipotesi peraltro confer­
mata da una lettera di Seneca (2-66) (Lettere, 58, 6), che attribuisce la paterni­
tà del primo termine a Cicerone (106-43 a.C.). Questa attribuzione, tuttavia, è
controversa, non solo perché il termine non compare in alcun luogo delle opere
di Cicerone che ci sono pervenute - e neppure nei frammenti della sua tradu­
zione del Timeo, ove Yous^a platonica è tradotta in diversi modi, ma mai con il
termine essentia - ma soprattutto perché tale attribuzione viene contraddetta da
testimoni rilevanti come Quintiliano (35-100) e Agostino (354-430).

44 A ristoteles, Cat., 2 a 11-13 (trad. it. in Organon, cit., vol. I, 183).


45 A ristoteles, Cat., 2 a 14-16 (trad. it. in Organon, cit., vol. I, 184).
46 A ristoteles, M etaph., 1028b 36-37.
47 A ristoteles, M etaph., 1032 b 1-2.
E ssenza, sostanza, sussistenza, esistenza 43

a. Quintiliano attribuisce infatti la creazione del termine a un certo Sergius


Plautus, autore a dire il vero poco conosciuto, appartenente alla corrente stoica
intorno al I secolo d.C. (cfr. De institutione oratoria, II, 42, 2). Quintiliano evo­
ca in questo passo le differenti traduzioni che sono state proposte per il termine
greco rhêtorikê (p^TopiKT]) (oratoria-oratrix) e prosegue poi con un’osservazione
più generale:

«Quos equidem non fraudaverim debita laude quod copiam Romani sermonis augere
tem ptarint. Sed non omina nos ducentes ex Graeco secuntur, sicut ne illos quidem quo­
tiens utique suis verbis signare nostra voluerunt. [3] Et haec interpretatio non minus
dura est quam illa Plauti essentia et queentia, sed ne propria quidem »48.

Ma si veda anche un altro passo dal De institutione oratoria:

«Ac primum Aristoteles elem enta decem constituit, circa quae versari videatur omnis
quaestio: o v o ia v quam Plautus essentiam vocat»49.

b. Sant’Agostino, che introduce definitivamente nell’uso della lingua latina


il termine essentia, alla fine del IV secolo, non manca mai ricordare che si trat­
ta di un nome nuovo (novo quidem nomine), ancora ignoto agli autori più antichi
(De moribus Ecclesiae et de moribus Manichaerum, II, 2, 2; De civitate Dei, XII,
2). Si possono certamente riscontrare alcune occorrenze di essentia nei testi che
ci sono pervenuti, tra Quintiliano e sant’Agostino; in ogni caso, però, l’accezio­
ne del termine o resta ancora ampiamente indeterminata, come testimonia, per
esempio, la quasi costante esitazione tra substantia ed essentia, oppure tende più
o meno nettamente verso il significato specificamente agostiniano del termine,
sul quale torneremo.

48 Marcus Fabius Q uintilianus, Institutiones Oratoriae, 2 voll., ed. M. W interbottom , Oxford 1970
(d’ora in avanti Institutiones Oratoriae), II, 14, 1-2 (vol. I, 104, 7-13): «Ad essi non m ancherò di porgere
la dovuta lode p er aver tentato di arricchire il vocabolario latino: m a quando deriviam o dal greco, non
sem pre riusciam o a trovare le parola adatte, così com e avviene anche per i Greci ogni volta che cercano
di dare la loro im pronta lin g u istica a nostre parole. [2] Ora codesta traduzione non solo non è m eno dura
di q u ella che Plauto fece coniando essentia e queentia, m a è anche im propria» (trad. it. di R. F aran d a e
P. P ecch iu ra, l'Istituzione Oratoria, 2 voll., U tet, Torino 1979, vol. I, 281). —A proposito di q u est’ultim o
term ine, queentia, sufficientem ente oscuro, osserviam o che probabilm ente si è seguita la correzione ri­
p ortata d a u n m anoscritto: atque entia.
49 Quintilianus, Institutiones Oratoriae, III, 6, 23 (vol. I, 146, 16-18); UIstituzione Oratoria, vol. I,
367: «Fu A ristotele a fissare p e r la prim a volta dieci elem enti, sui quali sem bra vertere ogni questione:
la ousia, che Plauto rende con essen tia ...».
44 Jean -F ran ço is Courtine

b. «Essentia» e/o «substantia»? Il corpo della sostanza

1. Tradurre l’«oùata»

1. Il termine essentia fa la sua apparizione precisamente con Apuleio (seconda


metà del II secolo), nelle cui opere i termini essentia e substantia vengono uti­
lizzati, in maniera apparentemente indifferente, per tradurre Yousia platonica.
In realtà, però, le cose sono un po’ più complesse: nel suo De Platone, per esem­
pio, Apuleio pone esplicitamente l’equivalenza ousia = essentia: «[...] otjcdac;,
quas essentias dicimus...»; ma lo fa per sostituirvi, a partire dal paragrafo suc­
cessivo, il termine substantia. Apuleio propone di tradurre ousiai [oùcdoa] con
essentiae, e sviluppando la più classica delle distinzioni platoniche egli oppone
due differenti tipi di realtà e due corrispondenti modi d’essere («duo eidê tôn on-
tôn [ôuo eïôri tc5v ovtcov]»)50: l’essenza propriamente detta, quale si offre allo
sguardo puro della mente e si lascia concepire dalla sola cogitatio, e la realtà
sensibile che non ne è altro che l’ombra e l’immagine (umbra e imago).

«O ûolaç, quas essentias dicimus, duas esse ait, per quas cuncta gignantur m undus­
que ipse; quarum una cogitatione sola concipitur, altera sensibus subici potest. Sed il­
la, quae m entis oculis conprehenditur, sem per et eodem modo et sui par ac sim ilis in ­
venitur, ut quae vere sit; at enim altera opinione sensibili et irrationabili aestim anda
est, quam nasci et interire ait. Et sicut superior vere esse memoratur, hanc non esse
vere possum us dicere»5051.

L’opposizione centrale, qui, è quella tra un vere esse e un non esse vere: solo l’«es-
senza» intelligibile merita quindi pienamente il titolo di essentia in virtù della
sua identità e della sua permanenza: «semper et eodem modo et sui par ac si­
milis invenitur, ut quae vere sit (come ciò che è in senso proprio)».
In un contesto siffatto la traduzione di ousia con essentia s’imponeva imme­
diatamente e quasi necessariamente. Tradurlo con substantia, infatti, avrebbe
obbligato a dire che, propriamente parlando, ossia secondo verità, ciò che può
cadere sotto i sensi a titolo di soggetto (sensibus subjici potest) non è una sostan­
za - ciò che contrasterebbe evidentemente con lo spirito stesso della lingua.

