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[102]
Antonio Masala
Crisi e rinascita
del liberalismo classico
Edizioni ETS
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Distribuzione
PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]
ISBN 978-884673385-6
A Özge
Prefazione
1
W. LIPPMAN, The Public Philosophy, Little Brown and Company, New York 1955
(trad. it. La filosofia pubblica, Milano, Comunità, 1955, p. 63).
2
Ivi, (trad. it. cit. p. 93-94).
3
L. STRAUSS, What is Political Philosophy?, Free Press, Glencoe 1959 (trad. it. Che
cos’è la filosofia politica?, Argalia, Urbino, 1977 p. 42).
4
S. WOLIN, Politics and Vision. Continuity and Innovation in Western Political
Thought, Little Brown, New York 1960 (trad. it. Politica e visione. Continuità e innovazio-
ne nel pensiero politico occidentale, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 9).
18 Crisi e rinascita del liberalismo classico
5
P. LASLETT (ed.), Philosophy, Politics and Society, First Series, Basil Blackwell, Ox-
ford 1956, p. vii.
6
Ivi, p. ix.
7
P. LASLETT, W.G. RUNCINAM (eds.), Philosophy, Politics and Society, Second Series,
Basil Blackwell, Oxford 1962, p. vii. La raccolta si apriva con un saggio di Isaiah Berlin
dall’emblematico titolo Does Political Theory still Exist? Berlin ripercorrendo le doman-
de classiche della filosofia politica esprimeva preoccupazione per la condizione in cui si
trovava la teoria politica, e indicava come si sarebbe dovuta ritrovare la fiducia nella possi-
bilità di indagare razionalmente le scelte umane, le quali non si devono mai ritenere com-
pletamente “assoggettate” all’ideologia, come invece troppo spesso avviene. «Rationality
rests on the belief that one can think and act for reasons that one can understand, and not
merely as product of occult casual factors which breed “ideologies”, and cannot, in any
case, be altered by their victims. So long as rational curiosity exist […] political theory will
Liberalismo e filosofia politica 19
la realtà politica così come essa è, rifiutano ogni domanda e ogni spe-
culazione sul perché dei fenomeni politici, e così rifiutano ogni risposta
al problema dell’obbligazione politica che non sia la semplice consta-
tazione che un’autorità esiste e che le leggi vengono rispettate. La crisi
della filosofia politica era dunque legata con un doppio nodo all’idea,
propria della filosofia analitica prevalente nel secondo dopoguerra, che
fosse impossibile fondare una teoria politica su un qualche principio filoso-
fico, e che alle domande tradizionali di quella disciplina (perché bisogna
obbedire alle leggi e all’autorità, ossia qual è il fondamento dell’obbli-
gazione giuridica e politica, come è possibile definire il miglior regime
politico, come si realizza l’ordine politico e sociale) non fosse possibile
dare risposta. Le domande dello studioso di politica dovevano dunque
essere altre, e inerenti più al funzionamento che al fondamento dei si-
stemi politici, domande su come operano le “pratiche politiche” e non
domande sul significato delle medesime.
Ad essere incriminata come causa della crisi della filosofia politica
era dunque innanzitutto la scienza politica, una disciplina che in quegli
anni si era fortemente innovata con la cosiddetta rivoluzione compor-
tamentista (behavioral revolution). Rispetto alla scienza politica tradi-
zionale (la quale aveva posto al centro della propria ricerca i concetti
di stato e potere, cercando di elaborare rispetto a essi teorie generali
che fossero sia descrittive sia esplicative) i comportamentisti operano
una vera e propria rivoluzione, che è prima di tutto una rivoluzione
epistemologica. L’obiettivo è arrivare a una conoscenza oggettiva e cer-
ta dei fenomeni politici, la qual cosa poteva essere fatta osservando, in
base a procedure rigorose, il comportamento degli attori politici e il
funzionamento dei sistemi politici, i quali presentano delle “regolari-
tà” che è appunto possibile osservare. I dati empirici vengono raccolti
con nuove tecniche di indagine, in particolare interviste e sondaggi, e
si tenta di emulare il “rigore scientifico” di altre scienze sociali, quali
l’economia e la psicologia. Infine i dati confluiscono in teorie più ampie,
e tali da costituire un nucleo di conoscenze universalmente valide e con-
divise, sull’esempio delle scienze naturali, come la fisica o la biologia.
Due importanti corollari di questa impostazione sono la costruzione di
un “linguaggio scientifico” e l’avalutatività, consistente nel distingue-
re fatti e valori, analisi e prescrizioni, una caratteristica che a giudizio
dei comportamentisti non avevano né la scienza politica tradizionale né
la filosofia politica. Certo il comportamentismo non fu un movimento
perfettamente omogeneo, basti pensare a come l’intero approccio possa
Liberalismo e filosofia politica 21
12
Come noto il Wiener Kreis, sul quale esiste una letteratura assai ampia, si sviluppò
a partire dal 1922, per spegnersi definitivamente nel 1936 dopo l’invasione dell’Austria da
parte di Hitler. Tra i suoi principali esponenti che hanno avuto un rilievo per i temi qui
trattati si ricordano Rudolf Carnap e Otto Neurath, ma anche Karl Menger (figlio di Carl,
il fondatore della Scuola austriaca) e il matematico Richard von Mises (fratello del liberare
Ludwig).
13
Vanno almeno ricordati H. LASSWELL, A. KAPLAN, Power and Society, Yale Univer-
sity Press, New Haven 1950, i quali innestarono l’idea neopositivistica di una conoscen-
za “fattuale” su quei metodi di ricerca empirica che la scienza politica americana aveva
sviluppato, cercando di emulare l’economia, la scienza sociale che a loro giudizio aveva
raggiunto i migliori risultati. Ma va ricordato anche Herbert Simon, il quale si occupò di
come rendere scientifico il linguaggio della scienza politica. Particolarmente significativa è
l’idea di Simon secondo cui non si avranno mai progressi nella teoria politica sino a quan-
do essa continuerà a utilizzare un linguaggio “metafisico” e un grado di rigore scientifico
che non passerebbe “un elementare corso di logica”. Il passo di Simon è citato a p. 235
da J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of American Vocation,
University of Chicago Press, Chicago 1993. Al capitolo 10 di quell’opera si rimanda anche
per un quadro generale sul comportamentismo nella scienza politica americana e sulle sue
implicazioni per la filosofia politica.
22 Crisi e rinascita del liberalismo classico
14
H. FEIGL, The Wiener Kreis in America, in «Perspective in American History», 2,
1968 (trad. it. Il Circolo di Vienna in America, Armando, Roma 1980, p. 16)
15
In forme diverse quest’idea si sarebbe dimostrata duratura, basti pensare alla tesi
sostenuta da Daniel Bell, in un libro che negli anni Sessanta ebbe grande influenza: D.
BELL, The End of Ideology. On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, Macmil-
lan, London 1962 (seconda edizione rivisitata). A suo giudizio nelle società occidentali
(ma la sua analisi si concentra sugli Stati Uniti), il ruolo delle grandi ideologie politiche
(liberalismo, conservatorismo e marxismo) si è ormai esaurito, poiché si era esaurita la
loro capacità di suscitare emozioni e adesione. Parimenti si sarebbero esauriti gli scontri
ideologici che da questo derivavano, e si sarebbe andato consolidando il consenso intorno
ad alcuni valori. Il posto delle ideologie ottocentesche sarebbe infine stato preso da nuove
“parochial ideologies” e soprattutto da “technological” conoscenze e scelte. Secondo Bell
dunque bisogna concentrare gli sforzi su questioni pratiche e concernenti il buon funzio-
namento delle democrazie, abbandonando le riflessioni sulle “visioni del mondo” e sui
fondamenti ultimi della convivenza politica. Le tesi di Bell, nonostante fosse chiaro che i
fatti sembravano smentirle, continuarono a suscitare un grande interesse ancora negli anni
Settanta e Ottanta.
Liberalismo e filosofia politica 23
2. Liberalismo e relativismo
Chi però si confrontò con maggiore decisione con l’idea che il li-
beralismo fosse responsabile della crisi della filosofia politica fu Strauss.
Egli vedeva coincidere la crisi del mondo contemporaneo con la crisi
della filosofia politica, una disciplina che a suo dire aveva perso la con-
sapevolezza del suo compito e dei suoi princìpi. In ragione della durezza
della sua critica, che investe tutta la modernità prima ancora che il libe-
ralismo e i regimi politici contemporanei16, Strauss si pone come un pas-
saggio obbligato nel momento in cui si tenta di indagare se veramente
dopo la Seconda guerra mondiale il liberalismo si trovasse in uno stato
di crisi, teorica prima che pratica17. Pur prendendo le mosse da lontano,
la critica di Strauss al liberalismo e alla democrazia ha un punto di rife-
rimento costante in un fatto storico a lui assai vicino, sia nel tempo sia
perché lo coinvolgeva direttamente in quanto ebreo.
A suo giudizio l’esempio più chiaro della mancata soluzione, da
parte del liberalismo, di quello che egli chiamava il “problema politico”
per eccellenza, ossia il problema della convivenza civile, è la questione
ebraica, che egli definisce come «il simbolo più palese del problema
umano dal momento che è un problema sociale e politico»18. Durante la
repubblica di Weimar si tentò di risolvere il problema ebraico seguendo
i princìpi del liberalismo, ossia concedendo agli ebrei i pieni diritti ci-
vili e politici, in modo tale che essi divenissero semplicemente cittadini
tedeschi di fede ebraica. Poiché la democrazia liberale vede nella “mo-
ralità umana universale” il legame della società, mentre la religione è
relegata a fatto privato, la soluzione consisteva nel fatto che le differenze
religiose non dovevano essere rilevanti e i cittadini ebrei sarebbero do-
vuti essere cittadini come tutti gli altri.
Naturalmente ciò non fu una vera soluzione, poiché si «arrecava
16
Interessanti considerazioni a tale proposito si trovano in F. MONCERI, La filosofia
politica fra relativismo e nichilismo. La critica di Leo Strauss a Friedrich Nietzsche e Max
Weber, in «Filosofia politica», n. 2, 2000, pp. 223-248.
17
La letteratura sulla critica di Strauss al liberalismo e alla democrazia è estremamen-
te ampia, per indicazioni bibliografiche cfr. C. ALTINI, Introduzione a Leo Strauss, Laterza,
Bari-Roma 2009 e R. CUBEDDU, Tra le righe. Leo Strauss tra Cristianesimo e liberalismo, Co-
stantino Marco, Lungro di Cosenza 2010. Per una ampia panoramica sulla sua riflessione
e sulla sua eredità si veda su tutti S.B. SMITH (ed. by), The Cambridge Companion to Leo
Strauss, Cambridge University Press, Cambridge 2009.
18
L. STRAUSS, Spinoza’s Critique of Religion, Schoken, New York 1965 (trad. it. in
Liberalismo antico e moderno, Giuffrè, Milano, 1973, p. 285).
24 Crisi e rinascita del liberalismo classico
19
Ivi, (trad. it. cit. p. 283).
20
Ivi, (trad. it. cit. p. 285). Questo naturalmente non gli impedisce di rilevare che la
soluzione liberale del problema ebraico “è superiore alla “soluzione” comunista” (ivi).
Liberalismo e filosofia politica 25
21
Cfr. L. STRAUSS, Natural Right and History, Chicago University Press, Chicago 1953
(trad. it. Diritto naturale e storia, Il Melangolo, Genova 1990), in particolare l’introduzione.
22
Ivi, (trad. it. cit. p. 7).
23
La critica di Strauss alla moderna scienza politica è una delle parti più conosciute
della sua riflessione, ed egli la riteneva un passaggio fondamentale anche per fare chiarez-
za sui compiti della filosofia politica. È infatti dall’impossibilità di concepire una scienza
politica veramente “value-free” che Strauss prende le mosse per dimostrare la necessità di
un confronto con le domande classiche della filosofia politica, cfr. soprattutto L. STRAUSS,
What is Political Philosophy? op. cit. (trad. it. pp. 33-54). La sua critica della moderna
scienza politica è stata accuratamente ricostruita da N. BEHNEGAR, Leo Strauss, Max Weber
and the Scientific Study of Politics, Chicago University Press, Chicago 2003, il quale con-
clude, in modo solo apparentemente paradossale, che quella di Strauss è indubbiamente
una trattazione scientifica della politica.
26 Crisi e rinascita del liberalismo classico
24
L. STRAUSS, Natural Right and History op. cit. (trad. it. cit. p. 10).
25
L. STRAUSS, Liberalism Ancient and Modern, Basic Books, New York-London 1968
(trad. it. Liberalismo antico e moderno, Giuffrè, Milano, 1973, p. 85); la citazione fatta da
Strauss è da E.A. HAVELOCK, The Liberal Temper in Greek Politics, Yale University Press,
New Haven, 1957, p. 374.
Liberalismo e filosofia politica 27
26
L. STRAUSS, Liberalism Ancient and Modern op. cit. (trad. it. cit. pp. 275-276).
27
L. STRAUSS, Relativism, in H. Schoek, J.W. Wiggins (eds.) Relativism and the Study
of Man, Van Nostrand, Princeton 1961; (trad. it. in Gerusalemme e Atene. Studi sul pensie-
ro dell’occidente, introduzione di R. Esposito, Einaudi, Torino, 1998, pp. 319-334). Sulla
critica di Strauss al liberalismo, e al relativismo che a suo giudizio esso aveva accettato,
si veda S. HOLMES, Anatomy of Antiliberalism, Harvard University Press, Cambridge,
(Mass.) 1993 (trad. it. Anatomia dell’antiliberalismo, Comunità, Milano 1995, pp. 103-105
e pp. 114-117).
28
Su questa definizione, contenuta in I. BERLIN Two Concepts of Liberty, Clarendon
Press, Oxford, 1958 (trad. it. Due concetti di libertà, Feltrinelli, Milano 2000), si tornerà
nel quarto capitolo.
28 Crisi e rinascita del liberalismo classico
29
Cfr. L. STRAUSS, Relativism op. cit. (trad. it. cit. pp. 321-324).
30
Ivi, (trad. it. cit. p. 234).
31
L. STRAUSS, What is Political Philosophy? op. cit. (trad. it. cit. pp. 34 e ss.).
Liberalismo e filosofia politica 29
non sia del tutto scomparsa»32. Per Strauss la crisi della filosofia politi-
ca è dunque in gran parte imputabile a quella che lui chiama “scienza
sociale positivistica”, che con «un processo di emancipazione o di astra-
zione dai giudizi morali» sostiene che «la sordità morale è la condizione
necessaria alla analisi scientifica»33. Insomma, la filosofia politica sem-
bra, a causa del suo rincorrere la scienza sociale positivistica, aver defi-
nitivamente dimenticato l’insegnamento dei classici e la loro riflessione
su cosa sia e come sia realizzabile il miglior regime politico. Un atteggia-
mento per Strauss incomprensibile, tanto più dopo che “il grosso evento
del 1933” ha dimostrato «che l’uomo non può abbandonare la questione
della società buona, e che non può liberarsi dalla responsabilità di ri-
spondervi col deferirla alla Storia, o a qualsiasi altro potere diverso da
quello della propria ragione»34.
32
Ivi, (trad. it. cit. p. 42).
33
Ivi, (trad. it. cit. p. 44).
34
Ivi, (trad. it. cit. p. 54).
35
Ivi, (trad. it. cit. p. 66).
36
Considerazioni importanti a tale riguardo si trovano in T. FULLER, The Comple-
mentarity of Political Philosophy and Liberal Education in the Thought of Leo Strauss, in
S.B Smith (ed.), The Cambridge Companion to Leo Strauss, Cambridge University Press,
Cambridge, 2009, pp. 241-262.
30 Crisi e rinascita del liberalismo classico
Ciò che dopo venne chiamato “processo storico” era ancora per lui
causalità fortuita, o meglio causalità fortuita corretta da una manipolazione
prudenziale degli avvenimenti, a mano a mano che essi sorgessero. Cosicché
l’ordine politico sano era per lui, in ultima analisi, il risultato inatteso di una
causalità fortuita. Egli applicò alla formazione dell’ordine politico sano ciò che
l’economia politica moderna gli aveva insegnato sulla creazione della prospe-
rità pubblica: il bene comune è il prodotto di attività che non sono di per sé
ordinate verso il bene comune. Burke ammette il principio dell’economia po-
litica moderna, che è diametralmente opposto al principio classico: ammette
che “l’amore del guadagno”, “questo naturale, ragionevole … principio”, “è
la grande causa della prosperità di tutti gli stati”. L’ordine buono o razionale
è il risultato di forze che di per sé stesse non tendono verso l’ordine buono o
razionale.40
39
L. STRAUSS, What is Political Philosophy? op. cit. (trad. it. p. 81, corsivo aggiunto).
Per una ricostruzione e analisi di questi problemi si veda R. CUBEDDU, «La soluzione del
problema politico tramite mezzi economici». Economia e modernità nell’interpretazione di
Leo Strauss, in S. Maffettone e A. Orsini (a cura di) Studi in onore di Luciano Pellicani,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, pp. 137-163.
40
L. STRAUSS, Natural Right and History op. cit. (trad. it. cit. pp. 338-339).
32 Crisi e rinascita del liberalismo classico
43
L. STRAUSS, Natural Right and History op. cit. (trad. it. cit. pp. 36-37).
44
S. WOLIN, Politics and Vision… op. cit. (trad. it. cit. pp. 413 e ss.).
45
L’idea che il liberalismo pensi a un ordine che faccia a meno della politica è stata
in anni recenti ripresa, in una prospettiva diversa da quella di Wolin, da Richard Bellamy
in due importanti volumi R. BELLAMY Liberalism and Pluralism, Routledge, London-New
York 1999 e Rethinking Liberalism, Pinter, London 2000.
