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Riassunto - Libro ''Diritto internazionale'' - B. Conforti

Diritto internazionale (Università degli Studi Roma Tre)

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INTRODUZIONE

CAPITOLO 1: Definizione del diritto internazionale. Precisazioni terminologiche

* Il diritto internazionale può essere definito come il diritto della “Comunità degli Stati”. Tale
complesso di norme si forma al di sopra dello Stato scaturendo dalla cooperazione con gli altri Stati,
e lo Stato stesso, con proprie norme, si impegna a rispettarlo. Le norme internazionali si
indirizzano in linea di massima agli Stati, creando cioè diritti ed obblighi per questi ultimi. La
caratteristica più rilevante del diritto internazionali odierno è data dalla circostanza che esso non
regola solo materie attinenti a rapporti interstatali ma, pur indirizzandosi fondamentalmente agli
Stati (e raramente agli individui), tende a disciplinare rapporti che si svolgono all’interno delle varie
comunità statali. Simili rapporti interni erano un tempo di quasi esclusiva pertinenza
dell’ordinamento statale, mentre il diritto internazionale si occupava prevalentemente di materie
esterne: il diritto internazionale era insomma un diritto per diplomatici. La vita moderna è dominata
dall’internazionalismo; sul piano giuridico tale caratteristica si traduce nella tendenza a trasferire
dal piano nazionale a quello internazionale la disciplina dei rapporti economici commerciali/sociali.
Il diritto internazionale è sempre meno un diritto per diplomatici e sempre più un diritto destinato ad
essere amministrato e applicato dagli operatori giuridici interni, in primo luogo dai giudici
internazionali.
* Il diritto internazionale viene anche chiamato diritto internazionale pubblico in
contrapposizione al diritto internazionale privato. Col diritto internazionale privato non siamo più
al di sopra dello Stato, ma al di sotto, nell’ambito dell’ordinamento statale. Il diritto internazionale
privato è formato da quelle norme statali che delimitano il diritto privato di uno Stato stabilendo
quando essa va applicato e quando invece i giudici di quello Stato sono tenuti ad applicare norme di
diritto privato straniere. Le norme di diritto internazionale privato italiane, sono state riformate dalla
L.128/1995, e molte di esse sostituite con norme prodotte dal diritto dell’UE. Contrapporre il
diritto internazionale pubblico al diritto internazionale privato ha scarso senso: non si tratta di due
rami del medesimo ordinamento ma di norme che appartengono ad ordinamenti totalmente diversi,
l’ordinamento della comunità degli Stati il primo, l’ordinamento statale il secondo. E’ vero che il
diritto internazionale pubblico tende a regolare anche rapporti interni allo Stato ed anche rapporti
oggetti del diritto privato: ma ciò significa soltanto che lo Stato ha l’obbligo di tradurre le norme
internazionali che di simili rapporti di occupano in norme interne. Non essendovi omogeneità tra i
due diritti, la qualifica di pubblico, data al diritto della comunità degli Stati è superflua, se non
addirittura erronea.

CAPITOLO 2: Funzioni di produzione, accertamento ed attuazione coattiva del diritto


internazionale

* Importante è distinguere tra funzione normativa, funzione di accertamento del diritto e


funzione di attuazione coattiva delle norme. Per quanto riguarda la funzione normativa occorre
distinguere tra diritto internazionale generale e diritto particolare, cioè tra le norme che si
indirizzano a tutti gli Stati e quelle che vincolano una ristretta cerchia di soggetti, di solito i soggetti
che direttamente hanno partecipato alla loro formazione. Alle norme di diritto internazionale
generale fa riferimento l’art. 10 Cost. Tali norme generali sono le norme consuetudinarie,
formatesi nell’ambito della comunità internazionale attraverso l’uso: di queste norme può
affermarsi l’esistenza solo se si dimostra che esse corrispondono ad una prassi costantemente
seguita dagli Stati. La caratteristica della consuetudine è che essa ha dato luogo ad uno scarso
numero di norme. A parte le norme strumentali non sono molte le norme consuetudinarie
materiali, ossia le norme che direttamente impongono diritti ed obblighi agli Stati. Sebbene esistano
anche consuetudini particolari, le tipiche norme di diritto internazionale particolare sono quelle
poste da accordi internazionali e che vincolano solo gli Stati contraenti. Esse sono assai numerose e

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costituiscono la parte più rilevante del diritto internazionale. Infatti è con i trattati che oggi si tende
a regolare molti rapporti della vita sociale. L’accordo internazionale è subordinato alla
consuetudine così come nel diritto statale il contratto è subordinato alla legge. Il fatto che gli
accordi internazionali, che perseguono la collaborazione tra gli Stati, sono molto più numerosi delle
consuetudini dimostra che la comunità internazionale già nelle norme giuridiche, già nella
produzione di esse, ha particolarità del tutto diverse dalle comunità statali. Al di sotto degli accordi
si trova un’altra fonte di norme internazionali: i procedimenti previsti da accordi, detti anche fonti
di terzo grado. Tali procedimenti previsti da accordi, detti anche fonti di terzo grado. Tali
procedimenti costituiscono fonti di diritto internazionale particolare. Essi traggono la loro forza
dagli accordi internazionali che li prevedono. E vincolano soltanto gli Stati aderenti agli accordi
medesimi. Il quadro delle fonti non comporta sempre l’inderogabilità delle norme prodotte dalla
fonte superiore da parte delle norme prodotte dalla fonte inferiore. La categoria delle fonti previste
da accordi riveste particolare importanza nel diritto internazionale odierno perché in essa si possono
collocare molti degli atti delle organizzazioni internazionali, ossia delle varie unioni fra Stati (ONU,
UE ecc.). Il problema principale che esse pongono è quello della sistemazione dei loro atti tra le
fonti internazionali. In realtà le organizzazioni internazionali non hanno di solito poteri vincolanti
nei confronti degli Stati membri: lo strumento di cui normalmente si servono è la raccomandazione
che ha appunto carattere di mera esortazione. Non mancano però casi in cui le organizzazioni
emanano decisioni vincolanti. Forza vincolante hanno tra l’altro proprio gli atti dell’UE. Le
decisioni vincolanti degli organi internazionali si trovano nella gerarchia delle fonti al d sotto degli
accordi, in quanto proprio da un accordo (il cd. Trattato istitutivo) ciascuna organizzazione prende
vita.
* Passando alla funzione di accertamento giudiziario del diritto internazionale, bisogna dire che
essa è in prevalenza una funzione di carattere arbitrale. L’arbitrato anche nel campo del diritto
statale poggia sull’accordo tra le parti, accordo diretto a sottoporre la controversia ad un
determinato giudice. Anche la Corte internazionale di giustizia, il massimo organo giudiziario
nelle Nazioni Unite, ha funzione essenzialmente arbitrale. Non mancano peraltro tribunali
permanenti istituiti da singoli trattati, ed innanzi ai quali gli Stati contraenti possono essere citati da
altri Stati contraenti o anche da singoli individui. Anche in questi casi il fondamento della
competenza del giudice resta pattizio, nel senso che solo gli Stati che hanno accettato in un modo o
nell’altro della competenza possono essere convenuti in giudizio: la differenza col diritto statale,
dove la sottoposizione alla funzione giurisdizionale è imposta dalla legge, è evidente. Occorre però
subito sottolineare che queste istanze giurisdizionali internazionali si sono andate enormemente
moltiplicando negli ultimi tempi; inoltre alcune Corti internazionali, come le Corti per i crimini
commessi nella ex Jugoslavia e in Ruanda, somiglino in tutto e per tutto alle Corti penali interne.
Cosicché la comunità internazionale manca di giudici, comincia a corrispondere sempre meno alla
realtà.
* Per quanto riguarda i mezzi che nel diritto internazionale sono adoperato per assicurare
coattivamente l’osservanza delle norme e per reprimerne la violazione, occorre riconoscere che
siffatti mezzi sono quasi tuti riportabili alla categoria dell’autotutela. Quella che è una eccezione in
diritto interno diventa la regola nel diritto internazionale.
* Si discute se il diritto internazionale si un vero e proprio diritto. Lo scetticismo che si manifesta
sia a livello scientifico sia a livello dell’uomo della strada pone l’accento sulla mancanza di mezzi
idonei a costringere i singoli Stati al rispetto delle norme internazionali e delle stesse sentenze dei
giudici internazionali che hanno un maggiore coefficiente di osservabilità. Nessuno nega che delle
norme di formino al di sopra dello Stato; ciò che si nega è che si tratti di un vero e proprio
fenomeno giuridico, capace di imporsi al singolo Stato. Una soluzione del problema
dell’obbligatorietà non può non passare attraverso gli operatori giuridici interni, cioè coloro che
nell’ambito delle singole comunità statali hanno istituzionalmente il compito di applicare e far
rispettate il diritto, in primo luogo i giudici ed i pubblici funzionari di ogni ordine e grado. Gli
ordinamenti statali prevedono che il diritto internazionale sia osservato al pari del diritto interno: in

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Italia i trattati stipulati sono normalmente oggetto di una legge ordinaria che ne ordina
l’applicazione. Così stando le cose, l’osservanza del diritto internazionale riposa sulla volontà degli
operatori giuridici interni diretta ad utilizzare, fino al limite massimo di utilizzabilità, gli strumenti
che lo stesso diritto statale offre a garanzia di siffatta osservanza, e quindi a far prevalere per questa
via le istanze internazionalistiche su quelle nazionalistiche. Il rispetto del diritto internazionale è
assicurato nei limiti in cui si determina tra gli operatori giuridici interni dei vari paesi quella
solidarietà internazionale che tanto spesso manca a livello dei Governi. Tutto ciò non è altro che
una formulazione in termini moderni della tanto critica tesi sostenuta dalla dottrina positivistica
tedesca del XIX secolo la quale considerava il diritto internazionale come il frutto di
un’autolimitazione del singolo Stato. Nulla è in grado di negare l’eterna verità insita nella teoria
dell’autolimitazione e cioè il fatto che la comunità internazionale nel suo complesso non dispone di
mezzi giuridici per reagire efficacemente ed imparzialmente in caso di violazione di norme
internazionali. Ciò che occorre superare è l’idea dell’arbitrio del singolo Stato insita nella teoria
dell’autolimitazione e perfettamente conforme del resto alle concezioni politiche correnti in
Germania all’epoca in cui la teoria venne formulata. L’applicazione del diritto internazionale ad
opera dei giudici italiani è riscontrabile mediante una scorsa ai repertori di giurisprudenza. Non
mancano lacune ed errori spesso frutto di una scarsa conoscenza sia degli strumenti giuridici interni
adoperabili per raggiungere soluzioni internazionalistiche sia di norme internazionali appropriate.
L’applicazione del diritto internazionale non può essere spinto all’interno dello Stato fino al punto
di compromettere valori fondamentali della comunità statale, di solito costituzionalmente garantiti.
* La cooperazione del diritto interno è indispensabile per assicurare compiutamente al diritto
internazionale il suo valore e la sua forza in quanto fenomeno giuridico. Ma il diritto
internazionale può essere anche considerato avendosi riguardo esclusivamente alla sua esistenza
nell’ambito della comunità internazionale, al livello delle relazioni internazionali. Da questo punto
di vista esso appare piuttosto come un punto di riferimento e di sostegno di una sana diplomazia. Il
diritto internazionale nell’esplicazione di una simile funzione, si presenta come una sorta di morale
positiva internazionale.

CAPITOLO 3: Stato come soggetto di diritto internazionale. Altri soggetti e


presunti tali

* Per quanto riguarda la definizione dello Stato, e più precisamente dello Stato come soggetto o
destinatario di norme internazionali, come membro della comunità internazionale, l’unica
alternativa utile ai fini dell’individuazione dello Stato come soggetto internazionale è quella tra
Stato-comunità, da una arte, e Stato-organizzazione, o Stato-apparato o Stato-governo,
dall’altra. Da un lato si pensa ad una comunità umana stanziata su di una parte della superficie
terrestre e sottoposta a leggi che la tengono unita (Stato-comunità), dall’altro s’intende l’insieme dei
governanti, dall’insieme cioè degli organi che esercitano ed in quanto esercitano il potere di imperio
sui singoli associati (Stato-organizzazione o Stato-governo). Entrambi questi fenomeni sono reali.
Una visione complessiva della vita di relazione internazionale porta ad avallare la tesi secondo cui
la qualifica di soggetto di diritto internazionale spetti allo Stato-organizzazione. E’ infatti
all’insieme degli organi statali che si ha riguardo allorché si lega la soggettività internazionale dello
Stato al criterio della effettività, ossia dell’effettivo esercizio del potere di governo; sono gli organi
statali che partecipano alla formazione delle norme internazionali; e sono infine gli organi statali
che, con la loro condotta, possono ingenerare la responsabilità internazionale dello Stato. Quando si
parla di organi statali si intende far riferimento a tutti gli organo, e quindi a tutti coloro che
partecipano dell’esercizio del potere di governo nell’ambito del territorio: non si tratta dei soli
organi del Potere esecutivo e neppure dei soli organi del potere centrale. Anche le amministrazioni
locali o gli enti pubblici minori che, hanno di solito una personalità giuridica distinta da quella dello
Stato, sono invece considerati per consuetudine come componenti l’organizzazione dello Stato in
quanto soggetto di diritto internazionale. In ogni caso la partecipazione all’esercizio del potere di

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governo che contraddistingue la qualità di organo deve trovare comunque il suo fondamento
nell’ordinamento giuridico statale o in un ordinamento da questo derivato.
* Il requisito della effettività è essenziale. I Governi che non governano non hanno da gestire
interessi di rilievo sul piano internazionale. Va pertanto negata la soggettività dei Governi in esilio
(fenomeno che ebbe le sue manifestazioni più significative durante la seconda guerra mondiale)
nonostante ai loro componenti siano unilateralmente riconosciute dallo Stato ospitante, per motivi
politici, certe prerogative sovrane. Analogo fenomeno è quello delle organizzazioni, o fronti, o
comitati di liberazione nazionale che abbiano sede in un territorio straniero. Tipico esempio di
Comitato di liberazione all’estero è stato per tanti anni l’Organizzazione per la Liberazione
della Palestina. La soggettività della Palestina è ancora dubbia oggi, dopo i vari accordi
intervenuti tra l’OLP ed Israele per il graduale passaggio di buona parte dei territori palestinesi
occupati da Israele sotto il controllo dell’Autorità palestinese. Altro caso di soggettività dubbia è
quello della Somalia la quale dal 1991 è dominata per singole zone da “signori della guerra” ed è
retta oggi da un debole governo federale provvisorio.
* Altro requisito necessario è quello dell’indipendenza o sovranità esterna. Occorre cioè che
l’organizzazione di governo non dipenda da un altro Stato.
[In quanto difettano del requisito dell’indipendenza, non sono da considerare come soggetti di diritto internazionale gli Stati membri
di Stati federali. Lo Stato federale, che è uno stato unico legislativamente e amministrativamente decentrato, non va confuso con la
Confederazione, che è un’unione (internazionale) fra Stati perfettamente indipendenti e sovrani, creata per scopi di comune difesa e
caratterizzata da un organo assembleare (talvolta detto Dieta), rappresentativo di tutti i membri, con ampi poteri in materia di politica
estera. La Confederazione è un fenomeno che appartiene prevalentemente al passato e lo stadio confederale ha spesso costituito la
fase di passaggio verso la formazione di uno Stato federale. E’ più difficile che si verifichi il contrario. Ciò perché la confederazione
è pur sempre dotata di un organo che ha ampi poteri decisionali nei confronti degli Stati membri in materia di politica estera e di
difesa; ed è poco probabile che dei soggetti che hanno appena deciso di sciogliersi intendano comunque restare sottoposti ad un
potere decisionale comune sia pure in settori limitati].
Come regola generale non può che farsi leva su di un dato formale: è indipendente e sovrano lo
Stato il cui ordinamento sia originario, tragga la sua forza giuridica da una propria Costituzione e
non dall’ordinamento giuridico, dalla Costituzione di un altro Stato. Ciò spiega perché non influisca
sulla soggettività la dimensione dello Stato: il dato formale non può invocarsi, e deve cedere di
fronte al dato reale, quando in fatto l’ingerenza da parte di un altro Stato nell’esercizio del potere di
governo è totale , e quindi il Governo indigeno è un governo “fantoccio” e come tale privo di
soggettività internazionale. Non indipendente è da considerare il Kosovo nonostante la
Dichiarazione di indipendenza proclamata dalla maggioranza albanese nel 2008, dichiarazione
peraltro contestata da vari paesi.
* L’organizzazione di governo che eserciti effettivamente il proprio potere su di una comunità
territoriale diviene soggetto internazionale in modo automatico. Non è infatti necessario che esso sia
riconosciuta dagli altri Stati. Per il diritto internazionale il riconoscimento è un atto meramente
lecito, e meramente lecito è il non-riconoscimento: entrambi non producono conseguenze
giuridiche. Il riconoscimento appartiene alla sfera della politica; esso rivela null’altro che
l’intenzione di stringere rapporti amichevoli, di scambiare rappresentanze mediante la conclusione
di accordi. La maggiore o minore intensità che si intende imprimere alla collaborazione viene di
solito sottolineata rispettivamente con la formula del riconoscimento de jure, cioè pieno, e quella
del riconoscimento de facto. Quando si nega al riconoscimento valore giuridico si viene a
respingere soprattutto la tesi che esso sia costituito dalla personalità internazionale. Si viene cioè a
respingere la tesi secondo cui gli Stati preesistenti possano esercitare nei suoi confronti, appunto
mediante il riconoscimento, una sorta di potere di ammissione nella comunità internazionale. Gli
Stati preesistenti tendono a giudicare se lo Stato nuovo “meriti” o meno la soggettività,
ancorando il loro giudizio ad un certo valore o ad una certa ideologia; in epoca attuale si tende da
varie parti a ritenere che non siano da riconoscere come soggetti i Governi affermatisi con la forza,
ma tutto ciò non si è mai tradotto in norme internazionali per il semplice motivo che gli Stati
divergono poi sulla sua riscontrabilità in ciascun caso concreto. I requisiti necessari affinché lo
Stato acquisti la personalità internazionale sono quelli dell’effettività e dell’indipendenza. Resta
da chiedersi se sono anche sufficienti oppure se ne occorrono altri. Dobbiamo limitarci ai requisiti
che oggi più frequentemente ricorrono, e cioè che lo Stato nuovo non costituisca una minaccia per

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la pace e la sicurezza internazionale, goda del consenso del popolo, espresso attraverso libere
elezioni, e non violi i diritti umani. Questi requisiti se svincolati dal riconoscimento, se considerati
non come requisiti ai quali uno Stato preesistente subordina l’instaurazione di rapporti di amicizia
con una Stato nuovo ma come presupposti della personalità internazionale, e quindi come
presupposti che devono sussistere non solo affinché la personalità si acquisti ma anche affinché la
personalità non si perda, non trovano alcun riscontro nella realtà.
* Una volta chiarito che un’organizzazione di governo diviene automaticamente soggetto quando
esercita in modo effettivo ed indipendente il proprio potere su di una comunità territoriale, resta
anche risolto il problema della soggettività del Governo insurrezionale. Gli insorti non sono certo
soggetti di diritto internazionale, ma sudditi ribelli nei confronti dei quali il Governo legittimo può
prendere i provvedimenti che considera più opportuni. La dottrina tradizionale tendeva a limitare la
soggettività del Governo insurrezionale sia nel senso di subordinarla al riconoscimento da parte
degli Stati terzi sia nel senso di circoscriverla alle norme del diritto internazionale di guerra.
*Oltre agli Stati esistono altri soggetti di diritto internazionale, infatti, la più gran parte della
dottrina contemporanea parla di una personalità degli individui, persone fisiche o giuridiche.
L’opinione si ricollega strettamente alla tendenza del diritto internazionale odierno ad occuparsi di
materie interne alle singole comunità statali, ed anche a proteggere l’individuo nei confronti del
proprio Stato. Essa trae spunto soprattutto dal moltiplicarsi di quelle norme convenzionali che
obbligano gli Stati a tutelare i diritti fondamentali dell’uomo. Si deve dire che sempre più spesso
l’individuo può ricorrere, se non vede riconosciuto il diritto, ad organi internazionali
appositamente creati; alla tutela dell’interesse individuale si accompagna così l’attribuzione
all’individuo di un potere di azione. Anche il diritto consuetudinario fornisce ampia materia per
sostenere la personalità internazionale degli individui: si pensi ai crimina juris gentium, categoria
in sui si fanno rientrare tra l’altro i crimini di guerra e contro la pace e la sicurezza dell’umanità e
dunque quei reati per i quali lo Stato può esercitare la propria potestà punitiva oltre i limiti
normalmente assegnatigli. La tesi che promuove l’individuo a soggetto di diritto nell’ambito della
comunità degli Stati non è proprio da tutti accolta. Per quanto riguarda i diritti e gli obblighi che
discendono dai trattati istitutivi e dagli atti delle organizzazioni internazionali ivi compresa
l’Unione europea, non si nega che di essi siano effettivamente titolari gli individui, ma se ne
contesta la natura di veri e propri diritti ed obblighi internazionali. Per quanto riguarda invece i
diritti e gli obblighi che non si ricollegano al fenomeno dell’organizzazione internazionale, se ne
contesta la stessa titolarità da parte degli individui. Destinatari delle norme consuetudinarie o
pattizie sarebbero sempre e soltanto gli Stati. Gli obblighi che sugli Stati graverebbero di trattare in
un certo modo l’individuo sussisterebbero sempre e soltanto nei confronti degli altri Stati: di tutti gli
altri Stati, se si tratta di diritto consuetudinario, o degli altri Stati contraenti, se si tratta di diritto
convenzionale. Solo nell’ambito degli ordinamenti dei singoli Stati si produrrebbero le situazioni
giuridiche individuali corrispondenti a quanto previsto sul piano interstatale. Molte norme
internazionali, o di origine internazionale, si prestano ad essere interpretate come regole che si
indirizzano direttamente agli individui. E’ innegabile inoltre che la protezione di interessi
individuali comporta in vari casi un potere di azione innanzi ad organi internazionali ed è vero
anche, però, che la comunità internazionale resta ancora strutturata come una comunità di
governanti e non di governati, che gli individui continuano ad essere in larga misura sottoposti allo
Stato e che la collaborazione degli apparati statali è ancora indispensabile perché gli obbiettivi che
le norme sull’individuo si propongono siano raggiunti. Molto dipende dall’importanza che si
attribuisce al fatto che l’individuo non ha la possibilità di avvalersi direttamente di mezzi coercitivi
internazionali per costringere gli Stati a rispettare i suoi diritti.
* Numerose sono anche le norme internazionali che tutelano le minoranze assurgano a soggetti di
diritto internazionale, sia pure limitatamente ai diritti loro riconosciuti. Lo stesso deve dirsi di quella
particolare specie di minoranza costituita dalla popolazione indigena, presente in vari Paesi con
varie rivendicazioni. Sempre più spesso si parla di “diritti dei popoli” all’autodeterminazione a
disporre liberamente delle proprie risorse naturali, diritto di tutta l’umanità a sfruttare le risorse dei

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fondali oceanici, ecc. Per la maggior parte di questi diritti, il termine popolo è usato solo in modo
enfatico e può essere tranquillamente sostituito dal termine Stato. Qui il popolo potrebbe venire in
rilievo dal punto di vista giuridico solo se si partisse dall’idea che lo Stato come soggetto di diritto
internazionale non sia lo Stato-apparato, ma lo Stato-comunità, non si identifichi con i
governanti ma con i governati. Il discorso è diverso quando di un diritto dei popoli di parla in
relazione a norme che si occupano del popolo come contrapposto allo Stato, o dei governati come
contrapposti ai governanti, che tendono a tutelare il popolo rispetto all’apparato che lo governa. A
parte i diritti umani l’unica norma in cui si esprime detta contrapposizione è il principio di
autodeterminazione dei popoli. Il principio di autodeterminazione è oggi una regola di diritto
internazionale positivo. Esso non solo è contenuto in testi convenzionali, come tali vincolanti solo
gli Stati contraenti, ma ha acquistato carattere consuetudinario attraverso una prassi che si è
sviluppata ad opera delle Nazioni Unite e che trova la sua base sia nella stessa Carta dell’ONU sia
incerte solenni Dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale dell’Organizzazione, come la
Dichiarazione del 1960 sull’indipendenza dei popoli coloniali e quella del 1970 sulle relazioni
amichevoli tra gli Stati. Anche la CIG ne ha riconosciuto l’esistenza come principio
consuetudinario sia in alcuni pareri, tra cui il parere sulla Namibia, sul Sahara occidentale e sul
Kossovo, sia in una sentenza dove lo ha definito addirittura come “uno dei principi essenziali del
diritto internazionale contemporaneo”. Il principio di autodeterminazione non ha ancora oggi un
ampio campo di applicazione. Esso si applica soltanto ai popoli sottoposti ad un Governo
straniero, in primo luogo ai popoli soggetti a dominazione coloniale, in secondo luogo alle
popolazioni di territori conquistati ed occupati con la forza. L’autodeterminazione comporta il
diritto dei popoli sottoposti a dominio straniero di divenire indipendenti, di associarsi od integrarsi
con altro Stato indipendente, di scegliere comunque liberamente il proprio regime politico.
Affinché il principio di autodeterminazione sia applicabile, occorre inoltre che, salvo il caso dei
territori coloniali, la dominazione straniera non risalga oltre l’epoca in cui il principio stesso si è
affermato come principio giuridico, ossia oltre l’epoca successiva alla fine della seconda guerra
mondiale. Non può dunque parlarsi di un diritto all’autodeterminazione dei territori che furono
oggetto di occupazioni od annessioni in seguito alla prima guerra mondiale. Neppure poteva
parlarsi di un diritto di questi Paesi all’autodeterminazione.
[L’applicazione del principio di autodeterminazione presenta poi notevoli difficoltà quando si tratta di territori nei quali il Governo
straniero si appoggia ad un Governo locale dal quale ha magari ricevuto una richiesta di “aiuto” più o meno fraterno. In questo caso,
anche quando la presenza del Governo straniero non sia tale da far scadere il Governo locale a mero Governo fantoccio, il
principio di autodeterminazione si applichi nel senso di imporre ad entrambi i Governi la cessazione dell’occupazione straniera. A
proposito dell’autodeterminazione dei territori coloniali, occorre anche tenere conto di una regola che si è formata nell’ambito
dell’ONU e che attribuisce all’Assemblea generale la competenza a decidere, con effetti vincolanti per tutti gli Stati, circa la sorte
dei territori medesimi. L’assemblea deve però conformarsi al principio di autodeterminazione; altrimenti la sua decisione è
illegittima e senza efficacia. Il principio di autodeterminazione dei territori coloniali deve poi coordinarsi con il principio
dell’integrità territoriale, e la necessità del coordinamento si impone anche all’Assemblea generale dell’ONU nelle sue decisioni.
In base al principio dell’integrità territoriale occorre tenere conto dei legami storico-geografici del territorio da decolonizzare con uno
Stato contiguo formatosi anch’esso per decolonizzazione. La sfera di applicazione di questo principio è piuttosto incerta: il principio
di autodeterminazione deve cedergli il passo solo quando la popolazione locale non sia in maggioranza indigena ma “importata”
dalla madre patria. In ogni caso dalla combinazione dei due principi non nasce l’obbligo dello Stato detentore di trasferire il territorio
allo Stato contiguo, bensì quello di concordare una soluzione orientata verso la decolonizzazione].
E’ da escludere invece che l’autodeterminazione possa essere intesa nel significato che ad essa si
attribuisce dal punto di vista politico. Bisogna guardarsi dal ritenere che il diritto internazionale
richieda che tutti i Governi esistenti sulla tessa godano del consenso della maggioranza dei sudditi e
siano da costoro liberamente scelti (autodeterminazione interna). E’ innegabile che la grande
maggioranza degli Stati tenda a considerare l’autodeterminazione come sinonimo di democrazia
intesa nel senso di legittimazione democratica dei Governi. In effetti, le prese di posizione a
favore della democrazia non sono seguite da una seria e generalizzata lotta contro i Paesi non
democratici. In più, una genuina inclinazione della comunità internazionale per la democrazia
dovrebbe di per sé comportare una democratizzazione della stessa comunità; questa, invece, è come
sempre dominata da una oligarchia, che sceglie i Paesi a cui chiedere, o imporre con la forza, la
democrazia a seconda dei propri interessi. Occorre poi guardarsi dall’interpretare il principio di
autodeterminazione come capace di avallare le aspirazioni secessionistiche di regioni, province o

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circoscrizioni etnicamente distinte dal resto del paese. Come è stato dimostrato però, non ha
giuridicamente fondamento la secessione come rimedio da praticare quando una minoranza è
sottoposta a discriminazioni intollerabili o simili. Il diritto internazionale generale impone dunque
allo Stato che governa un territorio non suo di consentirne l’autodeterminazione. Può anche
sostenersi che, di fronte alla violazione del principio, gli altri Stati siano tenuti ad adottare delle
misure di carattere sanzionatorio, come il disconoscimento di ogni effetto extraterritoriale agli atti
di governo emanati nel territorio. Lecito è poi considerato l’appoggio fornito ai movimenti di
liberazione nazionale. In realtà come nel caso delle minoranze, i rapporti di diritto internazionale
intercorrono in modo esclusivo tra gli Stati. E’ nei confronti di tutti gli Stati o della comunità
internazionale nel suo complesso, che l’obbligo per il Governo straniero di consentire
l’autodeterminazione sussiste; è nei confronti della comunità internazionale che gli Stati hanno
l’obbligo di negare efficacia extraterritoriale agli atti di governo compiuti nel territorio dominato; è
nei rapporti tra lo Stato che governa il territorio e gli altri Stati che l’appoggio ai movimenti di
liberazione non può essere considerato come illecito. Il principio di autodeterminazione è legato
ad una determinata epoca storica, l’epoca dell’indipendenza dei Paesi in sviluppo. Esso è servito ad
assicurare il dominio di ciascun popolo sul, e nell’ambito, del proprio territorio.
* Non si può negare piena personalità alle organizzazioni internazionali, ossia alle associazioni
fra Stati dotate di organi per il perseguimento degli interessi comuni. La personalità delle
organizzazioni è un dato non più discutibile della prassi internazionale odierna relativa agli accordi
che le organizzazioni stipulano nei vari campi connessi alla loro attività: tali accordi vengono
considerati come produttivi di diritti ed obblighi proprio delle organizzazioni, restando senza effetti
sulla sfera giuridica degli Stati membri. La personalità di tutte le organizzazioni internazionali è
stata nettamente affermata dalla CIG nel parere sull’interpretazione dell’accordo tra l’OMS e
l’Egitto.
[Non bisogna confondere la personalità internazionale delle organizzazioni con la personalità di diritto interno delle organizzazioni
medesime. Se un’organizzazione internazionale acquista immobili e contrae obbligazioni in uno Stato, sarà l’ordinamento di questo
Stato a stabilire entro che limiti essa ha la capacità per farlo. Normalmente gli accordi istitutivi delle organizzazioni prevedono
l’obbligo degli Stati membri di riconoscerne la capacità giuridica nei rispettivi ordinamenti, e spesso dettano norme anche con
riguardo sia al contenuto ed ai limiti di siffatta capacità sia agli organi competenti a rappresentare l’organizzazione nei rapporti di
diritto interno; se invece il problema sorge in uno Stato terzo, come tale non vincolato dal trattato istitutivo, occorrerà far capo alle
norme che nell’ordinamento di quello Stato regolano la capacità giuridica degli enti collettivi stranieri, ed al diritto internazionale ci
si potrà riferire solo se, siano eventualmente applicabili norme di diritto internazionale generale.]
Altro ente del tutto indipendente dagli Stati, ed attivo nell’ambito della comunità internazionale, è la
Chiesa cattolica. Ad essa la personalità internazionale è stata sempre per tradizione riconosciuta
e si concreta non solo nel potere di concludere accordi internazionali ma anche in tutte le situazioni
giuridiche che presuppongono il governo di una comunità territoriale.
[Una parte della dottrina italiana, seguita dalla giurisprudenza del nostro Paese, riconosce qualità di soggetto internazionale anche al
Sovrano Ordine Militare Gerosolimitano di Malta, ordine religioso dipendente dalla Santa Sede. In effetti esso intrattiene rapporti
diplomatici con molti paesi del Terzo mondo e, dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia, con i Paesi
dell’Europa orientale. L’Ordine di Malta ha anche ottenuto la qualifica di osservatore alle Nazioni Unite, qualità che condivide con
altri numerosi Enti di rilievo internazionale. L’attribuzione di un diploma di soggetto internazionale all’Ordine di Malta non farebbe
male a nessuno se esso non fornisse in Italia la giustificazione per il riconoscimento all’Ordine di tutte le immunità che spettano agli
Stati stranieri ed ai loro organi. Soprattutto essa ha consentito all’Ordine di sottrarsi al Fisco, in relazione ai beni posseduti in Italia,
nonché alla giurisdizione civile italiana per le controversie relative ai rapporti con i propri dipendenti, con la conseguente
compressione di diritti individuali costituzionalmente garantiti].

LA FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI

CAPITOLO 4: Dir. Internazionale generale. Le consuetudini ed i suoi elementi


costitutivi

* Le norme di diritto internazionale generale che vincolano cioè tutti gli Stati, hanno natura
consuetudinaria. La nozione di consuetudine secondo il diritto internazionale non differiscono dalla
nozione di consuetudine elaborata dalla teoria generale del diritto ed utilizzata anche nel diritto
interno. La consuetudine internazionale è costituita da un comportamento costante ed uniforme
tenuto dagli Stati accompagnato dalla convinzione dell’obbligatorietà e della necessità del

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comportamento stesso. Due sono dunque gli elementi che caratterizzano questa fonte: la diurnitas e
l’opinio juris sive necessitatis. Una simile concezione dualistica, non ha avuto però unanimità di
consensi in dottrina. Si è sostenuto da parte di più autori che la consuetudine sarebbe costituita dalla
sola prassi, in quanto, ammettendosi la necessità dell’opinio juris, si arriverebbe inevitabilmente a
considerarla nata da un errore. L’opinio juris non sarebbe dunque uno degli elementi bensì l’effetto
psicologico dell’esistenza della norma, presupponendo pertanto che questa si sia già formata. La
critica alla concezione dualistica della consuetudine ha il difetto di fondarsi su argomenti
soprattutto logici. Se da un punto di vista detti argomenti possono anche essere convincenti,
determinante in senso contrario ci sembra l’osservazione della prassi internazionale. Se si esamina
la prassi dei tribunali internazionali, si può avere conferma della tesi secondo la quale entrambi
gli elementi debbono venire in rilievo. Anche la giurisprudenza interna è favorevole alla
concezione dualistica. A parte poi la prassi giurisprudenziale, sempre gli Stati si sono pronunciati
nel senso che l’opinio juris fosse indispensabile per l’esistenza della consuetudine. Molto spesso
gli Stati, per evitare che la sola prassi crei diritto, si affrettano a dichiarare che un certo
comportamento che essi intendono tenere è dettato da mere ragioni di cortesia, oppure non può
essere considerato come capace di “creare un precedente” ai fini della formazione di una norma
consuetudinaria o dell’abrogazione di una norma preesistente. Non bisogna sopravvalutare
l’obiezione secondo cui ammettendosi l’opinio juris, la consuetudine riposerebbe sull’errore. In
realtà si parla di opinio juris sive necessitatis: l’obbligatorietà si confonde così con la necessità,
cioè con la doverosità sociale. Se non si facesse leva sull’opinio juris sive necessitatis,
mancherebbe la possibilità di distinguere tra mero “uso”, determinato ad es. da motivi di cortesia, di
cerimoniale ecc., e consuetudine produttiva di norme giuridiche. Si è a ciò obiettato che la
distinzione riposerebbe su altri elementi e precisamene sul fatto che il mero uso consisterebbe di
contegni poco importanti dal punto di vista sociale, come tali inidonei a produrre norme giuridiche.
Ma si può controbbiettare che certi usi dettato da motivi di cortesia in consuetudini giuridiche, lo si
deve proprio e soltanto alla circostanza che gli Stati non sono convinti della loro obbligatorietà.
L’esistenza o meno dell’opinio juris sive necessitatis è poi il colo criterio utilizzabile per ricavare
una norma consuetudinaria dalla prassi convenzionale. Se si esamina la giurisprudenza interna, ci si
rende conto che i trattati costituiscono uno dei punti di riferimento più utilizzati nella ricostruzione
di una regola consuetudinaria internazionale. Ma i trattati possono essere interpretati sia come
conferma di norme consuetudinarie, sia come creazione di norme nuove e limitate ai rapporti fra
Stati contraenti; e per l’appunto solo una indagine sull’opinio juris sive necessitatis può
consentire, o escludere, l’utilizzazione di tutta una serie di tratti come prova dell’esistenza di una
norma consuetudinaria.
[Un principio consuetudinario non può essere tratto da una prassi convenzionale, sia pure costante e ripetuta, quando è chiaro che il
principio medesimo è il frutto delle concessioni che una parte degli Stati contraenti fanno al solo scopo di ottenere altre concessioni,
magari in ordine a rapporti diversi.]
L’elemento dell’opinio juris sive necessitatis serve infine a distinguere il comportamento dello
Stato diretto a modificare il diritto consuetudinario preesistente, dal comportamento che
costituisce invece mero illecito internazionale. Il tema è assai importante e può essere riallacciarlo
ad un dibattito dottrinale che si è svolto negli Stati Uniti, originato da alcuni casi giurisprudenziali
nei quali si era tra l’altro posto il problema se le Corti statunitensi potessero censurare l’eventuale
violazione di norme di diritto consuetudinario internazionale da parte del Governo. Il problema si
risolve se si tiene presente che il procedimento di formazione del diritto consuetudinario necessita
dell’opinio juris sive necessitatis. E’ chiaro cioè che l’Esecutivo può violare il diritto
consuetudinario se dimostra che detta violazione sia sorretta dal convincimento della sua doverosità
sociale.
* Per quanto riguarda l’elemento della diuturnitas, il problema del tempo di formazione della
consuetudine non si presta a soluzioni precise ed univoche. Se il trascorrere di un certo tempo per la
formazione della norma è necessario, e se vero che certe norme consuetudinarie hanno carattere
plurisecolare, è anche vero che certe regole si sono consolidate nel volgere di pochi anni. In realtà il
tempo può essere tanto più breve quanto più diffuso è un certo contegno tra i membri della

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comunità internazionale; esso resta però un fattore ineliminabile, essendo le consuetudini


istantanee, non solo una contraddizione in termini ma anche un fenomeno che non può generare
norme giuridiche per la mancanza di quel carattere di stabilità che è insito nel diritto non scritto.
* A proposito invece degli organi dello Stato che concorrono nel procedimento di formazione della
norma consuetudinaria, si riconosce generalmente la possibilità di partecipazione da parte di tutti gli
organi statali e non dei soli organi detentori del potere estero, Possono concorrere pertanto non solo
atti esterni degli Stati, ma anche atti interni. Nella formazione di certe norme consuetudinarie è la
giurisprudenza interna a giocare un ruolo decisivo come nel campo delle immunità degli Stati
stranieri dalla giurisdizione civile o delle immunità degli agenti diplomatici e degli altri organi
statali ai quali pure limitare immunità degli Stati dalla giurisdizione civile o delle immunità degli
agenti diplomatici e degli altri organi statali ai quali pure limitate immunità spettano. L’attuale
norma sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile, che vieta l’esercizio della giurisdizione
relativamente agli atti di natura pubblicistica ma l’ammette per quelli di natura privatistica, si è
andata formando a partire dalla prima guerra mondiale proprio ad opera della giurisprudenza di
vari Paesi e sotto la spinta iniziale della giurisprudenza italiana e belga. Anche nel campo delle
cause di invalidità e di estinzione dei trattati la giurisprudenza può contribuire all’evoluzione del
diritto consuetudinario; ed è loro compito promuoverne la revisione. Spesso non c’è sintonia,
nell’ambito dello stesso Stato, tra il comportamento delle corti e quello che il potere esecutivo tiene
sul piano internazionale. La mancanza di sintonia cresce via via che le corti interne si liberano della
dipendenza dai Governi dei loro Paesi.
* La consuetudine crea diritto generale e come tale si impone a tutti gli Stati, abbiano o meno
questi ultimi partecipato alla sua formazione. Secondo l’insegnamento comune le norme
consuetudinarie si impongono anche agli Stati di nuova formazione. Questo principio è stato a
lungo posto in discussione dagli Stati sorti dal processo di decolonizzazione, i quali costituiscono
la maggioranza degli attuali membri della comunità internazionale. Secondo loro il vecchio diritto
internazionale si è formato in epoca coloniale, rispondendo ad esigenze ed interessi del tutto
diversi da quelli del nostro tempo, e non può pretendere pertanto di vincolare uno Stato che nasca
oggi con esigenze ed interessi opposti. Da qui la pretesa di rispettare soltanto quelle norme
consuetudinarie preesistenti da essi liberamente accettate. Il problema della contestazione del
diritto consuetudinario va risolto in modo diverso a seconda che la contestazione provenga da un
singolo Stato o da un gruppo di Stati. Nel primo caso, la contestazione sembra irrilevante e a
maggior ragione non occorra la prova dell’accettazione della norma consuetudinaria da parte
dello Stato nei cui confronti questa è invocata. Se tale prova fosse necessaria la consuetudine
dovrebbe configurarsi come accordo tacito. Ma verrebbe a negarsi la stessa idea di un diritto
internazionale generale e comune ai vari soggetti internazionali, idea invece senta nell’ambito della
comunità internazionale. Diversa è invece la soluzione nel secondo caso: quando la contestazione
proviene d un gruppo di Paesi, essa non può essere ignorata. La disgregazione del gruppo socialista
semplifica le cose. Ma quando una regola è fermamente e ripetutamente contestata dalla più gran
parte degli Stati appartenenti ad un gruppo, essa non solo non è opponibile a quelli che la
contestano ma non è neanche da considerarsi esistente come regola consuetudinaria. E’ opportuno
notare che i Paesi in sviluppo tendono a sopravvalutare l’importanza di tutta una serie di risoluzioni
delle organizzazioni internazionali a carattere universale, particolarmente dell’Assemblea generale
delle Nazioni Unite. Formalmente dette risoluzioni non hanno forza vincolante e le norme in esse
contenute possono acquistare tale forza solo se vengono trasformate in consuetudini internazionali
oppure se vengono trasfuse in convenzioni internazionali. Non a caso si dice che le risoluzioni
delle organizzazioni internazionali appartengono al diritto morbido, termine con il quale si fa
salva la loro non obbligatorietà. Il che non esclude che il soft law, e soprattutto le raccomandazioni
degli organi delle Nazioni Unite possono costituire l’avvio alla formazione di norme
consuetudinarie o la premessa della conclusione di accordi internazionali, dal contenuto
corrispondente.

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* Oltre alle norme consuetudinarie generali si afferma di solito l’esistenza di consuetudini


articolari, cioè vincolanti una ristretta cerchia di Stati; l’esempio classico è costituito dalle
consuetudini regionali o locali. La figura della consuetudine particolare è da ammettersi e la sua
applicazione più rilevante è fornita dal diritto non scritto che può formarsi a modifica o
abrogazione delle regole poste da un determinato trattato: è possibile, ed in fatto avviene, che le arti
contraenti diano vita ad una prassi modificatrice delle norme a suo tempo pattuite. La idoneità delle
norme consuetudinarie può suscitare qualche riserva solo allorché si tratti di organizzazioni
internazionali che comprendono un organo giurisdizionale destinato a vegliare sul rispetto del
trattato istitutivo. Anche la consuetudine particolare è per definizione un fenomeno di gruppo,
come tale non scomponibile in relazione ai singoli Stati. In altri termini, la consuetudine regionale
risulta pur sempre dai contegni rilevabili in seno ad un gruppo di Stati, senza che sia necessario
indagare o provare che tutti gli Stati appartenenti al gruppo abbiano effettivamente contribuito a
formarla.
* Le norme consuetudinarie generali sono suscettibili di applicazione analogica. L’analogia, da
intendersi come una forma di interpretazione estensiva, consiste nell’applicare una norma ad un
caso che essa non prevede, ma i cui caratteri essenziali sono analoghi a quelli del caso previsto.
Nell’ambito del diritto consuetudinario il ricorso all’analogia ha senso soprattutto con riguardo a
fattispecie nuove: le norme consuetudinarie possono essere applicare a rapporti della vita sociale
che non esistevano all’epoca della formazione della norma.

CAPITOLO 5: I principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili

* L’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia annovera tra le fonti i “principi
generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili”. Secondo l’interpretazione che si dà all’art.
38 si tratterebbe di una fonte utilizzabile là dove manchino norme pattizie o consuetudinarie
applicabili ad un caso concreto. Il ricorso ai principi generali di diritto costituirebbe una sorta di
analogia juris destinata a colmare le lacune del diritto pattizio o consuetudinario, ed andrebbe
effettuato prima di concludere che obblighi internazionali non sussistono in ordine ad un caso
concreto. L’art. 38 codificherebbe una prassi sempre seguita nei rapporti internazionali e rilevante
appunto un uso più o meno ampio di principi generali, particolarmente di quei principi di giustizia
oppure soltanto di logica giuridica. Senza dubbio ogni ordinamento giuridico ammette il ricorso ai
principi generali in mancanza di norme specifiche e non si vede perché lo stesso debba ammettersi
nell’ambito dell’ordinamento internazionale; qui il problema è però complicato dalla circostanza
che i principi non sarebbero ricavati per astrazione dalle stesse norme internazionali, ma prelevati
dagli ordinamenti degli Stati “civili”. Sono due le condizioni o requisiti che debbono sussistere
perché principi statali possano essere applicati a titolo di principi generali di diritto
internazionale. Occorre anzitutto che essi esistano e siano uniformemente applicati nella più gran
parte degli Stati: in secondo luogo occorre che essi siano sentiti come obbligatori o necessari anche
dal punto di vista del diritto internazionale, che essi cioè perseguano dei valori e impongano dei
comportamenti che gli Stati considerino come perseguiti ed imposti o almeno necessari anche sul
piano internazionale. Così intesi, i principi generali non costituiscono altro che una categoria sui
generis di norme consuetudinarie internazionali, rispetto alle quali la diuturnitas è data dalla
loro uniforme previsione e applicazione da parte degli Stati all’interno dei rispettivi ordinamenti.
Per quanto riguarda l’opinio juris necessitatis, essa è presente nelle vecchie regole di giustizia e di
logica giuridica: sono regole intese da tutti gli organi dello Stato come aventi un valore universale
ed applicabili in qualsiasi ordinamento giuridico e quindi anche in quello internazionale. Per ogni
altra regola uniforme di diritto interno occorrerà volta a volta accertare l’opinio juris dal punto di
vista internazionale. Nell’accertamento dell’opinio juris a livello internazionale è necessario molto
rigore, onde non pervenire alla conclusione che qualsiasi uniformità di norme generali statali crei
diritto internazionale generale. Con questa riserva, la categoria dei principi generali di diritto
comuni agli ordinamenti statali è idonea ad aprire prospettive interessanti di ricostruzione di norme

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internazionali. A parte le vecchie regole di giustizia e di logica giuridica, essa può costituire una
delle strade per affermare la natura internazionalistica di quei principi che mirano a salvaguardare la
dignità umana e ad attuare una migliore giustizia sociale. Lo Stato, mentre ha una serie di obblighi
circa il trattamento degli stranieri, è internazionalmente libero di trattare i propri sudditi come
meglio crede. Questa opinione corrisponde sempre meno alla realtà se riferita alle norme
convenzionali che si occupano ormai di tanti aspetti della vita che si svolge all’interno della
comunità statale. La stessa opinione è ancora vera per il diritto consuetudinario, salve talune
eccezioni.
[Il ricorso ai principi generali di diritto è particolarmente attuato nella materia della punizione di crimini internazionali ad opera di
tribunali internazionali penali, in particolare dei tribunali per i crimini commessi nella ex Jugoslavia e nel Ruanda, i quali vi hanno
fatto ricorso per colmare lacune delle norme internazionali assai vistose nella materia. Ciò è avvenuto in tema di cause di esonero
dalla responsabilità o per affermare regole universali di giustizia].
Nella prospettiva qui delineata, i principi generali di diritto comuni agli ordinamenti statali
finiscono col perdere la loro caratteristica di principi destinati soltanto a colmare le lacune del
diritto internazionale; il loro rapporto con le vere e proprie norme consuetudinarie viene ad essere
il normale rapporto tra norme di pari grado.
* Uno dei requisiti per l’esistenza di un principio generale di diritto comune agli ordinamenti
statali è che esso sia uniformemente seguito nella più gran parte degli Stati. Ne deriva che la
ricostruzione di un principio del genere può consentire al giudice di uno Stato di farne applicazione
anche quando il principio medesimo non esita nell’ordinamento statale; ciò sempre che
l’ordinamento interno imponga l’osservanza del diritto internazionale.
* Oltre alla constatazione che un principio sia uniformemente seguito nella più gran parte degli
ordinamenti statali e che al contempo esso sia sentito internazionalmente come obbligatorio, non
sembra vi siano altre condizioni o limiti alla ricostruzione di un principio generale di diritto
riconosciuto dalle Nazioni civili. Non sono configurabili come tali i principi che disciplinano
situazioni tipiche del diritto interno. Una simile limitazione quanto al contenuto dei principi
generali sia inammissibile in una moderna concezione del diritto internazionale.

CAPITOLO 6: Altre presunte norme generali non scritte. L’equità

* Una parte della dottrina pone al di sopra delle norme consuetudinarie un’altra categoria di
norme generali non scritte, i principi. Il più vigoroso sostenitore della categoria dei principi è il
Quadri. Secondo l’illustre autore i principi costituirebbero le norme primarie del diritto
internazionale, sarebbero espressione immediata e diretta della volontà del corpo sociale, e
comprenderebbero quelle norme volute e imposte dalle forze prevalenti in un dato momento storico
nell’ambito della comunità internazionale. Tra i principi alcuni avrebbero carattere formale, in
quanto si limiterebbero a istituire fonti ulteriori di norme internazionali, altri carattere materiale,
in quanto disciplinerebbero direttamente rapporti fra Stati. I principi formali sarebbero due:
consuetudo est servanda e pacta sunt servanda. L’osservanza delle consuetudini e degli accordi si
spiegherebbe in quanto voluta e imposta dalle forse prevalenti nell’ambito della comunità
internazionale. In tal modo consuetudine ed accordo sarebbero entrambi fonti di secondo gradi.
Dalla dottrina comune in tema di gerarchia delle fonti internazionali, la consuetudine è considerata
invece come fonte primaria, mentre si ritiene che l’accordo, fonte secondaria, tragga la sua forza
dalla consuetudine, cioè che la norma pacta sunt servanda sia una norma consuetudinaria. La
concezione del Quadri ci sembra non accettabile. Non sono i principi formali a suscitare riserve: se
l’esame della prassi internazionale porta a constatare la formazione, al di sopra dello Stato, di
norme consuetudinarie e di norme pattizie, questo fenomeno può anche descriversi, ponendo sia
l’una che l’altra fonte sullo stesso piano e riportandole entrambe a due super-principi; il fatto, poi,
che certe norme consuetudinarie hanno carattere cogente, ossia non derogabili mediante accordo,
potrebbe anch’esso spiegarsi sostenendosi che l’inderogabilità sia sancita da un principio
superiore. Ciò che non convince e porta a respingere l’intera categoria dei principi del Quadri è la
possibilità di ricostruire principi materiali indipendentemente dall’uso, e di ricostruirli fino alle

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estreme conseguenze. Un gruppo di Stati, e magari anche un solo Stato, potrebbe imporre la propria
volontà a tutti gli altri membri della comunità internazionale. E’ evidente che in questo modo gli
esempi di principi potrebbero moltiplicarsi: via via si verrebbero a creare delle norme generali.
Senza dubbio gli abusi si commettono; ma viene da chiedersi come è possibile legittimarli dal punto
di vista giuridico, connaturato con l’idea di diritto c’è sempre un elemento di stabilità. La
concezione del Quadri non è avallabile nemmeno dal punto di vista di un operatore giuridico
interno che dovendo stabilire quali norme internazionali generali siano da applicare in Italia si
dovrebbe chiedere volta a volta se non vi siano imposizioni da parte delle forze dominanti nella
comunità internazionale. E’ vero che alla base di una norma non scritta vi è spesso una
imposizione; ma la norma intanto esiste in quanto si traduce nei comportamenti reiterati degli Stati,
accompagnati dal convincimento della doverosità sociale dei comportamenti medesimi. In altri
termini, se alla iniziale imposizione non fanno seguito stabilità e continuità, non è possibile
ammettere l’esistenza di un principio.
* Si discute se sia fonte di norme internazionali l’equità, definita come il comune sentimento del
giusto e dell’ingiusto ed in particolare ci si chiede se all’equità possa ricorrere il giudice
internazionale o interno che sia chiamato a risolvere una questione di diritto internazionale. A noi
sembra che, a parte la possibilità di utilizzare l’equità come ausilio meramente interpretativo, ed a
parte il caso in cui un tribunale arbitrale internazionale sia espressamente autorizzato a giudicare
la risposta debba essere negativa. L’equità svolge un ruolo importante nell’ordinamento inglese
sia per quanto riguarda il diritto materiale sia per quanto riguarda il diritto processuale, di
quell’ordinamento. E’ da escludere non solo l’equità contra legem, contraria cioè a norme
consuetudinarie o pattizie, ma anche l’equità praeter legem, diretta a colmare le lacune del diritto
internazionale: se il diritto internazionale è lacunoso gli Stati non hanno obblighi da osservare o
diritti da pretendere, e l’equità non può essere idonea a crearli. L’equità deve essere inquadrata nel
procedimento di formazione del diritto consuetudinario. Spesso il ricorso all’equità si atteggia
come una sorta di opinio juris sive necessitatis, in quanto ha luogo nel momento in cui una norma
si va formando o modificando. Per quanto concerne la giurisprudenza interna, considerazioni di
equità sono ad es. alla base dei vari mutamenti di indirizzo avvenuti nel campo dell’immunità degli
Stati stranieri dalla giurisdizione. Considerazioni di equità sono anche alla base di numerose
decisioni di tribunali internazionali, che, alle prese con frammenti di regole consuetudinarie, non
hanno esitato a farne applicazione. Quando una sentenza interna ricorre a considerazioni di equità
nel quadro del diritto consuetudinario, essa influisce direttamente sulla formazione della
consuetudine: le decisioni dei Tribunali interni costituiscono infatti una delle categorie più
importanti di comportamenti statali dai quali la consuetudine va dedotta. L’influenza è diretta, ma
relativa, trattandosi di una decisione che proviene da un singolo Stato. Il discorso è diverso per le
decisioni dei Tribunali internazionali. Qui l’influenza è indiretta, ma assai incisiva. Quanto poi a
pronunciarsi è l’organo giudiziario principale delle Nazioni Unite l’influenza è massima.

CAPITOLO 7: Inesistenza di norme generali scritte. Valore degli accordi di


codificazione

* Importante è anche capire se esistano o no norme internazionali generali scritte. Anzitutto con
riguardo alle grandi convenzioni di codificazione promosse dalle Nazioni Unite.
[Il fenomeno della codificazione del diritto internazionale generale ha iniziato alla fine del secolo XIX. Fino alla prima guerra
mondiale furono le norme del diritto internazionale bellico ad essere trasfuse in testi scritti].
Tentativi di codificazione furono fatti anche all’epoca della Società delle Nazioni, ma senza
risultati, E’ invece con le Nazioni Unite che l’opera di codificazione ha preso slancio, traducendosi
in una serie di trattati multilaterali. Ovviamente il trattato è l’unico strumento adoperabile per la
trasformazione del diritto non scritto in diritto scritto.
* L’art. 13 della Carta delle Nazioni Unite prevede che l’Assemblea generale intraprenda studi e
faccia raccomandazioni per incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua
codificazione. Sulla base di questa disposizione l’Assemblea costituì la Commissione di diritto

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internazionale delle Nazioni Unite che, composta da esperti che vi siedano a titolo personale, ha il
compito di provvedere alla preparazione di testi di codificazione delle norme consuetudinarie
relative a determinate materie, predisponendo così progetti di convenzioni multilaterali
internazionali che vengono adottai e aperti alla ratifica e all’adesione da parte degli Stati stessi. La
Commissione ha finora predisposto varie convenzioni di codificazione, coprendo quasi tutti i
settori del diritto internazionale. Le principali convenzioni sono: la Convenzione di Vienna del
1961 sulle relazioni ed immunità diplomatiche; la Convenzione sulle missioni speciali del 1969; la
Convenzione di Vienna del 1963 sulle relazioni consolari; le quattro Convenzioni di Ginevra del
1958 sul diritto del mare; la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati; la
Convenzione di Vienna del 1986 sul diritto dei trattati conclusi da Stati con organizzazioni
internazionali e tra organizzazioni internazionali; la Convenzione di Vienna del 1978 sulla
successione degli Stati nei trattati; la Convenzione di Vienna del 1983 sulla successione di Stati in
materia di beni, archivi e debiti di Stati; la Convenzione del 1997 sul diritto relativo alle
utilizzazioni dei corsi d’acqua internazionali a fini diversi dalla navigazione; la Convenzione del
2004 sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni. La Commissione non è l’unico
organismo che predispone progetti di accordi di codificazione. L’Assemblea in alcuni casi ha
convocato conferenze di Stati in seno alle quali anche il progetto è stato affidata ad organi sussidiari
dell’Assemblea. Sebbene queste convenzioni non contengano molte norme riproduttive del diritto
internazionale consuetudinario, contribuiscono allo sviluppo progressivo del diritto internazionale
generale e sono, pertanto, inquadrabili nel tema della codificazione. Rispetto alle convenzioni
progettate dalla Commissione di diritto internazionale la loro particolarità sta nel fatto che anche
il progetto non è frutto del lavoro di individui che esprimono opinioni personali ma di individui che
rappresentano gli Stati e devono seguirne le istruzioni.
* Gli accordi di codificazione, in quanto comuni accordi internazionali, vincolano gli Stati
contraenti. Sebbene però sia fuor di dubbio la grande importanza del contributo che, con l’opera di
codificazione, le Nazioni Unite danno all’affermazione del Diritto dell’ambito della comunità
internazionale, occorre esser molto cauti nel considerare gli accordi di codificazione come
corrispondenti al diritto consuetudinario generale e quindi nell’estenderli agli Stati non
contraenti. Ciò per vari motivi. Innanzitutto non è il caso di riporre un’illimitata fiducia nell’opera
di codificazione svolta dalla CDI, in cui spesso influisce la mentalità dell’interprete e di coloro che
sono chiamati a far parte della Commissione in qualità di esperti. La seconda considerazione
attiene al fatto che gli Stati stessi fanno quello che sempre si fa in sede di trattative per la
conclusione di accordi internazionali; cioè cercano di far prevalere le proprie convinzioni e di
assicurarsi soprattutto la salvaguardia dei propri interessi. C’è poi un terzo motivo riguardante da
vicino la lettera dell’art. 13 della Carta delle Nazioni Unite, che parla non solo di codificazione
ma anche di sviluppo progressivo del diritto internazionale. Per introdurre norme che erano
abbastanza incerte sul piano del diritto internazionale generale. Si può quindi affermare che gli
accordi di codificazione valgono solo per gli Stati che li ratificano e costituiscono un valido punto
di partenza per l’interprete che deve ricostruire delle norme generali consuetudinarie, nella
materia disciplinata dall’accordo medesimo; l’interprete dovrà tuttavia compiere un’ulteriore
verifica restando sempre da dimostrare che le norme contenute nell’accordo corrispondano alla
prassi degli Stati. E solo se la verifica risultasse positiva potrà applicare la norma dell’accordo di
codificazione a titolo di diritto generale. Bisogna aggiungere che alcune grandi Convenzioni,
come quella di Vienna del 1969 o la Convenzione di Montego Bay del 1982 sono state ratificare
da un larghissimo numero di Stati; altre, come la Convenzione di Vienna del 1978 o del 1986
hanno visto una partecipazione assai esigua. Naturalmente la verifica sarà più necessaria per le
convenzioni di codificazione non ratificare da un gran numero di Stati o di norme codificate il cui
testo fu oggetto di contrasti tra gli Stati che lo redassero. Altro tema importante è quello del
ricambio delle norme contenute nell’accordo. Infatti, ammesso che l’accordo di codificazione
corrisponda perfettamente al diritto internazionale consuetudinario al momento della sua
redazione, è possibile che in epoca successiva il diritto consuetudinario subisca dei cambiamenti

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per effetto della mutata pratica degli Stati. Una simile eventualità è scarsamente presa in
considerazione dagli stessi accordi di codificazione, però il fenomeno dell’invecchiamento della
convenzione di codificazione diviene sempre più attuale in un mondo che evolve continuamente del
diritto dei trattati e nel settore del diritto internazionale marittimo. La possibile evoluzione del
diritto consuetudinario dopo la redazione dell’accordo di codificazione costituisce un ulteriore
motivo per respingere ogni semplicistica equiparazione del diritto codificato al diritto generale.
Per quanto riguarda gli Stati contraenti, la mancanza di un’autorità nell’ambito della comunità
internazionale impedisce che vi si instauri quel rapporto tra diritto consuetudinario e diritto
scritto che è tipico degli ordinamenti statali e che consiste nel valore puramente ausiliario del
primo nei settori dove esiste il secondo. Consuetudini e accordi internazionali sono in linea di
principio tra loro derogabili, e nulla vieta che il diritto consuetudinario successivo abroghi quello
pattizio anteriore. Lo stesso con riguardo alle norme contenute negli accordi di codificazione,
dato che lo scopo principale di simili norme consiste in un certo senso proprio nel bloccare la
tradizione in omaggio alla certezza dei rapporti giuridici. L’interprete deve essere estremamente
sicuro della prassi da cui intende estrarre la norma consuetudinaria abrogatrice e deve tra l’altro
dimostrare che la consuetudine si è formata con il concorso degli Stati contraenti e che questi
l’intendano come applicabile anche nei rapporti inter se.

CAPITOLO 8: Le dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale dell’ONU

* Fin dai primi anni di vita, l’Assemblea ha seguito la prassi di emanare in forma più o meno
solenne, delle Dichiarazioni contenenti una serie di regole che talvolta riguardano rapporti tra Stati
ma il più spesso riguardano rapporti interni alle varie comunità statali.
[Tra le varie dichiarazioni ricordiamo, oltre alla famosa Dichiarazione universale dei diritto dell’uomo: quelle sul genocidio, sui
diritti del fanciullo, sull’indipendenza dei popoli coloniali, sul divieto dell’uso di armi nucleati e termonucleari, sulla
eliminazione delle discriminazioni contro la donna, sull’asilo territoriale, sul progresso e lo sviluppo sociale, sulle relazioni
amichevoli e la collaborazione fra gli Stati, sulla soluzione pacifica delle controversie, sulla protezione dei detenuti, sulle
misure per eliminare il terrorismo internazionale. Particolare menzione meritano anche la Dichiarazione e il Programma di
azione per l’istaurazione di un nuovo ordine economico internazionale, la Carta dei diritti e doveri economici degli Stati, la
Dichiarazione sul diritto allo sviluppo, la Dichiarazione sul diritto allo sviluppo, la Dichiarazione sul 50° anniversario delle
Nazioni Unite, la Dichiarazione del Millennio, la Dichiarazione sull’AIDS].
Le Dichiarazioni di principi non costituiscono una autonoma fonte di norme internazionali
generali. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite non ha poteri legislativi mondiali e il
caratteri non vincolante delle sue risoluzioni è difeso con forza da una parte non indifferente dei
suoi membri (se l’Assemblea avesse poteri legislativi, i Paesi del Terzo Mondo, che detengono la
maggioranza in seno ad essa, disporrebbero del diritto internazionale generale).
* Le Dichiarazioni svolgono un ruolo assai importante ai fini dello sviluppo del diritto
internazionale, e del suo adeguamento alle esigenze di solidarietà e di interdipendenza. Non si
tratta di accordare loro una forza vincolante che di per sé non hanno; si tratta di riconoscere il
contributo che l’Assemblea dell’ONU dà alla formazione del diritto internazionale, sia pure nel
quadro delle fonti tipiche di tale diritto, quali la consuetudine e l’accordo. Passando al diritto
pattizio, si può ritenere che certe Dichiarazioni, o parti di esse abbiano valore di veri e propri
accordi internazionali. Ci riferiamo a quelle Dichiarazioni che non solo enunciano un principio
ma in modo espresso ed inequivocabile ne equiparano l’inosservanza alla violazione della Carta.
Poiché l’Assemblea non ha il potere di interpretare le norme della Carta in modo obbligatorio per i
singoli Stati, anche le Dichiarazioni in parola restano delle mere raccomandazioni. Ci sembra
però che equiparandosi l’inosservanza di un certo principio all’inosservanza della Carta, si utilizza
un espediente verbale per sancire puramente e semplicemente che quel principio è ormai
obbligatorio; dal che risulta lecito presumere che gli Stati i quali partecipano col loro voto
favorevole all’atto intendano obbligarsi. Delle due l’una: o si ammette una simile presunzione
oppure bisogna concludere che le Dichiarazioni di principi del tipo in esame rappresentino delle
dichiarazione non serie o rese con riserva mentale. La situazione non muta nel caso che la
Dichiarazione consideri l’inosservanza di un principio come violazione del diritto internazionale

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generale anziché della Carta. Anche in tal caso è legittimo presumere che sussista una sincera
volontà di obbligarsi.
[Tra le Dichiarazioni che equiparano l’inosservanza dei principi dichiarati alla inosservanza della Carta o del diritto internazionale
generale, ci sono le risoluzioni sul genocidio, sull’indipendenza dei popoli coloniali, sul divieto di armi nucleari e termonucleari,
sulla sovranità sulle risorse naturali.]
Le Dichiarazioni inquadrabili come accordi vanno propriamente considerate come accordi in
forma semplificata.