50 P lato, P haedo, 7 9 a 6.
51 A PULEIUS, De P latone et ejus dogm ate, V, 192-193, in Opuscules philosophiques et fra g m en ts, é d i­
tion, traduction française e t com m entaire par J. B eaujeu, Les B elles L ettres, P aris 1973, 65; «Platone
sostiene che vi sono due , che noi diciam o essenze, m ediante le quali tutte le cose e il m ondo ste s­
so sono generati. Di esse, u n a è co ncepita col solo pensiero e l’a ltra può cadere n el dom inio della se n si­
bilità. M a q u ella che è com presa con l ’occhio d ella m ente resta sem pre e allo stesso modo uguale a se
stessa, com e ciò che è veram ente; l ’altra, invece, di cui dice che nasce e perisce, deve essere valutata d a l­
l’opinione sen sib ile e irrazionale. E così com e ricorda che la prim a è veram ente, allo stesso modo pos­
siam o afferm are che q uesta <seconda> non è veram ente».
E ssenza, sostanza, sussistenza, esistenza 45

Apuleio, tuttavia, non esita a fare ricorso al lessico della sostanzialità nel mo­
mento stesso in cui cerca di esplicitare precisamente l’«essenzialità» di quel­
l’essenza intelligibile che è veramente. Lo spostamento gioca innanzitutto a fa­
vore dell’esame del secondo tipo di ousia. Quando Apuleio affronta la questio­
ne di questa «essenza» che non è veramente - la realtà che può cadere sotto i
sensi -, il termine substantia viene in effetti a completare l’essentia, per poi so­
stituirsi ad esso:

«Et primae quidem substantiae vel essentiae primum deum esse et mentem formas­
que rerum et animam; secundae substantiae, omnia quae inform antur quaeque gi­
gnuntur et quae ab substantiae superioris exemplo originem ducunt, quae mutari et
converti possunt, labentia et ad instar fluminum profuga»52.

Alcuni paragrafi prima, Apuleio aveva esposto l’insegnamento del Timeo a pro­
posito della materia: essa è ciò che precede i principi primi e gli elementi più
semplici (acqua, fuoco, ecc.) a titolo di materia prima:

«Materiam vero inprocreabilem incorruptam que commemorat, non ignem neque


aquam nec aliud de principiis et absolutis elem entis esse, sed ex omnibus primam, fi­
gurarum capacem , fictionique subjectam »53.

La materia precede ogni altra cosa nella misura in cui è capace ultimamente di
ricevere delle figure. Essa non è quasi niente, neppure un corpo, ma non per
questo è incorporea: «sine corpore vero esse potest non potest dicere, quod ni­
hil incorporale corpus exhibeat»54. Lo statuto della materia è pertanto essen­
zialmente ambiguo, poiché, non possedendo l’evidenza rilevante del corpo e non
cadendo sotto i sensi, non viene a far parte neppure delle cose che sono colte so­
lo dal pensiero (ea cogitationibus videri), e cioè di quelle cose che non sono do­
tate della sussistenza, della solidità o della stabilità che sono proprie dei corpi
(quae substantiam non habent corporum). Qui il legame substantia-corpus è ca­
pitale.

52 A puleius, De P latone et ejus dogm ate, V, 193, in Opuscules philosophiques cit., 65: «D ella prim a so­
stanza o essen za sono dio, la m ente, le forme delle cose e l ’anim a; d alla seconda sostanza sono tutte le co­
se che sono inform ate, che nascono e traggono origine d a l m odello d e lla sostanza superiore, tutto le cose
che possono m utare e trasform arsi, scivolando e fuggendo quasi com e un fium e che scorre».
53 A PULEIUS, De P latone et ejus dogm ate, V, 191, in Opuscules philosophiques cit., 64: «Egli ricorda
che la m ateria, invece, non può né essere creata né essere corrotta, che essa non è fuoco o acqua, e che
non coincide con nessuno dei principi e degli elem enti assoluti, m a che fra tutti è la prim a, capace di ri­
cevere delle figure e passibile di essere plasm ata».
54 A PULEIUS, De P latone et ejus dogm ate, V, 192, in Opuscules philosophiques cit., 64: «<Platone> non
intende nean ch e dire che essa può essere senza corpo, poiché n u lla di ciò che è incorporeo m ostra un cor­
po».
46 Jean -F ran ço is Courtine

Così, quando Apuleio vuole sottolineare la parentela ous^a-einai, parla di es­


sentia —ciò che è veramente —; ma quando egli intende il termine greco in quan­
to designa il modo d’essere (privilegiato in tutt’altro senso) di ciò che è corporeo
o sensibile, il concetto che gli si impone è naturalmente quello di sostanza. In
questo caso, «essere» può intendersi univocamente come substantiam habere,
«avere sostanza», e cioè avere un corpo, avere corpo, essere solido e stabile. È
in questo stesso orizzonte semantico che Apuleio può porre la tesi che rimarrà
direttrice: Quod nullam substantiam habet, non est, «Ciò che è privo di ogni so­
stanza, non è»55.
Questo passo del De Platone dedicato alla materia andrà accostato alla di­
stinzione stabilita da Cicerone nei suoi Topici (5, 27) tra le cose che sono e quel­
le che sono soltanto pensate (earum rerum quae sunt [...], earum quae intelli-
guntur):

«Esse ea dico quae cerni tangive possunt, ut fundum, aedes, parietem, stillicidium ,
mancipium, pecudem , suppellectilem , penus et c e t e r a . Non esse rursus ea dico quae
tangi dem onstrarive non possunt, cerni tam en animo atque intelligi possunt, ut si usus
capionem, si tutelam , si gentem, si agnationem definias, quarum rerum nullum subest
corpus, est tam en quaedam conformatio insignita et im pressa intelligentia, quam no­
tionem voco»56.

L’essere «reale» si definisce qui chiaramente come essere «sostanziale», come


nel caso del podere, della proprietà o della «dimora», dei mezzi di «sussisten­
z a » . —in opposizione a tutto ciò che non è dotato di un tale sostrato corporeo,
vale a dire del subesse che è proprio del corpo, e quindi in opposizione a quelle
cose «quae substantiam non habent corporum [che non hanno la sostanza dei
corpi]», come dirà Apuleio sviluppando completamente la logica dell’espressio-

55 A puleius, De philosophia liber, ed. P. Thom as, T eubner, Leipzig 1908: 3, 267.
56 M arcus T ullius C icero, Rhetorica, ed. A.S. W ilkins, «Oxford C lassical Textes», C larendon P ress,
Oxford 1903, 1957; vol. II, 5,27; trad. it. G. Galeazzo T issoni, Q ual è il m iglior oratore. Le suddivisioni
d e ll’arte oratoria. Ito p ic i, Arnoldo M ondadori E ditore, M ilano 1973, 210 e 212: «Dico esistere quelle co­
se che sono percettibili a lla vista e al tatto, come poderi, case, sgocciolio, servitù, bestiam e, arredam en­
to, scorte alim entari e ogni altra cosa del genere [ . ] D ico non essere quelle cose che non sono p ercetti­
bili al tatto e svelabili alla vista, m a che si possono e vedere e intendere con la m ente; così, se volessi d e ­
finire l ’usucapione, la tutela, il gentilizio, l ’agnazione; di tutte queste cose non esiste corpo [i.e. sostan­
za], e tu ttav ia u n a tal form a di essi è com e in sita e im pressa n e lla nostra intelligenza: q u ella che io ch ia­
mo nozione».
E ssenza, sostanza, sussistenza, esistenza 47

2. «Substantia a substare» (Seneca)