34 Crisi e rinascita del liberalismo classico
dal quale ha origine l’attuale crisi della filosofia politica. «Il decli-
no delle categorie politiche e l’ascesa di quelle sociali costituiscono
i tratti distintivi della nostra situazione attuale in cui la filosofia po-
litica è stata eclissata da altre forme di conoscenza. Oggi per noi è
naturale rivolgerci all’economista o al sociologo in cerca di ricette
per combattere i mali della società, assumendo che siano loro, e non i
filosofi politici, a possedere il tipo appropriato di conoscenza» 46.
Con Locke ha anche inizio quella revisione verso il basso dei
compiti della filosofia che, a giudizio di Wolin, caratterizza il libera-
lismo contemporaneo. Infatti mentre i filosofi politici classici, Aristo-
tele e Platone su tutti, si proponevano come compito il miglioramento
dell’uomo, quasi a raggiungere la perfezione, Locke relega l’uomo in
uno “stato di mediocrità” e adegua i compiti della filosofia politica a
queste capacità limitate. La filosofia politica liberale divenne allora
filosofia dei limiti delle capacità umane e dei limiti dell’azione politi-
ca. La conseguenza è che ciò a cui essa deve mirare non è più, come
per i classici, il raggiungimento del sommo bene e della vita buona,
bensì l’acquisizione di una conoscenza pratica che consenta di sfrut-
tare il mondo naturale, preoccupandosi del miglioramento della vita
quotidiana. Da Locke prenderebbe dunque avvio quella riduzione
della filosofia politica all’economia che contraddistingue il liberali-
smo: l’economia diventa la “scienza della società”, società che viene
intesa come «una rete di attività svolte da attori che non riconoscono
alcun principio di autorità» 47. La società è dunque un ordine spon-
taneo, e in tal modo viene tendenzialmente meno quella necessità
dell’autorità e del potere politico che invece aveva caratterizzato sino
ad allora la teoria politica. Bisogna dunque eliminare tutto ciò che
in passato, ritenendo erroneamente la politica una “attività creativa”,
era stato fatto, e lasciare libero campo all’azione economica e sociale,
da cui può venire la soluzione per gli affari pubblici. Proprio in que-
sta concezione, e in questo “carattere minimale dell’ordine politico”,
consiste quel declino della teoria politica che caratterizza, secondo
Wolin, la riflessione contemporanea48.
46
S. WOLIN, Politics and Vision… op. cit. (trad. it. cit. p. 421).
47
Ivi, (trad. it. cit. p. 435).
48
Wolin muove anche un’altra importante critica al liberalismo, che può essere sinte-
tizzata nell’idea per la quale il liberalismo ha trovato, o almeno cercato, nel conformismo
sociale un surrogato per il perduto senso della comunità, facendone l’elemento che con-
sente, una volta eliminata l’autorità, la convivenza tra le varie libertà.
Liberalismo e filosofia politica 35
49
Ivi, (trad. it. cit. p. 630).
50
Ivi, (trad. it. cit. p. 631).
51
Ivi, (trad. it. cit. p. 636). L’obiettivo di Wolin, in contrapposizione al liberalismo
e a quelle che egli ritiene essere le sue conseguenze, è dunque riaffermare il valore della
comunità. In questo egli è vicino a un altro autore che negli stessi anni era uno dei prin-
cipali artefici del ritorno alla comunità come riferimento supremo della politica: Carl J.
Friedrich. A giudizio di Friedrich la comunità va considerata come il “dato principale
della vita e dell’analisi politica”, poiché l’uomo stesso non può essere compreso se non
come membro di una comunità. Nonostante anch’egli, al pari di Wolin, non fosse un au-
tore pregiudizialmente ostile al liberalismo, arriva a una condanna del liberalismo perché
ritenuto responsabile della crisi della teoria politica. Difendendo l’importanza della comu-
nità come elemento primo per la comprensione dell’esperienza politica, egli infatti critica
il liberalismo per il suo aver ribaltato l’ordine delle cose, ossia per aver posto l’individuo
prima e a fondamento della comunità stessa. Su questi ed altri temi si veda la raccolta C.J.
FRIEDRICH, L’uomo, la comunità, l’ordine politico, Il Mulino, Bologna 2002 [1948-1969].
36 Crisi e rinascita del liberalismo classico
4. Liberalismo e positivismo
52
J.H. HALLOWELL, The Decline of Liberalism as an Ideology: with particular reference
to German Political-Legal Thought, Kegan Paul, London 1943, il libro, frutto della tesi di
dottorato, ebbe molte e importanti recensioni, tra cui quelle di Hans J. Morgenthau, Ge-
orge H. Sabin, una decisamente elogiativa di Voegelin e una non molto positiva di Hayek,
che gli rimprovera una certa superficialità.
53
J.G. HALLOWELL, The Moral Foundation of Democracy, University of Chicago Press,
Chicago 1954 (trad. it. Il fondamento morale della democrazia, Giuffrè, Milano 1995) e
J.G. HALLOWELL, Main Currents in Modern Political Thought, Holt, Rinehart and Win-
ston, New York 1960. Da ricordare anche un breve ma denso saggio pubblicato ne «Il
Ponte», con cui Hallowell presentò le sue tesi ai lettori italiani, J.G. HALLOWELL, Il libera-
lismo d’oggi, in «Il Ponte», fascicolo iv, 1948.
Liberalismo e filosofia politica 37
gettare luce su alcuni punti critici del liberalismo, ma anche su quale sia
il suo rapporto con la tradizione democratica.
A giudizio di Hallowell il liberalismo integrale è caratterizzato
dal credere nell’esistenza di una legge naturale (natural law), in grado di
offrire degli standard immutabili di riferimento. Non si tratta più della
legge naturale cristiana, rivelata, poiché il concetto di legge naturale
aveva subìto una lenta evoluzione, già con gli scritti di Grozio. Quella
che Hallowell chiama legge naturale “moderna” (e che forse avrebbe
più correttamente potuto chiamare diritto naturale), cui appunto fa rife-
rimento il liberalismo, è un insieme di verità e valori eterni che vengono
scoperti dalla ragione. Il liberalismo nasce dopo che dalla disgregazione
dell’ordine feudale, nel quale non vi era una separazione netta tra sfera
pubblica e sfera privata, tra stato e società, emerge lo stato moderno,
e la nascita di un ordine politico “impersonale”, rispetto al quale gli
individui acquisiscono una sfera di autonomia sconosciuta al mondo
medievale. Ecco allora che al vecchio problema medievale del rapporto
tra autorità ecclesiastica e autorità secolare si sostituisce il problema del
rapporto tra stato e società, o meglio ancora tra la sfera dell’autorità po-
litica e quella dell’autonomia individuale54. Il liberalismo è una filosofia
basata sull’individualismo, e nasce come “risposta specifica” a questo
problema, e solo davanti a un problema come questo esso ha senso. La
risposta consiste nel ritenere che l’individuo debba essere unicamente
sottomesso all’autorità di una legge “impersonale, imparziale ed eter-
na”, ossia della legge naturale concepita come derivante dalla natura
umana. Come si è detto tale legge ha un contenuto che può essere sco-
perto dalla ragione, ed è poi responsabilità degli individui rendere la
legge positiva conforme alla legge naturale55. L’individuo è veramente
libero quando obbedisce a una tale legge naturale, e lo strumento che
consente di riconciliare la libertà naturale dell’individuo con la legge
naturale del genere umano è il senso di obbligazione derivante dalla
coscienza, che è la vera chiave di volta di tutta la costruzione. Infatti solo
se si crede all’esistenza di verità oggettive e di valori che trascendono
l’uomo si può avere un ordine giusto.
Questo primo e, secondo Hallowell, autentico liberalismo emerge
dai valori e dall’ambiente culturale del Cristianesimo che si ritrovano
chiaramente tanto nella concezione politica di Locke, per il quale non
54
J.G. HALLOWELL, The Moral Foundation of Democracy, op. cit. (trad. it. cit. pp. 80 e ss.)
J.H. HALLOWELL, The Decline of Liberalism…, op. cit., pp. 6 e ss.
55
Ivi, pp. 6 e ss.
38 Crisi e rinascita del liberalismo classico
56
Ivi, pp. 27 e ss.
57
Ivi, pp. 30-31 e 73-75. Ma anche J.G. HALLOWELL, Main Currents… op. cit., p. 107 e ss.
Liberalismo e filosofia politica 39
58
J.H. HALLOWELL, The Decline of Liberalism…, op. cit., pp. 57 e ss. e 70-72.
59
Ivi, pp. 14 e ss. Interessante a tale proposito sarebbe un confronto con il pensiero
di Bastiat, come sviluppato in F. BASTIAT, Harmonies Économiques, 1850 (trad. it. Armonie
economiche, Introduzione di F. Ferrara, UTET, Torino 1965). La tesi di Bastiat era che
l’ordine divino si sarebbe realizzato nel mondo se gli uomini, o meglio gli uomini politici,
non interferissero continuamente con la sua realizzazione, e poneva questa idea alla base
della sua concezione liberale. A questo riguardo si veda R. CUBEDDU, A. MASALA, Natural
Rights, providence and Order. Frédéric Bastiat’s Laissez-faire, in «Journal des Economistes
et des Etudes Humaines», XI, nn. 2-3, 2001, pp. 331-336.
60
Il concetto è prima espresso in J.H. HALLOWELL, The Decline of Liberalism…, op.
cit., p. 35 e poi con maggiore forza e chiarezza in J.G. HALLOWELL, The Moral Foundation
of Democracy, op. cit. (trad. it. cit. p. 84). Ma si veda anche J.G. HALLOWELL, Main Cur-
rents…, op. cit., pp. 90 e ss.
40 Crisi e rinascita del liberalismo classico
64
Ivi, pp. 56 e ss.
65
Si vedano a questo proposito i capitoli 7 e 9 di J.G. HALLOWELL, Main Currents…, op. cit.
42 Crisi e rinascita del liberalismo classico
il contenuto della legge, ma solo che essa assuma una forma determina-
ta. L’efficienza tecnica sostituisce la giustizia, e i diritti naturali degli uo-
mini sono sostituiti dai “diritti” dei cittadini concessi dallo stato, salvo
il fatto che, commenta Hallowell, se sono concessi dallo stato non sono
veri diritti ma appunto solo concessioni. Inoltre si afferma la convinzio-
ne che grazie al progresso nelle scienze sia possibile scoprire delle leggi
certe del progresso sociale, e che esso possa essere determinato proprio
grazie all’applicazione di metodi e ricerche più sofisticati.
Con l’imporsi del positivismo non rimane più nulla del vecchio
liberalismo integrale, e si afferma definitivamente il liberalismo formale.
Il “vocabolario” del liberalismo rimane lo stesso, ma il modo di intende-
re i concetti fondamentali cambia completamente. Ritenendo il metodo
empirico della scienza naturale l’unico metodo valido i positivisti, in-
clusi quelli che si dichiarano liberali, negano la possibilità di un ordine
morale, di valori morali, poiché negano l’esistenza di tutti gli aspetti
spirituali dell’essere umano, aspetti che non possono essere descritti e
studiati con il metodo empirico. Ne consegue anche la negazione «di
quella premessa dell’assoluto valore morale individuale che costitui-
sce il fondamento del liberalismo nella sua concezione originaria», e la
sostituzione dell’ordine «trascendente potenzialmente incarnato nella
ragione e nella coscienza» con la «concezione di un ordine immanen-
te della natura», già esistente, che non richiede nessuno sforzo morale
agli individui e che può essere scoperto con la metodologia scientifica66.
Insomma, al posto della legge naturale del liberalismo integrale, sco-
pribile dalla ragione e attuabile con la coscienza, con lo sforzo morale
dell’individuo, i positivisti liberali vedono delle leggi fisiche e ricerca-
no l’ordine e il destino dell’uomo nel processo naturale e nel processo
storico. La conseguenza è la deresponsabilizzazione dell’individuo, e il
trasformarsi della libertà in licenza; viene meno anche il concetto stesso
di giustizia, considerato metafisico, e il solo criterio di valutazione del-
la legge diviene il fatto che esiste, che è stata promulgata dall’autorità
competente.
Scomparendo le considerazioni morali del liberalismo integrale,
la conseguenza è una errata equazione tra giusto e legale (ossia promul-
gato dallo stato) e tra ingiusto e illegale. Ma naturalmente tra la giustizia
e la legalità vi è una grande differenza, ed essere liberi solo dalla coer-
66
J.G. HALLOWELL, The Moral Foundation of Democracy, op. cit. (trad. it. cit. pp.
89-90), ma si veda anche J.G. HALLOWELL, Main Currents…, op. cit., in particolare pp.
323-327.
Liberalismo e filosofia politica 43
cizione illegale significa essere solo liberi di fare «tutto ciò che lo stato
non ha ancora proibito», il che è «una concezione della libertà ben più
congeniale alla tirannia che alla preservazione dei diritti inalienabili
dell’uomo»67. La conclusione di Hallowell è durissima: «Ben prima di
Hilter sono stati i giuristi liberali di scuola positivista a insegnare (in
modo esplicito o implicito) che è la forza a fare il diritto, che i diritti non
sono attribuzioni possedute dagli individui in virtù della loro umanità
ma semplicemente rivendicazioni che lo stato può decidere se accogliere
o meno. E questi liberali, per quanto inconsapevolmente, hanno aperto
la strada a Lidice e Dachau»68.
Hallowell in Decline of Liberalism as Ideology69 segue questo pro-
cesso di cambiamento nel significato del diritto, questo processo di
formalizzazione del diritto, e le sue drammatiche conseguenze per la
teoria liberale e la civiltà stessa, soprattutto nella Germania dell’Ot-
tocento sino ad arrivare al suo contemporaneo Hans Kelsen e alla sua
teoria del positivismo giuridico. I rappresentanti del positivismo giuri-
dico continuano spesso a dichiararsi liberali, ma professano a giudizio
di Hallowell un liberalismo molto vicino al nichilismo. E la separazione
tra facts e standard morali non è stata solo una caratteristica del diritto,
ma un fenomeno più generale che ha investito tutte le discipline, come
ad esempio l’economia, la quale si è ridotta a vuote “formule matemati-
che” senza considerazioni istituzionali70. L’aver perso la fede in verità e
valori oggettivi, per rifugiarsi dietro la procedura o la semplice ricerca
empirica e quantitativa, è stata la degenerazione fatale del liberalismo,
che diventando nichilistico ha aperto la porta al nazismo. Nelle sue ope-
re successive Hallowell cercherà di riproporre un fondamento religioso
e cristiano (per l’esattezza parla di tradizione greco-giudaico-cristiana)
per il liberalismo e la civiltà occidentale71; al di là di come si giudichi
quel suo tentativo, la cui analisi esula dagli obiettivi di questo lavoro,
rimane però il suo aver posto in maniera chiara e pressante l’interro-
gativo riguardo alla possibilità del liberalismo di sopravvivere senza il
riferimento a valori assoluti e dunque ad una legge naturale che sia fon-
67
J.G. HALLOWELL, The Moral Foundation of Democracy, op. cit. (trad. it. cit. p. 92).
68
Ivi, p. 93).
69
Si vedano soprattutto gli ultimi due capitoli di J.H. HALLOWELL, The Decline of
Liberalism…, op. cit., Beyond Good and Evil e From Nihilism to Tyranny.
70
Ivi, p. 113-117.
71
Si vedano in particolare J.G. HALLOWELL, Main Currents…, op. cit., capitoli 10 e 18
e J.G. HALLOWELL, The Moral Foundation of Democracy, op. cit., capitoli 5 e 6.
44 Crisi e rinascita del liberalismo classico
data sulla fede e sulla ragione, basandosi solo sulle procedure esaltate
dal positivismo giuridico.
A criticare fortemente una deriva positivistica non solo del libe-
ralismo ma in senso più ampio di tutta la civiltà occidentale fu, come
noto, anche Eric Voegelin, che al pari di Hallowell72 guardava alla fede
cristiana come via d’uscita alla crisi del suo tempo. Nel suo articolato
pensiero, cui purtroppo non riuscì a dare una formulazione definitiva,
si possono cogliere alcune importanti concordanze con le tesi di Hallo-
well, anche se Voegelin retrodata di molto la crisi della civiltà occiden-
tale, e non si concentra soltanto sul liberalismo, che ha un ruolo tutto
sommato marginale in una vicenda decisamente più ampia e dramma-
tica. Voegelin era nato in Germania, aveva poi studiato a Vienna con
Hans Kelsen (ma a Vienna aveva anche seguito il seminario permanente
organizzato da Ludwig von Mises), ed era infine fuggito dal nazismo ri-
fugiandosi negli Stati Uniti. Anch’egli dunque, al pari di Strauss, fu uno
degli “émigrés” tedeschi che portarono la “Weimar conversation” negli
Usa, ed anch’egli esercitò un’influenza profonda e duratura nell’accade-
mia americana.
Voegelin vide proprio nel superamento del positivismo, e del suo
considerare il metodo delle scienze naturali come un criterio di validi-
tà teorica generale, il passaggio obbligato per «una restaurazione della
scienza politica sul piano dei princìpi»73, ossia per quella che lui definiva
la rinascita di una genuina filosofia politica. A essere criticata è soprat-
tutto l’idea che si potesse rendere “oggettiva” la scienza politica tramite
l’esclusione di tutti i giudizi di valore. I positivisti distinguono i “fatti
del mondo fenomenico”, oggettivi, dai “giudizi relativi al giusto ordine
dell’anima”, soggettivi, e negano ogni validità ai secondi, poiché espres-
sione di preferenze personali. Tale “dogma positivistico” ha distrutto la
vera scienza, e «poteva essere accettato solo da pensatori che non co-
noscessero a fondo la scienza classica e cristiana dell’uomo. Infatti né
72
I due studiosi si conoscevano bene e si influenzarono reciprocamente. Hallowell
curò anche E. VOEGELIN, From Enlighment to revolution, edited by J.H. Hallowell, Duke
University Press, Durham 1975, e alla sua scomparsa ne scrisse un ricordo che si con-
clude con queste parole: «Voegelin differs from most modern thinkers in that he takes
God seriously. There is not a better guide to an understanding of what is wrong with
our society, nor a better guide to the course we must follow if we wish to restore our
humanity», J.G. HALLOWELL, Eric Voegelin (1901-1985), in «The intercollege Review»,
Spring-Summer, pp. 3-4, 1985, p. 4.
