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Nel corso di una fase di crisi profonda ed estesa, in una serie assai vasta di Paesi –
particolarmente, ma non soltanto, in Europa - si sono sviluppati, in epoca recente,
percorsi di riforma che hanno toccato le collettività locali. Percorsi che certamente
hanno risentito significativamente di peculiarità e sensibilità dei singoli sistemi; ma
che –mossi da analoghe esigenze e influenzati da una circolazione delle idee
sempre più rapida e diffusa- tendono a riflettere valori, principi, obiettivi
fondamentali fortemente affini.
In questo contesto, si presentano diffuse tendenze alla valorizzazione di profili
della democrazia locale che si estendono dall’autonomia alla sussidiarietà, dalla
legittimazione alla responsabilità, dalla partecipazione all’adeguatezza delle
strutture e dei mezzi per perseguire gli interessi delle rispettive popolazioni.
Non a caso, il principio di autonomia si ritrova sancito ai massimi livelli in una
amplissima serie di Costituzioni: come avviene per tutte quelle che hanno segnato i
momenti di ritorno alla democrazia in Europa (negli anni ’40, per paesi come Italia,
Germania, Francia; negli anni ’70, in Spagna e Portogallo; negli anni ’90, nei paesi prima
compresi nel blocco sovietico, come Polonia, Ungheria, Romania, Repubblica Ceca,
Bulgaria, Estonia, Lituania). Talora, al riconoscimento dell’autonomia nelle stesse
Costituzioni, corrisponde la possibilità, per gli enti locali, di ricorrere direttamente a Corti
costituzionali nei confronti di leggi (statali o regionali) che ledano le proprie garanzie;
possibilità, questa, prevista in Germania, ed ora estesa a sistemi diversi, dalla Spagna a
Ungheria, Croazia e Slovenia.
In effetti, di fronte ad esigenze analoghe, nei diversi Stati si sono adottati o comunque
discussi criteri e questioni simili, dando luogo anche a grandi tendenze comuni, in fasi
parallele o in ondate successive.
Così, a più riprese, a partire dagli anni ’70 (come in Italia, Spagna e Portogallo),
’80 (come in Francia o in Belgio, nel periodo in cui il sistema britannico conosce il
massimo grado di accentramento), ’90 (come nella stessa Gran Bretagna), parole
come décéntralisation, descentralizacion, descentralizacao, devolution, occupano
un posto importante, nell’agenda politica dei vari Paesi, avviando processi che, in
vari casi, sono tuttora aperti. Rilevanti compiti tradizionalmente esercitati dalle
amministrazioni centrali o dagli uffici periferici statali sono così passati a regioni,
dipartimenti, comuni.
E ad ondate successive si sono sviluppati processi di regionalizzazione (dal 1970 in
Italia; dal 1978 in Spagna, preceduta di poco dalle isole portoghesi di Azzorre e
1
Madeira; dal 1982 in Francia; a partire dagli anni ’80, in una sequenza di riforme, il
Belgio; dal 1998 in Scozia, Galles e Irlanda del Nord; da 2000 nella repubblica Ceca);
di revisione delle dimensioni dei governi locali, alla ricerca di una maggiore
funzionalità (particolarmente affrontando le inadeguatezze dei piccoli Comuni
attraverso robusti processi di fusione; riusciti, tra gli anni ’60 e ’70, in Paesi come
Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Gran Bretagna, Germania, Austria; falliti in Francia,
dove invece si svilupperà l’associazionismo intercomunale); della ricerca di forme di
rafforzata stabilità, autorevolezza e responsabilizzazione dei governi locali (in
particolare, ma non esclusivamente, tramite l’elezione diretta del sindaco, affermatasi
in Italia, a Londra e in altre città inglesi, in una gran parte dei Länder tedeschi e, quindi,
nei paesi dell’Est), sino al diffondersi delle varie modalità di partneriato, di
coinvolgimento e partecipazione dei cittadini e delle organizzazioni economiche e
sociali.
Certamente, le riforme territoriali si inquadrano in situazioni diverse, anche in
relazione al contesto costituzionale. Tuttavia, sotto la pressione di problemi ed
esigenze simili, presentano importanti parallelismi, anzitutto, in relazione alle
tendenze : a differenziare gli statuti dei territori, particolarmente metropolitani; a
semplificare le competenze, chiarendo i ruoli di ogni livello; a mettere in discussione
la tradizionale geografia amministrativa, regionale e provinciale ; ad affrontare i
problemi dei piccoli comuni mediante formule di associazionismo intercomunale
oppure attraverso un piano di fusioni. Ancora, si tende a mettere in discussione il
tradizionale assetto a livelli sovrapposti, il disegno « à millefeuilles » territoriale,
riducendo la complessità della sequenza comune-provincia-regione: spesso
ridimensionando il ruolo del livello provinciale, in una prospettiva di riduzione a due
livelli. Ma non mancano orientamenti a valorizzare, all’opposto, precisamente il
livello intermedio.
Del resto, in rapporto al decentramento e alle autonomie, atteggiamenti vari sembrano
diffondersi e incrociarsi, nella fase attuale. Da un lato, si presenta consolidata la
coscienza dell’importanza fondamentale del ruolo che le collettività locali possono
svolgere per lo sviluppo economico e sociale di un Paese, per la lotta alla crisi e per
la crescita, così come per la vitalità della democrazia; dell’altro, è evidente che queste
istituzioni tendono spesso a rendere più complessi i sistemi amministrativi, a produrre
sovrapposizioni di competenze, a moltiplicare gli apparati burocratici e le classi
politiche.