Il latino substantia, forgiato sul (ben attestato) verbo substare, appare per la pri­
ma volta in Seneca. Questa testimonianza relativamente tarda è in se stessa sor­
prendente, se per esempio si pensa alla moltitudine dei composti in -antia for­
giati a partire da stare (circumstantia, constantia, distantia, instantia, praestan­
tia, ecc.). Da questo silenzio dei testi non si possono tuttavia trarre argomenti
per concludere che si tratti di una creazione originale di Seneca: in effetti, quan­
do viene utilizzato, questo termine non comporta mai, diversamente da quanto
accade per il termine essentia, particolari spiegazioni o giustificazioni. È evi­
dente che si tratta di una parola della lingua corrente, anche se in Seneca essa
appare in contesti molto determinati, nei quali risulta generalmente facile met­
tere in luce una sotterranea concettualità stoica. Per esempio, nelle Quaestiones
naturales, là dove si parla dell’arcobaleno, si può leggere: «Non est ergo propria
in ista nube substantia, nec corpus est sed mendacium et sine re similitudo»57.
Attraverso l’opposizione, istituita da Seneca, tra propria substantia e menda­
cium, o anche tra res e similitudo, si riconoscono qui senza difficoltà i due ter­
mini hupostasis e emphasis [evocate;] (realtà/apparenza), che si ritrovano, per fa­
re un esempio, in un contesto esattamente simile, nel trattato pseudo-aristoteli­
co De mundo, e che diverranno usuali in questa dicotomia soprattutto a partire
da Posidonio. Vi si poteva leggere:

T(üv èv ctépi (|i((Vxa(Hi((T(i)Vx à uóv ècm rcctx’ £Li<p(/.«iv, x à ÒÈ rca0’ ìmóaxaaiv


«Fra i fenomeni celesti, gli uni sono solo apparenti, gli altri reali»58.

La questione che bisogna cercare di affrontare è però se l’opposizione istituita


da Seneca coincida esattamente con la distinzione stoica che la sottende, oppu­
re se il termine substantia rivesta di per sé un’accezione più specificamente la­
tina, che gli permetta di corrispondere nel caso presente alla costruzione stoica.
Interroghiamo in quest’ottica un altro passo di Seneca in cui si legge ancora una
volta - a quanto sembra - l’opposizione «semplice» e «tramandata» di substan-
tia/imago. Si tratta della celebre e già citata lettera 58 a Lucilio: è in questo me­
desimo testo che Seneca, basandosi sull’autorità di Cicerone, proponeva il neo­
logismo essentia come traduzione di ousia e spiegava quest’ultimo termine in ma­
niera abbastanza singolare come segue:

57 L ucius A nnaeus S eneca, Quaestiones N aturales, ed. A. G ercke, «B ibliotheca scriptorum G raeco­
rum et Rom anorum T eubneriana», Leipzig 1907 (rist. B.G. T eubner, S tuttgart 1970), I, 6, 4 (pp. 25, 12­
14); trad. it. (mod.) di D. Vottero, Questioni naturali, U tet, Torino 1989, 255: «In codesta nube dunque
non vi è né u n a sostanza specifica, né vi è un corpo, m a un’illusione e un’ap p arenza sprovvista di realtà».
58 [P s-A ristoteles], De M undo, 3 9 5 a 28.
48 Jean -F ran ço is Courtine

«Quomodo dicetur crncua —res necessaria, natura continens fundam entum omnium?
[come si renderà la parola a v o la , la cosa necessaria, la sostanza che ha in sé il fon­
damento di tutte le cose?»596012.

Dopo questo primo saggio di traduzione, al quale peraltro Seneca non si sentira
affatto legato, il nostro intraprende un’esposizione che è, a dire il vero, abba­
stanza ingarbugliata, perché in essa egli mette insieme la diairesis [òtaipeatc; ]
platonica, l’analisi categoriale di Aristotele e l’esame delle categorie stoiche. In
ogni caso, si tratta di mettersi in cerca di ciò che è primo, del genere supremo al
quale sono sospese tutte le altre specie: «Nunc autem primum illud genus quae­
rimus, ex quo ceterae species suspensae sunt, a quo nascitur omnis divisio, quo
universa conprensa sunt»60.
Questo genere primo (genusprimum et antiquissimus61) è innanzitutto defini­
to come «ente» (to on = quod est = ciò che è). Preso così, l’«ente» è al di là del
corpo (aliquid superius quam corpus), il quod est - ciò che è - è dunque suscet­
tibile di apparire indifferentemente come corporeo o come incorporeo. Per que­
sta ragione, aggiunge Seneca, gli Stoici hanno voluto sovrapporre al quod est un
altro genere supremo: genikôtaton genos [yeviKœxaxov yévoc;]62. Così Seneca
spiega le ragioni ultime della decisione degli Stoici:

«In rerum, inquiunt, natura quaedam sunt, quaedam non sunt, et haec autem, quae
non sunt, rerum natura complectitur, quae animo succurrunt, tanquam Centauri, Gi­
gantes, et quicquid aliud falsa cogitatione formatum habere aliquid imaginem coepit,
quamvis non habet substantiam »63.

59 S eneca, A d Lucilium epistulae morales, ed. A. B eltram i, 2 voll., impressio altera, R om a 1937, 58, 6
(vol. I, 205, 2 0 - 206,1); trad. it. di U. B oella, Lettere a Lucilio, Utet, Torino 1969, 31 9 (trad. mod.). Non
si resiste a q u e s ta ... traduzione, che reintroduce il term ine sostanza che S eneca aveva evitato!
60 Seneca, A d L ucilium epistulae morales, 58, 8 (vol. I, 206, 16-18); Lettere a Lucilio, cit., 321: «D un­
que, cerchiam o qu el prim o genere, d a cui dipendono le altre specie, da cui proviene ogni divisione, in cui
sono com prese tutte le cose».
61 S eneca, A d Lucilium epistulae morales, 58, 12 (vol I, 207, 14-15); Lettere a Lucilio, cit., 321: «il ge­
nere prim o e p iù antico».
62 Stoicorum Veterum Fragm enta, 4 B ande, ed. Johannes von Arnim , Leipzig, 1903-1905 (rist. Teub-
ner, S tuttgart 1964), III, 25 (p. 214). Cfr. anche A lexandri A phrodisiensis in A ristotelis Topicorum libros
octo Com m entaria, consilio et auctoritate A cadem iae L itterarum Regiae B orussicae, ed id it M. W allies, IV,
in C om m entaria in A ristotelem graeca, II, 2, B erlin, P reussische A kadem ie der W issenschaften, 1891,
301, 19, il quale afferm a che il q u id (= ti [xi]) è ancora p iù iniziale e costituisce m aggiorm ente un p rin ­
cipio (aliud genus m agis principale).
63 S eneca, A d L ucilium epistulae morales, 58, 15 (vol. I, 208, 16-21); Lettere a Lucilio, cit., 323: «N el­
la n atura, essi afferm ano, alcune cose sono, altre non sono; m a la n atu ra com prende anche quelle cose
che non esistono fuori d ella nostra im m aginazione e che si presentano al pensiero, com e i C entauri, i Gi­
ganti, e tutte le altre finzioni d ella fan tasia hanno preso ad avere u n a qualche apparenza, sebbene non a b ­
biano sostanza» (trad. mod.).
E ssenza, sostanza, sussistenza, esistenza 49

Da questo breve passo si può concludere che «le cose che sono» (to on versus to
hyphestos [to h^ecrcóc;]) sono precisamente nella misura in cui «hanno sostan­
za». «Avere sostanza (substantiam habere)» può e deve senza alcun dubbio es­
sere inteso come una traduzione o una spiegazione di ciò che significa «essere»
(esse). Essere: in verità, ciò non implica soltanto il fatto di essere una sostanza,
di essere sostanzialmente o secondo il modo della sostanza, ma comporta anche
il fatto di avere sostanza o di prendere sostanza («substantiam capere», Boezio), e
cioè di poter fare affidamento su una realtà corporea definita dalla sua stabilità
e dalla sua solidità.