CAPITOLO 9: I trattati. Procedimento di formazione e competenza a stipulare

* Per indicare l’accordo, la terminologia usata è assai varia, parlandosi indifferentemente, di


trattato, di convenzione, di patto, ecc. A parte poi vanno considerati i casi in cui un certo nome è
dato in vista della materia di cui l’accordo si occupa o della procedura che si segue nella
conclusione: ad es. usa il termine Carta o Statuto per i trattati istitutivi di organizzazioni
internazionali; scambio di note per l’accordo risultante dallo scambio di note diplomatiche
ecc. Ad ogni modo, la natura dell’atto non muta ed è quella propria degli atti contrattuali:
l’accordo internazionale può essere definito come l’unione o meglio l’incontro delle volontà di
due o più Stati, dirette a regolare una determinata sfera di rapporti riguardanti questi ultimi. Né è da
accogliere la distinzione fra trattati normativi, o trattali-legge, e trattati-contratto o trattati-
negozio. I primi, considerati come gli unici accordi produttivi di vere e proprie norme giuridiche,
sarebbero caratterizzati da volontà di identico contenuto, dirette a regolare la condotta di un numero
rilevante di Stati; essi comprenderebbero gli accordi di codificazione, gli accordi istitutivi di
organizzazioni internazionali, gli accordi contenenti dichiarazioni solenni degli Stati. Nei
secondi, che sarebbero fonti di diritti e di obblighi, ossia di rapporti giuridici, e non di norme, le
parti muoverebbero da posizioni contrastanti ed attuerebbero uno scambio di prestazioni più o meno
corrispettive; ciò caratterizzerebbero, ad es. gli accordi di stabilimento, gli accordi commerciali, i
trattatati di alleanza, di cessione territoriale ecc. La distinzione fra trattati normativi e trattati-
contratto non ha senso, non avendo senso la contrapposizione tra norma e rapporto giuridico. Né
ha senso il dire che in certi accordi le parti sono contrapposte e in altri sono unite. In realtà si tratta
di una distinzione anacronistica. L’utilizzazione del concetto di accordo normativo ebbe
motivazioni prevalentemente di teoria generale, derivando dal convincimento che solo la volontà
dello Stato fosse idonea a creare diritto, e che pertanto anche nel diritto internazionale si dovesse
ricostruire qualcosa di simile alla legge, qualcosa che attuasse una unione, a fini legislativi, della
volontà di più Stati; i primi trattati solenni conclusi nella seconda metà del secolo scorso offrirono
il materiale per una simile ricostruzione.
[Non bisogna confondere la distinzione fra trattati nomativi e trattati-contratto, con la distinzione tra norme astratte regolanti una
situazione o un rapporto tipo e vincolanti i destinatari che vengano a trovarsi in quella situazione o rapporto, e norme concrete,
regolanti una situazione o un rapporto singolo e determinato. Norme astratte e concrete si rinvengono negli accordi internazionali e
nelle fonti del diritto interno legislative, amministrative, contrattuali ecc; ma non è dalla presenza delle une e delle altre che si fa
dipendere la qualifica di un accordo come trattato-legge o trattato-negozio].
I trattati, come tutte le fonti di norme giuridiche, possono dar vita sia a regole materiali, cioè a
norme che direttamente disciplinano i rapporti fra destinatari imponendo obblighi o attribuendo
diritti, sia a regole formali o strumentali, cioè a norme che si limitano ad istituire fonti per la
creazione di ulteriori norme. Tra gli accordi che istituiscono fonti acquistano oggi grande
importanza i trattati costitutivi di organizzazioni internazionali.
* Come i contratti nel diritto interno sottostanno alla legge, così i trattati internazionali
sottostanno ad una serie di norme consuetudinarie che ne disciplinano il procedimento di
formazione nonché i requisiti di validità e di efficacia. Tale complesso di regole forma il diritto dei
trattati, a cui è dedicata una delle grandi convenzioni di codificazione promosse dalle Nazioni
Unite ed elaborate dalla CDI, la Commissione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati. Oltre
alla Convenzione del 1969 vanno menzionate altre due convenzioni di codificazione, concluse
anch’esse a Vienna, rispettivamente nel 1978 e nel 1986. La prima riguarda i trattati stipulati tra
Stati e organizzazioni internazionali o tra Organizzazioni internazionali. Caratteristica di

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quest’ultima convenzione è che riproduce pedissequamente la Convenzione del 1969. Il che si


spiega col fatto che le norme sulla nascita, la vita e l’estinzione dei trattati sono sostanzialmente
simili sia che a concluderli siano gli Stati, sia che ad essi partecipino organizzazioni internazionali.
[L’art. 4 della Convenzione di Vienna stabilisce che questa si applica unicamente ai trattati conclusi tra Stati dopo la sua entrata in
vigore. In tal modo l’articolo prevede la irretroattività della convenzione. L’art. inoltre afferma che le regole riproduttive del diritto
consuetudinario perché corrispondenti al diritto generale, valgono per tutti gli Stati e per tutti i trattati; sarà l’interprete a dover
stabilire se una determinata regola corrisponda o meno al diritto generale. Inoltre la Convenzione è largamente riproduttiva del diritto
consuetudinario, ma tuttavia non mancano in essa norme di carattere innovativo].
* Il diritto internazionale lascia la più ampia libertà in materia di forma e di procedura per la
stipulazione e quindi un accordo può risultare da ogni genere di manifestazioni di volontà degli
Stati purché di identico contenuto e purché dirette ad obbligarli. L’accordo può così realizzarsi
istantaneamente oppure aversi al termine di complicate procedure, può essere scritto o orale e così
via. Quando si descrive dunque il procedimento di formazione dei trattati, non solo non ci si può
riferire a precise e vincolanti norme giuridiche, ma neppure si può dare alla descrizione carattere
tassativo, dovendosi necessariamente limitarsi a quelle procedure che più delle altre sono praticate
dagli Stati. Ancor oggi il procedimento normale o solenne di formazione del trattato ricalca quello
già seguito alcuni secoli fa, all’epoca delle monarchie assolute. A tale epoca, la stipulazione del
trattato era materia di competenza esclusiva del Capo dello Stato; era negoziato dagli emissari del
Sovrano, definiti plenipotenziari, che predisponevano il testo dell’accordo e lo sottoscrivevano.
Seguiva poi la ratifica da parte del Sovrano, con la quale questi accertava se i plenipotenziari si
fossero effettivamente attenuti al mandato ricevuto e occorreva infine che la volontà ultima del
Sovrano fosse portata a conoscenza delle controparti attraverso lo scambio delle ratifiche. Le fasi
descritte sono ancora in uso nella prassi internazionale anche se è venuta meno la posizione di
preminenza del Capo dello Stato. La fase della negoziazione è tanto più complessa quanto più
numerosi sono gli Stati che partecipano alla negoziazione medesima e importante è la materia da
regolare. Secondo una prassi sempre più seguita nell’ambito delle conferenze internazionali, la
vecchia regola dell’unanimità va cedendo il passo al principio di maggioranza, oppure talvolta le
due regole si combinano. I negoziati si chiudono con la firma da parte dei plenipotenziari. Nel
procedimento normale, o solenne, la firma non comporta ancora alcun vincolo per gli Stati; essa
ha fini di autenticazione del testo che è così predisposto in forma definitiva e potrà quindi subire
modifiche solo in seguito all’apertura di nuovi negoziati. La manifestazione di volontà con cui lo
Stato si impegna, si ha invece con la fase successiva della ratifica. La competenza a ratificare è
disciplinata da ogni singolo Stato con proprie norme costituzionali. La ratifica rientra tuttora nelle
attribuzioni del Capo dello Stato, ma la competenza di quest’organo, quando non si riduce ad una
competenza a dichiarare la volontà di altri organi, concorre sia con quella del Potere esecutivo, sia
per ampie categorie di trattati. Per quanto riguarda l’Ordinamento italiano, l’art. 87 della Cost.
dispone che il Presidente della Repubblica ratifica i trattai internazionali previa autorizzazione
delle Camere; a sua volta l’art. 80 Cost. specifica che l’autorizzazione delle Camere è necessaria
quando si tratti di trattati che hanno natura politica, o prevedono regolamenti giudiziari, o
comportano variazioni del territorio nazionale od oneri alle finanze o modificazioni di leggi. Le due
norme vanno poi combinate con la regola dell’art. 89 Cost. secondo cui nessun atto del Presidente
della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la
responsabilità. La ratifica rientra tra quelli atti che il Presidente della Repubblica non può
rifiutarsi di sottoscrivere una volta intervenuta la delibera governativa ma di cui può soltanto
sollecitare il riesame prima della sottoscrizione; il che dimostra che in Italia il potere di ratifica è
nelle mani dell’Esecutivo e insieme del potere esecutivo e di quello legislativo.
[Circa i rapporti tra il Presidente della Repubblica e il Governo si discute nella dottrina costituzionalistica sull’esatta natura
dell’intervento presidenziale. Taluni sostengono che il Capo dello Stato partecipi, con la sottoscrizione, alla formazione dell’atto; altri
ritengono invece che egli resti estraneo al provvedimento, limitandosi a portarlo all’esterno e ad esercitare quel potere di controllo
che si esaurisce nella possibilità di chiederne il riesame. Circa i rapporti tra Parlamento e Governo vi è concordia nel ritenere che una
volta intervenuta la legge di autorizzazione, il Governo possa stabilire discrezionalmente il tempo in cui procedere alla ratifica. Si
discute invece se la discrezionalità del Governo possa spingersi fino ad un rinvio sine die della ratifica medesima. La discussione è
priva di riflessi internazionalistici dato che, se il Governo decide di non ratificare, la volontà dello Stato non si forma, e il problema è
silo quello della eventuale responsabilità politica del Governo stesso di fronte al Parlamento. Il tema della discrezionalità del
Governo nella gestione del trattato ha applicazione pratiche notevoli in ordine ad una serie di questioni nelle quali occorre sempre

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mantenere distinti due profili quello della valida formazione e manifestazione della volontà dello Stato nel campo delle relazioni
internazionali e quello della responsabilità delle formazioni governative che si succedono in carica di fronte alle Assemblee
parlamentari e dei controlli che queste ultime esercitano sulla politica estera governativa].
Non sempre le Costituzioni usano il termine ratifica, ma spesso vengono impiegati altri termini,
come approvazione, conclusione, ecc. Trattasi di termini in tutto e per tutto equivalenti, per i quali
vale ciò che si è fin qui detto per la ratifica. A quest’ultima è anche da equiparare l’adesione che si
ha quando la manifestazione di volontà diretta a concludere l’accordo promana da uno stato che non
ha preso parte ai negoziati. Perché una simile volontà abbia efficacia occorre ovviamente che il
rattato si aperto. L’adesione è insomma nient’altro che la ratifica di un accordo predisposto da altri.
Ratifica, adesione, approvazione, accettazione e simili sono posti sullo stesso piano dalla
Convenzione di Vienna.
[L’adesione implica partecipazione diretta al trattato multilaterale da parte dello Stato che è rimasto estraneo ai negoziati, Diverso è il
caso dell’adesione che si esprime attraverso un nuovo accordo tra i contraenti di un determinato trattato e uno Stato terzo,
formalmente del tutto autonomo e che necessita non solo della ratifica dello Stato terzo, ma anche di quella dei contraenti il primo
trattato. Un accordo del genere è necessario, ad es, per aderire all’UE].
Una volta formatasi la volontà dello Stato, il procedimento di formazione dell’accordo di conclude
con lo scambio o con il deposito delle ratifiche. Nel caso dello scambio, l’accordo si perfeziona
istantaneamente. Nel caso del deposito, l’accordo si forma tra gli Stati depositanti; di solito però si
prevede nel testo del trattato che quest’ultimo non entri in vigore, finché non si raggiunga un certo
numero di ratifiche. Allo scambio e al deposito si aggiunge la notifica agli Stati contraenti o al
depositario.
[Ogni trattato o accordo internazionale deve essere registrato presso il Segretariato delle Nazioni Unite e pubblicato a cura di
quest’ultimo. L’unica conseguenza derivante dalla omessa registrazione però, è costituita dalla impossibilità di invocare il trattato
innanzi ad un organo delle Nazioni Unite. Diversa era la corrispondente norma del Patto della Società delle Nazioni in cui art. 18
dichiarava che i trattati non registrati non fossero vincolanti.]
* Questo è il procedimento normale o solenne. Può darsi però che gli Stati seguano un
procedimento diverso, Le procedure alternative possono distinguersi a seconda che sfocino
comunque nella ratifica, oppure si caratterizzano per un differente modo di manifestazione della
volontà da parte degli Stati. Tra le prime sono inquadrabili le numerose variazioni che nella prassi
subiscono le fasi dei negoziati e della firma. Per quanto riguarda le procedure nelle quali la
manifestazione di volontà dello Stato diretta ad incontrarsi con quella degli altri Stati non consiste
nella ratifica, occorre richiamare l’attenzione sul fenomeno degli accordi in forma semplificata.
L’accordo in forma semplificata è quello che è concluso con la sola sottoscrizione de testo da
parte del rappresentante dello Stato, e che si ha quando risulti che le medesime hanno appunto
inteso attribuire alla firma il valore di piena e definitiva manifestazione di volontà. Il consenso di
uno Stato ad essere vincolato da un trattato è espresso dalla firma del rappresentante di questo Stato:
a) quando il trattato prevede che la firma avrà tale effetto; b) quando è in altro modo stabilito che
gli Stati partecipanti ai negoziati abbiano convenuto di attribuire tale effetto alla firma; c) quando
l’intenzione dello Stato di dare tale effetto alla firma risulta dai pieni poteri del suo rappresentante o
è stata espressa nel corso della negoziazione.
[L’accordo può anche essere misto, cioè esser concluso in forma semplificata da alcuni Stati e mediante ratifica da parte di altri. La
CGI ha ribadito che una dichiarazione di un organo statale non può considerarsi vincolante se non è fatta in chiari e specifici termini.]
Alla categoria degli accordi in forma semplificata dono da riportare anche gli scambi di note
diplomatiche di altri strumenti simili. La categoria comprende in definitiva tutti gli accordi che gli
organi del Potere esecutivo stipulano senza ricorrere alla procedura della ratifica. Per aversi un
accordo in forma semplificata non è sufficiente che la fase della ratifica sia saltata ma è anche
necessario che dal testo dell’accordo o dalle circostanze risulti una sicura volontà di obbligarsi. Ciò
perché la prassi internazionale conosce numerosi casi di intese tra Governi, ma che certamente
non hanno natura di veri e propri accordi in senso giuridico. Simili intese, non pretendono di avere
natura giuridica, valgono finché valgono.
[Il caso più chiaro, ma anche più raro, di intesa non giuridica è quella in cui l’accordo tra due o più Stati dichiari espressamente di
non costituire un accordo internazionale. In una zona di confine tra le intese non giuridiche e gli accordi in forma semplificata, si
collocano gli accordi sull’applicazione provvisoria dei trattati, che si hanno quando, nel testo stesso di un trattato da sottoporre a
ratifica, o con dichiarazioni separate, le parti prevedono che il trattato si applichi provvisoriamente in attesa della sia entrata in
vigore. Gli accordi di applicazione provvisoria sono considerati da taluni come intese rive di carattere giuridico, da altri come accordi
in forma semplificata, come tali vincolanti. Secondo Picone gli accordi giuridici non vincolanti] che condividerebbero con le intese

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prive di carattere giuridico la caratteristica di potere essere in ogni momento revocati unilateralmente, sarebbero da considerare come
accordi in senso giuridico soprattutto per la loro idoneità a sospendere l’efficacia di precedenti convenzioni sul medesimo oggetto,
nonché per l’impossibilità dello Stato di annullare con efficacia retroattiva le misure di esecuzione già prese. Secondo Fois, come
intese giuridicamente non vincolanti sarebbero da considerare anche i trattati segreti, Sembra però più appropriato ritenere che il
divieto di concludere accordi segreti abbia rilievo in quanto divieto previsto dal diritto interno, e che pertanto vada inquadrato nel
tema della invalidità dei trattati conclusi in violazione di norme interne di importanza fondamentale. Se gli ordinamenti degli Stati
contraenti consentono agli organi competenti a stipulare i trattati di farlo segretamente, non sembra che il diritto internazionale possa
invocarsi per togliere validità o efficacia all’accordo medesimo].
La competenza a concludere accordi in forma semplificata è regolata da ciascuno Stato con proprie
norme costituzionali. In altri termini il diritto costituzionale di ciascuno Stato stabilisce fino a
che punto l’Esecutivo possa concludere un accordo senza ricorrere alla procedura della ratifica. Da
un punto di vista comparativo può dirsi che una siffatta possibilità copra almeno gli accordi
settoriali e specifici in materie tecnico-amministrative rispetto alle quali l’Amministrazione
medesima disponga di poteri normativi propri. Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, appare
convincente la tesi secondo cui la stipulazione in forma semplificata sarebbe assolutamente da
escludere sono quando l’accordo appartenga ad una delle categorie di cui all’art. 80; in tutti gli altri
casi il Potere esecutivo sarebbe libero di decidere se dare all’accordo forma solenne e far quindi
intervenire la ratifica da parte del Capo dello Stato, oppure stipulare direttamente. Tale tesi viene
ricavata da un’interpretazione sistematica degli artt. 80 e 87 della Costituzione, e sembra
confortata dai lavori dell’Assemblea Costituente durante i quali si ribadì il principio che non tutti
gli accordi dovessero essere sottoposti a ratifica. La prassi degli accordi in forma semplificata si è
andata estendendo in modo impressionante a partire dal secondo dopoguerra. Numerosi sono gli
accordi del genere conclusi dagli Stati Uniti: trattasi particolarmente degli executive agreements
che sono stipulati dal Presidente, o comunque sotto la sua responsabilità che hanno per oggetto
materie tecnico-amministrative. La sfera degli executive agreements tende a dilatarsi ma
ovviamente non è senza limiti. Anche in Italia la stipulazione in forma semplificata è assai
diffusa e tende a superare i confini delle materie tecnico-amministrative, o meglio delle materie
che rientrano nella potestà regolamentare dell’Esecutivo, per invadere la sfera coperta dall’art. 80.
* Sia nel caso che si segua il procedimento normale, sia nel caso degli accordi in forma
semplificata il problema fondamentale in materia di formazione dell’accordo internazionale è il
seguente: se l’organo che stipula l’accordo, cioè manifesta la volontà dello Stato di aderire al
trattato, non ha competenza o comunque non segua forme o procedure previste dal diritto interno,
quali conseguenze ne derivano sul piano internazionale. Il problema della competenza a stipulare
cominciò a porsi nel secolo scorso, quando di andò affermando il principio che le assemblee
legislative dovessero intervenire nelle decisioni concernenti la ratifica di determinati trattati, con la
conseguente limitazione dei poteri del sovrano, un tempo assoluti in materia. In epoca più recente, i
termini del problema sono andati mutando e la discussione di concentra sui rapporti tra Potere
esecutivo ed organi legislativi e sugli accordi conclusi dal primo senza il concorso dei secondi. La
discussione riguarda insomma gli accordi in forma semplificata. Il problema ha molta importanza
in Italia perché non mancano i casi in cui il nostro Governo ha usato la forma semplificata di
stipulazione anche per accordi che chiaramente rientravano nelle categorie previste dall’art. 80
della Cost. e per i quali occorreva quindi l’intervento del Parlamento e la ratifica da parte del
Presidente della Repubblica. Tra gli esempi più significativi ricordiamo: la domanda di
ammissione dell’Italia alle Nazioni Unite; il Memorandum d’intesa per Trieste del 1954; la
Dichiarazione finale della Conferenza di Tangeri del 1956. La maggior parte degli scrittori che
so sono occupati delle teorie sulla validità o invalidità degli accordi conclusi in violazione di
norme interne sulla competenza a stipulare concordano nell’escludere soluzioni radicali sia in senso
internazionalistico, sia in senso internistico: si esclude così, da un lato, che per il diritto
internazionale i trattati stipulati direttamente dall’Esecutivo siano in ogni caso validi; e si esclude,
dall’altro, che qualsiasi vizio, qualsiasi irregolarità procedurale dal punto di vista del diritto
interno possa inficiare la validità internazionale dell’accordo. Secondo alcuni il diritto
internazionale si rifarebbe nella materia alla ripartizione di fatto delle competenze esistenti
all’interno dello Stato al momento della stipula dell’accordo, oppure rinvierebbe alla Costituzione

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vivente, quale si forma attraverso la prassi, o terrebbe conto delle prospettive che per l’accordo
concluso dall’organo incompetente sussistono di ricevere ciò nonostante esecuzione; altri fanno
leva invece sulla buona fede, sostenendo che l’accordo sarebbe valido ogni qualvolta la violazione
del diritto interno non sia riconoscibile dalle altre parti contraenti. Una soluzione abbastanza
vicina a quella puramente internazionalistica, è contenuta nell’art. 46 della Convenzione di
Vienna, che stabilisce: 1) il fatto che il consenso di uno Stato ad esser vincolato da un trattato si
astato espresso in violazione di una regola del suo diritto interno sulla competenza a stipulare
trattati non può essere invocato da tale Stato come vizio del suo consenso, a meno che la violazione
non sia manifesta e non concerna una regola del suo diritto interno di importanza fondamentale; 2)
Una violazione è manifesta se è obiettivamente evidente per qualsiasi Stato che si comporti in
materia secondo la prassi abituale e in buona fede. Alcuni dati che emergono dalla prassi sono
abbastanza significativi al fine di accertare lo stato del diritto consuetudinario. Il primo è che,
quando i Governi si impegnano sul piano internazionale per materie che rientrano nella sfera di
competenza di altri organi e in particolare dei Parlamenti, la puntuale osservanza dell’impegno non
può prescindere dall’uso di strumenti giuridici interni che sfuggono alla disponibilità dei Governi
medesimi. Un altro dato è che, di fronte ai casi in cui vengono avanzate sul piano diplomatico
richieste di esecuzione o denunce di violazioni di accordi conclusi esclusivamente dall’Esecutivo, è
estremamente difficile stabilire se ciò avviene con la convinzione di sollecitare il rispetto di veri e
propri impegni di carattere giuridico, o solo per motivi politici di propaganda. Un ultimo dato è
costituito dalla giurisprudenza interna, ed in particolare dalla massa di sentenze, provenienti da
Stai diversi, che si rifiutano di applicare trattati conclusi dai rispettivi Governi in violazione di
norme interne fondamentali sulla competenza a stipulare. Così stando le cose l’art. 46 della
Convenzione di Vienna corrisponde al diritto internazionale generale quando codifica il principio
che la violazione di norme interne di importanza fondamentale in tema di competenza a stipulare sia
causa di invalidità del trattato. Una violazione del genere si abbia quando sull’accordo non si sia
pronunciato uno degli organi cui la Costituzione assegna un potere decisionale effettivo nel
procedimento di stipulazione, quando, sia mancato il concorso del Parlamento. Sembra che l’art.
46 non corrisponda al diritto consuetudinario nella parte in cui enuncia il principio della buona
fede: l’accordo concluso senza la relativa competenza costituzionale è piva di carattere giuridico e
che vale finché vale. Una simile intesa acquista il valore di vero e proprio accordo internazionale
in senso giuridico nel momento in cui l’organo messi da parte manifesti esplicitamente o
implicitamente il suo assenso. L’assenso del nostro Parlamento si ebbe, ad es. nel caso
dell’ammissione alle Nazioni Unite o nel caso del Memorandum per Trieste. Sarebbe difficile
negare, sia che simili accordi siano divenuti vincolanti per l’Italia in seguito all’assenso del
Parlamento, sia che quando tale assenso non si è avuto, o non si è avuto sotto forma di legge così
come prescritto dalla Costituzione, ci si trovi di fronte ad impegni che il diritto internazionale ci
impone di rispettare. Spesso si hanno accordi che subordinano la propria entrata in vigore non allo
scambio o al deposito della ratifiche, ma alla comunicazione che sono state adempiute le
procedure previste dal diritto interno per rendere applicabile nel territorio dello Stato l’accordo
medesimo. Simili accordi non possono considerarsi come accordi in forma semplificata dato che
non dichiarano di voler entrare in vigore per effetto della sola firma. Trattasi di figure intermedie tra
gli accordi in forma semplificata e gli accordi conclusi in forma solenne.
* Nell’ambito dell’ordinamento italiano si pone la questione se anche le Regioni possano
concludere accordi internazionali. La questione ha avuto origine da certe iniziative prese da alcune
Regioni e dirette a concordare con Stati, Regioni o altri enti territoriali stranieri forme di
collaborazione in settori di rispettiva competenza. La Corte Costituzionale, chiamata a
pronunciarsi su ricorsi per conflitto di attribuzione con il Governo centrale, prese in un primo
tempo una posizione drastica affermando l’incompetenza degli organi regionali in tema di
formulazione di accordi con soggetti propri di altri ordinamenti. La materia venne poi regolata
dall’art. 4 del DPR 1997, che riservava allo Stato le funzioni relative ai rapporti internazionali
nelle materie trasferite e delegate alle Regioni e faceva divieto alle Regioni di svolgere attività

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promozionali all’estero senza il preventivo assenso governativo. Dopo tale intervento legislativo la
Corte costituzionale tornò altre volte sull’argomento. La materia è ora regolata dall’art. 3 della
Legge cost., il quale prevede la competenza della Regione, nella materia di sua competenza, a
concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato. A parte gli accordi
internazionali, i quali non possono non impegnare lo Stato, c’è da chiedersi se le iniziative
regionali dirette a collaborare con analoghi enti stranieri siano effettivamente concepite e da
considerare come iniziative dirette a concludere veri e propri accordi retti dal diritto
internazionale. La risposta ci sembra negativa. In realtà si tratta sempre di intese, o meglio di
programmi, privi in sé di carattere giuridico, che costituiscono una mera occasione per l’adozione di
atti legislativi o amministrativi da parte delle Regioni interessate, e che possono solo servire da
punto di riferimento ai fini dell’interpretazione degli atti medesimi. A noi pare che ad aver rilievo
per il nostro ordinamento siano esclusivamente gli atti legislativi o amministrativi regionali che
danno attuazione alla collaborazione concordata. Simili atti devono sottostare soltanto alle norme
che presiedono alle competenze regionali comprese le norme sulle funzioni statali di
coordinamento.
[Quanto detto a proposito delle intese fra Regioni di Stati diversi vale a maggior ragione per le intese tra latre circoscrizioni
territoriali o enti pubblici, come i gemellaggi fra città, le intese interuniversitarie: anche qui si tratta di meri programmi, destinati a
fornire l’occasione per l’adozione di atti amministrativi interni. Non bisogna poi confondere gli accordi autonomamente promossi
dalle Regioni con gli accordi tra Regioni di Stati diversi che costituiscono esecuzione od integrazione del trattato medesimo: accordi
del genere traggono la loro forza giuridica del trattato che li prevede e cono classificabili pertanto come fonti di terzo grado].
Diffuso è anche il fenomeno degli accordi stipulati dalle organizzazioni internazionali sia fra loro,
sia con Stati membri oppure con Stati terzi. Il potere di concludere accordi è anzi da considerare
come la manifestazione più saliente della personalità giuridica internazionale delle organizzazioni.
A siffatti accordi è dedicata la Convenzione di Vienna del 1986 sul diritto dei trattati fra Stati e
organizzazioni internazionali e fra organizzazioni internazionali, che riproduce la Convenzione di
Vienna del 1969. Allo statuto di ciascuna organizzazione occorre far capo per stabilire quali sono
gli organi competenti a stipulare e quali le materie per cui siffatta competenza è attribuita. In
analogia può dirsi che una violazione grave delle norme statutarie sulla competenza a stipulare
comporti l’invalidità dell’accordo. Poiché le norme contenute nel trattato istitutivo sono
modificabili per consuetudine, la competenza a stipulare può anche risultare da regole sviluppatesi
nella prassi dell’organizzazione, purché si tratti di prassi certa, ossia seguita dagli organi e accettata
dagli Stati membri; ciò sempre che non vi sia un organo giudiziario destinato a vegliare sul rispetto
del trattato istitutivo, nel qual caso fattore determinante diviene la giurisprudenza. Tutto ciò trova
conferma nell’art. 46 della citata Convenzione di Vienna del 1986, che, riproducendo l’art. 46
della Convenzione del 1969, considera come causa di invalidità la violazione di una delle norme
dell’organizzazione sulla competenza a stipulare di importanza fondamentale. A sua volta l’art. 2
precisa che per norme dell’organizzazione devono intendersi le norme statutarie le decisioni e le
risoluzioni adottate sulla base delle norme medesime, e la prassi consolidata dell’organizzazione.
Esiste però una gran massa di accordi conclusi dalle organizzazioni internazionali non presenta
grande interesse per il giurista. Come gli accordi di collegamento che le organizzazioni stipulano tra
loro per coordinare le rispettive attività; trattasi di intese di cui può addirittura mettersi in dubbio la
natura giuridica, e che comunque non intraducibili in termini di diritti ed obblighi delle arti
contraenti. Vi è invece tutta una serie di trattati conclusi dalle organizzazioni, che in nulla
differiscono dai normali accordi giuridici internazionali. Alcuni di essi si propongono di
assicurare alle organizzazioni medesime la necessaria libertà di azione nei territori statali in cui
sono destinate ad operare. Altri invece hanno per oggetto la disciplina dei rapporti che direttamente
si ricollegano alle materie di competenza dell’organizzazione.

CAPITOLO 10: Inefficacia dei trattati verso gli Stati terzi. Incompatibilità tra norme
convenzionali

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* Le norme pattizie si distinguono dalle norme di diritto internazionale generale proprio perché
valgono solo per gli Stati che le pongono in essere. Il trattato internazionale fa legge tra le arti e
solo tra le parti. Diritti ed obblighi per terzi Stati non potranno derivare da un trattato se non
attraverso una qualche forma di partecipazione dei terzi Stati al trattato medesimo. Può darsi che il
trattato sia aperto, contenga cioè la clausola di adesione o accessione, la quale prevede la
possibilità che Stati diversi dai contraenti originari partecipino a pieno titolo all’accordo mediante
una loro dichiarazione di volontà: in tal caso la loro posizione in nulla differisce giuridicamente da
quella dei contraenti originari e l’unica differenza fra Stati aderenti o contraenti originari sta nel
fatto che i primi non hanno partecipati alla elaborazione dell’accordo. Può darsi invece che una
clausola di adesione manchi o che venga in rilievo solo la possibilità che singoli diritti a suo favore
o singoli obblighi a suo carico discendono dalla convezione medesima. In questo dovrà dimostrarsi
che il trattato contenga comunque un offerta e che dallo Stato terzo provenga un’accettazione,
così determinandosi quell’incontro di volontà caratteristico dell’accordo. Fuori di simili ipotesi si
applicherà il principio dell’inefficacia dei trattati nei confronti degli Stati non contraenti. Le parti
di un trattato possono sempre impegnarsi a tenere comportamenti che risultano vantaggiosi per i
terzi (ad es. gli accordi in tema di navigazione sui fiumi, canali e stretti internazionali che pur
intercorrendo tra un numero limitato di Paesi, sanciscono di solito la libertà di navigazione per le
navi di tutti gli Stati, o almeno di tutti gli Stati rivieraschi. Altri esempio sono forniti dai trattati
che garantiscono l’integrità territoriale o particolari status a determinati Paesi, quando il Paese
interessato non partecipi all’accordo. Tali vantaggi finché non si trasformino in diritti attraverso la
partecipazione del terzo all’accordo, possono sempre essere revocati dalle parti contraenti, a
testimonianza del loro carattere meramente riflesso per quanto riguarda il terzo. Né vale l’obiezione
secondo cui il fatto che i vantaggi derivanti al terzo possano essere revocati non toglierebbe ad essi
la natura di veri e propri diritti, così come non si può dire che, nell’ordinamento statale, il
legislatore non crei diritti per i cittadini dato che esso, con leggi successive, può annullarli. Le parti
contraenti del trattato, se vogliono negare al terzo i vantaggi pattuiti, non hanno bisogno di stipulare
un successivo trattato che formalmente abroghi o modifichi il primo, ma possono negare detti
vantaggi in ordine a casi concreti, possono negarli in alcuni casi e riconoscerli in altri; la legge non
può invece essere disapplicata in ordine a singoli casi. Anche la Convenzione di Vienna del 1969
sul diritto dei trattati si forma al principio dell’inefficacia dei trattati nei confronti dei terzi e alla
conseguente regola per cui una qualche forma di accordo è necessaria perché il terzo benefici di veri
e propri diritti o sia colpito da obblighi. L’art. 34 sancisce che un trattato non crea obblighi o diritti
per un terzo Stato senza il suo consenso. Un obbligo può derivare da una disposizione di un
trattato a carico di un terzo Stato se le parti contraenti del trattato intendono creare tale obbligo e
se lo Stato accetta espressamente per iscritto l’obbligo medesimo. Un diritto può nascere a favore di
uno Stato terzo solo se questo vi consenta ed il consenso si presume finché non vi siano indicazioni
contrarie e sempre che il trattato non disponga altrimenti; il che sembra segno di eccessiva
indulgenza verso il terzo. Tale indulgenza è controbilanciata dalla severità dell’art 37, che
autorizza i contraenti originari a revocare quando vogliono il diritto accettato dal terzo, a meno che
non ne abbiano previamente stabilita in qualche modo irrevocabilità.
* Di grande importanza è l’incompatibilità fra norme convenzionali. Premesso che un trattato può
essere modificato o abrogato, in modo espresso o implicito, da un trattato concluso in epoca
successiva fra gli stessi contraenti. Può darsi che uno Stato si impegni mediante accordo a tenere un
certo comportamento e poi si obblighi a tenere il comportamento contrario; oppure può darsi che
alcuni tra gli Stati vincolati da un trattato multilaterale ne modifichino, con un accordo
successivo, tutte o determinate disposizioni, e che la modifica o l’abrogazione tocchi anche i
rapporti con le altre parti del trattato multilaterale. In questi casi la soluzione non può che
discendere dalla combinazione del principio della successione dei trattati nel tempo e
dell’inefficacia dei trattati per i terzi: fra gli Stati contraenti di entrambi i trattati, il trattato
successivo prevale; nei confronti degli Stati parti di uno solo dei due trattati, restano invece integri
tutti gli obblighi che da ciascuno di essi derivano. Lo Stato contraente di entrambi i trattati si

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troverà in definitiva a dover scegliere se tenere fede agli impegni assunti col primo oppure a quelli
assunti col secondo accordo; operata la scelta non potrà non commettere un illecito, e sarà quindi
internazionalmente responsabile verso gli Stati contraenti del secondo oppure del primo accordo.
[La scelta può avvenire una volta per tutti quando entrambi gli accordi ricevano esecuzione all’interno dello Stato mediante atti
legislativi o comunque atti normativi di pari grado. In tal caso non potrà che valere, all’interno dello Stato, il principio della
successione degli atti normativi nel tempo, con l’automatica prevalenza del secondo trattato. Se poi uno solo dei due trattati è
eseguito all’interno con legge, sarà esso a prevalere per una consapevole scelta del potere legislativo].
Questa soluzione favorevole alla piena validità ed efficacia di entrambi gli accordi incompatibile è
sostenuta dalla maggioranza della dottrina e dalla giurisprudenza. Poco credito riscuotono i
tentativi diretti a ricostruire principi ad hoc che regolino la materia dell’incompatibilità tra norme
convenzionali in modo diverso da quanto risulta combinandosi i principi della successione dei
trattati nel tempo e dell’inefficacia dei trattati nei confronti dei terzi. Il riferimento è alla tesi
secondo cui dovrebbe ammettersi l’invalidità del secondo trattato.
[Un discorso a parte va fatto per l’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite, che sancisce la prevalenza degli obblighi derivanti dalla
Carta sugli obblighi derivanti da qualsiasi altro trattato internazionale. Da un punto di vista formale non p da escludere che duo o più
Stati possano convenire la prevalenza non valga nei loro confronti. In realtà è considerato da tutta la comunità internazionale come
una norma al di sopra degli accordi e può ritenersi che ad esso corrisponda ormai una norma consuetudinaria].
Dalla soluzione accolta non si discosta la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati che all’art.
30 si occupa dell’applicazione dei trattati nel tempo, dopo aver sancito la regola che fra due trattati
conclusi tra le medesime parti, il trattato anteriore si applica solo nella misura in cui le sue
disposizioni sono compatibili con quelle del trattato posteriore. Per quanto riguarda l’art. 41, esso è
inserito nella parte relativa agli emendamenti e alle modifiche dei trattati multilaterali, e stabilisce
che duo o più parti di un trattato del genere non possono concludere in accordo mirante a
modificarlo, sia pure nei loro rapporti reciproci, quando la modifica è vietata dal trattato
multilaterale oppure pregiudica la posizione delle altre parti contraenti o ancora è incompatibile con
la realizzazione dell’oggetto e dello scopo del trattato nel suo insieme. L’espressione non possono è
assai ambigua e potrebbe far pensare che l’art. 41 avvolga la tesi dell’invalidità dell’accordo
successivo ogni qualvolta questo non possa essere assolutamente eseguito. Senonché una
interpretazione del genere è smentita sia dai lavori preparatori, sia dalla circostanza che la
contrarietà dell’accordo parziale all’accordo multilaterale nei casi previsti dall’art. 41 non figura tra
le cause di invalidità dei trattati nella relativa parte della Convenzione di Vienna, sia dal fatto che,
se con l’art. 41 fosse effettivamente voluto adottare una soluzione così radicale, si sarebbe dovuto
adottare un testo che la indicasse in termini inequivocabili. In realtà la preoccupazione degli Stati di
evitare situazioni del genere è abbastanza diffusa, ed è rispecchiata da certe clausole che con sempre
maggiore frequenza vengono inserite nei trattati onde salvaguardare i rapporti giuridici derivanti da
altri accordi. Frequenti sono le dichiarazioni di compatibilità o di subordinazione contenute in un
trattato nei confronti di un altro o di una serie di altri trattati, ad es. di tutti i trattati preesistenti che
vincolino una delle parti. Alla dichiarazione di subordinazione, quando essa riguardi trattati
preesistenti, può accompagnarsi l’impegno delle parti ad intraprendere tutte le azioni idonee a
sciogliersi dagli impegni incompatibili, come la denuncia alla scadenza o l’apertura di negoziati per
la revisione degli accordi relativi. Proprio il negoziato costituisce lo strumento cui più di ogni altro
si fa ricorso a fini di armonizzazione di norme convenzionali tra loro incompatibili. Problemi di
compatibilità si pongono tra gli accordi conclusi in seno all’OMC e le convenzioni multilaterali
sulla protezione dell’ambiente. Clausole di compatibilità o di subordinazione sono adoperate
anche nella Convenzione di Nairobi sulla biodiversità, che prevede le disposizioni della presente
convenzione non influiscono sui diritti e gli obblighi derivanti da accordi internazionali esistenti,
ad eccezione del caso in cui l’esercizio di tali diritti ed obblighi siano in grado di causare seri danni
o pericoli per l’ambiente. A parte la condizione contenuta in detta clausola, la subordinazione è
evidente. Trattasi peraltro di una materia in cui il negoziato si rivela strumento di grande importanza
ai dini dell’armonizzazione di norme tra loro incompatibili. Si consideri infatti che gli accordi
OMC vengono spesso rinegoziati ed aggiornati nella consapevolezza della necessità di integrare le
misure di liberalizzazione del commercio internazionale con quelle idonee a preservare
l’ambiente.

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CAPITOLO 11: Le riserve nei trattati

* Sul tema delle riserve nei trattati vi è stata, a partire dal secondo dopoguerra, una sensibile
evoluzione della prassi internazionale. Di questa vi è ampia traccia negli articoli che la
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati dedica alla materia; ma la stessa Convenzione di
Vienna è stata sopravanzata dalla prassi successiva.
[Ciò ha spinto la CDI a riprendere nel 1995 lo studio della materia, sia pure dichiarando di voler assumere le norme della
Convenzione di Vienna come base di partenza della nuova opera di codificazione.]
La riserva indica la volontà dello Stato di non accettare certe clausole del trattato o di accettarle
con talune modifiche oppure secondo una determinata interpretazione; cosicché tra lo Stato autore
della riserva e gli altri Stati contraenti, l’accordo si forma solo per la parte non investita dalla
riserva, laddove il trattato resta integralmente applicabile tra gli altri Stati.
[Nel caso di una dichiarazione interpretativa occorre presumere la volontà dello Stato, che la formula, cosicché significati diversi non
potranno essergli opposti. E’ stata fatta in dottrina e discussa nella prassi una distinzione tra dichiarazioni interpretative qualificate o
condizionate, equivalenti in tutto e per tutto alle riserve, e mere dichiarazioni interpretative: queste ultime consisterebbero ella sola
proposta di una determinata interpretazione, e mirerebbero a salvaguardare una posizione giuridica, ad evitare il consolidarsi di una
prassi, a consolidarla, o ancora a inaugurarla. Teoricamente la distinzione è ammissibile e non mancano norme di convenzioni
internazionali che sembrano avallarla].
La riserva ha senso nei trattati multilaterali, soprattutto in quelli stipulati da un numero rilevante
di Stati. Nei trattati bilaterali lo Stato che non vuole assumere certi impegni non ha che da proporre
alla controparte di escluderli dal testo. Secondo il diritto internazionale classico la possibilità di
apporre riserve doveva essere tassativamente concordata nella fase delle negoziazione, e quindi
doveva figurare nel testo del trattato predisposto dai plenipotenziari; in mancanza, si riteneva che
uno Stato non avesse altra alternativa che quella di ratificare o meno il trattato. Due erano i modi
attraverso i quali si prevedeva la possibilità di apporre riserve: od i singoli Stati dichiaravano al
momento della negoziazione di non voler accettare alcune clausole e quindi nel testo del trattato si
faceva menzione di tale riserva; oppure il testo prevedeva genericamente la facoltà di apporre
riserve al momento della ratifica o dell’adesione, ed in tale momento ciascuno Stato decideva se
avvalersi o meno di una simile facoltà. Era tuttavia necessario, anche nel secondo caso, che il testo
specificasse quali clausole, quali articoli potessero formare oggetto di riserva. Secondo il diritto
internazionale classico, dunque, non era ammissibile la ratifica di un trattato multilaterale
accompagnata da riserve non previste dal testo del trattato stesso in uno dei due modi sopraindicati.
La formulazione di riserve non previste nel testo impediva la formazione del consenso, comportava
pertanto l’esclusione dello Stato autore della riserva dal novero degli Stati contraenti ed
equivaleva alla proposta di un nuovo accordo. Oggi si è verificata una notevole evoluzione nella
disciplina dell’istituto, per renderlo più duttile e quindi più idoneo allo scopo di facilitare la
partecipazione degli Stati agli accordi multilaterali. Una tappa fondamentale in siffatta evoluzione
fu segnata dal parere della CIG, reso su richiesta dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ed
avere per oggetto la Convenzione sulla repressione del genocidio. L’Assemblea chiese alla Corte
se gli Stati potessero ugualmente procedere alla formulazione di riserve al momento della ratifica.
Nel rispondere, la Corte affermò un principio che da alcuni fu considerato come rivoluzionario, ma
che è oggi del tutto consolidato come principio consuetudinario: una riserva può essere formulata
all’atto della ratifica anche se la relativa facoltà non è espressamente prevista nel testo del trattato
purché essa sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato. Comunque un altro Stato
contraente può contestare la riserva, sostenendone appunto l’incompatibilità con l’oggetto e lo
scopo del trattato non può ritenersi esistente neo rapporti tra lo Stato contestante e lo Stato autore
della riserva. Il parere della Corte ha ispirato gli articoli sulle riserve contenuti nella Convenzione
di Vienna sul diritto dei trattati; anzi, la Convenzione persegue in modo più marcato lo scopo di
favorire la maggiore partecipazione possibile agli accordi multilaterali. La Convenzione di Vienna
codifica anzitutto il principio che una riserva può essere sempre formulata purché non sia esclusa
dal testo del trattato e purché non sia incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato medesimo.
La Convenzione di Vienna stabilisce che la riserva possa essere contestata da un’altra parte

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contraente, ed aggiunge che, se tale contestazione o obiezione non è manifestata entro 12 mesi dalla
notifica della riserva altre parti contraenti, la riserva si intende accettata. Molto importante è poi la
norma secondo la quale perfino l’obiezione ad una riserva non impedisce che questa esplichi i suoi
effetti tra lo Stato che la formula e lo Stato obiettante se lo Stato obiettante non abbia
espressamente manifestato l’intenzione di impedire che il trattato entri in vigore nei rapporti tra i
due Stati. In altre parole, lo Stato che obietta deve dirlo espressamente. Seguono infine varie norme
di dettaglio, come quelle sulla revoca delle riserve e sulla forma in cui sia le riserve che le revoche
vanno redatte. Le quali però devono essere portate alla conoscenza degli altri Stati.
[Discutibile è il rapporto tra il criterio della contrarietà all’oggetto e allo scopo del trattato e quello dell’obiezioni di un’altra Parte
contraente. Se sulla questione dell’ammissibilità è chiamato a pronunciarsi un giudice internazionale o interno, potrà decidere
autonomamente, dato che il principio fondamentale in tema di apponibilità di riserve non previste dal trattato è per l’appunto quello
della conformità all’oggetto e allo scopo del trattato medesimo. Ciò con l’unica eccezione che esso dovrà tener conto delle riserve e
delle obiezioni formulare dagli organi costituzionalmente competenti del proprio Stato. Se invece un giudice non è chiamato a
pronunciarsi, è opinione comune che si debba comunque tenere conto delle obiezioni, o della mancanza di obiezioni, alla riserva, da
parte degli altri Stati contraenti].
Anche dopo la Convenzione di Vienna la disciplina delle riserve ha continuato ad evolversi. La
prassi internazionale successiva ha anzitutto confermato la norma ricavabile dagli artt. 20 e 21,
ammettendo che le obiezioni alle riserve possano avere gli effetti più vari, da quello, più radicale,
fino ad un effetto meramente precauzionale o soltanto morale. Altra innovazione riguarda la
possibilità che uno Stato formuli riserve in un momento successivo rispetto a quello in cui aveva
ratificato il trattato purché nessuna delle altre parti contraenti sollevi obiezioni entro un termine, è
stato prima fissato in 90 giorni e poi portato a 12 mesi in seguito alle poteste degli Stati a causa
della sua brevità. Ma la tendenza innovatrice più significativa rispetto al diritto internazionale
classico è quella che si ricava dalla giurisprudenza della CEDU e dalla prassi del Comitato istituito
dal Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite: trattasi della tendenza a ritenere che tale
ammissibilità non comporti l’estraneità dello Stato stesso rispetto al trattato ma l’invalidità della
sola riserva; quest’ultima dovrà pertanto ritenersi come non apposta. E’ chiaro che non è più
questione di facilitare la partecipazione agli accordi multilaterali ma di ridurre a poco più che niente
gli effetti tipici delle riserve. La giurisprudenza della Corte europea e del Comitato riguarda però
trattati sui diritti umani che tutelano fondamentali diritti degli individui. Ogni estensione ad altri tipi
di trattati è dunque prematura. Non manca chi ritiene che, anche nella materia dei diritti umani,
domini ancor il principio consensualistico, dato che la stessa giurisprudenza della Corte europea
sono oggetto o di contestazione, o di mera acquiescenza, da parte degli Stati interessati. Va infine
osservato che gli Stati che vi si oppongono possono essere indotti al limite, sottrarsi all’impegni
assunto per trattato.
* Quando alla formazione della volontà dello Stato diretta a partecipare al trattato concorrono più
organi, può darsi che l’apposizione di una riserva sia decisa da uno di essi ma non dagli altri. Se a
concorrere sono il Potere esecutivo e il Potere legislativo, il Governo può non tenere conto di una
riserva decisa dal Parlamento oppure formulare una riserva però dal Parlamento mal voluta.
[La seconda ipotesi si è spesso verificata nella prassi italiana anche a proposito di trattati di grande rilievo, come la Convenzione
europea dei diritti umani e il Patto sui diritti civili e politici promosso dalle Nazioni Unite. Nel primo caso, la riserva aggiunta dal
Governo riguardava il divieto di impedire ai cittadini di rientrare nel territorio del proprio Stato, e ne escludeva l’applicabilità agli ex
re, alle loro consorti e ai discendenti maschi, di casa Savoia].
La reciproca delimitazione dei poteri tra l’Esecutivo e il Legislativo in ordine alla formulazione
delle riserve dipendono dal sistema costituzionale vigente in ciascuno Stato. Nel sistema italiano
questa prassi ha dato luogo a contrastanti giudizi dottrinali, sostenendosi alcuni che il Governo
possa, da altri che il Governo non possa formulare riserve non previste dalla legge di
autorizzazione. I sostenitori della prima tesi di ispirano al fatto che il Governo sia il gestore dei
rapporti internazionali; d’altro canto, così come il Governo può non procedere alla ratifica di un
trattato nonostante l’autorizzazione parlamentare, così pure può restringere, attraverso le riserve, la
portata degli obblighi che lo Stato va ad assumere. I sostenitori della seconda tesi muovono da
posizioni più garantiste, e dalla necessità che la collaborazione tra Parlamento e Governo sia
effettiva. Non sempre però, è chiaro quale significato si dia all’affermazione che il Governo non
possa aggiungere riserve, il problema si risolve solo se si tiene ne presente la distinzione fra

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formazione e manifestazione della volontà dello Stato, da un lato, e responsabilità del Governo
di fronte al Parlamento, dall’altro. Sotto il primo profilo, non c’è dubbio che una riserva sia valida
sia che essa venga formulata autonomamente dal Parlamento, sia che essa venga formulata
autonomamente dal Governo: nell’un caso e nell’altro, infatti, si deve tenere conto del fatto che uno
degli organi non vuole una parte dell’accordo, e arrivare così alla conclusione che la manifestazione
di volontà dello Stato si forma solo per la parte residua. Unica alternativa sarebbe quella di ritenere
che il mancato concorso di volontà dei due organi sulla riserva renda invalida l’intera
manifestazione di volontà dello Stato, tesi però poco credibile in presenza di una prassi che
depone in senso esattamente contrario. Il discorso è diverso per quanto riguarda il profilo della
responsabilità politica del Governo, e dei suoi membri, di fronte al Parlamento: se il Governo
decide di discostarsi in tema di riserve da quanto deliberato dal Parlamento, se la decisione non è
presa dopo che il Parlamento sia stato informato, e se infine non si tratta di riserve dal contenuto
del tutto tecnico o minoris generis, vi è certamente materia perché scattino i meccanismi di
controllo del Parlamento sull’operato dell’Esecutivo. Da questo punto di vista vi è solo da
auspicare che il Parlamento attivi il proprio interesse in tema di stipulazione e di vicende degli
accordi internazionali più di quanto faccia normalmente. E’ chiaro che per il diritto internazionale
non presenta alcun interesse il profilo della responsabilità del Governo ma solo quello della
formazione della volontà dello Stato. La riserva aggiunta dal Governo e dichiarata all’atto del
deposito della ratifica, essendo valida per il diritto costituzionale, lo sarà anche per il diritto
internazionale. Nel caso di riserva contenuta nella legge di autorizzazione ma di cui il Governo non
tenga conto e non dichiari all’atto del deposito della ratifica, troverò applicazione la regola relativa
alla competenza a stipulare: per la parte coperta dalla riserva sarà configurabile una violazione
grave del diritto interno e dovrà quindi ritenersi che lo Stato non resti impegnato per detta parte se e
finché il Parlamento non revochi la riserva.

CAPITOLO 12: L’interpretazione dei trattati

* La tendenza oggi prevalente in materia è nel senso dell’abbandono del metodo subbiettivistico,
mutato dal regime dei contratti nel diritto interno ed in base al quale si renderebbe necessaria una
ricerca della volontà effettiva delle parti come contrapposta alla volontà dichiarata. Si ritiene invece
che debba attribuirsi al trattato il senso che è fatto palese dal suo testo, che risulta dai rapporti di
connessione logica intercorrenti tra le varie parti del testo. In una concezione del genere, i lavori
preparatori hanno una funzione sussidiaria: ad essi può ricorrersi solo in presenza di un testo
ambiguo e lacunoso. In pratica i lavori preparatori hanno una funzione sussidiaria: ad essi può
ricorrersi solo in presenza di un testo ambiguo e lacunoso. In pratica i lavori preparatori servono
soprattutto per avallare e rafforzare interpretazioni desumibili almeno in una certa misura dal testo
del trattato. A favore del metodo obiettivistico si pronuncia anche la Convenzione di Vienna, che
regola l’interpretazione stabilendo come regola generale che un trattato deve essere interpretato in
buona fede secondo il significato ordinario da attribuirsi ai termini del trattato nel loro contest e alla
luce dell’oggetto e dello scopo del trattato medesimo; che occorre tener conto anche del contesto in
cui il trattato si situa; e che occorre tener conto di accordi successivi o di prassi seguite dalle parti
nell’applicazione del trattato, nonché di qualsiasi regola pertinente di diritto internazionale
applicabile tra le parti. A parte il ricorso al metodo obiettivistico, valgono per l’interpretazione dei
trattati internazionali quelle regole che la teoria generale ha elaborato con riguardo
all’interpretazione delle norme giuridiche in genere e che possono considerarsi come vigenti più
o meno in tutti gli ordinamenti; nell’ordinamento internazionale esse vigono in quanto principi
generali di diritto. Un particolare accento va posto sulla possibilità che l’interprete ricorra ad
un’interpretazione estensiva di un tratta, ed anche a quella specie di interpretazione estensiva
costituita dal ricorso all’analogia. E’ quindi da abbandonare l’opinione secondo cui i trattati
dovrebbero sempre essere interpretati restrittivamente in quanto comporterebbero una limitazione
della sovranità e libertà degli Stati. Questa tesi dell’interpretazione restrittiva trova ormai scarso

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credito presso i giudici internazionali, i quali nell’interpretazione di certi trattati tendono a cadere
nell’eccesso opposto.
* Quanto detto circa il ricorso ai normali mezzi di interpretazione compresa l’analogia, vale anche
per i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali, ad es. per la Carta delle Nazioni Unite e per
i trattati dell’Unione europea. Nessuno disconosce ciò in linea di principio: ma da più parti si tenta
di ricostruire regole particolari, applicabili sia alla Carta delle Nazioni Unite sia agli accordi
istitutivi di organizzazioni internazionali. Questo riflette la concezione per cui tali accordi non
andrebbero tanto riguardati come trattati quanto come costituzioni. La CGI si è posta per questa
strada allorché ha fatto uso della teoria dei poteri impliciti, in base alla quale ogni organo
disporrebbe non solo dei poteri espressamente attribuitigli dalle norme costituzionali, ma anche di
tutti i poteri necessari per l’esercizio dei poteri espressi. La CGI, nell’applicare tale teoria ne ha
addirittura ampliato la portata finendo col dedurre certi poteri degli organi direttamente ed
esclusivamente dai principi sui fini dell’Organizzazione che si distinguono per la loro
indeterminatezza. La teoria dei poteri impliciti si colloca all’estremo opposto rispetto alla vecchia
tendenza all’interpretazione restrittiva dei trattati internazionali in quanto strumenti limitativi della
sovranità degli Stati. Essa appare però eccessiva. L’analogia tra organi statali ed organi delle
organizzazioni internazionali è assai discutibile ove si pensi alla mancanza nei secondi di quella
effettiva capacità d’imporsi ai consociati che è propria dei primi. Per quanto riguarda la teoria dei
poteri impliciti, essa può essere anche utilizzata nei confronti dei primi qualora resti nei limiti di
una interpretazione estensiva o analogica per garantire ad un organo il pieno esercizio delle funzioni
che il trattato istitutivo dell’organizzazione gli assegna. Dilatarla oltre misura è non solo poco
giustificabile dal punto di vista giuridico, ma anche suscettibile di risultare controproducente dal
punto di vista politico. Alcuni dei pareri della CGI che hanno applicato la teoria dei poteri impliciti,
sono rimasti lettera morta.
* La Convenzione di Vienna non avalla interpretazioni unilateralistiche dei trattati. Sembra da
escludere cioè che una norma contenuta in un accordo internazionale possa assumere significati
differenti a seconda dello Stato contraente al quale debba volta a volta applicarsi. Due regole della
Convenzione sono indicative al riguardo. Una è quella che in testi non concordanti redatti in più
lingue ufficiali, impone un’interpretazione che concili tutti i testi, rifiutando la vecchia tesi secondo
cui per ciascuno Stato varrebbe il testo redatto nella sua lingua. L’altra, secondo cui,
nell’interpretare un trattato, occorre anche tenere conto di altre norme internazionali, tra le quali
sono incluse le norme di diritto interno, proprie di ciascuno Stato contraente contro tutte le
tendenze interpretative unilateralistiche che non siano autorizzate dalle disposizioni dello stesso
accordo da interpretare contro quelle che rinunciano a ricercare un significato unico per ogni
clausola dell’accordo, occorre reagire. Infatti esse mal si conciliano con l’idea stessa di trattato e
muovono dalla presunzione che la volontà di ciascuno Stato sa nel senso di obbligarsi in modo
conforme al proprio diritto, ossia da un’interpretazione di tipo subbiettivistico spinta all’eccesso.
[Il problema dell’interpretazione di termini tecnico-giuridici interni, può porsi per i trattati conclusi nelle più disparate materie, dagli
accordi commerciali a quelli che tutelano i diritti umani. Il campo però in cui esso si è posto in modo più frequente è quello degli
accordi di diritto privato, uniforme, ossia degli accordi con cui gli Stati si impegnano a regolare allo stesso modo certi settori del
diritto privato e del diritto internazionale privato, e degli accordi bi- o multilaterali di diritto processuale, sulla competenza
giurisdizionale e il riconoscimento reciproco delle sentenze in materia civile. L’esigenza di evitare interpretazioni unilateralistiche è
stata avvertita in sede di redazione di alcune convenzioni di diritto privato e processuale. Un esempio è dato dalla Convenzione di
Bruxelles sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale completata dal Protocollo
di Lussemburgo, affidandosi ad un giudice unico il compito di sciogliere i dubbi interpretativi con efficacia vincolante all’interno
degli Stati contraenti, l’unicità nella interpretazione delle clausole convenzionali è assicurata alla radice. Una soluzione meno
radicale è fornita dalla Convenzione di Vienna relativa ai contratti di vendita internazionale di merci che stabilisce: “Le questioni
concernenti le materie regolate dalla presente Convenzione e che non sono da essa espressamente risolte, saranno regolare secondo i
principi generali a cui si ispira.” L’interprete dovrà comunque rifarsi esclusivamente al proprio diritto se non vi è autorizzato dallo
stesso accordo. Esso dovrà sforzarsi di stabilire quale sia il significato unico ed obiettivo della disposizione convenzionale,
significato che potrà coincidere con quello ricavabile da un determinato ordinamento interno, oppure dedursi dai principi generali cui
la convenzione si ispira o ancora dai principi comuni agli ordinamenti degli Stati contraenti; questa sembra la soluzione da preferire
in caso di assoluta ambiguità del testo].
A parte la necessità di evitare interpretazioni unilateralistiche, ed i casi in cui un giudice
internazionale è esclusivamente competente ad interpretare un trattato e le sue fonti derivate, deve

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rivendicarsi ai giudici interni la massima libertà dell’interpretazione del diritto internazionale


analogamente a quanto avviene per l’interpretazione del diritto interno. La subordinazione dei
giudici, in questa materia, va scomparendo e comunque va combattuta come ogni altra forma di
subordinazione all’Esecutivo in tema di applicazione del diritto internazionale.