Problemi di questo tipo concernono vari Paesi, particolarmente in Europa ; e
problemi di questo tipo hanno acquisito una evidenza insopportabile, negli ultimi
anni, nel quadro di una crisi economica che esige sempre più risposte funzionali ed
efficaci, sul piano della gestione delle funzioni amministrative e della prestazione dei
servizi pubblici. In questo contesto, presentano speciale interesse le riforme – avviate
in numerosi Paesi – che tendono a perseguire l’obbiettivo di ridurre la complessità, di
semplificare il sistema locale e di renderlo più adeguato alle esigenze dei nostri
tempi.
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Diffusamente, le riforme recenti perseguono obbiettivi quali la «modernizzazione», la
«razionalizzazione», la «semplificazione», la «coerenza dell’azione pubblica», la
«trasparenza» : parole che si ripetono, nella legislazione dei vari Paesi europei, e che
caratterizzano la fase attuale. Fase che si presenta, al tempo stesso, sia come
continuazione sia come superamento delle riforme intraprese a partire dagli anni ’70.
Ora, certamente, il contesto si presenta profondamente mutato : in un contesto di
crisi, si affermano nuove domande economiche e sociali, sempre più complesse, e i
vincoli finanziari obbligano le istituzioni pubbliche a cercare risposte innovative.
In questo quadro, le risposte alle nuove esigenze si presentano talora simili, talora
divergenti, particolarmente in relazione alle specifiche soluzioni che le compongono.
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D’altronde, è evidente, nella legge, la volontà di perseguire un contenimento dei costi
istituzionali e amministrativi del governo locale; evidenziata dalla previsione di una
pressoché generale gratuità delle cariche connesse alle funzioni governo di tutti gli
enti considerati (Città metropolitane, Province, Unioni).
Ma sarebbe davvero riduttivo restringere gli obbiettivi della legge, sul piano
economico, alla sola riduzione dei costi, con qualche risparmio di spesa; perché
anche su questo piano, si perseguono finalità più ambiziose, collegate al contrasto
alla crisi ed alla promozione della crescita.
Il discorso riguarda particolarmente le aree metropolitane, “motore delle economie
nazionali” e protagoniste sempre più rilevanti “negli scenari economici, sociali e
istituzionali globali”: realtà di cui anche l’Italia deve riconoscere l’importanza
fondamentale per le prospettive di sviluppo del sistema industriale e per la
competitività del Paese nel suo complesso”. In questo senso, il prevedere specifiche
forme di governo per queste aree costituisce “una priorità strategica per il Paese”,
“un’occasione che il Paese non può perdere”1. Ed alla Città metropolitane viene
assegnato il compito di “migliorare la produzione e la regolazione di beni e servizi
pubblici locali, realizzare una maggiore dimensione delle economie di scala, costruire
politiche urbane più integrate e una pianificazione solidale del territorio, aumentare
gli investimenti pubblici e ridurre la loro duplicazione, esercitare il potere unitario
nella negoziazione di accordi per la realizzazione degli interventi di interesse
nazionale, quali infrastrutture e trasporti”. In questa prospettiva, la Città
metropolitana dovrà essere anche e anzitutto “un’occasione per modernizzare la
pubblica amministrazione e rispondere con una struttura snella ed efficiente alle
crescenti aspettative delle imprese e dei cittadini”.
Sotto questi profili, si tratta di avvicinare le situazioni delle aree metropolitane
italiane a quelle delle altre metropoli europee. Ed all’Europa si guarda anche per la
definizione di politiche in grado di utilizzare fondi strutturali, a partire dal
Programma operativo nazionale (PON) di utilizzo dei fondi europei per le aree
metropolitane previsto.
Analogamente, scopi di semplificazione e di modernizzazione dell’amministrazione
pubblica si pongono, sul versante opposto, per i piccoli Comuni, puntando su un
rafforzamento delle Unioni e sul sostegno alle fusioni che tendono comunque ad
assicurare anche nei territori frammentati un esercizio delle funzioni amministrative
su scala idonea. E anche sotto questo profilo, si tratta di adeguare gli assetti delle
amministrazioni italiane agli standard applicati nei Paesi europeo.
In effetti, su un piano generale, le finalità della legge possono inquadrarsi nel
contesto degli obbiettivi perseguiti da riforme in corso in vari Paesi europei.
1
Si riprendono qui parole del “Manifesto delle Città metropolitane italiane”, approvato dalla Rete delle Associazioni
industriali metropolitane nel gennaio 2014; che, tra l’altro, dove, tra l’altro, si osserva: “nelle aree metropolitane si
concentra gran parte della popolazione, del prodotto interno lordo, del gettito fiscale e degli investimenti pubblici e
privati del Paese”. Sottolineando la loro importanza per attrarre investimenti e localizzazioni di imprese multinazionali:
“l’attrattività di un’area metropolitana è legata anche alla capacità di proporsi nella competizione internazionale con le
altre città come un attore unitario e un decisore unico, in grado di rispondere verso l’interno (popolazione residente e
no) e verso l’esterno (gli investitori)”.
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Si pensi, ad esempio, alla ripresa del percorso della riforma del decentramento (il c.d.