3. «Substantiam habere» - «substantiam capere» («avere»,


«prendere sostanza»)

A questo proposito si può notare innanzitutto che, tenendo conto del carattere
stereotipato della locuzione latina habere substantiam, almeno nel passo citato,
più che al concetto ristretto di hypostasis, essa rinvia con maggiore probabilità
al verbo greco hyphistanai. Resta altrettanto certo che, per Seneca, la sostan­
zialità propria di ciò che è in senso pieno consiste nel fatto di avere un sostegno,
un sostrato o una base che assicuri consistenza e stabilità.
Di conseguenza, avere sostanza significa sempre supporre o presupporre un
corpo: qui il corpo dice in generale il fondo sul quale ogni cosa per essere deve
poggiare. Se essere implica l’avere-sostanza, ciò è dovuto al fatto che l’avere-so-
stanza esprime il possesso di un sostrato solido, la cui proprietà è appunto ga­
ranzia di consistenza e di permanenza.
Nel passaggio citato in precedenza tratto dalle Quaestiones naturales (I, 6, 4),
dopo aver ripreso - come abbiamo visto - la classica opposizione hypostasis/em­
phasis, Seneca aggiungeva: «Nobis non placet in arcu aut corona subesse aliquid
corporis certi»64.

4. «Substantia» - «corpus»

Si può pensare che un’espressione del tipo subesse corpus (un corpo sta alla ba­
se, sta a fondamento) deve aver giocato un ruolo determinante nell’apparizione
del termine substantia in ambito filosofico. - Per rendere esplicita questa con­
vergenza, s’impone un rapido passo indietro: abbiamo visto come nei Topici (5,

64 Seneca, Quaestiones N aturales, I, 15, 7; Questioni naturali, cit., 274.


50 Jean -F ran ço is Courtine

27) Cicerone distinguesse, attraverso un’analisi della definizione, due tipi di


«cose» (res): le cose che sono e le cose che sono pensate (res quae sunt —res quae
intelliguntur). Non sono veramente —affermava Cicerone —se non gli esseri con­
creti, a differenza delle entità astratte, private della realtà materiale: quibus nul­
lum subest corpus. Allo stesso modo nel De natura deorum (I, 105, 38), a propo­
sito della tesi secondo cui la «forma di dio» può essere colta solo col pensiero e
non con i sensi ed è sprovvista di qualsivoglia consistenza (speciem dei percipi
cogitatione non sensu, nec esse in ea ullam soliditatem), Cicerone domanderà
quanto segue: «Nam si tantum modo ad cogitationem valent nec habent ullam
soliditatem nec eminentiam, quid interest utrum de hippocentauro an de deo co­
gitemus [...] ?»65.
Non avere solidità, non avere corpo (con tutta naturalezza ci si aspetterebbe
qui un habere substantiam) significa non essere affatto, nel senso in cui l’ippo­
centauro è l’esempio stesso dell’inesistenza e dell’irrealtà (anuparxias para-
deigma [âvm ap^laç Jtapdôeiypa])66.
Ora, è come se il termine substantia, che trova qui la pienezza del suo signi­
ficato nelle espressioni composte del tipo substantiam habere, fosse finalizzato
ad elaborare tematicamente una comprensione immediata dell’essere come cor­
poreità, solidità, fondo. La sostanza, quindi, è propriamente ciò che sta alla ba­
se —id quod substat —,la realtà che sta sotto e sulla quale si può fare affidamento,
il fondamento che, sostenendolo ontologicamente, garantisce la sussistenza al­
l’ente che è veramente. Esplicitando la sostanzialità nel senso dell’«avere so­
stanza», Seneca dirà ancora che essa implica il possesso di un corpo proprio e
determinato (proprium, certum): «Aliquid per se numerabitur cum per se stabit
[Una cosa sarà considerata da sola, se starà da sola]»67.
Sin dalle sue prime occorrenze nell’uso «filosofico», il termine latino sembra
così comportare un’interpretazione specifica, una curvatura propria, che si rive­
la già sufficiente a mettere in dubbio l’ipotesi di un puro e semplice calco eru­
dito del termine hypostasis. La precomprensione implicata dal termine substan­
tia si fa ancora più manifesta se si considerano questa volta gli usi non tecnici
del termine. Contro l’ipotesi del «calco» si devono altresì notare i numerosi usi
di substantia in contesti significativi modesti, concreti e materiali, negli scritti
giuridici del II e III secolo, nei quali il termine conserva il suo antico significa-657

65 Marcus T ullius C icero, De natura deorum, 2 voll., ed. A.S. P ease, H arvard UP, C am bridge (Mass.)
1955 (ripr. W issenschaftliche B uchgesellschaft, D arm stadt 1968), 482; trad. it. di C. M arco, con testo la ­
tino a fronte, La natura divina, vol. 1, Rizzoli, M ilano 1998, 130-133.
66 S extus E mpiricus, Sexti E m pirici Opera, recen su it H. M utschm ann vol. I, L ipsiae 1912: editionem
stereotypam em endatam curavit, ad d en d a et corrigenda ad d id it I. M au, L ipsiae 1958; trad. it. di O. Te-
scari, Schizzi Pirroniani, a cu ra di A. R usso, L aterza, Bari 1988, 36.
67 Seneca, A d L ucilium epistulae morales, 113, 5 (vol. II, 204, 3); Lettere a Lucilio, cit., 893.
E ssenza, sostanza, sussistenza, esistenza 51

to di bene immobile, patrimonio, proprietà fondiaria, risorsa, mezzo di sussi­


stenza.
Nel De institutione oratoria, Quintiliano propone per la prima volta, e tema­
ticamente, di tradurre ous^a con substantia. Trattando delle figure e dell’orna­
mento che esse possono conferire al discorso, ma anche dei pericoli derivanti da
un loro uso smodato, egli scrive:

«Sunt qui neglecto rerum pondere et viribus sententiarum , si vel inania verba in hos
modos depravarunt, summos se judicent artifices ideoque non desinant eas nectere,
quas sine substantia sectari jam est ridiculum quam quaerere habitum gestum que si­
ne corpore»68.

Quintiliano evoca altrove le questioni che possono nascere da certi processi e


che nascono non in riferimento alla realtà di un fatto addotto o perseguito, ma in
riferimento all’identità di un individuo che del resto è ben noto:

«Così, si questionò contro gli eredi di Urbinia, se colui che richiedeva i beni come se
fosse suo figlio, fosse Figulo o Sosipatro. La sua sostanza [= esistenza] è di per sé co­
sì chiara (nam et substantia ejus sub oculos venit), che non ci si può chiedere se esista
(ut non possit quaeri an sit)...» 69.