CAPITOLO 13: La successione degli Stati nei trattati

* La sostituzione dello Stato ad un altro Governo può avvenire per le cause e nei odi più vari. Può
darsi che una parte del territorio di uno Stato passi sotto la sovranità di un altro Stato già esistente,
oppure si costituisca in Stato indipendente; può darsi invece che il cambiamento di sovranità
riguardi l’intero territorio dello Stato, e cioè che l’intera comunità territoriale sia incorporata o si
fonda con un altro Stato, oppure si smembri e dia luogo a più Stati nuovi, o infine venga a trovarsi
sotto un apparato di Governo radicalmente diverso. Tali vicende sono costituite da circostanze di
fatto, ossia dall’affermarsi, ritrarsi ed espandersi della sovranità territoriale, anche quando la
vicenda è conseguenza di un trattato, dato che producono soltanto effetti obbligatori e che pertanto,
se alla sua stipulazione non segue il ritrarsi, l’espandersi o l’affermarsi della sovranità territoriale in
conformità alle sue clausole vi sarà sì la violazione di un obbligo ma le cose, per quanto riguarda
l’assetto del territorio coinvolto, resteranno al punto di prima. Sul piano giuridico il problema che
si pone è se, una volta verificatosi in fatto un cambiamento si sovranità, i diritti e gli obblighi
internazionali che facevano capo al predecessore passino allo Stato subentrante; chiaro è che i
diritti e gli obblighi internazionali eventualmente oggetto della successione, non possono che essere
quelli pattizi, essendo che il diritto consuetudinario si rivolge comunque a tutti gli Stati. La materia
della successione nei trattati non esaurisce la problematica della successione tra Stato e Stato: si
discute infatti se, ed entro quali limiti, il diritto internazionale imponga una successione in diritti ed
obblighi di natura interna.
* Alla successione degli Stati rispetto ai trattati è dedicata una Convenzione di codificazione firmata
a Vienna nel 1978. La Convenzione è entrata in vigore nel novembre del 1996 ma non ha avuto
molta fortuna, essendo stata ratificata a tutt’oggi soltanto da 22 Stati. La Convenzione usa il
termine successione come equivalente a quello di sostituzione e di Stato successore come
equivalente a quello di Stato che subentra ad un altro nel governo di un territorio. Il termine quindi
indica la mera circostanza di fatto della sostituzione a prescindere dalla questione se e quanto lo
Stato successore succeda anche in senso giuridico.
[Secondo la Convenzione, questa si applica alle successioni fra Stati che siano intervenute dopo l’entrata in vigore della
Convenzione; non è richiesto invece che lo Stato successore sia già parte contraente al momento della successione. Quindi se uno
Stato successore aderisce alla Convenzione, la sua adesione retroagisce fino al momento in cui la successione è avvenuta, sempre se
la Convenzione era già in vigore. La ratio della norma sta nel fatto che in molti casi lo Stato che si sostituisce ad un altro nel governo
di un territorio è uno Stato nuovo, e che pertanto la Convenzione non potrebbe applicarsi qualora si pretendesse che lo Stato
successore fosse già parte contraente al momento della successione. Uno Stato successore può addirittura dichiarare di voler
applicare la Convenzione ad una successione intervenuta prima della stessa entrata in vigore di quest’ultima. Ma una tale
dichiarazione varrà solo nei confronti di quelle parti contraenti che abbiano dichiarato di accettarla. Sarà comunque necessario tenere
distinta la sfera degli Stati contraenti da quella degli Stati non contraenti e, nell’ambito della prima, quella degli Stati la cui
successione sia avvenuta dopo l’entrata in vigore della Convenzione o che abbiano fatto le dichiarazioni previste].
* Lo Stato che in qualsiasi modo si sostituisce ad un altro nel governo di una comunità territoriale,
è vincolato dai trattati, o dalle clausole di un trattato di natura reale o territoriale, o localizzabili,
cioè dai trattati che riguardano l’uso di determinate parti di territorio, conclusi dal predecessore.
Rientrano qui i trattati che istituiscono servitù attive o passive nei confronti di territori di Stati
vicini; gli accordi per la concessione in affitto di parti di territorio; i trattati che prevedono la libertà
di navigazione di fiumi, canali ed altre vie d’acqua; i trattati che impongono la smilitarizzazione di
determinate aree. Di solito si riportano alla medesima categoria i trattati che fissano le frontiere tra
Stati vicini, ma i dubbi che alcuni avanzano circa il loro inquadramento nella materia sono più che
giustificati. In realtà l’accordo di delimitazione esaurisce i suoi effetti nel momento in cui la
frontiera è determinata, dopo di che a dover essere rispettato non è l’accordo ma il diritto di
sovranità territoriale che ciascun Paese esercita al di qua e al di là del confine e che discende da un
autonomo principio consuetudinario sussiste nei confronti di tutti, indipendentemente da qualsiasi

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ipotesi di successione dei trattati. La successione nei trattati localizzabili incontra un limiti che
riguarda accordi che abbiano una prevalente caratterizzazione politica, che siano cioè strettamente
legati al regime vigente prima del cambiamento di sovranità. In realtà, più che di un limite
autonomo, trattasi dell’applicazione alla materia successoria del principio generale rebu sic
stantibus, secondo il quale un trattato o determinate clausole di un trattato si estinguono se mutano
in modo radicare le circostanze esistenti al momento della conclusione. La regola fondamentale da
assumere come punto di partenza per i trattati non localizzabili è la regola della tabula rasa. Lo
Stato che subentra nel governo di un territorio non è vincolato dagli accordi conclusi dal
predecessore. La prassi è tendenzialmente orientata in senso contrario alla successione, sia la prassi
più antica che la prassi più recente relativa alla formazione di nuovo Stati nell’ambito di territori già
sotto dominio coloniale. Se la regola fondamentale è nel senso della tabula rasa, c’è una
particolarità della Convenzione del 1978 che appare assai strana ed è tale comunque da indurre a
concludere che varie norme della Convezione non corrispondano al diritto consuetudinario
vigente. La Convezione distingue la situazione degli Stati sorti dalla decolonizzazione dalla
situazione di ogni altro Stato che subentri nel Governo di un territorio; e mentre per la prima
assume come regola fondamentale la regola della tabula rasa, per la seconda assume come regola
fondamentale quella della continuità dei trattati. Un simile trattamento non trova corrispondenza
nel dritto consuetudinario, data la saldatura che sussiste tra la prassi relativa agli Stati sorti dalla
decolonizzazione e quella degli altri Stati, sia nel senso che entrambe depongono in linea di
massima, per il principio della tabula rasa, sia nel senso che esse sono equamente distribuite
nell’una e nell’altra prassi.
* Il principio della tabula rasa si applica anzitutto nell’ipotesi del distacco di una parte del
territorio di uno Stato. Può darsi che la parte di territorio distaccatasi si aggiunga al territorio di un
altro Stato preesistente. In tal caso gli accordi vigenti nello Stato che subisce il distacco cessano di
aver vigore con riguardo al territorio distaccatosi. A questo si estendono invece in modo automatico
gli accordi vigenti nello Stato che acquista il territorio. Si ha una ritirata degli accordi dello Stato
predecessore e un’avanzata degli accordi dello Stato subentrante. La dottrina parla di mobilità delle
frontiere dei trattati enunciata dalla Convenzione del 1978, che si applica a tutti indistintamente i
trasferimenti di territorio da Stato a Stato. Può darsi invece che sulla parte distaccatasi si formino
uno o più Stati nuovi. Anche in questo caso gli accordi vigenti nello Stato che subisce il distacco
cessano di aver vigore con riguardo al territorio che acquista l’indipendenza. Gli Stati nuovi hanno
in ogni tempo preteso e ottenuto l’applicazione del principio della tabula rasa, fossero essi ex
colonie oppure no. Pertanto la Convenzione del 1978 non corrisponde al diritto consuetudinario.
[Sul problema della successione non influiscono gli accordi di devoluzione. Con l’accordo di devoluzione, che intercorre tra la ex
madrepatria e lo Stato di nuova indipendenza, quest’ultimo consente a subentrare nei trattati già conclusi dalla prima. L’accordo però
pone soltanto l’obbligo per la ex colonia di compiere i passi necessari affinché siffatti trattati vengano rinnovati anche tacitamente].
L’applicazione del principio della tabula rasa agli Stati nuovi formatisi per distacco è integrale per
quanto riguarda i trattati bilaterali conclusi dal predecessore e vigenti nel territorio distaccatosi.
Simili trattati potranno continuare ad avere valore solo se rinnovati attraverso un apposito accordo
con la controparte, accordo che potrà anche essere tacito, ossia risultare da fatti concludenti.
Egualmente per i trattati multilaterali chiusi, ossia i trattati che non prevedono la partecipazione,
mediante adesione, di Stai diversi da quelli originari; anche in tal caso occorrerò un nuovo accordo
con tutte le controparti. Per quanto riguarda i trattati multilaterali aperti all’adesione di Stati
diversi da quelli originari, il principio della tabula rasa subisce un temperamento. Lo Stato di
nuova formazione può procedere alla notificazione di successione, con cui la sua partecipazione
retroagisce al momento dell’acquisto dell’indipendenza: mentre l’adesione ha effetto ex nunc, la
notificazione di successione ha carattere retroattivo. Questa facoltà ha cominciato ad affermarsi
all’epoca della decolonizzazione ma può ritenersi ormai riconosciuta dalla consuetudine come
dimostra la prassi relativa allo smembramento dell’Unione Sovietica, della Jugoslavia e della
Cecoslovacchia. In realtà si tratta di una regola sulla stipulazione dei trattati. La Convenzione del
1978 contiene una disciplina dettagliata distinguendo fra trattati già in vigore e trattati non ancora in
vigore alla data della successione.

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* Affine all’ipotesi della formazione di uno o più Stati nuovi per secessione è quella dello
smembramento. La caratteristica dello smembramento, sta nel fatto che uno Stato si estingue e
sul suo territorio si formano due o più Stati nuovi. L’unico criterio idoneo a distinguere le due
ipotesi è quello della continuità o meno dell’organizzazione di governo preesistente. Un esempio
tipico di smembramento e non di distacco, è quello dell’Impero austro-ungarico dopo la prima
guerra mondiale, dato che nessuno degli Stati su di esso formatisi, compresa la Repubblica
austriaca, conservò la medesima organizzazione di governo dell’Impero. Altro esempio è quello
della formazione della Repubblica federale tedesca e della Repubblica democratica tedesca,
sulle rovine del Reich hitleriano, dopo la seconda guerra mondiale e fino al 1990. Altri esempi
ancora sono dati dalla dissoluzione dell’Unione sovietica, della Jugoslavia e della Cecoslovacchia
agli inizi degli anni ’90. Ai fini della successione nei trattati lo smembramento è da assimilare al
distacco. Agli Stati nuovi formatisi sul territorio dello Stato smembrato è applicabile il principio
della tabula rasa, temperato però dalla regola che prevede la facoltà di procedere ad una
notificazione di successione. Anche la Convenzione del 1978 unifica le due ipotesi nella parte
relativa agli Stati nuovi che non siano ex territori coloniali sottoponendole però entrambe al
principio della continuità dei trattati. Tale soluzione non trova però un pieno riscontro nella
prassi recente la quale rivela una certa tendenza degli Stati nuovi ad accollarsi le obbligazioni
pattizie dello Stato smembrato dividendosi pro quota i debiti contratti con Stati esteri e con
organizzazioni internazionali. Si ritiene comunque che siffatta prassi non sia idonee a porre nel
nulla la regola della tabula rasa. Anzitutto tale accollo risulta di solito da accordi tra gli Stati nuovi
tra loro e c’è poi da notare che, allorché si tratta di debiti pecuniari, l’accollo sembra perseguire il
fine pratico di evitare che il flusso dei crediti dall’estero s’interrompa. Ciò che in definitiva depone
più di ogni altra cosa a favore della regolare della tabula rasa è il grande numero delle
notificazioni di successione da parte di tutti questi Paesi, notificazioni accettate dai depositari dei
relativi trattati multilaterali e dalle altre Parti contraenti. Di esse non ci sarebbe bisogno se la
successione fosse automatica.
[Nel caso dello smembramento dell’Unione Sovietica, la Dichiarazione di Alma Ata prevede che “gli Stati membri della Comunità di
Stati indipendenti garantiscono il rispetto degli obblighi internazionali derivanti dai trattati e dagli accordi conclusi dalla ex ERSS.
Con una decisione adottata lo stesso giorno, il Consiglio dei capi di Stato della CSI si dichiarava a favore della successione della
Russia nei diritti di membro dell’ONU già spettanti all’Unione Sovietica, impegnando la Russia, l’Ucraina e la Bielorussia a
sostenere l’ammissione delle altre Repubbliche all’ONU e ad altre organizzazioni internazionali. E’ chiaro che accordi e dichiarazioni
del genere devono incontrare l’accettazione degli Stati terzi. Nel caso della ex Jugoslavia, una dichiarazione di accollo di tutti gli
obblighi si era già avuta ad pera della Repubblica Jugoslavia nel 1992, all’atto della proclamazione di tale Repubblica. Singole
dichiarazioni di successione si erano anche avute da parte di altre Repubbliche, ad es. la Bosnia-Erzegovina. Sia questa specifica
dichiarazione sia quella più generica della Repubblica serbo-montenegrina sono state ritenute sufficienti dalla CIG per considerare i
due paesi come Parti di detta Convenzione. In tale caso la Corte, che doveva decidere se avesse competenza a giudicare delle accuse
di genocidio rivolte dalla Bosnia-Erzegovina alla Repubblica serbo-montenegrina, non ha preso alcuna posizione sulla questione
della natura automatica o meno della successione in caso di smembramento. Sulla necessità dell’accettazione dell’accollo da parte
degli Stati terzi è interessante la presa di posizione del Dipartimento federale svizzero per gli affari esteri relativamente alle relazioni
convenzionali con la Croazia e la Slovenia nonché con le Repubbliche ex sovietiche. Il Dipartimento riserva alla Svizzera ed agli
Stati nuovi la libertà di mantenere in vigore le convenzioni concluse rispettivamente dalla ex-Jugoslavia e dall’Unione sovietica.]
* Opposte al distacco e allo smembramento, sono l’incorporazione e la fusione. La prima si ha
quando uno Stato, estinguendosi, passa a far parte di un altro Stato; la seconda quando due o più
Stati si estinguono tutti e danno vita ad uno Stato nuovo. Il criterio di distinzione tra le due figure
non può che riferirsi all’organizzazione di governo: l’ipotesi dell’incorporazione va preferita a
quella della fusione ogni qualvolta vi sia continuità tra l’organizzazione di governo di uno degli
Stati preesistenti e l’organizzazione di governo che risulta dall’unificazione. All’incorporazione di
applica tradizionalmente la stessa regola che si applica ai trasferimenti di territori da uno Stato ad
un altro, ossia la regola della mobilità delle frontiere dei trattati. I trattati dello Stato che si
estingue cessano di aver vigore mentre al territorio incorporato si estendono i trattati dello Stato
incorporante. Per i trattati dello Stato incorporato vale insomma il principio della tabula rasa. Lo
stesso regola i casi di fusione: lo Stato sorto dalla fusione, sempre che sia effettivamente uno Stato
nuovo che non presenti alcune continuità, nasce libero da impegni pattizi. Un’eccezione al
principio della tabula rasa deve ammettersi quando le comunità statali incorporate o fuse,
conservino un notevole grado di autonomia nell’ambito dello Stato incorporante o nuovo, quando a

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seguito dell’incorporazione o della fusione, si instauri un vincolo di tipo federale. In tal caso la
prassi si è orientata nel senso della continuità degli accordi, con efficacia peraltro limitata alla
regione incorporata o fusa e sempre che una simile limitazione fosse compatibile con l’oggetto e lo
scopo dell’accordo. Passando alla Convenzione del 1978, questa adotta il principio della continuità
dei trattati quali che siano le caratteristiche della riunione e quindi senza distinguere tra
incorporazione e fusione e tra sussistenza o meno di un vincolo di tipo federale tra le entità
riunitesi. La Convenzione si discosta in tal modo dal diritto consuetudinario.
* Un problema di successione nei trattati si pone anche nel caso si verifichi un mutamento di
governo nell’ambito di una comunità statale, senza che il territorio dello Stato subisca ampliamenti
o diminuzioni. Quando il mutamento avviene per vie extralegali deve ritenersi che muti la persona
di diritto internazionale. Infatti lo Stato, in quanto soggetto di diritto internazionale, si identifica con
l’apparato di governo. La prassi sembra orientata ad una successione del nuovo governo
nell’obblighi e nei diritti contratti dal predecessore, incompatibili con il nuovo regime. L’eccezione
è comune a tutte le ipotesi in cui il diritto internazionale ammette la trasmissione dei diritti e degli
obblighi pattizi. Più che di un’eccezione, si tratta dell’applicazione nella materia successoria del
principio rebus sic stantibus, per cui i trattati comunque si estinguono se mutano in modo radicale
le circostanze esistenti al momento della loro conclusione.
* E’ importante anche comprendere se vi sia una successione internazionalmente imposta, in
situazioni giuridiche di diritto interno. L’argomento più importante è quello della successione nel
debito pubblico, argomento che non rientra sistematicamente nel diritto dei trattati. Può darsi
però che il debito non sia stato contratto dal predecessore nell’ambito del proprio diritto interno, ma
abbia formato oggetto di un accordo internazionale concluso con un altro Stato o con
un’organizzazione internazionale. In questo secondo caso il principio generale è quello della tabula
rasa, salvi i debiti localizzabili. Anche per i debiti non localizzabili, la prassi recente è nel senso
di una equa ripartizione concordata tra gli Stati sorti dallo smembramento e tra questi Stati ed i
soggetti creditori. La ripartizione è ispirata dalla necessità pratica di continuare a godere del credito
internazionale più che dalla convinzione di applicare precise regole di diritto internazionale
generale. Non è escluso che essa possa essere interpretata come avvio alla formazione di una norma
non scritta limitatamente agli accordi di mutuo. Ciò che non è certamente oggetto del diritto non
scritto neppure in formazione è la determinazione dei criteri adoperabili nella ripartizione.
[A proposito dei debiti contratti dallo Stato con altri soggetti di diritto internazionale occorre ricordare la Convenzione di Vienna del
1983 sulla successione di Stati in materia di beni, archivi e debiti di Stato. La Convenzione ha incontrato la netta opposizione degli
Stati occidentali, i quali hanno votato contro la sua adozione ad opera della Conferenza di Vienna del 1983. La Convenzione
sembrerebbe doversi occupare in modo esclusivo della successione nelle situazioni giuridiche di diritto interno, in armonia del resto
con il quadro generale che è quello della successione fra Stati in materie diversi dei trattati. Per quanto concerne i debiti di Stato, un
primitivo progetto si occupava di tutto il debito pubblico, fosse esso contratto con persone fisiche o giuridiche private. Per debito di
Stato ai fini della presente Convenzione deve intendersi qualsiasi obbligazione finanziaria del predecessore nei confronti di un altro
Stato, di un’organizzazione internazionale o di qualsiasi altro soggetto di diritto internazionale, sorta conformemente al diritto
internazionale. La Convenzione intende occuparsi unitariamente dei debiti comunque contratti dal predecessore con altri soggetti
internazionali, e quindi sia dei debiti contratti nell’ambito del proprio diritto interno sia dei debiti contratti mediante accordo
internazionale. La Convenzione adotta il principio della tabula rasa soltanto con riguardo agli Stati di nuova indipendenza, sorti dalla
decolonizzazione. Essa spinge anzi il principio della tabula rasa a tal punto da escludere la successione negli stessi debiti
localizzabili, salvo accordo tra lo Stato nuovo ed il predecessore. Per quanto riguarda le altre ipotesi di mutamento di sovranità, la
Convenzione, non solo segue il principio della successione nei debiti localizzabili, ma prevede anche che vi sia una successione
secondo una proporzione equa nei debiti generali del predecessore. Nel caso di incorporazione e di fusione la Convenzione prevede il
passaggio di tutti i debiti dello Stato incorporato o degli Stati fusi allo Stato incorporante o a quello sorto dalla fusione, senza
distinguere a seconda che lo Stato incorporato o fuso mantenga una sua autonomia].

CAPITOLO 14: Cause di invalidità e di estinzione dei trattati

* Varie cause di invalidità e di estinzione degli accordi internazionali sono analoghe a quelle
proprie dei contratti . La loro disciplina è prevista non solo e non tanto da norme consuetudinarie ad
hoc quanto da quella particolare categoria di norme consuetudinarie costituita da i principi generali
di diritto. Come cause di invalidità ricordiamo i classici vizi della volontà: l’errore essenziale,
che nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati definisce come l’errore circa un “fatto o
una situazione che lo Stato supponeva esistente al momento in cui il trattato è stato concluso e che

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costituiva una base essenziale del consenso di questo Stato…”; il dolo, cui può ricondursi la
corruzione dell’organo stipulante; la violenza, fisica o morale, esercitata sull’organo stipulante.
Come cause di estinzione ricordiamo: la condizione risolutiva; il termine finale; la denuncia o il
recesso, ossia l’atto formale con cui lo Stato dichiara alle parti contraenti la volontà di sciogliersi
dal trattato, sempre che la possibilità di denunciare o recedere sia espressamente o implicitamente
prevista dallo stesso trattato; l’inadempimento della controparte; la sopravvenuta impossibilità
dell’esecuzione; l’abrogazione totale o parziale, espressa o per incompatibilità, mediante accordo
successivo tra le stesse parti.
* Tra le cause di invalidità, insieme ad errore e dolo c’è anche la violenza esercitata sull’organo
stipulante il trattato. La Convenzione di Vienna considera come causa di invalidità anche la
violenza esercitata sullo Stato nel suo complesso, ossia quella particolare forma di violenza che si
concreta nell’uso della forza, stabilendo all’art. 52 che è nullo qualsiasi trattato la cui conclusione
sia stata ottenuta con la minaccia o l’uso della forza in violazione dei principi della Carta delle
Nazioni Unite. Tale art. 52 della Convenzione di Vienna corrisponde al diritto internazionale
consuetudinario come riflesso dell’idea che l’uso della forza debba essere messo al bando della
comunità internazionale. Un tempo era diffusa la tesi che la violenza sullo Stato fosse irrilevante,
portandosi come argomento il fatto che i trattati di pace sono normalmente considerati come validi.
Non ci sembra si tratti di un argomento decisivo, ove si consideri: che il trattato di pace interviene
di solito in un momento in cui non c’è più la pressione delle armi; che rappresenta un
componimento di interessi nel quale sia i vincitori che i vinti si fanno reciproche concessioni.
Quando si parla di violenza sullo Stato come causa di invalidità dell’accordo, si ha riguardo alla
minaccia o all’uso della forza armata, non vi sono elementi che ricomprendono nella violenza
pressioni di altro genere, come le pressioni politiche o economiche ancorché illecite. La dottrina
concorda su ciò salvo qualche voce dissenziente di chi ritiene che a simili pressioni potrebbe
applicarsi per analogia la norma sulla violenza armata, cosa però che si sembra da escludere perché
tra pressione delle armi e pressioni politiche ed economiche non vi è somiglianza ma profonda
diversità. Resta il fatto che, in sede di redazione della Convenzione di Vienna, molti paesi di nuova
indipendenza si batterono perché l’art. 52 facesse riferimento alle pressioni politiche ed
economiche; la proposta venne però ritirata in cambio di una dichiarazione di condanna che figura
come allegato all’atto finale della Conferenza di Vienna ma che non costituisce parte integrande
della Convenzione.
[Per l’uso ella forza come causa di invalidità dei trattati deve intendersi l’uso della forza nei rapporti internazionali ossia la violenza
di tipo bellico. Solo questo tipo è in grado di costituire un male notevole per lo Stato nel suo complesso. Altro è l’uso della forza
interna, ossia l’esercizio del potere di governo, comprese tutte le possibili misure di carattere coercitivo sugli individui].
Quindi la violenza sullo Stato è da configurare come causa di invalidità ei trattati solo entro limiti
assai ristretti, Il problema dei trattati ineguali, ossia dei trattati rispetto ai quali una parte non abbia
disposto di un ampio margine di potere contrattuale, non si risolve sul piano della validità, ma può
trovare una correzione solo attraverso una interpretazione restrittiva relativamente agli obblighi
gravanti sulla parte più debole.
*Come causa di estinzione degli accordi internazionali viene considerata la clausola rebus sic
stantibus. Si ritiene cioè che il trattato di estingua in tutto o in parte per il mutamento delle
circostanze di fatto esistenti al momento della stipulazione, purché si tratti di circostanze essenziali,
senza le quali i contraenti non si sarebbero indotti al trattato o ad una sua parte. Si parla di clausola
rebus sic stantibus perché la dottrina classica riconduceva questa causa di estinzione alla volontà
dei contraenti: essa riteneva che il trattato si estinguesse per effetto del mutamento delle circostanze
di fatto in quanto era da presumere che i contraenti medesimi subordinassero l’efficacia del trattato
al permanere di quelle circostanze. La clausola rebus sic stantibus veniva quindi ridotta ad una
condizione risolutiva tacita. Infatti, se le parti, espressamente o implicitamente, manifestano una
volontà in questo senso, siamo di fronte ad una condizione risolutiva e quindi non c’è un problema
autonomo di effetto del mutamento delle circostanze. Il problema sorge quando i contraenti non
hanno previsto il mutamento delle circostanze come causa di estinzione del trattato. Anche in tal
caso, in virtù di una norma generale la cui esistenza è stata sempre riconosciuta nella prassi

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internazionale, il trattato si estingue. La Convenzione di Vienna conferma siffatta norma, ma la


esprime in termini restrittivi stabilendo che possa trovare applicazione solo se le circostanze mutate
costituivano la base essenziale del consenso delle parti, se il mutamento sia tale da avere
radicalmente trasformato la portata degli obblighi ancora da seguire e se il mutamento medesimo
non risulti dal fatto illecito dello Stato che lo invoca. Il principio rebus sic stantibus ha una sfera
di applicazione abbastanza ampia in quanto varie regole del diritto dei trattati ne costituiscono una
specificazione: così la regola secondo cui, in tutti i casi di successione di una Stato ad un altro nei
diritti e negli obblighi pattizi, cadono gli accordi incompatibili col nuovo regime o quella relativa
agli effetti della guerra sui trattati. Anche la sopravvenuta impossibilità della prestazione è una
forma di mutamento radicale delle circostanze.
[Importante poi è il ruolo che questo principio può giocare in tema di incompatibilità tra norme convenzionali. Questo è il caso, ad
esempio, degli accordi con cui l’Italia e la Jugoslavia hanno regolato la questione triestina, procedendo tra l’altro alla spartizione del
territorio di Trieste. I due accordi derogano agli artt. 21 e 22 del Trattato di pace del 1947 tra l’Italia e le Potenze alleate ed associate i
quali prevedevano la costituzione di un Territorio Libero di Trieste amministrato sotto l’egida del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite].
* Per quanto riguarda la guerra come causa di estinzione dei trattati, ovviamente, fatti salvi certi
trattati i quali sono stipulati proprio in vista della guerra e che appartengono pertanto al diritto
internazionale bellico, gli accordi conclusi dagli Stati belligeranti prima della guerra non trovino
applicazione finche durano le ostilità. Il problema di comprendere se la guerra determina soltanto la
sospensione dei trattati oppure li estingue definitivamente si è posto in Italia in relazione alla
seconda guerra mondiale. Ad esso venne data una soluzione soltanto parziale con l’art. 44 del
Trattato di pace del 1947, il quale stabilì che le Potenze vincitrici avrebbero notificato all’Italia,
entro sei mesi dall’entrata in vigore del Trattato, quali accordi bilaterali intendessero mantenere in
vigore o far rivivere, e che gli accordi non notificati sarebbero stati considerati come abrogati. La
norma non comprendeva gli accordi multilaterali e, usando la formula mantenere in vigore o far
rivivere, lasciava impregiudicata la questione se gli accordi bilaterali dovessero ritenersi vigenti o
estinti. La disciplina della materia secondo il diritto consuetudinario generale, ossia la regola
classica, si è andata affievolendo nel corso di questo secolo e soprattutto negli ultimi tempi. La
prassi si è sempre più orientata a favore di eccezioni: si è così negato l’effetto estintivo della guerra
in ordine ai trattati multilaterali; ma, più in generale, si è manifestata nella giurisprudenza interna,
compresa la giurisprudenza italiana, la tendenza a considerare estinte soltanto quelle convenzioni
incompatibili con lo stato di guerra. A questo punto è il caso di negare la stessa autonomia della
disciplina degli effetti della guerra e riportare la materia a quella coperta dalla clausola rebus sic
stantibus, cioè si dovrà verificare volta a volta se la guerra abbia determinato un mutamento
radicale delle circostante esistenti al momento della conclusione del trattato.
* Lo stato del diritto consuetudinario in materia di estinzione o d’invalidità, è oggetto di
controversia in dottrina. Nessuno disconosce che certe cause operino automaticamente; né che
l’automaticità sia per definizione esclusa per quella particolare causa di estinzione che consiste
proprio nella facoltà di denuncia che un trattato eventualmente attribuisca a ciascuno Stato
contraente. La discussione è aperta, e mentre vi è chi propende per l’automaticità, altri sostiene che
sia sempre necessario un atto di denuncia notificato agli altri Stati contraenti, altri addirittura che il
trattato continui a restare in vigore finché la causa di invalidità o di estinzione non sia accertata in
modo imparziale. Non è chiaro se vi sia e quale sia un criterio idoneo a distinguere le cause ad
effetto automatico dalle altre. L’impressione è che l’orientamento sia tendente ad escludere
l’automaticità quando la causa invalidante o estintiva consista in fatti difficili da provare o di dubbia
interpretazione. La materia è insomma piuttosto ingarbugliata, si intreccia con quella della
soluzione delle controversie fra Stati e risente più di ogni altra della mancanza di una funzione
giurisdizionale istituzionalizzata. A complicarla contribuisce anche la Convenzione di Vienna, che
da un lato introduce modalità e termini per far valere l’invalidità o l’estinzione ignoti al diritto
consuetudinario, dall’altro non prevede un sistema di soluzione delle controversi realmente capace
di evitare gli abusi. L’automaticità va in linea di massima riconosciuta, ma in un senso ben
circoscritto. Chiunque debba applicare un trattato non può non decidere se il trattato sia ancora in
vigore o se viceversa essi asia affetto da una causa di invalidità o di estinzione. Una simile

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decisione fa arte integrante di quella diretta a verificare l’applicabilità del trattato. Il fatto che essa
sia consentita è testimoniato dalla prassi giurisprudenziale interna, che rivela la tendenza dei giudici
nazionali a risolvere nelle loro sentenze le questioni di invalidità e di estinzione dei trattati, sia
autonomamente sia in conformità all’opinione degli organi preposti agli affari esteri, comunque
prescindendo dal formali atti di denuncia sul piano internazionale. Trattasi però di una decisione che
vale solo per il caso concreto, non è vincolante negli altri casi successivi decisi da altri giudici o
dallo stesso giudice, così come è valida solo nel caso concerto l’applicazione di una qualsiasi norma
giuridica. E’ chiara la decisione circa l’invalidità o la estinzione, sebbene limitata al singolo caso,
può avere conseguenze di carattere internazionale, dando luogo a proteste e misure di ritorsione da
parte di quegli Stati contraenti i quali ritengano che il trattato sia invece perfettamente valido e in
vigore. Così l’intesa, l’automaticità non è alternativa alla procedura della denuncia. La denuncia
serve a scopi diversi. L’atto formale di denuncia, notificato alle altre Parti contraenti o al depositario
del trattato, implica la volontà dello Stato di sciogliersi una volta per tutte dal vincolo contrattuale.
Una simile manifestazione di volontà, quando si fonda si di un’altra causa di invalidità o di
estinzione, non è indispensabile; se lo Stato vi ricorre è per fare risaltare in modo certo e definitivo
che il trattato non è applicabile o non è più applicabile in quanto invalido o estinto. Alla domanda se
la denuncia è sufficiente a produrre la cessazione del vincolo, la risposta può essere data in termini
relativi. Se si ha riguardo agli organi dello Stato denunciante e a tuti coloro che, all’interno di esso
dovrebbero osservare e far osservare il trattato, non vi è dubbio che la denuncia vincoli alla
disapplicazione; unica condizione a tal fine è che essa promani dagli organi competenti a
manifestare la volontà dello Stato in ordine ai rapporti internazionali. Se si ha riguardo invece agli
altri Stati contraenti, è indubbio che questi non siano vincolati dalla unilaterale manifestazione di
volontà dello Stato denunciante; cosicché, in caso di disaccordo sull’effettiva insorgenza della causa
di invalidità o di estinzione, il trattato entrerà in una fase di incertezza sul piano internazionale che
potrà essere caratterizzata da ritorsioni e dalla quale potrà uscirci solo con un nuovo accordo oppure
con al sentenza di un giudice internazionale.
[Circa la determinazione degli organi dello Stato competenti a denunciare il trattato, sia nel caso che il potere di denuncia sia previsto
dallo stesso trattato sia nel caso che lo Stato invochi un’altra causa di invalidità o di estinzione occorre rifarsi, per la competenza a
stipulare, ai principi costituzionali di ciascuno Stato. In Italia si discute se per la denuncia dei trattati che rientrano nelle categorie
previste dall’art. 80 della Cost. occorra o meno una legge di autorizzazione come per la ratifica. La prassi depone a favore della tesi
negativa: competente a formare e a manifestare la volontà dello Stato nella materia in esame è il potere esecutivo. Sulla base di
un’analisi della prassi Italiana, la situazione andrebbe evolvendo verso una maggiore collaborazione tra Parlamento e Governo e a
favore della necessità che vi sia una qualche forma di assenso del primo in ordine alla decisione del secondo relativamente alla
denuncia. Non si può però arrivare a sostenere che tale assenso condizioni la validità della denuncia. Sembra piuttosto che si debba
tenere presente la distinzione a suo tempo fatta tra formazione e manifestazione della volontà dello Stato, da un lato, e responsabilità
del Governo nei confronti del Parlamento, dall’altro. Se, sotto il primo profilo, la competenza a denunciare spetta all’Esecutivo, i
meccanismi di controllo da parte del Parlamento, dai più blandi ai più radicali potranno eventualmente essere azionati ogniqualvolta
il Governo non provveda alla denuncia nonostante una sollecitazione in tal senso del Parlamento oppure on informi tempestivamente
quest’ultimo della volontà di denunciare un trattato a suo tempo oggetto di una autorizzazione. Resta poi sempre salva la possibilità
per il Parlamento di revocare con legge l’ordine di esecuzione o la stessa autorizzazione alla ratifica].
In questo quadro vanno inserite le regole che la Convenzione di Vienna dedica alla materia. Lo
Stato il quale invoca un vizio del consenso, o altro motivo riconosciuto dalla Convenzione come
causa di estinzione o di invalidità, deve notificare per iscritto la sua pretesa alle altre Parti contraenti
del trattato in questione. Se, trascorso un termine che non può essere inferiore a tre mesi salvo il
caso di particolare urgenza, non vengono manifestate obiezioni, lo Stato può definitivamente
dichiarare con un atto comunicato alle altre parti, e che deve essere sottoscritto dal Capo dello
Stato, o dal Capo del Governo o dal Ministro degli Esteri, o comunque promanare da persona
munita di pieni poteri, che il trattato è sa ritenersi invalido o estinto. Se delle obiezioni vengono
sollevate, lo Stato che intende sciogliersi e la Parte o le Parti obiettanti devono ricercare una
soluzione della controversia con mezzi pacifici quali negoziati, conciliazione, arbitrato, ecc. La
soluzione deve intervenire entro 12 mesi, Trascorso inutilmente tale termine, ciascuna parte può
mettere in moto una procedura conciliativa che fa capo ad una commissione formata nell’ambito
delle Nazioni Unite, e che non sfocia però in una decisione obbligatoria ma solo in un rapporto
avente mero valore di esortazione; una decisione obbligatoria è prevista soltanto per l’assai
eccezionale caso che la pretesa invalidità si fondi su di una norma di jus cogens. Se il rapporto della

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Commissione di conciliazione, che eventualmente si pronunci per l’invalidità o l’estinzione del


trattato, viene respinto dalla o dalle Parti controinteressate. La pretesa all’invalidità o
all’estinzione resta paralizzata in perpetuo. E’ questa una conseguenza molto grave che trae origine
da un preciso schieramento della maggior parte degli Stati in seno alla Conferenza di Vienna
contro la predisposizione di un sistema di arbitrato obbligatorio; ed è una conseguenza che
contribuisce a far apparire abbastanza artificioso tutto il complesso di termini e modalità
procedurali ora descritto. Le norme degli artt. 65 ss. della Convenzione di Vienna mirano a
disciplinare la materia della denuncia dei trattati e non codificano il diritto internazionale
consuetudinario. Nei rapporti tra i Paesi che aderiscono alla Convenzione la procedura di cui agli
artt. 65 ss. Si sostituisce al tradizionale atto di denuncia, ossia d un atto posto in essere senza
l’osservanza di particolari forme, termini e modalità; ciò a meno che la sostituzione non sia esclusa
o contemplata, dallo stesso trattato oggetto della denuncia, in deroga alla Convenzione di Vienna.
La sostituzione comporta che chiunque sia chiamato ad applicare il trattato, non potrà mai
considerare come avvenuto un simile scioglimento e non potrà considerare come efficace
l’eventuale atto di denuncia unilaterale, finché le condizioni poste dagli artt.65 ss. non siano
soddisfatte e finché ogni controversia relativa allo scioglimento medesimo non sia risolta con un
accordo o con una sentenza internazionale.

CAPITOLO 15: Le fonti previste da accordi. Il fenomeno delle organizzazioni


internazionali. Le Nazioni Unite

* I trattati possono contenere non solo regole materiali, ma anche regole formali o strumentali
che istituiscono ulteriori procedimenti o finti di produzione di norme. L’esempio più importante è
fornito dal settore dell’organizzazione internazionale: in tutti i casi in cui un’organizzazione
internazionale è abilitata dal trattato che le dà vita ad emanare decisioni vincolanti per gli stati
membri, si è in presenza di una fonte prevista da accordo. Il compito delle organizzazioni
internazionali non è quello di emanare norme quanto quello di facilitare la collaborazione tra gli
Stati membri. L’attività delle organizzazioni, anche l’attività dell’ONU, si svolge il più spesso in
una fase che ha scarso valore giuridico, consistendo nella mera predisposizione di progetti di
convenzioni che gli Stati membri sono poi liberi di tradurre o no in norme giuridiche attraverso la
ratifica delle Convenzioni medesime. Altra attività svolta dalle organizzazioni internazionali è
costituita dall’emanazione di raccomandazioni, cioè di atti che hanno valore di esortazione e che
come tali non vincolano gli Stati con cui si indirizzano. Le risoluzioni delle organizzazioni
internazionali possono normalmente essere prese a maggioranza, magari qualificata. Poiché peraltro
la maggior parte delle organizzazioni è composta di Stati, e poiché gli Stati non amano sottostare
alle altrui deliberazioni, non è rara la ricerca dell’unanimità. Si è andata poi diffondendo la pratica
del consensus, che consiste nell’approvare una risoluzione senza una votazione formale, di solito
con una dichiarazione del Presidente dell’organo la quale attesta l’accordo tra i membri.
* L’ONU fu fondata dopo la seconda guerra mondiale dagli Stati che avevano combattuto contro le
Potenze dell’Asse, e prese il posto della disciolta Società delle Nazioni. La Conferenza di San
Francisco ne elaborò nel 1945 la Carta che venne ratificata dagli Stati fondatori.
Successivamente ne sono via via divenuti membri quasi tutti gli Stati del mondo. L’art. 7 della
Carta considera come organi principali: l’Assemblea generale, il Consiglio di Sicurezza, il
Consiglio economico e sociale, il Consiglio di Amministrazione fiduciaria, la Corte
Internazionale di Giustizia ed il Segretariato. Tra questi hanno importanza fondamentale il
Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea generale. Il Consiglio di Sicurezza è composto di 15
membri, di cui 5 siedono a titolo permanente (Stati Uniti, Cina, Gran Bretagna e Francia,
godendo del diritto di veto, cioè del diritto di impedire col loro voto negativo l’adozione di
qualsiasi delibera che non abbia mero carattere procedurale; gli altri 10 membri sono eletti per un
biennio dall’Assemblea. Il Consiglio di Sicurezza è l’organo di maggior rilievo nell’ambito
dell’Organizzazione, sia per importanza delle questione i sua competenza, sia perché dispone in

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taluni casi di poteri decisionali vincolanti. Nell’Assemblea sono rappresentati tutti gli Stati e tutti
hanno pari diritto di voto. Il Consiglio economico e sociale è composto da membri eletti
dall’Assemblea per 3 anni; sia esso che il Consiglio di Amministrazione fiduciaria sono in
posizione subordinata rispetto all’Assemblea generale in quanto sono tenuti a seguirne le direttive
ed in certi casi il loro compito si limita addirittura alla preparazione di atti che vengono poi
formalmente adottati dall’Assemblea. Il Segretario generale che ne è a capo, e che è nominato
dall’Assemblea su proposta del Consiglio di Scurezza, è l’organo esecutivo dell’Organizzazione.
La Corte Internazionale di giustizia, composta da 15 giudici, ha sia la funzione di dirimere
controversie fra Stati sia una funzione consultiva in quanto può dare pareri su qualsiasi questione
giuridica dell’Assemblea generale o al Consiglio di Sicurezza oppure ad altri organi su
autorizzazione dell’Assemblea; i pareri non sono però né obbligatori né vincolanti.
[L’art. 7 della Carta prevede che organi sussidiari possano essere istituito ove si rivelino necessari. E’ soprattutto nel campo della
collaborazione economica che si è proceduto alla creazione di una fitta rete di organi ai quali è affidato il compito di promuovere lo
sviluppo dei Paesi arretrati e la riduzione del divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri. I più importanti: l’UNCTAD (Conferenza delle
Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo), che formalmente è organo sussidiario dell’Assemblea generale ma che strutturalmente è
una sorta di organizzazione… nell’organizzazione, dato che si compone a sua volta di un organo assembleare di un Consiglio a
composizione più ristretta, di varie Commissioni e di un Segretariato; l’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo), che
ha una struttura simile; l’UNICEF (Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia); l’UNITAR (Istituto delle Nazioni Unite per
l’insegnamento e la ricerca); l’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente)].
Consiglio di Sicurezza, Assemblea generale, Consiglio economico e sociale e Consiglio di
Amministrazione Fiduciaria sono organi composti da Stati. Ciò significa che gli individui che con
il loro voto concorrono a formare la decisione collegiale sono organi del proprio Stato, manifestano
la volontà del proprio Stato. Il Segretario generale e la CGI sono invece organi composti da
individui, nel senso che il Segretario ed i giudici assumono l’ufficio a titolo puramente individuale,
con l’obbligo di non ricevere istruzioni da alcun Governo. Gli scopi dell’Organizzazione sono
quanto mai ampi se non indeterminati. Assume rilievo a tal riguardo la norma dell’art. 2 della
Carta, in base alla quale le Nazioni Unite non devono intervenire in questioni che appartengono
essenzialmente alla competenza interna di uno Stato. L’ampiezza e l’indeterminatezza appare dalla
elencazione che ne fa l’art. 1 della Carta, sulla base della quale possono comunque individuarsi tre
grandi settori di competenza dell’ONU: il primo è quello del mantenimento della pace; il
secondo è quello dello sviluppo delle relazioni amichevoli fra Stati fondati sul rispetto del
principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli; il terzo è quello
della collaborazione in campo economico, sociale, culturale ed umanitario. All’ampiezza dei
fini dell’Organizzazione non corrispondono però dei poteri vincolanti nei confronti degli Stati
membri. L’attività principale dell’ONU è costituita dalla emanazione di raccomandazioni e dalla
predisposizione di progetti di convenzioni. Lo stesso Consiglio di Sicurezza del resto ha tutta una
serie di competenze che sfociano ancora e soltanto nell’emanazione di raccomandazioni.
* A proposito dei rari casi di decisioni vincolanti dell’ONU, per quanto concerne l’Assemblea
generale, un caso molto importante è dato dall’art. 17, che attribuisce all’Assemblea il potere di
ripartire tra gli Stati membri le spesso dell’Organizzazione, ripartizione che vincola tutti gli Stati.
A tale caso deve aggiungersi quello della competenza dell’Assemblea a decidere circa modalità e
tempi per la concessione dell’indipendenza ai territori sotto dominio coloniale. Le decisioni
vincolanti del Consiglio di Sicurezza sono quelle previste da talune disposizioni del Cap. VII della
Carta intitolato “Azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di
aggressione”. Il nucleo centrale del Cap. VII è costituito dagli artt. 41 e 42 riguardanti le misure
non implicanti e quelle implicanti l’uso della forza contro uno Stato che abbia anche soltanto
minacciato la pace. A parte l’art. 42, merita attenzione l’art. 41 che prevede le sanzioni e
attribuisce al Consiglio di Sicurezza il potere di decidere quali misure non implicanti l’uso della
forza armata debbano essere adottate dagli Stati membri contro uno Stato che minacci o abbia
violato la pace. Anche un comportamento meramente interno di uno Stato può indurre il Consiglio a
ricorrere alle sanzioni previste dall’art. 41 soprattutto allo scopo di tutelare la popolazione civile.
Durante la guerra fredda il Consiglio, paralizzato dal diritto di vero, emise raramente decisioni
vincolanti per gli Stati ai sensi dell’art. 41, limitandosi piuttosto a raccomandare misure riportabili

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all’art. 41 e quindi lasciando liberi gli Stati di adottarle o meno. Dopo la fine della guerra fredda il
Consiglio, liberato dai veti incrociati dei due blocchi, ha potuto intensificare la sua azione in base
all’art. 41.

CAPITOLO 16: Gli Istituti specializzati delle NU. Altre Organizzazioni internazionali a
carattere universale. Le decisioni tecniche di organismi internazionali

* In campo economico e sociale opera tutta una serie di organizzazioni internazionali sia a
carattere universale che a carattere regionale. Un gran numero di organizzazioni universali
assumono il nome di Istituti specializzati delle Nazioni Unite, in quanto sono collegate con queste
ultime e ne subiscono un certo potere di coordinamento e di controllo. Trattasi peraltro di
organizzazioni autonome ed i cui membri solo in linea di massima coincidono con i membri
dell’ONU. Il collegamento tra ciascun Istituto specializzato e le Nazioni Unite nasce da un
accordo che le due organizzazioni stipulano e che, dal lato dell’ONU, è negoziato dal Consiglio
economico e sociale e approvato dall’Assemblea generale. Fino ad oggi il contenuto di ogni
accordo di collegamento si è conformato ad uno schema tipico, fissato in occasione delle
convenzioni concluse dall’ONU rispettivamente con l’ILO, l’UNESCO e la FAO: tale schema
prevede lo scambio di rappresentanti, osservatori, documenti, il ricorso a consultazione in caso di
necessità, il coordinamento dei rispettivi servizi tecnici. Ma l’importanza dell’accordo di
collegamento sta soprattutto nella applicabilità delle norme della Carta che si occupano degli
Istituti e che li sottopongono al potere di coordinamento e controllo dell’ONU. Tra queste norme
vanno sottolineati l’art. 58 che abilita l’Assemblea ed il Consiglio economico e sociale ad
emanare raccomandazioni; l’art. 64 che attribuisce al Consiglio economico e sociale la facoltà di
richiedere agli Istituti dei rapporti regolari; e l’art. 17 secondo cui l’Assemblea esamina i bilanci
amministrativi degli Istituti specializzati al fine di fare ad essi delle raccomandazioni. I rapporti
tra l’ONU e gli Istituti specializzati sono divenuti più intensi nel quadro della cooperazione per lo
sviluppo dei Paesi arretrati, articolandosi nella partecipazione degli Istituti a programmi di
assistenza promossi dalle Nazioni Unite. Tale partecipazione si effettua anch’essa su base
paritaria, e trova il suo fondamento in apposite convenzioni che intercorrono tra l’UNDP e gli
Istituti. Anche gli Istituti specializzati emanano di solito raccomandazioni oppure predispongono
progetti di convenzione e quindi si esauriscono la loro attività in una fase che ha scarso rilievo
giuridico. In alcuni casi però essi emanano decisioni vincolanti per gli Stati membri, o meglio
decisioni che divengono vincolanti se gli Stati non manifestano entro un certo periodo di tempo la
volontà di ripudiarle. Tali decisioni vanno inquadrate tra le fonti previste dall’accordo istitutivo
della relativa organizzazione. Una loro caratteristica è quella di occuparsi di materie eminentemente
tecniche.
[Oltre a simili funzioni comunque, gli Istituti specializzati svolgono pure funzioni di tipo operativo].
* La FAO (Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura) è stata creata nel 1945 ed ha
assorbito le attività ed i beni del vecchio Istituto Internazionale di Agricoltura in conformità ad un
accordo stipulato tra i Paesi già membri di quest’ultimo. Suoi organi sono la Conferenza, composta
di un delegato di ogni Stato membro; il Consigli, formato da 18 membri eletti in seno alla
Conferenza; il Direttore generale.
* l’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) fu costituita con i Trattati di pace che chiusero
la prima guerra mondiale. Al momento della dissoluzione della Società delle Nazioni, nel 1945,
varie modifiche si resero necessarie allo scopo di tagliare i legami con la vecchia Organizzazione
mondiale e ricrearli con l’ONU. L’organo assembleare dell’ILO ha una composizione sui generis:
ogni Stato vi partecipa con 4 delegati, di cui 2 rappresentano il Governo e gli altri 2 rispettivamente
i datori di lavoro ed i lavoratori. Poiché ogni delegato dispone di un voto, le maggioranze in seno
alla conferenza possono formarsi per categorie e gruppi di delegati politicamente affini anziché
attraverso intese fra Governi. Bisogna però tener conto del fatto che la Conferenza tende a prendere
deliberazioni per consensus. Altri organi sono il Consiglio di Amministrazione, di cui fanno

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permanentemente parte 10 Stati tra i più industrializzati del mondo, e l’Ufficio internazionale del
lavoro, composto da funzionari facenti capo ad un Direttore generale, con funzioni di segretariato.
Le funzioni più importanti dell’ILO consistono nell’emanazione di raccomandazioni e nella
predisposizione di progetti di convenzione multilaterale in materia di lavoro, I progetti di
convenzione vengono comunicati agli Stati membri i quali restano liberi di ratificarli o meno, ma
hanno l’obbligo di sottoporli entro un certo termine agli organi competenti per la ratifica e di fornire
notizie al Direttore generale circa la sorte da essi subita. Spesso poi l’Organizzazione finisce con
l’approvare, nella stessa materia, sia un progetto di convenzione, redatto in termini più generali, sia
una raccomandazione contenente una disciplina più dettagliata. L’ILO ha contribuito notevolmente
allo sviluppo della tutela dei lavoratori ed ha approvato una solenne Dichiarazione dei principi e
diritti fondamentali del lavoro.
* L’UNESCO (organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione la scienza e la cultura) si
propone di diffondere la cultura, di promuovere lo sviluppo dei mezzi di educazione all’interno
degli Stati membri e l’accesso all’istruzione senza distinzione di razza, di sesso, di condizione
economica o sociale, di assicurare la conservazione del patrimonio artistico e scientifico. Organi: la
Conferenza generale, nella quale ogni Stato membro può farsi rappresentare da non più di 5
delegati, ma dispone di un solo voto; il Comitato esecutivo, composto da 18 membri eletti dalla
Conferenza; il Segretariato. Anche i progetti di convenzione predisposti dall’UNESCO devono
essere sottoposti entro unc erto periodo di tempo dallo Stato membro agli organi competenti per la
ratifica, salva la libertà di procedere o meno a quest’ultima.
* ICAO (Organizzazione per l’aviazione civile internazionale) è strutturata con un Assemblea dove
ogni Stato membro ha un voto, un Consiglio composto da 21 Stati eletti dall’Assemblea in base al
criterio sia dell’importanza nel campo dei trasporti aerei sia della rappresentatività delle varie aree
geografiche del mondo, e un Segretario generale. Di questa istituzione specializzata vanno
soprattutto sottolineati i poteri degli artt. 37 e 54 dell’atto costitutivo. Tali articoli autorizzano il
Consiglio ad emanare tutta una serie di disposizioni relative al traffico aereo, che vanno dai sistemi
di comunicazione ai segnali a terra, alle caratteristiche delle zone di atterraggio. Gli allegati entrano
in vigore per tutti gli Stati membri dopo tre mesi dalla loro adozione se nel frattempo la
maggioranza degli Stati membri non abbia notificato la propria disapprovazione. In questo caso
siamo di fronte a una vera e propria fonte di norme internazionali di carattere tecnico che vincolano
tutti gli Stati membri, compresi quelli dissenzienti.
*OMS (Organizzazione mondiale della sanità) ha come obiettivo principale il conseguimento da
parte di tutti i popoli del livello più alto possibile di salute e dispone di un certo potere vincolante
nei confronti degli Stati membri. L’Assemblea può emanare, a maggioranza di due terzi,
regolamenti in tema di procedure per prevenire la diffusione delle epidemie, di nomenclatura delle
malattie epidemiche e mortali, di caratteristiche dei prodotti farmaceutici, ecc., detti regolamenti
entrano in vigore per tutti i Paesi membri eccettuati quei Paesi che, entro un certo periodo di tempo,
comunicano il loro dissenso.
* IMO (Organizzazione internazionale marittima) ha preso vita nel 1958 e si occupa dei problemi
relativi alla sicurezza ed efficienza dei traffici marittimi, ma emanando raccomandazioni e
predisponendo progetti di convenzione in ordine ai quali non è previsto neppure l’obbligo della
sottoposizione agli organi competenti per la ratifica.
* ITU (Unione internazionale delle telecomunicazioni; WMO (Organizzazione metereologica
mondiale); UPU (Unione postale universale) sono tutti e tre Istituti creati da circa un secolo. Il loro
contributo al coordinamento delle attività statali nei settori i rispettiva competenza si esplica
attraverso la solita predisposizione di testi convenzionali o di regolamenti. I regolamenti della
WMO e dell’UPU non vincolano lo Stato membro indipendentemente dalla sua volontà. Più
complesso è il sistema dell’ITU adottata a Ginevra e completata da una convenzione e da due
regolamenti amministrativi, uno riguardante le telecomunicazioni, l’altro le radiocomunicazioni. Le
revisioni periodiche dei regolamenti amministrativi, adottate a maggioranza semplice, vincolano

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tutti gli Stati membri, salvo che questi non manifestino la loro opposizione al momento
dell’adozione o entro un certo termine dopo l’adozione.
* FMI (Fondo monetario internazionale) e la BIRD (Banca internazionale per la ricostruzione e lo
sviluppo) sono organi principali del fondo: il Consiglio dei Governatori, che è l’organo deliberante
dell’Organizzazione, è composto da un Governatore e da un supplente nominato da ciascuno Stato
membro, e delibera non in base al principio uno Stato/un voto, ma secondo maggioranze
corrispondenti all’entità delle quote di capitale sottoscritte e quindi con il peso determinante dei
Pesi ricchi e degli Stati Uniti in particolare, la cui quota è di gran lunga maggiore di tutte le altre; il
Comitato esecutivo, con funzioni esecutive; il Direttore generale. Il fondo si propone di promuovere
la collaborazione monetaria internazionale, la stabilità dei cambi, l’equilibrio delle varie bilance dei
pagamenti, ecc. e dispone di un capitale sottoscritto pro quota dagli Stati membri. Questi ultimi
possono ricorrere alle riserve del Fondo, entro certi limiti, secondo regole precise e a determinate
condizioni volta a volta fissate; la valuta è acquistata con moneta nazionale e deve essere restituita,
entro un periodo di tempo variabile da tre a cinque anni, contro la stessa moneta. Le condizioni
volta a volta fissate dal Fondo formano oggetto di una lettera di intenti sottoscritta da un
rappresentate dello Stato richiedente e possono anche consistere nell’adozione di precisi piani
nazionali di risanamento economico. La BIRD ha un cospicuo capitale sottoscritto dagli Stati
membri ed ha struttura e sistemi di votazione simili a quelli del Fondo Monetario; suo scopo
principale è la concessione di mutui agli Stati membri per investimenti produttivi e ad un tasso
d0interesse variabile a seconda del grado di sviluppo dello Stato membro interessato. Affiliati alla
Banca sono altri due Istituti specializzati con compiti similari, la Società Finanziaria Internazionale
e l’Associazione internazionale per lo sviluppo.
* IFAD (Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo) è un ente finanziario internazionale
destinato a contribuire allo sviluppo dell’agricoltura dei Paesi poveri e con deficit alimentari
notevoli. Se la sua struttura ricalca quella del FMI e della BIRD, esso si contrappone nettamente a
simili enti per quanto riguarda il peso che i vari Stati membri hanno nelle votazioni: qui l’organo
deliberante dell’Organizzazione, il Consiglio dei Governatori, è sotto il controllo dei Paesi in
sviluppo i quali dispongono delle maggioranze richieste per l’adozione delle delibere. Si dice
pertanto che il Fondo è un’organizzazione nata sotto il segno del nuovo ordine economico
internazionale.
* WIPO (Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale), dal 1970 si occupa dei problemi
della proprietà intellettuale nel mondo, assicurando la cooperazione amministrativa tra le Unioni già
esistenti nel settore, partecipando ad accordi, fornendo assistenza tecnica legale agli Stati, ecc.
*UNIDO (Organizzazione delle Nazioni Uniti per lo sviluppo Industriale), già organo sussidiario
dell’Assemblea generale dell’ONU, è stata trasformata in Istituto specializzato con un trattato
entrato in vigore nel 1985. E’ costituita da un’Assemblea, un Consiglio di 53 membri ed un
Segretariato. I suoi componenti principali non sono di tipo normativo, ma operativo.
* IAEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica), promuove lo sviluppo e la diffusione delle
applicazione pacifiche dell’energia atomica, non ha la qualifica di Istituto specializzato in quanto ha
legami sia con l’Assemblea che con il Consiglio di Sicurezza e non con l’Assemblea e il Consiglio
economico e sociale; ma essa ha con le Nazioni Unite un accordo di collegamento che la pone in
una condizione non molto diversa da quella degli Istituti.
* OMC (Organizzazione mondiale del commercio) è del tutto indipendente dalle Nazioni Unite, ma
estremamente importante per le funzioni che svolge. E’ stato creato nel 1994 e ne fanno parte
tutt’oggi 153 Stati, oltre all’UE. Principali organi dell’Organizzazione sono: la Conferenza
ministeriale, in cui tutti i membri sono rappresentati e che si riunisce almeno una volta ogni due
anni; il Consiglio generale, anch’esso composto dai rappresentanti di tutti i membri, che si riunisce
nell’intervallo tra le riunioni della Conferenza, per esercitare le funzioni di quest’ultima; il
Segretario, con a capo un Direttore generale. Tra le funzioni dell’Organizzazione vi è anzitutto
quella di fornire quella di fornire un forum per lo svolgimenti dei negoziati relativi alle relazioni
commerciali multilaterali, e tendenti alla massima liberalizzazione del commercio mondiale o alla

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globalizzazione dei mercati. L’Organizzazione veglia altresì sull’esecuzione di tutta la serie di


accordi sortiti dagli anzidetti negoziati, e che sono annessi allo Statuto come parti integranti di
quest’ultimo. Tra i più importanti resta proprio il GATT, in tema di liberalizzazione del commercio
internazionale, quali, ad es. il principio della clausola della nazione più favorita relativamente ai
dazi doganali e altre tasse o imposte connesse alla esportazione e all’importanza, il principio della
parità di trattamento fiscale interno tra prodotti nazionali e prodotti importati. Altri annessi allo
Statuto sono il GATS, il TRIPS e altri accordi commerciali multilaterale e plurilaterali relativi ad
agricoltura, aeromobili civili, appalti pubblici ecc. Dal punto di vista delle fonti del diritto
internazionale, vanno segnalate le decisioni vincolanti che la Conferenza ministeriale o il Consiglio
generale possono adottare, a maggioranza di tre quarti dei membri: con esse i due organi possono
sia fornire un’interpretazione delle norme dello Statuto e degli annessi, sia dispensare uno Stato
membro dall’osservanza degli obblighi derivanti dalle norme medesime. Vanno anche menzionate
le decisioni con cui l’Organo per la soluzione delle controversie può autorizzare contromisure in
caso di inadempienza da parte di uno Stato membro.
* Nel campo della tutela dell’ambiente e della conservazione delle risorse sono stati creati vari
organismi che prendono decisioni, per lo più di carattere tecnico, vincolanti per gli Stati. Li
chiamiamo organismi in quanto i trattati che li prevedono non danno luogo a vere e proprie
organizzazioni distinte dagli Stati membri, ma demandano un certo potere normativo alla
conferenza o assemblea degli Stati contraenti. Tale potere consiste prevalentemente nell’adozione di
emendamenti al trattato istitutivo, atti che necessitano della ratifica dei singoli Stati per entrare in
vigore. Ma in vari casi la conferenza o assemblea può adottare a maggioranza decisioni vincolanti
per tutti gli Stati contraenti, di solito sotto forma di annessi o allegati al trattato istitutivo. Queste
decisioni derivando la loro forza vincolante dal trattato istitutivo sono fonti di norme internazionali
di terzo grado. Tra i trattati riportabili a questa categoria ricordiamo: la Convenzione di Londra sulla
prevenzione dell’inquinamento marino; la Convenzione sul commercio internazionale di specie in
pericolo di estinzione della fauna e flora selvatica; la Convenzione di Bonn sulla conservazione
delle specie migratorie di animali selvatici; il Protocollo di Montreal sulle sostanze che riducono la
fascia di ozono; la Convenzione di Basilea del 1989 sul controllo del movimento transfrontaliero di
rifiuti pericolosi e della loro eliminazione.

CAPITOLO 17: L’UE e il diritto comunitario

* Nel 1951 fu creata, con il Trattato di Parigi, la prima Comunità europea, la CECA; ad essa fecero
seguito, con i trattati di Roma, la CEE, poi denominata CE, che nel 2002 avocò a sé il settore
carbosiderurgico, e l’EURATOM. Si trattò di un’iniziativa senza precedenti, mirante
all’integrazione economica tra gli Stati membri, come premessa di un’integrazione politica. Sia
all’epoca della loro costituzione le Comunità si presentarono come organizzazioni internazionali sui
generis, dotate di ampi poteri vincolanti nei confronti degli Stati membri, offrendo così un’ampia
gamma di fonti di norme previste da accordi internazionali. Modifiche di rilievo sono state poi
apportate ai Trattati istitutivi da vari Trattati successivi. L’Atto unico europeo, il trattato di
Maastricht sull’UE, il trattato di Amsterdam e il trattato di Nizza segnano delle tappe significative
del processo di integrazione europea. Dopo una battuta di arresto con il rifiuto da parte di Stati quali
la Francia e l’Olanda, di ratificare il Trattato sulla Costituzione europea sono state recuperate
dall’ultima tappa dell’integrazione, il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° Dicembre 2010. Il
trattato di Lisbona ha decretato l’estinzione della CE e la costituzione dell’UE. Peraltro il trattato di
Lisbona si compone in effetti di due trattati, quello sull’UE (TUE) e quello sul funzionamento
dell’UE (TFUE) che riproduce molte norme del TCE, con lievi modifiche e con una mutata
numerazione degli articoli. Dell’UE fanno parte 27 Stati, di cui fin dall’inizio della vita delle
Comunità; sei vi hanno aderito negli anni ’70 e ’80, tre negli anni ’90, dieci nel 2004 e due nel
2007.

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* Il TFUE ha anzitutto assorbito scopi e norme del TCE. Tra queste le norme: sulla libera
circolazione delle merci; sulla libera circolazione delle persone; sulla libera circolazione dei servizi,
sulla libera circolazione dei capitali; sulla libertà di concorrenza; sulla politica agricola comune;
sulla politica comune de trasporti; sulla politica commerciale comune; sugli aiuti e sugli incentivi
statali alle imprese; sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri. Già con i vari Trattati
successivi erano state introdotte novità, modifiche ed estensioni delle competenze degli organi, tutte
intese a rafforzare l’integrazione. In particolare: il rafforzamento delle funzioni del Parlamento
europeo; la creazione di una cittadinanza dell’Unione; l’introduzione di una unione economica e
monetaria da realizzare in tappe successive e caratterizzata da una Banca centrale comune e da una
moneta unica; la previsione di una cooperazione rafforzata; l’attribuzione agli organi comunitari di
alcuni aspetti della disciplina degli affari interni, l’introduzione della politica estera e di sicurezza
comune. Vanno anche ricordati gli Accordi di Schengen che hanno soppresso i controlli sulle
persone alle frontiere e che sono poi confluiti nel Trattato CE. Il TFUE ha apportato poi varie ed
importanti aggiunte quali: il consolidamento delle realizzazione già avutesi nel settore della PESC
destinata a sostituire l’UEO e quindi con la possibilità per l’Unione di contribuire, con missioni sia
civile che militari, al mantenimento della pace; il completo passaggio della cooperazione di polizia
e giudiziaria dalla fase intergovernativa a quella dell’integrazione giuridica; una più articolata
disciplina della cooperazione rafforzata; l’introduzione di nuovi organi. A sua volta, il TUE:
attribuisce forza vincolante alla Carta di Nizza contenente una serie di diritti umani sia pure
limitatamente alla materia, fondamentalmente economica, del diritto dell’UE; contiene una serie di
principi ispirati alla democrazia ed altre dichiarazioni assai ricche di promesse di azione per
rafforzare l’unione tra gli Stati membri. Da un lato la più gran parte delle orme dei Trattati di
Lisbona, e soprattutto quelle più progressiste in senso europeistico possono restare lettera morta se
gli organi dell’Unione non provvedono a metterle in pratica attraverso i loro atti. Dall’altro non
mancano gli Stati che remano contro o comunque non vogliono impegnarsi fino in fondo. Inoltre
l’azione degli organi deve rispettare i principi di sussidiarietà e di attribuzione. Per il primo,
l’azione dell’unione deve mantenersi entro i limiti necessari per il raggiungimento degli obiettivi
del trattato e intervenire solo se l’azione degli Stati membri non è sufficiente a realizzare detti
obbiettivi; per il secondo, l’Unione agisce soltanto nei limiti delle competenze che le sono attribuite.
Senza dubbio l’UE presenta elementi che non si riscontrano in alcuna altra organizzazione
internazionale e senza dubbio, tra i principi del diritto comunitario, così come esse si sono venuti
affermando nella prassi sia comunitaria che interna agli Stati membri, ve ne sono alcuni che soni
propri del vincolo federale, primo fra tutti il principio della prevalenza del diritto comunitario sul
diritto interno.
* Per quanto riguarda la struttura istituzionale dell’UE, va anzitutto menzionato il Consiglio
europeo che si compone dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri, oltre che del Presidente
della Commissione, ed ha un Presidente che esso steso delega per due anni e mezzo, ma che vi siede
a titolo individuale. Il Consiglio europeo. Il Consiglio europeo dà all’Unione gli impulsi necessari al
suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Gli altri organi principali
sono:
A) La Commissione è un organo composto di individui e non di Stati. Le persone che compongono
l’organo siedono quindi a titolo personale, non ricevono istruzioni da alcun Governo e hanno anzi
l’obbligo di non ricevere istruzioni. Uno dei suoi vice-presidenti, è l’Alto rappresentante
dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. La presenza di un organo del genere è un
altro elemento che differenzia l’UE dalle altre organizzazioni internazionali, nelle quali gli organi
detentori dei poteri principali sono di solito organi composti dal Stati, il che significa che gli
individui che compongono l’organo sono delegati dagli Stati e ne seguono le istruzioni. La
Commissione ha poteri esecutivi e poteri di iniziativa legislativa nei confronti del Consiglio e del
Parlamento. E’ nominata dal Consiglio il quale delibera a maggioranza previa approvazione, da
parte del Parlamento europeo, delle candidature proposte dagli Stati membri.