73
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, University of Chicago Press, Chicago
1952 (trad. it. La nuova scienza politica, Borla, Torino 1968, pp. 50-51).
Liberalismo e filosofia politica 45
81
Ivi, (trad. it. cit. p. 196, corsivo aggiunto).
82
Ivi, (trad. it. cit. p. 220).
83
A tale proposito si vedano proprio le pagine conclusive de The New Science of
Politics, in cui si indicano quella inglese e quella americana come le due rivoluzioni meno
“contaminate” dallo gnosticismo.
84
Il testo, tratto da una conferenza del 1960, fu prima pubblicato in tedesco e solo
in seguito tradotto in inglese, E. VOEGELIN, Liberalism and its History, «The Review of
Politics», XXXVI, n. 4, 1974, pp. 504-520.
48 Crisi e rinascita del liberalismo classico
85
Ivi, p. 506.
86
Cfr. Ivi, pp. 519-520.
Liberalismo e filosofia politica 49
88
È interessante ricordare come non solo alcune delle citate opere di Strauss e di
Voegelin, ma anche alcuni importanti scritti di un’altra celebre emigrata tedesca, Hannah
Arendt, la cui riflessione è fondamentale per capire il tentativo di spiegare la crisi e la
decadenza della modernità, abbiano avuto origine da una serie di seminari promossi, tra il
1949 e 1955 all’Università di Chicago, dalla Fondazione Walgreen. Quelle opere avevano
come caratteristica comune quella di sostenere la razionalità dei giudizi di valore, negata
dal positivismo e da Weber, e di cercare, appunto, un fondamento etico della politica.
Liberalismo e filosofia politica 51
viduare una loro convergenza verso una stessa tematica, che potremmo
definire come il problema etico, o la questione dei valori. Le critiche
rivolte al (moderno) liberalismo consistono proprio nel ritenerlo “in-
differente” rispetto al problema etico, e colpevole di aver pensato che il
problema (politico) della convivenza si potesse semplicemente risolvere
con i “mezzi economici”, senza che fosse necessario un riferimento a dei
valori per fondare quella convivenza civile e senza che si avesse come
obiettivo un miglioramento anche spirituale del genere umano. La vir-
tù, sociale e individuale, non sarebbe per il liberalismo un requisito in-
dispensabile per l’ordine, il quale sarebbe semplicemente il frutto delle
libere interazioni degli individui e della capacità del mercato, e con esso
della società, di autoregolarsi. Questa fiducia illimitata nel meccanismo
automatico del mercato e questo indebolimento del riferimento ai valo-
ri, avrebbe secondo i critici del liberalismo variamente aperto la strada a
diverse forme di relativismo, razionalismo e positivismo, inevitabilmen-
te sfociate nel totalitarismo, la tirannide del mondo contemporaneo.
Quello del liberalismo sarebbe dunque stato un suicidio (l’espres-
sione è di Hallowell) più che un omicidio, poiché sarebbe stato esso
stesso, con il suo abbandono del riferimento a valori e princìpi univer-
sali, a generare quelle forze che poi lo avrebbero distrutto e con esso
avrebbero distrutto la civiltà occidentale. La diffusione di queste idee
spiega anche il successo ottenuto da A Theory of Justice di Rawls, opera
che ripropone con forza, e con una certa solennità, il problema etico
di cosa sia la giustizia (sociale) e di come debba essere organizzata una
società giusta, tema caro ai classici e ai filosofi politici qui analizzati. Per
questo è forse possibile sostenere che quando si proclama che la filosofia
politica, se non l’intera teoria politica, rinasce solo nel 1971 in un certo
senso si vuole anche sostenere che senza “etica” (nel senso più lato del
termine) non c’è filosofia politica.
Partendo da queste premesse è possibile delineare qui alcune con-
siderazioni che introducono al prosieguo di questo lavoro. Una prima
considerazione è di carattere più filosofico e prende le mosse dalla con-
statazione che la crisi della civiltà occidentale e la nascita del totalitari-
smo non hanno origine nei paesi di tradizione liberale, ma in un paese
europeo che aveva prodotto alcune tra le più rilevanti elaborazioni filo-
sofiche nell’età moderna, oltre che un apparato statale particolarmente
energico ed attivo. Non solo il nazismo si era generato nell’ambiente cul-
turale e politico tedesco, con la nota accondiscendenza o almeno accet-
tazione passiva di alcuni grandi filosofi, ma lo stesso comunismo aveva
Liberalismo e filosofia politica 53
sostenuta anche in sede storica1, che la vittoria del liberalismo fosse sta-
ta parziale, e per alcuni aspetti una vittoria di Pirro, valga anche se si
guarda all’evoluzione della teoria liberale. Si può anzi forse sostenere
che lo schianto del liberalismo con la Prima guerra mondiale, e poi con
l’avvento dei totalitarismi, affondi le proprie radici in uno snaturamento
della teoria liberale. Infatti, se le circostanze storiche resero inevitabile
per il liberalismo un cambiamento profondo, la direzione del cambia-
mento fu anche il frutto di una profonda modificazione della teoria li-
berale, sulla quale dopo alcuni decenni i pensatori liberali tornarono a
riflettere.
Intorno al 1870 il liberalismo, a seguito di un lungo processo, ave-
va conquistato un predominio nella maggior parte degli stati europei,
e lo aveva fatto con una discreta “compattezza” interna, in termini sia
politici sia filosofici, e in nome della lotta contro i privilegi di origine
feudale e l’arbitrio dell’autorità politica. In questo senso il liberalismo
fu un grande movimento di emancipazione, che ebbe anche e soprattut-
to a livello morale una forza d’urto quasi senza pari nella storia, e che
per un lungo periodo seppe rappresentare gli interessi della collettività
nella sua interezza. Intorno a quella data, ovviamente con differenze
nei diversi paesi, si arriva anche a una crescente mobilitazione politi-
ca di strati sempre più ampi della popolazione e questo proprio grazie
all’emancipazione prodotta dalle politiche e dalle idee liberali, oltre che
dell’accresciuto benessere realizzato dalle rivoluzioni industriali e dal
capitalismo. È in quel periodo che il liberalismo sembra a molti aver
esaurito il suo compito e trasformarsi da movimento capace di incar-
nare gli interessi dell’intera nazione in “partito della borghesia”, che si
contrappone ai legittimi interessi di altri strati della società. Si assiste in
quel periodo non solo alla nascita del socialismo, ma anche al radicar-
si di partiti di ispirazione religiosa nel continente e a una rinascita in
Gran Bretagna del conservatorismo il quale, recuperando e rafforzando
la sua vena paternalistica, sottrae terreno tanto al socialismo quanto al
liberalismo.
I movimenti politici liberali sembrano dunque collocarsi sulla di-
1
In lingua italiana vi sono almeno due interessanti volumi che trattano questo tema:
P. POMBENI (a cura di), La trasformazione politica nell’Europa liberale. 1870-1890, Il Muli-
no, Bologna 1986 e N. MATTEUCCI, P. POMBENI (a cura di), L’organizzazione della politica.
Cultura, istituzioni, partiti nell’Europa liberale, Il Mulino, Bologna 1988. Particolarmente
interessanti sono i saggi di W. J. Mommsen e E. J. Feuchtwanger contenuti in quelle rac-
colte, alle cui analisi storiche si fa anche in seguito riferimento.
Trasformazioni della teoria liberale 57
fensiva e per la salvaguardia dello status quo. Il fatto che vi possa essere
una sorta di “regressione” una volta che si siano raggiunti alcuni dei
fondamentali obiettivi per i quali si è nati, può, con buoni argomenti,
essere forse considerato un processo storico consueto quando si guarda
ai movimenti e alle leadership politiche. Tuttavia, se si guarda alle idee
politiche, si deve riscontrare come in quel periodo vi furono una serie
di conseguenze molto rilevanti per il liberalismo, e delle trasformazioni
profonde nella tradizione liberale. Vi fu l’affievolirsi della dottrina del
costituzionalismo, che non sembrava più esercitare né fascino né appeal
elettorale. Vi fu la perdita di fiducia nella “pubblica opinione”, che già
da Locke era stata ritenuta l’elemento capace di limitare il potere dello
stato e salvaguardare i diritti degli individui, che ora veniva invece vi-
sta come sempre più facilmente influenzabile dai socialisti e dalle idee
ostili ai liberali 2. Vi fu l’abbandono, graduale ma deciso, delle dottrine
del libero scambio, e una sempre maggiore accettazione, se non anche
un’esplicita richiesta, dell’intervento statale a sostegno dell’economia e
degli interessi del capitalismo nazionale – cosa che peraltro portò molti
liberali a sostenere il colonialismo e a guardare al nazionalismo, i quali
per molteplici motivi si rivelarono strumenti utili per contrastare l’avan-
zata socialista. In sintesi il liberalismo abbandonò sia il principio di non
interferenza dello stato sia la fiducia nel principio dell’armonia degli
interessi, e dunque dell’idea che il mercato, e con esso la società, siano
in grado di autoregolarsi.
Naturalmente gli eventi storici ebbero un ruolo importante. L’Ot-
tocento, il secolo borghese, aveva assistito a una crescita economica e
a uno sviluppo del mercato ininterrotti, che avevano rappresentato un
vantaggio non solo per gli imprenditori ma anche per la gente comune,
per il popolo in generale. A quel lungo periodo di imponente crescita
seguì la grande depressione del 1873-96, la quale mise in discussione
la fiducia delle classi sociali (e del liberalismo stesso) nella capacità del
mercato di autoregolarsi, e forse più in generale mise in crisi la fiducia
nel mercato come miglior sistema per produrre ricchezza3. Si levarono
2
Come noto le preoccupazioni che Alexis de Tocqueville espresse in La démocratie
en Amérique riguardo ai pericoli della tirannia della maggioranza furono poi fatte proprie
da John Stuart Mill ed ebbero così grande circolazione in Gran Bretagna.
3
Riflessioni interessanti su come il liberalismo, per affermarsi prima e sopravvive-
re poi, abbia bisogno di uno sviluppo e una crescita ininterrotti, di un ottimismo del
progresso, sono sviluppate in G. ORSINA, La globalizzazione dal volto umano. L’ideolo-
gia dell’internazionalismo liberale, in G. Orsina, (a cura di) Culture politiche e leadership
58 Crisi e rinascita del liberalismo classico
nell’Europa degli anni Ottanta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, pp. 55-158, il quale,
pur concentrandosi sull’internazionalismo liberale del secondo dopoguerra, svolge consi-
derazioni rilevanti anche per la teoria politica liberale.
4
Il riferimento è ad F.A. VON HAYEK (ed.), Capitalism and Historians, Routledge & Kegan
Paul, London 1954 (trad. it. Il capitalismo e gli storici, Bonacci editore, Roma 1991). La tesi
Trasformazioni della teoria liberale 59
vita delle classi più povere crebbe costantemente, e più che lo strappare
alle campagne delle popolazioni più o meno felici di vivere lì, si diede
una speranza di vita a una parte della popolazione destinata altrimenti
a morire di fame. Ovviamente negli anni della rivoluzione industriale
vi erano molte reali situazioni di grande povertà e degrado, ma sicura-
mente ben inferiori a quelle delle epoche precedenti. Ciò che avvenne
in quegli anni fu semplicemente che quelle situazioni divennero visibili,
e che una società diventata più ricca grazie allo sviluppo capitalistico di-
venne anche più sensibile al tema della povertà e vide ciò che prima era
invisibile e assai più grave, nonostante la mitizzazione che era stata fatta
riguardo ai presunti scrupoli morali della società preindustriale5. L’età
del capitalismo non solo aumentò i redditi reali e la quantità e qualità di
beni a disposizione delle classi lavoratrici, ma per la prima volta seppe
individuare dei mali sociali, renderli pubblici e per quanto possibile
affrontarli, anche tramite l’azione delle autorità pubbliche.
Il mito del capitalismo che impoverisce i lavoratori si venne dun-
que a creare per vari motivi, ma tre di essi sono particolarmente interes-
santi6. Un primo motivo è appunto che si vennero meglio a conoscere
situazioni prima “invisibili”, e considerate sino ad allora come qualcosa
di “naturale” da chi le conosceva, e si attribuì l’esistenza e la responsa-
bilità di tali situazioni alla rivoluzione industriale e al capitalismo. Un
secondo motivo riguarda invece il progresso e la percezione che di esso
si ebbe: il fatto che il miglioramento economico (e il conseguente mi-
glioramento delle condizioni di vita dei lavoratori) di quell’epoca fosse
costante e (relativamente) lento, fece dimenticare che il progresso non
è qualcosa di automatico e scontato, e che nelle epoche precedenti a un
tale miglioramento non si era affatto assistito. Vi è poi un terzo motivo,
legato al fatto che i “libri blu” delle commissioni parlamentari furono
compilati prevalentemente per iniziativa dei Tories, i quali non soltanto
sostanzialmente ignoravano le condizioni dei lavoratori nelle fabbriche,
ma erano anche condizionati da una sorta di disprezzo aristocratico nei
confronti degli industriali e fecero di quell’occasione una “crociata par-
lamentare contro le fabbriche”, che negli anni successivi fu utilizzata
centrale si trova peraltro esposta già in F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, The University
of Chicago Press, Chicago 1944 (trad. it. La via della schiavitù, Rusconi, Milano 1995 p. 65).
5
Tesi interessanti a questo proposito si trovano in G. HIMMELFARB, The Idea of Po-
verty: England in the Early Industrial Age, Knopf, New York 1984.
6
Il riferimento è sempre a F.A. VON HAYEK (ed.), Capitalism and Historians, op. cit.
e in particolare al saggio di Hayek ma anche a quelli di T.S. Ashton e V. H. Hutt.
60 Crisi e rinascita del liberalismo classico
10
Alla influenza del nuovo liberalismo è soggetta come noto anche una parte molto
importante della filosofia contemporanea. La letteratura sul nuovo liberalismo, che anno-
vera tra i suoi più importanti esponenti, oltre a Green, Bernard Bosanquet, Leonard T.
Hobhouse, John A. Hobson, David Ritchie solo per citare i nomi più noti è molto ampia;
tra le opere più rilevanti si vedano i numerosi scritti di Michael Freeden, in particolare, no-
nostante gli anni, M. FREEDEN, The New Liberalism. An Ideology of Social Reform, Claren-
don Press, Oxford 1978, e il suo più ampio e ambizioso lavoro M. FREEDEN, Ideologies and
Political Theory. A Conceptual Approach, Clarendon Press, Oxford 1996 (trad. it. Ideologie
e teoria politica, Il Mulino, Bologna 2000), dove pagine importanti sono dedicate al nuovo
liberalismo e alle trasformazioni della teoria liberale. Alcune considerazioni interessanti
sul nuovo liberalismo sono svolte anche nella prima parte di R. BELLAMY Rethinking Lib-
eralism, op. cit., che peraltro prende anche in esame l’italiano Guido de Ruggiero.
11
Sull’argomento si veda almeno D. BOUCHER, A. VINCENT, British Idealism and Po-
litical Theory, Edinburgh University Press, Edinburgh 2000.
62 Crisi e rinascita del liberalismo classico
dell’evoluzionismo darwiniano12.
A giudizio dei nuovi liberali era un dovere l’innalzare tutti i mem-
bri della collettività a condizioni di vita dignitose, e questo poteva esse-
re fatto solo con il ricorso all’intervento diretto dello stato. Nonostante
non vi fosse sempre accordo tra i vari pensatori sull’entità di tale inter-
vento e vi fosse una differenza di vedute su quanto vi dovesse essere di
responsabilità individuale e quanto di responsabilità collettiva, il nuovo
liberalismo si caratterizzava appunto per la sua impronta di filosofia le-
gata all’idealismo, la qual cosa lo portava a rifiutare l’opposizione tra
stato e individuo, che era invece stata uno dei caratteri più importanti
del liberalismo britannico. Anche dove lo stato non veniva concepito
come un’entità morale esso era visto come lo strumento imprescindibile
per rimuovere gli ostacoli che gli individui si trovano davanti alla loro
autorealizzazione, cosa che porterà a preconizzare, già con Green, il
concetto di libertà positiva, sul quale si tornerà più avanti13. La distanza
teorica dal socialismo, o almeno dal socialismo di ispirazione non mar-
xista, era dunque piuttosto modesta, ed infatti vi furono anche tentativi
dichiarati di coniugare liberalismo e socialismo.
A partire dalla fine dell’Ottocento la corrente del New liberalism
era decisamente preponderante e salvo alcune significative eccezioni –
la più importante era probabilmente quella di Herbert Spencer e dei
suoi seguaci14 – i “vecchi liberali” erano ormai scomparsi dalla circola-
zione o erano considerati figure magari rispettabili ma assai marginali
nel dibattito politico ed economico15. Il principale obiettivo dei New
12
Cfr. M. FREEDEN, The New Liberalism, op. cit. capitolo 3.