È precisamente questo essere manifesto (sub oculos venire) ciò che è proprio del­
la «sostanza», la proprietà di ciò cui soggiace un corpo, la proprietà di ciò che
«ha sostanza» (substantiam habere).
Ci si può allora domandare se il termine substantia abbia mai «tradotto» il
greco ous^a, hypostasis, o se invece non sia basato - a favore, certo, di traduzio­
ni surdeterminate - su nuove determinazioni ontologiche, le stesse di cui la Ro­
mania, senza saperne granché, sarà l’erede.

5. La nozione di sostanza in Mario Vittorino

Nel suo Liber de definitionibus, Mario Vittorino presenta un’esposizione critica

68 Q uintilianus, Institutiones Oratoriae, IX, 3, 100 (vol. II, 100, 26 - 101, 3); L ’I stituzione Oratoria,
vol. II, cit., 337: «Ci sono alcuni che, senza essersi dati pensiero del peso dei fatti e d ella forza dei con­
cetti, se hanno guastato anche le parole di poco conto per farle diventare figure, si credono degli artisti
d ella paro la e perciò non cessano d ’in tre cciar figure: m a il guaio è che andarne in cerca senza darsi cura
d ella sostanza è tanto ridicolo, quanto darsi pensiero dei gesti e d ell’aspetto esteriore senza preoccupar­
si d el corpo».
69 Q uintilianus, Institutiones Oratoriae, VII, 2, 4-5 (vol. II, 379, 6-11); U lstituzione Oratoria, vol. II,
cit., 39.
52 Jean -F ran ço is Courtine

della dottrina ciceroniana dei due generi di definizione: la distinzione operata


da Cicerone si basa sull’opposizione stoica delle cose corporee e delle cose in­
corporee (Topiques, V, 26-27) e tende ad accusare d’irrealtà tutto ciò il cui esse­
re non rimanda in ultima istanza ad un supporto corporeo (secondo la termino­
logia stoica: subesse corpus - ta ontôs hyphestota [xà ovxcoc; ù^eaxcoxa]). Per ro­
vesciare - e confermare - l’esposizione di Cicerone, a Vittorino basta introdur­
re il termine substantia, estraneo rispetto al testo ciceroniano, e allargare, al di
là della pura e semplice corporeità, la relazione che fonda la sostanzialità. Per­
tanto, il corpo diventa solo un caso particolare, anche se empiricamente privile­
giato, di ciò su cui ci si può fondare come su un soggetto o un sostrato:

«Quamquam Tullius aliter in eodem libro Topicorum ait esse duo genera definitionum:
primum, cum enim id quod est definitur; secundo, cum id quod sui substantiam non
habet, hoc est quod non est; et hoc partitionis genus in his quae supra dixi clausit et
extenuavit. Sed alia esse voluit quae esse dicebat, alia quae non esse. E sse enim d i­
cit ea quorum subest corpus, ut cum definimus quid sit aqua, quid ignis; non autem
esse illa intelligi voluit quibus nulla corporalis videtur esse substantia, ut sunt pietas,
virtus, libertas. Sed non omnia ista, vel quae sunt cum corpore vel quae sunt sine cor­
pore, si in eo accipiuntur ut aut per se esse aut in alio esse videantur, in uno genere
num eranda dicimus: ut ista omnia esse intelligantur quibus omnibus sua potest esse
substantia, sive illae corporales sive, ut certissimum est et recto nomine appellari pos­
sunt, qualitates»70.

Dopo aver introdotto come ovvio il termine substantia nel suo riassunto dell’a­
nalisi ciceroniana, tutto lo sforzo di Vittorino consiste nel dissociare corporeità
e sostanzialità. Per quanto ci riguarda - egli dice - , dal momento che conside­
riamo tutte le cose «in quanto appaiono essere per sé o essere in altro», bisogna
che le rubrichiamo sotto un unico e medesimo capitolo, quello della sostanza.
Sono in senso proprio tutte le cose per le quali può esserci sostanza, o meglio

70 E d. Stangl, p. 12, 7-20 = P. H adot, M arius Victorinus. Recherches sur sa vie et ses œuvres, É tudes
A ugustiniennes, P aris 1971, A ppendice III, 342: «Nel libro V dei Topici, C icerone da parte su a dice che
vi sono due generi di definizione: il primo, quando si definisce ciò che è, il secondo quando si definisce
ciò che non possiede un a sostanza propria, o detto altrim enti, ciò che non è; e cerca di circoscrivere q u e­
sto genere di definizione a partibus e di lim itarne la portata, com e ho m ostrato in precedenza. Egli vuole
distinguere tra le cose che, com e egli dice, sono, e quelle che, com e egli dice, non sono. Egli afferm a che
le cose alle quali soggiace un corpo, sono, com e quando per esem pio definiam o quello che è l ’acq u a o
quello che è il fuoco. Al contrario, egli vuole che si considerino com e non essenti le cose che non sem ­
brano possedere alcu n a sostanza corporea, quali la pietà, la virtù, la libertà. Di contro, noi diciam o che
tutte queste cose - siano con o senza il corpo - vanno rubricate sotto un unico genere (quello d ell’essere,
vale a dire d ella sostanzialità), se solo le si considera in ciò che sem brano essere di per sé o che sem bra­
no essere in un altro. B isogna dunque capire che sono tutte queste cose che possono sem pre avere un a
sostanza propria, sia perché sono corporee, sia perché sono delle qualità, come è determ inato in m aniera
certissim a e com e possono essere legittim am ente definite».
E ssenza, sostanza, sussistenza, esistenza 53

«sostanza propria»; poco importa che la sostanza designi immediatamente il sub­


stare e il subesse del corpo o secondariamente il sostrato sul quale si basa una
«qualità». «Essere-per-sé» significa essere sostanza, mentre «essere-in-altro»
vuol dire essere a titolo di qualità in una sostanza, la quale diviene così per la
qualità in questione come il suo corpo, la sua sostanza propria. Questo è l’uso di
substare che si ritrova in Boezio (480-524), in particolare nel cap. 3 del Contra
Eutychen et Nestorium, e che si può esplicare nel senso di «procurare un sog­
getto a tutte le altre cose intese come accidenti, perché possano essere», «so­
stenerle», nel loro «essere soggetto» [«être subjecté»]71.

«È “sostanza” (substai) ciò che fornisce (subministrat) agli altri accidenti [i.e. a tutto
il resto a titolo di accidente] un certo soggetto (subjectum), affinché possano essere (ut
esse valeant); infatti, soggiace ad essi (sub illis enim stat), poiché è soggetto per gli ac­
cidenti (subjectum est accidentibus)»72.

Di queste formulazioni si ricorderà certamente Suarez, quando a sua volta note­


rà, rinviando all’«etimologia» di substantia: «Substare enim idem est quod aliis
subesse tanquam eorum sustentaculum et fundamentum, vel subiectum... [es­
sere sostanza, infatti, è la stessa cosa che essere soggiacente ad altre cose, a ti­
tolo di sostegno e fondamento o di soggetto»73.