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B) Il Consiglio è l’organo nel quale sono rappresentati i 27 Stati membri ed è presieduto a turno da
ciascun membro per la durata di 6 mesi; di solito ne fanno parte i ministri competenti per le
questioni all’ordine del giorno. Il Consiglio adotta gli atti più importanti della legislazione
comunitaria. In base alle norme del TFUE, esso delibera alle volte all’unanimità ed alle volte a
maggioranza semplice o qualificata.
C) Il Parlamento europeo, formato da rappresentanti dei popoli dei Paesi membri, eletti a suffragio
universale e diretto, non esercita da solo la funzione legislativa, dovendo fare i conti con il
Consiglio e quindi con i rappresentanti dei Governi degli Stati membri. Se così non fosse l’Unione
avrebbe natura federale. Il Parlamento ha anzitutto una funzione di controllo politico sulle altre
istituzioni comunitarie, funzione che si esplica attraverso l’esame dei rapporti che gli altri organi
sono tenuti a sottoporgli l’istituzione di commissioni di inchiesta, l’eventuale mozione di censura
nei confronti della Commissione, l’esame di petizioni individuali. Per quanto riguarda la funzione
legislativa, il Parlamento la esercita di norma congiuntamente al Consiglio, secondo una procedura
ordinaria e per molte ed importanti materie, tra le quali l’agricoltura e la pesca, la politica
commerciale comune, la politica monetaria. Trattasi di una procedura assai complessa che comporta
una navetta tra i due organi, con l’eventuale intervento di un Comitato di conciliazione che può
protrarsi per vari mesi ed alla fine della quale l’atto legislativo deve essere approvato dal
Parlamento a maggioranza semplice de voti espressi e dal Consiglio a maggioranza qualificata;
altrimenti decade. Alla procedura ordinaria si contrappongono le procedure speciali che vedono
come legislatore principale in pochissimi casi il Parlamento e nei restanti il Consiglio. Il Parlamento
dispone poi di una funzione consultiva vincolante nei confronti di alcuni atti del Consiglio, in
particolare in materia di ammissione di nuovo Stati e di conclusione di accordi internazionali.
D) La Corte dei conti esercita una funzione di controllo su tutte le entrate e le spese dell’Unione, ed
è composta da 27 persone che vi siedono a titolo individuale e sono nominate dal Consiglio in modo
che ognuna abbia la cittadinanza di uno Stato membro.
E) La Corte di Giustizia che veglia sul rispetto del diritto dell’Unione, ha una serie di competenze
assai interessanti e nuove, e può tra l’altro essere adita anche dagli individui. Ad essa è stato
affiancato limitatamente ad un certo tipi di controversie, un Tribunale di prima istanza. Nel 2004 è
stato istituito un Tribunale della funzione pubblica, per le controversie di lavoro con i funzionari.
F) La Banca centrale europea persegue principalmente l’obiettivo del mantenimento della stabilità
dei prezzi e sostiene le politiche economiche generali dell’Unione. La BCE ha inoltre il diritto
esclusivo di autorizzare l’emissione di Euro.
* L’attività legislativa degli organi dell’UE ha notevole importanza nella formazione del diritto
dell’Unione per il fatto che le norme hanno assai spesso carattere generico e programmatico,
rimettendosi appunto al legislatore. La competenza legislativa è esercitata secondo i due tipi di
procedura, ordinaria e speciale. L’art. 288 del TFUE prevede: regolamenti, decisioni e direttive.
Secondo l’art. 297 gli atti legislativi entrano in vigore a seguito della pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale dell’Unione, trascorsa una vacatio legis di 20 giorni oppure entro un limite volta a volta da
essi stabilito.
A) Il regolamento è l’atto legislativo più importante e completo; è l’atto attraverso il quale la
legislazione dell’Unione si sostituisce o si sovrappone alla legislazione interna dei singoli Stati
membri. Il regolamento ha portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente
applicabile in ciascuno degli Stati membri. Il regolamento contiene norme generali ed astratte, le
quali vanno osservate dagli Stati e da chiunque operi all’interno degli Stati membri e quindi
all’interno del territorio dell’Unione.
B) La decisione differisce dal regolamento perché non ha portata generale ed astratta ma concreta.
Essa può indirizzarsi sia ad uno Stato membro che ad un individuo o ad un’impresa operante nel
territorio dell’Unione. In ogni caso si tratta di un atto vincolante e quindi il soggetto cui la decisione
di indirizza è tenuto ad osservarla. Può essere in pratica difficile distinguere un regolamento da una
decisione. Occorre guardare non al nomen ma alla sostanza, cioè appunto alla natura generale e
astratta oppure concreta delle norme contenute nell’atto.

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C) La direttiva è l’atto più problematico. Mentre i regolamenti e le decisioni sono obbligatori in tutti
i loro elementi, la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. La
direttiva dovrebbe limitarsi all’enunciazione di principi e criteri generali, di regole finali destinate
ad essere tradotte dal singolo Stato in norme di dettaglio. A direttiva è assai spesso dettagliata. In
questi casi gli organi comunitari hanno decisamente manifestato la tendenza ad indicare con
precisione le norme interne che gli Stati sono tenuti ad adottare. Assai spesso la discrezionalità dello
Stato si riduce soltanto alla scelta della forma giuridica interna da dare alla norma già fissata sul
piano europeo. La prassi di cui parliamo investe tutti i campi più importanti tra quelli che di solito
formano oggetto della legislazione comunitaria. Direttive dettagliate si hanno nel settore agricolo, in
tema di diritto di stabilimento, nel campo dei trasporti ed in quello del ravvicinamento delle
legislazioni.
* Ai regolamenti, alle decisioni e alle direttive, ed alle raccomandazione e ai pareri vanno aggiunti
tutta una serie di altri atti, come i regolamenti interni degli organi, le comunicazioni della
Commissione ed i programmi generali del Consiglio. Vi sono poi degli atti adottati all’unanimità
dal Consiglio europeo o dal Consiglio, come le azioni che l’Unione deve intraprendere e le
posizioni che l’Unione deve assumere.
* L’UE ha la capacità di concludere accordi internazionali. La conclusione di accordi è prevista da
varie norme del TUE e del TFUE. Uno dei settori in cui gli accordi con i Paesi terzi o altre
organizzazioni internazionali rivestono particolare importanza è quello della PESC. L’art. 218 del
TFUE regola la procedura normale di conclusione degli accordi. I negoziati sono condotti dalla
Commissione su autorizzazioni del Consiglio, il quale può impartire direttive ai negoziatori. Lo
stesso Consiglio autorizza sia la firma del testo così negoziato sia la sua conclusione, previa,
l’approvazione da parte di quest’ultimo. Si va peraltro affermando la prassi degli accordi
amministrativi, una sorta di accordi in forma semplificata in quanto conclusi esclusivamente dalla
Commissione. Secondo l’art. 218 uno Stato membro, il Parlamento, il Consiglio o la Commissione
può chiedere alla Corte di giustizia di dare in via preventiva un parere circa la compatibilità
dell’accordo con le disposizioni del Trattato. Se il parere è negativo, l’accordo potrà entrare in
vigore solo dopo una modifica formale del Trattato medesimo. Gli accordi sono vincolanti per le
istituzioni dell’Unione e per gli Stati membri. Viene con ciò sancita un’eccezione al principio
generale valevole per le organizzazioni restano estranei alla sfera giuridica degli Stati membri. Gli
accordi in questione a metà strada fra le norme del TUE e del TFUE e gli atti delle istituzioni; ciò
nel senso che, da un lato, essi non possono derogare ai Trattati e dall’altro non possono al loro volta
essere derogati dalle istituzioni. Specifiche disposizioni del TFUE prevedono la conclusione di
accordi. Tra questi sono assai importanti le convenzioni di associazione, nonché gli accordi che
rientrano nel quadro della politica commerciale comune. Ad essi vanno aggiunti gli accordi in
materia di politica monetaria, di politica ambientale e di cooperazione allo sviluppo. Soprattutto gli
accordi di associazione, commerciali e di cooperazione costituiscono una fitta rete di rapporti
convenzionali con Stati terzi.
[La distinzione tra accordi di associazione ed accordi commerciali è difficile da tracciare. I primi dovrebbero caratterizzarsi rispetto
ai secondi per il fatto di prevedere non soltanto diritti ed obblighi relativi agli scambi commerciali tra le parti ma anche azioni in
comune e procedure particolari. Una speciale menzione tra gli accordi di associazione merita l’Accordo di Cotonou che ha sostituito
l’ultima Convenzione di Lomè e che regola i rapporti con i Paesi ACP, ossia i Paesi in sviluppo africani, dei Caraibi e del Pacifico già
aventi rapporti particolari con gli Stati membri dell’UE].
La competenza dell’Unione a concludere accordi internazionali nei casi contemplati dal Trattato ha
carattere esclusivo. Ciò significa che gli Stati membri sono obbligati a non concludere per loro
conto accordi nelle stesse materie. L’esclusività si ricava dallo spirito del TFUE, è una conseguenza
necessaria dell’instaurazione del mercato ed è stata comunque ribadita in varie occasioni dalla Corte
di giustizia. Essa può avere un effetto paralizzante e nocivo per gli stessi interessi dell’Unione ogni
qualvolta uno Stato terzo non intenda contrarre con l’Unione o con la sola Unione, oppure ogni
qualvolta nell’ambito dell’Unione non si raggiunga l’intesa necessaria per un’azione esterna
comune. Da qui la pratica delle autorizzazioni accordate dal Consiglio ai singoli Stati membri per la
conclusione di accordi con Stati terzi e la pratica che viene seguita quando l’accordo non rientra

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interamente nella competenza dell’Unione degli accordi misti. A parte gli accordi la cui conclusione
è espressamente prevista da disposizioni specifiche, l’art. 216 del TFUE stabilisce che un accordo
possa essere comunque concluso se sia necessario per realizzare uno degli obiettivi fissati dai
Trattati.

CAPITOLO 18: L’OCSE e il Consiglio d’Europa

* Subito dopo la seconda guerra mondiale furono costituite nell’ambito dell’Europa occidentale due
organizzazioni che hanno dato un notevole contributo al rafforzamento dei vincoli tra Paesi
appartenenti a tale area geografica: l’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica
(OECE), poi trasformata in Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE);
e il Consiglio d’Europa, che attualmente comprende 47 Stati membri. Scopo del Consiglio d’Europa
è di conseguire una più stretta unione fra i suoi membri per salvaguardare e promuovere gli ideali e
i principi che costituiscono il loro comune patrimonio e di favorire il loro progresso economico e
sociale. Ogni membro del Consiglio deve accettare il principio della preminenza del diritto e quello
in virtù del quale ogni persona, posta sotto la giurisdizione, deve godere dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali. Per quanto riguarda la struttura, gli organi principali dell’Organizzazione
sono: l Comitato dei Ministri, che è l’organo dotato di maggiori poteri e che è composto dai Ministri
degli Esteri, o da loro sostituti, di tutti gli Stati membri; l’Assemblea consultiva che esprime voti e
raccomandazioni al Comitato dei ministri, e nella quale, a partire da una riforma del 1951, siedono
rappresentanti dei Parlamenti nazionali; il Segretariato, con a capo un segretario generale. Circa le
funzioni va sottolineata la predisposizione di convenzioni come quelle relative al diritto e alla
procedura penale, e ai diritti umani sia economici e sociali che civili e politici.
* La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
della quale sono attualmente parti contraenti tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, fu
solennemente firmata a Roma nel 1950; successivamente, sono stati aggiunti vari protocolli che
hanno aumentato il numero dei diritti riconosciuti. Tali protocolli hanno attuato una radicale riforma
della Convenzione, provvedendo alla fusione dei due organi che prima esercitavano il controllo sul
rispetto dei diritti tutelati in una Corte unica ed hanno snellito le procedure innanzi alla Corte. Il
sistema di controllo instaurato dalla Convenzione costituisce un esperimento di grande interesse nel
campo della tutela internazionale dei diritti umani in cui gli Stati sono ancora restii non tanto ad
obbligarsi quanto a sottoporsi ad accertamenti vincolanti di organi internazionali.

CAPITOLO 19: Le raccomandazioni degli organi internazionali

*La raccomandazione è l’atto tipico che gli organi delle Nazioni Unite hanno il potere di emanare.
Non è vincolante e precisamente non vincola lo Stato o gli Stati, a cui si dirige, a tenere il contegno
raccomandato; essa dunque non p propriamente da annoverare tra le fonti previste da accordi.
Trattasi di un atto che ha soltanto valore esortativo. Una tesi sostenuta è quella secondo cui la
raccomandazione produrrebbe un effetto di liceità: non commette illecito lo Stato il quale, in
osservanza di una raccomandazione, venga meno ad obblighi precedentemente assunti nei confronti
di altri Stati membri dell’organizzazione raccomandante; ciò purché la raccomandazione sia
legittima, ossia non fuoriesca dalle competenze proprie degli organi e da ogni altro limite che il
trattato istitutivo ponga all’azione degli organi medesimi. Dobbiamo dunque riconoscere che le
raccomandazioni appartengono puramente e semplicemente al soft law.
*Taluni ritengono che sia illecito il comportamento dello Stato il quale rifiuti di osservare tutta una
serie di raccomandazioni. Ciò equivale a dire che le raccomandazioni diverrebbero obbligatorie. La
tesi è inaccettabile in quanto il principio della cooperazione tra gli Stati membri non può essere
spinto fino al punto di sovvertire la caratteristica fondamentale dell’atto che è quella di non
vincolare il destinatario al contegno raccomandato

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CAPITOLO 20: La gerarchia delle fonti internazionali. Il diritto internazionale cogente.


L’unitarietà dell’ordinamento internazionale

* Al vertice della gerarchia si situano le norme consuetudinarie, tra esse compresa quella particolare
categoria di norme consuetudinarie costituita dai principi generali di diritto comuni agli ordinamenti
interni. La consuetudine è dunque fonte di primo grado, ed è l’unica fonte di norme generali, come
tali vincolanti tutti gli Stati. Il secondo posto della gerarchia spetta al trattato, che trova in una
norma consuetudinaria, il fondamento della sua obbligatorietà. Il terzo posto è occupato dalle fonti
previste da accordi, particolarmente degli atti delle organizzazioni internazionali. Per quanto
riguarda i rapporti fra queste tre fonti, cominciamo da consuetudine ed accordo, è il caso di notare
che il fatto che le norme pattizie siano sottordinate alle norme consuetudinarie non significa di per
sé inderogabilità di queste ultime da parte delle prime. Una norma di grado inferiore può derogare
alla norma di grado superiore se quest’ultima o consente. Il nostro problema consiste pertanto nel
chiederci se le norme consuetudinarie internazionali siano così fortemente vincolanti da non poter
essere derogate mediante trattati. In linea generale la soluzione da dare al problema è negativa. Le
norme consuetudinarie sono caratterizzate dalla loro flessibilità, e quindi dalla loro derogabilità
mediante accordo.
[Data la flessibilità della consuetudine, e dato che le norme pattizie hanno carattere particolare ratione personarum mentre la maggior
parte delle norme consuetudinarie ha carattere generale, il diritto pattizio finisce con l’avere la prevalenza sul diritto consuetudinario.
Anche per quella particolare categoria di norme consuetudinarie costituita dai principi generali di diritto comuni agli ordinamenti
interni, vale la regola della derogabilità mediante accordo. Un chiaro esempio è dato dall’art. 27 della Carta delle Nazioni Unite che
prevede che lo Stato membro del Consiglio di Sicurezza debba astenersi dal votare se una questione lo riguardi, ma limita l’obbligo
di astensione a determinati casi di minore importanza: l’obbligo di astensione non è previsto nel caso si discuta della proposta di
espulsione dall’ONU oppure dell’adozione di misure coercitive a tutela della pace].
E’ opinione comune che esista un gruppo di norme di diritti internazionale generale le quali
eccezionalmente sarebbero cogenti. L’art. 53 della Convenzione stabilisce infatti che è nullo
qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, in contrasto con una norma imperativa del
diritto internazionale generale, dovendosi intendere per norma imperativa del diritto internazionale
generale, una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo
insieme come norma alla quale non può essere apportata nessuna deroga e che non può essere
modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente il medesimo carattere.
Del diritto cogente si occupa anche l’art. 64 della Convenzione, che afferma che se una nuova
norma imperativa di diritto internazionale generale di forma, qualsiasi trattato esistente che sia in
contrasto con questa norma diviene nullo e si estingue. La Convenzione di Vienna non indica quali
norme internazionali siano imperative dicendo che la norma cogente è quella che non può essere
derogata, d’altro canto all’epoca della Convenzione del 1969, la nozione di diritto cogente era
abbastanza avveniristica. L’interprete dovrà anzitutto stabilire se una norma trova riscontro negli
elementi della diuturnitas e dell’opinio juris sive necessitas; ma dovrà altresì stabilire se la più gran
parte degli Stati considera detta norma come superiore alle comuni fonti internazionali in quanto
ispirata a valori fondamentali ed universali. La nozione di diritto cogente ha così carattere storico,
potendo mutare da un’epoca all’altra, soprattutto nel senso del suo ampliamento. Allo stato da un
esame della dottrina e della giurisprudenza interna ed internazionale possa ricavarsi che allo jus
cogens appartengono il nucleo essenziale dei diritti umani, il principio di autodeterminazione dei
popoli, il divieto dell’uso della forza fuori del caso di legittima difesa e, il diritto allo sviluppo. Alla
lista va aggiunta la norma dell’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite che sancisce l’inderogabilità
degli obblighi scaturenti dalla Carta e dalle decisioni vincolanti degli organi dell’ONU. Detti
obblighi sono considerati da tutta la comunità internazionale come assolutamente inderogabili.
Anche la giurisprudenza interna è orientata in tal senso. Dottrina e prassi sono prodighe nel
ricostruire norme che in linea di principio debbano considerarsi come imperative. Per quanto
riguarda le possibili applicazioni di una norma internazionale imperativa anzitutto, la conseguenza
principale dovrebbe essere la nullità del trattato contrario alo jus cogens.

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[Come contrario al principio che vieta l’uso della forza fuori dei casi di legittima difesa è stato considerato l’art. IV del trattato di
garanzia del 1960 relativo a Cipro, che autorizza Grecia, Regno Unito e Turchia, ad intraprendere azioni sia congiuntamente che
disgiuntamente, in caso di modifica della situazione di Cipro; occorre interpretare l’art. IV nel senso di escludere che esso autorizzi
l’uso della forza da parte degli Stati garantiti fuori dei casi di reazione ad attacchi armati altrui nell’isola. A parte l’ipotesi di uso della
forza interna e non internazionale che è ipotesi che sfugge al divieto dell’uso della forza. Si è anche ritenuto in dottrina, e questa
volta con maggior fondamento, che contrastasse con il divieto dell’uso della forza l’art. 6 del trattato di amicizia tra URSS ed Iran,
dichiarato decaduto dall’Iran nel maggio 1979 che riconosceva il diritto dell’URSS di intervenire con le sue truppe in Iran qualora
questo Stato fosse stato invaso o l’URSS fosse stata minacciata. Per restare nel capo del divieto dell’uso della forza va registrata
l’opinione secondo il quale il divieto dell’uso della forza avrebbe in linea generale carattere cogente ma tale carattere non
riguarderebbe gli interventi umanitari, ossia le azioni violente dirette a salvare vite umane dei propri o anche degli altrui cittadini:
siffatte azioni violerebbero il divieto dell’uso della forza ma non in quanto norma di jus cogens, costituendo quindi degli illeciti
minoris generis; con la conseguenza che i trattati che li prevedono sarebbero perfettamente applicabili. Questa opinione si fonda sulla
circostanza che gli Stati occidentali hanno sempre sostenuto la liceità degli interventi di umanità e che una norma di diritto cogente
non può essere considerata come vigente se non è accettata dalla comunità internazionale nel suo insieme. L’invalidità per contrasto
con il principio di autodeterminazione dei popoli, è stata a suo tempo prospettata per le disposizioni degli accordi di Camp David e
del Trattato di pace tra Egitto e Israele, relative alla sorte degli abitanti della striscia di Gaza e della West Bank sotto dominazione
israeliana. Anche in questo caso è forse preferibile sostenere che dovessero le disposizioni dei due accordi a ricevere
un’interpretazione conforme al principio di autodeterminazione. L’invalidità per contrasto con il principio di autodeterminazione dei
popoli è stato anche sostenuto dalla Guinea-Bissau, in una controversia che l’ha vista opposta al Senegal, in relazione ad un accordo
concluso tra Portogallo e Francia, relativo alla determinazione della frontiera marittima. La tesi della Guinea Bissau era che la
Francia non avrebbe potuto esercitare lo jus tractatus con riguardo ad elementi essenziali del diritto dei popoli. Il tribunale arbitrale
internazionale però nega che un corollario del genere possa essere considerato come norma di jus cogens, dato che gli Stati sorti dalla
decolonizzazione sono stati considerati nella prassi come liberi di ripudiare gli accordi conclusi dal predecessore].
Una applicazione meno radicale della nullità è quella che può esprimersi in termini di mera
superiorità o prevalenza della norma di jus cogens rispetto alle norme consuetudinarie normali, ai
trattati ed alle fonti derivanti dei trattati. Da questo punto di vista la norma internazionale contraria
ad una norma imperativa resta valida ma è inapplicabile; insomma il rapporto tra le due categorie di
norme è da esprimere in termini di inderogabilità e non di nullità. Si prendano ad esempio le norme
consuetudinarie sull’immunità degli organi statali e degli Stati stranieri, da un lato, e la norma
imperativa che vieta la tortura ed i trattamenti disumani e degradanti, dall’altro: la superiorità di
quest’ultima non intacca la vigenza della prima ma ne sancisce l’inapplicabilità al caso dello Stato o
dell’organo torturatore. Proprio in tema di rapporto tra immunità degli Stati e degli organi statali
stranieri e gross violation dei diritti umani sia la giurisprudenza internazionale, sia quella interna
non si è mostrata molto sensibile al tema dello jus congens, arroccandosi sull’applicazione delle
vecchie norme relative alle immunità. A trovare maggiormente applicazione è stato proprio l’art.
103 della Carta. Nelle sentenze nazionali, le decisioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza sul
congelamento dei beni di individui presunti terroristi, messe a confronto con le norme della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, hanno finito per prevalere, dopo un bilanciamento degli
interessi in gioco.
* Sempre sul tema di rapporti tra consuetudini e accordi, e di derogabilità o inderogabilità delle
prime ed opera dei secondi, occorre capire se le norme che regolano le cause di invalidità e di
estinzione dei trattati sono o non sono derogabili, se possono gli Stati stabilire in un trattato che
qualsiasi mutamento delle circostanze non sarà considerato causa di estinzione del trattato
medesimo e se possono gli Stati stabilire in un trattato che qualsiasi mutamento delle circostanze
non sarà considerato causa di estinzione del trattato medesimo. E’ chiaro che siamo di fronte a
norme inderogabili, Il fato che queste norme generali regolano la struttura dell’accordo, le pone per
forza su di un piano superiore, anche nel senso della forza formale, al trattato.
* Per quanto riguarda gli atti delle organizzazioni internazionali, il problema dei limiti entro i quali
essi possono derogare alle norme dei trattati che ne prevedono l’emanazione va ovviamente risolto
caso per caso. In ogni trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale possono trovarsi norme
sia derogabili che cogenti; tra queste ultime vanno classificate le norme le quali prescrivono le
maggioranze necessarie per l’adozione degli atti. Anche il diritto internazionale generale di impone
alle organizzazioni internazionali, sempre che l’accordo istitutivo non vi deroghi, come il caso della
Carta delle Nazioni Unite.
* Il diritto internazionale si presenterebbe come frammentato in sistemi di norme autosufficienti
create con un trattato o un gruppo di trattati, istitutivi e non di organizzazioni internazionali.
Rientrerebbero così in tale categoria le norme sulla tutela dei diritti umani, sul diritto del mare, sul

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diritto dell’ambiente, sul commercio internazionale e chi più ne ha più ne metta, norme tutte
caratterizzare da mezzi di accertamento e da garanzie autonome. Altra caratteristica di questi
blocchi di norme è che contestabile la tendenza di queste ultime a sostenere la completezza del
blocco. La tesi della frammentazione trova scarso riscontro nella prassi in un’epoca come la nostra,
dove la comunità internazionale è caratterizzata da organizzazioni internazionali universali, prima
fra tutte le Nazioni Unite. Mettere in discussione l’unitarietà dell’ordinamento giuridico
internazionale non ha senso. I rapporti tra norme sono caratterizzati dalla grande flessibilità delle
sue fonti, in particolare della consuetudine, fatta salva la rigidità dello jus cogens. I sistemi
autonomi di norme costituiscono nient’altro che il diritto particolare che prevale sul diritto
internazionale generale.

IL CONTENUTO DELLE NORME INTERNAZIONALI

CAPITOLO 21: Il contenuto del diritto internazionale come insieme di limiti all’uso della
forza internazionale ed interna degli Stati

* Il diritto internazionale materiale, sia consuetudinaria che pattizio, si snoda tutto intorni ad un filo
conduttore informato ad un’idea direttrice secondo cui il contenuto del diritto internazionale è
costituito da un insieme di limiti all’uso della forza da parte degli Stati. Ora di tratta di limiti che
riguardano l’uso della forza da parte degli Stati. Ora si tratta di limiti che riguardano l’uso della
forza diretta da parte degli Stati. Ora si tratta di limiti che riguardano l’uso della forza diretta verso
l’esterno, sotto forma di violenza di tipo bellico, nei confronti degli altri Stati. Ora si tratta di limiti
che riguardano l’uso della forza diretta verso l’esterno, sotto forma di violenza di tipo bellico, nei
confronti degli altri Stati (forza internazionale) e si tratta di limiti che concernono l’uso della forza
verso l’interno, nei confronti degli individui, persone fisiche o giuridiche, e dei loro beni (forza
interna). Per forza internazionale intendiamo la violenza di tipo bellico, o comunque qualsiasi atto il
quale implichi operazioni militari, come l’attraversamento della frontiera da parte di truppe regolari
o di bande armate assoldate dallo Stato, il bombardamento di parti del territorio, l’attacco contro
navi o aerei militari, il blocco delle coste o l’installazione di campi minati al largo delle medesime.
Più complesso è dare la definizione di forza interna, intesa come potere di governo esplicato dallo
Stato sugli individui e sui loro beni. Quella di potere di governo, secondo il diritto internazionale, è
una nozione che è stata studiata soprattutto con riguardo al potere esercitato dallo Stato nell’ambito
del suo territorio; ma essa va considerata da un punto di vista più generale, come nozione
utilizzabile con riguardo al potere d’imperio dello Stato ovunque esplicato. Non si può identificare
detto potere con l’esercizio della coercizione in quanta forza materiale e sostenere quindi che
rilevanti per il diritto internazionale siano soltanto le azioni di polizia, l’esecuzione delle condanne
penali. Sebbene una parte della dottrina sostenga questa tesi sebbene sia il potere coercitivo
materiale quello che normalmente viene in rilievo per il diritto internazionale, non sembra che si
possa sostenere ce una violazione del diritto internazionale derivi sempre e soltanto dall’effettivo
esercizio della coercizione: anche la sentenza dichiarativa di un giudice o una legge che contenga
un provvedimento concreto possono costituire un comportamento illecito. Escluso che il potere di
governo si identifichi con la coercizione materiale, bisogna anche guardarsi dal riportargli ogni
manifestazione della sovranità dello Stato, e quindi anche la mera attività normativa astratta, sia
essa esplicata attraverso leggi oppure atti amministrativi. Finché al comando astratto non segue la
sua applicazione ad un caso concreto, non può propriamente parlarsi di una violazione del diritto
internazionale. L’attività normativa astratta non interessa il diritto internazionale neppure quando
essa forma l’oggetto specifico di una convenzione internazionale. Il potere di governo che interessa
il diritto internazionale si situa dunque a metà strada tra l’astratta attività normativa e l’esercizio
della coercizione materiale. Non basta la semplice emanazione di comandi concreti, legislativi,
giurisdizionali o amministrativi, in quanto è questa, la tesi di quella parte della dottrina
anglosassone la quale sostiene che il diritto internazionale ponga già limiti alla cosiddetta

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jurisdiction to prescribe legislative jurisdiction. Ad ogni modo, alla luce di una complessiva
valutazione della prassi l’attività di mero comando, anche se indirizzata a persone determinate e
vertente su questioni concrete, non ha di per sé rilievo per il diritto internazionale se non è
accompagnata dall’attuale e concreta possibilità di agire coercitivamente per farla rispettare. Può
concludersi che il potere di governo così come limitato dal diritto internazionale, o la jurisdiction
dello Stato nel senso del diritto internazionale, sia costituito da qualsiasi misura concreta di organi
statali, sia avente essa stessa natura coercitiva sia in quanto, e solo in quanto, suscettibile di essere
coercitivamente attuata.
* Si tratta della forza internazionale o della orza interna, ciò che è delimitato dal diritto
internazionale è sempre l’azione esercitata dallo Stato su persone o cose. Certi fenomeni, essendo
incoercibili, svolgendosi in spazi e con modalità che non possono essere colpite o intercettate,
sfuggono al potere di governo dello Stato. Anche in questi casi, punto di riferimento della disciplina
internazionalistica restano le persone e le cose; i diritti e gli obblighi internazionali di cui lo Stato è
titolare presuppongono sempre la sua possibilità di governare le attività umane.
* Tenuto conto del fatto che un principio fondamentale di diritto internazionale vieta il linea
generale l’uso della violenza di tipo bellico, la materia dei limiti all’uso della forza viene in rilievo
soprattutto sotto l’aspetto dell’eccezione a siffatto divieto, ossia della legittima difesa.
[Quando si dice che il diritto internazionale limita il potere di governare non si ha riguardo agli scopi che le norme internazionali
perseguono, ma al modo in cui le medesime norme operano. E’ stato giustamente osservato che, se si attribuisce alle norme di diritto
internazionale consuetudinario lo scopo di delimitare le sfere di potere statale, si finisce col restare attaccati ad una visione classica
del diritto consuetudinario, ossia ad una visione secondo cui tale diritto assicurerebbe la mera coesistenza tra gli Stati. In realtà
l’esporre il diritto internazionale come un insieme di limiti al potere di governo significa semplicemente utilizzare uno schema entro
il quale possono essere inserite tutte le norme internazionali materiali diverse da quella che si occupano della forza internazionale
dello Stato].

CAPITOLO 22: La sovranità territoriale

* La prima norma consuetudinaria in tema di delimitazione del potere di governo dello Stato è
quella sulla sovranità territoriale. Essa si affermò all’epoca in cui venne meno il Sacro Romano
Impero ed in cui conseguentemente cessò ogni forma di dipendenza anche formale delle singole
entità statali dall’Imperatore e dal Papa. La sovranità territoriale venne allora concepita come una
sorta di diritto di proprietà dello Stato, o meglio del sovrano, avente per oggetto il territorio; anche
il potere esercitato sugli individui veniva ricollegato alla disponibilità del territorio. Il potere dello
Stato sulle persone e sulle cose non era che una manifestazione, una derivazione del potere sul
territorio. Era così connaturata all’idea di potestà di governo quella di territorio che, per giustificare
l’esercizio del potere di governo oltre il territorio, si diceva che si trattava pur sempre di territorio.
Per quanto riguarda la natura giuridica internazionale del territorio: c’è che ancora afferma trattarsi
dell’oggetto di un diritto reale dello Stato, simile alla proprietà; chi viceversa ritiene che il territorio
non venga in rilievo come un bene in senso patrimonialistico ma segni soltanto l’ambito entro il
quale si esplica la potestà di governo dello Stato, potestà di governo che costituirebbe erra il vero
oggetto del diritto di sovranità territoriale; chi infine mescola variamente le due tesi. Trattasi di una
disputa esclusivamente teorica e piuttosto sterile; la sostanza delle cose non muta, non muta cioè il
contenuto della norma internazionale sulla sovranità territoriale. Può dirsi che la norma attribuisca
ad ogni Stato il diritto di esercitare in modo esclusivo il potere di governo sulla sua comunità
territoriale, cioè sugli individui che si trovano nell’ambito del territorio. Ogni Stato ha l’obbligo di
non esercitare in territorio altrui il proprio potere di governo, ossia di non svolgersi con i propri
organi azioni di natura coercitiva o comunque suscettibili di essere coercitivamente attuate. In ogni
caso la violazione della sovranità territoriale si ha solo se vi è presenza fisica e non autorizzata
dell’organo straniero nel territorio. In linea di principio il potere di governo dello Stato territoriale
non solo è esclusivo rispetto a quello degli altri Stati ma è anche libero nelle forme e nei modi del
suo esercizio e nei suoi contenuti. In linea di principio, cioè, lo Stato è libero nel suo territorio di
fare ciò che vuole, di disporre come crede delle proprie risorse naturali, si seguire i criteri che crede
nel governo della comunità territoriale. Quasi tutte le norme internazionali che si sono venute

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formando fino ad oggi comportano né più né meno che una serie di limiti sempre più fitti al potere
di governo esplicato nell’ambito del territorio; cosicché se è vero che il principio è ancora che lo
Stato può comportarsi nel suo territorio come meglio crede, nel dubbio, è sempre questo principio a
doversi applicare, anche se mancano le eccezioni derivanti dal diritto consuetudinario, i limiti alla
libertà dello Stato sono in massima parte l’effetto di norme convenzionali, e quindi di norme che gli
Stati hanno comunque liberamente accettato. Le eccezioni che per prime si sono andare affermando,
sia sul piano del diritto consuetudinario che sul piano del diritto pattizio, sono costituite dalle norme
che gli Stati hanno comunque liberamente accettato. Le eccezioni che per prime si sono andare
affermando, sia sul piano del diritto consuetudinario che sul piano del diritto pattizio, sono costituite
dalle norme che impongono un certo trattamento agli stranieri, soprattutto degli agenti diplomatici,
e degli stessi Stati stranieri. I limiti che da queste norme derivano al potere dello Stato non sono
oggi i più importanti; anzi, la loro specificità si è andata molto attenuando sia perché essi sono
confluiti per una certa parte nelle norme che tutelano tutti gli essere umani, sia perché per un’altra
parte nelle norme che tutelano tutti gli esseri umani, sia perché per un’altra parte essi si sono assai
affievoliti.
[La libertà dello Stato nell’ambito del suo territorio, che costituisce da vari secoli il contenuto del diritto di sovranità territoriale, è
ribadita da alcuni principi del nuovo ordine economico internazionale. In particolare con riferimento al principio della sovranità
permanente dello Stato sulle risorse naturali ed al principio per cui ogni Stato ha il diritto di scegliere il proprio sistema economico,
oltre che i suoi sistemi politici, sociale e culturali, conformemente alla volontà del suo popolo. Potrebbe sembrare dunque che
l’attaccamento dei Paesi in sviluppo a questi e a consimili principi sia poco originale. In realtà le enunciazioni ora riportate mirano ad
influire sulla disciplina dei limiti alla sovranità medesima riguardanti il trattamento degli stranieri e dei loro beni].
* [La sovranità territoriale è oggi indirettamente tutelata anche da un altro principio fondamentale del diritto internazionale, vale a
dire che dal principio che vieta la minaccia o l’uso della forza nei rapporti internazionali. Tale divieto riguarda principalmente le
azioni di tipo bellico rivolte contro il territorio dello Stato e pone in primo piano proprio la necessità di proteggere l’integrità
territoriale degli Stati].
*Per quanto riguarda l’acquisto della sovranità territoriale, cioè del diritto ad esercitare in modo
esclusivo ed indisturbato il potere di governo, vale il criterio della effettività: l’esercizio effettivo
del potere di governo fa sorgere il diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo medesimo.
Molti aspetti della problematica dell’acquisto della sovranità territoriale, hanno ormai perso quasi
del tutto attualità; essi erano infatti legati all’esistenza di territori di nessuno o magari non ancora
scoperti. Territori del genere non esistono oggi, né la sovranità territoriale può acquistarsi negli
spazi cosmici scoperti o da scoprire. Attuale è invece il problema degli acquisti di territori effettuati
in violazione di norme internazionali di fondamentale importanza. Nonostante i tentativi fatti per
limitare la portata del principio di effettività e disconoscere l’espansione territoriale che sia frutto di
violenza o di gravi violazioni di norme internazionali, la prassi sembra ancora oggi sostanzialmente
orientata nel senso che l’effettivo e consolidato esercizio del potere di governo su di un territorio
comunque conquistato comporti l’acquisto della sovranità territoriale. Nel caso della sovranità su
zone di confine o isole il cui possesso sia oggetto di controversie tra gli Stati confinanti, la CGI ha
più volte sostenuto che l’effettività deve cedere il passo ad un titolo giuridico, come un precedente
accordo tra gli Stati interessati o tra gli Stati che li hanno preceduti, e salvo che una delle parti non
abbia prestato acquiescenza alle pretese dell’altra, basate sull’effettività.
[Acquisto e perdita della sovranità territoriale si hanno anche il relazione alle vicende relative alla vita dello Stato: quando si verifica
un distacco di una parte del territorio con conseguente formazione di un nuovo Stato, o una cessazione di territori, o
un’incorporazione, vi è sempre la perdita della sovranità territoriale da parte di uno Stato e l’acquisto della medesima da pare di un
altro Stato. Anche in questi casi il principio di effettività è deciso, in quanto gli accordi che eventualmente siano alla base delle
anzidette vicende producono soltanto effetti obbligatori e non sono idonei da sé soli a far sorgere il diritto di sovranità territoriale.
L’espandersi della sovranità sul territorio di un altro Stato comporta, salvo diverse pattuizioni, il passaggio allo Stato subentrante
delle proprietà pubbliche e private. Sull’argomento va menzionata la Convenzione di Vienna sulla successione di Stati in materia di
beni, archivi e debiti di Stato. La Convenzione conferma, sia nella parte relativa ai beni, sia in quella relativa agli archivi il principio
che la proprietà di diritto interno segue la sorte della sovranità territoriale. Essa poi, opera un trattamento di particolare favore nei
confronti dei Paesi già sottoposti a regime coloniale, attribuendo loro non solo i beni esistenti nel territorio, ma anche i beni che si
trovino all0estero e dei quali la Potenza coloniale si sia appropriata durante il dominio coloniale].

CAPITOLO 23: I limiti della sovranità territoriale. L’erosione del dominio riservato e il
rispetto dei diritti umani

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* I limiti più importanti alla libertà dello Stato di comportarsi come crede nell’ambito del suo
territorio sono costituiti dalle norme internazionali, soprattutto dalle norme convenzionali, che
perseguono valori di giustizia, di cooperazione e di solidarietà tra i popoli. Trattasi di norme
attraverso le quali si manifesta la tendenza del diritto internazionale ad ingerirsi nei rapporti interni
alle singole comunità statali, di norme che riguardano l’intera comunità statale, senza distinzione tra
cittadini e stranieri o apolidi. Con l’affermarsi dei limiti si è andato progressivamente erodendo il
dominio riservato o competenza interna dello Stato, espressione con cui si intende per l’appunto
indicare le materie delle quali il diritto internazionale sia consuetudinario che pattizio si disinteressa
e rispetto alle quali lo Stato è conseguentemente libero da obblighi. Tradizionalmente venivano fatti
rientrare nella competenza interna i rapporti tra lo Stato ed i propri sudditi, l’organizzazione delle
funzioni di governo, la politica economica e sociale dello Stato, ecc. La nozione di domestic
jurisdiction può essere ancora utilizzata con riguardo al diritto consuetudinario, mentre ha perso il
suo significato per quanto concerne il diritto convenzionale.
[La stessa libertà dello Stato di imporre o concedere la propria cittadinanza ad un individuo non è più senza limiti. Deve infatti
ritenersi ormai come consolidato il principio che la CIG enunciò e cioè che una cittadinanza attribuita in mancanza di un legame
effettivo tra l’individuo e lo Stato che la concede non può essere opposta ad un altro Stato, particolarmente ai fini dell’esercizio della
protezione diplomatica. Singoli aspetti della materia della cittadinanza sono poi regolati convenzionalmente: ad es. la Convenzione
sulla riduzione dei casi di nazionalità multipla e di obblighi militari in caso di nazionalità multipla, promossa dal Consiglio d’Europa
e di cui è parte contraente anche l’Italia. Assai importante è la Convenzione promossa dal Consiglio d’Europa che per la prima volta
racchiude in un unico testo la disciplina di tutta una serie di questioni in materia di cittadinanza].
L’azione dei Governi nel settore delle iniziative internazionali dirette a promuovere la tutela della
dignità umana si è tradotta nella conclusione di numerose convenzioni. Ricordiamo: su scala
regionale, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, resa vincolante dal TUE, la Convenzione
interamericana sui diritti umani e la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli. Tutte queste
convenzioni, oltre ad istituire degli organi destinati a vegliare sulla loro osservanza, contengono un
catalogo dei diritti umani che spesso risulta assai dettagliato ed avanzato di quello che normalmente
le Costituzioni, anche le più moderne, prevedono. Assai estesi sono i diritti che gli Stati sono
obbligati a riconoscere a tutti gli individui sottoposto al loro potere, senza distinzione di sesso,
razza, religione ed opinione politica: i diritti economici comprendono il diritto al lavoro, ad un equa
retribuzione, alle assicurazioni e alle altre forme di assistenza e di sicurezza sociale, il diritto di
formare sindacati liberi e il diritto di sciopero; per quanto concerne i diritti civili e politici, il
consueto catalogo delle libertà individuali risulta ampliato con i divieti che formano oggetto anche
del diritto consuetudinario, come il divieto di praticare la tortura, di sottoporre l’individuo a
trattamenti disumani e degradanti.
* La materia dei diritti umani è anche una materia nella quale si sono venute formando delle norme
consuetudinarie. A differenza delle convenzioni, le quali contengono cataloghi assai dettagliati, il
diritto consuetudinario si limita peraltro alla protezione di un nucleo fondamentale ed irrinunciabile
di diritti umani. Trattasi del divieto delle gross violations, ossia delle violazioni gravi e
generalizzate di tali diritti. Sulla contrarietà di siffatte pratiche al diritto generale, anzi allo jus
cogens internazionale, concordano tutti gli Stati, si è anche pronunciata la CIG ed esiste una
significativa ed abbondante prassi conforme delle Nazioni Unite.
[Nonostante le tante dichiarazioni e norme che le condannano, le gross violation continuano purtroppo ad essere praticate. Quelle
ricorrenti su larga scala sono soprattutto la tortura ed i trattamenti disumani e degradanti. Con tortura si indica qualsiasi atto mediante
il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore e sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere
informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa ha commesso di intimorirla o di far pressione si di lei. Come la CEDU ha
più volte indicato, la tortura si distingue dai trattamenti disumani e degradanti solo per la maggior intensità delle sofferenze fisiche o
psichiche inflitte, tutte dovendo peraltro raggiungere una soglia minima di gravità].
L’obbligo degli Stati di rispettare i diritti umani è fondamentalmente un obbligo negativo, o di
astensione. Gli organi statali sono tenuti ad astenersi dal ledere siffatti diritti e, per quel che riguarda
il diritto consuetudinario, dal compiere atti qualificabili come gross violation. Ma il rispetto dei
diritti umani costituisce anche l’oggetto di un obbligo positivo o di protezione. Lo Stato deve
vagliare affinché violazioni dei diritti umani non siano commesse da individui che comunque si
trovino sul suo territorio. Esso è pertanto tenuto a prendere tutte le misure di polizia, giudiziarie,
ecc, idonee a prevenire e reprimere dette violazioni.

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* Le norme sui diritti umani vengono anche in rilievo con riguardo alla protezione delle minoranze,
definibili come gruppo numericamente più esiguo del resto della popolazione dello Stato al quale
esso appartiene ed avente caratteristiche culturali, fisiche o storiche, una religione o una lingua
diversi da quelli del resto del paese, la necessità della loro protezione si è esposta a partire dalla fine
della prima guerra mondiale. A causa della frantumazione dell’Impero austro-ungarico e di quello
ottomano, e si è riacutizzata dopo la caduta del muro di Berlino con la dissoluzione dell’Unione
sovietica e della Jugoslavia. La protezione delle minoranze è esclusivamente affidata al diritto
convenzionale e norme sulla materia si trovano in quasi tutte le convenzioni sui diritti umani. Le
convenzioni multilaterali che invece si occupano specificamente della materia non sono molte.
Spesso le norme su una determinata minoranza si trovano in accordi bilaterali tra lo Stato al quale la
minoranza etnicamente appartiene e lo Stato al quale essa è sottoposta. Il tema della tutela delle
popolazioni indigene è di grande attualità ed in vari Stati dell’Africa e delle Americhe, le
rivendicazioni, da quelle relative al godimento delle terre, e delle relative risorse, che gli indigeni
tradizionalmente possedevano, a quelle relative al diritto alla conservazione e protezione
dell’ambiente, al diritto al mantenimento della propria identità culturale, delle proprie tradizioni e
dei propri costumi, il diritto a vivere in piena libertà e sicurezza, al diritto a sviluppare forme di
autogoverno, insomma il diritto a tutti ciò che per secoli i colonizzatori hanno negato o compresso.
In realtà le norme internazionali vincolanti che si occupino specificamente della materia sono
poche. Vero è che la materia attiene piuttosto al diritto costituzionale dei Paesi dove il problema
esiste che al diritto internazionale. O meglio, il diritto internazionale possono fornire argomenti a
sostegno di una protezione che per l’appunto si ricava dal diritto costituzionale.
* Alla materia dei diritti umani si applica la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni.
Trattasi di una regola mutata dalle norme internazionali in tema di trattamento degli stranieri: la
violazione delle norme consuetudinarie sui diritti umani non può dirsi consumata finché esistono
nell’ordinamento dello Stato offensore rimedi adeguati ed effettivi per eliminare l’azione illecita o
per fornire all’individuo offeso una congrua riparazione. Tutte le convenzioni sui diritti umani, le
quali prevedono organi di controllo sul rispetto di tali diritti contengono la regola del previo
esaurimento.

CAPITOLO 24: La punizione dei crimini internazionali

Il tema della punizione dei crimini internazionali s’intreccia con il tema del rispetto dei diritti
umani. Caratteristica delle norme, generali e convenzionali, che disciplinano siffatti crimini è che
esse danno luogo ad una responsabilità propria delle persone fisiche che li commettono; trattasi di
norme che possono essere considerate come regole che direttamente si indirizzano agli individui,
concorrendo alla formazione della soggettività internazionale di questi ultimi. La comunità
internazionale sta tentando oggi di attuare la punizione dei crimini internazionali individuali
attraverso l’istituzione di tribunali internazionali. La punizione è quindi in larga parte affidata ai
tribunali interni, nell’esercizio della sovranità territoriale.
[La categoria dei crimini internazionali individuali è abbastanza recente. Qualche precedente esisteva anche prima, ma con fattispecie
disciplinate in modo non proprio simile a quanto avviene oggi. Crimine internazionale era considerata a pirateria. Un altro precedente
era quello dei crimini di guerra che attualmente costituiscono una importante componente dei crimini internazionali; ma l’elenco dei
crimini di guerra era assai poco esteso, la punizione dei criminali era limitata agli Stati belligeranti e si riteneva che dovesse
comunque cessare con la cessazione delle ostilità].
I crimini internazionali individuali possono essere distinti in crimini contro la pace, crimini contro
l’umanità e crimini di guerra. Un elenco dettagliato è contenuto degli artt. 5-8 dello Statuto della
Corte penale internazionale. Lo Statuto prevede quattro tipi di crimini: il genocidio, i crimini contro
l’umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione. Per quanto riguarda il genocidio, viene
ripresa la definizione tradizionale, secondo cui è tale la distruzione totale o parziale di un gruppo
nazionale, etnico, razziare o religioso. Ai crimini contro l’umanità vengono riportati i seguenti atti,
purché perpetrati come parte di un esteso o sistematico attacco diretto contro una popolazione
civile: omicidio, riduzione in schiavitù, deportazione o trasferimento forzato di popolazione, tortura,

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violenza carnale, prostituzione forzata ed altre forme di violenza sessuale di eguale gravità,
sparizione forzata di persone, apartheid, altri atti disumani. Tra i crimini di guerra lo Statuto, oltre a
riprodurre crimini già inclusi tra quelli contro l’umanità, si riferisce a tutta una serie di atti specifici
del tempo di guerra, come la violazione delle Convenzioni di Ginevra sul diritto umanitario di
guerra, l’arruolamento forzato dei prigionieri di guerra, la presa di ostaggi, gli attacchi diretti contro
popolazioni ed obbiettivi civili. Anche tutti questi atti, per poter essere considerati come crimini
internazionali individuali, devono far parte di un programma politico o aver luogo su larga scala.
Circa i crimini contro la pace, ossia l’aggressione, questa è stata definita dall’Assemblea degli stati
parti dello Statuto successivamente all’entrata in vigore di questo ed in modo più o meno
corrispondente alla definizione a suo tempo data da una risoluzione dell’Assemblea generale
dell’ONU. Si tratta di crimini individuali che sono tali anche per il diritto internazionale
consuetudinario. Con riguarda all’aggressione non esiste una prassi significativa. In realtà la
condanna risentì del carattere apocalittico con cui la guerra di aggressione si era presentata. Si può
concordare con l’opinione secondo cui l’aggressione è qualificabile come crimine internazionale
individuale solo quando è scatenata su larga scala o produce conseguenze assai gravi. Normalmente
l’individuo che commette un crimine internazionale è organo del proprio Stato o di un’entità di tipo
statale. Soltanto gli Stati infatti, sono normalmente in grado di produrre attacchi estesi o sistematici
contro una popolazione civile. Ciò comporta che, quando è commesso un genocidio o un altro
crimine contro l’umanità di guerra, ne consegue una duplice responsabilità internazionale, dello
Stato e dell’individuo organo. Trattasi peraltro di due forme di responsabilità diverse tra loro: quella
individuale consiste nella punizione del colpevole; quella dello Stato è molto più labile.
Normalmente i crimini internazionali sono commessi da individui-organi, perché non è escluso che
possano essere commessi da gruppi privati non agenti quali organi di uno Stato determinato. E’
questo il caso degli atti di terrorismo commessi negli ultimi anni dal gruppo di Al Qaeda facente
capo al terrorista Bin Laden.
[Per quanto riguarda atti terroristici commessi da movimenti di liberazione di territori sottoposti a dominazione straniera, una parte
della comunità internazionale è stata a lungo contraria alla loro equiparazione pura e semplice ai crimini contro l’umanità ed
addirittura a pervenire ad una definizione di terrorismo internazionale. La Convenzione stabilisce che non possano giustificarsi, con
considerazioni di natura politica, filosofica, ideologica, razziale, etnica, religiosa e simili, atti criminali intesi a provocare uno atto di
terrore nel grande pubblico o in un gruppo di persone].
* A proposito della differenza di punizione tra chi commette un crimine internazionale e chi
commette un crimine comune, il principio che va affermandosi è quello dell’universalità della
giurisdizione statale: si ritiene che ogni Stato possa procedere alla punizione ovunque l crimine sia
stato commesso. Per il diritto internazionale generale lo straniero può essere sottoposto a giudizio
penale solo se sussiste un collegamento con lo Stato del giudice. Tale collegamento è dato dal
principio di territorialità variamente temperato, a seconda degli ordinamenti statali, dalla possibilità
di punire certi reati più gravi quando essi sono commessi dal cittadino, ed anche dallo straniero,
all’estero. La necessità del collegamento e la giurisdizione penale sullo straniero diviene sempre
applicabile, quando si tratta di crimine internazionale. Ovviamente la ratio è che lo Stato che
punisce il crimine persegue un interesse che è proprio della comunità internazionale nel suo
complesso. La punizione dei crimini internazionali può inoltre aver luogo anche quando il colpevole
sia stato catturato all’estero illegittimamente. Ed è libero lo Stato di escludere che i crimini
internazionali siano colpiti da prescrizione. Così come lo Stato può punire, così pure può limitarsi a
concedere l’estradizione ad uno Stato che intende farlo. Per il diritto consuetudinario, lo Stato può
ma non deve punire; può ma non deve considerare il crimine come imprescrittibile; può ma non
deve concedere l’estradizione dell’individuo allo Stato che intenda punirlo. La situazione è diversa
per quanto riguarda il diritto pattizio, numerose essendo le convenzioni che contengono la regola “o
estradare o giudicare”. Va anche detto che tra semplice facoltà e obbligo di punire la differenza non
è estremamente importante dal punto di vista pratico. All’universalità della giurisdizione penale fa
da pendant l’universalità della giurisdizione civile che può considerarsi come avallata dal diritto
internazionale generale.
[Per quanto riguarda l’imprescrittibilità, essa è prevista da molte leggi statali. Non mancano poi sentenze interne che l’anno applicata
sostenendo che essa sia imposta dal diritto internazionale generale. Un principio di diritto internazionale consuetudinario pare essere

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in via di formazione. Ovviamente detto principio non potrebbe non incidere sulla stessa libertà dello Stato di punire o meno. Vale
anche la pena di ricordare che sempre più spesso, nei Paesi dove viene eliminato un Governo che ha commesso violazioni gravi dei
diritti umani, come è il caso, ad es. del Cile dopo Pinochet, si tende a stendere un velo sul passato, attraverso l’adozione di leggi di
amnistia o la creazione delle Commissioni di verità. Tutto ciò riguarda il Paese dove si procede alla riconciliazione e quindi non è
idoneo ad impedire che altri paesi procedano invece alla punizione. Diversa è la situazione quando nel Paese di origine il presunto
criminale sa sottoposto a regolare e credibile processo, nel qual caso la giurisdizione di un altro Paese non è esercitabile- Nello stesso
Paese di origine le leggi di amnistia lasciano perplessi quando si tratta di cancellare crimini internazionali efferati. Tra le convenzioni
che si occupano di crimini che non sono da ascrivere vanno menzionate le Convenzioni di Ginevra sul diritto umanitario di guerra, la
Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, la Convenzione per la eliminazione degli attacchi terroristici e la Convenzione
delle Nazioni Unite per la eliminazione dei finanziamenti al terrorismo].
Il principio dell’universalità della giurisdizione consente di punire il crimine ovunque esso sia stato
commesso e quindi in mancanza di qualsiasi collegamento tra il crimine medesimo e lo Stato del
giudice. Ciò non significa che il crimine internazionale possa essere giudicato anche se non è
fisicamente presente nel territorio dello Stato, ossia in contumacia. La prassi non autorizza una
conclusione contraria, ove si consideri: che tutti i casi di punizione finora effettuati ad opera di
Corti interne riguardano individui presenti nel territorio; che il principio della presenza
dell’indagato è applicato dai tribunali penali internazionali; che il principio aut dedere aut judicare,
chiaramente muove dal presupposto che non si giudichi in contumacia; e che il giudicare in
contumacia crimini che già non hanno alcun collegamento con lo Stato del giudice finisce per
essere una forma di imperialismo giuridico.

CAPITOLO 25: Limiti relativi ai rapporti economici e sociali. La protezione


dell’ambiente

* Il diritto internazionale economico è forse quello in cui più che in ogni altro la formazione di
norme consuetudinarie è da escludersi. Trattasi di un settore dominato dalle norme convenzionali.
Per quanto concerne i rapporti tra Paesi industrializzati e Paesi in sviluppo, è bensì vero che una
serie di principi sono stati enunciati a varie riprese dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite,
dall’UNCTAD e dagli altri organi dell’ONU o di altre organizzazioni internazionali a carattere
universale. Diversi Paesi in sviluppo considerano tali risoluzioni produttive di consuetudini
istantanee. Ma si tratta di una opinione non condivisibile se si escludono le norme relative ai
rapporti economici tra Stato territoriale e stranieri, le risoluzioni si limitano ad enunciare principi di
carattere programmatico, che indicano come i rapporti economici tra Paesi in sviluppo e Paesi
industrializzati. Ed è sulla base di questi principi che tutta una rete di convenzioni bilaterali e
multilaterali è andata ponendo limiti alla libertà degli Stati di regolare come credono i loro rapporti
economici.
[Ricordiamo a tal proposito: gli accordi sui prodotti di base che, per brevi periodi di tempo e mediante vari meccanismi, tendono a
stabilizzare il prezzo del prodotto e a renderlo remunerativo per i Paesi produttori; le convenzioni commerciali ispirate al principio
del trattamento preferenziale dei Paesi di sviluppo, ossia al principio che le concessioni fatte a tali Paesi non siano soggette a
reciprocità nei confronti dello Stato sviluppato concedente né si estendano ad altri Paesi industrializzati attraverso il gioco della
clausola della nazione più favorita; gli accordi che prevedono assistenza tecnica e aiuti finanziari ai Paesi in sviluppo].
La libertà degli Stati in materia economica è limitata da numerosissimi accordi tendenti alla
liberalizzazione del commercio internazionale, in particolare all’abbattimento degli ostacoli alla
libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali, all’integrazione delle economie statali su
scala regionale, ecc. Su tali accordi sempre nella materia economica, il potere di governo dello Stato
non incontra limiti di diritto consuetudinario, diversi da quelli relativi al trattamento degli interessi
economici degli stranieri. In effetti vari tentativi sono stati fatti in dottrina per individuare limiti di
carattere generale, svincolati dalle norme sul trattamento degli interessi stranieri. I più interessanti
tentativi del genere sono quelli che si riferiscono alla irrogazione di sanzioni in base alla
legislazione antitrust o alla legislazione riguardante il commercio internazionale, oppure addirittura
alle norme che regolano l’amministrazione delle società. Si è così affermato che lo Stato non debba
comunque interferire negli interessi economici essenziali di Stati stranieri, oppure che tali interessi
debbano essere oggetto di una ponderazione ed avere il sopravvento se meritevoli di maggior tutela
rispetto agli interessi nazionali, o infine che ciascun Stato debba esercitare il proprio potere nella
materia in esame entro limiti ragionevoli. Tutto ciò è stato detto per reagire alla dottrina degli

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effetti, vale a dire al principio secondo cui la giurisdizione dello Stato si radicherebbe ogniqualvolta
un atto produca effetti all’interno del territorio nazionale, indipendentemente da dove e da chi l’atto
sia stato compiuto. Grazie all’uso di tale dottrina gli Stati Uniti hanno giustificato l’applicazione
della propria legislazione antitrust ad imprese operanti all’estero. La situazione sembra mutata
attualmente, la teoria degli effetti essendo adottata dalle leggi e dalla giurisprudenza di vari Paesi,
tra cui la Germania ed il Giappone, e dalla stessa CE. Resta la questione di stabilire con esattezza
quand’è che un’attività industriale produca sul piano interno effetti sostanziali. Da questo punto di
vista, la prassi è tutt’altro che chiara, con il risultato che spesso il ricorso alla dottrina in esame
diviene solo un pretesto per realizzare obiettivi protezionistici. Gli effetti sostanziali prodotti nel
territorio dello Stato che adotta le sanzioni contro le imprese straniere costituiscono quel contatto
idoneo a giustificare l’esercizio del potere di governo sugli stranieri. Ma non è inutile aggiungere
che, se l’impresa colpita non ha beni nel territorio dello Stato sanzionante, il suo intervento diviene
velleitario.
[Varie convenzioni internazionali disciplinano nei dettagli le materie comprendenti diritti economici e sociali, in particolare le
materie del lavoro e della sicurezza sociale].
* In tema di protezione dell’ambiente vengono in rilievo i limiti alla libertà di sfruttamento delle
risorse naturali del territorio, onde ridurre i danni causati dalle attività inquinanti o capaci di
produrre irrimediabili distruzioni di risorse. Da più parti si sostiene che lo Stato abbia l’obbligo di
evitare che il suo territorio venga utilizzato in modo tale da recare danno al territorio di altri Stati.
Normalmente il problema viene posto sotto il profilo della responsabilità dello Stato territoriale: ci
si chiede se una responsabilità per danno oltre frontiera sussista, se vada considerata come
responsabilità da atto illecito oppure sorga anche qualora si ritenga che l’attività nociva sia lecita, ed
infine se la responsabilità stessa abbia carattere assoluto o presupponga la colpa dello stato
territoriale. Nel caso l’indagine dia un risultato positivo, la responsabilità derivante dalla violazione
di tale obbligo dovrà configurarsi come responsabilità da illecito; nel caso il risultato sia invece
negativo, resterà da stabilire se si possa configurare una responsabilità da atti illeciti. Il problema si
pone oggi con particolare acutezza in relazione all’inquinamento atmosferico derivante da attività
ultra pericolose e capaci di produrre danno anche a notevole distanza, come l’attività delle centrali
atomiche, gli esperimenti nucleari, le industrie chimiche. A simili attività ha riguardo il principio n.
21 della Dichiarazione adottata a Stoccolma del 1972 dalla Conferenza di Stati sull’ambiente
umano, principio ripreso dalla Dichiarazione della Conferenza di Rio sull’ambiente e lo sviluppo,
secondo il quale gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse naturali conformemente
alla loro politica sull’ambiente e hanno l’obbligo di assicurarsi che le attività esercitate entro i limiti
della loro sovranità o sotto il loro controllo non causino danni all’ambiente in altri Stati. Le
Dichiarazioni di Stoccolma e di Rio non hanno di per sé forza vincolante. Per capire se l’obbligo
che esse sanciscano corrisponda al diritto internazionale consuetudinario, occorre citare alcune
decisioni di corti internazionali. La decisione più antica è la sentenza arbitrale emessa tra Stati Uniti
e Canada nel 1941 nell’affare della Fonderia di Trail, che operava in prossimità del confine e che
aveva gravemente danneggiato coltivazioni di contadini americano. Si passa poi alla CIG, secondo
cui l’obbligo di non inquinare discenderebbe da un corpo di regole del diritto internazionale
dell’ambiente. La formula da essa adoperata è interpretata nella sentenza arbitrale del 2005, fra il
Belgio e i Paesi Bassi, che ritiene che comunque si sia di fronte ad un principio emergente.
L’opinione della dottrina ed avallata dalla giurisprudenza, non corrisponde alla prassi degli Stati, ma
piuttosto rappresenta l’ideale collettivo della comunità internazionale, che per ora ha il carattere
della fiction o della mezza verità. Gli Stati sono stati sempre restii ad ammettere la propria
responsabilità per danni, e se qualche volta hanno provveduto ad indennizzare le vittime hanno nel
contempo avuto cura di sottolineare il carattere grazioso dell’indennizzo medesimo. E’ possibile di
re che esiste una spinta da parte della giurisprudenza internazionale verso la formazione di una
norma consuetudinaria, oppure che si sia di fronte ad un principio emergente, ma che tale norma o
principio richiede di essere sostenuto dalla prassi degli Stati per consolidarsi. Diversa è la situazione
per quanto riguarda il caso specifico delle acque comuni, di cui può considerarsi come vietato un
qualsiasi utilizzo capace di nuocere agli altri utilizzatori. Obblighi di cooperazione sono previsti per

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gli usi nocivi del territorio in generale, come l’obbligo dello Stato di informare gli altri Stati
dell’imminente pericolo di incidenti e l’obbligo per tutti gli Stati interessati di prendere di comune
accordo misure preventive del danno all’ambiente.
[La materia dell’inquinamento dei fiumi è stata oggetto di codificazione ad opera della CDI, sfociata nella Convenzione del 1997 sul
diritto alle utilizzazioni dei corsi d’acqua internazionali per finalità diverse dalla navigazione, non ancora in vigore. La Convenzione
vuole essere un accordo quadro al quale dovrebbero ispirarsi accordi particolari tra Stati rivieraschi; sue norme principali sono l’art.
che prevede un’utilizzazione equa e ragionevole del corso d’acqua da parte degli Stati rivieraschi e l’art. secondo il quale uno Stato
rivierasco deve prendere le misure necessarie per evitare di causare danni significativi agli altri Stati rivieraschi e discutere la
questione dell’indennizzo].
Non bisogna confondete gli obblighi dello Stato sul piano internazionale con quelli degli individui,
persone fisiche o giuridiche, o al limite dello stesso Stato; oppure essa può essere chiamata a
rispondere innanzi ai giudici dello stesso Stato dal cui territorio proviene l’inquinamento. E
precisamente alla responsabilità di diritto interno si ha riguardo quando si parla del principio “chi
inquina paga”, adottato in varie convenzioni internazionali: a parte questo, esso comunque si
limiterebbe ad imporre allo Stato di apprestare gli strumenti affinché la responsabilità
dell’inquinatore possa essere fatta valere al suo interno. A parte gli usi nocivi, ci si chiede poi se lo
Stato non sia addirittura obbligato dal diritto internazionale generale a gestire razionalmente le
risorse del proprio territorio secondo i principi dello sviluppo sostenibile della responsabilità
intergenerazionale e dell’approccio precauzionale. La risposta non può essere positiva e può parlarsi
si una linea di tendenza che va affermandosi in seno alla comunità internazionale. Assai numerose
sono le convenzioni internazionali, a carattere universale o regionale, che si occupano della lotta
all’inquinamento in tutte le sue manifestazioni. Per quanto riguarda gli usi del territorio che possono
nuocere al territorio o alle comunità sottoposte alla giurisdizione di altri Stati ricordiamo la
Convenzione di Stoccolma sugli inquinamenti organici persistenti; la Convenzione
sull’inquinamento atmosferico a lunga distanza, che prevede un obbligo di scambi di informazioni,
consultazione, ricerca e monitoraggio per combattere l’inquinamento nonché un obbligo specifico
di consultazione, tra le Parti contraenti interessate, quando una o più Parti siano colpite o
gravemente minacciate dall’inquinamento atmosferico proveniente dal territorio di un’altra Parte, le
due Convenzioni sulla tempestiva notifica degli incidenti nucleari e sull’assistenza in caso di
incidenti nucleari; la Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti transfrontalieri di rifiuti
pericolosi e della loro eliminazione. E’ raro che simili accordi prevedano dei divieti precisi aventi
ad oggetto determinate attività inquinanti, limitandosi a ribadire che gli Stati devono cooperare,
scambiarsi informazioni e consultarsi sia in via preventiva sia per prevenire che per fronteggiare
incidenti. Non mancano peraltro le eccezioni, come la Convenzione di Bonn, sulla protezione del
Reno dall’inquinamento che prevede tra l’altro due liste di sostanze capaci di inquinare le acque del
fiume, imponendo di eliminare l’inquinamento derivante dalle sostanze della prima lista e di ridurre
quello derivante dalle sostanze della seconda lista. Una menzione a parte meritano infine quelle
convenzioni le quali non si occupano della responsabilità internazionale ma, ispirandosi al principio
“chi inquina paga”, si preoccupano di imporre agli Stati contraenti la predisposizione di un
adeguato sistema di responsabilità civile o addirittura penale. Anche nella materia della gestione
razionale delle risorse, le convenzioni sono numerose. Trattasi di norme di importanza
fondamentale, capaci, di contribuire alla preservazione di un ambiente decente per le generazioni
future. Interamente di carattere pattizio è poi la disciplina diretta a proteggere la diversità biologica,
ossia la variabilità degli organismi viventi di qualsiasi origine, comprendente la diversità all’interno
delle specie, tra le specie e degli ecosistemi. Il testo base è costituito dalla Convenzione di Nairobi
ratifica da un grande numero di Stati tra cui l’Italia ed entrata in vigore del 1992. La Convenzione
ha per oggetto la conservazione della diversità biologica, l’utilizzazione durevole dei suoi elementi
e la ripartizione giusta ed equa dei vantaggi derivanti dallo sfruttamento delle risorse genetiche.
Essa obbliga tra l’altro gli Stati contraenti a prendere le misure dirette a favorire la partecipazione di
tutti i Paesi, ai vantaggi derivanti dalle biotecnologie. D’altra canto, essa si preoccupa dell’impatto
ecologico negativo, specie sulla diversità biologica, delle biotecnologie, ad. es. nel settore degli
alimenti geneticamente modificati. Il problema che tutta questa massa di convenzioni solleva è
quello della loro osservanza; è chiaro che, soprattutto in relazione alle norme sulla riduzione della

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produzione e del consumo di sostanze inquinanti, l’osservanza almeno da parte della stragrande
maggioranza degli Stati è essenziale. Purtroppo il quadro che la prassi fornisce è assai deludente.
Organi composti da un numero limitato di esperti sono stati creati nell’ambito delle stesse
convenzioni per individuare i casi di inosservanza, ma il loro compito è quello di assistere gli Stati
in difficoltà più che quello di adottare sanzioni. Ciò dà ragione a chi sostiene che le norme in
materia di inquinamento hanno per ora in larga misura carattere promozionale, stabilendo premi ed
incentivi per gli Stati che adottano misure atte a preservare l’ambiente.