“atto III”) in Francia, basato sul principio, espresso dal Presidente della Repubblica,
che considera la democrazia locale “anzitutto un’esigenza di cittadinanza, ma anche
una leva per la crescita”. In questo spirito, il primo provvedimento di questa nuova
fase è costituito precisamente da una legge (27 gennaio 2014, n. 58) sulla
“modernizzazione de l’azione pubblica territoriale e di affermazione delle metropoli”,
che si apre con un titolo dedicato al “chiarimento delle competenze degli enti
territoriali”, per poi passare, appunto, alla istituzione di nuove istituzioni
metropolitane, in una serie di aree.
L’obbiettivo di chiarire le competenze locali è prioritario anche nella legge spagnola
di “razionalizzazione e sostenibilità dell’amministrazione locale” (27 dicembre 2013,
n. 27); anch’essa volta a riformare, in particolare, le competenze delle Province (che,
peraltro, qui sono già enti composti da sindaci e amministratori comunali), a
perseguire con determinazione la fusione dei Comuni minori, a rivedere e
ridimensionare l’insieme degli enti strumentali, a rafforzare le regole di trasparenza e
i controlli interni.
c) L’ordinamento locale
Il disegno sopprime dalla Costituzione ogni riferimento alle Province, mentre
mantiene invece quello alle Città metropolitane. In questo senso, il disegno recepisce
e sviluppa le linee di riforma emerse dai recenti interventi del legislatore e,
particolarmente, dalla legge n. 56 del 2014 hanno tracciato un nuovo schema basato
sulla differenziazione tra territori, anzitutto, al livello di area vasta.
Ora, il disegno di legge costituzionale ratifica la divaricazione tra Città metropolitane
e Province: mantenendo la configurazione delle prime come enti costitutivi della
Repubblica, mentre le seconde perdono ogni riferimento nella Costituzione.
Secondo queste linee, dunque, l’impostazione adottata dalla legge 56 si presenta
confermata e confortata. Anche sotto il profilo della legittimità della elezione
indiretta degli organi, per quanto concerne le Province. Nulla cambia, invece, per
quanto riguarda il dibattito sulla legittimità della elezione di secondo grado del
Consiglio metropolitano e sulla identificazione del sindaco metropolitano con il
sindaco del Comune capoluogo.
Su questi aspetti, peraltro, è già intervenuta la Corte costituzionale (sent. n. 50 del
2015) che, pronunciandosi sui ricorsi presentati da alcune regioni nei confronti della
legge, ha dichiarato costituzionalmente legittima la disciplina contenuta nella legge
56 e, in particolare, la composizione degli organi di governo basata su una elezione
indiretta.
2.2. La governance
Il termine “governance” è ormai entrato nell’uso corrente, per indicare l’insieme dei
modi di coordinamento tra soggetti, funzioni, interessi: in senso interno alle
istituzioni pubbliche, nei sistemi multilivello (caratterizzati, cioè, dalla presenza
sovrapposta di istituzioni statali, regionali, locali), con riferimento particolare alla
allocazione delle competenze tra queste istituzioni , agli obblighi di leale
collaborazione, alle modalità dei raccordi, ai relativi meccanismi sanzionatori; in
senso esterno alle istituzioni, nel rapporto tra pubblico e privato, con specifico
riferimento -come si è ora accennato- alla sussidiarietà.
Del resto, si presenta assai significativo l’uso che della parola si fa nel sistema
europeo, ad indicare – come esplicita il Libro bianco presentato dalla Commissione
nel 2001 – l’insieme di norme, processi, comportamenti che influiscono sull’esercizio
delle competenze. Secondo una dinamica in cui possono distinguersi cinque
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momenti, che possono essere identificati come: a) apertura, volta a far comprendere;
b) partecipazione, per coinvolgere; c) responsabilità, per definire i ruoli; d) efficacia,
per assicurare i risultati; e) coerenza, per promuovere coordinamento, tanto in senso
orizzontale, tra politiche, quanto in senso verticale, tra autorità.
Sotto altro profilo, si presenta di notevole interesse e rilievo una diversa prospettiva, che
può riguardare la distinzione tra sistemi «competitivi o duali», da un lato, e sistemi
«cooperativi», dall’altro.
Una distinzione che, semplificando e schematizzando, può prendere a riferimento:
• da un lato, sistemi (o prospettive, o fasi, o elementi) a istituzioni separate (quanto meno
prevalentemente), con una pluralità di autonomie congegnate come monadi
(tendenzialmente) autoconcluse, scollegate tra loro e separate dal centro, in grado di
dotarsi di proprie regole e sfere di azione, ma non di incidere nei processi decisionali dei
livelli superiori, le cui regole, del resto, si sviluppano in ambiti ben distinti e
rigorosamente separati da quelli affidati alle norme regionali e locali. Il sistema ha origini
antiche, risalendo alla fondazione dei primi Stati federali, dagli Stati Uniti alla Svizzera,
alla fine del ’700, e ricollegandosi ad una visione riduttiva dell’intervento pubblico,
secondo le impostazioni liberali e liberiste all’epoca dominanti;
• dall’altro, sistemi (o prospettive, o fasi, o elementi) a istituzioni intercomunicanti,
tramite strumenti di coinvolgimento e di partecipazione retti da principi di «leale
cooperazione» e tramite elementi di connessione e di concorrenza anche nei rapporti tra
fonti centrali e fonti regionali, in misura significativa destinate a convivere negli stessi
ambiti. Il modello si afferma insieme all’espandersi degli interventi pubblici nel welfare
state, in cui divengono imprescindibili, tra l’altro, esigenze di perequazione e sostegno nei
confronti dei territori svantaggiati. In Europa, il principio cooperativo si presenta,
nell’attuale fase storica, decisamente prevalente, radicandosi ormai solidamente negli
ordinamenti costituzionali di paesi quali Germania, Austria, Belgio, Spagna, Italia.