[2] «Esistenza» e «sussistenza»: la strategia stoica

Seguendo gli Stoici, Cicerone nei Topici opponeva l’essere vero (sostanziale) dei
corpi e l’essere «fittizio» (to hyphestos, kat’ epinoian psilên hyphistasthai [xò ì>-
(|)80xôç, kocx’ ejuvoiav ipiÀriv i>(|)iaxaa0oa]) delle nozioni (ennoêmata [èwor|pa-
xa]): «[...] 8vvot)pa ôé eoxi (|)dvxaopa ôiavolaç, enixe xi ov cnixe jtolov, ròaavei
ôé xi Koa ròaavei jroióv... [Un concetto o nozione è un fantasma del pensiero,
che non è né qualcosa, né qualcosa di qualificato, ma quasi-qualcosa e quasi-
qualcosa di qualificato]»74.

71 Cfr. A. DE L ibera, O v a ta , o v a ta ) a tç, v jio a r a a tç nel Contra E uthychen, in U Art des généralités.
Théories de l ’abstraction, Aubier, P aris 1999, 177-187.
72 B OETHIUS, Contra Eutychen et Nestorium , c. 3; The Theological Tractates, ed. and transl. H.F..J. Te­
ster, C am bridge (Mass.), H arvard UP, London, H einem ann 1973, 88; trad. it. (mod.) di L. O bertello, Con­
tro E utiche e Nestorio, in S EVERINO B OEZIO, La consolazione della filosofia. Gli opuscoli teologici, R usconi,
M ilano 1979, 329.
73 SuÀREZ, Disputationes m etaphysicae, X X X III.1.1 (t. 26, 330).
74 D iogenes L aertius, Diogenes Laertii Vitae P hilosophorum , 2 voll., ed. H.S. Long, «Oxford C lassi­
cal Texts», Oxford 1964, vol. II, 323, vv. 3-5; trad. it. di M. Gigante, Vite dei Filosofi, L aterza, Rom a-Ba-
ri 1975, 265: «Un oggetto di pensiero o nozione (ennoem a) è im m agine del pensiero, che non è qualcosa,
né h a u n a qualità, m a in certo modo è q ualcosa e in certo modo h a un a qualità». Vedi anche Stoicorum
54 Jean -F ran ço is Courtine

«Gli Stoici evitano il presupposto platonico [...] secondo cui essere qualcosa signifi­
ca già esistere. Essere qualcosa è piuttosto —così sem bra —essere un soggetto appro­
priato per il pensiero ed il discorso. Molte delle cose che sono in tal modo, sono an ­
che esistenti in quanto sono dei corpi. Ma una cosa incorporea, come un tempo, o un
oggetto fittizio come un centauro, non sono. Dal momento che espressioni quali cen­
tauro o oggi sono tuttavia autenticam ente provviste di significato, consideriamo che
denominano qualcosa, anche se questo qualcosa non ha un’esistenza reale o indipen­
dente (indipendente, nella fattispecie, dal movimento del mondo nel caso del tempo,
o dall’immagine m entale nel caso del centauro. Pur imponendosi di non utilizzare il
term ine esistere [eivai, xò ov] in tali casi, gli Stoici hanno fatto ricorso al term ine più
ampio al quale esso è sussulto, e cioè sussistere [Ù^iaxaa0cu]. Q uest’ultimo term ine
sem bra ricoprire nell’uso stoico quel modo d’essere che Meinong ha chiam ata beste-
hen e che R ussell ha reso con to subsist (nei suoi articoli del 1904 su Meinong, pub­
blicati in M ind, 13). Per Meinong, la somiglianza o Pegaso, per esempio, sussistono
ma non esistono. Essi condividono tuttavia con le cose esistenti il fatto di avere una
caratteristica (Sosein), esattam ente come un vero cavallo e un centauro, nello stoici­
smo, sono entrambi dei “qualcosa” . Potremmo rendere la distinzione stoica tra esiste­
re e sussistere dicendo: “C’è qualcosa come un arcobaleno, c’è un personaggio come
Mickey Mouse, ma essi non esistono veram ente” »75.

Contro questa dottrina, Mario Vittorino ritiene opportuno fare appello ad Ari­
stotele, ma lo fa sulla base di un’interpretazione dell’ousa proposta nel trattato
sulle Categorie e sulla base dell’articolazione ousia protê [oboia Jtpróxr|]- ousia
denterà [obaia Sebxepa], che ha già concesso l’unico punto decisivo: l’interpre­
tazione sostanziale dell’ousra. Anche quando essa, propriamente parlando, non
è, come accede esemplarmente nel caso degli esseri corporei, essa può almeno
essere appresa come soggetto di accidenti o di qualità, che così trovano in essa
la loro substantia propria.

c. «Essentia ab esse»: l’essenza

Anche se, a partire da Apuleio, è possibile riscontrare alcune occorrenze di es­


sentia in altri autori influenzati dal neoplatonismo, come Macrobio o Calcidio,
questo termine riesce ad imporsi soltanto con Agostino. Come abbiamo visto,
nelle sue prime occorrenze l’accezione del termine resta oscillante e lo scivola­
mento dal lato della substantia diventa quasi inevitabile: il termine è, se così si

Veterum F ragm enta, t. 1, 164; AA. L ong / D.N. S edley, The H ellenistic philosophers, 3 voll., Cam bridge
UP, Cam bridge 1987, vol. 2, 182; cfr. anche t. 1, 164. Si veda anche la m essa a punto di A. de L ibera
in P ORPHYRE, Isagoge, trad. francese di A. de L ibera e A.-P. Segonds, introduzione e note di A. de Li­
b era, Vrin, «Sic e t non», P aris 1998, pp. XLVII- liii (note), 32-34.
75 L ong / S edley, The Hellenistic Philosophers, cit., 182.
E ssenza, sostanza, sussistenza, esistenza 55

può dire, così poco eloquente, da abbisognare ogni momento di essere spiegato
mediante il termine substantia. L’opera di Agostino segna a questo proposito un
rovesciamento capitale. Agli occhi di Agostino, come abbiamo già osservato, es­
sentia è un vocabolo di recente creazione, ancora poco usato, ma destinato a
prendere il posto del termine substantia, almeno in alcune delle sue accezioni.
In quel testo giovanile che è il De moribus Ecclesiae catholicae et de moribus Ma-
nichaerum, per esempio, Agostino scrive:

«Nam et ipsa natura nihil est aliud quam id quod intelligitur in suo genere aliquid es­
se. Itaque, ut nos jam novo nomine ab eo quod est esse vocamus essentiam , quam ple­
rum que substantiam etiam nominamus, ita veteres qui haec nomina non habebant pro
essentia et substantia naturam vocabant»76.

E ancora nel De Trinitate: «Essentiam dico quae obola graece dicitur, quam usi­
tatius substantiam vocamus»77.
Ci si può addirittura spingere a supporre che nel corso della vita di sant’A-
gostino, e certamente grazie a lui, il termine si sia diffuso fino a diventare usua­
le, al punto che, in un’opera tarda come il De civitate Dei, lo stesso Agostino ha
potuto scrivere:

«[...] ab eo quod est esse vocatur essentia, novo quidem nomine quo usi veteres non
sunt latini sermonis auctores, sed jam nostris tem poribus usitato, ne deesset etiam lin ­
guae nostrae, quod Graeci appellant cmcrlav»78.