CAPITOLO 26: Il trattamento degli stranieri

* Due sono i principi di diritto internazionale generale che si sono andati formando per
consuetudine in materia di trattamento degli stranieri. Il primo prevede che allo straniero non
possano imporsi prestazioni e comportamenti che non si giustifichino con un sufficiente attacco
dello straniero stesso con la comunità territoriale. Questa regola può anche esprimersi dicendosi che
l’intensità del potere di governo sullo straniero e sui suoi beni deve essere proporzionata
all’intensità del predetto attacco sociale. Pertanto allo straniero non potranno essere richieste
prestazioni e comportamenti di natura politica, i quali si giustificano solo in presenza di quel
massimo attacco sociale costituito dal vincolo di cittadinanza; non potranno essere richieste
prestazioni di carattere fiscale se non nei limiti in cui lo straniero eserciti attività o possegga beni
che giustifichino siffatta imposizione; non potranno essere imposti vincoli relativamente ad attività
commerciali, industriali, ecc., se non quando tali attività si svolgano o siano in qualche modo
collegate al territorio; non potranno applicarsi sanzioni penali se non di fronte a reati che presentino
un qualche collegamento con lo Stato territoriale e i suoi sudditi, salvo ovviamente l’esercizio della
giurisdizione penale universale per i crimini internazionali. L’altro principio di carattere
consuetudinario in tema di trattamento degli stranieri sancisce l’obbligo di protezione da parte dello
Stato territoriale. Secondo tale principio, lo Stato deve predisporre misure idonee a prevenire e a
reprimere le offese contro la persona o i beni dello straniero, l’idoneità essendo commisurata a
quanto di solito si fa per tutti gli individui in uno Stato civile. Per quanto concerne le misure
preventive è ovvio che esse debbano essere adeguate alle circostanze relative ad ogni singolo caso
concreto: così, se normalmente lo Stato è in regola con il diritto internazionale consuetudinario se
dispone di un apparato di polizia sufficiente a mantenere l’ordine, è chiaro pure che particolarissime
misure di polizia debbano prendersi di fronte a particolarissime circostanze. Ognuno vede quale
ruolo importante il diritto internazionale lasci all’interprete che debba stabilire se le misure siano
state adeguate. Per quanto concerne le misure repressive, occorre che lo Stato disponga di un
normale apparato giurisdizionale innanzi al quale lo straniero possa far valere le proprie pretese ed
ottenere giustizia. Chiamasi appunto diniego di giustizia l’eventuale illecito dello Stato in questa
specifica materia. E’ ovvio che tale illecito si ha quando la giustizia è negata appunto per difetto di
organizzazione giudiziaria, tenuto conto dell’amministrazione della giustizia predisposta da uno
Stato medio. Va anche aggiunto che la protezione della persona dello straniero assumeva un rilievo
del tutto autonomo quando lo Stato era considerato libero da vincoli internazionali relativamente
alla protezione della persona del cittadino o dell’apolide, tape protezione rientrando nella sfera del
suo dominio riservato,. Essa può dirsi confluita oggi nella protezione accordata alla persona umana
in quanto tale. La situazione è invece immutata per ciò che concerne la protezione dei beni dello
straniero, i beni del cittadino possono legittimamente essere sacrificati dal punto di vista del diritto
internazionale.
* Sui due principi si innestano le rivendicazioni dei Paesi in sviluppo aventi per oggetto la sovranità
permanente sulle risorse naturali. Per il punto di vista dei Paesi in via su sviluppo, secondo cui ogni
Stato sarebbe libero di disciplinare gli investimenti in conformità alle sue leggi e regolamenti ed
alle priorità ed obbiettivi nazionali di politica economica e sociale e di adottare tutte le misure
necessarie affinché siffatta disciplina sia rispettata dagli stranieri, particolarmente dalle società
multinazionali. Una simile regola, il cui scopo è quello di evitare gli abusi perpetrati in passato in

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ordine allo sfruttamento delle risorse dei territori sottoposti dominio coloniale o degli Stati più
deboli, può anche essere considerata come l’attuale regola generale di diritto internazionale in
materia di investimento, a patto però che la libertà dello Stato non sia spinta invece fino al punto di
avallare gli abusi degli Stati dove l’investimento ha luogo.
* Nella materia del trattamento degli investimenti stranieri va inquadrato il problema della
disciplina delle espropriazioni e delle altre misure restrittive di proprietà, diritti ed interessi degli
stranieri. Il problema si è posto con riguardo alle nazionalizzazioni. La prassi in materia risale alla
fine della prima guerra mondiale e si p arricchita a partire dal secondo dopoguerra, dapprima con le
nazionalizzazioni di compagnie petrolifere da parte degli Stati arabi w con tutte le altre avvenute nei
Paesi dell’America latina e negli altri Paesi in sviluppo. Attualmente la prassi delle
nazionalizzazioni non è più molto significativa ed anche il problema di quali siano le regole
internazionali consuetudinarie in materia di trattamento degli investimenti non si pone più in
termini drammatici. Neppure vi è controversia circa la questione se il passaggio alla mano pubblica
debba essere sorretto da motivi di pubblica utilità, questione che acquista esclusivamente rilievo in
caso di espropriazione di un singolo bene dato che nelle nazionalizzazioni il pubblico interesse è in
re ipsa. In definitiva, l’unica, importante questione è quella che riguarda l’indennizzo conseguente
alle espropriazioni e nazionalizzazioni. Una regola che può considerarsi come corrispondete al
diritto consuetudinario è quella indicata dal Tribunale Iran-Stati Uniti, secondo il quale occorre
distinguere tra le espropriazioni, per le quali l’indennizzo va commisurato al valore del bene, e le
nazionalizzazioni operate su vasta scala, per le quali circostanze speciali possono giustificare
temperamenti ed aggiustamenti mediante i quali lo Stato nazionalizzante corrisponde una soma
forfettaria allo Stato di appartenenza degli stranieri espropriati e questo resta l’unico competente a
decidere circa la distribuzione della somma tra i soggetti colpiti. La materia è ormai essenzialmente
disciplinata sul piano convenzionale, sicché il diritto consuetudinario ha soprattutto la funzione di
colmare lacune del regolamento convenzionale o di investire quando tale regolamento fa ad esso
riferimento.
* Si riallaccia al tema della protezione degli interessi patrimoniali degli stranieri il problema del
rispetto dei debiti pubblici con questi contratti dallo Stato predecessore, nei casi di mutamento di
sovranità su di un territorio. La dottrina tradizionale era in linea di massima favorevole alla
successione nel debito pubblico, ritenendo che il rispetto dei diritti acquisiti rientrasse nel dovere di
protezione degli stranieri. Tale opinione ha incontrato la decisa opposizione dei Paesi in sviluppo.
Nella prassi più recente può invece notarsi la tendenza all’accollo da parte degli Stati subentranti.
Pertanto, tutto ciò che si può dire è che la disciplina della materia tende ad ammettere la successione
dei debiti localizzabili e non nei debiti generali dello Stato predecessore, salvo, in quest’ultimo
caso, un accollo convenzionalmente stabilito.
* Il diritto internazionale consuetudinario non prevede limiti per quanto riguarda l’ammissione degli
stranieri: in questa materia rivive la norma sulla sovranità territoriale la quale comporta la libertà
dello Stato di stabilire la propria politica nel campo dell’immigrazione, permanente o temporanea
che sia. Il problema è diverso quando lo Stato commette una violazione dei diritti umani
fondamentali tutelati anche dal diritto consuetudinari, primo fra tutti il diritto alla vita. La
precisazione è importante in tema di immigrazione clandestina. Per il diritto consuetudinario lo
Stato è libero di espellere gli stranieri. Si ritiene però che l’espulsione debba aver luogo con
modalità che non risultino oltraggiose nei confronti dell’espellendo, e che al medesimo debba
concedersi un lasso di tempo ragionevole qualora egli debba regolare i propri interessi. Limiti
particolari in tema di espulsione di stranieri derivano da varie convenzioni internazionali, prime fra
tutte le convenzioni sui diritti umani. Ad es. l’art della Convenzione delle Nazioni Unite contro la
tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti. L’obbligo di non espellere
prevede il rispetto della vita privata e familiare, quando l’espulsione comporterebbe una
ingiustificata e sproporzionata rottura dell’unità familiare. In realtà l’obbligo di non espellere
discende da norme che riguardano ogni e qualsiasi persona; ma l’espulsione dei cittadini, essendo
già normalmente esclusa dalla costituzioni interne, è chiaro che l’obbligo trova la sua principale

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attuazione con riguardo agli stranieri e a coloro che non hanno cittadinanza. Si va anche facendo
strada nella prassi interna la regola per cui lo straniero deve poter ricorrere al giudice contro l’atto
di espulsione. Grande importanza assumono anche le convenzioni sui rifugiati, entrambi ratificati da
un grande numero di Stati, tra cui l’Italia. Lo status di rifugiato spetta a chi “teme a ragione” che nel
proprio Paese possa essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad
un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. Secondo la Convenzione ed il
Protocollo, il rifugiato ha vari diritti tra cui quelli di non discriminazione rispetto ai suoi
concittadini, di praticare la propria religione, di accedere ai tribunali e all’assistenza pubblica e di
ottenere il documento di viaggio, ossia una sorta di passaporto che gli permette di circolare nei
territori degli Stati contraenti. Non bisogna confondere il diritto ad essere considerato rifugiato con
il diritto di asilo, ossia con il diritto a risiedere in modo permanente nello Stato di rifugiato. Il diritto
di asilo territoriale non è previsto dal diritto consuetudinario generale, ma da atti internazionali privi
di forza vincolante come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Né esistono
convenzioni che lo prevedono, fatta eccezione per gli Stati del continente americano. Si ritiene che
esso sia previsto da una consuetudine particolare vigente tra gli Stati dell’America latina. In ogni
caso varie Costituzioni, e tra esse la Costituzione italiana lo sanciscono. Pertanto da condannare
l’attuale prassi seguita dal Governo italiano, consistente nel respingimento immediato di stranieri
sbarcati nel territorio nazionale.
* Numerosi accordi internazionali (convenzioni di stabilimento) prevedono l’obbligo di ciascuna
Parte contraente di riservare alle persone fisiche e giuridiche condizioni di particolare favore, sia in
tema di ammissione sia per quanto concerne l’esercizio di attività imprenditoriali, professionali,
ecc. Particolarmente importanti sono le norme sul diritto di stabilimento contenute negli artt. del
TFUE, le quali mirano ad una quasi totale parificazione tra cittadini e stranieri nell0ambito del
territorio dell’UE e con riguardo ai cittadini degli Stati membri. Fini di parificazione persegue
anche la cittadinanza europea: essa comporta infatti, tra l’altro, il diritto di circolare liberamente
nell’ambito dell’Unione europea, di partecipare alle elezioni locali nello Stato membro in cui risiede
e di votare nello stesso Stato per i rappresentanti al Parlamento europeo.
* Se lo Stato non rispetta le norme sul trattamento degli stranieri compie un illecito internazionale
nei confronti dello Stato al quale lo straniero appartiene. Lo Stato dello straniero maltrattato potrà
esercitare la protezione diplomatica, ossia assumere la difesa del proprio suddito sul piano
internazionale: esso potrà agire con proteste, minacce ci contromisure contro lo Stato territoriale,
proposte di arbitrato o ricorso ad istanze giurisdizionali internazionali, al fine di ottenere la
cessazione della violazione ed il risarcimento del danno causato al proprio suddito. Prima però
occorre che lo straniero abbia esaurito tutti i rimedi previsti dall’ordinamento dello Stato territoriale,
purché adeguati ed effettivi, secondo la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. Finché
siffatti rimedi esistono le norme sul trattamento degli stranieri non possono neppure considerarsi
violare l’istituto della protezione diplomatica ha oggi carattere residuale anche nel senso che è
necessario che non vi siano rimedi internazionali efficaci, azionabili dagli stessi stranieri lesi. Lo
Stato che agisce in protezione diplomatica esercita un diritto di cui esso è titolare. Lo Stato non
agisce come rappresentante o mandatario dell’individuo, e quindi è da escludere che la materia sia
inquadrabile come manifestazione della personalità internazionale dell’individuo che va ricollegata
ai casi in cui l’individuo agisce direttamente sul piano internazionale. Va notato che l’istituto della
protezione diplomatica è oggetto di contestazione, limitatamente ai rapporti economici facenti capo
a stranieri, da parte degli Stati in sviluppo. Questi si rifanno sostanzialmente alla vecchia dottrina
Calvo che prende il nome dall’internazionalista e diplomatico argentino che l’abbozzo nel secolo
XIX e secondo la quale le controversie in tema di trattamento degli stranieri sarebbero di esclusiva
competenza dei tribunali dello Stato locale. Ad una simile dottrina si sono sempre più o meno
ispirati gli Stati latino-americani e il citato art. 2 della Carta dei diritti e doveri economici degli Stati
quando, a proposito delle nazionalizzazioni di beni stranieri, stabilisce che ogni controversia
relativa all’indennizzo dovrà essere regolata in conformità alla legislazione interna dello Stato
nazionalizzante e dai Tribunali di questo Stato, a ameno che tutti gli Stati interessati non

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convengano liberamente di ricercare altri mezzi pacifici sulla base dell’eguaglianza sovrana degli
Stati medesimi. La portata di dichiarazioni del genere non va drammatizzata. In effetti nessuno può
costringere uno Stato a trattare la questione sul piano internazionale o addirittura risolverla
mediante arbitrato, se esso non abbia preventivamente e liberamente assunto obblighi convenzionali
al riguardo; ma d’altro canto nessuno può vietare allo Stato dello straniero di protestare. Trattasi di
comportamenti che attengono alla fase dell’accertamento e dell’attuazione coattiva del diritto
internazionali e tali fasi sono per l’appunto caratterizzate dalle iniziative, dalle azioni e dalle
reazioni dei singoli Stati interessati. A parte le contestazioni e le diffidenze occorre soffermarsi sul
fatto che lo Stato che la esercita agisce nell’interesse suo proprio, può transigere come meglio
credo, può sacrificare l’interesse del cittadino leso ed esigenze di politica estera, e via dicendo. Se le
cose stanno così acquista importanza il ruolo del giudice interno. In altre parole lo straniero può
essere maggiormente garantito contro le violazioni del diritto internazionale perpetrate nei suoi
confronti attraverso l’opera dei giudici dello Stato territoriale piuttosto che attraverso l’azione in
protezione diplomatica da parte del proprio Stato nazionale. I giudici dello Stato territoriale possono
evitare che lo straniero ricorra alla protezione del proprio Stato ed essere in grado di tutela lo
straniero più del suo Stato nazionale. La protezione diplomatica spetta infatti agli organi del potere
estero e può essere fortemente condizionata da motivi politici attinenti alle relazioni internazionale.
* La protezione diplomatica può essere esercitata dallo Stato nazionale sia a difesa di una persona
fisica sia a difesa di una persona giuridica. La nazionalità delle presone giuridiche non è un concetto
altrettanto definito e definibile quanto quello delle persone fisiche dato che non sempre risulta con
chiarezza dalle legislazioni interne quale collegamento determini l’appartenenza di una persona
giuridica ad un certo Stato. Per quanto concerne le società commerciali, ci si chiede poi se, ai fini
dell’esercizio della protezione diplomatica, si debba aver riguardo a criteri formali o legali, oppure a
criteri sostanziali. A favore della prima tesi si è pronunciata la CIG, nella sentenza relativa all’affare
della Barcelona Tractin, Light and Power e nella sentenza dell’affare Diallo. E trattasi di una tesi
che finisce con l’avere una sua logica proprio in relazione alla pratica oggi assai diffusa tra i privati
e consistente nell’ancorare l’esistenza legale di una società a Stati particolarmente compiacenti dal
punto di vista fiscale, da quello dei controlli sulla gestione sociale, ecc; il rischio di una inadeguata
protezione diplomatica cioè, non può non esser calcolato al momento della costituzione della
società e della scelta dello Stato nazionale. Secondo queste due sentenze lo Stato al quale appartiene
l’azionista potrebbe agire in protezione diplomatica solo se il suo cittadino-azionista sia stato
direttamente leso in un suo diritto. E’ dubbio se l’azionista possa essere protetto in quanto tale
quando la società si sia estinta oppure quando al società medesima abbia la stessa nazionalità dello
Stato contro il quale la protezione dovrebbe essere esercitata. Questa seconda ipotesi è molto
importante ove si consideri che gli investimenti all’estero da parte delle grandi multinazionali
avvengono spesso proprio attraverso la costituzione di società locali di cui la società madre ha il
controllo. E’ difficile negare che lo Stato nazionale dell’azionista possa agire in entrambe le ipotesi.
Ciò nonostante la CIG abbia adottato un punto di vista assai restrittivo al riguardo.
* Alla regola secondo cui sono le società e non i singoli azionisti a godere della protezione
diplomatica può accostarsi il caso della protezione della nave da parte dello Stato nazionale o Stato
della bandiera, protezione che assorbirebbe quella dei singoli membri dell’equipaggio. In tal senso è
citabile la sentenza del Tribunale Internazionale del Diritto del Mare, che trattava della cattura e del
sequestro di una nave in alto mare e conseguente arresto dell’equipaggio, e la controversia non
riguardava le regole sul trattamento dello straniero ma quelle di diritto internazionale del mare.

CAPITOLO 27: Il trattamento degli agenti diplomatici e di altri organi di Stati stranieri

* Particolari limiti alla potestà di governo nell’ambito del territorio sono previsti dal diritto
consuetudinario per quanto riguarda gli agenti diplomatici. Essi si concretano nel rispetto
dell’immunità diplomatiche. La materia è anche regolata anche dalla Convenzione di Vienna del
1961. Tale Convenzione corrisponde largamente al diritto consuetudinario, come ha ribadito anche

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la CIG nella sentenza del caso dei diplomatici americani tenuti in ostaggio a Teheran. Una
convenzione di codificazione è anche in vigore per il trattamento dei consoli. Ma solo alcune delle
immunità dei diplomatici sono riconosciute ai consoli. Questi svolgono un’attività di
amministrativo e di assistenza ai propri connazionali. Le immunità riguardano gli agenti diplomatici
accreditati presso lo Stato territoriale e accompagnano l’agente dal momento in cui esso entra nel
territorio e accompagnano l’agente del momento in cui esso entra nel territorio di tale Stato per
esercitarvi le sue funzioni fino al momento in cui ne esce. La presenza dell’agente è in tutto e per
tutto subordinata alla volontà dello Stato territoriale che si esplica attraverso il gradimento e
attraverso la consegna dei passaporti e l’ingiunzione a lasciare il Paese. L’immunità diplomatiche
sono:
A) Inviolabilità Personale_ L’agente diplomatico deve essere anzitutto protetto contro le offese alla
sua persona mediante particolari misure preventive e repressive. Sotto questo aspetto l’obbligo dello
Stato territoriale di garantire l’inviolabilità personale si confonde con il generico dovere di
protezione degli stranieri che deve essere adeguata alle circostanze, e quindi commisurata
all’importanza dello straniero. L’inviolabilità personale consiste anche e soprattutto nella
sottrazione del diplomatico straniero e qualsiasi misura di polizia diretta contro la sua persona.
B) Inviolabilità domiciliare_ Si intende per domicilio sia la sede della missione diplomatica sia
l’abitazione privata dell’agente diplomatico. Una volta si fingeva che la sede della missione fosse
extraterritoriale. In realtà si tratta di vera e propria extraterritorialità; la sede della missione
diplomatica resta territorio dello Stato che riceve l’agente, ma questo Stato non può esercitarvi,
senza il consenso dell’agente, atti di coercizione. Oltre a non esercitare atti di coercizione, lo Stato
locale è tenuto a proteggere sia la missione che l’abitazione privata dell’agente da attacchi da parte
di privati cittadini.
C)Immunità dalla giurisdizione penale e civile_ A tal proposito bisogna distinguere tra atti compiuti
dal diplomatico in quanto organo dello Stato, e atti da lui compiuti come privato. I primi sono
coperti da quella che viene chiamata immunità funzionale: l’agente non può essere citato in giudizio
per rispondere penalmente o civilmente degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni.
Sebbene l’immunità funzionale sia prevista per garantire all’agente diplomatico l’indisturbato
esercizio della sua attività, non si può negare che essa derivi anche dalla circostanza che simili atti
non siano imputabili all’agente, ma allo Stato straniero. Questa circostanza fa sì che l’agente
diplomatico non possa essere citato in giudizio per rispondere penalmente e civilmente neanche una
volta che siano cessate le sue funzioni. L’impossibilità di attribuire la responsabilità dell’atto
all’agente diplomatico comporta che questi non solo non possa essere sottoposto alla giurisdizione
dello Stato accreditante ma neanche a quella di un terzo Stato. Anche gli atti che l’agente compie
come privato sono immuni dalla giurisdizione civile e penale, le azioni reali concernenti immobili
situati nel territorio dello Stato accreditatario, le azioni successorie e quelle riguardanti attività
professionali o commerciali dell’agente e le domande riconvenzionali. La ratio di questa immunità
sta esclusivamente nell’esigenza di assicurare all’agente il libero ed indisturbato esercizio delle sue
funzioni. Ne consegue il carattere esclusivamente processuale dell’immunità: l’agente non è
dispensato dall’osservare la legge, ma è semplicemente immune dalla giurisdizione, finché si trova
sul territorio dello Stato che lo riceve e finché esplica le sue funzioni. Una volta che la sua qualità di
agente diplomatico sia venuta meno, egli potrà essere sottoposto a giudizio anche per gli atti o per i
reati compiuti quando rivestiva tale qualità; mentre finché dura la funzione, non potrà essere
sottoposto a processo neppure per gli atti o per i reati compiuti prima del periodo della funzione.
D) Esenzione fiscale_ Essa sussiste esclusivamente per le imposte dirette personali.
* La qualifica di agenti diplomatici è adoperata per indicare i capi missione. Ma le immunità si
estendono a tutto il personale diplomatico delle missioni . Esse si estendono anche alle famiglie
degli agenti e di coloro che fanno parte di questo personale. La Convenzione di Vienna estende le
immunità anche al personale tecnico e amministrativo della missione, con esclusione degli
impiegati che siano cittadini dello stato territoriale. Le descritte immunità, sia funzionali che
personali, spettino per il diritto internazionale consuetudinario anche a quelle supreme autorità degli

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Stati che si occupano di norma delle relazioni internazionali, e cioè ai Capi di Stato ai Capi di
Governo e ai Ministri degli Esteri.
* L’immunità dalla giurisdizione ratione personae copre qualsiasi atto e dunque anche eventuali
crimini internazionali commessi dall’individuo al quale spettano le immunità diplomatiche. Anche
nel caso dell’immunità funzionale si ritiene ormai che questa debba soccombere rispetto
all’esigenza della punizione di siffatti crimini. Poiché i crimini internazionali sono normalmente
commessi proprio dagli organi supremi dello Stato, sarebbe assurdo negare che possa essere punito
l’agente diplomatico o altro individuo al quale spettano le immunità diplomatiche, una volta cessata
la funzione. La prassi è comunque orientata in tal senso. Anche la CIG ha negato che la
giurisdizione per crimini internazionali possa esercitarsi sui beneficiari delle immunità mentre essi
sono in carica, ammettendo invece detto esercizio una volta cessata la funzione.
* E’ controversa la questione se per qualsiasi organo statale il diritto internazionale preveda
l’immunità funzionale. La tesi affermativa ha dalla sua l’argomento per cui se l’organo agisce
nell’esercizio delle sue funzioni, la sua attività va imputata allo Stato ed è quest’ultimo che deve
risponderne. La prassi però non depone sicuramente in questo senso e presenta ampio aspetti di
ambiguità ed incertezza. Senza dubbio vi sono delle categorie di persone alle quali l’immunità è
riconosciuta: così è a dire dei consoli per i quali nessun altra immunità è prevista, salva
l’inviolabilità dell’archivio consolare. Immunità funzionale godono altresì i Corpi di truppa
all’estero. Per quanto riguarda gli altri organi, è stato dimostrato che esistano casi nei quali
l’immunità, in particolare l’immunità della giurisdizione penale è esclusa. Per quanto riguarda la
prassi, anzitutto l’immunità funzionale sussiste per quanto riguarda la giurisdizione civile, ivi
comprese le azioni di risarcimento per crimini commessi dall’organo: in questi casi è lo Stato in
nome del quale l’organo ha agito che può essere sottoposto alla giurisdizione straniera; se poi tale
Stato è anch’esso immune, sarà sempre possibile chiamarlo a rispondere sul piano internazionale.
L’immunità è invece da escludere per l’esercizio della giurisdizione penale; il che trova la sua ratio
nel fatto che lo Stato difficilmente può essere considerato come penalmente responsabile. Altro è
infine il problema se nel merito il funzionario possa invocare come esimente l’ordine del superiore.
Per gli organi statali stranieri che non godono dell’immunità funzionale, valgono comunque le
comuni norme sul trattamento degli stranieri; anche qui il dovere di protezione dovrà essere
commisurato al rango dell’organo e alle circostanze n cui esso opera.
[Agli organi e agli individui inseriti in missioni speciali inviate da uno Stato presso un altro Stato per la trattazione di questioni
determinate, la Convenzione del 1969 sulle missioni speciali, promossa dalle Nazioni Unite estende le immunità diplomatiche d’uso.
Non sembra però che la Convenzione corrisponda per questa parte al diritto internazionale generale].

CAPITOLO 28: Il trattamento degli Stati stranieri

* Il principio del non intervento negli affari interni ed internazionali di un altro Strato. E’ un
principio di cui è difficile precisare l’esatto contenuto in quanto principio giuridico, venendo esso
spesso enunciato dagli Stati solo ai fini di propaganda politica. Né molto si ricava dalla
Dichiarazione di principi dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che si occupa di quasi tutti i
settori disciplinati dal diritto internazionale, spaziando dall’autodeterminazione dei popoli ai diritti
umani, all’installazione di basi militari in territori altrui, ecc. In realtà il principio della non
ingerenza negli affari altrui è venuto via via perdendo la sua autonoma sfera di applicazione con
l’affermarsi di altre e più pregnanti regole generali, le quali ne hanno assorbito la fattispecie. La più
importante di queste regole è costituita dal divieto della minaccia o dell’uso della forza. Per quanto
riguarda le possibili applicazioni del principio della non ingerenza, ossia le applicazioni che si
risolvono in limiti al potere di governo che lo Stato esercita nell’ambito del proprio territorio,
vengono in rilievo gli interventi dello Stato diretti a condizionare le scelte di politica interna ed
internazionale di un altro Stato. Si pensi in particolare alle misure di carattere economico, purché si
tratti di misure effettivamente capaci di incidere sulle scelte siffatte. Secondo la CIG non è
sufficiente a concretare un’ipotesi di illecito intervento negli affari altrui l’interruzione di un
programma di aiuto allo sviluppo o la riduzione i il divieto delle importazioni dal Paese che si vuol

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colpire. Però, qualora queste misure siano contemporaneamente e sistematicamente prese esse
devono considerarsi come vietate. Bisogna capire se dal principio della non ingerenza derivi
l’obbligo di impedire che nel proprio territorio si tengano comportamenti che possano
indirettamente turbare l’ordine pubblico e più in generale l’indisturbato svolgersi della vita
nell’ambito di Stati stranieri. Nessuno dubita che siano perfettamente lecite manifestazioni di
condanna o di critica del sistema politico o del regime economico, sociale, ecc. di uno Stato
straniero e che riguardano soprattutto gli Stati anti-democratici; ma i pareri sono discordi quando si
tratta di comportamenti più incisivi come la propaganda sovversiva, l’invio di messaggi radio e
televisivi. Una regola generale che copre tutte simili attività non è ricostruibile; il che non esclude
che singole norme possano essersi formate o si formino in ordine a singole fattispecie. Forse l’unica
regola consuetudinaria di cui possa affermarsi con sicurezza l’esigenza è quella che impone di
vietare la preparazione di atti di terrorismo diretti contro altri Stati.
* Il problema più interessante in tema di trattamento degli Stati stranieri è se questi siano
assoggettabili alla giurisdizione civile dello Stato territoriale. Ancora alla fine dell’800 ed agli inizi
del secolo scorso la teoria universalmente accolta in merito al problema del trattamento degli Stati
stranieri, era quella favorevole all’immunità assoluta degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile.
Sono state la giurisprudenza italiana e quella belga, nel periodo immediatamente successivo alla
prima guerra mondiale a dare inizio ad un’inversione di tendenza che ha portato poi alla revisione
delle regola tradizionalmente sostenuta dell’immunità assoluta, con l’elaborazione della teoria
dell’immunità ristretta o relativa. Secondo la teoria dell’immunità ristretta, l’esenzione degli stati
stranieri dalla giurisdizione civile è limitata agli atti jure imperii e non si estende invece agli atti
jure gestionis o jure privatorum, ossia agli atti aventi carattere privatistico. La distinzione tra atti
jure imperii e atti jure gestionis non è sempre facile da applicare ai singoli casi concreti. Anche qui
il diritto consuetudinario lascia un ampio margine all’interprete, nella specie al giudice interno; e
può forse sostenersi che debba concludersi a favore dell’immunità anziché a favore della
sottoposizione dello Stato straniero alla giurisdizione, la seconda costituendo una sorta di eccezione
alla prima. La tendenza a considerare che l’immunità sia la regola e l’esercizio della giurisdizione
l’eccezione, è anche alla base della Convenzione delle Nazioni Unte, la quale non formula
espressamente la distinzione tra atti jure imperii ed atti jure gestionis, ma elenca in via d’eccezione,
i casi in cui lo Stato straniero può essere convenuto in giudizio. L’elencazione comprende le
controversie relative alle transazioni commerciali, alle proprietà, al possesso e ad altri diritti reali,
alla proprietà industriale. Uno dei campi in cui viene in rilievo il problema dell’immunità, ed in cui
la distinzione tra atti jure imperii ed jure gestionis si rivela di difficile applicazione, è quello relativo
alle controversie di lavoro. Trattasi per lo più di giudizi instaurati da lavoratori aventi la nazionalità
dello Stato territoriale, per lavoro prestato presso ambasciate, istituti di cultura ed altri uffici istituiti
da >Stati stranieri. E’ difficile stabilire in questi casi quali aspetti debbano essere preso in
considerazione per essere qualificai come pubblicistici o privatistici ai fini dell’immunità. In realtà
la distinzione tra atti jure imperii e jure gestionis non u escogitata in relazione a detti rapporti, e la
sua applicazione ad una materia in cui i valori in gioco sono oggi considerati di importanza
fondamentale, va criticata. E’ pertanto da apprezzare un cambiamento di tendenza che si va
affermando e che consiste per l’appunto nel ricercare soluzioni più appropriate alla sostanza della
materia da disciplinare. La Convenzione, pur ispirandosi nella altre materie alla distinzione tra atti
jure imperii e jure gestionis, adotta per i rapporti di lavoro il criterio della nazionalità del lavoratore
cumulato con quello del luogo delle prestazioni: se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato
straniero che lo recluta, l’immunità sussiste in ogni caso; se il lavoratore ha la nazionalità dello
Stato territoriale il lavoro deve essere prestato nel territorio, l’immunità è esclusa. Per quanto
riguarda la questione se può ritenersi che l’immunità non sia invocabile dallo Stato citato in
giudizio per le conseguenze civilistiche di violazioni gravi dei diritti umani, la prassi internazionale
ed interna non è decisamente orientata in tal senso, ma da alcune sue recenti manifestazioni può
dedursi una certa inversione di tendenza contro l’immunità. L’inversione è opera di alcune corti
supreme interne, quali la Corte suprema ellenica e la Cassazione Italiana. Diverso è poi il problema

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della prova del coinvolgimento dello Stato in atti del genere e della possibilità di ritenere
responsabile uno Stato per atti commessi quando la responsabilità dello Stato per violazioni gravi
dei diritti umani non era internazionalmente riconosciuta come nel caso della giurisprudenza
italiana per le atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale. Notiamo infine che
l’immunità può sempre essere oggetto di rinuncia da parte dello Stato straniero; né essa può essere
eccepita, qualora lo Stato straniero si faccia attore in giudizio, in ordine alle domande
riconvenzionali.
* L’immunità della giurisdizione civile, nei limiti in cui è prevista per gli Stati, viene anche
riconosciuta agli enti territoriali e alle altre persone giuridiche pubbliche. E’ questa un’ulteriore
prova del fatto che, a formare la persona dello Stato dal punto di vista del diritto internazionale,
concorrono tutti coloro che esercitano il potere di governo nell’ambito della comunità statale e non
solo gli organi del potere centrale.
* La teoria dell’immunità ristretta va applicata sia al procedimento di cognizione sia all’esecuzione
forzata sui beni detenuti da uno Stato estero l’esecuzione forzata deve pertanto ritenersi ammissibile
solo se essa è esperita su beni, o nell’ambito di beni, non destinati ad una pubblica funzione, ad es.
su immobili acquistati dallo Stato estero a titolo privato, per investimento, ecc.
* A parte questi limiti alla giurisdizione civile nessun altro limite la giurisdizione dello Stato
territoriale incontra in tema di trattamento di Stati stranieri. Senza fondamento nel diritto
internazionale è la dottrina dell’Act of State, secondo cui una Corte interna non potrebbe rifiutarsi
di applicare una legge o un altro atto di sovranità straniero, in quanto contraria al diritto
internazionale e neppure in quanto illegittimamente adottata alla stregua dei principi del suo
ordinamento di origine: in altre parole, le corti di uno Stato non potrebbero controllare la legittimità
internazionale o interna di leggi, sentenze ed atti amministrativi stranieri che in un modo o nell’altro
vengano in rilievo nei giudizi medesimi. La dottrina dell’Act of State è sorte ed è seguita soprattutto
nei Paesi di common law; negli Stati Uniti essa ebbe molta risonanza politica all’epoca delle
nazionalizzazioni cubane, negli anni ’60, per il rifiuto della giurisprudenza americana di sindacare
la legittimità internazionale di tali nazionalizzazioni e di riconoscere conseguentemente i diritti
delle società americane. In realtà più che una dottrina imposta dal diritto internazionale è
considerata una sorta di principio di autolimitazione da parte delle corti e giustificata dalla necessità
di non creare imbarazzo al proprio Governo nei rapporti con i Governi stranieri.
[L’act of State viene anche applicato in giudizi che riguardano lo Stato del giudice: ad es. in Italia, dove assume la denominazione di
Atto politico, esso è stato applicato dalla Corte di Cassazione per negare la giurisdizione del giudice italiano in relazione al presunto
risarcimento dei danni provocati a privati dalla guerra aerea contro la Jugoslavia nel 1999].

CAPITOLO 29: Il trattamento delle organizzazioni internazionali

* Un altro limite alla sovranità territoriale deriva dalle norme sul trattamento delle organizzazioni
internazionali che riguarda soprattutto lo Stato in cui l’organizzazione ha sede, ma che puòl dar
luogo a problemi anche in altri Stati quando gli organi di un’organizzazione internazionale si
trovino ad operare occasionalmente o stabilmente nel loro territorio. Per quanto riguarda il
trattamento dei funzionari delle organizzazioni internazionali non esistono norme consuetudinarie
che impongono agli Stati di concedere loro particolari immunità: sicché solo mediante convenzione
lo Stato può essere obbligato in tal senso. Disposizioni convenzionali in tema di immunità dei
funzionari non mancano per nessuna organizzazione; esse sono contenute ora nella stessa
convenzione che istituisce l’organizzazione ora in accordi conclusi dall’organizzazione con Stati
membri o non membri fra loro.
[Per funzionari delle Nazioni Unite la Carta si limita a sancire un principio generale in tema di immunità, demandando
all’Assemblea generale il compito di proporre agli Stati membri la conclusione di accordi per la disciplina dettagliata della materia.
Tra gli accordi che vigono attualmente meritano una menzione particolare la Convenzione generale sui privilegi e le immunità delle
Nazioni Unite, e la Convenzione dell’ONU e la Svizzera, Stato nel cui territorio hanno sede vari uffici dell’Organizzazione.
Generalmente le norme contenute in questi accordi sono di due specie: o descrivono in modo dettagliato il tipo e l’ampiezza
dell’immunità oppure rinviano alle norme di diritto internazionale consuetudinario relative alle immunità diplomatiche. Per quanto
riguarda i funzionari dell’UE, norme sull’immunità sono contenute nel Protocollo sulle immunità e i privilegi dell’Unione. Circa le
immunità dei rappresentanti degli Stati, la materia ha anche formato oggetto di una Convenzione di codificazione sulla

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rappresentanza degli Stati nelle loro relazioni con le organizzazioni internazionali di carattere universale. La Convenzione riconosce
tra l’altro le immunità diplomatiche ai membri delle missioni permanenti presso le organizzazioni].
* Lo Stato nel cui territorio opera ufficialmente un funzionario internazionale che non abbia la sua
nazionalità è tenuto a proteggerlo con le misure preventive e repressive previste dalle norme
consuetudinarie sul trattamento degli stranieri. Tale obbligo sussiste nei confronti dello Stato
nazionale e la sua violazione dà luogo all’esercizio della protezione diplomatica da parte dello Stato
nazionale medesimo. Un obbligo di protezione del funzionario sussiste nei confronti
dell’organizzazione ma questa può agire sul piano internazionale nei confronti dello Stato
territoriale solo per il risarcimento dei danni ad essa arrecati e non di quelli arrecati all’individuo in
quanto tale ed ai suoi beni. Ciò perché per questi ultimi danni è normalmente lo Stato nazionale che
agisce in protezione diplomatica.
[La CIG si occupò del problema in esame in un famoso parere del 1949 a proposito del caso Bernadotte. Il Conte Bernadotte,
mediatore per l’ONU tra arabi e israeliani, era stato ucciso nel 1948 a Gerusalemme, insieme ad un suo collaboratore, da estremisti
ebraici, e il Segretario generale aveva accusato apertamente il Governo israeliano di non aver adottato le misure atte a prevenire i due
attentati. L’Assemblea generale voleva appunto sapere se l’ONU potesse agire sul piano internazionale per il risarcimento dei danni
in caso di mancata protezione dei suoi funzionari. E la Corte rispose affermativamente sostenendo che l’Organizzazione accese titolo
per chiedere, oltre al risarcimento dei danno arrecati alla funzione, anche quelli subiti dall’individuo in quanto tale. La tesi si fonda
principalmente sulla personalità internazionale dell’ONU e la Corte non tenta invece di approfondire il punto se ed entro quali limiti
sia possibile l’estensione analogica alle organizzazioni internazionali dell’obbligo di protezione esistente nei confronti degli
stranieri].
* Nei limiti in cui gli Stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale, lo
sono pure le organizzazioni internazionali. L’immunità delle organizzazioni dalla giurisdizione ha
cominciato ad essere ricavata per interpretazione estensiva della norma sull’immunità degli Stati,
ma può oggi considerarsi come prevista da una norma consuetudinaria autonoma. Anche per le
organizzazioni internazionali un problema importante è quello dell’immunità in tema di
controversie di lavoro. Ed anche in questo caso si assiste ad un’evoluzione necessaria per assicurare
al lavoratore maggiore tutela rispetto al passato. L’evoluzione è nel senso che l’immunità è esclusa
se l’Organizzazione non ha un organo, di natura giudiziaria, che offra tutte le garanzie di
indipendenza e imparzialità, al quale il lavoratore possa rivolgersi. E’ vero, d’altro canto, che simili
organi esistono nelle organizzazioni più importanti.

CAPITOLO 30: Il diritto internazionale marittimo. Libertà dei mari e controllo degli
Stati costieri sui mari adiacenti.

* Importanti sono anche le norme che delimitano il potere di governo degli Stati negli spazi marini.
La materia del diritto internazionale marittimo ha formato oggetto di due importanti conferenze di
codificazione, la Conferenza di Ginevra del 1958 e la Terza Conferenza della Nazioni Unite sul
diritto del mare, tenutosi tra il 1974 e il 1982. La Conferenza di Ginevra produsse quattro
convenzioni ratificate ciascuna da non più di una cinquantina di Stati: la convenzione sul mare
territoriale e la zona contigua. La convenzione sull’alto mare, la convenzione sulla pesca e la
conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare, la convenzione sulla piattaforma
continentale. Dalla seconda è sortita una nuova ed unica Convenzione firmata a Montego Bay,
entrata in vigore soltanto nel novembre 1994, integrata da un Accordo applicativo che modifica la
sua parte XI relativa al regime delle risorse sottomarine al di là dei limiti della giurisdizione
nazionale. Il motivo di tanto ritardo è dovuto al rifiuto degli Stati industrializzati di vincolarsi alla
parte XI così come redatta a Montego Bay e assai sbilanciata a favore dei Paesi in sviluppo. Con
l’adozione dell’Accordo applicativo, la Convenzione è entrata in vigore ed è stata ratificata finora
da 160 Paesi. In realtà le Convenzioni di Ginevra erano già superate ancor prima dell’entrata in
vigore di quest’ultima. Trattasi di una convenzione che è tutta largamente riproduttiva del diritto
consuetudinario
* Per vari secoli il diritto internazionale marittimo è stato dominato dal principio della libertà dei
mari. Tale principio si affermò nel corso dei secoli XVII e XVIII. Furono soprattutto gli olandesi a
promuoverne l’osservanza, inducendo poco a poco Inghilterra, Spagna, Portogallo e alcuni altri
Stati minori ad abbandonare le pretese al dominio dei mari. Libertà dei mari significa che il singolo

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Stato non può impedire e neanche soltanto intralciare l’utilizzazione degli spazi marini da parte
degli altri Stati, o meglio da parte delle navi che battono bandiera di altri Stati e più in generale
delle comunità che da altri Stati dipendano. L’utilizzazione degli spazi marini incontra il limite che
è proprio di ogni regime di libertà altrui. E’ così ammissibile che uno Stato sottragga
permanentemente agli altri le risorse del mare oppure pretenda di chiudere alla navigazione
determinati tratti di mare. In contrapposizione alla libertà dei mari si è sempre manifestata la pretesa
degli Stati ad assicurarsi un certo controllo delle acque adiacenti alle proprie coste. Ma tale pretesa
non era riuscita quasi mai vittoriosa nel confronto col principio di libertà. La prassi internazionale
sostanzialmente orientata nel senso che il principio di libertà si estendesse anche ai mari adiacenti.
Ancora nella seconda metà del secolo XIX era la figura del mare territoriale, inteso come una fascia
di mare costiero equiparata al territorio dello Stato e dunque sottoposta in linea di principio
all’esclusivo potere di governo dello Stato rivierasco. Dopo di allora la tendenza si è invertita e la
pretesa degli Stati costieri al controllo dei mari adiacenti ha cominciato a guadagnare sempre più
terreno, fino a ricevere una tutela senza precedenti. Dalla fine dei secolo XIX si è andata
diffondendo nella prassi la figura del mare territoriale come zona sottoposta in tutto e per tutto al
regime del territorio dello Stato, Gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale
hanno visto poi un’estensione ben più clamorosa dei poteri dello Stato costiero, con la generale
accettazione della dottrina enunciata dal Presidente Truman in tema di piattaforma continentale: tale
proclama rivendicava agli Stati Uniti il controllo e la giurisdizione sulle risorse della piattaforma,
cioè di quella parte del fondo e sottosuolo marino estesa per centinaia di miglia marine, che
costituisce il prolungamento della terra emersa e che pertanto si mantiene a profondità costante
prima di precipitare negli abissi. Negli ultimi anni del secolo scorso la prassi si è orientata a favore
di un nuovo istituto: tutte o quasi le risorse della zona, non solo quelle del fondo e del sottosuolo ma
anche quelle acque sovrastanti, sono considerate di pertinenza dello Stato costiero. Si è persino
coniato un uovo termine, parlandosi di mare presenziale, per indicare per l’appunto la necessità
della presenza dello Stato costiero ai fini della lotto contro la depredazione della fauna marina. La
conservazione delle specie ittiche in alto mare è peraltro regolata da varie convenzioni
internazionali.

CAPITOLO 31: Il mare territoriale e la zona contigua

* Il mare territoriale è sottoposto alla sovranità dello Stato costiero così come il territorio di
terraferma. L’acquisto della sovranità è automatico: la sovranità esercitata sulla costa implica la
sovranità sul mare territoriale. Il mare territoriale può estendersi fino ad un massimo di 12 miglia
marine dalla costa.
* Secondo una dottrina formatasi nel periodo tra due guerre mondiali, lo Stato costiero avrebbe il
diritto di esercitare poteri di vigilanza doganale in una zona contigua al mare territoriale. Tale
dottrina venne recepita, ed estesa alla vigilanza sanitaria e di immigrazione, dall’art. della
Convenzione di Ginevra sul mare territoriale, ed è stata trasfusa dell’art. 33 della Convenzione di
Montego Bay, il quale stabilisce: “In una zona d’alto mare contigua al suo mare territoriale, lo Stato
costiero può esercitare il controllo necessario in vista di prevenire la violazione delle proprie leggi
di polizia doganale, fiscale, sanitaria o di immigrazione e di reprimere le violazioni alle medesime
leggi, qualora siano state commesse sul suo territorio o nel suo mare territoriale”. Limitatamente
alla vigilanza doganale, il potere dello Stato costiero incontra un limite funzionale e non spaziale: lo
Stato può fare tutto ciò che è necessario per prevenire e reprimere il contrabbando nelle acque
adiacenti alle sue coste. La distanza dalla costa del luogo in cui la repressione avviene ha scarso
significato: essa può essere anche superiore alle 12 o 24 miglia, purché non si tratti di una distanza
tale da far perdere ogni idea di adiacenza. Ciò che è necessario è che sussista un qualche contratto
tra la nave e la costa. In realtà la prassi di tutti i tempi mostra una netta tendenza a non tener conto
delle distanze ma per l’appunto dell’interesse alla repressione del contrabbando. E’ sintomatico poi
che si è soliti ricorrere alla teoria della presenza costruttiva, ossia alla tesi secondo cui la nave che

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abbia contatti con la costa è come se si trovasse negli spazi sottoposti al potere di governo dello
Stato costiero. La teoria della presenza costruttiva è una pura finzione.
[Deve ritenersi conforme al diritto consuetudinario la legge italiana che ha modificato l’art. 2 del Codice della navigazione
estendendo il nostro mare territoriale a 12 miglia. E conseguentemente assorbito dalla legge che fissava pure a 12 miglia la zona
italiana di vigilanza doganale].
Il problema che si pone è quello del limite interno o linea di base del mare territoriale. Tale
problema ha dato luogo a una serie di controversie in passato e forma oggetto di varie norme della
Convenzione di Montego Bay. Trattasi di norme che si ispirano ad una prassi ormai consolidata, alla
quale diede l’avvio proprio la citata sentenza della Corte. L’art. 5 della Convenzione di Montego
Bay fissa il principio generale secondo cui la linea di base per la misurazione del mare territoriale è
data dalla linea di bassa marea. Con il sistema delle linee rette la linea di base del mare territoriale
non è segnata seguendo le sinuosità della costa ma congiungendo i punti sporgenti di questa o
congiungendo le estremità delle isole e degli scogli medesimi, o in presenza di in delta o di altra
caratteristica naturale che renda la cosa suscettibile di cambiare rapidamente, unendo comunque i
punti più avanzati. Per individuare la sporgenza massima utilizzabile per tracciare ciascuna linea
retta, l’art. 7 si limita a prescrivere un criterio elastico stabilendo che la linea di base non deve
discostarsi in misura apprezzabile dalla direzione generale della costa, che le acque situate
all’interno della linea devono essere sufficientemente legate al dominio terrestre per essere
sottoposte al regime delle acque interne, e che si può tener conto degli interessi economici delle
regioni costiere, attestati da un lungo uso.
Altra norma importante in tema di limite interno del mare territoriale è quella riguardante le baie. In
base ad esso la distanza fra i punti naturali d’entrata della baia non supera le 24 miglia, il mare
territoriale viene misurato a partire dalla linea che congiunge detti punti e tutte le acque della baia
sono considerate come acque interne; se la distanza eccede invece le 24 miglia, può tracciarsi
all’interno della baia una linea retta, sempre di 24 miglia, in modo tale da lasciare come acque
interne la maggior superficie di mare possibile. L’art. 10 considera però come baie solo le
insenature che penetrino in profondità nella costa e precisamente le insenature la cui superficie sia
almeno uguale o superiore a quella di un semicerchio avente per diametro la linea di entrata. La
determinazione della linea di base non è tanto importante ai fini della misurazione del mare
territoriale quanto ai fini della misurazione delle zone le cui risorse sono di pertinenza dello Stato
costiero. Spostandosi verso il largo la linea di base aumenta la possibilità di accaparramento di dette
risorse. Ciò spiega perché molti Stati sono andati procedendo da vari anni alla chiusura di baie e
golfi di vaste proporzioni. L’Italia ha adottato il sistema delle linee rette lungo tutte le coste
peninsulari e delle isole maggiori. Può darsi che tra due Stati contigui o le cui coste di fronteggiano
i rispettivi mari territoriali non possono raggiungere il limite delle 12 miglia. In tal caso occorre
operare una delimitazione.
* Ai poteri che spettano allo Stato costiero nel mare territoriale sono in linea di principio gli stessi
poteri esercitati nell’ambito del territorio, ovviamente con le limitazioni che si accompagnano alla
sovranità territoriale. Esistono sue limiti alla potestà di governo dello Stato costiero caratteristici del
mare territoriale e servono a distinguere quest’ultimo dalle acque interne. Il primo limite è costituito
dal diritto di passaggio inoffensivo o innocente da parte delle navi straniere. Del limite del
passaggio inoffensivo si occupano gli artt. 17 ss. Della Convenzione di Montego Bay. Ogni nave
straniera ha diritto al passaggio inoffensivo nel mare territoriale, sia per traversarlo, sia per entrare
nelle acque interne, sia per prendere il largo provenendo da queste, e purché il passaggio sia
continuo e rapido. Il passaggio è inoffensivo finché non reca pregiudizio alla pace, al buon ordine o
alla sicurezza dello Stato costiero. Eccezionalmente lo Stato costiero può anche chiudere al traffico
per motivi di sicurezza purché pubblicizzi adeguatamente la chiusura e non effettuati
discriminazioni tra le navi di diversa nazionalità. Le norme sul passaggio inoffensivo si riferiscono
a tutti i tipi di navi, e quindi vanno applicate anche alle navi da guerra.
[Il diritto di passaggio è maggiormente tutelato negli stretti che, non superando l’ampiezza di 24 miglia, sono costituiti interamente
dai mari territoriali degli Stati costieri, La Convenzione di Montego Bay prevede che, quando stretti del genere uniscono una parte di
mare internazionale o di zona economica esclusiva con un’altra parte di mare internazionale o di zona economica esclusiva, le navi
hanno un diritto di passaggio in transito, ossia un passaggio che non può essere intralciato o sospeso; inoltre gli stretti medesimi

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possono essere sorvolati ed attraversato da sottomarini anche senza l’obbligo di navigare in superficie. Un semplice diritto di
passaggio inoffensivo caratterizza invece gli stretti che, pur servendo alla navigazione internazionale, uniscono il mare territoriale di
uno Stato a una parte di mare internazionale o alla zona economica esclusiva di un altro Stato; e lo stesso nel caso di stretti situati tra
le coste continentali ed un’isola di un solo Stato].
Un altro limite riguarda l’esercizio della giurisdizione penale sulle navi straniere. La giurisdizione
penale non può esercitarsi in ordine a fatti puramente interni alla nave straniera, cioè a fatti che non
siano idonei a turbare il normale svolgimento della vita della comunità territoriale. Sul punto la
Convenzione di Montego Bay si limita a prescrivere che lo Stato costiero non dovrebbe esercitare la
giurisdizione sui fatti interni, e sembra quindi lasciare arbitro lo Stato di decidere se esercitare o
meno la propria potestà punitiva.
[La distinzione tra fatti esterni e fatti interni ai fini dell’esercizio della giurisdizione penale sulle navi straniere nel mare territoriale
viene applicata anche alle navi nei porti, anche se in questo caso è più difficile ipotizzare reati che non abbiano ripercussioni esterne].

CAPITOLO 32: La piattaforma continentale. La zona economica esclusiva

* Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale segnano l’inizio della corsa all’accaparramento
delle risorse marine. La corsa all’accaparramento delle risorse ha determinato la tendenza degli Stati
costieri ad estendere il proprio controllo oltre il mare territoriale e comunque oltre le acque
strettamente adiacenti alle coste. Tale tendenza si è risolta nella generale accettazione della dottrina
della piattaforma continentale e dell’istituto della ZEE. La prima venne recepita dalla Convenzione
di Ginevra del 1958 sulla piattaforma continentale, ed è stata poi trasfusa dalla Convenzione di
Montego Bay. La seconda si è affermata nella prassi fin dall’epoca in cui ebbe inizio la Terza
Conferenza sul diritto del mare e quindi ancora prima dell’adozione del testo definitivo della
Convenzione di Montego Bay. Sia la prima che la seconda possono ormai ritenersi avallate dalla
consuetudine.
* Per quanto riguarda il tema della piattaforma continentale, ferma restando la libertà di tutti gli
Stati di utilizzare le acque e lo spazio atmosferico sovrastanti lo Stato costiero ha il diritto esclusivo
di sfruttare tutte le risorse della piattaforma, intesa come quella parte del suolo marino contiguo alle
coste che costituisce il naturale prolungamento della terra emersa e che pertanto si mantiene ad una
profondità costante per poi precipitare o degradare negli abissi. Il diritto esclusivo di sfruttamento
viene acquistato dallo Stato costiero in modo automatico cioè a prescindere da qualsiasi
occupazione effettiva della piattaforma. Il diritto sulla piattaforma continentale ha natura
funzionale. Lo Stato costiero può esercitare il proprio potere di governo non genericamente, ma solo
nella misura strettamente necessaria per controllare e sfruttare le risorse della piattaforma. La
dottrina della piattaforma continentale risulta abbastanza iniqua. Basti pensare che all’estesa
piattaforma propria di taluni Stati fa riscontro la mancanza della medesima al largo delle coste di
altri e che talvolta fosse profonde separano la piattaforma dalla costa. L’iniquità è stata in larga
misura superata dall’introduzione della ZEE che comporta l’attribuzione allo Stato delle risorse del
fondo marino fino a 200 miglia dalla costa.
* Un problema molto importante è quello della delimitazione della piattaforma tra Stati che si
fronteggiano o tra Stati contigui. L’art. 6 della Convenzione di Ginevra stabiliva che, sia nel caso di
delimitazione frontale che nel caso di delimitazione laterale dovesse ricorrere al criterio
dell’equidistanza. Tale criterio consiste nel tracciare una linea i cui punti siano equidistanti dai punti
delle rispettive linee di base del mare territoriale; esso consiste, in altri termini, nell’attribuire a
ciascuno Stato tutte le come di piattaforma che siano vicine a un qualsiasi punto della linea di base
del suo mare territoriale più di quanto siano vicine a un qualsiasi punto delle linee di base del mare
territoriale di ogni altro Stato. Secondo la sentenza della CIG nel caso della delimitazione della
piattaforma continentale del Mare del Nord, il criterio dell’equidistanza non è imposto dal diritto
internazionale consuetudinario. L’accordo però deve ispirarsi a principi di equità. L’opinione della
Corte è stata recepita dalla Convenzione di Montego Bay che si rimette anch’esso all’accordo tra gli
Stati interessati ed all’equità. Prima che l’accordo sia concluso, nessuno Stato può pretendere, nei
confronti dei vicini, l’uso esclusivo delle zone di piattaforma controverse.