13
A giudizio di Hayek il «declino della dottrina liberale, iniziato dopo il 1870, è stret-
tamente connesso a una reinterpretazione della libertà come disponibilità (da ottenere
attraverso l’azione dello Stato) dei mezzi necessari al raggiungimento di una vasta gamma
di fini particolari», F.A. VON HAYEK, New Studies in Philosophy, Economics and the History
of Ideas, Rouledge & Kegan Paul, London 1978 (trad. it. Nuovi studi di filosofia, politica,
economia e storia delle idee, Armando, Roma, 1988, p. 149). Si tratta del saggio Liberalism,
scritto nel 1973 per la Treccani. Questo saggio è stato anche ripubblicato in italiano singo-
larmente, dalla casa editrice Rubbettino nel 2012, con una introduzione di L. Infantino.
14
Sul liberalismo di Spencer un importante punto di riferimento A. MINGARDI, Her-
bert Spencer, The Continuum International Publishing Group, New York 2011, mentre
interessanti considerazioni su come egli intendesse la proprietà privata si trovano in A.
MINGARDI, Il tema della proprietà nel pensiero di Herbert Spencer, «Il Politico» LXXII, n.
2, 2007, pp. 63-96.
15
Una considerazione analoga può essere fatta per i “liberisti” italiani, la cui condi-
zione è ben descritta da una celebre frase di Piero Gobetti: « Di fronte alle assurde pretese
e alla dogmatica grettezza (qualità per eccellenza anti-liberali) a cui filosofi sedicenti libe-
Trasformazioni della teoria liberale 63
rali ci hanno assuefatto, potremo con tranquilla convinzione di equità cantar le lodi agli
onesti scrittori di economia che, se ebbero il torto di non salvare dalle antipatie universali
la dottrina di cui erano rimasti modesti depositari, non si stancarono tuttavia di divenire
i predicatori inascoltati. (...) La chiusa setta dei liberisti può ben dire di avere salvato per
parecchi decenni la purezza dell’idea e preparato in sede economica la formazione di
condizioni psicologiche favorevoli a una rinascita liberale. L’educazione inglese, se non
li salvava da un tono molesto ai più e tuttavia assai spesso finemente ironico, dava ai loro
costumi morali e letterari un senso austero di dignità, una coscienza severa di ossequio alle
leggi e alle libertà, che li assisteva costantemente nella loro critica e contribuiva a renderli
impopolari in una terra di dannunziani e di tribuni che guardava come straniere le loro fi-
gure riservate di persone educate e ammodo», P. GOBETTI, La rivoluzione liberale, Einaudi,
Torino 1964 [1924], pp. 53-54.
16
A giudizio di Hayek fu proprio la promessa di una “maggiore libertà” l’arma propa-
gandistica con la quale i socialisti riuscirono a “rendere ciechi” molti liberali e a “usurpare
così il vecchio partito liberale britannico”, cfr. F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op.
cit. (trad. it. cit. pp. 75 e ss.).
17
Un libro ancora oggi classico sull’argomento è G. DANGERFIELD, The Strange Death
of Liberal England. 1910-1914, Transaction Publisher, New Brunswick 2011 [1935].
64 Crisi e rinascita del liberalismo classico
18
Pagine importanti a questo riguardo sono quelle del secondo capitolo di N.P.
BARRY, On Classical Liberalism and Libertarianism, Macmillan, London 1986 (trad. it. Del
liberalismo classico e del libertarianismo, Elidir, Roma 1993).
19
Le opere di Bentham a cui si fa qui riferimento sono principalmente due. Il
Fragment of Government, del 1776, nel quale, attraverso la critica dell’opera di William
Blackstone, i celebri Commentaries on the Law of England, del 1765-69, egli traccia la sua
visione del diritto come basata sul principio dell’utilità ed individua nella felicità del mag-
gior numero il criterio per definire giuridicamente giusto ed ingiusto, cosa che gli consente
di dare una giustificazione del governo in base alla sua capacità di soddisfare i bisogni degli
individui. La seconda opera è Introduction to Principles of Morals and Legislation, del
1789, nella quale tra le altre cose si identificano le due categorie di piacere e dolore come
alla base della condotta umana e come criterio guida per il legislatore. Tutte le opere di
Trasformazioni della teoria liberale 65
Bentham sono state raccolte in 11 volumi da John Browing nel 1843, e sono liberamente
consultabili, insieme all’ampia e utile prefazione, nel sito della Liberty Fund.
20
F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. p. 34).
66 Crisi e rinascita del liberalismo classico
secondo una sua nota espressione, “the greatest possible happiness of the
greatest number”, la maggiore felicità possibile del maggior numero di
persone. Si ritiene insomma che il “dolore” procurato da una legge ad
alcuni sia misurabile e comparabile con il “piacere” che la stessa legge
procura ad altri, e che il principio di maggioranza (Bentham è sostenitore
del suffragio universale) sia lo strumento idoneo per individuare le leggi
che massimizzano il piacere in termini sociali. Ciò che però appare evi-
dente, ma che tuttavia non parve chiaro a Bentham, è che se si ritiene che
il piacere possa essere razionalmente misurato e si possa calcolare quanto
dolore si conferisce agli uni in cambio del piacere che si dà agli altri,
allora è lo stesso concetto di individualità che viene meno, sia per chi su-
bisce la scelta sia per chi la fa. Per chi subisce la scelta della maggioranza
perché si delega alla società nel suo complesso la determinazione di cosa
e quanto sia il dolore che un provvedimento può causare agli individui,
come se l’“intensità del dolore” non fosse riconducibile all’individuo ma
ad una qualche misurazione oggettiva. Mentre per la maggioranza che
approva la scelta l’elemento individuale viene meno poiché viene meno
l’idea che la felicità debba andare individualmente cercata nel rispetto
della libertà altrui, e di fatto si affida la “realizzazione” della felicità ad un
atto di spoliazione. Se infatti si ritiene che alcuni provvedimenti siano in
grado di ridistribuire e massimizzare razionalmente la felicità all’interno
della società, togliendone un po’ agli uni per conferirla agli altri, è chiaro
che si minano le basi individualistiche della determinazione di cosa sia
la felicità. Se poi si affida, come sembra voler fare Bentham, la “raziona-
lità” del calcolo a una scelta elettorale è facile immaginare quali siano le
potenziali conseguenze; basta infatti pensare a quanto le persone siano
solitamente propense ad attribuire un grande valore a ciò che le riguarda,
ossia ai vantaggi che una legge può loro procurare, e a sottostimare gli
svantaggi, o il dolore, per mantenere il termine benthamiano, che una
tale legge provocherebbe agli altri. Un tale calcolo può dunque apparire
molto facile (alla luce della considerazione “il mio vantaggio mi procura
una grande felicità, mentre chi lo paga ne ha un dolore molto limitato”),
ma ben poco razionale. Insomma, Bentham, probabilmente senza volerlo
ed inconsapevolmente, nega alla felicità e al dolore la loro dimensione
individuale, per collocarli in una nuova dimensione sociale. Infatti per
sostenere un autentico individualismo che, con la sua idea che ogni essere
umano è unico e irripetibile, è il fondamento della filosofia liberale, non
basta dire che si guarda al piacere dei singoli, se poi non si ammette che
solo gli individui stessi sanno in cosa questo piacere consiste.
Trasformazioni della teoria liberale 67
pena queste idee vengano astratte dallo spirito liberale che pervadeva
ampiamente gli scritti e le intenzioni di Bentham.
Con Bentham avvenne dunque, per la prima volta in modo estre-
mamente chiaro, un qualcosa che caratterizzerà gran parte del liberali-
smo britannico negli anni avvenire: pensatori di inclinazione e sentimenti
liberali non si resero conto di come le nuove idee “liberali” stessero apren-
do le porte ad una profonda modificazione del liberalismo, negandone al-
cuni cardini. Ed è per molti versi possibile sostenere che questo avvenne
anche con Keynes e con Beveridge, autori che (solo) nelle intenzioni e
aspirazioni rimanevano almeno in parte liberali e che forse, più o meno
consapevolmente, reputavano la cultura e la prassi liberale britanniche
sufficientemente forti da poter amalgamare al proprio interno, senza
troppi danni, scelte e decisioni politiche non molto liberali 21. Ma quelli
che essi reputavano provvedimenti contingenti (le politiche di debito
pubblico supportate da Keynes), o scelte politiche gestibili con spiri-
to liberale (il sistema di welfare come ideato da Beveridge, che doveva
essere su base assicurativa e tale da mantenere la responsabilità indi-
viduale) furono progressivamente, e verrebbe da dire inevitabilmente,
interpretate dai loro successori e dai politici in senso sempre più collet-
tivista, e portarono ad un grande cambiamento culturale e politico nella
patria del liberalismo. Cosa che conferma ancora una volta una delle
poche leggi certe che si ricavano dallo studio della politica, per la quale
quando si concede una nuova funzione o un nuovo compito al potere
politico è pressoché impossibile che esso lo interpreti come qualcosa di
provvisorio.
Tornando a Bentham e ai suoi seguaci, va detto che l’estranei-
tà rispetto alla tradizione liberale classica delle “nuove” idee liberali
spesso non fu capita, o comunque venne quasi sempre sottovalutata.
Questo per una serie di motivi importanti, primo fra tutti il fatto che
il liberalismo si andava convincendo, a torto o a ragione, della propria
inadeguatezza davanti a una serie di problemi apparentemente nuovi, e
21
Per una ricostruzione di questi aspetti della vicenda politica britannica, e delle sue
implicazioni per il liberalismo, rimando a A. MASALA, Margaret Thatcher e i paradossi di
una leadership liberale, in G. Orsina, (a cura di) Culture politiche e leadership nell’Euro-
pa degli anni Ottanta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, pp. 227-266. Una interessante
analisi di come le idee economiche abbiano “ideologizzato” la politica britannica e le
istituzioni britanniche è K.R. HOOVER, Economics as Ideology. Keynes, Laski, Hayek, and
the Creation of Contemporary Politics, Rowman & Littlefield Publishers, Oxford 2003, che
mette a confronto le figure e l’influenza di Keynes, Hayek e Harold Laski.
Trasformazioni della teoria liberale 69
22
La questione del liberalismo di Bentham è piuttosto dibattuta. Senza addentrarvisi
si può sicuramente ricordare che scritti quali Defence of Usury, del 1787, composto da tre-
dici lettere indirizzate ad Adam Smith, con il quale fortemente simpatizzava, sono decisa-
mente liberali, ma che al contempo è possibile nelle opere principali trovare molti passaggi
sicuramente non liberali (ad esempio quando tratta della sua dottrina dell’organizzazione
della giustizia), e la stessa cosa può essere detta della sua attività come propugnatore di ri-
forme legislative. L’opinione di chi scrive è che Bentham avesse come unico vero obiettivo
la realizzazione della felicità del maggior numero, e che, non senza una qualche incoeren-
za, tale obiettivo gli sembrasse talvolta raggiungibile con politiche ispirate al liberalismo
(che come si è detto era allora la filosofia dominante, e dunque impregnava le premesse
del ragionamento di Bentham) e talaltra con forme di dispotismo illuminato.
70 Crisi e rinascita del liberalismo classico
24
Come noto la letteratura sull’argomento è estremamente vasta; ai fini di questa
analisi è particolarmente interessante W.H. GREENLEAF, The British Political Tradition: II,
The Ideological Heritage, op. cit., p. 103 e ss.
25
J.S. MILL, On Liberty, Longman, London 1859 (trad. it. Saggio sulla libertà, Il Sag-
giatore, Milano 1995).
26
J.S. Principles of Political Economy, Longman, London 1871 (trad. it. Princìpi di
economia politica, UTET, Torino 1983). Come noto in quell’opera, originariamente scritta
nel 1848 e poi negli anni variamente modificata, nonostante la difesa della competizione
e del laissez-faire come pratica generale, Mill sostenne che il miglior modo di distribuire
la ricchezza prodotta fosse quello di dividerla tenendo conto delle energie e degli sforzi
di coloro che l’avevano prodotta, cosa che non avrebbe costituito una sovversione del
sistema di proprietà individuale ma un suo miglioramento; si veda la p. 657 dell’edizione
on line della Liberty Fund.
27
Su quest’ultimo aspetto, e su quanto si sarebbe poi radicato il positivismo nella
Gran Bretagna dell’Ottocento W.H. GREENLEAF, The British Political Tradition: I, The Rise
of Collectivism, op. cit., pp. 237 e ss.
28
Una delle migliori opere a questo riguardo, a giudizio di chi scrive, è S. LETWIN,
The Pursuit of Certainty. David Hume, Jeremy Bentham, John Stuart Mill, Beatrice Webb,
Liberty Fund, Indianapolis 1998 [1965]. Nella sua articolata analisi la Letwin mostra
72 Crisi e rinascita del liberalismo classico
ne, non dei vantaggi della concorrenza e della sua capacità di produrre
un buon ordine, ma dei requisiti di cui la concorrenza necessita per
potersi realizzare e poter dispiegare i suoi benefici effetti. Si è ritenuto
infatti che la concorrenza si sviluppasse da sola, come un automatismo
spontaneo, a patto che si lasciassero gli individui totalmente liberi di
agire come più ritenevano opportuno. Si è sposata dunque una conce-
zione della libertà assoluta e senza limiti, dimenticando che una libertà
senza vincoli degenera inevitabilmente nella “peggiore delle servitù”.
Ciò che il liberalismo storico ha perso di vista sono i “necessari limiti e
le condizioni sociologiche” da porre alla libertà dei mercati. Il mercato
infatti per poter funzionare ha bisogno di condizioni extra-economiche,
e il sistema di concorrenza ha bisogno di “qualità etiche” e “riserve mo-
rali” che si trovano all’infuori dell’economia stessa34. E naturalmente
Röpke, da credente, era convinto che fossero i precetti del Cristianesi-
mo ad aver fornito il fondamento etico necessario al mercato35.
Alla base della crisi del liberalismo vi è dunque il “falso uso della
ragione”, e l’erronea idea che fosse possibile avere un buon ordine so-
ciale con il solo appello alla ragione e senza un “sicuro orientamento
spirituale”. Il liberalismo è diventato razionalistico quando ha iniziato a
ignorare tutto questo e ha posto alla base del funzionamento dei mercati
e del sistema di concorrenza un “individuo atomizzato” e totalmente
libero. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento è divenuto
“dottrinario” perché non ha più saputo attribuire la giusta importanza
agli elementi extra-economici necessari alla stessa economia di mercato,
alla sua “cornice” che è giuridico-istituzionale ma anche culturale ed
etica, poiché il mercato non può ben funzionare se non in una società in
34
Sempre in Civitas Humana scrive: «non si è voluto capire che l’economia dei mer-
cati abbisogna di un forte inquadramento morale-politico-istituzionale (un minimo di
onestà in affari, un forte Stato, un’intelligente “polizia dei mercati”, un diritto profonda-
mente meditato e conforme alla costituzione economica), ove essa non voglia andare in
rovina e distruggere in pari tempo la società nel suo complesso, attraverso una sfrenata
economia fondata su interessi particolari», e poi aggiunge: «mentre oggi sappiamo (e sem-
pre si sarebbe potuto saperlo) che l’economia basata sulla concorrenza conferma le qualità
etiche e pertanto presuppone delle riserve morali all’infuori dell’economia stessa, si è stati
abbastanza ciechi in passato per credere che fosse invece essa ad esprimere da sé elementi
morali», W. RÖPKE, Democrazia ed economia, op. cit., pp. 64-65.
35
Su questo aspetto del pensiero di Röpke si veda la raccolta di saggi curata da Carlo
Lottieri, W. RÖPKE, Il Vangelo non è socialista, a cura e con introduzione di C. Lottieri,
Rubbettino-Facco, Soveria Mannelli 2006 e in particolare il saggio che dà il titolo alla
raccolta.
76 Crisi e rinascita del liberalismo classico
cui vi siano dei valori condivisi36. La concorrenza infatti non è solo la di-
visione del lavoro e il mercato, ma uno “speciale istituto” assai delicato,
che va organizzato e mantenuto in vita “con ogni sforzo”. Il liberalismo
ha scoperto gli effetti benefici e morali della concorrenza, ma si è poi
dimenticato che essa deve essere “onesta, genuina e pura” e questo può
avvenire solo grazie ad una “decisa volontà” che si oppone agli istinti
potenzialmente predatori degli imprenditori, e ai loro tentativi di crea-
re (ad esempio) situazioni di monopolio. L’errore “tragico” del liberali-
smo storico fu dunque pensare che la divisione del lavoro e il mercato
imponessero da soli, “naturalmente e autonomamente”, “solidarietà e
onestà”. E dunque credere che per avere i benefici della concorrenza,
ossia per avere azioni che vanno nella direzione dell’interesse comune,
bastasse “fare appello soltanto scientificamente alla ragione”. La vecchia
dottrina liberale dell’armonia, ingenuamente ottimistica, ha dimentica-
to quanto fosse delicato il meccanismo della concorrenza e quanto esso
abbisognasse di requisiti extra-economici, giuridici e soprattutto mora-
li. E dimenticando tali requisiti ha naturalmente cessato di sorvegliare
su di essi, favorendo non solo la degenerazione e il crollo dell’economia
di mercato, ma anche quello della stessa civiltà occidentale37.
Il mercato libero e la concorrenza, al contrario di quanto pensa-
va il liberalismo storico, non sono un automatismo perfetto, un risulta-
to spontaneo del comportamento umano, ma “un prodotto artificiale
straordinariamente fragile” il quale necessita di uno stato attivo, che
“provveda al mantenimento della libertà di mercato e della concorren-
za” non solo con la produzione di diritto e di politiche finanziarie, ma
anche con “direttive spirituali ed etiche”38. Quello disegnato di Röpke
rimane nelle intenzioni sempre uno stato liberale, con compiti limitati.