In queste dinamiche collaborative, la collocazione e il ruolo degli enti locali, nei rapporti
con le Regioni, da un lato, e lo Stato, dall’altro, possono variare notevolmente.
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Schematizzando, nella attuale panoramica comparata si possono individuare tre modelli:
a) un modello (che potremmo definire) a disegno lineare. In questo schema lo Stato
interagisce direttamente con i soli livelli regionali, pienamente autonomi nello stabilire,
all’interno del proprio ordinamento, le regole di relazione con gli enti locali del proprio
territorio. È, questo, il modello che caratterizza consolidati Stati classicamente definiti
«federali», a partire – in Europa – dalla Germania: ove (solo) i Länder si raccordano
con l’organizzazione dello Stato centrale (Bund), tramite l’organo che, presso il Par
lamento, rappresenta i territori, il Bundesrat, composto esclusivamente da membri degli
esecutivi regionali. Del resto, in questi sistemi è ciascun Land a regolare, con proprie
leggi e prassi, il ruolo e la collocazione degli enti locali, considerati come istituzioni
«immedesimate» nell’ordinamento regionale, e dunque di regola sottratte a discipline
nazionali. In qualche Land – come l’Assia o la Renania-Palatinato – opera, al fine di
rappresentare le posizioni degli enti locali, in rapporto ad affari e progetti di legge che li
riguardano, un Consiglio dei Comuni (Kommunaler Rat), composto da amministratori
locali, e presieduto (senza diritto di voto) dal ministro del Land competente in materia
locale;
b) un modello (che potremmo definire) a disegno stellare. Qui è lo Stato a collocarsi
comunque al centro di una serie di linee di relazione, ben distinte e tendenzialmente
bilaterali, con i livelli regionali, da un lato, con i livelli comunali, dall’altro, con i livelli
intermedi, ancora. A questo schema si ispira, tradizionalmente, la Francia; anche e
particolarmente in periferia, dove il baricentro di questo disegno è tradizionalmente
costituito dal prefetto;
c) un modello (che potremmo definire) a disegno misto o bifronte. Qui tende a
configurarsi un imprescindibile raccordo tra Stato e Regioni; ma questo raccordo non
esaurisce e non esclude l’esigenza di un coinvolgimento diretto dei Comuni e delle
Province. Del resto, il coinvolgimento degli enti locali, oltre che nei confronti dello
Stato, si realizza anche nei confronti della Regione. In questo schema si colloca, ad
esempio, l’Italia; dove il raccordo tra Regioni e autonomie locali – tramite uno
specifico organo – è sancito da una disposizione della stessa Costituzione.
Questi modelli, comunque, si presentano come tendenziali: persino il sistema federale più
classico, quello degli Stati Uniti, dove in via di principio gli enti locali rientrano
pienamente nell’ordinamento di ciascuno Stato membro, conosce forme di collaborazione
che coinvolgono, in un raccordo diretto, federazione ed enti locali.
Il principio di collaborazione, d’altronde, può basarsi su un’ampia pluralità di procedure,
strumenti, forme, atti, quali:
• l’istituzione di specifici organi, a composizione mista, che includono rappresentanti dei
diversi livelli, funzionando come sedi di confronto diretto;
• le consultazioni preventive: coinvolgono, anzitutto, le associazioni o le organizzazioni
(non necessariamente di natura pubblicistica) che rappresentano le autonomie. In vari
paesi (quali Svizzera, Spagna, Bulgaria, Islanda, Ungheria, Malta) queste organizzazioni
sono consultate, ad esempio, sui progetti di legge che riguardano le collettività locali.
Altrove (come in Islanda, Ungheria o Lituania) analoghe consultazioni sono previste in
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materia di bilanci. Talora, queste consultazioni corrispondono ad un vero e proprio
obbligo giuridico;
• le forme di concertazione: tramite forme di negoziazione bilaterale su determinati affari
o politiche pubbliche. Fenomeni di questo tipo sono ben noti in Francia, ad esempio, in
materie quali la prevenzione dell’esclusione sociale o il contrasto alle forme di insicurezza
urbana;
• gli obblighi di informazione: previsti da numerosi ordinamenti (Spagna, Lituania,
Repubblica Slovacca, Svizzera, ecc.), nei rapporti tra autorità dei diversi livelli.
3. I protagonisti
3.1. Livelli regionali e livelli locali
Non mancano, in Europa, paesi che presentano assetti basati su due soli livelli (comunale
e provinciale) di autonomia. Assetti che caratterizzano generalmente gli Stati di minori
dimensioni (quali Danimarca, Svezia, Lussemburgo, Finlandia, Estonia, Lituania,
Lettonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Grecia, Cipro, Malta); mentre
sempre più diffusamente, gli Stati di maggiori dimensioni si presentano caratterizzati dalla
esistenza di un terzo livello di governo territoriale. Dalla Francia alla Polonia, dal Belgio
all’Italia, dalla Spagna alla Repubblica Ceca, da Scozia, Galles e Irlanda del Nord alle
isole Azzorre e Madeira, alle storiche collettività locali si sono sovrapposte – come si è
accennato – significative istituzioni regionali, che si sono affiancate alle tradizionali
esperienze di Länder e Cantoni ben radicate in Stati quali Germania, Austria, Svizzera.