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[La sentenza del 1969 venne pronunciata in ordine ad una controversia tra la Repubblica federale tedesca e l’Olanda e la Danimarca
dall’altro, controversia sorta dal rifiuto opposto dalla prima di delimitare la propria piattaforma rispetto ai due Stati contigui secondo
il criterio dell’equidistanza. Proprio nel caso di Stati contigui la linea di equidistanza può dare luogo a risultati più paradossali: uno
Stato le cui coste siano disposte secondo una forma convessa può vedere accresciuta la sua porzione di piattaforma continentale in
quanto la linea di confine tende ad aprirsi verso il largo; viceversa se lo Stato ha coste a forma concava, la linea di equidistanza
tenderà a ripiegare verso l’interno, riducendo la porzione di piattaforma. Le coste della Germania formano appunto una concavità;
quelle della Danimarca e dell’Olanda hanno invece in linea di massima forma convessa. Quindi, se si fosse delimitato la piattaforma
continentale tedesca rispetto a quelle dei due Paesi vicini secondo il criterio dell’equidistanza, l’operazione si sarebbe risolta a tutto
svantaggio della Repubblica federale. Anche nell’ipotesi di limitazione frontale l’equidistanza può dar luogo ad effetti distorti. Un
caso di quest’ultimo genere è quello deciso dalla Corte arbitrale franco inglese incaricata tra l’altro di tracciare la linea di
delimitazione della piattaforma tra i due Paesi nel tratto del Canale della Manica, caratterizzato dalla presenza di isole britanniche al
largo delle coste francesi].
Sia la CIG in successive decisioni sia altri tribunali internazionali hanno confermato la tesi che la
delimitazione debba avvenire mediante accordo e che l’accordo debba ispirarsi a principi di equità.
Sulla tesi secondo cui la delimitazione debba farsi mediante accordo si può non convenire, ma non
ha nessun senso subordinare l’accordo all’equità. Se e quando un accordo di delimitazione è
concluso, esso resta valido, equi o iniqui che siano i criteri applicati; a meno di non ritenere che
l’equità assurga nella specie a regola di jus cogens, il che ci sembra senz’altro da escludere. Occorre
riconoscere che la giurisprudenza internazionale, rifacendosi all’equità e tenendo conto delle
particolarità geografiche che possono incidere in varia misura sulla delimitazione, ha finito con
l’indicare una serie di criteri pratici. Tali criteri possono essere tenuto presenti utilmente sia dai
negoziatori di un accordo di delimitazione, sia dalla CIG o altri tribunali internazionali quando
siano chiamati essi stessi a procedere alla delimitazione. Tutti questi criteri hanno piuttosto carattere
correttivo rispetto a quello di equidistanza che è da considerare come il criterio-base.
* Ai poteri dello Stato costiero sulla piattaforma continentale s sono venuti sovrapponendo quelli
esercitabili nell’ambito della ZEE, istituto da considerare ormai di diritto consuetudinario. Per la
Convenzione di Montego Bay, la zona economica può estendersi fino a 200 miglia marine, limite
che, essendo calcolato a partire dalla linea di base del mare territoriale, corre parecchio al largo.
Data una così grande estensione, anche per la ZEE assume grande importanza la delimitazione tra
Stati frontisti o contigui che può avere per oggetto sia la piattaforma continentale che la zona.
Secondo la sentenza della CIG, in caso di delimitazione contemporanea della piattaforma
continentale e della ZEE la linea deve essere unica. Se le delimitazioni dei due spazi avvengono in
epoca successiva, e quindi la delimitazione della piattaforma sia stata operata prima di quelle della
ZEE, non si può imporre, allo Stato che non sia d’accordo, una linea unica. Ciò perché i motivi per
cui la prima delimitazione è stata accettata possono non più sussistere al momento della seconda.
Per quanto riguarda i poteri dello Stato costiero nella ZEE l’orientamento che ha prevalso in seno
alla Terza Conferenza è praticamente nel senso dell’attribuzione allo Stato costiero del controllo
esclusivo su tutte le risorse economiche della zona, sia biologiche che minerali, sia del suolo e del
sottosuolo che delle acque sovrastanti. L’esclusività dei poteri dello Stato costiero è ormai accettata
anche per la pesca: come stabiliscono gli artt. della Convenzione, spetta allo Stato costiero fissare la
quantità massima di risorse ittiche sfruttabili, determinare la propria capacità di sfruttamento e
consentire la pesca agli stranieri nel quadro di accordi conclusi con i relativi Stati di appartenenza.
* L’opinione strenuamente difesa dalle Potenze di tradizione marittima è che l’attribuzione delle
risorse allo Stato costiero non debba pregiudicare la partecipazione degli altri Stati alle altre
possibili utilizzazioni della zona; tutti gli Stati continueranno a godere della libertà di navigazione,
di sorvolo, di posa di condotte e di cavi sottomarini. C’è però contrasto in ordine a quella che
potrebbe chiamarsi la gerarchi delle regole applicabili nella zona. C’è, da un lato, che sostiene che il
vecchio principio della libertà dei mari debba continuare ad essere la regola prima e fondamentale;
e chi invece, all’opposto ritiene che i poteri dello Stato costiero siano la regola e le libertà degli altri
Stati l’eccezione. E’ difficile inquadrare la situazione degli altri Stati nella ZEE in termini di libertà
dei mari. Occorre riconoscere che l’introduzione della zona rompe una volta per tutte con la
disciplina tradizionale dei rapporti fra lo Stato costiero e gli altri utenti del mare. Tale disciplina era
caratterizzata dall’eccezionalità della tutela degli interessi dello Stato costiero e dall’applicazione
invece del principio della libertà dei mari, cioè del principio per cui ogni Stati poteva usare come

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meglio credeva gli spazi marini salvo il limite della pari libertà altrui. La situazione è oggi
cambiata. Da un lato sta il diritto dello Stato costiero di sfruttare totalmente, esclusivamente e
razionalmente le risorse marine; dall’altro permane la possibilità per gli altri Stati di navigare, di
sorvolare, di posare cavi sottomarini, in una parola di usare la zona economica per le esigenze che si
connettono alle comunicazioni e ai traffici marittimi ed aerei. I diritti, sia dello Stato costiero che
degli altri Stati, hanno carattere funzionale, nel senso che all’uno e agli altri sono consentite soltanto
quelle attività indispensabili rispettivamente allo sfruttamento delle risorse e alle comunicazioni e ai
traffici marittimi ed aerei.
* I poteri dello Stato costiero nell’ambito della ZEE si confondono con quelli esercitabili in base
alla dottrina della piattaforma continentale. Solo oltre 200 miglia e sempre che la piattaforma si
estenda geologicamente oltre tale limite, si pone il problema se lo Stato costiero possa mantenervi la
propria giurisdizione. La Convenzione di Montego Bay stabilisce di sì, aggiungendo che una parte
di quanto lo Stato costiero ricavi dallo sfruttamento delle zone situate tra le 200 miglia e il limite
estremo della piattaforma debba esser versata all’Autorità internazionale dei fondi marini. L’art. 76
della Convenzione istituisce una Commissione alla quale gli Stati sono obbligati a comunicare che
l’estensione della loro piattaforma supera il limite delle 200 miglia; la Commissione, composta da
21 esperti in geologia ha soltanto potere di raccomandazione.
[L’istituzione della ZEE poso ci concilia con gli interessi di quei Paesi che non hanno accesso al mare o che sono geograficamente
svantaggiati. Al riguardo la Convenzione di Montego Bay non è molto prodiga: esso prevede cì che gli Stati appartenenti all’una o
all’altra categoria hanno il diritto di partecipare allo sfruttamento di una parte appropriata delle risorse biologiche eccedentarie delle
zone economiche esclusive degli Stati costieri della stessa regione o sotto-regione, ma demandano la determinazione delle condizioni
e modalità di siffatta partecipazione ad accordi tra gli Stati interessati].

CAPITOLO 33: Il mare internazionale e l’area internazionale dei fondi marini

* Negli spazi marini situati oltre la zona economica esclusiva cessa ogni tutela degli interessi degli
Stati costieri. Per indicare detti spazi ed il loro regime giuridico, la Convenzione di Montego Bay
adotta la terminologia classica, usando l’espressione alto mare, anche se è preferibile parlare di
mare internazionale. Il mare internazionale è l’unica zona in cui trova ancora applicazione il
vecchio principio della libertà dei mari. Ciò significa che tutti gli Stati hanno eguale diritto a trarre
dal mare internazionale tutte le utilità che questo può offrire, dalla navigazione, alla pesca, alla posa
di cavi, allo sfruttamento delle risorse biologiche e minerarie ecc. Né hanno avuto seguito le pretese
di alcuni Stati che tendono comunque ad assicurare una limitata presenza dello Stato costiero nel
mare situato al di là della zona economica, sia pure ai soli fini di conservazione della specie ittica.
In realtà tali fini non possono essere assicurati se non attraverso un’azione di ciascuno Stato nei
confronti delle proprie navi oppure attraverso la cooperazione internazionale. In realtà esiste tutta
una rete di accordi che attuano una tale cooperazione, e che spesso danno vita ad organizzazioni
internazionali. Ovviamente tali accordi ed organizzazioni non vincolano gli Stati terzi: nei confronti
dei quali possono essere svolte soltanto azioni di convincimento. Il principio di libertà ha anche il
suo risvolto negativo in quanto comporta che uno Stato non possa utilizzare gli spazi marini fino al
punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli altri Paesi, ad es. esaurendo o
compromettendo la specie ittica o accaparrandosi tutte le risorse di una determinata area.
* Per quanto riguarda le risorse minerarie del fondo e sottosuolo del mare internazionale che
comprendono i noduli polimetallici, le croste di ferro e manganese e i solfati polimetallici, una
famosa risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU le ha dichiarate patrimonio comune
dell’umanità. Il principio del patrimonio comune fa parte del diritto internazionale consuetudinario.
Esso segna un’evoluzione nella disciplina dello sfruttamento delle risorse minerarie del mare
internazionale in quanto comporta che lo sfruttamento debba avvenire nell’interesse dell’intera
umanità. Tutto questo attraverso la costituzione di un’organizzazione internazionale capace di
assicurare il perseguimento di tale interesse. E’ stata così creata l’Autorità internazionale dei fondi
marini e l’Accordo applicativo adottato dall’Assemblea generale dell’ONU ed aperto
immediatamente alla firma ed alla ratifica degli Stati. L’Accordo applicativo in realtà modifica la
parte XI della Convenzione sia per quanto riguarda le procedure i seno agli organi dell’Autorità sia

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per quanto riguarda la messa in opera dell’attività di sfruttamento. Gli organi principali
dell’Autorità internazionale dei fondi marini sono l’Assemblea, il Consiglio, il Segretariato e
l’Impresa. Quest’ultima è un organo operativo attraverso il quale l’Autorità partecipa direttamente
allo sfruttamento. Tutte le attività di sfruttamento dovranno avvenire secondo un sistema parallelo
previsto nelle linee generali dalla parte XI e secondo il quale ogni sito da sfruttare è diviso in due
parti, l’una attribuita allo Stato che abbia individuato l’area e l’altra attribuita all’Impresa che
provvederà allo sfruttamento. Lo sfruttamento dei fondali oceanici ha finito per rivelarsi di difficile
realizzazione, a causa della sua antieconomicità, almeno nel breve periodo. Anche per questo
l’Autorità internazionale dei fondi marini ha per ora un rilievo assai limitato.

CAPITOLO 34: La navigazione marittima

* Un tema che ha una sua autonomia nell’ambito del diritto internazionale marittimo, è quello del
regime internazionale delle navi, sia private che pubbliche. Principio generale in materia è che ogni
nave è sottoposta esclusivamente al potere dello Stato di cui ha la nazionalità. Tale principio si
esprimeva un tempo dicendosi che la nave è territorio dello Stato. Importante è l’esatta
individuazione del contenuto del principio consuetudinario; ed a tale fine è sufficiente dire che lo
Stato della bandiera o Stato nazionale ha diritto, in linea di principio, all’esercizio esclusivo del
potere di governo sulla comunità navale. Esso esercita siffatto potere attraverso il comandante o
attraverso le proprie navi da guerra. Il comandante di una nave è da considerare, dal punto di vista
del diritto internazionale, come organo dello Stato ed ha pertanto poteri coercitivi limitatamente agli
eventi che si verificano nel corso della navigazione. Il principio della sottoposizione della nave al
potere esclusivo dello Stato della bandiera subisce varie eccezioni a seconda dello spazio in cui la
nave si trova, eccezioni le quali aumentano via via che la nave proceda verso lo coste di un altro
Stato. Cominciando dall’ipotesi della nave in acque internazionali, un’eccezione fermamente
stabilita dal diritto consuetudinario è quella che concerne la pirateria. La nave pirata che commette
atti di violenza contro altre navi a fini di preda o altri fini non politici, può essere catturata da
qualsiasi Stato e sottoposta a misure repressive quali la punizione dei membri dell’equipaggio e di
coloro che hanno partecipato all’atto di pirateria, la confisca della nave o del carico ecc. Il potere di
governo esercitano sulla nave pirata è chiaramente oggetto di una facoltà dello Stato e ciò anche se
qualche scrittore ritiene che oggi gli Stati abbiano l’obbligo di reprimere. Degno di essere ricordato
è poi l’art. 110 della Convenzione di Montego Bay, che ammette un limitato diritto di visita delle
navi altrui in alto mare da parte di navi da guerra. Stabilisce detto articolo che una nave da guerra
che incontri in alto mare una nave mercantile non può fermarla a meno che non abbia seri motivi
per sospettare: a) che la nave pratichi la pirateria; b) che la nave pratichi la tratta degli schiavi; c)
che dalla nave partano trasmissioni radio o televisive rivolte al grande pubblico e non autorizzate;
d) che la nave non abbia la nazionalità di alcuno Stato; e) che la nave, pur battendo bandiera
straniera o rifiutandosi di issare la bandiera. Abbia in realtà la stessa nazionalità della nave da
guerra. Se i sospetti si rivelano infondati la nave medesima deve essere indennizzata per qualsiasi
perdita o danno. Quando la nave entra nella ZEE di un altro Stato, alle eccezioni al principio della
esclusività del potere dello Stato della bandiera finora considerate si aggiungono quelle a favore
dello Stato costiero. Nella zona, infatti, tale ultimo Stato può esercitare sulle navi altrui tutti i poteri
connessi alla regolamentazione dello sfruttamento delle risorse. Per quanto riguarda il mare
territoriale i limiti entro i quali lo Stato costiero può esercitare il proprio potere di governo nei
confronti delle navi altrui sono costituiti dal diritto di passaggio inoffensivo e dalla sottrazione alla
giurisdizione penale dello Stato costiero dei fatti puramente interni alla comunità navale.
* Costituisce un’eccezione al principio della sottoposizione della nave all’esclusivo potere dello
Stato della bandiera anche al regola relativa al diritto di inseguimento, regola che coinvolge tutti gli
spazi marini. Le navi da guerra o adibite a servizi pubblici appartenenti allo Stato costiero, possono
inseguire una nave straniera che abbia violato le leggi di tale Stato purché l’inseguimento abbia
avuto inizio nelle acque interne o nel mare territoriale oppure nella zona contigua, se distinta dal

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mare territoriale, nella ZEE o nelle acque sovrastanti la piattaforma continentale, ma in queste tre
zone limitatamente alla inosservanza delle misure ivi consentite allo Stato costiero. L’inseguimento
deve essere continuo e sulla nave così catturata potranno essere esercitati soltanto quei poteri
esercitabili nella zona in cui l’inseguimento ha avuto inizio. L’inseguimento deve comunque cessare
se la nave entri nel mare territoriale di un altro Stato. Al diritto di inseguimento viene di solito
riportata anche la teoria della presenza costruttiva, secondo cui la nave straniera che partecipi a
traffici illeciti che altre navi o imbarcazione svolgono in spazi marini sottoposti al potere di governo
dello Stato costiero, può essere catturata da quest’ultimo. La teoria è applicata in materia di
repressione del contrabbando e copre soprattutto i casi in cui dalla nave straniera le merci di
contrabbando vengano trasbordate su imbarcazioni dirette alla costa.
* A proposito della libertà di uno Stato di concedere o meno la propria nazionalità e la propria
bandiera a qualsivoglia nave, la Convenzione di Ginevra del 1958 stabilisce che ogni Stato fissa le
condizione per l’immatricolazione delle navi nei propri registri navali, ma deve esistere un legame
sostanziale tra lo Stato e la nave; il primo deve esercitare effettivamente la sua potestà di governo e
il suo controllo in campo amministrativo, tecnico e sociale sulla seconda. Tale norma corrisponde al
diritto internazionale generale ed è stata poi specificata dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulle
condizioni di immatricolazione delle navi, la quale richiede che alla proprietà della nave partecipi
un numero di cittadini dello Stato di immatricolazione sufficiente per assicurare a quest’ultimo il
controllo effettivo sulla nave, o che l’equipaggio sia formato per una quota soddisfacente da
cittadini o residenti abituali nello Stato di immatricolazione. Se lo Stato di immatricolazione non
rispetta la norma sul genuine link, gli altri Stati sono autorizzati a disconoscere il carattere
internazionale della nave ed esercitare su di essa il loro potere di governo.

CAPITOLO 35: Protezione dell’ambiente marino e del patrimonio culturale sottomarino

* La lotta all’inquinamento marino non può fondarsi anche su di una stretta cooperazione a livello
internazionale. Ciò spiega perché la Convenzione di Montego Bay dedica all’inquinamento più di
una quarantina di articoli. Non a caso fra tali articoli spiccano proprio quelli che impegnano gli Stati
a collaborare fra loro per la formulazione di regole e norme a tutela dell’ambiente marino, a tenersi
reciprocamente informati sui dati scientifici relativi all’inquinamento, a predisporre programmi
comuni di lotta, ad assistere i Paesi in sviluppo sul piano scientifico e tecnico e così di seguito.
[Gli accordi, sia universali che regionali, stipulati a tutela dell’ambiente marino, sono numerosi. Tra i primi, la Convenzione per la
preservazione delle acque del mare dall’inquinamento da idrocarburi, adottata a Londra e più volte emendata; la Convenzione sulla
prevenzione dell’inquinamento marino causato dallo scarico di rifiuti ed altre materie; la Convenzione di Londra per la prevenzione
dell’inquinamento causato da navi. Tra gli accordi regionali è molto importante la Convenzione di Barcellona per la protezione del
Mar Mediterraneo contro l’inquinamento].
A parte gli obblighi di cooperazione, il primo problema che può porsi a proposito della tutela
dell’ambiente marino è se il diritto internazionale imponga obblighi di non inquinare le acque dei
mari e degli oceani. Per quanto riguarda il diritto consuetudinario, la soluzione non è diversa da
quella, negativa, circa l’obbligo di non produrre danni da inquinamento al territorio di altri Stati.
Pertanto l’art. 192 della Convenzione di Montego Bay sancisce un principio non codificatorio ma
tendente allo sviluppo progressivo del diritto internazionale. Anche qui, come nel caso
dell’inquinamento oltre frontiera, l’accento è posto sulla responsabilità civile di diritto interno. E
ciò trova riscontro nelle Convenzioni che disciplinano specificamente la materia della responsabilità
per danni derivanti da inquinamento marino, le quali fanno esclusivo riferimento alla responsabilità
civile. Passando agli accordi di diritto convenzionale, essi contengono tutta una serie di divieti di
comportamenti capaci di inquinare le acque marine. Tali divieti riguardano prevalentemente le navi,
ma sono anche destinati agli individui, persone fisiche o giuridiche, nel caso di inquinamento di
origine terrestre. Essi sono dunque destinati ad operare nell’ambito degli ordinamenti interni degli
Stati contraenti e nei limiti in cui questi ordinamenti si conformano alle convenzioni che li
prevedono.

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* Il secondo problema che si pone in tema di protezione dell’ambiente marino e che è l’unico
problema rilevante, consiste nello stabilire quale Stato possa esercitare il proprio potere di governo
sulle navi, onde impedire fenomeni di inquinamento. Ad imporre divieti ed a comminare sanzioni
saranno lo Stato della bandiera e, nelle zone sottoposte a giurisdizione nazionale, lo Stato costiero.
Quest’ultimo potrà esercitare il proprio potere sulle navi altrui solo per prevenire o reprimere
attività inquinanti delle proprie acque interne o territoriali; nella ZEE tale potere è circoscritto alle
attività inquinanti suscettibili di danneggiare le risorse naturali ma in pratica finirà con
l’estrinsecarsi con misure analoghe a quelle adottabili nel mare territoriale. Ai principi di diritto
consuetudinario corrispondono grosso modo le norme degli accordi internazionali sulla tutela
dell’ambiente marino, quando stabiliscono quali parti contraenti abbiano il diritto di controllare che
i divieti anti-inquinamento previsti dagli accordi medesimi siano osservati. Anche tali convenzioni
affidano il controllo esclusivamente allo Stato della bandiera o allo Stato costiero.
* Conviene far cenno anche alla possibilità per uno Stato di intervenire eccezionalmente su di una
nave altrui nel mare internazionale per prendere le misure idonee ad impedire o ad attenuare i danni
al proprio litorale, derivante da un incidente già avvenuto. L’art. 221 della Convenzione di Montego
Bay ammette della possibilità e la materia è comunque regolata anche da un apposito accordo, la
Convenzione di Bruxelles sull’intervento in alto mare in caso di incidente che comporti o possa
comportare un inquinamento da idrocarburi.

CAPITOLO 36: Gli spazi aerei e cosmici

* Le norme sulla navigazione aerea si sono andate modellando su quelle relative alla navigazione
marittima; esse furono dapprima dedotte per analogia dal diritto del mare, ma poi si sono andate
consolidando per consuetudine. Due principio generali sono stati sempre affermati in materia di
navigazione aerea. Il primo prevede che la sovranità dello Stato si estenda allo spazio atmosferico
sovrastante il territorio e il mare territoriale. Per il secondo, lo spazio che non sovrasta il territorio e
il mare territoriale dello Stato deve restare libero all’utilizzazione di tutti i Paesi; con la
conseguenza che ciascuno Stato esercita il proprio esclusivo potere di governo sugli aerei aventi la
sua nazionalità. Si tratta di due principi modellati rispettivamente sul principio che sancisce
l’estensione della sovranità dello Stato nei mari costieri e sul principio della libertà dei mari.
Quando si parla di sovranità estesa allo spazio atmosferico sovrastante il territorio si intende
soprattutto fare riferimento alla possibilità per lo Stato territoriale di regolare il sorvolo. Per il resto
vige lo stesso principio che è applicabile alle navi nel mare territoriale. La contrapposizione tra
territorialità dello spazio atmosferico sovrastante l territorio e libertà dello spazio atmosferico
sovrastante l’altro mare non è una contrapposizione rigida. Infatti è invalsa la prassi delle zone di
identificazione che si estendono anche per centinaia di miglia nello spazio sovrastante l’alto mare
intorno alle coste. Gli stati costieri impongono agli aerei stranieri che entrano in dette zone e che
sono diretti verso le coste, l’obbligo di sottoporsi all’identificazione, alla localizzazione e ad altre
misure di controllo esercitate da terra. Gli aerei che tentino di sottrarsi all’osservanza di simili
obblighi si espongono a diverse sanzioni. Da tale prassi può dedursi un limite al principio della
libertà dello spazio atmosferico extraterritoriale, nel senso che un certo esercizio del potere di
governo sugli aerei altrui è quivi consentito per quanto strettamente richiesto da esigenze di difesa.
*Passando alla navigazione cosmica, ad essa è applicabile il principio sulla libertà di sorvolo degli
spazi nullius. Come vi è libertà di navigazione degli spazi sovrastanti l’alto mare e i territori nullius,
così vi è libertà di navigazione degli spazi cosmici. Per quanto riguarda lo spazio sovrastante il
territorio, non sembra invece applicabile l’altro dei due principi formativi con riguardo alla
navigazione aerea, e cioè il principio dell’estensione della sovranità dello Stato territoriale. In realtà
non ha neppure senso parlare di sorvolo del territorio da parte dei mezzi cosmici, date le
caratteristiche tecniche di una simile navigazione. Sta di fatti che nella prassi internazionale mai lo
Stato che ha lanciato satelliti si è ritenuto obbligato a richiedere il preventivo consenso di altri Stati.
Il regime degli spazi cosmici ha formato oggetto di alcune convenzioni multilaterali che si ispirano

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a tale principio di libertà. Fondamentale è il trattato sui principi relativi alle attività degli Stati in
materia di esplorazione ed utilizzazione dello spazio extra-atmosferico. Il Trattato definisce gli
astronauti, come inviati dell’umanità, impegnando gli stati a dar loro ogni possibile assistenza in
caso incidenti, pericolo o atterraggio di emergenza, prevede la responsabilità dello Stato nazionale,
e dello Stato dal cui territorio un oggetto spaziale è lanciato, per i danno procurati dalle attività
cosmiche, ed attribuisce infine allo Stato nel quale l’oggetto è registrato piena giurisdizione e
controllo sull’oggetto medesimo.
* Anche per gli spazi atmosferici e cosmici può parlarsi di risorse naturali: ci riferiamo
all’utilizzabilità degli spazi a fini di radio e telecomunicazione, ed in particolare alle frequenze
d’onda ed alle orbite utilizzare dai satelliti a detti fini. Tale utilizzazione va sempre più aumentando
e la sempre maggiore presenza nello spazio di imprese commerciali, come tali soggette al diritto del
proprio Stato nazionale. La libertà di utilizzazione dello Spazio a fini di radio e telecomunicazione
costituisce un aspetto della più generale libertà relativa a simili spazi e valevole anche per la
navigazione. La stessa libertà si è però affermata anche per lo spazio atmosferico sovrastante il
territorio dello Stato in deroga al principio della sottoposizione di simile spazio alla sovranità
territoriale. La libertà di cui stiamo parlando incontra il consueto limite del rispetto delle pari libertà
altrui. L’utilizzazione delle risorse da parte di uno Stato non può essere spinta fino al punto di
sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli altri Stati. Tale limite assume poi un
particolare significato in presenza di risorse limitate, rispetto alle quali l’utilizzazione non può
ispirarsi al criterio del primo arrivato meglio servito, ma deve necessariamente coordinarsi con
l’utilizzazione altrui. Per quanto riguarda le radio e telecomunicazioni si ritiene che siano limitate
sia lo spettro delle onde radio sia l’orbita geostazionaria, cioè l’orbita circolare intorno all’equatore,
nella quale i satelliti ruotano con lo stesso periodo di rotazione della terra, restando praticamente
fissi rispetto a questa. L’orbita geostazionaria è particolarmente indicata per le telecomunicazioni. Il
principio che l’utilizzazione dell’orbita geostazionaria e dello spettro delle onde radio debba aver
luogo in modo da tener conto degli interessi di tutti i Paesi, è ribadito dall’art. 44 della Costituzione
dell’ITU, il quale stabilisce in particolare che gli Stati si sforzeranno di limitare il numero delle
frequente e di utilizzare le frequenze stesse e l’orbita geostazionaria in maniera razionale, efficace
ed economica, al fine di permettere un accesso equo ai diversi Paesi o gruppi di Paesi. Sulla base di
questo principio si è sviluppata progressivamente una disciplina assai dettagliata che tende a
limitare e a coordinare l’attività degli Stati. Non bisogna confondere tra l’uso degli spazi a fini di
radio e telecomunicazione e il problema della possibilità che messaggi radio e televisivi siano diretti
al territorio di altri Stati senza il consenso di questi ultimi. Tale problema riguarda la non ingerenza
negli affari interni ed internazionali di altri Stati.

CAPITOLO 37: Le regioni polari

* Come spazi non soggetti alla sovranità di alcuno Stato vanno anche considerate le regioni polari;
per quanto riguarda il continente antartico può inoltre parlarsi di territorio internazionalizzato, nel
senso che in esso non vige soltanto un regime di libertà ma anche un complesso di norme che ne
disciplina l’utilizzazione. Non sono mancate le pretese fondate principalmente sulla teoria dei
settori. Tale teoria è stata dapprima formulata con riguardo alla regione artica: in base ad essa, detti
Stati dovrebbero considerarsi come sovrani di tutti gli spazi, sia terrestri che marittimi, inclusi in un
triangolo avente il vertice nel Polo Nord e la sua base in una linea che congiunge i punti estremi
delle coste proprie di ciascuno Stato. Nella sua applicazione al Continente antartico la teoria dei
settori ha subito qualche modifica, dovuta al fatto che le pretese alla sovranità sono state colà
avanzate da 7 Paesi, alcuni dei quali non aventi contiguità geografica con il Continente medesimo
ed invocanti come titolo la scoperta. Le pretese alla sovranità sui territori polari sono state sempre
respinte dalla maggioranza degli Stati, compresi alcuni dei Paesi i cui territori si estendono oltre il
circolo polare, come gli Stati Uniti. Esse vanno considerate come infondate, in quanto non sorrette
dall’effettività dell’occupazione e, nel caso dell’Antartide, regione assai importante non solo per le

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sue dimensioni ma anche per le sue risorse, frutto di mire colonialiste. La mancanza di sovranità
territoriale comporta che ciascuno Stato eserciti il proprio potere sulle comunità che ad esso fanno
capo. Per quanto riguarda le comunità navali, si tratta del normale potere dello Stato della bandiera.
Nel caso di spedizioni scientifiche o di basi su terraferma, si ritiene che lo Stato che le organizza
eserciti il proprio potere su tutte le persone che le compongono. Un’eccezione è prevista dall’art.
VIII del Trattato di Washington che prevede che il personale scientifico scambiato fra le basi siano
sottoposti ai rispettivi Stati nazionali.
* L’Antartide è stato internazionalizzato con il Trattato di Washington, di cui sono Parti contraenti
una quarantina di Paesi, comprese le maggiori Potenze mondiali ed i sette paesi rivendicanti la
sovranità. L’Italia vi partecipa dal 1981. Norma chiave del Trattato è quella che congela sia le
pretese alla sovranità sia le opposizioni alle medesime, consentendo al regime internazionale di
funzionare. Le caratteristiche dell’internazionalizzazione sono: l’interdizione di ogni attività di
carattere militare; la libertà della ricerca scientifica; la cooperazione nell’attività di ricerca
scientifica, con scambi di informazioni, di personale scientifico delle rispettive basi. Il trattato
antartico distingue due categorie di Stati contraenti: le Parti consultive, aventi uno status di netto
privilegio rispetto alle altre, e le parti non consultive, Le prime, costituite dagli originari firmatari
del Trattato hanno il diritto di decidere su tutte le questioni rientranti nell’oggetto del Trattato, e su
questioni connesse come la protezione della flora e della fauna marina.
[Un problema giuridico interessante è se lo Stato il quale conduca una rilevante attività di ricerca scientifica in Antartide abbia
automaticamente diritto allo status di parte consultiva, oppure se la sua candidatura debba essere accettata dalle altre parti consultive,
La prima opinione sembra la più conforme alla lettera ed allo spirito dell’art. IX, con la conseguenza peraltro che sorge controversia
sulla rilevanza dell’attività di ricerca del candidato, tale controversia andrò risolta con i messi che lo stesso trattato prevede all’art.
IX. Nella prassi ha invece prevalso la seconda opinione. Va infine ricordato che, a completare il sistema di internazionalizzazione
dell’Antartide, sono intervenuti altri accordi, e precisamente: la Convenzione per la protezione delle foche dell’Antartide e la
Convenzione sulla conservazione delle risorse marine dell’Antartide] .
Il regime internazionale dell’Antartide vincola solo le parti contraenti. In alcune risoluzioni prese a
maggioranza, l’Assemblea generale dell’ONU ha dichiarato le risorse del Continente patrimonio
comune dell’umanità. Al riguardo deve ritenersi che lo sfruttamento delle risorse può anche essere
operato unilateralmente da uno Stato o da un gruppo di Stati purché si rispetti la pari libertà altrui e
sempre che uno Stato non sia legato al Trattato antartico e al citato Protocollo di Madrid.

L’APPLICAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI ALL’INERNO DELLO STATO

CAPITOLO 38: L’adattamento del diritto statale al diritto internazionale

* L’osservanza del diritto internazionale da parte di uno Stato deve ritenersi affidata in primo luogo
agli operatori giuridici, ed in particolare agli organi statali, di quello stesso Stato: detta osservanza
passa cioè attraverso quelle norme che provvedono ad adattare il dritto interno al diritto
internazionale. Anche l’accertamento giudiziario del diritto internazionale deve ritenersi
conseguentemente affidato in primo luogo ai giudici statali.
* Va poi sottolineata l’irrilevanza, ai fini della soluzione pratica dei problemi di adattamento, di
certe posizioni teoriche: ci riferiamo alle dispute tra monisti e dualisti, i primi ritenendo che il
diritto statale trovi il suo fondamento nel diritto internazionale, i secondi sostenendo che
l’ordinamento statale sia originario e quindi del tutto distinto e separato rospetto all’ordinamento
della comunità degli Stati.
* Una distinzione generale va operata e tenuta presente in ordine a tutti i problemi di adattamento.
Essa attiene al mezzo attraverso il quale il diritto internazionale viene nazionalizzato, o se si vuole
introdotto nell’ordinamento statale. Si tratta della distinzione tra procedimenti ordinari e
procedimenti speciali di adattamento. Nel caso del procedimento ordinario l’adattamento avviene
mediante norme che formalmente in nulla si distinguono dalle norme statali se non per il motivo per
cui vengono emanate e che è appunto quello di creare delle regole corrispondenti a determinate
norme internazionali. Le norme internazionali vengono riformulate all’interno dello Stato. Nel casi
del procedimento speciale la norma internazionale non viene riformulata all0interno dello Stato: di

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fronte ad una certa norma internazionali gli organi preposti alle funzioni normative si limitano ad
ordinare l’osservanza della o delle norme internazionali medesime. Il costituente o il legislatore o
l’organo amministrativo opera semplicemente un rinvio alle norme internazionali, dando ad esse
pieno vigore all’interno dello Stato. Dal punto di vista del diritto internazionale e della sua esatta
applicazione all’interno dello Stato, il procedimento speciale è di gran lunga quello preferibile. Nel
caso del procedimento ordinario, infatti, l’interprete si trova di fronte ad una norma che in nulla
differisce dalle altre norme statali se non per il motivo che l’ha ispirata: esso non po’ che applicare
la norma interna e potrà tenere conto della norma internazionale che ha fornito l’occasione per
l’emanazione della norma interna solo se vi siano dei dubbi circa l’esatta interpretazione della
medesima. Se chi ha emanato la norma interna non ha esattamente interpretato la norma
internazionale da introdurre nell’ordinamento statale; se esso ha fatto riferimento a norme
internazionali giuridicamente inesistenti; se la norma internazionale si è estinta; tutto ciò non ha
rilievo in quanto l’interprete si trova sempre e soltanto di fronte ad una norma interna
completamente formulata e quindi non ha altra scelta se non quella di applicarla. La situazione è
diversa nel caso del procedimento speciale. Qui la norma interna opera un mero rinvio alla norma o
alle norme internazionali. Il costituente, o il legislatore, o l’organo amministrativo non formulano
norme complete ma si limitano ad ordinare l’osservanza di certe norme internazionali così come
esse vigono e finché esse vigono nell’ordinamento internazionale, stabilire se una norma
effettivamente vige, se essa non si sia estinta, se non sia stata illegittimamente emanata. Se è vero
che il procedimento mediante rinvio è più idoneo ad assicurare l’osservanza del diritto
internazionale, è anche vero che il procedimento ordinario può rivelarsi preferibile, o addirittura
indispensabile in certi casi. Esso è indispensabile allorquando la norma internazionale non è
direttamente applicabile o non self-executing; con questa espressione ci si riferisce alle norme che
richiedono necessariamente un’attività normativa integratrice da parte degli organi statali. E’ ovvio
che procedimento speciale e procedimento ordinario possono coesistere integrandosi a vicenda. Ciò
si verifica quando si dà l’ordine di esecuzione di un tratto e successivamente si provvede agli atti di
integrazione delle norme non self-executing o non interamente self-executing contenute nel trattato
medesimo. Può darsi poi che il legislatore interno regoli la materia oggetto di un trattato con norme
che ne estendono la portata. E’ questo il caso della modifica all’art. 111 della Costituzione, che ha
senz’altro ampliato la portata del principio del giusto processo. Ove non sussistano queste
circostanze però, il procedimento mediante rinvio è nettamente da preferire. Esso è ampiamente
praticato non solo in Italia ma anche negli altri Paesi, sia le norme consuetudinarie che per i trattati,
sia a livello costituzionale sia a livello legislativo o amministrativo.
* Una volta introdotte nell’ordinamento interno, le norme internazionali sono fonti di diritti ed
obblighi per gli organi statali e per tuti i soggetti pubblici e privati che operano all’interno dello
Stato, al pari di una qualsiasi norma di origine nazionale. Le norme internazionali così
nazionalizzate non sono di per sé applicabili solo quando lasciano ampi margini di libertà allo Stato
circa la loro esecuzione. Importante è la distinzione tra norme self-executing e non self-executing,
che può prestarsi ad una compressione della sfera di applicazione delle norme internazionali,
particolarmente dei trattati. La nozione di norma non self-executing va circoscritta a tre casi ben
precisi: al caso in cui una norma non possa ricevere esecuzione in quanto non esistono gli organi o
le procedure interne indispensabili alla sua applicazione; quando la sua applicazione comporti
particolari adempimenti di carattere costituzionale. In tutti questi casi il carattere non self-executing
va accertato con i normali criteri di interpretazione e sempre partendo dall’idea che il diritto
internazionale è diritto al pari del diritto interno.
[Tra le norme che attribuiscono semplici facoltà vi è ad es. quella relativa al sistema delle linee rette in tema di misurazione del mare
territoriale. L’art. che dà ad ogni Stato contraente la possibilità di scegliere cinque articoli della Carta e di considerarsi vincolato
soltanto da essi. L’art. sull’adozione, secondo cui la legislazione nazionale non può permettere l’adozione di un minore se non da
parte di due persone unite in matrimonio o da parte di un singolo adottante. Secondo la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione
questo articolo lascerebbe comunque lo Stato libero di ammettere o meno entrambe le ipotesi ed in particolare quella dell’adozione
da parte del singolo. Per quanto riguarda le norme che richiedono adempimenti costituzionali gli esempi che si possono fare sono
quelli delle norme che comportano oneri finanziari straordinari o delle norme a contenuto penalistico, come le norme sulla punizione
di crimini internazionali individuali. Diverso è il caso in cui nel diritto interno esista una procedura simile a quella richiesta dalla
norma internazionale e che si presti ad essere adattata all’esecuzione dell’obbligo imposto allo Stato. In tal caso la diretta

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applicabilità della norma internazionale deve ammettersi, salvo che, la norma non favorisca ma aggravi la situazione dell’accusato. E’
così che la nostra Corte di Cassazione ha ammesso la diretta applicabilità della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il quale
prevede che chiunque sia detenuto per essere estradato o espulso dal territorio dello Stato abbia diritto a ricorrere al giudice].
Occorre invece reagire contro quelle tendenze dirette ad utilizzare la distinzione tra norme
internazionali self-executing e non self-executing a scopi in senso lato politici, ossia per non
applicare norme indesiderate perché contrarie a sopravvenuti interessi nazionali, o magari perché
progressiste o anche soltanto perché oggetto di diffidenza da parte dell’operatore giuridico interno a
causa della loro provenienza. Questo vale anzitutto per quella parte della giurisprudenza di vari
Paesi che esclude la diretta applicabilità di una convenzione a causa del suo contenuto vago o
indeterminato, di un accordo in particolare che contenga principi generali anziché norme di
dettaglio. Il criterio dell’indeterminatezza è stato usato in vari paesi per escludere la diretta
applicabilità dei principi del GATT relativi alla liberalizzazione del commercio internazionale. Ad
ogni modo sembra che non esista principio dal quale l’interprete non possa comunque ricavare delle
applicazioni concrete, magari dal solo punto di vista della forza abrogativa del principio medesimo.
E’ poi da respingere l0opinione secondo cui un trattato non è self-executing se prevede che, in caso
di sospensione o di mancata applicazione, o di difficoltà nell’applicazione, delle sue norme, debba
farsi ricorso a procedure di conciliazione o ad altri mezzi internazionali di soluzione delle
controversie, che tengano tra l’altro conto delle esigenze dello stesso Stato che ha sospeso o non
applicato il trattato. Tutto ciò che può dirsi, in casi del genere, è che lo Stato contraente ha facoltà di
adottare delle misure non conformi al trattato: può adottarle di fronte a certe difficoltà di ordine
economico, e salva la procedura di conciliazione sul piano internazionale; può adottarle quando
l’altra parte contraente abbia violato il trattato. E’ evidente che, dopo che lo Stato abbia preso
misure del genere, l’operatore giuridico interno è tenuto ad applicarle. Ma è anche evidente che il
trattato deve ricevere applicazione all0interno dello Stato. Non può ritenersi che costituisca un
impedimento alla diretta applicabilità di un trattato il fatto che questo contenga una clausola di
esecuzione, ossia preveda che gli Stati contraenti adotteranno tutte le misure di ordine legislativo o
altro per dare effetto alle sue disposizioni. Clausole del genere si rinvengono in molte convenzioni e
tra l’altro nelle Convenzioni sui diritti dell’uomo. Ma trattasi di clausole dalle quali sembra assurdo
ricavare niente altro che la volontà e l’aspettativa del trattato di essere applicato. Esse poi si
giustificano se e quando il trattato medesimo contenga delle norme effettivamente non self-
executing ed impegnano lo Stato a prendere i provvedimenti legislativi ed amministrativi
appropriati.
[Le clausole di esecuzione sono considerate come prova della non applicabilità diretta di un trattato dalla giurisprudenza degli Stati
Unii e dalla giurisprudenza di altri Paesi].
E’ comunque soddisfacente constatare che è sempre più raro trovare nella giurisprudenza dei vari
Paesi prese di posizione favorevoli alla non diretta applicabilità. Se c’è qualche voce discordante
non sembra rilevante.
[Una voce discordante è contenuta in una ordinanza del TAR Emilia-Romagna, che riprendere la vecchia e superata tesi secondo cui i
trattati non creerebbero diritti ed obblighi per gli individui. Assurda è la sentenza della Corte d’Appello degli Stati Uniti che, mentre
considera self-executing le norme della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari, sostiene poi che però esse non creano diritti
per i privati].
* Ovviamente le norme internazionali sono utilizzabili all’interno dello Stato entro i limiti in cui si
verifica in concreto la fattispecie astratta da esse prevista. Nel caso del procedimento di adattamento
mediante rinvio, la determinazione della fattispecie astratta ad opera dell’interprete e la conseguente
applicazione della norma ai rapporti interni possono rivelarsi complicate a causa della formulazione
della norma che è una formulazione internazionalistica; complicata a causa della formulazione della
norma, che è una formulazione internazionalistica; complicata può rivelarsi soprattutto l’indagine
tendente a stabilire a quali soggetti la norma debba applicarsi se essa debba applicarsi soltanto a
rapporti in cui siano coinvolti enti stranieri oppure sia utilizzabile anche nei rapporti in cui siano
coinvolti enti stranieri oppure sia utilizzabile anche nei rapporti fra enti, pubblici e privati,
nazionali. Si dice che l’adattamento mediante rinvio comporta una trasformazione del contenuto
della norma internazionale per renderla applicabile a rapporti interni; in realtà non tanto di
trasformazione si tratta quanto di esatta determinazione dei limiti entro cui la norma vuole
comunque essere applicata, e quindi di interpretazione della medesima. Da notare è il caso di un

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accordo commerciale con il quale lo Stato italiano si impegni al trattamento nazionale delle merci
importate da altri Stati, si impegni cioè a parificare il trattamento fiscale di tali merci a quello
accordato alle merci italiane della stessa natura. Un simile accordo sarà invocabile innanzi ai nostri
giudici da parte di ditte importatrici italiane contro la nostra Amministrazione fiscale, e ciò ad onta
della circostanza che l’impegno è stato assunto nei confronti di uno Stato straniero e che il rapporto
tra la ditta italiana e la P.A. è invece di natura puramente domestica. Un caso del genere rientra nella
previsione dell’accordo, ove si consideri che, tutelandosi la ditta importatrice italiana, sia raggiunge
lo scopo perseguito dalla norma internazionale, che è quello di agevolare gli scambi commerciali tra
gli Stati contraenti. Può darsi che un accordo internazionale contenga disposizioni vantaggiose per
uno Stato estraneo all’accordo o per i suoi cittadini. Disposizione del genere possono essere
invocate in Italia dallo Stato interessato e dai suoi cittadini, nonostante l’impegno sia stato assunto
nei confronti di altri Paesi. Non si tratta di attribuire all’accordo internazionale un’efficacia nei
confronti dei terzi che è da escludere in base ai principi consuetudinari sul diritto dei trattati; si
tratta di applicare la norma internazionale alla fattispecie a cui essa vuole essere applicata.
* La distinzione tra procedimenti ordinari e procedimenti speciali di adattamento attiene al mezzo
attraverso cui l’ordinamento interno si adatta al diritto internazionale. Occorre poi stabilire quale
rango, nella gerarchia delle fonti interne, assumono le norme internazionali una volta introdotte, e
come di conseguenza si coordinano con le altre norme statali. Tale rango tende a corrispondere alla
forza che ha il procedimento, ordinario o speciale, di adattamento. Se a procedere all’adattamento è
il Costituente, le norme internazionali così introdotte tenderanno ad avere rango costituzionale; se a
procedere all’adattamento è il legislatore ordinario, le norme internazionali così introdotte
tenderanno ad avere rango di legge ordinaria.

CAPITOLO 39: L’adattamento al diritto internazionale consuetudinario

* L’adattamento al diritto internazionale generale avviene in Italia a livello costituzionale. Ad esso


provvedere infatti l’art. 10 della Costituzione, secondo cui l’Ordinamento giuridico italiano si
conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. L’art. 10 prevede un
procedimento di adattamento speciale o mediante rinvio. Il Costituente ha voluto con esso rimettere
in tutto e per tutto all’interprete interno la rilevazione e l’interpretazione delle norme internazionali
generali, limitandosi soltanto ad affermare la propria volontà che l’adattamento sia automatico, cioè
completo e continuo: le norme internazionali generali valgono all’interno dello Stato se e finché
vigono nell’ambito della comunità internazionale. Trattasi si un trasformatore permanente del diritto
internazionale generale in diritto interno. E’ l’interprete dunque che deve risolvere tutti i problemi
relativi all’esistenza e al contenuto delle norme generali internazionali. Ad essi spetta in primo
luogo stabilire quali siano le norme internazionali generali. Per noi le norme generali si esauriscono
nelle norme consuetudinarie, ivi compresa quella particolare specie di norme consuetudinarie
costituita dai principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili.
* Per capire quale sia il rango assunto dal diritto internazionale generale. Si può ritenere che,
essendo l’adattamento alle norme internazionali previsto dalla Costituzione, tali norme si situino
comunque ad un livello superiore alla legge ordinaria. Una legge ordinaria contraria al diritto
internazionale consuetudinario sarà pertanto costituzionalmente illegittima, in quanto violerà
indirettamente l’art. 10 della Costituzione, e potrà quindi essere annullata dalla Corte costituzionale.
La Costituzione, in quanto prescrivere l’adattamento dell’ordinamento giuridico italiano, e quindi
del diritto italiano nella sua totalità, al diritto internazionale generale, intende escludere in linea di
massima che il diritto consuetudinario sia subordinato al diritto costituzionale; con la conseguenza
che il primo prevarrà normalmente sul secondo a titolo di diritto speciale. Però lo stesso articolo, se
interpretato sistematicamente, contiene una clausola implicita di salvaguardia dei valori
fondamentali che ispirano la nostra Costituzione; sembra che l’art. 10 non possa né voglia
un’esecuzione del diritto consuetudinario all’interno dello Stato spinta fino al limite di rottura con
quei valori. Una norma internazionale generale che superi siffatto limite e resterà inoperante

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all’interno dello Stato; il che significa che tutti coloro che siano sollecitati ad applicarla, potranno
rifiutarsi di farlo senza che sul punto sia necessaria una pronuncia della Corte costituzionale. Alla
disapplicazione dovrà pervenirsi però con molta cautela, tenuto conto di tutte le circostanze del caso
concreto.

CAPITOLO 40: L’adattamento ai trattati e alle fonti derivate dai trattati

* L’adattamento alle norme pattizie internazionali avviene normalmente in Italia con un atto ad hoc
relativo ad ogni singolo trattato. Tale atto è l’ordine di esecuzione il quale è un procedimento
speciale o di rinvio; esso si limita quindi ad esprimete la volontà che il trattato sia eseguito ed
applicato all’interno dello Stato, senza riformulare le norme ma rimettendo all’interprete interno la
ricostruzione e l’interpretazione delle medesime. L’ordine di esecuzione di esprime di solito con la
formula “Piena ed intera esecuzione è data al Trattato X…”, ed è accompagnato dalla riproduzione
del testo dell’accordo. L’ordine di esecuzione è di solito dato con legge ordinaria. Normalmente la
stessa legge che autorizza la ratifica del trattato da parte del Capo dello Stato, contiene la formula
della piena ed intera esecuzione. In tal modo l’ordine di esecuzione può precedere l’entrata in
vigore dell’accordo, entrata in vigore che, a seconda della natura del medesimo, si verifica al
momento dello scambio delle ratifiche o del deposito di un certo numero di ratifiche. Ciò non ha
importanza, essendo appunto l’ordine di esecuzione un procedimento di adattamento mediante
rinvio, e dunque un procedimento che subordina l’applicazione della norma internazionale
all’effettiva esistenza di questa in quanto norma internazionale, esistenza che dovrà essere accertata
dall’interprete.
[Tutto ciò rende assai acuto il problema, da più parti sollevato, della necessità di appropriate fonti ufficiali di informazione all’interno
dello Stato. In Italia la materia è regolata dalla L. 839/1984, che, oltre a prevedere la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale di tutte le
convenzioni, prevede che annualmente sia allegato alla Gazzetta un apposito volume riguardante la situazione delle convenzioni
internazionali vigenti per l’Italia, con l’indicazione degli Stati per i quali queste convenzioni sono efficaci e delle riserve ad esse
relative].
[Il problema del valore che il trattato ha per l’ordinamento italiano qualcosa non vi sia stato l’ordine di esecuzione può sorgere nel
caso dei trattati stipulati in forma semplificata e in tutti i casi in cui un accordo vincoli sul pino internazionale l’Italia ma non si sia
provveduto ad eseguirlo all’interno. La giurisprudenza è unanime nel ritenere che, in difetto dell’ordine di esecuzione, il trattato non
abbia valore per l’ordinamento interno. La tesi va in linea di massima approvata, ma può essere corretta nel senso che all’accordo
valido sul piano internazionale, ma non eseguito all’interno dello Stato, può assegnarsi una funzione ausiliaria sul piano
interpretativo: esso dovrà cedere di fronte a norme interne contrarie].
A proposito del problema del rango delle norme convenzionali introdotte nell’ordinamento italiano
mediante l’ordine di esecuzione. Per quanto riguarda l’ordine di esecuzione dato con legge
ordinaria, sia in relazione ai rapporti delle norme convenzionali immesse con le norme di altre leggi
ordinarie sia in relazione ai rapporti con le norme costituzionali. Circa i primi rapporti doveva
ritenersi, in conformità alla comune dottrina e ad una consolidata giurisprudenza, che essi fossero in
tutto o per tutto rapporti fra norme di pari rango, regolati quindi dal principio per cui la legge
posteriore abroga l’anteriore e la legge speciale prevale sulla legge comune. L’art. 3 della stessa
legge ha innovato la materia, stabilendo che la legislazione statale deve esercitarsi nel rispetto dei
vincoli internazionali. Viene così sancita una preminenza degli obblighi internazionali. La stessa
preminenza era stata ricavata dalla Corte costituzionale, con esclusivo riguardo alle convenzioni che
si occupano del trattamento degli stranieri, secondo cui la condizione giuridica dello straniero è
regolata dalla legge in conformità delle orme e dei trattati internazionali. Data la prevalenza degli
obblighi internazionali deve ritenersi che sia viziata da illegittimità costituzionale la legge ordinaria
che non rispetti i vincoli derivanti da un trattato. Non tutti i problemi sono risolti, in particolare per
quanto riguarda la precisa linea di distinzione tra i casi in cui la Corte costituzionale ha competenza
esclusiva ad intervenire, per annullare la legge in contrasto con la norma di un trattato
internazionale, ed i casi in cui la prevalenza della norma internazionale può essere assicurata dal
giudice comune nell’esercizio della sua normale attività interpretativa. Il tema è affrontato delle due
sentenze della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 2007. In entrambe le sentenze tale attività è
fatta salva in linea di principio. La Corte riconosce al giudice comune la competenza ad interpretare
le norme interne in modo conforme alle disposizioni internazionali. Ma se ciò non è consentito dal

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testo delle norme allora il giudizio di costituzionalità deve essere instaurato. L’intervento della
Corte costituzionale, alla luce della citata disposizione dell’art. 117 dovrebbe essere eccezionale. La
prevalenza del trattato sulle leggi interne va attuata il più possibile dai giudici comuni sul piano
interpretativo. La giurisprudenza sia italiana che straniera ha poi spesso fatto ricorso alla
presunzione di conformità delle norme interne al diritto internazionale in base ala quale si ritiene
che, se la legge posteriore è ambigua, o se comunque lascia adito a più interpretazioni, tra cui una
conforme alla norma internazionale, essa va interpretata in modo da consentire allo Stato il rispetto
degli obblighi internazionali assunti in precedenza. La prevalenza del trattato è stata anche
assicurata considerando il trattato come diritto speciale ratione materiae o personarum. E’ questa un
criterio che è stato largamente applicato dalla giurisprudenza italiana nei rapporti tra il codice della
navigazione e il codice di procedura civile e le convenzioni rispettivamente di diritto marittimo
uniforme e di assistenza giudiziaria. Importante è la prassi seguita soprattutto dalle Corti americane
e svizzere, secondo cui la legge posteriore prevale solo se vi è una chiara indicazione della volontà
del legislatore di contravvenire al trattato. Se si segue questa il ricorso ad altri criteri interpretativi
diviene superfluo. E’ solo nella giurisprudenza americana e svizzera che occorre scavare per
assicurare la prevalenza del trattato sulle leggi interne anche posteriori. A tal fine occorre
convincersi del fatto che il trattato finisce con l’essere sorretto nell’ambito dell’ordinamento interno
da una duplice volontà normativa: da un lato la volontà che certi rapporti siano disciplinati così
come li disciplina la norma internazionale, dall’altro la volontà che gli impegni assunti verso altri
Stati siano rispettati. Occorre dunque che entrambe le volontà siano annullate; occorre che la norma
posteriore riveli la volontà di ripudiare gli impegni internazionali già contratti. Ne consegue che una
abrogazione o modifica delle norme di adattamento al trattato per semplice incompatibilità con una
legge posteriore non è ammissibile. Riteniamo che la volontà del legislatore di ripudiare
un’obbligazione internazionale preesistente possa ricavarsi in modo implicito solo quando l’oggetto
dell’obbligazione e quello della norma interna coincidano perfettamente sia per quanto riguarda la
materia regolata sia per quanto riguarda i soggetti ai quali il regolamento si dirige. Si prenda ad es,
la legislazione degli Stati Uniti che, tra il 1971 e il 1976, autorizzò le importazioni di cromo della
Rhodesia del Sud. Il principio di carattere interpretativo è un principio di specialità sui generis, di
una specialità che non va confusa con quella ratione materiae o ratione personarum: la specialità
consiste nel fatto che la norma internazionale è sorretta non solo e non tanto dalla volontà che certi
rapporti siano regolati in un certo modo quanto dalla volontà che gli obblighi internazionali siano
rispettati.
[Così inteso il principio di specialità dei trattati è applicabile anche quando l’adattamento ad un trattato abbia avuto luogo con
procedimento ordinario].
* Circa i rapporti fra il trattato e la Costituzione, non vi è alcun motivo per discostarsi dai principi
relativi alla gerarchia delle nostre fonti. Le norme pattizie immesse potranno pertanto essere
sottoposte a controllo di costituzionalità ed annullate se violano norme della nostra Costituzione.
Nelle due sentenze n. 348 e 349 del 2007, la Corte ha affermato che le norme pattizie introdotte
nell’ordinamento interno sono superiori alle legge, ciò non significa che a loro volta esse non siano
soggette al controllo di costituzionalità ed espunte dall’ordinamento italiano se in contrasto con
norme costituzionali. In altri termini, le norme pattizie assumono così la forza propria delle norme
interposte, essendo parametro di costituzionalità delle leggi, ed avendo rango inferiore alla
Costituzione. Anche la Costituzione tedesca si è comportata allo stesso modo. Se da un punto di
vista formale le leggi di esecuzione dei trattai sono sempre subordinate alla Costituzione, la
giurisprudenza della nostra Corte costituzionale ha più volte fatto ricorso a trattati riguardanti
materia costituzionale come ausilio interpretativo di singoli articoli della Costituzione, ed anche per
avallare interpretazioni di carattere evolutivo.
[L’utilizzo di convenzioni internazionali, soprattutto per avallare interpretazioni evolutive di norme costituzionali, è rinvenibile anche
nella giurisprudenza di altri Paesi].
* Per capire se l’adattamento ad un trattato implica anche l’adattamento alle eventuali fonti da esso
previste ed in particolare se l’ordine di esecuzione di un trattato istitutivo di un’organizzazione
internazionale implica l’adattamento alle decisioni delle organizzazioni vincolanti per nostro Stato.

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Diciamo anzitutto che può darsi che il trattato preveda espressamente la diretta applicabilità delle
decisioni degli organi all’interno degli Stati membri; in tal caso l’immissione automatica delle
norme prodotte dagli organi non può neppure essere messa in dubbio. Quando il trattato istitutivo
dell’organizzazione nulla dispone in materia, il problema va risolto interamente alla luce
dell’ordinamento interno. Errano quegli scrittori che cercano anche in tal caso di risolvere il
problema alla luce del trattato e deducono la conclusione che gli atti dell’organizzazione richiedano
specifici atti interni di adattamento. In realtà tutto ciò che può ricavarsi dal trattato è la volontà che
le decisioni vincolanti degli organi siano rispettate ed eseguite. Occorre riconoscere che la prassi
italiana è orientata nel senso dell’adozione di singoli atti di esecuzione per ciascuna decisione di
organo internazionale vincolante l’Italia. Tali atti consistono talvolta in una legge, ma il più spesso
in decreti legislativi o regolamenti amministrativi. Una simile prassi non appare però decisiva per
concludere che le decisioni degli organi internazionali non abbiano valore per l’ordinamento
italiano. Sembra invece che l’ordine di esecuzione del trattato istitutivo di una determinata
organizzazione, già attribuisca a queste ultime piena forza giuridica interna. L’emanazione dei
singoli atti di adattamento nella forma ordinaria serve, da un lato, a fini di maggiore certezza e
dall’altro, e soprattutto, ad integrare il contenuto non sempre autosufficiente della decisione
internazionale; ma per quanto riguarda la forza formale delle decisioni, detta emanazione è
superflua. D’altro canto non mancano esempi di norme internazionali che hanno sicuramente vigore
da noi in virtù di procedimenti speciali di adattamento e che pur tuttavia formano oggetto di
successivi procedimenti ordinari: si pensi alle norme di diritto consuetudinario in tema di mare
territoriale, vigenti in Italia.
[La possibilità che le decisioni internazionali siano applicate all’interno dello Stato indipendentemente da atti di esecuzione non
significa che i comportamenti individuali vietati dalla decisione possono trasformarsi automaticamente in reati, qualora la decisione
internazionale non li configuri come tali e non stabilisca le pene relative. Ciò per il principio nulla poena sine lege].
Tale tesi non è criticabile dal punto di vista costituzionale. Non sono infatti accettabili certe
posizioni rigide di una parte della dottrina secondo la quale una legge ordinaria non potrebbe
legittimamente ordinare pro futuro l’osservanza in Italia degli atti via via emessi
dall’organizzazione medesima: così facendo essa finirebbe con l’istituire un procedimento di tipo
legislativo diverso da quelli previsti dalla Costituzione. Questa dottrina non tiene conto che in tal
modo finisce col condannare tutte le norme di legge ordinaria che rinviano ad ordinamenti stranieri
od estranei. D’altro canto, per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, si può anche
ricorrere all’art. 11 della Costituzione secondo cui l’Italia consente alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce
le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Ovviamente le norme prodotte dalle
organizzazioni internazionali non si sottraggono al controllo di costituzionalità. A patto ovviamente
di esercitare tale controllo ala luce delle norme materiali della Costituzione e non delle norme che
provvedono all’organizzazione del potere legislativo.
[Il controllo è ipotizzabile con riguardo alle decisioni del Consiglio di Sicurezza sulle sanzioni individuali adottate nel quadro della
lotta al terrorismo internazionale. Trattasi di decisioni della Carta delle Nazioni Unite che hanno istituito un Comitato delle sanzioni
competente ad indicare nominativamente ed individualmente i presunto terroristi, impegnando gli Stati membri a provvedere al
congelamento dei fondi posseduti da quest’ultimi. Per quanto riguarda l’Italia e gli altri Stati membri dell’UE è radicata la
competenza del Consiglio Europeo che provveda ad eseguire dette decisioni mediante regolamenti, ossia atti direttamente applicabili
negli Stati membri. Il problema di è posto innanzi alle Corti di altri Paesi, particolarmente in Svizzera, sia con riguardo alle norme di
diritto interno relative ai diritti umani sia con riguardo ai rapporti tra l’art. 103 della Carta e le norme della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo relative alla tutela della proprietà e al diritto al giudice].
CAPITOLO 41: L’adattamento al diritto dell’UE

* Ai trattati che si sono succeduti all’epoca delle Comunità e poi dell’Unione Europea fino al
Trattato di Lisbona, l’ordinamento italiano si è conformato con un normale ordine di esecuzione
dato con legge ordinaria. Senonché l’adattamento degli ordinamenti degli Stati membri al diritto
comunitario ha finito con il seguire strade alquanto diverse da quelle dell’adattamento ai comuni
trattati. Si è così arrivati ad assicurare al diritto comunitario una prevalenza sulle norme nazionali,
comprese le norme costituzionali, che sono tipici di vincoli di carattere federalistico. Nel nostro
Paese si è fatto leva a tal fine, anche da parte della Corte costituzionale, sulla norma dell’art. 11

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della Costituzione, secondo il quale l’Italia consente in condizioni di parità con gli altri Stati alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le
Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Stranamente la
Costituzione prevede che il legislatore rispetti gli obblighi derivanti dal diritto comunitario.
* A tutti i Trattati succedutisi nel tempo si è dato sempre esecuzione con legge. Per effetto
dell’ordine di esecuzione non solo hanno acquistato forza giuridica da noi le norme dei Trattati, ma
automaticamente acquistano la stessa forza le norme dei regolamenti. Su questo punto non vi può
essere alcun dubbio, dato che l’art. 288 del TFUE espressamente prevede che i regolamenti siano
direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri, e dato che l’ordine di esecuzione copre
inequivocabilmente l’art. 288. L’automatica applicabilità dei regolamenti sebbene si traduca
sostanzialmente dell’introduzione in Italia di una fonte di tipo legislativo non prevista dalla
Costituzione, non comporta una violazione di quest’ultima. Fenomeni di rinvio permanente, da
parte di nostre leggi, a norme di altri ordinamenti devono intendersi come implicitamente ammessi
dalla nostra Costituzione. La diretta ed automatica applicabilità dei regolamenti riguarda la forza
formale dei regolamenti medesimi; essa significa che tutti i regolamenti acquistano tale forza, e
possono creare diritti ed obblighi all’interno del nostro Stato, indipendentemente da provvedimenti
di adattamento ad hoc. Ciò non significa che tutti regolamenti siano direttamente immediatamente
applicabili anche per quanto riguarda il loro contenuto. Al contrario, vi sono regolamenti che
nascono incompleti ed abbisognano comunque, per poter produrre i loro effetti, o taluni dei loro
effetti, di atti statali di esecuzione ed integrazione. L’applicazione dei regolamenti comporta
necessariamente la sovrapposizione ad essi di atti legislativi interni. Tutto ciò può comportare
delicati problemi di rapporti tra norme regolamentari e norme interne.
* Sempre con riguardo al come l’ordinamento italiano si conformi al diritto dell’Unione, resta da
stabilire quali principi regolano l’esecuzione degli altri due tipi di atti comunitari vincolanti, le
direttive e le decisioni. Per molto tempo l’opinione più diffusa al riguardo è stata che la diretta
applicabilità dei soli regolamenti, le direttive e le decisioni non siano automaticamente applicabili in
virtù della legge di esecuzione dei Trattati ma necessitino in ogni caso di atti di adattamento ad hoc.
La tecnica che essi seguono di solito è quella propria del procedimento ordinario di adattamento; la
norma della direttiva o della decisione non è quindi oggetto di mero rinvio da parte del
provvedimento interno ma viene integralmente riformulata.
[La materia è stata per molti anni disciplinata dalla legge intitolata “norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo
normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari (Legge La Pergola). La legge comunitaria prevede
vari strumenti per dare attuazione alle norme comunitarie, tra cui la delega legislativa, l’adozione di regolamenti amministrativi, ecc.
La prima legge comunitaria, già prevista dalla legge La Pergola, venne emanata alla fine del 1990 ed è stata seguita da altre. Anche le
Regioni hanno emanato leggi comunitarie con riguardo alle norme comunitarie che incidono nei settori di loro competenza].
E’ da escludere che le direttive e le decisioni siano del tutto inapplicabili prima e indipendentemente
dai provvedimenti interni che le seguono. Tale tesi si fondava su di un argomento a contrario ma
dimenticava che l’art. 249 TCE sanciva la obbligatorietà anche degli altri due tipi di atti e che esso
null’altro con ciò poteva volere che l’osservanza delle direttive e delle decisioni. E’ vero che
l’obbligatorietà era limitata al risultato, ma si tratta allora di stabilire quali effetti costituiscano un
corollario dell’obbligo di risultato e si producono quindi immediatamente e direttamente, e quali
effetti invece sono condizionati alla determinazione delle forme e dei mezzi da parte degli organi
nazionali, e si producono solo in seguito alla emanazione degli atti interni di esecuzione.
L’applicabilità delle direttive è ammessa anche dalla Corte di Giustizia dell’UE entro certi limiti i
quali peraltro risultano via via sempre più ampi. Secondo la Corte gli effetti diretti delle direttive
sono da riportare alle seguenti ipotesi.
A) Quando i giudici interni sono chiamati ad interpretare norme nazionali disciplinanti materie
oggetto di una direttiva, tale interpretazione deve avvenire alla luce della lettera e dello scopo della
direttiva medesima;
B) Allorché la direttiva chiarisce la portata di un obbligo già previsto dai Trattati, la sua
interpretazione può considerarsi come vincolante. Il chiarimento può riguardare anche soltanto un
principio generale del diritto dell’Unione;