Si tratterebbe dunque di un termine forgiato di recente per rispondere letteral­


mente (hoc enim verbum e verbo expressum est, ut diceretur essentia) al greco ou-
sia. Senza dubbio, il vocabolo essentia era destinato, in virtù della sua stessa for­
mazione, a «tradurre» ousia; e tuttavia, esso non poteva farlo, se non a partire da
una nuova comprensione dell’essere, differente da quella che era dominante al­
l’epoca (esse nel senso di «avere corpo», «avere sostanza»). Per dirla in altre pa­
role, essentia può imporsi come «traduzione» di ousia soltanto a partire dal mo­

76 A UGUSTINUS, De moribus ecclesiae catholicae et de moribus M anichaerum (PL 32; N uova B iblioteca
A gostiniana [= NBA], C itta Nuova, Rom a, vol. 13/1), II, 2, 2: «Infatti la ste ssa natu ra altro non è se non
ciò che, n el suo genere, è concepito com e qualcosa che è. P ertanto, com e noi, usando un nom e nuovo d e ­
rivato d a quello di essere, chiam iam o essenza ciò che p e r lo più chiam iam o anche sostanza, così gli an ti­
chi, che non possedevano queste parole, im piegavano natura p e r essenza e sostanza».
77 A ugustinus, De Trinitate (PL 42; CCSL 50-50A ; NBA 4), V, 8, 9: «Dico essenza per esprim ere ciò
che in greco si dice , m a noi usiam o più correntem ente il term ine sostanza».
78 A ugustinus, De civitate Dei (PL 41; CCSL 47-48; NBA 5/2) X II, 2: « . c o s ì da essere si h a essen ­
za, u n term ine certam ente nuovo, che gli antichi scrittori latini non hanno usato, m a usuale ai giorni no­
stri. E affinché non m ancasse alla nostra lin g u a il term ine che i Greci dicono , dal verbo è stata
coniata la p arola di essenza».
56 Jean -F ran ço is Courtine

mento in cui quest’ultimo termine viene interpretato a sua volta risolutamente a


partire dal verbo einai, e cioè reinterpretato nell’orizzonte del neoplatonismo
porfiriano. Sant’Agostino è perfettamente esplicito a proposito del senso di que­
sta derivazione, sulla quale torna a più riprese, come per esempio nel De Trini­
tate: «Sicut enim ab eo quod est sapere dicta est sapientia et ab eo quod est sci­
re dicta est scientia, sic ab eo quod est esse vocatur essentia...»79.
L’essenza dev’essere intesa innanzitutto ab esse, o meglio ab eo quod est esse
—a partire da ciò che esprime il verbo essere, o l’atto d’essere.
Si possono seguire con sufficiente precisione i rivolgimenti introdotti da que­
sta nuova «traduzione» in un passo importante del De immortalitate animae, che
non solo contiene —a quanto ci risulta —la prima occorrenza del termine essen­
tia negli scritti di Agostino, ma propone anche una reinterpretazione platoniz-
zante di Aristotele. La tesi centrale di Agostino è così formulata:

«Illa omnia quae quomodo sunt ab ea E ssentia sunt, quae summe maximeque est [Tut­
te le cose che sono in una m aniera o in un’altra sono a partire dall’essenza, che è il
punto ed è al punto più alto]»80.

Ci sembra che qui si debba proprio leggere Essentia con la maiuscola: l’Essen­
za come tale, l’Essenza pura e semplice, dev’essere intesa come Nome Divino;
essa nomina propriamente il Dio come l’Essenza per eccellenza, vale a dire co­
me causa essendi (De diversis quaestionibus, 83, q. 21), l’essere per cui sono tut­
te le cose che sono in un modo o in un altro. La «definizione» aristotelica del-
Yousia protê viene chiaramente evocata, ma per essere completamente teologiz­
zata. «Lousia detta in senso fondamentale, primo e principale [hê kuriôtata te
kai prôtôs kai malista legomenê (^ Kupicoxorcd re Kai Jtpcoxcoc; koÙ, paLtaxa Le-
yopévr|)]» è ormai intesa come «Essentia [...] quae summe maxime est», vale a
dire Dio. Nulla è, nulla è ente, se non attraverso il suo essere, la sua essentia
(omnis essentia [ . ] non ob aliud essentia est, nisi quia est).

[3] La reinterpretazione agostiniana di Aristotele

È questa tesi fondamentale che porta Agostino —a costo di un completo rove­


sciamento della gerarchia ousia protê-ousia deutera, dovuto al fatto che l’«es­

79 A ugustinus, De Trinitate (PL 42; CCSL 50-50A ; NBA 4), V, 2, 3: «Come infatti d al verbo sapere si
è fatto derivare sapientia, d a scire scientia, dal verbo esse si è fatto derivare essentia».
80 A ugustinus, De im m ortalitate anim ae liber unus (PL 32; CSEL 89); L’im m ortalità d e ll’an im a , 11,
18 (nella variante Er. e Lov.), in D ialoghi, vol. I, trad. it. (notevolm ente m odificata) di D. G entili, NBA 3,
C ittà Nuova, R om a 1970.
E ssenza, sostanza, sussistenza, esistenza 57

senza prima» non è più la cosa singolare presente (tode ti), bensì Dio - a riprende
a sua volta la dottrina aristotelica secondo la quale è proprio delle ousiai non
avere contrario. La trasposizione agostiniana di questa dottrina getta una luce
singolare sulla nuova comprensione dell’essere che si enuncia mediante la tra­
duzione di essentia. Ricordiamo il testo canonico di Aristotele:

'Y itclp/E i ÒÈ tcùç o l i a t a l e kcÙ xò uqòÈ v ctx>Taïç È v a v x lo v eI vcu . T fj vò.p JtpcÓXI] O lia la
x l c’tv e’1t| È v av x lo v ; o lo v xcò x iv i àvOpcójtcp oìiÒÈv È axi È v a v x lo v , oìiÒÈ y e tcò àv0pcóitco
rj xm Çcôcp oiiòÉv È axi È vavxlov.
«A ppartiene alle essenze anche il non avere contrario. Infatti alla sostanza prima che
cosa potrebbe essere contrario? P er esempio, ad un certo uomo nulla è contrario, né
in verità a uomo o ad anim ale nulla è contrario»81.