Gli assetti delle istituzioni territoriali si configurano, così, in termini assai variegati, sotto
molti profili. Possono distinguersi, in questo modo, sistemi contraddistinti dalla sola
presenza di governi locali, di dimensioni limitate (normalmente: comunale e
dipartimentale/provinciale) e sistemi caratterizzati dalla presenza di significativi soggetti
di ampie dimensioni (Stati membri, Länder, Cantoni, Regioni, Comunità autonome, ecc.);
sistemi di volta in volta indicati come federali, regionali, autonomici o – più
genericamente – come compositi o multilivello.
I livelli regionali, peraltro, non sempre sono estesi all’intero territorio nazionale;
riguardando, invece, talora solo una parte del territorio, caratterizzata da peculiari
situazioni, storiche, linguistiche, etniche, ecc. In questa situazione si è trovata l’Italia nel
lungo periodo intercorso tra l’istituzione delle Regioni a statuto speciale (dal 1946) e
l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario (1970); e in questa situazione si trova ora, in
particolare, il Regno Unito, con una devolution che ha costituito Assemblee regionali in
Scozia, Galles, Irlanda del Nord. Singolare è poi la condizione del Portogallo, ove si sono
riconosciute robuste autonomie alle isole Azzorre e Madeira, ma la regionalizzazione del
territorio continentale, pur prevista dalla Costituzione, è stata bloccata in seguito (1998)
dall’esito negativo di un referendum.
Al di là degli aspetti terminologici (e delle relative incertezze, essendo i confini tra l’una o
l’altra categoria tutt’altro che netti e indiscutibili) tra i sistemi articolati in livelli regionali
possono distinguersi Stati a legislazione concentrata e Stati a poteri legislativi decentrati.
In questi ultimi, il Parlamento nazionale non detiene il monopolio della produzione di
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leggi, che vengono – in varia forma ed in vari ambiti – adottate anche (e talora persino
prevalentemente) da Assemblee regionali. Caso, questo, assai diffuso ed in espansione in
Europa negli ultimi decenni, se si considera che sono pochi i paesi che – come la Francia e
la Polonia – non hanno riconosciuto poteri legislativi ai propri livelli regionali.
Tra le autonomie regionali dotate di poteri legislativi, del resto, alcune (come i Cantoni
svizzeri, i Länder tedeschi e austriaci, la Scozia, le Regioni a statuto speciale in Italia,
ecc.) dispongono di una competenza legislativa generale in materia di ordinamento locale,
sì che – si dice – questi enti sono «immedesimati» nell’ordinamento regionale; anche se si
tratta di una competenza soggetta ai limiti stabiliti dalla Costituzione (blandi in Svizzera,
più stringenti in Germania ed Austria) e, talora, da principi stabiliti dal legislatore statale
(come avviene, sia pure non senza incertezze e tensioni, per le Comunità autonome
spagnole).
Altri, invece (ed è il caso delle Regioni italiane, dopo la riforma del Titolo V), pur non
disponendo di questa competenza generale, hanno competenza a disciplinare le materie in
cui operano gli enti locali e, magari, gli stessi aspetti ordinamentali, fatti salvi quelli
relativi a materie espressamente riservate allo Stato.
a) I Comuni
Pressoché ovunque, in Europa (e non soltanto), il Comune costituisce il livello territoriale
di base, rappresentando la generalità degli interessi della comunità locale. Tuttavia, i
Comuni presentano grandi diversità sostanziali: anzitutto, all’interno dei medesimi Stati,
come avviene in paesi quali Francia, Spagna o Italia, dove i Comuni più piccoli, di poche
decine di abitanti, sono assai distanti da quelli di maggiori dimensioni, che di abitanti ne
hanno milioni; ma anche tra Stati diversi, con dimensioni medie che vanno dai 1.600
abitanti della Francia, agli oltre 136.000 del Regno Unito, passando per i 4.900 della
Spagna, i 5.500 della Germania, i 7.100 dell’Italia.
La prospettiva di superare storiche debolezze dei comuni minori è affidata in larga
misura, come si è accennato, alla capacità di sviluppare forti sistemi di cooperazione
tra i comuni stessi. In questo, è particolarmente significativa la svolta operata, in
questi anni, dall’ordinamento italiano: che dopo aver, nella riforma delle autonomie
locali del ’90, puntato fortemente sull’avvio di processi di fusioni, nel ’99 ha preso
atto del fallimento di quella ipotesi per puntare seriamente su forme collaborative
(unioni di comuni), in ambiti ottimali per l’esercizio associato delle funzioni. Si tratta
di prospettive credibili e serie, che meritano ogni attenzione. Anche se non vanno
trascurate né le resistenze cui vanno incontro –particolarmente in situazioni che
tendono a diffidenze, separatezze, campanilismi- né i profili delicati, sul piano della
trasparenza, della legittimazione democratica, della semplificazione amministrativa,
della responsabilizzazione nei confronti dei cittadini: come dimostra la stessa
esperienza francese, che in materia di "intercomunalità" presenta un dinamismo
progettuale e di realizzazione privo di paragoni; e che si regge su una vivace
legislazione, riformata recentemente anche e in particolare per semplificare la
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cooperazione intercomunale, ridurne le forme, rafforzarla attraverso un nuovo
sistema finanziario e di legittimazione democratica.