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C) Allorché la direttiva impone allo Stato un obbligo non implicante necessariamente l’emanazione
di atti di esecuzione ad hoc, gli individui possono invocarla innanzi ai giudici nazionali per far
valere gli effetti che essa si propone. Secondo la Corte, però, imponendo la direttiva “Obblighi allo
Stato”, essa può essere invocata soltanto contro lo Stato e non anche nelle controversie degli
individui fra loro.
D) Nel caso di direttive che fissano un termine per la loro esecuzione nel diritto interno, lo Stato ha
però l’obbligo di non adottare disposizioni che possano compromettere gravemente il risultato
prescritto dalla direttiva;
E) La diretta applicabilità caratterizza anche le direttive che impongono allo Stato obblighi
procedurali. La Corte ha così stabilito che il mancato rispetto dell’obbligo di informare la
Commissione dell’Unione europea sull’adozione di determinate norme nazionali o l’adozione delle
stesse norme prima della decorrenza dei termini comporta la disapplicazione delle norme nazionali
in questione.
La Corte di giustizia finisce col prendere una serie di posizioni che rendono incerto il confine fra
diretta applicabilità e non. Altre ipotesi di diretta applicabilità si possono ricavare dalla
giurisprudenza interna e tenendo sempre presente le caratteristiche della direttiva. Va infine
accennato anche ad un effetto che la Corte di giustizia riconosce alle direttive non direttamente
applicabili che restino inattuate e quindi comportino una violazione del diritto comunitario. In realtà
si tratta di un effetti che non è limitato alle direttive ma riguarda tutti i casi di violazione. Secondo
la Corte, tale effetto consiste nel diritto dei singoli colpiti dalla violazione a chiedere il risarcimento
del danno subito, purché si tratti di violazioni di norme che attribuiscono loro dei diritti e vi sia un
nesso di causalità tra l’inattuazione e il danno. L’efficacia diretta è stata riconosciuta dalla Corte di
giustizia anche per le decisioni indirizzate agli Stati.
* Efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati membri deve riconoscersi anche agli accordi
conclusi dall’Unione con Stati terzi, sempre che tali accordi contengano norme complete, ossia che
non siano destinate ad essere completate da atti degli organi dell’Unione. Anche in questo caso vale
il principio secondo cui l’adattamento ad un trattato implica l’automatico adattamento agli atti che il
trattato medesimo considera come vincolanti. Per quanto riguarda il rango delle norme dell’UE ed i
loro rapporti con la legislazione ordinaria, la nostra Corte Costituzionale ha cambiato più volte
opinione. L’ultimo e definitivo cambiamento che risale alla sentenza del 1984 ribadita in varie altre
sentenze pronunciate dopo il 1984. La Corte non solo ritiene oggi che il diritto comunitario
direttamente applicabile prevalga sulle leggi interne, sia anteriori che posteriori, ma è anche
dell’opinione che qualsiasi operatore giuridico e, se necessario, qualsiasi giudice, debba
disapplicare le leggi dello Stato nel caso di conflitto con una norma comunitaria direttamente
applicabile. Tutto ciò discenderebbe dal più volte citato art. 11 della Costituzione. L’art. 11
riconoscerebbe: che il diritto interno e il diritto comunitario si coordinino secondo il principio del
primato del secondo sul primo; che tale coordinamento consista nel fatto che il diritto interno si
ritragga di fronte alle regole comunitarie direttamente applicabili, lasciando che esse vigano e siano
applicate in quanto formalmente appartenenti al loro ordinamento di origine; che, di conseguenza,
abbia come effetto di impedire che la norma interna incompatibile venga in rilievo. Da qui la
conseguenza che a disapplicare il diritto interno e ad applicare il diritto comunitario sia direttamente
qualsiasi giudice o organo amministrativo.
[La tesi della Corte di giustizia dell’UE sull’indiscusso primato del diritto comunitario sul diritto interno, si trova esaurientemente
esposto in una famosa sentenza in cui la Corte addirittura sostiene che gli atti legislativi interni contrati al diritto comunitario
dovrebbero considerarsi come non validamente formati. Il primato del diritto comunitario è stato poi ribadito da varie, successive
sentenze. Per quanto riguarda l’opinione della Corte costituzionale fondata sull’art. 11 la corte si occupa esclusivamente dei
regolamenti; nella sentenza del 1985 essa estende gli argomenti svolti e le conclusioni raggiunte nella sentenza a tutto il diritto
comunitario immediatamente applicabile ivi comprese le statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte comunitaria].
A proposito della giurisprudenza della nostra Corte costituzionale, occorre distinguere le premesse
teoriche dai risultati pratici. Dal punto di vista teorico ci sembra che ci si trovi di fronte ad una
costruzione estremamente fragile, come dimostra tra l’altro il fatto che la Corte ha fatto dire all’art.
11 cose diverse in tempi diversi, In realtà né i lavori preparatori, né la lettera e nemmeno lo spirito
dell’art. 11 avallano la tesi della Corte. Tutto ciò che può ricavarsi da tale norma, e dalla formula

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delle limitazioni di sovranità in essa contenuta, è che le decisioni vincolanti delle organizzazioni
internazionale possono aver efficacia da noi anche senza atti di esecuzione ad hoc. Il discorso è
diverso dal punto di vista pratico, per cui l’ultima presa di posizione della Corte costituzionale va
salutata con soddisfazione. La soddisfazione nasce dal fatto che abbiamo sempre sostenuto che la
prevalenza dovesse essere per l’appunto opera dell’interprete. Non in base a complicate categorie
costituzionalistiche implicanti scelte di carattere formale ma più semplicemente alla luce di quel
principio di specialità nell’interpretazione dei trattati.
[Nel quadro dei rapporti tra leggi interne e diritto dell’Unione va inserito l’art. 117 della Costituzione che impone al legislatore, oltre
il rispetto dei vincoli derivanti da norme internazionali, anche il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. Secondo
la Corte costituzionale, art. 11 e art. 117 si occuperebbero di due casi diversi, il caso che il giudizio sulla compatibilità della legge col
diritto dell’Unione penda davanti al giudice comune e quello in cui esso penda davanti alla Corte costituzionale: nel primo caso le
norme comunitarie, se hanno efficacia diretta, impongono al giudice di disapplicare le leggi nazionali ole le ritenga non compatibili;
nel secondo caso le medesime norme rendono concretamente operativo il parametro costituito dall’art. 117 con conseguente
declaratoria di incostituzionalità nelle norme incompatibili].
* L’ultima questione da esaminare è quella dei rapporti tra diritto dell’Unione europea e norme
costituzionali, ed in particolare se le norme dei Trattati e della legislazione dell’Unione possano
essere sottoposte a controllo ci costituzionalità. In uno scritto pubblicato nel 1966 si affermava che l
partecipazione dello Stato alle Comunità europee non potesse per ciò stesso comportare la rinuncia
a priori ad ogni difesa dei principi costituzionale che presiedono alla vita della comunità nazionale e
si diceva inoltre che il diritto comunitario non dovesse sfuggire pertanto al controllo della nostra
Corte costituzionale così come vi sfugge il comune diritto dei trattati. Dal 1966 ad oggi molta acqua
è passata sotto i ponti. In una serie di sentenze assai note la Corte di Giustizia dell’Unione cominciò
con l’affermare che la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo non fosse estranea al diritto
comunitario, che essa fosse rilevabile per sintesi tenendo presente le tradizioni costituzionali
comuni agli Stati membri nonché le Convenzioni sui diritti umani vincolanti tali Stati e che siffatta
sintesi dovesse procedere essa Corte nella funzione di controllo del rispetto del diritto comunitario.
La prassi della Corte ha poi trovato esplicito riconoscimento nel Trattato di Maastricht ed
attualmente la Corte dispone anche della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Trattasi
di uno strumento estremamente ricco quanto al numero di diritti, ma con un’efficacia limitata alle
materie oggetto del diritto dell’Unione. Anche la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana
ha finito per attestarsi su posizioni europeistiche. Ciò avvenne già con la sentenza 183/1973, la
quale ha poi esercitato grande influenza su tutta la giurisprudenza successiva della Corte, compresa
la sentenza n. 170/1984. La Corte ha così stabilità che l’ordine comunitario e l’ordine interno
costituiscono due sistemi distinti e separati anche se coordinati tra loro; che le norme comunitarie
debbono avere iena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri sì da entrare
ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione uguale ed uniforme nei confronti
di tutti i destinatari; che l’ordinamento comunitario risulta caratterizzato da un proprio complesso di
garanzie statutarie e da un proprio sistema di tutela giuridica; e che essi si sottraggano al controllo
di costituzionalità, limitato dall’art. 134 della Cost. alle leggi e agli atti aventi forza di legge dello
Stato e delle Regioni. Un’evoluzione simile ha subito la giurisprudenza della Corte costituzionale
tedesca. Questa, dopo aver più volte dichiarato di non voler rinunciare alla sua funzione di garante
del rispetto dei diritti fondamentali in Germania neppure in ordine agli atti comunitari, ha cambiato
opinione con la decisione 1986 nella quale ha promesso che non controllerà più la legislazione
comunitaria fintantoché la Corte di Giustizia delle Comunità europee assicurerà in linea generale
una protezione effettiva dei diritti fondamentali. E’ però importante notare che sia la Corte
Costituzionale italiana che quella tedesca hanno poi ripreso una certa distanza dalla Corte
comunitaria. La prima si è riservata la possibilità di verificare se una qualsiasi norma del trattato
non venga in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o non
attenti ai diritti inalienabili della persona umana. La Corte costituzionale tedesca si è riservata di
intervenire nei casi in cui , attraverso le procedure innanzi alla Corte comunitaria, non sia assicurato
lo standard di protezione dei diritti umani considerato come irrinunciabile dalla Legge fondamentale
e nella successiva sentenza emessa con riguardo al Trattato di Maastricht e volta a sostenere che la
istituzione dell’Unione europea non contrasta con il principio della rappresentanza democratica e il

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diritto dei cittadini tedeschi a partecipare all’esercizio della sovranità, si è riservata di vagliare se gli
atti delle istituzioni europee si mantengano nei limiti dei diritti sovrani ad essi attribuiti o li
travalichino. Lo stesso giudizio di compatibilità è stato dato con riguardo ai Trattati di Lisbona.

CAPITOLO 41: L’adattamento al diritto internazionale e le competenze delle Regioni

* Quando il diritto internazionale interferisce in materie che in Italia formano oggetto di


legislazione regionale si pone il problema del coordinamento tra norme internazionali e norme
statali di adattamento, da un lato, e norme regionali, dall’altro. La grande maggioranza della
dottrina, sia statalistica che regionalistica è d’accordo nel ritenere che ad immettere il diritto
internazionale nel nostro ordinamento, a dargli in parole forza formale da noi, debba essere in caso
il Potere centrale. Tale opinione trova conferma espressa nella Costituzione per quanto riguarda il
diritto consuetudinario; per quanto riguarda i trattati, la medesima opinione trova conferma nella
prassi dell’ordine di esecuzione dato con legge ordinaria. Né sembra che il quadro sia oggi mutato
per effetto delle legge cost. 3/2001, che ha modificato il tit. V della parte II della Costituzione.
L’art. 3 di tale legge prevede che le Regioni, nelle materie di loro competenza, provvedono
all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel
rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di
esercizio del potere sostitutivo in casi di inadempienza. In effetti la disposizione può essere riferita
alle competenze in materia di esecuzione delle norme internazionali e comunitarie che le regioni
hanno sì il diritto di esercitare in piena autonomia, ma una volta che queste siano state formalmente
introdotte nell’ordinamento interno. Un principio può dirsi pacifico, ed è quello del rispetto, da
parte della Regione, degli obblighi internazionali. Il principio è espressamente sancito in taluni
Statuti regionali ed è stato considerato come implicito, anche negli Statuti che non ne fanno
menzione, dalla Corte costituzionale. Oggi esso è sancito dalla legge 2001 che obbliga il legislatore
regionale al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali.
* La prassi che si è andata sviluppando in Italia fino alla modifica costituzionale del 2001 non ha
mai dato una risposta certa e soddisfacente a detto quesito. Agli inizi degli anni ’70, sia il legislatore
che la Corte costituzionale partirono da posizioni di assoluta compressione delle competenze
regionali; essi muovevano in particolare dall’idea che tutto ciò che riguardasse l’applicazione del
diritto internazionale e del diritti comunitario fosse di esclusiva competenza dello Stato. Più
specificamente il limite del rispetto degli obblighi internazionali che inerisce alle competenze
regionali, non doveva considerarsi soltanto come un limite negativo, ma doveva considerarsi anche
come un limite positivo, comportando la competenza degli organi statali in ordine a tutta l’attività
legislativa ed amministrativa necessaria per attuare e specificare il diritto internazionale e
comunitario: se tale competenza non ci fosse lo Stato avrebbe rischiato di esser chiamato a
rispondere nei confronti degli altri Stati per carenze ed omissioni non sue e non da esso eliminabili.
Per evitare che almeno in certe materie le Regioni fossero sogliate delle loro attribuzioni secondo la
Corte, le Regioni avrebbero potuto essere ammesse a partecipare all’attuazione e specificazione del
diritto internazionale o comunitario solo mediante strumenti, come la delega, che garantissero allo
Stato facoltà di controllo e di sostituzione. La rigida posizione della Corte costituzionale non mancò
di suscitare forti critiche sia dottrinali sia degli operatori giuridici regionali. La posizione della
Corte e del legislatore nazionale, si è poi andata modificando. La Corte ha finito col riconoscere la
competenza autonoma ed originaria delle Regioni a partecipare all’attuazione del diritto
internazionale non ché del diritto comunitario direttamente applicabile, riservando l’attuazione
diretta delle direttive alle regioni a statuto speciale. D’altro canto, però, essa ha continuato a
fondersi sul limite del rispetto degli obblighi internazionali e comunitari per dedurne il potere dello
Stato di sostituirsi alle Regioni quando si tratta di assicurare il puntuale adempimento degli obblighi
medesimi, Essa inoltre non ha limitato il potere sostitutivo dello Stato al solo caso di inerzia delle
Regioni, ma lo ha esteso in modo tale da lasciare incerti i cuoi confini e da giustificare una

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molteplicità di interventi degli organi centrali. In definitiva, mentre la giurisprudenza iniziale della
Corte partiva da un dato sicuro anche se inammissibile, la prassi successiva ha finito col non
poggiare su di una base solida, adottando soluzioni incerte e insoddisfacenti e sembrando far ricorso
piuttosto ad espedienti. Per l’attuazione del diritto dell’Unione europea alcune Regioni, come
l’Emilia Romagna ed il Friuli Venezia Giulia, hanno cominciato ad emanare proprie leggi
comunitarie ad imitazione della legge comunitaria statale. Alla prassi descritta fanno da eco le
disposizioni contenute, nella materia, nella legge 3/2001 che demanda alla legge dello Stato il
compito di disciplinare le modalità del potere sostitutivo e del Governo si esercita “nel caso di
mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria, oppure di pericolo
grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedano la tutela dei livelli
essenziali elle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Lo stesso comma prevede inoltre che
la legge definisca le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del
principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione.

CAPITOLO 43: Il fatto illecito e i suoi elementi costitutivi: l’elemento soggettivo

* Può darsi che il diritto interno non riesca ad evitare che lo Stato incorra in una violazione del
diritto internazionale o in un fatto illecito internazionale. Si pone allora il problema della
responsabilità internazionale degli Stati che consiste nel chiedersi quando sia ha un fatto illecito
internazionale, ossia quali sono i suoi elementi costitutivi e quali conseguenze scaturiscono dal
medesimo. Trattasi della fase patologica dei rapporti tra Stati, ed è inutile sottolineare che proprio
tale fase trae alimento il tanto diffuso quanto giustificato scetticismo circa la capacità del diritto
internazionale di imporsi per forza propria ai singoli Stati. Al tema della responsabilità degli Stati la
dottrina ha dedicato approfondite indagini. Dal lontano 1953 la CDI ha intrapreso lo studio
dell’argomento, ma un progetto definitivo di codificazione ha visto la luce solo nel 2001, dopo
quasi 50 anni; il che è prova della complessità della materia nonché delle implicazioni fortemente
politiche che essa presenta. Nel 1980 la Commissioni approvò la prima parte di un progetto di
articoli redatto sostanzialmente dall’Ago che si limitava ad occuparsi dell’origine della
responsabilità, ossia degli elementi dell’illecito internazionale. Il progetto definitivo ha visto la luce
nell’agosto 2001. Esso si occupa, in 59 articoli, sia degli elementi sia delle conseguenze
dell’illecito. Una caratteristica fondamentale delle varie parti del Progetto della CDI, è quella di
considerare i principi sulla responsabilità come valevoli in linea di massima per la violazione di
qualsiasi norma internazionale. Tutti i precedenti tentativi di codificazione si erano limitati ad
esaminare la responsabilità nel quadro delle norme sul trattamento degli stranieri. Infatti solo in
tema di responsabilità dello Stato per danni arrecati agli stranieri nel suo territorio esisteva una
prassi abbondante ed omogenea modellata sui principi della responsabilità civile di diritto interno
ed in particolare sul principio secondo cui chi cagiona ad altri un danno ingiusto è tenuto a ripararlo.
Quando si cerca di ricostruire un regime di responsabilità che abbracci tutte le possibili violazioni
del diritto internazionale, si va incontro a serie difficoltà, perché la prassi diviene assai
frammentaria ed incerta e perché per molte e gravi violazioni il parlare di un obbligo di riparazione
ha poco o nessun senso, infine perché la scarsità dei mezzi diretti ad assicurare l’attuazione delle
norme internazionali diviene ancor più evidente. La Commissione ha tra i suoi compiti non solo la
codificazione ma anche lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e dei lavori della
Commissione.
* [Quanto si dirà sulla responsabilità degli Stati vale anche per gli altri soggetti internazionali ad esclusione degli individui la cui
responsabilità è regolata da norme che attengono al campo del diritto penale. Sulla responsabilità delle organizzazioni internazionali,
la CDI ha approvato nel 2009 un Rapporto completo del Relatore speciale Gaja, che si conforma per la maggior parte alle regole
codificate in tema di responsabilità degli Stati. Trattasi di regole ispirate in linea generale al principio dell’autonomia della
responsabilità delle organizzazioni, ricavabile dall’autonoma personalità internazionale di cui sono dotate le organizzazioni
medesime. Tra detti articoli segnaliamo l’art. 16, che prevede la responsabilità dell’organizzazione allorché questa adotti decisioni
vincolanti per lo Stat membro e comportanti atti illeciti. Va poi segnalato l’art. 39 il quale prevede che, qualora l’organizzazione
debba riparare il danno derivante da un suo atto illecito, gli Stati membri siano chiamati ad adottare le misure più appropriate
affinché la riparazione abbia luogo. Infine l’art. 61 prevede il caso della responsabilità dello Stato membro per un atto illecito

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dell’organizzazione. Ciò solo quando lo Stato membro abbia accettato tale responsabilità oppure abbia indotto la vittima dell’illecito
a farvi affidamento altrimenti, rivive il principio generale di autonomia della responsabilità dell’organizzazione. La responsabilità
internazionale dell’organizzazione non va confusa con la responsabilità di diritto interno. Anche qui il problema che si pone riguarda
i rapporti tra l’organizzazione ed i suoi membri e consiste nel chiedersi se e quando i secondi rispondano solidarmente delle
obbligazioni contratte dalla prima. Il problema non può che essere risolto alla luce delle norme che regolano la capacità di diritto
interno dell’organizzazione].
* Data la coincidenza tra lo Stato come soggetto di diritto internazionale e lo Stato-organizzazione è
ovvio che il fatto illecito consista anzitutto in un comportamento di uno o più organi statali,
comprendendo tra questi tutti coloro che partecipano dell’esercizio del potere di governo. Sono solo
gli organi statali i possibili autori delle violazioni del diritto internazionale. Anche il Progetto dopo
aver indicato come elementi del fatto illecito un comportamento attribuibile allo Stato consistente in
una violazione di un obbligo internazionale dello Stato, specifica poi che il primo elemento consiste
nel comportamento di un qualsiasi organo dello Stato, sia esso legislativo, giudiziario o esecutivo,
del governo centrale o di un ente territoriale. Il fatto che l’autore dell’illecito sia necessariamente un
organo dello Stato assume importanza quando si tratta di illeciti commissivi, consistenti in azioni; è
chiaro che per gli illeciti omissivi l’identificazione dell’organo che avrebbe dovuto attivarsi e non lo
ha fatto, la sua competenza ecc, non hanno rilievo per il diritto internazionale. Sebbene in linea
astratta sia vero che qualsiasi organo possa impegnare la responsabilità dello Stato, tale possibilità
si trova in concreto limitata a causa del contenuto che di solito le norme internazionali hanno. SI
discute se la responsabilità dello Stato sorga quando l’organo abbia commesso un’azione
internazionalmente illecita avvalendosi di tale sua qualità, e dunque agendo nell’esercizio delle sue
funzioni, ma al di fuori dei limiti della sua competenza. La questione attiene ai soli illeciti
commissivi e riguarda le azioni illecite condotte da organi di polizia in violazione del proprio diritto
interno e contravvenendo agli ordini ricevuti. Secondo una parte della dottrina, ed anche secondo
l’art. 7 del Progetto, azioni del genere sarebbero comunque attribuibili allo Stato; secondo altri
autori l’azione in quanto tale resterebbe propria dell’individuo o degli individui che l’hanno
compiuta, e l’illecito dello Stato consisterebbe nel non aver preso misure idonee a prevenirla. Che la
soluzione accolta dall’art. 7 sia la più aderente alla prassi, come testimonia la vasta giurisprudenza,
non contestata dagli Stati, della CEDU in tema di azioni illecite degli organi di polizia e quella della
CIG in tema di azioni militari intraprese in contrasto con le istruzioni ricevute. Il fatto che simili
azioni siano contrarie al diritto interno o contravvengano agli ordini ricevuti non è significativo in
quanto l’illecito internazionale si verifica solo quando siano stati esauriti gli eventuali mezzi di
ricordo interni e dunque solo quando lo Stato non lo abbia fatto.
* Se l’illecito internazionale è opera degli organi statali, resta esclusa la possibilità che allo Stato sia
addossata una responsabilità per atti di privati che arrechino danni a individui, organi o Stati
stranieri. In effetti, a configurare una responsabilità dello Stato in questi termini perveniva soltanto
la vecchia teoria germanica della solidarietà di gruppo. La teoria fu abbandonata a favore della
dottrina della patientia e del receptus limitante la responsabilità dello Stato ai soli casi di tolleranza
delle o di complicità con le azioni compiute da privati nel proprio territorio. Dottrina e prassi oggi
sono concordi nel ritenere che lo Stato risponda solo quando non abbia posto in essere le misure atte
a prevenire l’azione o a punire l’autore e quindi solo per il fatto dei suoi organi. Il discorso è diverso
per i casi in cui lo Stato sembra rispondere anche quando non ha commesso alcun illecito; trattasi in
particolare del caso della responsabilità per danni causati da oggetti spaziali, per il quale lo Stato
risponde anche per fatti a lui non imputabili.
[La non attribuzione allo Stato del comportamento di individui in quanto tali era progressivamente prevista dall’art. 11 del vecchio
progetto, norma che non si ritrova nel Progetto. E’ chiaro però che questo prende posizione nello stesso senso, dato che tutte le ipotesi
di attribuzione dell’illecito allo Stato presuppongono un qualche legame tra l’individuo e lo Stato medesimo].

CAPITOLO 44: L’elemento oggettivo

* Il Progetto si occupa agli artt. 12 e ss. del secondo elemento del fatto illecito, ossia dell’illecito del
comportamento dell’organo statale. Trattasi dell’elemento obbiettivo contrapposto all’elemento
soggettivo. L’art. 12 definisce l’elemento obbiettivo dell’illecito, dichiarando: “si ha violazione di
un obbligo internazionale da parte di uno Stato quando un fatto di tale Stato non è conforme a ciò

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che gli è imposto dal predetto obbligo…”. Gli articoli successivi contengono alcune regole dirette a
stabilire quando, e anche quali condizioni, una violazione del diritto internazionale può considerarsi
come definitivamente consumata. Tra queste l’art. 13 prevede che l’obbligazione debba esistere al
momento in cui il comportamento dello Stato è tenuto; a loro volta gli artt. 14 e 15 stabiliscono
quando deve ritenersi che si verifichi l’illecito (tempus commissi delicti) negli illeciti istantanei, in
quelli aventi carattere continuo e negli illeciti composti. La determinazione del tempus commissi
delicti è importante a vari fini ma soprattutto in relazione all’interpretazione dei trattati di arbitrato e
di regolamento giudiziario.
* All’elemento obbiettivo dell’illecito internazionale attengono le cause, o circostanze, escludenti
l’illiceità.
1) Una prima causa è costituita dal consenso dello Stato leso. Il consenso validamente dato da uno
Stato alla commissione da parte di un altro Stato di un fatto determinato esclude l’illiceità di tale
fatto nei confronti del primo Stato sempre che il fatto medesimo resti nei limiti del consenso. La
norma ispirata al principio volenti non fit iniuria, trova ampio riscontro nella prassi internazionale
ed ha quindi natura consuetudinaria. Il consenso dello Stato leso viene configurato da una parte
della dottrina come un vero e proprio accordo tra lo Stato autorizzante e lo Stato autorizzato, diretto
a sospendere un obbligo preesistente. Anche se apparentemente si presenta come accordo, la causa
di esclusione dell’illiceità è sempre sostanzialmente un atto unilaterale, per l’appunto
un’autorizzazione dello Stato, che altrimenti sarebbe leso, autorizzazione che esplica i suoi effetti in
virtù di una norma ad hoc di diritto internazionale generale. Ciò è dimostrato dal fatto che in tutti i
casi in cui nella prassi si è discusso della validità del consenso la discussione ha sempre riguardato
la manifestazione di volontà dello Stato autorizzante e… mai quella dello Stato autorizzato. Il testo
dell’art. 20 finisce col confermare la natura unilaterale del consenso, riferendo il requisito della
validità. Un’ulteriore conferma è data dalla possibilità di revocare il suo consenso, come ha
precisato anche la CIG.
2) Una delle più importanti cause di esclusione dell’illiceità è costituita dall’autotutela ossia dalle
azioni che sono dirette a reprimere l’illecito altrui e che non possono essere considerate come
antigiuridiche anche quando consistono in violazioni di norme internazionali. Dell’autotutela come
causa di esclusione dell’illiceità, si occupano gli artt. del Progetto relativi alla legittima difesa e alle
contromisure.
3) L’art. 23 annovera tra le cause di esclusione dell’illiceità la forma maggiore, cioè il verificarsi di
una forza irresistibile o di un evento imprevisto, al di là del controllo dello Stato, che rende
materialmente impossibile adempiere l’obbligo. L’argomento va inquadrato nel problema della
colpa come elemento dell’illecito internazionale.
4) E’ controverso se per il diritto internazionale, lo stato di necessità, ossia l’aver commesso il fatto
per evitare un pericolo grave imminente e non volontariamente causato, possa essere invocato come
circostanza che escluda l’illiceità. Nessuno dubita che la necessità possa essere invocata quando il
pericolo riguardi la vita dell’individuo-organo che abbia commesso l’illecito o degli individui a lui
affidati. Nessuno può dubitare pertanto della perfetta conformità al diritto consuetudinario dell’art.
24 del Progetto. Le incertezze riguardano invece la necessità in quanto riferita allo Stato nel suo
complesso, vale a dire le azioni illecite che siano compiute per evitare che sia compromesso un
interesse vitale dello Stato. Anche in questo caso la dottrina è unanime nel ripudiare la vecchia tesi
che legava la necessità ad un preteso diritto di conservazione dello Stato, e che su tale base finiva
con il giustificare non solo ogni sorta di abuso, ma soprattutto fenomeni come al conquista e
l’ingrandimento territoriale a danno di altri Stati. In definitiva, la disputa riguarda il punto se, a
parte il distress, a parte il ripudio della tesi del diritto di conservazione, ed escluso, più in generale,
che la necessità sia invocabile per violare impunemente norme di jus cogens, particolarmente la
norma che sancisce il divieto dell’uso della forza, una sia pur limitata sfera di operatività dello stato
di necessità sia da ammettere. L’art. 25 del Progetto si pronuncia in senso favorevole, sforzandosi di
esprimersi nel modo più restrittivo possibile, ed adottando una formulazione di tipo negativo: “1. Lo
Stato non può invocare lo stato di necessità come causa di esclusione dell’illiceità di un atto non

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conforme ad un obbligo internazionale… se non quando l’atto: a) costituisca l’unico mezzo per
proteggere un interesse essenziale contro un pericolo grave ed imminente; b) non leda gravemente
un interesse essenziale dello Stato o degli Stati nei confronti dei quali l’obbligo sussiste, oppure
delle comunità internazionale del suo complesso. 2. In ogni caso la necessità non può essere
invocata se a) l’obbligo internazionale in questione esclude la possibilità di invocare la necessità; b)
lo Stato ha contribuito al verificarsi della situazione di necessità.
La prassi internazionale è estremamente incerta al riguardo e se è vero che esiste un certo numero di
sentenze arbitrali che non hanno escluso in linea di principio il ricorso alla necessità è vero anche
che simili decisioni si sono per lo più pronunciate per l’inapplicabilità del principio al caso di
specie, e dall’altro, le decisioni medesime non hanno mai chiarito in che cosa esattamente consista
la natura vitale o essenziale di un interesse dello Stato. Una volta bandito dal diritto internazionale
cogente l’uso della forza in tutte le sue manifestazioni, inclusi gli interventi umanitari o a protezione
dei propri cittadini all’estero, gli spazi per l’utilizzazione della necessità si riducono a poco. Né
bisogna confondere il ricordo alla necessità con l’applicazione di singole e specifiche norme,
consuetudinarie, che all’idea di necessità si ricollegano: ci riferiamo in particolare alle norme che
autorizzano un eccezionale esercizio funzionale della potestà di governo. La situazione è diversa per
quanto riguarda clausole di deroga ispirate alla necessità, contenute in varie convenzioni sia nella
materia economica che in quella sui diritti umani.
6) Non è del tutto azzardata la tesi secondo cui l’illiceità sia esclusa quando l’osservanza di una
norma internazionale urti contro principi fondamentali della Costituzione dello Stato. L Corte
costituzionale italiana ha talvolta annullato le norme interne di esecuzione di norme internazionali
pattizie contrarie a principi costituzionali, mettendo gli altri organi dello Stato nell’impossibilità di
osservare le norme medesime. E’ sintomatico al riguardo che non sono state avanzate significative
proteste da parte degli Stati interessati in occasione delle citate pronunce della nostra Corte
costituzionale.
[Occorre riconoscere che la tesi non trova riscontro nelle regole del Progetto relative alle circostanze escludenti l’illiceità, ma urta
contro una delle regole del Progetto medesimo, precisamente contro l’art. 32, secondo cui il diritto interno non può avere alcuna
influenza sulle conseguenze dell’illecito internazionale, Essa urta anche contro l’art. 27 della Convenzione di Vienna del 1969, il
quale esclude che ll diritto interno possa essere invocato a giustificazione dell’inosservanza di norme pattizie].

CAPITOLO 45: Gli elementi controversi: la colpa e il danno

* Una questione a lungo dibattuta riguarda la necessità o meno che sussista la colpa dell’organo
statale autore della violazione. Con ampia generalizzazione possono distinguersi tre tipi di
responsabilità. Anzitutto vi è la responsabilità per colpa che si ha quando si richiede che l’autore
dell’illecito abbia commesso quest’ultimo intenzionalmente o almeno con negligenza, ossia
trascurando di adottare le misure necessarie per impedire l’evento dannoso. Sono questi i connotati
tipici, nel diritto privato, della responsabilità extracontrattuale o aquiliana, di origine romanistica. Vi
è poi una responsabilità cui può darsi il nome di responsabilità oggettiva relativa, o per la quale la
dottrina anglosassone usa il termine di strict liability: essa si ha quando la responsabilità sorge per
effetto del solo compimento dell’illecito, ma l’autore di quest’ultimo può invocare, per sottrarsi alla
responsabilità, una causa di giustificazione consistente in un evento esterno che gli ha reso
impossibile il rispetto della norma. Nella responsabilità oggettiva relativa non solo la responsabilità
è aggravata, perché la forza maggiore è l’unica causa di giustificazione di solito ammessa, ma vi è
anche uno spostamento dell’onere della prova della vittima all’autore dell’illecito. Vi è infine un
terzo tipo di responsabilità che sia nei sistemi continentali che in quelli di common law viene
chiamata assoluta e che non ammette alcuna causa di giustificazione. Per questo tipo di
responsabilità la dottrina si è chiesta se sia ancora opportuno parlare di responsabilità e non
piuttosto di garanzia. E’ certo comunque che l’idea che si risponde perché si è agito in modo
ingiusto, cede il posto all’idea della necessità sociale della tutela della vittima. Il regime di
responsabilità può anzitutto risultare specificamente previsto in relazione alla violazione di una
determinata norma o di un determinato gruppo di norme. E’ così che la violazione del dovere di

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protezione degli stranieri o degli organi stranieri dà chiaramente luogo ad una responsabilità per
colpa consistendo tale violazione proprio nella circostanza che lo Stato non abbia usato la dovuta
diligenza nella protezione. Per fare un altro esempio di regime specifico di responsabilità assoluta,
può ricordarsi la Convenzione sulla responsabilità internazionale per i danni causati da oggetti
spaziali, ratificata da più di 80 Paesi ed entrata in vigore nel 1972. L’art. II della Convenzione
stabilisce infatti: “Lo Stato di lancio ha la responsabilità assoluta per la riparazione dei danni causati
dal suo oggetto spaziale alla superficie della Terra o agli aeromobili in volo”. La stessa
Convenzione prevede invece, all’art. III, che per i danni causati ad altri oggetti saziale, il regime di
responsabilità sia quello per colpa. A parte i regimi specifici, sia consuetudinari che convenzionali
per il regime residuale, ossia per il regime valido per tutti gli altri casi, riteniamo che la regola
generale sia favorevole alla responsabilità oggettiva relativa e pertanto lo Stato risponde di qualsiasi
violazione del diritto internazionale da parte dei suoi organi purché non dimostri l’impossibilità
assoluta dell’osservanza dell’obbligo. Buona parte delle violazioni del diritto internazionale
affondano sempre le loro radici nei più vari gradi dell’ordinamento statale§§, il che rende
impossibile la ricerca nell’illecito di un atteggiamento di negligenza e ricerca che, per avere un
senso, non potrebbe non coinvolgere tutti gli organi preposti all’emanazione delle anzidette norme.
Di solito poi, gli Stati che protestano contro la violazione di norme internazionali, soprattutto la
violazione di norme pattizie, e ricorrono a contromisure per farle cessare, non dimostrano alcuna
particolare propensione a condizionare le loro proteste e le loro contromisure alla prova
dell’esistenza di negligenza o di intenzionalità. Significativo è anche il fatto che se si esamina la
giurisprudenza della Corte dell’UE e della Corte europea dei diritti umani ci si rende conto che
un’indagine sul dolo o sulla colpa degli organi dello Stato accusato non è mai stata condotta.
[Il regime residuale vale per qualsiasi tipo di illecito. E’ improponibile la distinzione che si fa nel diritto interno tra responsabilità
contrattuale e responsabilità extracontrattuale].
Per quanto riguarda il carattere relativo della responsabilità oggettiva, esso è suffragato da una
abbondante prassi internazionale. Dal punto di vista sembra conforme all’opinione della CDI, anche
se il Progetto non dedica al problema della colpa alcun articolo. Ma della circostanza che la colpa
non è menzionata come elemento dell’illecito internazionale, né è disciplinato in alcun altro
articolo, e altresì dalla circostanza che l’art. 23 considera la forza maggiore come causa di
esclusione dell’illiceità, può dedursi che il regime di responsabilità obbiettiva relativa sia
considerato dalla Commissione come il regime applicabile.
* Altra questione controversa è se elemento dell’illecito sia il danno sia materiale che morale. La
CDI ha preso posizione negativa al riguardo già all’epoca del vecchio progetto in vista del fatto che
vi sono oggi norme di diritto internazionale, la cui inosservanza da parte di uno dei loro destinatari è
certamente sentita come un illecito nei confronti di tutti gli altri anche quando un interesse diretto e
concreto di questi ultimi non sia leso. Altro però è il problema se la mancanza della lesione di un
interesse diretto e concreto dello Stato faccia venire meno la responsabilità, o magari dia luogo a
forme particolari e più attenuate di responsabilità.

CAPITOLO 46: Conseguenze del fatto illecito internazionale. Autotutela individuale e


collettiva

* Commessa una violazione del diritto internazionale, lo Stato deve risponderne. Le conseguenze
del fatto illecito internazionale hanno formato oggetto di una estesa speculazione teorica che ha
contribuito in modo notevole alla sistemazione della materia. L’opinione oggi più diffusa è che le
conseguenze dell’illecito consistano in una nuova relazione giuridica tra Stato offeso e Stato
offensore, discendente dalla norma secondaria contrapposta alla norma primaria ossia alla norma
violata. Non vi è accordo peraltro per quanto concerne i contenuti da dare a siffatta relazione
giuridica. Le conseguenze del fatto illecito consisterebbero unicamente nel diritto dello Stato offeso
di pretendere, e nell’obbligo costituirebbero per l’appunto la norma secondaria. La riparazione
comprenderebbe sia il ripristino delle situazioni quo ante sia il risarcimento del danno oppure la
soddisfazione. Un autonomi rilievo nell’ambito delle conseguenze dell’illecito non avrebbero

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invece i mezzi coercitivi di autotutela, considerati come rientranti nel diritto dello Stato di
provvedere alla propria conservazione. Lo schema è stato sottoposto a varie aggiunte e
modificazioni anche se non di grande rilievo. Importante è invece la tendenza a riportare sotto la
norma secondaria anche i mezzi di autotutela ed in particolare le rappresaglie: dal fatto illecito
discenderebbe per lo Stato offeso sia il diritto di chiedere la riparazione sia il diritto di ricorrere a
contromisure coercitive aventi il precipuo ed autonomo scopo di infliggere una vera e propria
punizione allo Stato offensore. Da questo quadro si discosta un’autorevole corrente di pensiero che
fa capo al Kelsen e che muove da una critica del precedente schema rilevando l’inutilità di una
costruzione delle conseguenze dell’illecito in termini di diritti ed obblighi, in particolare alla
riparazione: una costruzione del genere condurrebbe oltre tutto ad un regressus ad infinitum dato
che la violazione dell’obbligo di riparare produrrebbe un altro obbligo di riparare così di seguito.
Secondo il Kelsen l’illecito avrebbe come unica ed immediata conseguenza il ricorso alle misure di
autotutela, mentre la riparazione sarebbe soltanto eventuale e dipenderebbe in ultima analisi dalla
volontà dello Stato offeso e dello Stato offensore di evitare l’uso della coercizione, regolando in
modo pacifico, mediante un accordo diretto o attraverso il ricorso all’arbitrato, la questione. Le
misure di autotutela non costituirebbero oggetto di un rapporto giuridico tra Stato offeso e Stato
offensore, ma avrebbero natura di azione coercitiva, la stessa che avrebbero la pena e l’esecuzione
forzata nel diritto interno; a parte tale natura comune, non sarebbero assimilabili né all’una né
all’altra. Le idee del Kelsen risentono in larga misura della sua concezione fortemente
imperativistica del diritto, concezione che lo porta a considerare il momento sanzionatorio come
caratterizzante ogni ordinamento giuridico. Anche se si prescinde da siffatta concezione e si bada a
quanto avviene nella prassi in occasione di violazioni del diritto internazionale, la posizione del
Kelsen contiene molto più della altre elementi di verità. Inoltre sembra che l’idea dell’illecito che,
anziché scatenare reazione produce rapporti giuridici, sia un modo di rappresentare la realtà. La fase
patologica del diritto internazionale è poco una fase normativa, ed a caratterizzarla sono per
l’appunto le reazioni, sia pure imperfette, sia pure affidare allo stesso soggetto leso, contro l’illecito.
Nella realtà le razioni non hanno come scopo caratteristico quello di punire; esse sono
fondamentalmente dirette a reintegrare l’ordine giuridico violato ossia a far cessare l’illecito e a
cancellarne, ove possibile, gli effetti. Si può anche dire che lo Stato offensore ha l’obbligo di porre
fine all’illecito e di cancellarne gli effetti e che correlativamente lo Stato offeso ha il diritto di
ricorrere all’autotutela per costringervelo; e anche che le prescrizioni del diritto internazionale sono
scindibili in una norma primaria, che prescrive un obbligo ed una norma secondaria che si occupa
della sanzione. Quanto all’obbligo della riparazione, è senz’altro eccessivo riportarne in tutto e per
tutto il fondamento ad un accordo tra gli Stati interessati. Ciò è vero solo per quelle forme di
riparazione consistenti della soddisfazione, ossia nella presentazione di scuse allo Stato offeso. Per
quanto riguarda invece l’unica altra forma di riparazione che abbia rilevanza pratica, il risarcimento
del danno, non sembra si possa negare che essa sia prevista sa un’autonoma norma di diritto
internazionale generale e tutto ciò che si può concedere alla tesi del Kelsen è che effettivamente
l’accordo delle parti e la discrezionalità del giudice giocano un ruolo fondamentale. C’è anche da
dire poi che la norma generale sul risarcimento del danno ha un rilievo secondario nella materia
delle conseguenze dell’illecito, essendo ché nella responsabilità internazionale gli aspetti
patrimonialisti sono trascurabili. Altro argomento importante riguarda la possibilità che soggetti
diversi dallo Stato direttamente leso adottino misure coercitive nei confronti dello Stato offensore in
caso di violazioni di obblighi erga omnes ed in particolare di crimini internazionali degli Stati.
* La normale reazione contro l’illecito è l’autotutela, cioè il farsi giustizia da sé. Ciò che nel diritto
interno è un fatto eccezionale, ammesso solo entro certi limiti, in certi campi, ed in presenza di
circostanze eccezionali, è invece la regola nell’ambito del diritto internazionale, dove manca un
sistema di garanzia dell’attuazione delle norme. Resta confermata l’opinione circa la scarsa
efficienza e credibilità dei mezzi internazionali di attuazione coattiva del diritto e circa la necessità
che l’illecito venga evitato attraverso gli strumenti offerti dall’ordinamento dello stesso Stato che
avrebbe interesse a violare una data orma internazionale. A partire dalla dine della seconda guerra

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mondiale si è fatta strada l’opinione, espressa anche dalla CIG, secondo cui l’autotutela non possa
consistere nella minaccia o nell’uso della forza essendo vietati dalla Carta delle Nazioni Unite e
dallo stesso diritto internazionale consuetudinario. Il principio che vieta il ricorso alla forza ha anzi
carattere cogente, ma trova un limite generale nella legittima difesa, intesa come risposta ad un
attacco armato già sferrato. L’art. 51 della Carta riconosce il diritto naturale di legittima difesa
individuale e collettiva nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni
Unite.
[L’attacco o aggressione si ha non solo quando ad attaccare sono forze regolari ma anche quando lo Stato agisce attraverso bande
irregolari o di mercenari da esso assoldati. La Corte ha anche affermato che non costituisce invece aggressione armata la sola
assistenza data a forze ribelli che agiscono sul territorio di uno Stato, sotto forma di fornitura di armi, di assistenza logistica e simili;
siffatta assistenza concreterebbe soltanto un’ipotesi di violazione del divieto di ingerirsi negli affari altrui e al contempo un’ipotesi di
violazione minoris generis del divieto della minaccia o dell’uso della forza. La legittima difesa può essere al limite esercitata anche
con armi nucleari, purché vengano rispettati il principio di proporzionalità della risposta rispetto all’attacco e le norme del diritto
umanitario di guerra. Deciso che il diritto internazionale sia consuetudinario che pattizio non comportano un’interdizione completa e
universale della minaccia o dell’uso di armi nucleari in quanto tali, la Corte aggiunge che minaccia e uso sarebbero generalmente
contrari alle regole di diritto internazionale applicabili ai conflitti armati e specialmente ai principi e alle regole del diritto umanitario
e che non si possa comunque dire in modo definitivo se minaccia e uso medesimi sarebbero leciti o illeciti in una circostanza estrema
di legittima difesa nella quale la stessa sopravvivenza di uno Stato fosse in predicato].
Per capire se il divieto dell’uso della forza abbia altre eccezioni oltre quella prevista dall’art. 51
della Carta delle Nazioni Unite, sono stati fatti vari tentativi per dare risposta affermativa, tentativi
che possono ricondursi a due filoni. Il primo è il filone umanitario: vi è chi sostiene che interventi
armati siano ammissibili per proteggere la vita dei propri cittadini all’estero o anche per ridurre alla
ragione Stati che compiano violazioni gravi dei diritti umani nei confronti dei loro stessi cittadini (è
quest’ultimo il caso dell’intervento degli Stati della NATO contro la Repubblica jugoslava per i
massacri compiuti nel Kosovo). Sempre al filone umanitario vanno riportati i casi d’intervento
contro Stati antidemocratici che praticano il contrabbando di droga. L’altro filone è quello
dell’estensione della categoria della legittima difesa individuale e collettiva ad ipotesi chiaramente
non previste dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite: l’estensione è stata praticata per legittimare
l’uso della forza in via preventiva o per giustificare le reazioni contro Stati sul cui territorio gruppi
terroristici stabiliscono le loro basi e preparano attacchi contro altri Stati, per giustificare ad es, i
bombardamenti della Libia e dell’Iraq ad opera degli Stati Uniti nel 1986 e nel 1993. Per quanto
riguarda la dottrina della legittima difesa preventiva, essa è contenuta nel documento intitolato “La
strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”, presentata al Congresso nel settembre 2002
dall’allora Presidente degli Stati Uniti. Secondo tale documento la legittima difesa preventiva
potrebbe essere esercitata dagli Stati Uniti ogni qualvolta ciò si rendesse necessario per prevenire
una imminente minaccia o un imminente attacco con armi di distruzione di massa o atti di
terrorismo.
[Per conciliare l’illegalità dell’uso della forza con la possibilità di giustificarla moralmente e politicamente vi è chi distingue tra
legalità e legittimità. Sulla legittima difesa preventiva la CIG ha evitato di pronunciarsi nei casi in cui si è occupata della legittima
difesa, ma si è limitata a constatare che la legittima difesa preventiva non era stata invocata per giustificare l’uso della forza].
La legalità dell’uso della forza ha sempre suscitato l’opposizione da parte di molti Stati, in
prevalenza dei più deboli. Anche in dottrina forti dubbi sono stati sempre sollevati. Per quanto
riguarda il filone umanitario, si è insistito sul fatto che l’uso della forza non possa che essere
autorizzato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. A sua volta l’estensione dei casi di legittima
difesa è apparsa niente più che un espediente per giustificare un illegittimo uso della forza, dato che
l’attacco armato comporta l’utilizzo di forze militari da parte di uno Stato e dato che la risposta
all’attacco non può che essere immediata e diretta a respingere un’aggressione.
[La tesi della legittima difesa, anche nel caso di attacchi terroristici su vasta scala, come l’attacco alle Torri Gemelle, lascia assai
perplessi, trattandosi comunque di crimini internazionali individuali, che come tali andrebbero puniti, senza produrre altre vittime
innocenti. E’ sintomatico del resto che, in sue risoluzioni del Consiglio di sicurezza adottate subito dopo l’attacco e prima
dell’intervento delle forze della Nato è proprio la lotta al crimine internazionale che viene in rilievo. E’ stato sostenuto che, se la
nozione di legittima difesa è limitata alla risposta ad un attacco armato da parte di uno Stato contro un altro Stato determinati casi di
uso della forza potrebbero rientrare comunque in una diversa accezione di autotutela. Si tratterebbe dei casi in cui uno Stato reagisce
militarmente contro attacchi terroristici o simili contro il suo territorio, e ciò sempre che lo Stato dove il gruppo armato si trova non
sia in grado o non voglia impedire l’azione terroristica. La tesi trae spunto da quanto si sosteneva fino alla seconda guerra mondiale
circa la possibilità che l’autotutela comprendesse una azione in sostituzione dello Stato colpevole del mancato controllo del suo
territorio. Non pare che la difesa in sostituzione trovi un adeguato riscontro nella prassi. Del resto la tesi è presentata come una
ipotesi la cui fondatezza attende ulteriori conforme nella prassi e per tanto essa ha un indubbio valore scientifico. Egualmente come

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tendenza presenta la tesi secondo cui lo Stato che tollera sul suo territorio l’azione di gruppi terroristici sarebbe direttamente
responsabile per tale azione, e per ciò passibile di attacchi in legittima difesa].
Senza dubbio il divieto della minaccia o dell’uso della forza che normalmente è sentito come
cogente nell’ambito della comunità internazionale, ha come pendant il sistema accentrato di
sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite e deve quindi fare i conti con nota
inefficienza di tale sistema. Quando la forza è usata su larga scala, quando si è in presenza di una
vera e propria guerra, e d’altro canto il sistema di sicurezza collettiva dell’ONU non riesce a
controllarla e a funzionare, c’è da prendere atto ce il diritto internazionale ha esaurito la sua
funzione. La guerra non può allora essere valutata giuridicamente ma solo politicamente e
moralmente e può essere giustificata o condannata a seconda dei valori che persegue e del suo
eventuale presentarsi come il male minore. Ma dal punto di vista giuridico, essa non è né lecita né
illecita, è indifferente. C’è anche da tenere presente, però, che, quando la guerra è scatenata, entra in
vigore tutto un corpo di regole, sia consuetudinarie che pattizie, il ius in bello, contrapposto allo jus
ad bellum, sul quale ultimo valgono per l’appunto le considerazioni ora fatte in tema di liceità della
guerra. Lo jus in bello è costituito da norme che tendono a mitigare le asprezze della lotta tra i
belligeranti, a proteggere le popolazioni civili, a tutelare i Paesi estranei al conflitto e ad imporre la
punizione dei crimini di guerra. Vanno ricordate poi le norme che disciplinano la violenza bellica ed
i rapporti con i neutrali, nonché le norme a protezione delle vittime dei conflitti armati e della
popolazione civile, confluite nelle Convenzioni di Ginevra del 1949. Per capire cosa significhi il
divieto dell’uso della forza e quale sia la forza normalmente vietata occorre tenere presente la
distinzione tra forza internazionale e forza interna. Vietata è la forza internazionale, ossia le
operazioni militari di uno Stato contro un altro Stato. Ciò che invece il diritto internazionale non
vieta è l’uso della forza interna, ossia quella che rientra nel normale esercizio della potestà di
governo dello Stato.
[Poiché un’azione dello Stato rientrante nella forza interna, e precisamente un’azione di polizia, può anche avere carattere violento, la
distinzione tra forza internazionale e forza interna diviene difficile in presenza di certi casi limite. E’ chiaro che nessun problema di
classificazione si pone se un poliziotto spara contro un malfattore, anche straniero. Per quanto possa sembrare semplicistico, l’unico
criterio utilizzabile sembra quello del luogo dove l’azione dello Stato è commessa: l’impiego della forza da parte dello Stato nei
limiti del suo territorio e degli altri spazi soggetti alla sua sovranità è sempre un’azione di polizia interna sempre che non abbia come
oggetto dei mezzi bellici che si trovino sul suo territorio con la sua autorizzazione; al contrario, l’impiego della forza da parte dello
Stato contro comunità o mezzi di altri Stati fuori del suo territorio o degli spazi sottoposti alla sua sovranità realizza l’ipotesi dell’uso
della forza internazionale].
* La specie più importante di autotutela è la rappresaglia o contromisura. Secondo l’insegnamento
comune, la contromisura consiste in un comportamento dello Stato leso, che in sé sarebbe illecito,
ma che diviene lecito in quanto costituisce reazione ad un illecito altrui. In altri termini, lo Stato
leso può, per reagire contro lo Stato offensore, violare a sua volta gli obblighi che gli derivano da
norme consuetudinarie. Le contromisure incontrano vari limiti; un limite molto importane tra quelli
di carattere generale è costituito dalla proporzionalità tra violazione subita e violazione commessa
per rappresaglia. Non si tratta di una perfetta corrispondenza tra le due violazioni: più che la
proporzionalità il diritto internazionale richiede che non vi sia una eccessiva sproporzione tra le due
violazioni. E’ chiaro che, se sproporzione c’è, la contromisura diviene illecita per la parte eccedente;
ed è chiaro pure che la strada più praticabile è quella di farla consistere nella violazione del
medesimo obbligo violato. Un altro limite è costituito dall’impossibilità di ricorrere a violazioni del
diritto internazionale cogente anche nel caso in cui si tratti di reagire contro violazioni dello stesso
tipo. Poiché tra le norme di jus cogens vi è anche quella che tutela la dignità umana, resta assorbito
dal rispetto del diritto cogente il limite del rispetto dei principi umanitari che la dottrina ha sempre
ricollegato alle rappresaglie consistenti nell’inosservanza degli obblighi verso gli stranieri. Il diritto
cogente segna esattamente l’ambito entro il quale la contromisura diviene illegittima: se gli Stati
possono derogare ad una norma mediante accordo, non si vede perché non possano derogarvi a
titolo di contromisura. A parte il rispetto per la dignità umana e il divieto delle gross violation dei
diritti umani o a quelle relative alle immunità degli agenti diplomatici. Tutto ciò che si può dire è
che lo Stato possa violarle solo per reagire a violazioni esattamente corrispondenti, e cioè quando i
suoi cittadini o i suoi agenti diplomatici abbiano subito le stesse violazioni. Si ritiene infine che alla
contromisura non possa farsi ricorso se non si sia prima tentato di giungere ad una soluzione

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concordata della controversia. In realtà la prassi non è affatto univoca e non si può dire pertanto che
una regola rigida si sia formata sul punto. Inoltre nulla può impedire ad uno Stato che si trovi a
dover fronteggiare una situazione di emergenza di prendere le necessarie contromisure.
* Il termine contromisura è da considerarsi più appropriato del classico termine rappresaglia, ma
pur cambiando le parole, la sostanza non muta. Il nuovo termine di raccomanda proprio perché non
sottolinea tale carattere ma indica qualsiasi violazione del diritto internazionale che lo Stato leso
ponga in essere nei confronti dello Stato offensore per reintegrare l’ordine giuridico violato. Tra le
contromisure va annoverata anche l’inosservanza del divieto dell’uso della forza nel caso in cui
occorra respingere un attacco armato. Tutti gli elementi essenziali sono presenti in questa reazione
contro il più grave illecito che uno Stato possa commettere; in particolare, come ha ribadito anche la
CIG nelle già citate sentenze tra Nicaragua e Stati Uniti e tra Iran e Stati Uniti, è presente un limite
della proporzionalità tra attacco subito e contrattacco. La più gran parte della dottrina tende a
distinguere la legittima difesa dalla rappresaglia; ma la distinzione si fonda su argomenti che sono
superati da altre considerazioni. In realtà è lo stesso termine legittima difesa che è adoperato in
modo improprio. La legittima difesa ha essenzialmente carattere preventivo, dunque non tanto di
respingere gli attacchi, quanto di prevenire l’aggressione altrui.
* Come specie del genere autotutela va considerata anche la ritorsione che si distingue dalla
rappresaglia o contromisura in quanto non consiste in una violazione di norme internazionali ma in
un comportamento soltanto inamichevole. Si dice che la ritorsione non sia una forma di autotutela
dato che lo Stato può sempre tenere un comportamento inamichevole verso un altro Stato anche
senza aver subito un illecito. L’opinione non è convincente perché, in un ordinamento come quello
internazionale in cui manca un sistema accentrato di garanzie per l’attuazione del diritto, non è il
caso di sottilizzare sui mezzi di pressione che gli Stati possono porre in essere per sopperire a tale
mancanza, purché si tratti di mezzi leciti. Nella ritorsione insomma è difficile separare le
motivazioni politiche da quelle giuridiche, ma non si può per ciò rinunciare a considerarla come
forma di autotutela quando le seconde sono presenti. Un altro argomento per ricondurre la ritorsione
alla categoria dell’autotutela è fornito dalla prassi in materia di sanzioni economiche alle quali
sempre di più si ricorre per far cessare violazioni di norme internazionali ed anche di norme che non
riguardano rapporti economici. Spesso tali sanzioni consistono contemporaneamente sia in
violazioni di obblighi precedenti sia in comportamenti soltanto inamichevoli e dunque in esse i
caratteri della contromisura e della ritorsione sono difficilmente separabili.
[La ritorsione va tenuta distinta dalle misure che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite può deliberare in caso di minaccia o
violazione della pace o di atto di aggressione. Tali misure comprendono l’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e
delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree e la rottura delle relazioni diplomatiche].
* Da chiederci è se reazioni di questo tipo possano provenire da Stati che non abbiano subito alcuna
lesione. Il problema è attuale e viene posto anzitutto per certe convenzioni multilaterali che tutelano
interessi che fanno capo alla collettività degli Stati contraenti o addirittura valori particolarmente
sentiti nell’ambito della comunità internazionale, come le convenzioni sui diritti umani. Esso viene
posto poi per le norme che prevedono obblighi erga omnes, ossia verso al comunità internazionale
nel suo complesso, quali le norme che vietano l’aggressione, il genocidio, l’apartheid, la schiavitù,
gli atti di terrorismo e simili. A norme del genere ha dedicato molta attenzione anche la CDI: nel
vecchio Progetto, la Commissione propose di distinguere i crimini internazionali degli Stati dai
semplici illeciti, qualificando i primi come violazioni gravi di obblighi ritenuti fondamentali dalla
comunità internazionale nel suo insieme e segnatamente del divieto dell’aggressione, dell’obbligo
di rispettare l’autodeterminazione dei popoli, del divieto di schiavitù, genocidio e apartheid e del
divieto di inquinare in modo massiccio l’atmosfera o le acque del mare. Sulla nozione di crimine
internazionale si è sviluppato dopo di allora un vivace dibattito dottrinale centrato per l’appunto
sulla questione se possano intervenire anche gli Stati non direttamente lesi. Dopo estese discussioni
e proposte la nozione di crimine è stata definitivamente abbandonata dalla Commissione, anche se
nel Progetto, l’azione degli Stati non direttamente lesi non cessa del tutto di essere presa in
considerazione. Dal punto di vista del diritto positivo internazionale la questione non può essere
risolta in termini teorici o formalistici. Non si può dire cioè che ciascuno di essi abbia senz’altro

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diritto a reagire con contromisure in caso di violazione ed in nome dell’interesse comune. Nulla
esclude invece che si tratti di obblighi sprovvisti di sanzioni, cioè pur sussistendo l’illecito
internazionale, non ne consegua una responsabilità, o ne consegua una forma attenuata di
responsabilità. E’ innegabile che la possibilità per Stati terzi di intervenire sia prevista da singole
norme consuetudinarie internazionali. Il caso più importante è quello della legittima difesa
collettiva in caso di attacchi armati, riconosciuta dalla Carta delle Nazioni Unite ed ammessa anche
dalla CIG nella sentenza tra Stati Uniti e Nicaragua: come la Corte ha stabilito, le misure, anche
militari, che lo Stato terzo può prendere devono rispondere ai criteri della necessità e della
proporzionalità e comunque presuppongono una precisa richiesta dello Stato aggredito. Un’altra
norma consuetudinaria è quella che vincola tutti gli Stati a negare effetti extraterritoriali agli atti di
governo emanati in un territorio acquistato con la forza o detenuto in dispregio del principio di
autodeterminazione dei popoli. Egualmente la norma che autorizza tutti gli Stati ad aiutare
militarmente i movimenti che lottano per la liberazione del loro territorio dal dominio straniero, e
quindi contro la violazione del principio di autodeterminazione dei popolo. E’ poi possibile che una
convenzione multilaterale preveda essa stessa il diritto di ciascuno Stato contraente di intervenire
con Sanzioni, anche se non direttamente leso. In realtà, si tratta di un’ipotesi piuttosto teorica dato
che il diritto pattizio tende a limitare anziché ad estendere l’esercizio dell’autotutela. Ciò che invece
caratterizza alcune convenzioni multilaterali è la creazione di meccanismi istituzionali di controllo
che possono essere messi in moto da ciascuno Stato contraente ma che comunque difettano di poteri
sanzionatori. Una menzione a parte va infine riservata al sistema di sicurezza collettiva delle
Nazioni Unite che costituisce un sistema sanzionatorio accentrato che può tra l’altro funzionare
anche per reagire contro violazioni di norme internazionali. E’ chiaro che la questione ha valore
residuale rispetto ai casi ora indicati. Trattasi di stabilire se, escluso il sistema delle Nazioni Unite,
esistano principi generali che consentano ad uno Stato di intervenire a tutela di un interesse
fondamentale della comunità internazionale o di un interesse collettivo. La prassi non offre elementi
significatici e decisivi in senso contrario. E’ sintomatico che coloro che si pronunciano a favore di
una generalizzata autotutela collettiva in caso di crimini, si riferiscono per la maggior parte a
crimini consistenti nell’uso della forza e in atti di aggressione: trattasi di reazioni collettive che
rientrano chiaramente nella legittima difesa collettiva, ammessa dall’art. 51 della Carta delle
Nazioni Unite e dal diritto consuetudinario; è impossibile, dunque, utilizzarle per ricavarne
conclusioni generalizzate. Gli altri casi in cui vere e proprie contromisure economiche o misure
caratterizzate dall’uso della forza sono state adottate da Stati non direttamente lesi non sono molti e
rivelano una tendenza piuttosto a senso unico, le reazioni provenendo dagli Stati occidentali. Altro è
l’atteggiamento dei Paesi socialisti e di numerosi Paesi del Terzo mondo, i quali hanno sempre
sostenuto che la sede legittima per sanzionarli fosse l’ONU, e soltanto l’ONU. E’ estremamente
significativo che la maggioranza degli Stati membri dell’ONU si sia nettamente pronunciata nel
senso qui sostenuto. Forse una norma consuetudinaria valevole per tutti i crimini internazionali si è
consolidata soltanto nel senso di vietare agli Stati la fornitura di armi e di assistenza militare alo
Stato autore del crimine. Esclusa la possibilità per gli Stati non direttamente interessati di prendere
contromisure, il discorso è diverso per quanto riguarda il ricorso a comportamenti soltanto
inamichevoli, ossia a ritorsioni, trattandosi, da un lato, di comportamenti leciti e quindi sempre
adottabili, e dall’altro di mezzi di pressione che possono rivelarsi efficaci per far cessare l’illecito e
che come tali sono inquadrabili nell’autotutela.
[Dopo aver delimitato la materia con riferimento alle violazioni gravi o sistematiche delle norme cogenti internazionali, il Progetto
individua come particolari conseguenze derivanti da simili violazioni l’obbligo di tutti gli Stati di non cooperare con lo Stato autore
dell’illecito e di non riconoscere come valida una situazione che dall’illecito deriva, ossia di tenere comportamenti che per l’appunto
sono qualificabili come ritorsione. L’art. 48 a sua volta aggiunge che gli Stati non direttamente lesi possano invocare la responsabilità
dello Stato autore dell’illecito, nel senso di pretendere la cessazione dell’illecito e la sua riparazione nell’interesse dello Stato leso o
dei beneficiari dell’obbligo violato. La pretesa non è considerata come assortita da contromisure].
* L’autotutela è istituto del diritto internazionale consuetudinario. Naturalmente lo Stato può
obbligarsi a non ricorrere a misure di autotutela o a ricorrervi a certe condizioni. Obblighi del
genere sono ricavabili soprattutto dai trattati istitutivi delle organizzazioni internazionali. E’
implicito nel vincolo di solidarietà e collaborazione tra gli Stati membri di qualsiasi organizzazione

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l’obbligo di non ricorrere all’autotutela, ed in particolare di non reagire con la propria inadempienza
a quella altrui, se non come estrema ratio e solo dopo aver esperito tutte le strade eventualmente
offerte dalla stessa organizzazione per ottenere giustizia. Può darsi inoltre che norme limitative
dell’autotutela, sia nel senso di non potervi neppure ricorrere sia nel senso di potervi ricorrere solo a
certe condizioni, siano espressamente previste. Un esempio del primo tipo è dato dall’art. del TFUE
che demanda esclusivamente alla Corte dell’Unione europea il compito di imporre il pagamento di
una somma forfettaria o di un penalità allo Stato membro il quale abbia compiuto una violazione del
Trattato e non abbia reso i provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti. Come esempio del
secondo tipo può ricordarsi lo stesso art. 51 della Carta e secondo il quale la legittima difesa contro
un attacco armato può essere esercitata fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le
misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Trattandosi di respingere un
attacco armato, le misure necessarie non possono che essere le misure militari direttamente
intraprese dal Consiglio o almeno quelle non implicanti l’uso della forza. Ad ogni modo il Consiglio
può decidere che, in un caso determinato, il limite posto dall’art. 51 non si applichi.
* Il tema delle misure non violente di autotutela ha i suoi riflessi nel diritto statale: l’operatore
giuridico interno, prima di concludere che una determinata legge o un certo atto amministrativo
siano contrari a norme materiali di diritto internazionale, dovrà chiedersi tra l’altro se una legge
siffatta non si giustifichi come misura di autotutela. Egualmente il giudice ordinario, chiamato a far
prevalere, in base al principio di specialità, le norme di un trattato rispetto alle norme di una legge
ordinaria, potrà negare tale prevalenza se la legge è inquadrabile come attuazione di autotutela.
Anche un atto amministrativo contrario ad un trattato eseguito con ordine di esecuzione legislativo
potrà considerarsi come legittimo se preso in autotutela. L’ordinamento interno può anche
predisporre dei meccanismi di carattere generale che rendano automaticamente praticabile la
violazione di norme internazionali da parte di organi statali. Un meccanismo del genere può essere
considerato in certi casi la condizione di reciprocità, secondo a quale un determinato trattamento
viene accordato agli Stati a condizione che il medesimo trattamento sia accordato agli Stati a
condizione che il medesimo trattamento sia accordato allo Stato nazionale, ai suoi organi e ai suoi
cittadini. Nei limiti in cui alla reciprocità è subordinata l’osservanza di determinate norme
internazionali, essa costituisce per l’appunto la base giuridica interna per l’adozione di
contromisure. In aderenza a quanto sostenuto circa i rapporti tra potere giudiziario e potere
esecutivo nell’amministrazione del diritto internazionale, la reciprocità dovrebbe essere sempre
accertata dal giudice e non dagli organi del potere esecutivo: gli organi esecutivi possono regolarsi
in base a criteri di opportunità politica, facendo così perdere alla reciprocità ogni caratteristica di
meccanismo automatico di autotutela. E’ quindi da approvare il fatto che, con due sentenze, la Corte
costituzionale italiana abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma secondo cui era il
Potere esecutivo che doveva autorizzare l’esecuzione forzata sui beni di uno Stato estero. La
condizione di reciprocità può rivelarsi utile soprattutto in rapporto a norme internazionali
consuetudinarie di cui il contenuto sia incerto o chiaramente in evoluzione. Essa costituisce allora la
base giuridica interna per l’eventuale difesa nei confronti degli Stati che anticipano la conclusione
del processo evolutivo del diritto consuetudinario adottando norme le quali appaiono ardite o
comunque eccessive allo stato attuale delle cose. La tecnica migliore adoperabile in tal caso dallo
Stato che sembra essere quella di adottare a propria volta le norme più ardite ma di dichiararne
l’inapplicabilità nei confronti degli Stati che si attengono al diritto preesistente. La reciprocità non è
utilizzata esclusivamente come presupposto per l’osservanza del diritto internazionale e quindi
come base per l’adozione di eventuali contromisure. Spesso costituisce soltanto il presupposto di
concessioni dettate da puri motivi di cortesia: come avviene ad uno Stato accorda l’immunità fiscale
agli agenti diplomatici stranieri per imposte diverse da quelle dirette personali a condizione di
reciprocità. Spesso poi la reciprocità può servire da presupposto sia dell’osservanza del diritto
internazionale sia di atti di cortesia. Quanto la reciprocità costituisce il presupposto di atti di
cortesia, essa attiene piuttosto alla materia delle ritorsioni, E come forma di ritorsione essa era per
l’appunto configurata dalla dottrina classica del diritto internazionale.