L’intenzione aristotelica, qui, non è quella di opporre in linea di principio l’es­


sere e il non-essere; più semplicemente, prendendo in considerazione l’«essen-
za» determinata come questo o quello, si tratta di mostrare che essa è dektikê tôn
enantiôn [ô ëk x lk ^ xcov evavxlcov] (suscettibile di ricevere i contrari), aprendo
così quello spazio all’interno del quale i contrari possono collocarsi e risponde­
re l’uno all’altro, sviluppando in tal modo una sola e medesima configurazione
(kai gar tôn enantiôn tropon tina to auto endos [Kat yàp xcov évavxlcov xpóitov r i­
va xò aiixò elôoc;]82.
È nel quadro alquanto differente di una dimostrazione dell’immortalità del­
l’anima che sant’Agostino è portato a far leva su questo testo di Aristotele, attri­
buendogli così una nuova portata ontologica. Nel movimento della sua dimo­
strazione, e a partire da un’identificazione dell’essere e della verità, sant’Ago­
stino deve rispondere all’obiezione secondo cui l’anima, distraendo se stessa
dalla verità, perderebbe di conseguenza anche il proprio essere. La risposta ago­
stiniana poggia sulla distinzione tra la conversio e l’aversio e soprattutto - que­
sto il punto che ci interessa - sull’affermazione secondo la quale l’anima, rice­
vendo il suo essere da ciò che non ha contrario e che è eminentemente —l’Es-
sentia -, non può perderlo.
La dottrina aristotelica secondo cui Yousia non ha contrario trova così un’il­
lustrazione singolare, quando si tratti dell’Essentia grazie alla quale sono tutte
le cose che sono in una determinata maniera o in un’altra (illa omnia quae quod-
modo sunt):

«Nam si nulla essentia in quantum essentia est, aliquid habet contrarium, multo m i­
nus habet contrarium prima illa essentia, quae dicitur veritas, in quantum essentia est

81 A RISTOTELES, Cat., 5, 3b 2 4-27 (trad. it. in Organon, cit., vol. I, 188).


82 A ristoteles, M etaph., Z, 7, 1032b 2-3.
58 Jean -F ran ço is Courtine

[Se infatti nessuna essenza, in quanto è un’essenza, ha il suo contrario, a più forte ra ­
gione non ha il contrario quell’essenza prima che chiamiamo verità, in quanto è es­
senza]83.

L’essenza come tale (essentia in quantum essentia est) non ha contrario poiché si
dice ab eo quod est esse; a partire da ciò che è essere. Ora, l’essere (esse) non ha
altro contrario che il non-essere, o nulla. Il contrario dell’essere è il nulla; l’es­
sere non ha nulla come contrario: «Esse autem non habet contrarium, nisi non
esse; unde nihil est essentiae contrarium»84. Così, la dottrina aristotelica funge
paradossalmente da sostegno alla tesi del primato dell’Essentia quae summae
maximaeque est, e il trattato delle Categorie è ormai al servizio di una metafisi­
ca porfiriana dell’einai. E Agostino può osare portare a compimento quel movi­
mento di pensiero che stiamo studiando:

«Nullo modo igitur res ulla potest esse contrario illi substantiae, quae maxime ac p ri­
mitus est [Nessuna cosa può dunque in alcun modo essere contraria a quella sostanza
che è in sommo grado e in primo luogo]»8586.

Agostino ha buon gioco qui nel reintrodurre il termine di sostanza (per accen­
tuare ulteriormente il riferimento a Categorie, 5): si vede chiaramente che la pa­
rola ha perso il suo ruolo prioritario e che viene intesa unicamente a partire dal­
la determinazione preliminare dell’essenzialità. Si tratta di un gesto esattamen­
te opposto a quello compiuto da Apuleio nel suo De Platone.
Il solo riferimento neoplatonico non basta probabilmente a gettar luce su que­
sta nuova comprensione agostiniana dell’essere, che aprirà la strada all’essenza
(fermo restando, però, che Agostino non è un «essenzialista»). In questa sede
non possiamo impegnarci nelle questioni sollevate dalla cosiddetta «metafisica
dell’Esodo», e tuttavia dobbiamo osservare che l’interpretazione del Nome mi­
stico che Dio rivela a Mosè sul monte Sinai costituisce il centro della medita­
zione agostiniana. LEssentia può essere intesa come Nome Divino, poiché essa
dice ciò che fa essere tutto ciò che è; l’essenza può predicarsi propriamente an­
che di Dio: «Quis magis est [essentia] quam ille qui dixit famulo suo Moysi: Ego
sum qui sum, et: Dices filiis Israel: Qui est, misit me ad vos?»86. Dio è denomina-

83 A UGUSTINUS, De im m ortalitate a nim ae liber unus (PL 32; CSEL 89; NBA 3), 12, 19.
84 A UGUSTINUS, De im m ortalitate anim ae liber unus (PL 32; CSEL 89; NBA 3), 12, 19. Cfr. anche De
moribus ecclesiae catholicae et de moribus M anichaeorum (PL 32), II, 1, 1.
85 A UGUSTINUS, De im m ortalitate a nim ae liber unus (PL 32; CSEL 89; NBA 3), 12, 19.
86 A ugustinus, De Trinitate (PL 42; CCSL 50-50A ; NBA 4), libro V, 2, 3: «E chi è dunque p iù di Co­
lui che h a d ichiarato al suo servo Mosè: Io sono colui che sono. D i’ a i f i g l i d i Israele: Colui che è, m i ha
m andato a voi?» (237).
E ssenza, sostanza, sussistenza, esistenza 59

to propriamente essenza, il suo Nome è Essentia, poiché a lui soltanto conviene


Yipsum esse ([...] cui profecto ipsum esse [...] maxime ac verissime competit).
Il vocabolo essenza crediamo dunque si possa imporre nella lingua latina so­
lamente perché in esso risuona l’eco di ciò che dice verbalmente l’esse (to einai):
così essentia non si sostituisce semplicemente a substantia, ma inaugura una
nuova comprensione dell’essere. Non è quindi un caso che questo termine si dif­
fonda pienamente solo a partire dal momento in cui inizia a riferirsi prioritaria­
mente a colui che summe est, a colui che - come arriverà a dire Agostino - est
est: «Est enim est sicut bonorum bonum est [ . è in effetti l’È, così come è il be­
ne dei beni]»87; «Est quod est [È quello che è]»88; «[...] quidquid aliquo modo
est, ab illo enim est, qui non aliquo modo est, sed est est [ . t ut t o ciò che in qual­
che modo è, è buono, poiché è da colui che non è in qualche modo, ma è l’È]»89.
Per dirla diversamente, è innanzitutto come Nome Divino che il termine es­
sentia può imporsi per enunciare propriamente l’essere di colui che di sé dice:
«sic sum quod sum, sic sum ipsum esse [così io sono colui che sono, così io so­
no l’essere stesso]»90. È in virtù del fatto che viene appreso come colui che è
«primariamente ed eminentemente» che il Dio diventa ousia protê, vale a dire
ormai e necessariamente Essentia. Dio non ha attributi, ma soprattutto non può
neanche essere il soggetto di questi attributi:

«Ora è proibito affermare che Dio sussista e sia soggetto della sua bontà (ut sub-sistat
et sub-sit Deus bonitati suae); è proibito affermare che questa bontà non sia sostanza,
o piuttosto essenza, e che Dio non sia la sua bontà, ma che al contrario la bontà esista
in lui come in un soggetto»91.

87 A ugustinus, Enarrationes in Psalm os, CXXXIV (PL 37; NBA 28/4).


88 A ugustinus, In evangelium Johannis tractatus (PL 35; CCSL 36; NBA 24), XXXIX, 8, 9.
89 A ugustinus, Confessiones (PL 32; CCSL 27); Confessioni, trad. it. di C. Carena, NBA 1, C ittà Nuo­
va, R om a 19824, X II, 13, 46.
90 A ugustinus, Sermones, VII, 7 (PL 38; CCSL 41. NBA 29) .
91 A ugustinus, De Trinitate (PL 42; CCSL 50-50A ; NBA 4), 7, 5, 10.

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