c) I livelli intercomunali
Quasi tutti i paesi conoscono forme di associazionismo intercomunale, ma il tema assume
un particolare rilievo nei paesi in cui, falliti i tentativi di fusione, la via di far cooperare
questi ultimi in livelli di dimensioni più adeguate si presenta necessaria per affrontare le
inadeguatezze – in termini di popolazione, di territorio, di risorse organizzative ed
economiche – dei Comuni (particolarmente, minori). Il tema è primario in Francia, dove i
36.600 Comuni presentano nella grandissima maggioranza dei casi dimensioni del tutto
insufficienti alla gestione delle funzioni amministrative; e dove, in effetti, soprattutto a
partire dalle riforme degli anni ’80, si è sviluppata una densa rete di «intercomunalità»
(Communautés urbaines, Communautés de Communes), composta da circa 2.500 enti,
spesso dotati, tra l’altro, di una robusta autonomia impositiva e finanziaria. Ma anche in
Spagna e Italia, la questione delle forme associative riveste un notevole rilievo.
D’altronde, con varie modalità e tendenze, le riforme diffusamente sviluppate in Europa,
negli anni recenti, hanno inteso perseguire stabilità e autorevolezza; spesso sperimentando
forme «razionalizzate», anche dotate di tratti fortemente originali.
In larga misura, gli orientamenti affermati nelle riforme adottate nei vari paesi europei alla
fine del secolo scorso sembrano aver rafforzato la legittimazione e l’autorevolezza degli
organi locali, a partire dai sindaci; rendendoli o valorizzando il loro ruolo politico su un
piano più generale.
Schematizzando, possono distinguersi:
a) forme di tipo parlamentare: in cui il Consiglio, eletto direttamente, elegge il
sindaco e la Giunta, secondo il sistema applicato in paesi quali Francia, Spagna, parte
della Germania, Danimarca, Irlanda, Lituania, nonché in Italia prima della riforma del
1993. In termini peculiari e arcaici, in Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo il sindaco è
formalmente nominato dal Re (o dal Granduca); ma nella sostanza il decreto reale
recepisce normalmente le indicazioni espresse dal Consiglio comunale;
b) forme di tipo presidenziale: ove sono eletti in via diretta, in generale
contestualmente, sia il Consiglio, sia il sindaco, che nomina i propri assessori. In questo
modello manca un rapporto di fiducia tra i due organi che, dunque, devono convivere
anche quando appartengano a diversi schieramenti politici. In questa direzione è
caratterizzato, ad esempio, il sistema di governo dell’autorità metropolitana di Londra e
di altre città britanniche;
c) forme atipiche: basate su una duplice legittimazione diretta, sia del Consiglio sia
del sindaco, ma mantenendo tra i due organi il rapporto di fiducia, sino a legarli
indissolubilmente nella permanenza in carica, in base al principio per cui questi organi
insieme permangono e insieme cessano (simul manent simul cadunt). La fiducia
configura una forma parlamentare, ma fortemente rimodellata con l’innesto
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dell’elezione diretta del sindaco. Modelli di questo tipo si applicano in una parte
significativa dei Länder tedeschi e austriaci, oltre che in Italia, dopo la riforma del 1993
che ha introdotto l’elezione diretta del sindaco;
d) forme di tipo collegiale/direttoriale: con un ruolo dominante di organi collegiali,
mentre gli organi monocratici – laddove esistono – assumono una funzione
prevalentemente formale (di rappresentanza esterna dell’ente) o tecnica (con un compito
di attuazione degli indirizzi degli organi collegiali). A sistemi collegiali, sia pure in forme
alquanto diversificate, si ispirano, da un lato, i governi locali della Svizzera, dall’altro,
tradizionalmente, quelli britannici.
4. Le trasformazioni in atto
4.1.Dall’uniformità alla differenziazione
L’evoluzione recente dei sistemi europei sembra segnalare, anzitutto, rilevanti
elementi di novità e di distacco dalla tradizione uniformista che aveva contrassegnato
la storia amministrativa di molti Paesi dell’Europa continentale (a partire da quelli
che avevano applicato il modello istituzionale elaborato dalla Rivoluzione francese e
da Napoleone, come Belgio, Italia, Spagna, oltre – ovviamente – alla stessa Francia).
In questo senso, è significativa, ad esempio, la differenziazione che caratterizza le
Métropoles francesi; una differenziazione che non concerne semplicemente il
rapporto tra le situazioni « metropolitane » e il resto del territorio, ma che riguarda
anche le forme adottate per ciascuna di esse. Così, emblematicamente, la legge sulle
métropoles (n.58/2014) prevede forme differenziate in quattro modelli (Parigi, Lione,
Aix-Marsigla, regime comune), utilizzando istituti giuridici diversi,
dall’ “établissement public de coopération intercommunale” alla “collectivité à statut
particulier”, vero e proprio ente territoriale. E la Corte costituzionale ha giudicato
queste disposizioni conformi alla Costituzione, considerato che, tra l’altro, « la
différence de traitement qui en résulte … repose sur une différence de situation en
rapport avec l’objectif poursuivi par le législateur » e che « le principe d’égalité
devant la loi ne s’oppose ni à ce que le législateur règle de façon différente des
situations différentes, ni a ce qu’il déroge à l’égalité pour des raisons d’intérêt
général, pourvu que, dans l’un et dans l’autre cas, la différence de traitement qui en
résulte soit en rapport direct avec l’objet de la loi qui l’établit » (decisione n. 2013-
687). Nel dibattito politico, poi, concetti di questo tipo sono affermati in termini che
sarebbero parsi inaccettabili soltanto pochi anni fa : “il est évident – si legge, ad
esempio, in un documento del Senato3 - que la situation des territoires est très
différente et qu’elle appelle donc une diversité des réponses…Il est devenu nécessaire
de mettre en oevre un véritable pouvoir décentralisé d’adaptation de la législation aux
particularités territoriales. …Il n’y a pas de contradiction de principe entre l’égalité
devant la loi et la décentralisation adaptée au territoire ».