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CAPITOLO 47: La riparazione

* Resta da considerare l’obbligo che incombe sullo Stato autore dell’illecito di riparare il torto
causato. Nella riparazione si è soliti anzitutto far rientrare l’obbligo della restituzione in forma
specifica (restitutio in integrum) ossia del ristabilimento della situazione di fatto e di diritto esistete
prima del compimento dell’illecito, sempre che il ristabilimento sia possibile. Il dovere di far
cessare l’illecito e di cancellarne ove possibile gli effetti, appare un aspetto dello stesso obbligo
violato. Non è il caso quindi di configurare la restitutio in integrum come oggetto di un obbligo
nuovo prodotto dalla violazione.
* Anche la soddisfazione è considerata una forma di riparazione precisamente di danni morali e cioè
una forma di riparazione dovuta per il solo fatto che l’illecito sia stato compiuto e a prescindere
dalla richiesta di risarcimento degli eventuali danni di carattere patrimoniale. Si sostiene quindi che
lo Stato offensore sia tenuto a dare soddisfazione allo Stato leso mediante comportamenti come la
presentazione di scuse, l’omaggio ala bandiera o ad altri simboli dello Stato leso. Secondo una tesi,
sostenuta nella giurisprudenza internazionale e dalla stessa CIG nell’affare dello Stretto di Corfù, la
soddisfazione può anche essere costituita dalla semplice constatazione dell’avvenuta violazione ad
opera di un tribunale internazionale. In realtà tutto ciò che può dirsi dal punto di vista giuridico è
che la presentazione ufficiale di scuse o una prestazione di carattere simbolico, o il ricorso ad un
tribunale internazionale se accettati dallo Stato leso, facciano venire meno qualsiasi ulteriore
conseguenza del fatto illecito ed in particolare il ricorso a misure di autotutela. La soddisfazione,
lungi dal costituire l’oggetto di un obbligo dello Stato offensore, va a formare allora il contenuto in
una sorta di accordo che elimina ogni questione tra Stato offeso e Stato offensore.
* In definitiva, l’unica vera forma di riparazione è costituita dal risarcimento del danno prodotto
dall’illecito internazionale. Senza dubbio la prassi relativa alle violazioni delle norme sul
trattamento degli stranieri ed al conseguente esercizio della protezione diplomatica depone in tal
senso: lo Stato al quale lo straniero maltrattato appartiene fa valere per il risarcimento del danno, un
diritto suo proprio che nasce dalla lesione prodotta alla persona o ai beni del suo suddito. A parte
ciò, la prassi non può considerarsi del tutto certa. Può ritenersi pertanto che il risarcimento sia
senz’altro dovuto quando la violazione del diritto internazionale consista in un’azione violenta
contro beni, mezzi ed organi dello Stato, come il danneggiamento di sedi diplomatiche e consolari,
il ferimento di individui-organi, ecc. Fuori di questi casi è difficile ritenere che il diritto
internazionale consuetudinario imponga che il danno venga risarcito. Ancor meno sembra che un
obbligo di risarcimento scaturisca dalle guerre di aggressione: basti pensare in proposito alle
vicende delle riparazioni di guerra imposte alla Germania dopo la Prima guerra mondiale, mai
ottenute ed alla fine cancellate, e all’esperienza del secondo dopoguerra allorché gli Stati vinti
furono aiutati a ricostruire i loro Paesi. Né bisogna confondere la materia del risarcimento
globalmente richiesto agli Stati vinti per il solo fatto dell’aggressione con la riparazione dei danni
prodotti dalla guerra ai cittadini degli Stati vincitori, in particolare per quanto riguarda confische ed
espropriazioni dei loro beni. Per quanto riguarda i danni prodotti dalle lesioni arrecate agli stranieri
che ricoprono la qualifica di organo, occorre distinguere tra i danni subiti dall’individuo ed i danni
subiti dall’organizzazione statale. In ogni caso i danni risarcibili sono quelli materiali, dato che la
prassi è generalmente orientata nel senso di escludere la possibilità di tradurre in termini monetari le
violazioni del diritto internazionale che non producano danni siffatti. Va infine avvertito che
l’obbligo del risarcimenti del danno è quello che riguarda i rapporti tra Stati. Diverso è il caso dei
trattati i quali prevedono che lo Stato contraente abbia l’obbligo di risarcire direttamente gli
individui danneggiati dalla violazione del trattato medesimo. E’ il caso dell’art. 41 della
Convenzione europea sui diritti umani, il quale stabilisce che qualora, accertata dalla CEDU una
violazione della convenzione, il diritto interno non permetta di eliminare le conseguenze della
violazione, la Corte possa concedere un risarcimento alla parte lesa. Per quanto riguarda il diritto
internazionale generale, può ritenersi che, dall’obbligo che incombe sullo Stato di non compiere

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gravi violazioni dei diritti umani, possa ricavarsi un diritto al risarcimento da dar valere innanzi ai
giudici dello stesso Stato.

CAPITOLO 48: La responsabilità da fatti leciti

* Si discute se in alcuni casi la responsabilità internazionale, ed in particolare l’obbligo del


risarcimento dei danni, possa derivare da fatti leciti. Il settore soprattutto preso in considerazione a
tal fine è il settore delle attività altamente pericolose ed inquinanti, come quelle delle centrali
nucleari, delle industrie chimiche, ecc. E’ difficile dal punto di vista della teoria generale del diritto
riuscire a distinguere la responsabilità senza illecito dalla responsabilità senza colpa e quindi dalla
responsabilità oggettiva sia relativa che assoluta. Forse, tutto ciò che si può dire è che una
responsabilità obbiettiva possa essere altresì qualificata come responsabilità senza illecito quando lo
Stato sia chiamato a risponderne non soltanto delle attività svolte dai suoi organi ma anche delle
attività di individui posti sotto il suo controllo. A parte il regime convenzionale non sembra che il
diritto internazionale attuale conosca una responsabilità così sofisticata da fatto lecito. E’
significativo d’altro canto che, nel settore delle attività altamente pericolose ed inquinanti, le
manifestazione della prassi che si è soliti invocare sono sempre e soltanto quelle manifestazioni che
sono poste a base di un vero e proprio obbligo dello Stato di impedire gli usi nocivi del territorio. Va
infine notato che numerose convenzioni si occupano del risarcimento dei danni prodotti da attività
pericolose. Esse però non si riferiscono alla responsabilità internazionale ma a quella di diritto
interno. Sull’argomento della responsabilità da atto lecito la CDI si è esercitata niente di meno che
tra il 1980 ed il 2004. Dopo innumerevoli rapporti sottoposti al suo esame, la Commissione ha
adottato, rispettivamente, nel 2001 e nel 2004, due progetti di articoli, l’uno sulla prevenzione dei
danni oltre frontiera derivanti da attività pericolose, l’altro sulla ripartizione di tali danni, una volta
prodotti. Il primo progetto prevede una serie di obblighi autonomi imposti allo Stato sotto il cui
controllo le attività pericolose sono effettuate. Il secondo prevede l’obbligo degli Stati dal cui
territorio il danno è derivato, di avere al proprio interno adeguate leggi e ricorsi per far valere la
responsabilità di coloro che hanno svolto la relativa attività pericolosa. Infine, dopo una seconda
lettura da parte della CDI del progetto sulla distribuzione del danno, progetto approvato
dall’Assemblea generale, ha sancito la chiusura dei lavori della CDI nella materia.

CAPITOLO 49: Il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta della Nazioni Unite

* La Carta delle Nazioni Unite, da un lato sancisce il divieto dell’uso della forza nei rapporti
internazionali, dall’altro accentra in un organo delle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza, la
competenza a compiere le azioni necessarie per il mantenimento dell’ordine e della pace tra gli
Stati, ed in particolare ad usare la forza a fini di polizia internazionale. Per quanto riguarda il
sistema di sicurezza accentrato, esso ha poco e male funzionato fino alla caduta del muro di Berlino
a causa del diritto di veto riconosciuto alle grandi Potenze della divisione del mondo in blocchi
contrapposti e della guerra fredda. A partire dalla guerra del Golfo nel 1991, invece, esso ha avuto
una seconda vita, divenendo l’attività principale delle Nazioni Unite, in conformità a quella che era
stata l’idea dei redattori della Carta. Sebbene il veto sia ancora praticato il numero di interventi del
Consiglio è assai alto. La maggior parte degli interventi riguardano crisi interne agli Stati, come
guerre civili, violazioni gravi e ripetute dei diritti umani o situazioni post-conflittuali che richiedono
il mantenimento dell’ordine e l’assistenza alle autorità locali.
[Si è discusso in passato della competenza dell’Assemblea ad intraprendere anch’essa azioni a tutela della pace, competenza
certamente non prevista dalla Carta ma che aveva trovato appiglio nella prassi dei primi anni di vita dell’ONU. Nel quadro del
sistema di sicurezza collettiva è degna di nota l’istituzione di una Commissione per la costruzione della pace, avvenuta ad opera di
due risoluzioni dell’Assemblea generale e del Consiglio di Sicurezza nel Dicembre 2005 e definita come un “Corpo consultivo
intergovernativo”. La Commissione è destinata ad occuparsi delle situazioni post-conflittuali, del ristabilimento di condizioni normali
e di sviluppo nei Paesi dove dette situazioni si verificano, e del coordinamento di tutte le attività in materia, dando pareri al Consiglio
di Sicurezza e al Segretario generale, nonché all’Assemblea generale, al Consiglio Economico e Sociale, ed in circostanze
eccezionali agli Stati membri. 31 Stati la compongono, di cui 7 membri del Consiglio di Sicurezza, compresi i membri permanenti, 7

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eletti dall’Assemblea generale, 7 eletti dal Consiglio Economico e sociale, 5 selezionati tra i dieci maggiori contributori alle spese
delle Nazioni Unite e i maggiori contributori volontari ai vari Fondi dell’Organizzazione, e 5 tra i maggiori fornitori di personale
militare e di polizia civile per le missioni delle Nazioni Unite. In aggiunta, per le sessioni specificamente dedicate ad un singolo
Paese, possono essere invitati, oltre al Paese in questione, li Stati della regione coinvolti nel processo di ricostruzione, il maggior
contributore in termini finanziari, militari e di polizia, ed infine le istituzioni finanziarie, regionali e internazionali, che siano nel
singolo cado rilevanti].
* Il Consiglio di Sicurezza, accerta anzitutto l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione
della pace o di un atto di aggressione e stabilisce poi come l’interruzione parziale o totale delle
comunicazioni e delle relazioni economiche da parte degli altri Stati implicanti l’uso della forza,
debbano essere prese nei confronti di uno Stato. Prima di ricorrere alle une o alle altre, esso può
invitare le parti interessate a prendere quelle misure provvisorie che consideri come necessarie al
fine di non aggravare la situazione. Inoltre il Consiglio ricorre a misure che non trovano
fondamento in una delle norme di quest’ultimo. Trattasi di misure che debbono considerarsi come
previste da consuetudini sovrappostesi alle norme scritte. Nell’accertare se sussista una minaccia o
violazione della pace o un atto di aggressione, il Consiglio gode di un larghissimo potere
discrezionale che può avere modo di esercitarsi soprattutto con riguardo all’ipotesi della minaccia
alla pace: trattasi infatti di una ipotesi assai vaga ed elastica che non è necessariamente
caratterizzata da operazioni militari o comunque implicanti l’uso della violenza bellica e che quindi
si presta ad inquadrare i più vari comportamenti di uno Stato e le più varie situazioni. La
discrezionalità del Consiglio rimasta integra anche dopo l’adozione da parte dell’Assemblea
generale di una Dichiarazione sulla definizione dell’aggressione, e ciò anche a prescindere dalla
natura non vincolante delle Dichiarazioni di principi dell’Assemblea. Nella dichiarazione vengono
elencate una serie di ipotesi di aggressione, che vanno dall’invasione o occupazione militare, anche
se temporanea, al bombardamento da parte di forze aeree, terrestri o navali, al blocco dei poteri,
all’invio di bande di mercenari. Trattasi di un’elencazione che non incide sull’art. 39 e sulle
competenze del Consiglio di Sicurezza, ove si consideri che la stessa Dichiarazione riconosce: che
il Consiglio possa stabilire che la commissione di uno degli atti elencati non giustifichi il suo
intervento; che il Consiglio medesimo possa considerare come aggressione anche atti non elencati;
e che, la definizione dell’aggressione contenuta nella risoluzione non pregiudichi le funzioni degli
organi dell’ONU così come previste dalla Carta. La grande discrezionalità di cui gode il Consiglio
di Sicurezza nel decidere se agire a tutela della pace fa sì che il sistema di sicurezza collettiva abbia
caratteri abbastanza sui generis. Trattasi di un sistema il cui funzionamento non assicura in ogni
caso una sanzione contro violazioni gravi del diritto internazionale da parte degli Stati, ad es. contro
l’aggressione, il genocidio, l’attentato all’autodeterminazione dei popoli, ecc. Il Consiglio di
Sicurezza può infatti considerare come minaccia alla pace anche un comportamento che non leda in
alcun modo un interesse fondamentale della comunità internazionale nel suo complesso. In realtà il
sistema di sicurezza dell’ONU consiste non tanto di principi materiali, quanto di regole procedurali,
ossia di norme sulla competenza dell’organizzazione: è il rispetto di queste regole a garantire la
giuridicità degli interventi sanzionatori del Consiglio.
* Importante è anche esaminare le tre fasi attraverso le quali può passare l’azione del Consiglio:
A) Le misure provvisorie_ Al fine di prevenire un aggravarsi della situazione, il Consiglio di
Sicurezza può invitare le parti interessate ad ottemperare a quelle misure provvisorie che esso
consideri necessarie o desiderabili. Tali misure provvisorie non devono pregiudicare i diritti, le
pretese o la posizione delle parti interessate. Il Consiglio di Sicurezza prende in debito contro il
mancato ottemperamento a tali misure provvisorie. La provvisorietà si ricollega sia allo scopo che
siffatte misure possono perseguire, sia ai limiti posti al loro contenuto, non dovendo esse
pregiudicare i diritti o le posizioni delle parti interessate. Una misura provvisoria tipica in caso di
guerra è il cessate il fuoco. Va notato poi che spesso il Consiglio non è riuscito a passare alle misure
sanzionatorie di cui all’art. 41 o alle azioni armate di cui all’art. 42 ss. Secondo la lettera dell’art.
40, le misure provvisorie formano soltanto l’oggetto di un invito e quindi di una raccomandazione
del Consiglio. Nella dottrina e nella prassi si è cercato di attribuire natura vincolante all’invito, ma
non pare che la tesi sia da condividere. Essa si fonda soprattutto su di un argomento che sarebbe

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fornito dall’art. 40, là dove si dice che il Consiglio prende in debito conto il mancato
ottemperamento a tali misure provvisorie.
B) Le misure non implicanti l’uso della forza_ Di tali misure diciamo che a termini dell’art. 41, il
Consiglio può vincolare gli Stati membri dell’ONU a prendere tutta una serie di misure contro lo
Stato che minacci o abbia violato la pace oppure contro gruppi armati nel quadro della lotta contro
il terrorismo internazionale.
C) Le misure implicanti l’uso della forza_ Gli artt. 42 ss. si occupano dell’ipotesi che il Consiglio
decida di impiegare la forza contro uno Stato colpevole di aggressione, oppure di impiegarla
all’interno di uno Stato, intervenendo in una guerra civile. Il ricorso a misure violente da parte del
Consiglio è concepito come un’azione di polizia internazionale. La risoluzione con cui l’organo
decide di agire appartiene pertanto al genere delle risoluzioni operative attraverso le quali
l’Organizzazione non ordina o raccomanda qualcosa agli Stati, ma direttamente agisce. L’azione
diretta consiste nella utilizzazione sì di contingenti armati pur sempre nazionali ma sotto un
comando internazionale facente capo allo stesso Consiglio di Sicurezza. Si comprende quindi lo
scopo che gli artt. 42 ss. perseguono: da un lato di garantire l’obiettività e l’imparzialità dell’azione,
nonché di controllare che questa sia contenuta entro i limiti strettamente indispensabili al
mantenimento della pace, dall’altro di togliere qualsiasi iniziativa di carattere militare al singolo
Stato, che non si giustifichi per motivi di legittima difesa individuale o collettiva. Passando alle
modalità con le quali il Consiglio di Sicurezza può agire, gli artt. 43, 44 e 45 prevedono l’obbligo
per gli Stati membri di stipulare con il Consiglio degli accordi intesi a stabilire il numero, il grado di
preparazione, la dislocazione ecc. delle forze armate utilizzabili poi dall’organo, totalmente o
parzialmente via via che se ne presenti la necessità. Presupposto e cardine del sistema sono
considerati dalla Carta gli accordi speciali da stipularsi tra Stati membri dell’ONU e il Consiglio,
accordi formanti oggetto di un vero e proprio obbligo de contrahendo posto a carico dei primi. Gli
accordi per la messa a disposizione del consiglio dei contingenti militari nazionali che non hanno
mai visto la luce; né ha mai funzionato il Comitato di stato maggiore del Consiglio. Fino ad oggi il
Consiglio è intervenuto in crisi internazionali o interne con misure di carattere militare in due modi
diversi, talvolta cumulandoli. Esso ha creato delle Forze delle Nazioni Unite incaricate, ma con
compiti per lo più assai limitati, di operare per il mantenimento della pace o ha autorizzato l’uso
della forza da parte degli Stati membri, sia singolarmente sia nell’ambito di organizzazione
regionali. Le prime forze aventi compiti di peace-keeping furono organizzate all’epoca della guerra
fredda: la più importante fu l’ONUC che operò nel Congo negli anni ’60 per aiutare questo Paese ad
uscire dallo stato di guerra civile e di vera e propria anarchia in cui versava. La caratteristica
principale delle peace-keeping operations è costituita dalla delega del Consiglio al Segretario
generale in ordine sia al reperimenti sia al comando delle forze internazionali. Normalmente dette
operazioni sono autorizzate dal Governo locale hanno funzione di forza cuscinetto per quanto
riguarda il mantenimento dell’ordine nel territorio in cui operano, e possono usare le armi solo per
legittima difesa. A parte gli insuccessi che hanno spesso caratterizzato l’azione delle forze
dell’ONU, non sempre l’azione di queste ultime è stata commendevole. Basti ricordare il proposito
il brutale attacco dei caschi blu operanti in Somalia, contro il quartier generale di uno dei signori
della guerra somali, quale rappresaglia per l’uccisione di un gruppo di caschi blu pakistani: l’attacco
revocò la morte di vittime innocenti, suscitando la deplorazione del mondo civile.
* L’impiego delle Forze dell’ONU ha finito col rivelarsi abbastanza impraticabile per una serie di
ragioni politiche, militari, logistiche, finanziarie, ecc. Il Consiglio di Sicurezza è andato sempre più
orientandosi verso l’impiego diretto di contingenti militari da parte degli Stati membri, sia
individualmente sia per il tramite di organizzazioni regionali. Il Consiglio ha autorizzato o
raccomandato agli Stati singolarmente considerati di usare la forza contro uno Stato o all’interno di
uno Stato, rimettendo nelle loro mani il comando ed il controllo delle operazioni militari. In due
casi si è trattato dell’autorizzazione a condurre vere e proprie guerre internazionali, per respingere
aggressioni esterne. Il primo è il caso della guerra di Corea nel 1950 quando gli Stati membri furono
invitati ad aiutare la Corea del Sud a difendersi dall’attacco sferratole dalla Corea del Nord. Il

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secondo è il caso della guerra del Golfo condotta nel 1991 da una coalizione di Stati membri
autorizzati dal Consiglio ad aiutare il Governo kuwaitiano a riconquistarsi il territorio del Kuwait
occupato dall’Iraq. In altri casi, gli Stati membri sono stati autorizzati ad usare la forza in crisi
interne, come nel caso della Forza internazionale per Timor Est, INTERFET, creata nel 1999, o in
quello dell’autorizzazione data dal Consiglio nel 2003 alla forza internazionale sotto il comando
degli Stati Uniti, per fronteggiare la tragica situazione creatasi in Iraq in seguito alla non autorizzata
guerra condotta contro questo Paese. Infine, misure di minore entità sono poi state autorizzate o
raccomandate ai singoli Stati, contemporaneamente a misure non implicanti l’uso della forza ex art.
41. Per quanto riguarda la legittimazione dell’autorizzazione dell’uso della forza agli Stati da parte
del Consiglio, non sembra che sia inquadrabile sotto gli art. 42 ss. E non c’è dubbio che i fondatori
delle Nazioni Unite vollero concentrare nelle mani dell’Organizzazione il potere di polizia
internazionale in quanto garanzia di obbiettività ed imparzialità di ogni azione di carattere militare.
Inoltre si è fatta poi strada la prassi dell’autorizzazione agli Stati, la quale il Consiglio tende sempre
più a seguire sia pure mantenendo un certo controllo sulle operazioni, senza incontrare alcuna
opposizione da parte degli Stati.
* Talvolta il Consiglio di Sicurezza, invocando la necessità di mantenere la pace e la sicurezza, ha
organizzato il governo di territori oggetto di contrastanti rivendicazioni di sovranità o nei quali si è
verificata un’aspra guerra civile. In questo quadro sono stati anche decisi singoli atti di governo.
Già nei primi anni di vita delle Nazioni Unite il Consiglio fu chiamato a partecipare al governo di
un territorio oggetto di controversia territoriale come nel caso del Territorio Libero di Trieste
istituito dal Trattato di pace del 1947 tra l’Italia e le Potenze Alleate. In base all’Annesso VI al
Trattato, il Territorio Libero fu concepito come una sorta di piccolo Stato governato da un
Governatore, la cui nomina era affidata al Consiglio di Sicurezza e che avrebbe dovuto essere
assistito da autorità legislative, giurisdizionali ed esecutive locali. Da segnalare anche due esempi di
governi di territori instaurati dal Consiglio di Sicurezza ed affidati al Segretario generale con poteri
legislativi ed esecutivi. Trattasi dell’UNMIK e di UNTAET. La prima ha oggi funzioni assai
limitate da un lato, a causa della dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte dell’autorità
locale albanese e dall’altro a causa del passaggio di vari suoi poteri ad EUROLEX, amministrazione
facente capo all’UE. Come misura relativa al governo di territori può essere considerata l’istituzione
di tribunali internazionali per la punizione di crimini commessi da individui. I primi due esempi
sono quelli del Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia e del
Tribunale penale internazionale per i crimini commessi dal Ruanda. Il primo si occupa delle gravi
violazioni del diritto internazionale umanitario commesse in Jugoslavia solo il gennaio 1992; il
secondo delle stesse violazioni commessi nell’anno 1994. Sebbene i due tribunali non risiedano nei
territori rispetto ai quali la loro giurisdizione è esercitata essi possono essere considerati come
misure di governo relative a detti territori. Le misure consistenti nel governo di territori non trovano
un fondamento espresso nella Carta. Vari tentativi sono stati fatti in dottrina e nella prassi per
riportarle alla categoria delle misure coercitive. Particolarmente l’istituzione di Tribunali
internazionali ha costituito oggetto di dibattito. La tesi più diffusa a questo riguardo fa leva sull’art.
41, ritenendosi che all’applicazione di questo articolo non faccia ostacolo la circostanza che esso si
occupi di comportamenti che il Consiglio di Sicurezza può richiedere agli Stati (l’applicabilità
dell’art. 41 è stata sostenuta dallo stesso Tribunale per la ex Jugoslavia). La tesi non convince in
quanto la giurisdizione dei tribunali penali si esercita si individui, laddove le misure coercitive
previste dall’art. 41 sono chiaramente misure dirette contro uno Stato o al massimo contro gruppi
armati all’interno di uno Stato. Inoltre le misure ex art. 41 sono destinate a cessare quando la pace e
la sicurezza non sono più in pericolo. Un altro punto di vista che non convince è quello secondo cui
le misure che non rientrano in questo o quell’articolo della Carta possono trovar fondamento
nell’art. che attribuendo al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento
della pace e della sicurezza internazionale, avallerebbe qualsiasi misura purché necessaria alla
messa in atto di detta responsabilità. In altri termini, il Consiglio godrebbe così di una sorta di
potere residuale generale.

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* Del sistema di sicurezza collettiva facente capo al Consiglio di Sicurezza fanno parte anche le
organizzazioni regionali create sia per sviluppare la cooperazione tra gli Stati membri e provvedere
alla soluzione delle controversie tra i medesimi, sia per promuovere la difesa comune verso
l’esterno. L’appartenenza di queste organizzazioni al sistema di sicurezza collettiva dell’ONU si
fonda sul cap. VIII della Carta, ed in particolare sull’art. 53 il quale stabilisce che il Consiglio di
Sicurezza utilizza gli accordi e le organizzazioni regionali per azioni coercitive sotto la sua
direzione ed aggiunge che nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi
regionali sena l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. L’art. 53 va coordinato con l’art. 51 il
quale ammette la legittima difesa sia individuale che collettiva, intendendo per quest’ultima la
possibilità che la reazione ad un attacco armato provenga non solo dallo Stato attaccato ma anche da
terzi Stati; la legittima difesa collettiva fu anzi inserita nella Carta proprio in relazione
all’eventualità che si creassero alleanze difensive su scala regionale. Ne consegue che le
organizzazioni regionali possono agire coercitivamente contro uno Stato con l’autorizzazione del
Consiglio di Sicurezza in ogni caso e senza l’autorizzazione del Consiglio solo nel caso di risposta
ad un attacco armato già sferrato. Le organizzazioni regionali esistenti sono: la Lega degli Stati
arabi; l’Organizzazione degli Stati americani (che riunisce gli Stati Uniti e gli Stati dell’America
latina); l’Unione Europea Occidentale; l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico; l’Unione
africana; la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale; l’Organizzazione degli Stati
dei Caraibi Orientali; la Comunità di Stati indipendenti; l’Organizzazione per la Sicurezza e la
Cooperazione in Europa (OSCE).
[L’OSCE è una delle più estese organizzazioni regionali, i suoi membri provenendo dall’Europa, dall’Asia centrale e dall’America
del Nord. I suoi compiti sono stati definiti da varie Dichiarazioni dei Capi di Stato e di Governo degli Stati membri].
Si discute se lo statuto della NATO impedisca o meno di inquadrare l’Organizzazione stessa sotto
l’art. 53, oltre che sotto l’art. 51 della Carta. Tenuto conto dei fini dell’Organizzazione in base
all’art. 53 sia statutariamente illegittima. Sarebbe comunque invocabile un’applicazione analogica
dello Statuto. In effetti, nel caso della crisi nella ex Jugoslavia negli anni 1994-95, la NATO ha
senza problemi operato in attuazione di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Egualmente
nell’intervento in Afganistan.
[La partecipazione della NATO ad azioni militari per il mantenimento della pace non è stata oggetto di una modifica formale del
Patto atlantico ma è stata prevista da sue risoluzioni dell’Organizzazione, l’una sulla Concezione strategica dell’Alleanza e l’altra
sulla Nuova concezione strategica dell’Alleanza].

L’ACCERTAMENTO DELLE NORME INTERNAZIONALI NELL’AMBITO DELLA


COMUNITA’ INTERNAZIONALE

CAPITOLO 50: L’arbitrato. La Corte Internazionale di Giustizia

* La funzione giurisdizionale internazionale ha ancora oggi sostanzialmente natura arbitrale


essendo ancorata al principio per cui un giudice internazionale non può giudicare se la sua
giurisdizione non è
Stata preventivamente accettata da tutti gli Stati parti di una controversia.
* Gli Stati sono liberi di deferire ad un tribunale internazionale una qualsiasi controversia che
riguardi i loro rapporti; ciò che è importante è che essi siano d’accordo nel sottoporre la
controversia ad un’istanza giurisdizionale internazionale accettandone come vincolante la decisione.
Ai fini dell’esercizio della funzione giurisdizionale internazionale vale la nozione data dalla Corte
Permanente di Giustizia Internazionale e ripresa dall’attuale CIG per cui la controversia è un
disaccordo su di un punto di diritto o di fatto un contrasto, un’opposizione di tesi giuridiche o di
interessi tra due soggetti. Non esistono insomma controversie giustiziabili e controversie non
giustiziabili. Esistono solo controversie per e quali le parti assumono l’impegno di sottoporsi ad un
tribunale internazionale comunque costituito e controversie per le quali tale impegno non viene
assunto. La stessa distinzione tra controversie giuridiche e controversie politiche consistente nel
fatto che, nelle seconde, a differenza delle prime, entrambe le parti o almeno una non invocassero il
diritto internazionale ma pretendessero di mutarlo a loro favore, ha ormai scarso significato. E’ vero

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che importanti accordi tuttora vigenti limitano espressamente l’obbligo di regolamento giudiziario
alle controversie giuridiche; ma è anche vero che ciò ha assai di rado indotto i tribunali
internazionali a negare la propria giurisdizione. In ogni caso è una questione di interpretazione di
ogni singolo accordo in materia di giurisdizione internazionale.
* Il processo internazionale ha dunque carattere sostanzialmente arbitrale riposando sulla volontà, e
quindi sull’accordo, di tutti gli Stati parti di una controversia. Se tale volontà manca, non è possibile
costringere uno Stato a sottoporsi a giudizio. L’istituto dell’arbitrato internazionale si è
notevolmente evoluto a partire dalla seconda metà del secolo XIX: anche se tale evoluzione non ha
intaccato il fondamento volontaristico del processo internazionale. Si sono solo posti in essere degli
accorgimenti per favorire la formazione di un simile accordo e l’istituzionalizzazione della funzione
arbitrale. Punto di partenza dell’evoluzione dell’istituto è l’arbitrato isolato. Nel secolo XIX
l’arbitrato si svolgeva di solito nel modo seguente: sorta una controversia tra due o più Stati, si
stipulava un accordo, il compromesso arbitrale, col quale si nominava un arbitro o un collegio
arbitrale, si stabiliva eventualmente qualche regola procedurale, e ci si obbligava a rispettare la
sentenza così emessa. Si trattava della forma più rudimentale e approssimativa possibile di
accertamento giudiziale del diritto; forma approssimativa e rudimentale non solo per la sommaria
procedura seguita ma anche perché l’impegno arbitrale non poteva che coprire questioni minoris
generis. Rispetto all’arbitrato isolato, l’istituto si è andato da allora sviluppando sia per quanto
riguarda le caratteristiche di quel presupposto indispensabile per l’emanazione della sentenza, sia
per una sempre maggiore istituzionalizzazione del collegio arbitrale giudicante. Grosso modo
possono distinguersi due fasi di sviluppo:
I° Fase_ Già alla fine del secolo XIX e agli inizi del XX è cominciato a ricorrere a dei meccanismi
per facilitare l’accordo degli Stati necessario per l’instaurazione del processo internazionale: sono
comparsi così quel tipo di clausola compromissoria e di trattato generale di arbitrato, chiamati non
completi, per distinguerli dalla clausola compromissoria e dal trattato generale di arbitrato completi.
La clausola compromissoria non completa accede ad una qualsiasi convenzione e crea l’obbligo per
gli Stati di ricorrere all’arbitrato per tutte le controversie che sorgono in futuro in ordine
all’applicazione ed interpretazione della convenzione medesima; analoga è la funzione del trattato
generale di arbitrato che crea un obbligo generico di ricorrere ad arbitrato addirittura per tutte le
controversie che possano sorgere in futuro tra le Parti contraenti eccettuate alcune controversie
toccanti l’onore e l’indipendenza delle Parti o aventi natura politica. Clausola compromissoria e
trattato di arbitrato non completi creano soltanto un obbligo de contrahendo cioè l’obbligo di
stipulare il compromesso arbitrale. Nello stesso periodo si assiste poi all’avvio della tendenza ad
istituzionalizzare i tribunali internazionali, cioè a creare organi arbitrali permanenti e a predisporre
regole di procedura applicabili in ogni procedimento così instaurato. L’avvio
all’istituzionalizzazione ci ha con la Corte Permanente di arbitrato tuttora esistente, creata dalle
Convenzioni dell’Aja sulla guerra terrestre. Nella corte l’istituzionalizzazione è minima. Trattasi
infatti di un elenco di giudici, periodicamente aggiornato, tra i quali gli Stati possono scegliere ai
fini della composizione del collegio arbitrale. Anche le regole d procedura non sono molte e
comunque cedono di fronte a quelle eventualmente stabilite dalle Parti.
[Una forma analoga di organo giurisdizionale è quella prevista dalla Convenzione sulla conciliazione e promossa dalla CSCE, oggi
OSCE: per quanto riguarda l’arbitrato, il Tribunale viene costituito con membri indicati una volta per tutte dalla Parti e con membri
nominati volta a volta da un organo permanente, il Bureau].
II° Fase_ Nella seconda fase, che ha inizio con la fine della prima guerra mondiale, si è avuto
anzitutto un maggior processo di istituzionalizzazione con la creazione prima ella Corte Permanente
di Giustizia Internazionale, e poi con la Corte Internazionale di Giustizia. Quest’ultima, organo
delle Nazioni Unite, ha sostituito la Corte Permanente di Giustizia Internazionale, che ha sede
all’AJA e funziona in base allo Statuto annesso alla Carta dell’ONU e ricalcante lo Statuto della
vecchia Corte. La CIG presenta un forte grado di istituzionalizzazione: trattatasi di un corpo
permanente di giudici, eletti dall’Assemblea generale e dal Consiglio di Sicurezza, che giudica in
base a precise e complesse regole di procedura inderogabili dalle parti. Da notare che solo gli Stati
possono adire la Corte.

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[La CIG può decidere non solo secondo diritto ma anche secondo equità, se le Parti così le chiedono. Oltre alla giurisdizione in
materia contenziosa, la Corte svolge anche una funzione consultiva. Sebbene i pareri non siano vincolati, pure l’apporto che l’attività
consultiva ha dato alla ricostruzione di norme internazionali generali e all’interpretazione della Carta dell’ONU è significativo: si
pensi ad es. al parere sulla Convenzione sulla repressione del genocidio, che segnò una tappa fondamentale nella disciplina delle
riserve dei trattati o ai pareri sulla Namibia e sul Sahara occidentale. I pareri non sono vincolanti a termini della Carta, ma possono
divenire tali se, con una convenzione o altro atto vincolante, ci si impegni a rispettarli. In questo caso si è di fronte a veri e propri
impegni arbitrali, simili a quelli che fondano la giurisdizione della Corte in sede contenziosa. Il motivo di questa prassi è che la Corte
può essere adita da soggetti internazionali diversi dagli Stati].
La seconda fase è marcata da una decisiva evoluzione anche per quanto riguarda l’accordo
necessario per l’instaurazione del processo internazionale. Compare infatti la figura della clausola
compromissoria completa e del trattato generale di arbitrato, anch’esso completo, con riferimento ai
casi in cui la clausola compromissoria o il trattato di arbitrato non si limitino a creare l’obbligo di
stipulare il compromesso ma prevedono direttamente l’obbligo di sottoporsi al giudizio di un
tribunale internazionale già predisposto e perfettamente in grado di funzionare. Clausola
compromissoria e trattato generale di arbitrato, essendo completi, esplicano direttamente la
funzione esplicata dal compromesso, e permettono ad uno Stato contraente di citare unilateralmente
un altro Stato contraente di fronte al tribunale internazionale così investito della controversia. Il
fondamento del giudizio resta pur sempre volontario, quindi si resta nell’ambito dell’arbitrato.
Analogo al trattato generale di arbitrato completo è il procedimento previsto dall’art 36 dello
Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, articolo secondo cui “gli Stati aderenti al presente
Statuto possono in ogni momento dichiarare di riconoscere come obbligatoria ipso facto e senza
speciale convenzione, nei rapporti con qualsiasi altro Stato che accetti la medesima obbligazione, la
giurisdizione della Corte…”.
* I vari tipi di accordi istitutivi del processo arbitrale sebbene caratterizzanti ciascuno una certa
epoca, coesistono ancora oggi; essi poi non sono esclusivi, sussistendo dei tipi intermedi sui quali
non era qui il caso di soffermarsi. Il discorso sull’evoluzione dell’arbitrato è stato condotto da un
punto di vista rigorosamente giuridico, e da questo punto di vista è vero che persistono sia il grado
di istituzionalizzazione dei tribunali internazionali sia l’affinamento dei meccanismi diretti a
facilitare gli accordi di regolamento giudiziario, che hanno avuto inizio a partire dall’epoca della
Società delle Nazioni. E’ innegabile che l’arbitrato abbia attraversato una consistente fase di
declino, nel senso dello scarso numero di ricorsi alla CIG e per il rifiuto di eseguire le sentenze una
volta emesse. Dal primo punto di vista si distinsero gli Stai sorti dalla decolonizzazione, assai
diffidenti verso la Corte anche a causa di alcune sentenze da questa emesse, considerate contrarie ai
loro interessi. Per quanto riguarda il rifiuto di eseguire, si distinsero vari Stati ivi comprese grandi
Potenze, come gli Stati Uniti d’America.
[Le sentenze contestate dai nuovi Stati furono alcune decisioni relative alla situazione del sud-ovest africano].
La situazione si è andata modificando a partire dagli anni ’80 ed è poi esplosa negli ultimi tempi
fino al punto da far parlare di una giurisdizionalizzazione del diritto internazionale. Anche il ruolo
della CIG è aumentato enormemente rispetto al passato. A parte le eccessive generalizzazioni è
nell’attuale comunità internazionale che si va sempre più affermando la tendenza verso un diffuso
accertamento indipendente ed imparziale del diritto.
* Anche per le sentenze internazionali ci si può chiedere quali mezzi ne assicurino l’esecuzione in
via coattiva. E’ ovvio che il problema va riportato a quello dell’attuazione coattiva delle norme
internazionali: come per le norme così per le sentenze c’è da lamentare la scarsezza di mezzi
coercitivi a livello interstatale e da affidarsi al diritto interno degli stessi Stati che devono osservare
la sentenza. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, l’osservanza di una sentenza internazionale
deve ritenersi assicurata nel diritto interno dalle stesse norme che provvedono all’adattamento alle
regole internazionali di cui la sentenza abbia accertato il contenuto: ad es. la legge italiana di
esecuzione di un trattato comporta l’obbligo di osservare non soltanto il trattato ma anche
l’eventuale sentenza internazionale emessa, in ordine al trattato medesimo, nei confronti dell’Italia
o di persone che operano all’interno dello Stato italiano.

CAPITOLO 51: I Tribunali internazionali settoriali e regionali

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* Si vanno moltiplicando gli organi giurisdizionali internazionali che hanno competenze settoriali e
che il più delle volte presentano caratteristiche diverse dall’arbitrato, sia perché già per disposizione
dei loro trattati istitutivi possono essere aditi unilateralmente, sia perché alcuni di essi sono aperti
anche gli individui o addirittura sono creati per giudicare individui. Alcuni tra i tributi internazionali
settoriali hanno carattere regionale, altri, istituiti da trattati conclusi da un gran numero di Stati e
comunque non limitati a questa o quella regione, carattere universale. I tribunali regionali
riguardano di solito il settore dei diritti umani e della cooperazione, o integrazione, economica. La
moltiplicazione dei giudici internazionali sarebbe una delle cause della frammentazione del diritto
internazionale. Ciò perché più giudici possono pronunciarsi in modo diverso sull’esistenza o
interpretazione della stessa norma. In realtà i casi in cui ciò è avvenuto sono pochissimi.
* Competenze per buona parte sui generis presenta la Corte di Giustizia dell’UE, con sede a
Lussemburgo. Trattasi di competenze tanto sui generis da rendere legittimo il dubbio che alla Corte
possa attribuirsi la qualifica di tribunale internazionale. Sulla Corte di Lussemburgo si riflettono
infatti quelle incertezze circa l’esatta qualificazione dell’UE, ente a metà strada tra le organizzazioni
internazionali e lo Stato federale parziale. Con gli altri tribunali internazionali la Corte ha in
comune soltanto l’origine pattizia, essendo sorta e disciplinata dai Trattai che via via hanno dato
vita alle Comunità europee prima, e poi all’Unione. La maggior parte delle sue competenze sono
accostabili piuttosto a quelle dei tribunali interni ed il loro esercizio non dipende dalla volontà degli
stessi soggetti destinati a subirle. In sintesi le principali competenze della Corte sono le seguenti. A
parte una funzione arbitrale di tipo classico, degne di menzione sono: a) la competenza in tema di
ricorsi per violazione dei Trattai da parte di uno Stato membro; b) quella relativa al controllo di
legittimità sugli atti degli organi dell’Unione; c) quella infine concernente le questioni pregiudiziali.
A) I ricorso diretti a far accertare la violazione dei Trattati da parte di uno Stato membri sono
proponibili dalla Commissione o da ciascun altro Stato membro previa consultazione della
Commissione. Lo Stato accusato non può sottrarsi al giudizio della Corte e, se questa lo dichiara
inadempiente, è tenuto a prendere tutti i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza comporta;
B) Il controllo di legittimità sugli atti comunitari è limitato agli atti legislativi e non legislativi
vincolanti del Consiglio, della Commissione, della Banca centrale, del Parlamento e del Consiglio
europeo, ma per questi ultimi due solo limitatamente agli atti che sono destinati a produrre effetti
per i terzi. I vizi degli atti che comportano l’annullamento ex tunc dei medesimi, sono dati
dall’incompetenza dell’organo, dalla violazione di forme sostanziali, dalla violazione del Trattato o
di altra regola di diritto relativa alla sua applicazione e dallo sviamento di potere; essi sono
denunciabili da ciascuno Stato membro, dal Consiglio, dalla Commissione e dal Parlamento, oltre
che dai singoli, persone fisiche o giuridiche;
C) La competenza in tema di questioni pregiudiziali è disciplinata dall’art. 267 del TFUE: quando
innanzi ad un giudice di uno Stato membri, è sollevata una questione relativa all’interpretazione dei
Trattati o alla validità o interpretazione degli atti degli organi dell’Unione, tale giudice ha il potere o
il dovere di sospendere il processo o di chiedere una pronuncia della Corte al riguardo. La Corte
decide con urgenza qualora il rinvio pregiudiziale è effettuato in un giudizio nazionale relativo ad
una persona in stato di detenzione. La pronuncia della Corte ha effetto immediato nel giudizio
nazionali a quo, ma l’interpretazione in essa racchiusa sarà ovviamente utilizzata in tutti gli Stati
membri finché la Corte non sia sollecitata a mutarla attraverso una successiva pronuncia. La
competenza sulle questioni pregiudiziali ha dunque uno scopo ben preciso di assicurare
l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione negli Stati membri. La sentenza della Corte le
quali comportano un obbligo pecuniario, costituiscono titolo esecutivo negli Stati membri. Alla
Corte è affiancato il Tribunale di primo grado dell’Unione europea, la cui principale competenza ha
per oggetto i ricorsi promossi dalle persone fisiche e giuridiche in tema di controllo sulla legittimità
degli atti. Le sentenze emesse dal Tribunale sono impugnabili davanti alla Corte per motivi di
diritto.

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* Nel campo del diritto internazionale marittimo opera oggi il Tribunale Internazionale del Diritto
del Mare, il cui Statuto è contenuto nell’Annessi VI alla Convenzione di Montego Bay. Il Tribunale
con sede ad Amburgo, è composto da venuto giudici indipendenti, eletti tra persone che hanno una
competenza notoria nel campo del diritto del mare. Nel suon seno è costituita una Camera per le
controversie sui fondi marini. Non è possibile dar conto delle norme che si occupano delle
competenze del Tribunale e che si inseriscono in un sistema assai sofisticato di soluzione delle
controversi, previsto dalla Convenzione. Il tribunale non ha prodotto un cospicuo numero di
sentenze, rappresenta sono una delle istanze giurisdizionali che sono a disposizione delle parti. Per
le controversie tra Stati esso non si discosta molto dai tribunali arbitrali istituzionalizzati.
Competenze più varie ha la Camera per le controversie sui fondi marini, che può essere adita anche
dagli individui; ma si tratta di un organo che non ha finora funzionato.
* Un sistema assai complesso di soluzione delle controversie tra Stati nel settore del commercio
internazionale è quello predisposto dall’Intesa sulle regole e procedure relative alla soluzione delle
controversie che è contenuta dell’Allegato all’Accordo istitutivo dell’OMC, l’Organizzazione nata
dagli sviluppo della prassi relativa al GATT. Tale sistema fa capo ad un organo dell’OMC nel quale
sono rappresentati tutti gli Stati membri, l’Organo per la soluzione delle controversie, e si articola in
due gradi di giudizio, il primo costituito da panels di esperti volta a volta nominati dall’Organo, il
secondo consistente invece in un corpo permanente di appello sono chiamati ad applicare il diritto;
ma i penals hanno anche una funzione conciliativa, al cui insuccesso è anzi subordinata la decisione
della controversia secondo il diritto. Il sistema può considerarsi di carattere tendenzialmente
giurisdizionale in quanto caratterizzato anche da una sua pur limitata possibilità di interventi
dell’Organo politico. Questo può decidere all’unanimità, di non costituire un panel, oppure di non
approvare le decisioni emesse in prima o seconda istanza, decisioni che devono formalmente essere
ad esso sottoposte.
* La Corte Europea dei Diritti dell’uomo , con sede a Strasburgo, è l’organo che controlla il rispetto
della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei
suoi protocolli che ne formano parte integrante, da parte degli Stati contraenti. La Corte, nata dalla
fusione, con la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo è formata da un numero di giudici pari
a quello degli Stati contraenti e scelti tra giureconsulti di notoria competenza o persone che
posseggano i requisiti richiesti per l’esercizio delle più alte funzioni giudiziarie. La composizione e
le funzioni della Corte sono disciplinate dagli art. 19 ss. della Convenzione e dalle norme del
regolamento interno della Corte. Questa giudica sia attraverso Comitati composti da 3 giudici, sia
attraverso Camere di 7 giudici. Una grande Camera di 17 giudici, può poi essere chiamata
eccezionalmente a pronunciarsi su richiesta di una Camera oppure come una sorta di istanza, il
giudice unico, competente a dichiarare irricevibile un ricorso individuale o a cancellare questo dal
ruolo, se il caso è di facile soluzione, oppure, qualora abbia dei dubbi a rinviare il caso ad un
Comitato o ad una Camera. Il ricorso alla Corte può essere preposto da un altro Stato contraente
nell’interesse obbiettivo, sia da qualsiasi persona fisica o giuridica o organizzazione o gruppo di
individui, ma in questo caso occorre che il ricorrente si pretenda vittima di una violazione della
Convenzione. Il ricorso individuale ha mancato il grande successo del sistema di Strasburgo,
provocando una giurisprudenza estremamente ricca da parte della Commissione e dalla Corte. Tale
successo ha anche il suo risvolto negativo, dato che la Corte non riesce a smaltire il suo ruolo.
Constatata la violazione della Convenzione da parte di uno Stato contraente e la Corte può
concedere alla parte lesa un’equa soddisfazione, di solito una somma di denaro.
* L’esperienza del sistema di controllo sul rispetto dei diritti umani instaurato dalla Convenzione
europea dei diritti dell’uomo ha servito da modello ad altri sistemi sia regionali che universali. Il
sistema regionale più importante dopo quello europeo è stato posto in essere dalla Convenzione
interamericana dei diritti dell’uomo, firmata a Sano José de Costa Rica ed entrata in vigore nel
1978; ne sono Stati contraenti la maggior parte degli Stati del continente americano, fra quali però
non figurano gli Stati Uniti. Alla Convenzione è stato aggiunto nel 1988 il Protocollo di San
Salvador sui diritti economici, sociali e culturali. Il controllo sul rispetto dei diritti riconosciuti dalla

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Convenzione è affidato ad una Commissione e ad una Corte di giustizia. Dal 1986 è entrata in
vigore anche la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli. L’unico organo istituito dalla Carta,
la Commissione, un organo che con un po’ di buona volontà può essere definito quasi
giurisdizionale: esso può ricevere comunicazioni, ma il suo potere decisionale in ordine a tali
comunicazioni è assai limitato, concretandosi nella possibilità di trasmettere rapporti confidenziali
all’Assemblea dei Capi di Stato e di Governo dell’Organizzazione per l’Unità Africana. In ambito
OUA è stata anche istituita una Corte dei diritti dell’uomo, che ha cominciato a funzionare nel 2009,
emettendo la sua prima sentenza. Passando dal piano regionale a quello universale vengono in
rilievo i due Patti internazionali promossi dalle Nazioni Unite, l’uno sui diritti economici, sociali e
culturali, l’altro sui diritti civili e politici. Per quanto riguarda gli organi preposti al controllo
sull’osservanza dei patti, bisogna dire che essi sono poco paragonabili a quelli funzionanti nel
quadro dei sistemi europeo ed americano. Il Patto sui diritti civili e politici prevede il
funzionamento di un Comitato per i diritti dell’uomo composto di 18 membri eletti, a titolo
individuale, dagli Stati contraenti per un periodo di 4 anni. Il Comitato può prendere in esame
reclami presentati contro uno Stato contraente da altri Stato o da individui, se lo Stato accusato ha,
per i reclami statali, dichiarato di accettare la competenza del Comitato in materia oppure, per i
reclami individuali, ratificato un Protocollo opzionale ad hoc. Nell’uno e nell’altro caso la
procedura non sfocia mai in atti vincolanti, ma in rapporti e in tentativi di amichevole
composizione. Il Patto sui diritti economici, sociali e culturali non prevede l’istituzione di un organo
simile a quello istituito dal Patto sui diritti civili e politici, limitandosi a stabilire che gli Stati
contraenti sottopongono rapporti periodici al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite
perché formuli raccomandazioni di ordine generale, o anche sottoporli all’attenzione
dell’Assemblea generale.
* Alla formazione delle norme internazionali sui crimini di guerra e contro l’umanità si accompagna
la tendenza ad attribuire la corrispondente giurisdizione penale a tribunali internazionali. Trattasi
per ora soltanto di una tendenza, che incontra molte difficoltà a tradursi in realizzazioni concrete di
una certa ampiezza. La prima esperienza in materia fu quella del Tribunale di Norimberga, creato
nel 1945 con l’Accordo di Londra, concluso tra le Potenze che occupavano la Germania debellata,
per la punizione dei crimini nazisti. Il Tribunale di Norimberga trovò la sua giustificazione, dal
punto di vista giuridico, e fu in pratica reso possibile, dall’occupazione della Germania. Lo stesso
deve dirsi del Tribunale di Tokyo che giudicò i criminali di guerra giapponesi e che fu addirittura
costituito con una decisione della sola Potenza occupante, gli Stati Uniti. Solo recentemente
l’esperienza del 1945 è stata ripetuta con la costituzione del Tribunale per i crimini commessi nella
ex Jugoslavia a partire dal gennaio 1991 e del Tribunale per i crimini commessi in Ruanda tra
l’inizio di gennaio e la fine di dicembre 1994. Il Tribunale per la ex Jugoslavia, composto di due
Camere di prima istanza, di tre giudici ciascuna, ed una Camera di appello di 5 giudici, funziona in
base ad uno Statuto allegato alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza e ad un regolamento che il
Tribunale stesso si è dato. Lo Statuto tra le altre cole elenca i crimini di guerra e prevede la priorità
del Tribunale rispetto alle Corti nazionali, nel senso che le Corti devono spogliarsi della loro
competenza e gli Stati che detengono il presunto criminale devono consegnarlo al Tribunale, che ha
sede all’Aja. Il regolamento disciplina la procedura ma contiene anche norme sostanziali in materia
di pene, di circostanze aggravanti e attenuanti ecc. Una disciplina analoga è prevista per il Tribunale
per il Ruanda, che ha in comune con quello per la ex Jugoslavia i membri della Camera di appello e
quelli dell’ufficio del Pubblico Ministero. Entrambi i Tribunali hanno finora emesso un buon
numero di sentenze. Nel 1998 è stata poi creata la Corte penale internazionale a carattere
permanente, il cui Statuto venne adottato a Roma da un’apposita Conferenza di Stati ed aperto alla
firma e alla ratifica di tutti gli Stati. Finora la Corte ha deluso le aspettative; ciò ove si consideri che
neppure una sentenza di condanna è stata ancora emessa. Lo Statuto, che è in vigore dal 2002 tra
origine da un progetto della CDI. Esso prevede che la giurisdizione della Corte sia complementare
rispetto a quello degli Stati, nel senso di poter essere esercitata solo quando lo Stato che ha
giurisdizione sul crimine non voglia o non abbia la capacità di perseguirlo. I crimini di cui la Corte

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è competente a conoscere sono i crimini di genocidio, di guerra e contro l’umanità. Lo stesso art. 5
prevedeva che venisse in seguito introdotta la competenza della Corte con riguardo al crimine di
aggressione dopo averlo definito. L’emendamento è stato adottato dalla Conferenza degli Stati
membri tenutasi a Kampala. In realtà trattasi di una presa in giro piuttosto che di una significativa
decisione: a parte la definizione di aggressione la competenza della Corte potrà esercitarsi, a
prescindere da altre condizioni solo a partire da un anno successivo alla ratifica dell’emendamento
da parte di 30 Stati parti e dopo che una decisione sia presa con la maggioranza richiesta per gli
emendamenti. Ricordiamo infine la creazione di Tribunali penali interni a composizione
internazionale, istituiti in Paesi in sviluppo ed in situazioni post-conflittuali.
* Competenze limitate alle controversie di lavoro con i funzionari delle organizzazioni
internazionali hanno i tribunali istituiti all’interno di queste ultime, come ad es. il Tribunale
Amministrativo delle Nazioni Unite, il Tribunale Amministrativo dell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro ecc.

CAPITOLO 52: I mezzi diplomatici di soluzione delle controversie internazionali

* Tali mezzi si distinguono dai mezzi giurisdizionali di soluzione delle controversie in quanto
tendono esclusivamente a facilitare l’accordo delle parti: di conseguenza non hanno carattere
vincolante per le parto e anche quando non vengono trascurati gli aspetti giuridici della
controversia, è sempre il compromessi tra le opposte pretese a costituirne l’oggetto principale.
L’accordo tra le parti può essere facilitato da negoziali diretti tra le parti medesime; sicché i
negoziati sono considerati come il mezzo più semplice di soluzione diplomatica delle controversie.
E’ ovvio però che dal punto i vista giuridico, esso non presentano particolarità alcuna, un negoziato
per raggiungere un accordo potendo essere condotto sul qualsiasi oggetto e a prescindere
dall’esistenza di una qualsiasi controversia. Si parla poi di buoni uffici e mediazione quando si
verifica l’intervento di uno Stato terzo che è meno intenso nel caso dei buoni uffici e più penetrante
nel caso della mediazione. La differenza tra i due mezzi è più teorica che pratica: di solito con i
buoni uffici ci si limita ad indurre le parti della controversia a negoziare; nella mediazione c’è
invece una partecipazione più attiva del terzo alle trattative. Molto importante è la conciliazione che
è la forma diplomatica di soluzione delle controversie, quella che più si avvicina all’arbitrato. Le
Commissioni di conciliazione, istituite talvolta su base permanente e talvolta in modo occasionale,
sono di solito composte da individui e non da Stati ed hanno il compito di esaminare la controversia
in tutti i suoi aspetti. Alle Commissioni di conciliazione vanno accostate le Commissioni di
inchiesta il cui compito è invece limitato all’accertamento dei fatti. Spesso poi il ricorso alla
conciliazione è previsto come obbligatorio con la conseguente possibilità di dare unilateralmente
l’avvio alla procedura conciliativa. Tipiche sono le norme sul diritto dei trattati, le quali disciplinano
una complessa procedura di conciliazione, cui le parti sono obbligate a sottostare se non scelgono
un altro mezzo di soluzione della controversia; oppure le norme della Convenzione di Montego Bay
sul diritto del mare. Ai mezzi diplomatici vanno riportate anche quelle procedure di soluzione delle
controversie a carattere non vincolante ce si svolgono in seno ad organizzazioni internazionali. Si
tratta della funzione conciliativa delle organizzazioni internazionali, che assume una particolare
importanza in seno all’ONU e alle organizzazioni regionali. La funzione conciliativa delle
organizzazioni internazionali comprende le stesse procedure, ma ha come caratteristica particolare il
fatto di svolgersi in un quadro istituzionale. Ciò comporta che le procedure devono conformarsi alle
regole statutarie proprie di ogni singola organizzazione.
* I mezzi diplomatici esauriscono, insieme i mezzi giurisdizionali, i mezzi pacifici di soluzione
delle controversie. La Carta delle Nazioni Unite stabilisce che gli Stati membri hanno l’obbligo di
risolvere le loro controversie con mezzi pacifici. E l’art. 33 della stessa Carta ribadisce l’obbligo
delle parti di una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; di perseguirne una soluzione mediante
negoziati, inchieste, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad

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organizzazioni od accordi regionali, od altri mezzi pacifici di loro scelta. L’art. 33, secondo la CIG,
corrisponde al diritto internazionale generale è spesso richiamato nella prassi, ad es. nelle clausole
dei trattati internazionali relative alla soluzione delle controversie, e nella stessa giurisprudenza
della CIG. A causa della sua genericità si ritiene che esso si limiti a ribadire il divieto dell’uso della
forza.
* Alla soluzione pacifica delle controversie è dedicato un capitolo della Carta delle Nazioni Unite,
in cui è disciplinata la funzione conciliativa del Consiglio di Sicurezza. In base a ciò il Consiglio
dispone anzitutto di un potere di inchiesta che può esercitare sia direttamente sia creando un organo
ad hoc composta da alcuni membri del Consiglio, da funzionari dell’ONU, ecc. Gli Artt. 33 e 36
danno a loro volta facoltà al Consiglio di sollecitare le parti di una controversia a far ricorso, ai
mezzi, procedimenti o metodi elencati nell’art. 33. La differenza tra l’art. 33 e l’art. 36 sta nel fatto
che il primo si riferisce ad un invito generico da parte del Consiglio, mentre il secondo prevede che
l’organo indichi quale specifico procedimento sia appropriato in ordine al caso di specie. All’art. 36
vanno riportate anche le risoluzioni del Consiglio che non si limitano ad indicare un determinato
procedimento per la soluzione delle controversie ma predispongono esse stesse un procedimento per
la soluzione delle controversie ma predispongono esse stesse un procedimento del genere, come le
risoluzioni che danno vita a Commissioni di buoni uffici, mediazione, ecc. In tutta la materia sia il
Consiglio che gli organi da esso creati dispongono di un mero potere di raccomandazione. Nella
funzione conciliativa del Consiglio rientra infine il potere di raccomandare termini di regolamento,
ossia di suggerire alle parti come risolvere, nel merito, la loro controversia. Tale potere dovrebbe
essere esercitato solo in presenza di alcuni presupposti, precisamente del fatto che la controversia
sia stata portata all’esame del Consiglio dalle stesse parti, o da almeno una di esse, nonché
dell’accertata impossibilità di raggiungere un’intesa attraverso i mezzi elencati dall’art. 33. Il
Consiglio ha finito con l’entrare nel merito delle questioni, senza andar incontro a significative
opposizioni di natura procedurale da parte degli Stati interessati, se e quanto ha voluto: lo ha fatto
sia con riguardo a casi che non erano stati portati al suo esame da una delle parti in causa, sia senza
preoccuparsi di indagare se effettivamente fosse impossibile il ricordo ai mezzi di cui all’art. 33, ma
addirittura anche nella fase iniziale di una controversia.
* Nell’ambito delle Nazioni Unite una funzione conciliativa è svolta anche dall’Assemblea generale
che può raccomandare misure per il regolamento pacifico di qualsiasi situazione che essa ritenga
suscettibile di pregiudicare il benessere generale o le relazioni amichevoli tra le Nazioni. Una
formula così generica permette di far rientrare nella funzione conciliativa dell’Assemblea tutte le
misure che abbiamo viste adottabili dal Consiglio di Sicurezza in base al cap. VI. Anche il
Segretario generale dell’ONU ha prestato la sua opera per la soluzione di controversie, offendo la
propria attività mediatrice agli Stati coinvolti in crisi internazionali. La Carta non prevede simili
iniziative, salva l’ipotesi che il Segretario generale agisca su autorizzazione del Consiglio di
Sicurezza o dell’Assemblea generale.
* Alla funzione conciliativa degli organi dell’ONU si affianca quella delle organizzazioni regionali.
L’art. 52 della Carta delle Nazioni Unite prevede che in seno a tali organizzazioni si compia ogni
sforzo per giungere ad una soluzione pacifica delle controversie di carattere locale prima di deferirle
al Consiglio di Sicurezza. La norma trova corrispondenza negli statuti delle organizzazioni
regionali.

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