Uno stato che non “ingerisce in ogni cosa” e non si “immischia in tutto”,
ma è «un arbitro robusto il cui compito non è né prender parte al gioco
né prescrivere ai giocatori tutte le mosse, ma di vegliare con assoluta
36
Il punto è ben colto in S. COTELLESSA, Introduzione, a W. Röpke Democrazia ed
economia. L’umanesimo liberale nella civitas humana, a cura di S. Cotellessa, Il Mulino,
Bologna, 2004, pp. 31-34.
37
Cfr. W. RÖPKE, Die Gesellschaftskrisis der Gegenwart, op. cit. (trad. it. cit. pp. 150-
163). Più avanti Röpke aggiunge che per combattere il collettivismo dilagante bisogna tor-
nare al vero insegnamento liberale, al vero sistema di concorrenza, superando tutti gli errori
del capitalismo storico. Per questo bisogna ad esempio agevolare un’esistenza basata sulla
proprietà, che rende realmente liberi, e praticare quella che definisce, con un’espressione
divenuta assai popolare, ma forse piuttosto infelice, la “terza via” (pp. 220 e ss.).
38
Ivi, (trad. it. cit. pp. 284-285).
Trasformazioni della teoria liberale 77
39
Ivi, (trad. it. cit. p. 241). Su questo punto si veda anche M. BALDINI, Introduzione a
RÖPKE Umanesimo liberale, a cura di M. Baldini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000.
40
Qui e nelle opere successive Röpke distingue tra il sistema di concorrenza e il
capitalismo, considerando quest’ultimo la degenerazione razionalistica dell’economia di
mercato. In Civitas Humana arriva a definire il capitalismo la “forma guasta ed arruggini-
ta” assunta dall’economia di mercato negli ultimi cento anni.
78 Crisi e rinascita del liberalismo classico
Assai diversa da quella di Röpke era l’idea che della crisi del libe-
ralismo aveva Ludwig von Mises. Dopo il trionfo del New liberalism in
Gran Bretagna e il trionfo delle ideologie nazionaliste in tutta Europa,
Mises era uno dei pochissimi liberali “di vecchia scuola” rimasti in cir-
colazione nel periodo tra le due guerre mondiali, e se si vuole studiare
il liberalismo del Novecento quella di Mises è una figura imprescin-
dibile50. Proprio seguendo la riflessione di Mises si può cercare una
48
Ivi, (trad. it. cit. pp. 102-103).
49
Ivi, (trad. it. cit. p. 110).
50
Una completa ricostruzione della vicenda umana e scientifica di Mises è J.G. HULS-
MANN, Mises. The last Knight of Liberalism, Ludwig von Mises Institute, Auburn (AL)
2007, mentre I. KIRZNER, Ludwig Von Mises: The Man and His Economics, Intercollegiate
Studies Institute, Wilmington 2001, ricostruisce in maniera approfondita le sue idee eco-
nomiche. In lingua italiana si segnala L. INFANTINO, N. IANNELLO (a cura di), Ludwig Von
Mises: le scienze sociali nella grande Vienna, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004.
Trasformazioni della teoria liberale 81
una battaglia inutile e disperata, e questo lo fece piombare in un tetro pessimismo che gli
paralizzò le forze», L. VON MISES, Notes and Recollections, op. cit. (trad. it. cit. pp. 63-64).
58
E. BÖHM-BAWERK Kapital und Kapitalzins, II 1884 (trad. it. La teoria positiva del
capitale, UTET, Torino 1957)
59
E. BÖHM-BAWERK, Zum Abschluss des Marxschen Systems, 1896 (trad. it. La
conclusione del sistema marxiano, in AA.VV., Economia borghese ed economia marxista,
Firenze, La Nuova Italia 1971). Per una ricostruzione della figura di Böhm-Bawerk e per
inquadrarne la sua collocazione nella Scuola austriaca si rimanda a L. INFANTINO, Indivi-
dualismo, mercato e storia delle idee, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, capitolo 5.
60
F. VON WIESER, Der natürliche Wert, Gustav Fischer, Jena 1889.
61
L’idea è contenuta in F. VON WIESER, Theorie der gesellschaftlichen Wirtschaft, Gu-
stav Fischer, Jena 1914. A giudizio di Hayek Wieser era diventato sostanzialmente “un
fabiano”, cfr. la sua introduzione ai L. VON MISES, Notes and Recollections, op. cit. (trad.
it. cit. p. 34). Hayek fu allievo di Wieser, nei suoi confronti mantenne sempre un atteggia-
mento di stima e gratitudine, ma a livello scientifico, nonostante anche il suo liberalismo
sia a tratti “compromissorio”, se ne differenziò radicalmente.
62
A mettere in luce le affinità, ma anche le “significative divergenze” tra gli esponen-
ti della Scuola austriaca è stato R. CUBEDDU, Mises nell’orizzonte della Scuola austriaca, in
L. Infantino, N. Iannello, (a cura di), Ludwig von Mises… op. cit. pp. 319-338. L’autore
richiama in particolare la continuità tra Menger e Hayek, rimarcando invece le differenze
tra il fondatore della Scuola austriaca e Mises, e dunque anche con il pensiero libertarian,
profondamente influenzato da Mises. La tesi opposta, ossia della maggiore continuità tra
Menger e Mises e della “distanza” di Hayek, è invece sostenuta da J.T. SALERNO, Mises and
Hayek Dehomogenized, in «Review of Austrian Economics», vol. 6, n. 2, 1993, pp. 113-146,
mentre L. INFANTINO, L’ordine senza piano, Armando, Roma 2008 tende a privilegiare l’idea
di una forte continuità tra i tre principali esponenti della Scuola austriaca.
84 Crisi e rinascita del liberalismo classico
63
L. VON MISES, Notes and Recollections, op. cit., capitolo 7.
64
L. VON MISES, The Historical Setting of the Austrian School of Economics, Auburn
(AL) Ludwig von Mises Institute 2003 [1963] (trad. it. in Autobiografia di un liberale. La
Grande Vienna contro lo statalismo, prefazione di L. Infantino, Rubbettino, Soveria Man-
nelli 1996, pp. 195 e ss.).
65
Cfr. L. VON MISES, Liberalismus, Gustav Fischer, Jena 1927 (trad. it. Liberalismo,
Rubbettino, Soveria Mannelli 1997, in particolare capitolo 3).
66
Ivi, (trad. it. cit. pp. 565 e ss.).
Trasformazioni della teoria liberale 85
e le idee socialiste, e non solo tra i partiti socialisti e tra quelli che si
dichiarano “gradualisti”, ma anche tra i partiti e i pensatori che si pro-
fessano avversari del socialismo. Al punto che nessuno osa più sostenere
apertamente la proprietà privata, che la parola capitalismo è completa-
mente discreditata e non esiste più «alcuna opposizione di principio al
socialismo»67. E nel 1927 Mises aggiunge come già «dal XIX secolo, il
liberalismo fu contrastato da nemici potenti, che alla fine sono riusciti
ad annullare gran parte delle sue conquiste. Oggi il mondo non vuol più
saperne di liberalismo. Fuori dall’Inghilterra il termine stesso “libera-
lismo” è addirittura pronunciato con disprezzo»68 e la maggioranza dei
liberali inglesi sono liberali solo di nome, poiché sono in realtà “sociali-
sti moderati”. La situazione non cambia negli altri paesi, e i governi sono
ovunque in mano a “politici antiliberali”. Negli Stati Uniti ha trionfato
il New Deal di Roosevelt, e il termine liberal indica ormai gli interventi-
sti radicali, se non anche i socialisti, tanto che Mises commenterà scon-
solato: «il vecchio liberalismo ha perso perfino il suo nome»69.
In precedenza si è sostenuto come all’utilitarismo si possa im-
putare l’inizio del processo di trasformazione della teoria liberale in
Gran Bretagna, tuttavia Mises non attribuisce all’utilitarismo come te-
oria alcuna responsabilità nel processo di decadenza del liberalismo.
Egli infatti definisce apertamente il suo come un liberalismo utilitarista
e rimarca in particolare come la teoria utilitarista spieghi in maniera
“empirica” l’esistenza della società a partire dal comportamento degli
individui, tramite il principio dell’armonia degli interessi. Questo gli
consente di vederla come contrapposta alle teorie metafisiche (soprat-
tutto quella di derivazione marxista che aveva trionfato in Germania,
ma anche la dottrina dei diritti naturali viene considerata una teoria
metafisica) che si propongono di dare una forma alla società in base a
dei fini ritenuti giusti, e che considerano i problemi politici come pro-
blemi etici. Per Mises la scoperta dell’armonia degli interessi e del prin-
cipio della cooperazione sociale ha spazzato via le teorie metafisiche; i
concetti di giusto, di bene, gli stessi valori, riguardano e indirizzano le
67
L. VON MISES, Die Gemeinwirtschaft: Untersuchungen über den Sozialismus, Gustav
Fischer, Jena 1922; prima traduzione inglese ampliata Socialism, Jonathan Cape, London
1936 (trad. it. Socialismo, Rusconi, Milano 1990, p. 43).
68
L. VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. p. 27). Aggiunge poi che «nella stes-
sa Inghilterra oggi si intende per liberalismo qualcosa che ha più analogia con il torysmo e
con il socialismo che non con il vecchio programma dei libero scambisti», pp. 27-28.
69
L. VON MISES Interventionism… op. cit. (trad. it. cit. p. 259).
86 Crisi e rinascita del liberalismo classico
essa massimizza le utilità degli individui. Tuttavia per Mises bene e male
esistono solo a livello individuale, e non possono essere né conosciuti né
tantomeno “calcolati” a livello sociale, perché solo l’individuo sa cosa è
bene per lui, quali sono i suoi veri scopi e obiettivi. Per questo le uniche
scelte politiche lecite, l’unico tipo di struttura sociale che è ragionevole
promuovere, è quella in cui gli individui hanno la possibilità di perse-
guire i propri fini, quella che massimizzi non la felicità per il maggior
numero, creata da scelte collettive, ma la cooperazione sociale, che si
basa sul principio dell’armonia degli interessi e che è il solo strumento
che gli individui hanno per raggiungere la loro felicità.
Mises non ignora questa differenza tra il suo utilitarismo e quel-
lo di Bentham, che però continua a considerare un pensatore liberale,
salva la necessità di chiarire il malinteso riguardo al concetto di felici-
tà72. Tuttavia, al di là della questione di quanto l’equazione che talvolta
Mises ha fatto tra liberalismo e filosofia utilitaristica fosse opportuna
anziché foriera di equivoci73, rimane il fatto che il suo liberalismo è la
dimostrazione che non necessariamente l’utilitarismo deve avere uno
sbocco non liberale. Liberalismo e utilitarismo diventano incompati-
bili solo nel momento in cui si ritiene possibile, come faceva Bentham,
calcolare le utilità individuali al fine di poter realizzare la “felicità del
maggior numero”, poiché in tal modo si apre la strada alla costruzione
della “società buona”, realizzata per via politica e con criteri etici; una
società che, al di là delle buone intenzioni, poco o nulla ha a che fare
con il liberalismo. E infatti si deve osservare che se Mises non rivolge
critiche a Bentham ne rivolge invece di molto dure a Mill, il quale a
suo dire mescolò idee liberali e socialiste, sino a divenire «il grande
72
«Tutti gli attacchi diretti contro la formula di Bentham sono stati centrati intorno
ad ambiguità o malintesi concernenti la nozione di felicità; essi non hanno intaccato il
postulato che il bene, qualunque esso sia, debba essere distribuito sul maggior numero
possibile». Il problema consiste dunque nella definizione di benessere, che se non viene
lasciata alla scelta dell’individuo può diventare qualunque cosa e «giustificare ogni varietà
di organizzazione sociale», come ad esempio fanno coloro che sostengono che la schiavitù
è il miglior modo per rendere felice la popolazione nera, L. VON MISES, Human Action, op.
cit., (trad. it. cit. p. 802).
73
A questo proposito Lorenzo Infantino ha voluto sottolineare come Mises dopo le
sue prime opere abbia di fatto sostituito il termine utilitarismo con quello di prasseologia,
termine che fa riferimento alla sua teoria dell’azione umana, volontaria, consapevole e
rivolta alla realizzazione di fini, cfr. L. INFANTINO, Prefazione a L. von Mises, I fallimen-
ti dello stato interventista, con prefazione di L. Infantino, Rubbettino, Soveria Mannelli
1997, pp. 13 e ss.
88 Crisi e rinascita del liberalismo classico
74
L. VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. p. 264).
75
L. VON MISES, Human Action, op. cit., (trad. it. cit. p. 2).
76
Ivi, (trad. it. cit. p. 150).
77
Ivi, (trad. it. cit. p. 8), dove scrive anche: «ciò che comunemente è chiamata “rivo-
luzione industriale” fu il risultato della rivoluzione ideologica determinata dalle dottrine
Trasformazioni della teoria liberale 89
degli economisti».
78
Questo proposto da Mises è peraltro un punto classico del liberalismo, che si ritro-
va già in Locke.
79
L. VON MISES, Notes and Recollections, op. cit. (trad. it. cit. p. 68). Sulla “illusione
90 Crisi e rinascita del liberalismo classico
dei vecchi liberali” si veda anche L. VON MISES Human Action, op. cit., (trad. it. cit. pp.
833-835).
80
L. VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. pp. 215-216).
81
Su come il compromesso di Mises con la democrazia non sempre sia teoricamente
inappuntabile si vedano R. RAICO, Mises on Fascism. Democracy and Other questions, in
«Journal of Libertarian Studies», vol. 12, n. 1, 1996, pp. 23-52 e R. CUBEDDU, Mises nell’o-
rizzonte della Scuola austriaca, op. cit.
82
L. VON MISES, The Historical Setting… op. cit. (trad. it. cit. p. 202).
83
L. VON MISES, Human Action, op. cit., (trad. it. cit. p. 211).
Trasformazioni della teoria liberale 91
smo ingenuo che l’umanità fosse sempre illuminata dalla ragione è stato
smentito dalla storia, e per Mises è stato proprio questo l’errore fatale
del liberalismo. Egli constata amaramente come le masse non abbiano
dimostrato la capacità di saper pensare “logicamente”, e abbiano segui-
to le parole d’ordine del socialismo e dell’interventismo, preferendo un
“vantaggio momentaneo” a un “maggior guadagno permanente”84. Il
liberalismo insomma non sarebbe stato sconfitto sul piano delle idee,
superato da idee politiche migliori, ma dall’incapacità di molti di rico-
noscere alcune idee come sbagliate e pericolose, e dall’incapacità dei
liberali di contrastare questo errore, dall’aver abdicato al compito di
indurre gli uomini, le maggioranze, a “pensare correttamente”.
Qui emerge in tutta la sua drammaticità il problema della demo-
crazia, e del suo potenziale conflitto con il liberalismo. Andando oltre il
ragionamento di Mises, ma con continuità rispetto ad esso, si potrebbe
identificare il problema nella tentazione delle democrazie, soprattutto
in una fase di non piena maturità, di sollevare costantemente nuove e
talvolta insensate aspettative tra i cittadini, per poi scaricare su qualcun
altro, sovente il sistema di mercato, le colpe della mancata realizzazione
di ciò che era stato in qualche modo promesso. Rispetto a quelle pro-
messe facili, il ruolo dei liberali è decisamente più ingrato, e consiste
spesso nel dover convincere le persone a rinunciare a scorciatoie, a so-
luzioni semplicistiche e immediate in vista di migliori equilibri futuri.
Un compito per niente facile, ma tuttavia imprescindibile, e che forse
il liberalismo classico aveva davvero per lungo tempo negligentemente
abbandonato. Resta poi il fatto che (al di là di quanto si condividano
le idee di Mises, e anche al di là di quanto si ritenga possibile trovare
un’unica soluzione scientificamente valida ai problemi umani) la storia
ha dimostrato che gli uomini possono essere irragionevoli, possono es-
sere traviati da idee sbagliate, e che la democrazia intesa come semplice
conta delle differenti opinioni porta con sé molti pericoli. E per questo
è difficile non condividere la sua idea secondo la quale la democrazia
non è un bene da godere senza preoccuparsene, ma è un traguardo che
va difeso e conquistato con strenui sforzi85.
84
Si veda anche L. VON MISES, Notes and Recollections, op. cit. (trad. it. cit. pp. 98 e ss.).
85
Si veda ad esempio la pagina conclusiva di Burocrazia, in cui Mises scrive: «demo-
crazia significa autodeterminazione. Ma come possono gli individui prendere decisioni
circa le questioni che li riguardano se essi sono tanto poco interessati a farsi, per mezzo
di una riflessione personale, un giudizio indipendente sui problemi politici ed economici
fondamentali? La democrazia non è un bene di cui la gente possa godere senza preoccu-
92 Crisi e rinascita del liberalismo classico
parsene affatto. Essa, al contrario, è un tesoro che deve essere difeso giorno per giorno e
che deve di continuo essere conquistato con strenui sforzi», L. VON MISES, Bureaucracy,
Yale University Press, New Haven 1944 (trad. it. Burocrazia, introduzione di D. Fisichella,
Rusconi, Milano 1991, p. 151).
86
Cfr. L. VON MISES, Interventionism… op. cit. (trad. it. cit. p. 365 e ss.).
Trasformazioni della teoria liberale 93
infatti gli aristocratici, che dall’alto del loro diritto di nascita possono in
ultima analisi decidere cosa e quanto deve essere prodotto, ma sono in-
vece i cittadini comuni, i consumatori. Nel mercato i veri sovrani, coloro
che veramente controllano il processo produttivo, non sono infatti gli
imprenditori, i quali spesso, ma in maniera del tutto erronea, vengono
assimilati a ciò che nella società divisa in caste erano gli aristocratici,
ma i consumatori. Gli imprenditori se vogliono aver successo devono
appunto riuscire a soddisfare le richieste e le esigenze dei consumatori,
“piegandosi” alle loro preferenze e “obbedendo” ai loro “ordini”.