33
Sénat, Rapport d’information sur l’avenir de l’organisation décentralisée de la République, par Y. Krattinger, 8
ottobre 2013.
17
Ma se il principio di uniformità si presenta in crisi nel sistema che ne era stato la
culla, la differenziazione va sviluppandosi in termini sempre più evidenti nei Paesi
che lo avevano seguito in una lunga tradizione amministrativa.
Come l’Italia; dove la riforma costituzionale del 2001 ha introdotto nella Costituzione
(art. 118) un principio esplicito di « differenziazione », particolarmente come criterio
che, insieme ai principi di adeguatezza e sussidiarietà, deve ispirare la distribuzione
delle competenze tra le collettività territoriali. Del resto, la stessa riforma del 2001,
ha inserito le Città metropolitane tra le autonomie territoriali che costituiscono la
Repubblica (art. 114 della Costituzione), ben distinte dalle Province, presenti nei
territori non metropolitani. In questo contesto, a ciascuna Città metropolitana è
riconosciuta la possibilità di differenziare i moduli di organizzazione e
funzionamento, grazie alla estesa autonomia statutaria ad esse riconosciuta (legge n.
56 cit.). In concreto, ogni città può scegliere di seguire il modello ad elezione
indiretta, nel quale il consiglio metropolitano è composto da sindaci e consiglieri
comunali, eletti da tutti i sindaci e i consiglieri dei comuni del territorio, mentre il
sindaco metropolitano è identificato con il sindaco del comune capoluogo ; oppure,
può optare per un sistema alternativo ad elezione diretta, in cui è la popolazione
metropolitana vota a scrutinio diretto il sindaco e i consiglieri metropolitani.
D’altronde, gli statuti possono scegliere tra un’ampia serie di opzioni in relazione al
ruolo e alle competenze del sindaco metropolitano e del consiglio metropolitano,
Così, tra l’altro, ciascuno statuto può decidere se concentrare nel sindaco la generalità
delle competenze, riservando al consiglio soltanto l’approvazione di atti normativi e
generali, elencati o se adottare la soluzione opposta; se valorizzare il ruolo di una
assemblea (“conferenza metropolitana”) composta da tutti i sindaci, o se ridurlo a
pochi pareri su alcuni atti di fondamentale ed eccezionale importanza.
E ancora, forme differenziate possono essere adottate dagli statuti in relazione
all’articolazione del territorio metropolitano in zone ; e in relazione alla
configurazione dei rapporti tra la città metropolitana, da un lato, e i comuni e le
unioni intercomunali, dall’altro.
La rottura del principio di uniformità, poi, risulta evidente, nell’esercizio delle
funzioni: sia perché la stessa legge statale prevede funzioni fondamentali ben diverse
tra le due categorie di enti di area vasta, le città metropolitane e le province, tuttora
presenti nella restante parte del territorio, sia perché in larga misura le competenze di
questi enti dipenderanno dalle leggi delle varie regioni. Che, a quanto si può
constatare dalle leggi sin qui emanate, stanno in effetti seguendo orientamenti
alquanto diversificati.
Del resto, in posizione differenziata si trovano stessi Comuni, nell’esercizio delle
rispettive funzioni; sia, anche in questo caso, per le varie opzioni seguite dalle diverse
leggi regionali, sia in relazione alle loro dimensioni, considerato che, secondo quanto
stabilisce una legge statale, al di sotto di una certa soglia demografica (5.000 abitanti)
si applica un obbligo di esercizio delle funzioni in modo associato.
4
Projet de loi portant nouvelle organisation territoriale de la République. Etude d’impact, par M. Lebranchu et A.
Vallini, ministre et subsecretaire de la décentralisation et de la fonction publique, 18 juin 2014.
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Dalla panoramica qui delineata, pare evidente che le riforme territoriali – pur
collocandosi in diversi contesti - storici, istituzionali, sociali – sembrano ispirarsi a
motivazioni ed obbiettivi simili. Ed anche se si considerano specifici aspetti
dell’organizzazione e del funzionamento dell’amministrazione locale, le tendenze
assimilabili si presentano significative.
In concreto, si può constatare che :
- pressoché ovunque, anche nelle tradizioni più legate al classico principio di
uniformità, vanno aprendosi nuovi spazi per la differenziazione, sia per scelte
concretamente effettuate dagli stessi legislatori statali, sia in relazione ai poteri
esercitati da legislatori regionali, sia in rapporto alla estensione dell’autonomia
riconosciuta agli stessi enti locali, in ordine alla definizione dei propri statuti.