La società di mercato dunque premia i produttori in base all’unico
valore che è disposta a riconoscere: la capacità di soddisfare i consuma-
tori, di contribuire al benessere degli altri. In questo sta la sua grandez-
za, ma anche quella che forse potremmo chiamare la sua “crudeltà”.
Infatti se da un lato ognuno ha la possibilità di realizzare, qualora le
sue capacità e la sua fortuna glielo consentano, qualunque obiettivo si
prefigga, è anche vero che ognuno è responsabile dei propri fallimenti e
delle proprie sconfitte. Mentre in una società divisa in caste, o comun-
que in una società non libera, si può trovare consolazione ai propri falli-
menti additandoli all’ingiustizia del sistema, questa è una consolazione
che non può essere offerta a coloro che siano disposti a riconoscere one-
stamente come funziona la società di mercato. Ed è proprio dal rifiuto
del voler riconoscere i propri limiti e le proprie responsabilità, i propri
fallimenti, che nasce l’odio per il capitalismo. Esso non riconoscerebbe i
meriti autentici, attribuirebbe ad altri riconoscimenti che spetterebbero
a noi; l’odio per il capitalismo è in fondo l’odio nei confronti di coloro
che hanno saputo realizzare ciò che noi non abbiamo saputo raggiun-
gere90. Una reazione che si può facilmente identificare da parte degli
intellettuali, cui raramente il mercato è disposto a riconoscere il valore
e la posizione che meritano, o che sono convinti di meritare, ma che è
a ben vedere presente in un gran numero di categorie sociali, compresi
gli uomini d’affari. Ecco allora che la realizzazione di quella che viene
definita l’età del laissez-faire fu l’opera quasi miracolosa di una piccola
élite, che dovette spesso affrontare prima di tutto l’ostilità dell’aristo-
crazia terriera, che si vide spodestata dei propri privilegi e costretta ad
aumentare i salari dei lavoratori delle campagne91, e poi l’avanzata del
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 32 e ss.). Interessante a questo proposito sarebbe anche
90
un confronto con le note tesi di H. SCHOECK, Der neid und die Gesellschaft, Verlag Herder,
Freiburg im Breisgau 1966 (trad. it. L’invidia e la società, Liberilibri, Macerata 2005).
91
L. VON MISES, The Anticapitalist Mentality, op. cit. (trad. it. cit. pp. 51 e ss.). e Eco-
Trasformazioni della teoria liberale 95
nomic Policy. Thoughts for Today and Tomorrow, Chicago, Regnery/Gateway, Inc., 1979
[1940] (trad. it. Politica economica. Riflessioni per oggi e per domani, Liberilibri, Macerata
1995 pp. 11 e ss.).
92
Su come questi temi fossero dibattuti anche all’interno dell’Internazionale liberale
nel Secondo dopoguerra si veda G. ORSINA, La globalizzazione dal volto umano… op. cit..
93
Va però rilevato come Mises non sembra rendersi conto che i bisogni e le soddi-
sfazioni degli uomini dipendono sì dalle condizioni materiali, da fattori “oggettivi”, ma
96 Crisi e rinascita del liberalismo classico
anche dalla percezione che essi hanno. Non basta ad esempio che le condizioni di vita
migliorino in termini assoluti, bisogna anche che ci sia una percezione del miglioramento
in chi vive la quotidianità, percezione che si ha anche comparativamente a quanto è mi-
gliorata la situazione degli altri. Se la mia situazione migliora meno di quanto è migliorata
quella degli altri, posso avere la sensazione di stare peggio, e questo nonostante ci sia stato
un miglioramento rispetto alla mia situazione precedente. Tenere conto di questo aspetto
psicologico è una difficoltà con la quale Mises, e con lui il liberalismo classico, non sembra
sempre essere riuscito a fare bene i conti.
94
In Theory and History Mises sosterrà chiaramente come a suo giudizio una civil-
tà sia il prodotto di una data visione del mondo. Se infatti i manufatti sono materiali, i
modi per produrli sono mentali, sono cioè il risultato di idee che nascono nella mente
dell’uomo. Ribadirà anche che le idee politiche hanno bisogno del consenso delle masse,
le quali potrebbero rifiutare le buone idee, ma se scelgono idee peggiori è anche colpa
dei sostenitori delle buone cause non essere riusciti a presentare le idee nel modo giusto.
L’evoluzione in questo senso dipende anche dalla capacità di generare “diffusori” delle
buone idee, L. VON MISES, Theory and History, op. cit. (trad. it. cit. pp. 397 e ss).
Trasformazioni della teoria liberale 97
97
Tra essi vanno almeno ricordati Albert Jay Nock, Frank Chodorov, John T. Flyn,
H. L. Mencken e Felix Morley. Su di essi si può vedere L.M. BASSANI, Albert Jay Nock e
i libertari americani: i “fedeli attardati della grande tradizione”, saggio introduttivo a A.J.
Nock, Il nostro Nemico, lo stato, Liberilibri, Macerata 1995.
98
K. POLANYI, The Great Transformation, Holt, Rinehart & Winston Inc. New York
1944 (La grande trasformazione, Einaudi, Torino 2000).
100 Crisi e rinascita del liberalismo classico
99
Interessante a questo proposito è mettere a confronto le diverse opinioni di due
studiosi che hanno recentemente curato la riedizione di alcuni saggi di Röpke in italiano.
Silvio Cotellessa ricorda come Röpke non può certo essere etichettato come un “neolibe-
rale”, e come sia soprattutto la parte della sua riflessione sui limiti del mercato ad essere
attuale. Il punto è ben colto in S. COTELLESSA, Introduzione, a W. Röpke, Democrazia ed
economia, op. cit. Lottieri invece mette in luce non solo gli aspetti schiettamente liberali
del pensiero di Röpke (elementi peraltro non negati da Cotellessa) ma anche la vicinanza
del suo liberalismo a quello della Scuola austriaca e per certi versi a James Buchanan. La
stessa espressione “terza via” «ha causato molte incomprensioni, ma non implica affatto
un affievolimento del suo liberalismo», C. LOTTIERI, Introduzione a W. Röpke, Il Vangelo
non è socialista, a cura di C. Lottieri, Rubbettino-Facco, Soveria Mannelli, 2006, p. 17.
102 Crisi e rinascita del liberalismo classico
100
Non si deve infatti dimenticare che a quella che è forse la più celebre frase di Smith
(«non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che noi attendiamo il
nostro pranzo, ma dalla loro considerazione del proprio interesse. Noi ci rivolgiamo non
alla loro umanità, ma al loro interesse, e non parliamo mai dei nostri bisogni ma dei loro
vantaggi») contenuta ne An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations,
vanno affiancate le importanti riflessioni della sua prima grande opera, The Theory of
Moral Sentiments, che ha appunto l’obiettivo di mettere in luce i sentimenti di reciproca
vicinanza tra gli essere umani.
101
Una interessante e articolata riflessione sul valore, anche morale, della free market
economics, è E. COLOMBATTO, Markets, Morals and Policy-Making. A new defence of free-
market economics, Routledge, London- New York 2011. Una difesa delle “virtù” del mec-
canismo a mano invisibile anche nelle nostre economie complesse e globalizzate e D. LAL,
Reviving the Invisible Hand. The Case for Classical Liberalism in the Twenty-First Century,
Princeton University Press, Princeton 2006.
Trasformazioni della teoria liberale 103
tà” del liberalismo, e apre le porte a una nuova fase in cui la teoria libe-
rale ambisce a proporsi come un sistema di idee e di ricette economico-
politiche adatte ad affrontare le sfide del mondo post-bellico.
1. Lo stato onnipotente
6
In particolare Hallowell vede una responsabilità della filosofia kantiana, che Mises
invece esclude categoricamente.
7
L. VON MISES, Omnipotent Government… op. cit. (trad. it. cit. p. 69).
8
Qui Mises cita anche Hayek, sulla cui analisi si tornerà fra breve.
9
Ivi, (trad. it. cit. pp. 198-201).
La critica del totalitarismo 111
10
Su questo aspetto si veda anche L. VON MISES, Interventionism… op. cit. (trad. it.
cit. pp. 377 e ss.).
11
Legata a questo problema è la celebre disputa sul metodo (Methodenstreit) che
contrappose Menger e Gustav von Schmoller. Sull’argomento si veda L. VON MISES, The
Historical Setting… op. cit. (trad. it. cit. pp. 193 e ss.). Per una ricostruzione della vicenda
si rimanda a R. CUBEDDU, Tra Scuola austriaca e Popper, ESI, Napoli 1996, pp. 51-86 e a B.
CALDWELL, Hayek’s Challenge, The University of Chicago Press, Chicago 2004, pp. 64-82.
112 Crisi e rinascita del liberalismo classico
Keynes12 (che pure qui non viene espressamente citato), ritiene del tutto
inventata, tanto più che la Germania pagò solo una parte delle ripara-
zioni di guerra e lo fece con soldi presi a prestito dall’estero che poi si ri-
fiutò di restituire13. La crisi e l’inflazione che seguirono alla guerra non
furono per Mises colpa dell’ingiustizia del trattato, ma dell’“ignoranza
economica” dei socialisti della cattedra e dei pregiudizi mercantilisti
diffusi in Europa. Il non aver saputo riconoscere questo fatto, e l’assenza
di ogni “resistenza intellettuale”, portò alla facile vittoria di Hitler, la
quale si pone come una logica conclusione, poiché «i princìpi fonda-
mentali dell’ideologia nazista non differiscono dalle ideologie sociali ed
economiche generalmente accettate»14, non solo in Germania. Le vittorie
di Hitler e Mussolini pertanto non sono altro che la logica conseguenza
delle politiche interventiste, le quali portano inevitabilmente a forme
di totalitarismo che, se pure declinate differentemente a seconda delle
diverse caratteristiche nazionali, sono sempre la negazione della libertà
degli individui e hanno come esito uno scontro bellico15.
Guardando al caso del nazismo Mises porta alle estreme conse-
guenze la sua riflessione sulla crisi del liberalismo. Innanzitutto egli giu-
dica assimilabili il sistema sovietico e quello nazista, i quali, nonostante
si combattano, sono entrambi forme di socialismo e non differiscono,
nella loro essenza antiliberale, quanto a filosofie e princìpi primi16. I
12
Il riferimento è naturalmente a J.M. KEYNES, The Economic Consequences of the
Peace 1919 (trad. it. Le conseguenze economiche della pace, Adelphi, Milano 2007).
13
L. VON MISES Omnipotent Government… op. cit. (trad. it. cit. pp. 291 e ss.).
14
Ivi, (trad. it. cit. p. 306).
15
Alla luce della critica del totalitarismo e dell’assimilazione di fascismo e socialismo
come due varianti di quello stesso fenomeno, appare piuttosto insensato l’uso fatto da parte
di alcuni marxisti, tra cui anche Herbert Marcuse, nel suo noto saggio H. MARCUSE, Der
Kampf gegen den Liberalismus in der totalitären Staatsauffassung 1934 (trad. it. La lotta contro
il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, in Cultura e società. Saggi di teoria critica
1933-65, Einaudi, Torino 1963), di alcune frasi di Mises per “dimostrare” la continuità tra
liberalismo e fascismo. Questo naturalmente non porta a negare che nel 1927 Mises, come in
realtà fecero anche molti democratici e antifascisti di allora, avesse commesso un grave errore
a scrivere «non si può negare che il fascismo e tutte le tendenze dittatoriali analoghe siano ani-
mate dalle migliori intenzioni, e che il loro intervento per il momento abbia salvato la civiltà
europea. I meriti acquisiti dal fascismo con la sua azione rimarranno in eterno nella storia», L.
VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. p. 263). Affermazioni peraltro in contraddizione
non solo con lo scritto che stiamo ora analizzando ma con lo stesso libro del 1927.
16
«I bolscevichi hanno stabilito il precedente. Il successo della banda di Lenin
incoraggiò la cricca di Mussolini e le truppe di Hitler. Tanto il fascismo italiano che il
nazismo tedesco adottarono i metodi politici della Russia sovietica», L. VON MISES Omni-
potent Government… op. cit. (trad. it. cit. p. 248).
La critica del totalitarismo 113
due sistemi non hanno alcuna diversità riguardo alla “visione filosofica di
base”, e le (secondarie, da un punto di vista liberale) differenze tra loro
sono dovute solo alle diverse condizioni economiche, poiché «il modello
russo era inattuabile in Germania, la cui popolazione non poteva vive-
re in uno stato di autarchia»17. La stessa equiparazione vale anche tra il
programma economico dello stato corporativo del fascismo italiano, e il
“programma del socialismo delle gilde britannico”, diffuso in Gran Bre-
tagna già dalla Prima guerra mondiale ed esposto nelle opere dei coniugi
Webb. Ma Mises va molto oltre questo paragone, che troveremo ampia-
mente sviluppato nell’opera di Hayek. Egli infatti ritiene che non esista
di fatto opposizione culturale al nazismo poiché esso non è altro che l’ap-
plicazione ai “problemi speciali della Germania” di ideologie sociali ed
economiche che sono ormai ovunque accettate18. E tali idee consistono
nei “dogmi” per i quali il “capitalismo è un sistema di sfruttamento in-
giusto”, che va sostituito con “il controllo dello Stato sull’economia” in
modo da poter porre fine a questo sfruttamento, anche fissando, con la
collaborazione dei sindacati, prezzi e salari per migliorare il tenore di vita
dei cittadini. Riguardo al commercio la necessità è ridurre al minimo le
importazioni, quasi mirando all’autarchia, e va dunque escluso un ritorno
al libero scambio, all’economia libera, al gold standard. Riguardo a questi
dogmi imperanti «non c’è alcuna differenza tra i liberali inglesi e il parti-
to laburista inglese da un lato, e i nazisti dall’altro», e il fatto che gli inglesi
definiscano questi princìpi una evoluzione, un prodotto naturale, del libe-
ralismo, mentre i nazisti più correttamente li definiscano anti-liberali non
cambia la sostanza della loro comune visione, così come non rappresenta
un grande cambiamento il fatto che in Germania i dissidenti rispetto a
quei dogmi non sono ammessi mentre in Gran Bretagna sono derisi.
La conclusione di Mises è un giudizio disarmante riguardo alla
fragilità del mondo occidentale davanti al nazismo: «chiunque manchi
del coraggio o della perspicacia di attaccare queste premesse non è in
condizioni di criticare le conclusioni che da esse traggono i nazisti»19.
Ed è un giudizio perfettamente coerente con la sua convinzione che tra
capitalismo ed economia controllata non ci possono essere vie di mezzo,
o si sceglie un modello o l’altro, e la scelta è dicotomica. Da un punto
di vista scientifico le dottrine del nazismo, come tutte le dottrine del
controllo statale dell’economia e del mercantilismo, sono perfettamente
17
Ivi, (trad. it. cit. p. 249).
18
Ivi, (trad. it. cit. p. 306 e ss.).
19
Ivi, (trad. it. cit. p. 308).
114 Crisi e rinascita del liberalismo classico
23
Ivi, (trad. it. cit. p. 563).
24
L. VON MISES, Bureaucracy, op. cit. (trad. it. cit. p. 32).
25
L. VON MISES, Omnipotent Government… op. cit. (trad. it. cit. p. 169).
26
Questo concetto verrà ribadito con forza anche in L. VON MISES, Human Action, op.
cit., (trad. it. cit. p. 833), in cui si legge: «la prosperità della società umana dipende da due
fattori: la capacità intellettuale degli uomini eccezionali a concepire sane teorie economiche
e sociali e l’abilità di altri uomini a rendere queste ideologie gradite alla maggioranza».
116 Crisi e rinascita del liberalismo classico
27
Ivi, (trad. it. cit. pp. 252 e ss.).
La critica del totalitarismo 117
28
Ivi, (trad. it. cit. pp. 256).
118 Crisi e rinascita del liberalismo classico
29
Come noto del libro di Hayek fu fatta un’ottima sintesi nel Reader’s Digest, che
contribuì molto alla diffusione delle sue tesi centrali.
La critica del totalitarismo 119
in quegli stessi anni. Nel libro di Hayek si trovano molti dei temi svi-
luppati da Mises, con consistenti corrispondenze ma anche con articola-
zioni differenti, soprattutto per quanto concerne il tema che più conta,
ossia l’origine del “male” totalitario.
Il primo importante argomento rispetto al quale vi è una forte
convergenza con Mises, e dunque una divergenza rispetto alle tesi di
Hallowell, che Hayek criticò in una recensione30, è l’idea che fu l’ele-
mento socialista e non quello “tedesco” a consentire alle idee dei nazio-
nalsocialisti di prevalere. Anche per Hayek la chiave per interpretare
il nazismo non è la reazione al socialismo, ma al contrario proprio la
continuità con le politiche socialiste e soprattutto con la mentalità so-
cialista, diffusa da lungo tempo in quel paese31. Il socialismo per Hayek
non è altro che un caso specifico di un genere più ampio, il collettivismo.
L’essenza del socialismo non è infatti tanto negli ideali di eguaglianza
e giustizia sociale che esso propone, ma nel metodo che si vuole usare
per raggiungere quegli scopi, e questo metodo si basa sull’abolizione
dell’impresa e della proprietà privata dei mezzi di produzione, a favore
di un sistema di pianificazione economica. I fenomeni totalitari sono
dunque per Hayek espressione del collettivismo, il quale è «l’insieme
dei metodi che possono essere usati per raggiungere una grande va-
rietà di scopi», e il socialismo non è altro che «una specie di questo
genere»32.
In Germania il liberalismo era stato “spazzato via” dal sociali-
smo e il nazismo si andò ad innestare in un paese in cui erano ormai
«praticamente tutti socialisti»33. Sino al 1870 le idee liberali provenienti
30
La recensione, pubblicata nel 1944, è ora contenuta in F.A. VON HAYEK, The Fortunes
of Liberalism. Essays on Austrian Economics and the Idea of Freedom, edited by P.G. Klein,
Liberty Fund Indianapolis 1992, pp. 199-200; in essa viene in particolare criticato un uso
ambiguo del termine positivismo e una grave confusione del concetto di “formal law”.
31
Nell’ultima e ampliata edizione di The Road to Serfdom, il curatore Bruce Caldwell
pubblica una nota di Hayek del 1933, la quale sarebbe poi stata rielaborata in un saggio
del 1938, “Freedom and economic system”, ed infine sviluppata nel libro del 1944. In
quella nota emerge chiaramente come già nel lontano 1933, quando il regime di Hitler
era appena agli inizi, Hayek fosse convinto che il nazismo, nonostante la persecuzione nei
confronti dei marxisti, fosse un genuino movimento socialista, e le sue idee fossero il risul-
tato delle tendenze antiliberali iniziate alla fine dell’età di Bismarck. Si sostiene inoltre, già
allora, che le altre nazioni stanno seguendo la strada della Germania, e che l’aumento del
ruolo dello stato e l’ammirazione per la pianificazione portano inesorabilmente in quella
direzione.
32
F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. p. 81).
33
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. p. 53 e ss.).
120 Crisi e rinascita del liberalismo classico
36
Su questo si veda anche F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, Routledge,
London-New York 1973-79 (trad. it. Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano,
1986, pp. 344 e ss.).
37
F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. p. 222).
38
Tra gli autori da ascrivere a questo movimento di pensiero Hayek cita in particolare
Thomas Carlyle, Houston Stewart Chamberlain, Auguste Comte e Georges Sorel.
39
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 224-236).
122 Crisi e rinascita del liberalismo classico
Moeller van den Bruck vide nella Prima guerra mondiale la lotta tra
il principio liberale e quello socialista, e nel Terzo Reich l’obiettivo di
dare ai tedeschi un socialismo “adatto alla loro natura” e non corrotto
dalle idee occidentali. Ferdinand Fried sostenne, nel suo libro dal titolo
La fine del capitalismo, come vi fosse stata una guerra «con le armi dello
spirito e dell’organizzazione» 40 ben prima che si combattesse la guerra
vera e propria.
Il fatto “inquietante” che libri simili sulla fine del capitalismo fos-
sero popolari negli anni immediatamente precedenti la guerra anche
nelle democrazie anglosassoni è per Hayek un’ulteriore conferma della
sua tesi di fondo, sinteticamente espressa nel titolo del tredicesimo ca-
pitolo: I totalitari tra noi. Egli osserva come nei regimi democratici vi
sia una forte somiglianza con quello che era il clima della Germania
venti anni prima, in particolare la «venerazione per lo stato» e «l’en-
tusiasmo per l’“organizzazione” di ogni cosa (ciò che ora chiamiamo
“pianificazione”)»41, che porta a far convergere contro il liberalismo
le idee economiche della destra e della sinistra. Già nell’introduzio-
ne Hayek avvertiva come Stati Uniti e Gran Bretagna rischiassero di
ripercorrere, senza rendersene conto, la strada percorsa dalla Germa-
nia. Se all’origine vi è la diffusione delle idee socialiste riguardo alla
guida dell’economia, idee maturate in Germania ma presto ammirate
e importate da tutti gli altri paesi occidentali, il punto di svolta è però
rappresentato, anche nelle democrazie anglosassoni, dalla Prima guerra
mondiale. L’organizzazione della nazione nata per scopi difensivi viene
mantenuta anche in tempo di pace, nella convinzione che sia funzionale
a un miglioramento e ad una razionalizzazione della produzione econo-
mica42. A giudizio di Hayek la Germania, l’Italia e la Russia hanno solo
percorso più velocemente una strada che è stata intrapresa anche dalle
democrazie occidentali, e quei regimi sono «prodotti di un’evoluzione
di pensiero alla quale anche noi abbiamo partecipato»43.
L’affermarsi della mentalità collettivista ha segnato – anche nei
paesi democratici, dove nessuno più dubita che si debba andare verso
un sempre maggiore controllo dell’economia da parte dello stato – la
fine del “vecchio” liberalismo. Si tratta di un percorso che ha avuto
40
Ivi, (trad. it. cit. p. 236).
41
Ivi, (trad. it. cit. p. 238).
42
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. p. 47). Ma si veda anche pagina 257, in cui viene trattata come
emblematica la figura di Harold Laski.
43
Ivi, (trad. it. cit. p. 56).
La critica del totalitarismo 123
che il liberalismo sia solo “la soluzione del problema politico con mezzi
economici”, poiché esso andrebbe più adeguatamente considerato come
un tentativo di affrontare e risolvere senza l’uso della coercizione l’ine-
vitabile problema della differenza tra gli uomini e di come soddisfare le
loro differenti aspirazioni.
Per Hayek il liberalismo, definito in contrapposizione al collet-
tivismo, è un credo che racchiude le idee che sono a fondamento della
civiltà occidentale. Storicamente dallo sviluppo del commercio è ger-
mogliato «un sistema nel quale gli uomini possono almeno tentare di
foggiare la loro propria esistenza, nel quale gli uomini possano avere
l’opportunità di conoscere e scegliere tra diverse forme di vita» 47. Così
la libertà economica si ha come un “sotto-prodotto inintenzionale e
imprevisto” della libertà politica, e che essa fosse così importante, che
gli “sforzi spontanei” degli individui potessero dare luogo a una for-
ma di ordine sociale, lo si capì solo dopo averla sperimentata grazie
alla presenza di un potere politico non eccessivamente opprimente. Il
liberalismo nasce dunque nel momento in cui ci si rende conto che la
concorrenza è il mezzo migliore per coordinare e indirizzare gli sforzi
umani, poiché essendo in grado di eliminare la necessità del “controllo
sociale intenzionale”48 essa è un metodo non solo alternativo ma anche
incredibilmente più efficiente della coercizione.
Qui Hayek inizia a illustrare le conseguenze in termini di ordi-
ne sociale di quelle che erano le sue conclusioni riguardo alla teoria
economica, intraprendendo un percorso che arriverà a maturazione
nei decenni successivi e che, passando anche per lo studio del pensiero
politico e della filosofia del diritto, avrà come esito una rifondazione
del liberalismo classico. Nei suoi scritti economici49 egli era giunto alla
conclusione che in una società complessa, basata sulla divisione del la-
voro e sulla conoscenza dispersa, solo la concorrenza, imperniata sul
meccanismo dei prezzi, è un sistema in grado di utilizzare in maniera
efficiente le diverse conoscenze individuali, mettendo gli attori econo-
47
Ivi, (trad. it. cit. p. 60).
48
Ivi, (trad. it. cit. p. 84).
49
Il riferimento è soprattutto al saggio Economics and Knowledge, pubblicato per la
prima volta in «Economica» nel 1937 e poi ripubblicato in F.A. VON HAYEK, Individualism
and Economic Order, op. cit. Tuttavia, come si vedrà meglio in seguito, molte delle sue
intuizioni si potevano ricondurre ai suoi studi sul funzionamento della mente umana, che
troveranno in F.A. VON HAYEK, The Sensory Order, Routledge, London 1952 (trad. it. L’or-
dine sensoriale, Rusconi, Milano, 1990) la loro più importante formulazione.
La critica del totalitarismo 125
mici in condizione di adattarsi alle azioni degli altri. Qui, sia pure in
maniera non ancora del tutto matura, egli ha chiara l’idea che questo
meccanismo di coordinamento spontaneo, scoperto in economia, è in
realtà una spiegazione di come sia possibile un ordine sociale, e che
esso è la vera essenza della teoria liberale. In quest’opera però, più che
definire il liberalismo, egli si concentra su come il totalitarismo ne rap-
presenti l’esatta negazione, proprio per il suo ritenere indispensabile un
qualche tipo di organismo centrale che garantisca quel coordinamento,
ritenuto altrimenti irrealizzabile. In un certo senso il totalitarismo si è
venuto a creare (anche) per una sorta di “errore intellettuale”, perché
non si è capito come funziona il meccanismo di mercato, e perché non
si sono comprese le conseguenze indesiderate cui avrebbe portato una
politica collettivista, ossia non si è capito che lo sforzo di “foggiare il
nostro futuro” secondo alcuni ideali avrebbe prodotto esiti diametral-
mente opposti a quelli desiderati. E Hayek sottolinea con forza che la
vittoria delle teorie sulla pianificazione non è qualcosa di inevitabile e
necessario, dovuto ai cambiamenti storici e alle trasformazioni tecnolo-
giche. Essa è il risultato dell’affermarsi delle idee socialiste ed è quindi
il prodotto di una scelta politica deliberata, di un errore umano50.
L’idea di Hayek è che la comprensione delle vere origini del to-
talitarismo avrebbe portato alla “distruzione di molte illusioni”, ed egli
sembra propenso a riconoscere la buona fede di molti socialisti, come
dimostra anche la dedica del suo libro “ai socialisti di tutti i partiti”, ani-
mati da buoni propositi ma incapaci di prevedere, o magari incapaci di
accettare come inevitabili, le conseguenze della loro ideologia. Ed infat-
ti sostiene anche che in Inghilterra molti indietreggerebbero dalle loro
posizioni se davvero capissero cosa il socialismo veramente significa, o
se fossero in grado di accettare il fatto che il “socialismo democratico”
è in realtà un’utopia irrealizzabile51. Anche Hayek infatti, come Mises
prima di lui, non ritiene possibile una “terza via” che tenga insieme,
combinandole, pianificazione e concorrenza. Sebbene egli ritenga che la
concorrenza possa “sopportare”, e anzi necessiti, di un “certo carico di
regolazione”, rimane comunque convinto che essa sia un principio “al-
ternativo” alla pianificazione, e che tentare di mescolare i due princìpi
produrrebbe un risultato peggiore che affidarsi all’uno o all’altro. I due
princìpi del mercato e della pianificazione non sono dunque soggetti a
50
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 91 e ss.).
51
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 77-78).
126 Crisi e rinascita del liberalismo classico
una qualche forma di mediazione tra loro: «non ci sono altre possibi-
lità che queste: o un ordine governato dalla disciplina impersonale del
mercato, o un ordine diretto dalla volontà di pochi individui»52, e tutti
coloro che mirano a distruggere il primo, ad esempio ipotizzando una
terza via, inevitabilmente favoriscono l’affermarsi della pianificazione e
dunque spingono, magari inconsapevolmente e senza volerlo, verso la
strada del totalitarismo. Ecco perché il programma del partito laburista
britannico «rappresenta un’esperienza sconvolgente» e «non è distin-
guibile dai sogni che dominarono il dibattito in Germania venticinque
anni fa»53.
Hayek muove anche una serie di critiche precise alle “illusioni”
della pianificazione, o meglio alle illusioni che i fautori della pianifi-
cazione tendono ad avere. È ad esempio un’illusione ritenere che i re-
gimi totalitari – che sono sempre forme di collettivismo e di dittatura
– siano cattivi perché guidati da uomini cattivi e che se invece vi fosse
una dittatura guidata da uomini virtuosi essa potrebbe produrre buo-
ni risultati. A dover essere messa in discussione non è la “base morale
del collettivismo”, le convinzioni morali che soggiacciono alle scelte del
sistema collettivista, ma il sistema collettivista stesso. Per perseguire i
loro obiettivi i collettivisti devono generare un meccanismo di potere
di alcuni uomini su tutti gli altri, in dimensioni mai viste prima, e il
loro successo dipenderà solo dalla capacità di creare un tale potere. Il
potere collettivistico assume forme e dimensioni che il cosiddetto “po-
tere economico” degli individui privati non assumerà mai, poiché esso
non sarà mai né un potere sull’intera vita di una persona né un potere
“esclusivo e completo” nelle mani di singoli individui. Anche sotto que-
sto aspetto dunque si ripropone la dicotomia insanabile tra la pianifi-
cazione, che necessita inevitabilmente di un potere assoluto ed esteso a
tutto, e il mercato libero, il sistema di concorrenza, che è «il solo sistema
adatto a minimizzare, mediante il decentramento, il potere dell’uomo
sull’uomo»54.
Un’altra interessante critica è mossa all’illusione che la pianifica-
zione avverrà davvero come ci aspettiamo che avvenga, ossia come noi
vorremmo che venisse realizzata e per conseguire i fini che riteniamo
importanti e giusti 55. Finché rimane sul piano delle aspirazioni l’idea
52
Ivi, (trad. it. cit. p. 256).
53
Ivi, (trad. it. cit. p. 257)..
54
Ivi, (trad. it. cit. p. 201)..
55
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 103 e ss.).
La critica del totalitarismo 127
58
F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. p. 128).
59
Ivi, (trad. it. cit. p. 269).
60
Ivi, (trad. it. cit. p. 273).
61
Su questo si veda A. MASALA, Margaret Thatcher… op. cit.
130 Crisi e rinascita del liberalismo classico
3. Storicismo e razionalismo
62
Cfr. B. CALDWELL, Hayek’s Challenge, op. cit., capitolo 11.
La critica del totalitarismo 131
63
Cfr. F.A. VON HAYEK (ed.), Capitalism and Historians, op. cit. e The Road to Serfdom,
op. cit. (trad. it. cit. pp. 62 e ss.).
64
Il discorso fu tenuto l’undici dicembre del 1974, e fu poi ripubblicato in F.A. VON
HAYEK, New Studies… op. cit.
65
F.A. VON HAYEK, The Fatal Conceit: the Errors of Socialism, (edited by W.W. Bartley,
III) Routledge, London-New York 1988 (trad. it. La presunzione fatale. Gli errori del socia-
lismo, Rusconi, Milano 1997).
132 Crisi e rinascita del liberalismo classico
66
F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. pp. 66-67).
67
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 261 e ss.).
68
F.A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason,
The Free Press, Glencoe 1952 (trad. it. L’abuso della ragione, Rubbettino, Soveria Mannel-
li 2008).
69
In particolare il primo saggio, quello più importante, dal titolo “Scientism and the
Study of Society”, aveva visto la luce tra il 1942 e il 1944, dunque negli stessi anni di The
Road to Serfdom.
La critica del totalitarismo 133
70
Un confronto su come Hayek e Strauss vedevano il problema dello scientism è R.
CUBEDDU, Lo scientism nelle critiche di Hayek e Strauss, op.cit.
71
L’idea (paradossale) di Comte era che si dovesse cessare di considerare l’uomo
antropomorficamente, per trattarlo come se conoscessimo di lui solo ciò che conoscia-
mo della natura esterna. La vera osservazione sarebbe solo quella esterna all’osservatore,
mentre quella interna non esisterebbe. Qui Hayek vede in nuce la frenologia e il metodo
behavioristico, cfr. F.A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science… op. cit., (trad. it.
cit. pp. 306 e ss.).
134 Crisi e rinascita del liberalismo classico
aveva vissuto anche il giovane Hayek, sarebbe stato sviluppato con il nome
di “fisicalismo” dal Wiener Kreis72. Il fisicalismo, già nelle aspirazioni di
Saint-Simon e Comte, non fu solo l’impiego del linguaggio e dei metodi
delle scienze naturali, e della fisica in particolare, per risolvere tutti i pro-
blemi umani, ma fu soprattutto l’aspirazione ad unificare tutta la scienza
per farne la base della morale. La stessa morale, e con essa la politica e la
filosofia, dovevano diventare scienze positive73, e le stesse decisioni poli-
tiche non devono essere altro che il risultato di dimostrazioni scientifiche
indipendenti dalla volontà umana. Nel giornale “Organisateur”, nel quale
è spesso impossibile distinguere se a scrivere fosse Saint-Simon o Comte,
compare per la prima volta in maniera compiuta l’idea che il sistema po-
litico deve essere completamente riorganizzato in modo da imprimere a
tutto un indirizzo scientifico, in una società diretta da coloro che svolgo-
no le attività produttive (gli industriali) e nella quale gli ingegneri sono
il simbolo della nuova unione tra potere temporale e spirituale. Esso è
l’esempio dell’illusione degli scienziati di poter estendere la tecnica scien-
tifica oltre i limiti delle proprie specifiche competenze e di estenderla alla
soluzione di tutte le questioni umane.
Questo atteggiamento mentale, questa aspirazione alla orga-
nizzazione scientifica di ogni aspetto della vita, è incompatibile con
il principio di libertà individuale, incompatibilità che peraltro Saint-
Simon percepisce meglio dei suoi eredi socialisti, e la stessa libertà di
coscienza diventa un ostacolo alla riorganizzazione sociale. Alla base vi
è l’incapacità di concepire l’esistenza di una associazione politica senza
qualcuno che la governi, e l’idea che ogni società abbia bisogno di es-
sere organizzata in modo cosciente e sulla base di un potere spirituale
fondato su un codice morale che è «deliberata costruzione umana»74.
Hayek definisce le opere di Saint-Simon e dei suoi seguaci come il “vec-
chio testamento” del socialismo, e da esse emerge l’idea che esista una
“legge di sviluppo” dell’umanità75 e la promessa della futura scomparsa
72
Il termine fisicalismo fu coniato da Neurath. Sul rapporto tra Neurath e il Wiener
Kreis, si veda R. CUBEDDU, Tra Scuola austriaca e Popper, op. cit., pp. 303-330.
73
F.A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science… op. cit., (trad. it. cit. pp. 218
e ss.).
74
Ivi, (trad. it. cit. p. 247).