Ma non si tratta di una differenziazione connessa soltanto alla fonte,
investendo direttamente i contenuti : che possono concernere i regimi
applicabili a diverse caratteristiche del territorio, cui vengono a corrispondere
diverse istituzioni (si pensi, ancora, alle peculiarità che vanno estendendosi in
relazione ai territori metropolitani), o possono essere fondate sulle differenze di
dimensioni, all’interno delle medesime categorie di enti (al proposito, sono
significative, anzitutto, le peculiarità di disciplina che riguardano i piccoli
Comuni) ;
- l’obbiettivo di semplificare e ridurre le complessità tra livelli, procedimenti,
organizzazioni è diffuso pressoché ovunque ; ma le vie per perseguirlo possono
essere alquanto diverse. Alcuni sistemi (come Francia e Italia) stanno puntando
su una sensibile riduzione delle funzioni delle Province, prevedendone il
trasferimento a livello comunale, da un lato, regionale, dall’altro, anche nella
prospettiva di sopprimere questi enti. Altri, all’opposto, puntano su un
rafforzamento del livello provinciale, come risposta alle inadeguatezze dei
Comuni. In questa direzione, si sta muovendo, ad esempio, la Spagna ; dove,
peraltro, significativamente i due principali partiti si sono presentati con
proposte che, sul punto, si muovevano in direzioni decisamente opposte ;
- la flessibilità normativa che tende a divaricare la posizioni dei livelli regionali
dotati di poteri legislativi (come Spagna, Italia, Germania, Austria, Belgio)
dalle situazioni (come la Francia) in cui le Regioni non rappresentano che un
decentramento di tipo amministrativo, va forse, in qualche misura e in diverse
forme, riducendosi. In vari Paesi, gli spazi di autonomia riconosciuti ai
legislatori regionali tendono ad un ridimensionamento (si pensi, anzitutto, agli
orientamenti della riforma costituzionale attualmente all’esame del Parlamento
italiano) ; mentre rilevanti posizioni tendono a valorizzare poteri normativo-
regolamentari in capo a Regioni amministrative (come quelle francesi) ;
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- ancora diffusamente si tende a rivedere la geografia amministrativa, ai vari
livelli. Sul piano regionale, certamente il caso più spettacolare è costituito dalla
operazione compita in Francia, con la riduzione del numero delle Regioni da
22 a 14 ; ma in Italia sono ricorrenti proposte di analoga impostazione, mentre
in Germania continua ad essere discussa l’importante ipotesi di fusione tra
Berlino e il Brandeburgo. Ancora l’Italia, sul livello intermedio (se non
arriverà ad una piena soppressione delle Province) sta puntando su un disegno
ad « aree vaste » ben più ampie delle attuali circoscrizioni provinciali.
Eclatanti, poi, sono i cambiamenti realizzati a livello comunale in alcuni Paesi.
Si pensi, anzitutto, alla Grecia; che ha ridotto il numero dei Comuni del 94%,
passando da 5.922 a 325. Meno spettacolare, ma comunque notevolmente
incisivo, si presenta il processo di fusioni realizzato in Germania, che – dopo
aver raggiunto, dopo la riunificazione, un numero di Comuni superiore a
16.000 – ora ne presenta circa 12.000. Del resto, laddove, come in Francia,
Spagna o Italia le fusioni tra piccoli Comuni faticano a realizzarsi, si affermano
importanti tendenze a risolvere le insufficienze dei piccoli Comuni mediante
robuste forme di associazionismo intercomunale ;
- nell’ambito di queste dinamiche, i sistemi europei stanno anche tentando di
affrontare la complessità derivante dalla sovrapposizione di una pluralità di
livelli, costituiti da pesanti strati di amministrazioni e di istituzioni politiche. In
questo senso, come si è accennato, si persegue talora una prospettiva di totale
soppressione di determinati livelli (a partire da quelli provinciali). Ma in altri
casi, e comunque nel breve periodo, si ridimensiona il peso di questi livelli ;
- ugualmente, sembrano acquisire un certo rilievo forme di organizzazione ad
elezione indiretta, tendenti ad affidare ai medesimi amministratori la gestione
di diversi enti locali sui medesimi territori. Una modalità di questo tipo si
applica tradizionalmente alle Province spagnole, cui ora si affiancano le
Province e le Città metropolitane italiane. D’altronde, significativa è la
prospettiva francese di due livelli di amministratori locali chiamati a governare
ciascuno due livelli di amministrazione (comunale e intercomunale. da un lato ;
provinciale e regionale, dall’altro)
In questi termini, le istituzioni locali vanno trasformandosi, nell’Europa
occidentale, alla ricerca di una modernizzazione-razionalizzazione volta ad
adeguare le loro strutture ed il loro funzionamento alle nuove esigenze: in termini
di dimensioni degli ambiti territoriali degli enti e della prestazione dei servizi, di
semplificazione delle strutture e delle modalità di azione, di rappresentatività e
funzionalità degli organi, di contenimento dei relativi costi, di trasparenza e di
comunicazione, di partecipazione e di rapporti con la collettività.
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Certo, le distanze tra i vari sistemi territoriali, in Europa, possono apparire ancora
importanti . Eppure, nell’evoluzione recente, esse sembrano ridimensionarsi.
Soprattutto se si presta attenzione non soltanto alle formule giuridiche, ma soprattutto
alla sostanza delle misure adottate.
E forse non è azzardato prevedere che, a fronte di esigenze ampiamente condivise
(di dare risposte a domande sociali fortemente simili, di contrastare la crisi, di
rilanciare l’economia, di migliorare l’efficacia dei servizi e l’esercizio delle
funzioni, di semplificare istituzioni e apparati, di ottemperare ai condizionamenti
derivanti dall’appartenenza all’Unione europea), le linee di tendenza comuni sono
destinate a svilupparsi.
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