75
L’idea è che l’evoluzione del genere umano segua leggi scientifiche, e che dunque
sia possibile fare predizioni riguardo a tale evoluzione. La parte dinamica della sociologia
di Comte diventa la filosofia della storia, ed è possibile scrivere una storia astratta, senza
nomi e senza popoli, poiché esistono leggi intellegibili dello sviluppo delle conoscenze
dell’intero genere umano. Hayek osserva anche come l’idea che la specie umana possa
La critica del totalitarismo 135
attuare il controllo del proprio sviluppo e possa così trascendere sé stessa sia la radice della
sociologia della conoscenza di Karl Mannheim.
76
L’idea di Comte era che la proprietà privata non andasse abolita ma che i ricchi
dovessero essere i depositari dei capitali pubblici per realizzare il bene comune, cfr. Ivi.
(trad. it. cit. p. 328).
77
Ivi, (trad. it. cit. p. 280).
136 Crisi e rinascita del liberalismo classico
dall’idea che sia possibile scrivere una storia universale del genere uma-
no e del suo sviluppo necessario secondo leggi prestabilite, ed entrambi
ricercano le leggi dello sviluppo della mente umana, nella convinzione
che essa sia capace di spiegare sé stessa e le leggi della sua evoluzione
passata e futura. Entrambi vedono insomma il contenuto essenziale del-
la storia come la «crescente estensione del controllo cosciente dell’uomo
sul proprio destino»78.
In una tale concezione della storia e dell’uomo non vi è posto alcu-
no per la libertà. Per Comte la libertà è nient’altro che la “razionale sot-
tomissione” alle leggi naturali dello sviluppo, e per Hegel è soltanto la
“cosciente accettazione della necessità”. Poiché, per entrambi i pensato-
ri, lo sviluppo storico deve sempre risultare intellegibile, la conseguenza
è ritenere che in esso operino solo forze che possiamo pienamente com-
prendere. E poiché tutto è espressione della ragione cosciente l’inevita-
bile approdo è un assoluto positivismo, morale e giuridico. Si potrebbe
definire tale approccio come il rovesciamento della mano invisibile di
Smith, e dunque dell’intera tradizione dell’ordine spontaneo che sta a
fondamento del liberalismo classico. Si tratta per alcuni aspetti di un’e-
redità cartesiana, di un razionalismo che non sa precisare i limiti della
ragione umana e che non sa comprendere che l’interazione degli indivi-
dui dà luogo a “strutture di relazione” che nessuna mente individuale sa
pienamente comprendere, e che per questo motivo non possono essere
previste e controllate nel proprio sviluppo.
Da questo connubio tra positivismo francese e hegelismo tedesco,
passato per Feuerbach e Marx, discende il fondamento del totalitarismo
del ventesimo secolo, che presenta diverse varianti ma ha uno stesso
fondamento. Quella di Hayek si potrebbe definire come una grande
indagine sull’influenza delle idee e sulle conseguenze che alcune con-
cezioni filosofiche (sbagliate) possono produrre nella storia dell’uomo.
Anch’egli, al pari di Mises, ha forte la consapevolezza che le idee, quelle
giuste e quelle sbagliate, hanno conseguenze, e anch’egli ritiene un do-
vere contrastare le idee sbagliate e arrestarne la diffusione tra la gente,
come si proponeva di fare sia con The Counter-Revolution of Science sia
con The Road to Serfdom. Nell’opera del 1944 Hayek aveva mostrato
come la conseguenza “politica” della diffusione di quelle idee sbagliate,
di quell’abuso della ragione, fosse stata la demolizione dell’individuali-
smo a favore del collettivismo, e il conseguente affermarsi del totalitari-
78
Ivi, (trad. it. cit. p. 355).
La critica del totalitarismo 137
80
Ivi, (trad. it. cit. p. 49).
81
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. p. 97).
82
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 133 e ss.).
83
«In altre parole, questi insiemi non esistono per noi altro che in rapporto alla teoria
per mezzo della quale li costituiamo, alla tecnica mentale per mezzo della quale possiamo
costruire le connessioni fra gli elementi osservati e analizzare le implicazioni che questa
particolare combinazione comporta», Ivi, (trad. it. cit. p. 125).
La critica del totalitarismo 139
84
Va tuttavia osservato che nelle Untersuchungen Menger rifiuta di attribuire quella
tesi a Smith, e la riconduce invece a Burke e Savigny, cfr. C. MENGER, Untersuchungen über
die Methode der Sozialwissenschaften und der politische Oekonomie insbesondere, Leipzig
1883 (trad. it. Sul metodo delle scienze sociali, Liberilibri, Macerata, 1996, pp. 187-189].
Su questo tema si tornerà nel quinto capitolo di questo lavoro.
85
La frase è anche citata in F.A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science… op.
cit., (trad. it. cit. p. 144).
140 Crisi e rinascita del liberalismo classico
86
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 151 e ss).
87
Esaustive ricostruzioni del pensiero di Popper sono S. GATTEI, Karl Popper’s Phi-
losophy of Science: Rationality Without Foundations, Routledge, London-New York 2009,
che si sofferma in particolare sugli aspetti metodologici, D. ANTISERI Karl Popper, Rubbet-
tino, Soveria Mannelli 1999 e J. SHEARMUR, The Political Thought of Karl Popper, Routled-
ge; London-New York 1966 (trad. it. Il pensiero politico di Karl Popper, introduzione di R.
Cubeddu, Società Aperta, Milano 1997), i quali analizzano anche il suo ruolo all’interno
della tradizione liberale.
88
Popper ci offre una ricostruzione dei suoi anni giovanili e del suo rapporto con il
Wiener Kreis in K.R. POPPER, Unended Quest. An Intellectual Autobiography, The Library
of Living Philosophers, Inc. 1974 (trad. it. La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettua-
le, Armando, Roma 1997, pp. 93 e ss.).
La critica del totalitarismo 141
89
K. POPPER, The Logic of Scientific Discovery, London 1959 (trad. it. La logica della
scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1998). Il saggio fu pubblicato originariamente in tede-
sco nel 1934 e nacque proprio dal confronto con gli esponenti del Wiener Kreis, tanto che
a lungo Popper fu scambiato per un appartenente al Circolo. Il libro venne poi rivisto e
pubblicato in inglese nel 1959, con il titolo The Logic of Scientific Discovery.
90
The Poverty of Historicism e The Open Society «scaturirono dalla teoria della
142 Crisi e rinascita del liberalismo classico
conoscenza della Logik der Forschung e dalla mia convinzione che le nostre concezioni,
spesso inconsce, sulla teoria della conoscenza e i suoi problemi centrali (“Che cosa pos-
siamo conoscere?”, “Fino a che punto la nostra conoscenza è certa?”) sono decisivi per il
nostro atteggiamento riguardo a noi stessi e alla politica», K.R. POPPER, Unended Quest…
op. cit. (trad. it. cit. p. 131).
91
K.R. POPPER, The Poverty of Historicism, Lowe and Brydon, London 1957 (trad. it.
Miseria dello storicismo, Feltrinelli, Milano 2005, p. 23).
92
K.R. POPPER, The Poverty of Historicism, op. cit..
93
K.R. POPPER, The Open Society and its Enemies, I, The Spell of Plato, II, The high
tide of prophecy. Hegel, Marx and the aftermath, Routledge & Kegan Paul, London 1945
(trad. it. La società aperta e i suoi nemici, I, Platone totalitario, II, Hegel e Marx falsi profeti,
Armando, Roma 1996).
La critica del totalitarismo 143
94
K.R. POPPER, The Poverty of Historicism, op. cit., (trad. it. cit. pp. 66-67).
144 Crisi e rinascita del liberalismo classico
95
Questo tema verrà sviluppato in un saggio del 1948, Previsione e profezia nelle
scienze sociali, successivamente pubblicato come sedicesimo capitolo di K.R. POPPER,
Conjectures and Refutations, Routledge and Kegan Paul, London 1969 (trad. it. Congettu-
re e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972).
96
Cfr. K.R. POPPER, The Poverty of Historicism, op. cit., (trad. it. cit. pp. 87 e ss.). in
cui Popper scrive: «se desideriamo studiare qualcosa siamo costretti a sceglierne alcuni
aspetti. Non ci è possibile descrivere od osservare un pezzo intero del mondo, o un pezzo
intero della natura, anzi, nemmeno il minimo pezzo intero, poiché la descrizione è sempre
necessariamente selettiva», p. 88.
97
Si confronti il capitolo 21 di The Poverty of Historicism, op. cit. e K.R. POPPER, The
Open Society op. cit. (trad. it. cit. I, pp. 44 e ss.).
La critica del totalitarismo 145
98
K.R. POPPER, The Open Society op. cit. (trad. it. cit. II, p. 97).
99
Secondo la sociologia della conoscenza «l’habitat sociale del pensatore determina
un sistema completo di opinioni e di teorie che gli appaiono come indubbiamente vere o
assolutamente evidenti» e tra i diversi sistemi di opinioni creati dai diversi habitat si crea una
totale incomunicabilità, cfr. K.R. POPPER, The Open Society op. cit. (trad. it. cit. II, p. 254).
146 Crisi e rinascita del liberalismo classico
realtà a quelle che sono solo costruzioni della mente umana per spiegare
le interazioni tra gli individui, i quali ultimi sono l’unica realtà veramen-
te esistente. Il totalitarismo emerge dunque dallo storicismo, e le due
varianti del comunismo e del nazismo hanno appunto quella stessa ori-
gine. Popper giunge anche a considerare nazismo e comunismo come la
riproposizione in forma moderna della dottrina storicistica del “popolo
eletto”, una dottrina che nella storia ha assunto varie forme e giustifica-
zioni, e che si ripropone ai suoi tempi sia nella teoria nazista della “razza
eletta” sia in quella marxista della “classe eletta”100. Infatti «entrambe
queste teorie fondano le loro previsioni storiche su di un’interpretazione
della storia che porta alla scoperta di una legge del suo sviluppo»101.
Inoltre Popper pone in luce, più convintamente di Hayek, come
uno dei principali danni dello storicismo, delle “metafisiche storicisti-
che” sia un “danno etico”, di deresponsabilizzazione delle persone, che
vengono appunto sollevate “dal peso delle loro responsabilità”. Le me-
tafisiche storicistiche danno infatti sfogo alla insoddisfazione nei con-
fronti di un mondo che non è mai conforme ai nostri “ideali morali” e
ai nostri “sogni di perfezione”, facendo così da supporto ad una “rivolta
contro la civiltà”. E «lo storicismo stesso è, in larga misura, una reazio-
ne contro il peso della nostra civiltà e la sua richiesta di responsabilità
personale»102. Ma è anche proprio da questo danno etico che scaturisce
la tragedia politica del totalitarismo, ed è anche per questo che nello
storicismo può essere visto il più importante alimento dei moderni tota-
litarismi nazista e comunista.
Con The Poverty of Historicism e ancor più con The Open Society
and its Enemies Popper, dopo aver demolito lo storicismo, e la sua con-
vinzione che tutto nella storia umana sia prevedibile una volta che si
sono individuate le leggi dello sviluppo storico, sposa l’individualismo
metodologico, e difende con una grande opera l’idea schiettamente li-
berale per la quale il futuro non è predeterminato, ma dipende dalle
scelte degli uomini. L’analisi di Popper dunque converge fortemente
con le conclusioni che Hayek aveva raggiunto in The Road to Serfdom, a
100
«Al popolo eletto il razzismo sostituisce la razza eletta (nel senso di Gobineau),
considerata come lo strumento del destino e alla fine destinata a dominare la terra. La
filosofia storicista di Marx sostituisce al popolo eletto la classe eletta, considerata come lo
strumento per la creazione della società senza classi e, nello stesso tempo, come la classe
destinata a dominare la terra», Ivi, (trad. it. cit. I, p. 29).
101
Ivi, (trad. it. cit. I, pp. 29-30).
102
Ivi, (trad. it. cit. I, p. 24).
La critica del totalitarismo 147
tal punto da spingerlo a premurarsi che fosse chiaro l’anno in cui aveva
finito di scrivere The Open Society and its Enemies per essere sicuro che
qualcuno non pensasse che si trattasse di un plagio dell’opera hayekia-
na103. Ed è poi lo stesso Popper a mutuare completamente il linguaggio
hayekiano dichiarando che tra gli obiettivi delle sue due opere vi era il
tentativo di «generalizzare il metodo della teoria economica (teoria dell’u-
tilità marginale) in modo da poter essere applicata alle altre scienze sociali
teoriche»104, e che anche a suo giudizio «il compito principale delle scien-
ze sociali teoriche […] consiste nel delineare le ripercussioni sociali, non
intenzionali, che seguono alle azioni umane intenzionali»105.
4. Individuo e storia
103
Cfr. J. SHEARMUR, The Political Thought of Karl Popper, op. cit., (trad. it. cit. p. 41),
secondo il quale Popper rimase “sconcertato” quando si rese conto di quanto la sua opera
fosse giunta e conclusioni simili a The Road to Serfdom, e chiese all’editore di inserire l’an-
no in cui il lavoro era stato ultimato perché non si pensasse che Hayek fosse l’ispirazione
del suo lavoro e che egli non avesse menzionato la fonte.
104
K.R. POPPER, Unended Quest… op. cit. (trad. it. cit. p. 134). Per un interessante
confronto tra The Road to Serfdom e The Open Society si veda A. O’HEAR, Hayek and
Popper: The Road to Serfdom and The Open Society, in E. Feser (ed.) The Cambridge Com-
panion to Hayek, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 132-147.
105
La frase è contenuta nel citato saggio Previsione e profezia nelle scienze sociali, K.R.
POPPER, Conjectures and Refutations, op. cit. (trad. it. cit. p. 580), e si tratta naturalmente
di una parafrasi della nota affermazione di Menger, che Hayek aveva poi fatto propria.
A soffermarsi sulle somiglianze tra i due filosofi è stato in particolare R. CUBEDDU, Tra
Scuola austriaca e Popper, op. cit., capitoli I e IV della parte seconda, nei quali si pone
anche in luce come fosse stato Hayek a sensibilizzare Popper riguardo all’importanza di
Menger. Alcune differenze sono invece messe in luce da J. GRAY, Hayek on Liberty, 3rd
ed., Routledge, London-New York 1998 [1984], pp. 100-115.
106
L. VON MISES, Theory and History, op. cit.
148 Crisi e rinascita del liberalismo classico
invece assai più controverso107), e che può essere compresa appieno solo
con riferimento al complesso della riflessione di Mises e in particolare
alla sua teoria dell’azione umana, che qui trova una serie di ulteriori
delucidazioni.
Il punto di partenza della riflessione di Mises è quello che egli
chiama dualismo metodologico, e che si basa sulla constatazione che
«non sappiamo come gli eventi esterni – fisici, chimici e psicologici –
influenzino i pensieri, le idee, i giudizi di valore degli uomini»108. Come
conseguenza il regno della conoscenza umana è diviso in due, da una
parte vi sono gli eventi esterni, ossia la natura, e dall’altra il pensiero,
ossia l’azione umana. Rispetto agli eventi esterni, e dunque rispetto agli
stessi stimoli che da essi provengono, gli uomini reagiscono in maniera
diversa tra loro, se non anche in modo diverso a seconda del momento
in cui si trovano ad agire, e non è possibile sapere perché determina-
te condizioni del mondo esterno producono una data reazione in una
mente umana, così come non è possibile scoprire il legame tra un evento
esterno e le idee che esso produce nella mente.
Non esistendo nelle reazioni umane delle regolarità certe non
possono esistere per gli uomini degli schemi “stimolo-risposta”, e da
questo fatto discendono varie conseguenze, la più importante delle qua-
li è sicuramente che le previsioni delle scienze sociali non potranno mai
essere uguali a quelle delle scienze naturali. Le azioni umane sono entro
certi limiti prevedibili, ma il tipo di previsione è completamente diverso
da quello che si ha nelle scienze naturali. L’esperienza ci insegna che in
passato sono esistite delle regolarità verificabili, ma non c’è certezza per
le previsioni future, e ogni evento storico osservato può essere descritto
e compreso solo con riferimento alle circostanze di tempo e di luogo in
cui è avvenuto. Esistono sì degli eventi storici ricorrenti, ma essi possono
essere constatati solo a posteriori, solo dopo che sono già avvenuti e non
sono come le costanti per le scienze naturali, perché nelle scienze sociali
non esistono costanti di quel tipo. In fisica la distinzione tra costanti e
variabili ha senso, in economia vi sono solo variabili e nessuna costante,
dunque non ha neanche senso parlare di variabili. Tra le conseguenze
vi è anche il fatto che nel campo dell’azione umana la statistica descrive
107
Su come l’approccio metodologico dei due, nonostante le differenze, non sia
inconciliabile, si veda F. DI IORIO, Apriorism and Fallibilism: Mises and Popper on the
Explanation of Action and Social Phenomena, in «Nuova Civiltà delle Macchine», anno
XXVI, n. 4, 2008, pp. 5-32.
108
L. VON MISES Theory and History, op. cit. (trad. it. cit. p. 47).
La critica del totalitarismo 149
112
Un simile ragionamento Mises lo applica, come noto, anche alle scelte politiche, le
quali hanno come scopo ultimo il raggiungimento di determinati fini. Studiando le scelte
politiche l’economista non giudica il fine che esse vogliono raggiungere, non ne giudica il
valore, ma valuta soltanto se quelle scelte sono adatte a raggiungere i fini che si propongo-
no, se producono effetti indesiderati e quali.
113
Ivi, (trad. it. cit. p. 141).
114
Ivi, (trad. it. cit. pp. 156).
115
Ivi, (trad. it. cit. p. 76 e p. 166).
La critica del totalitarismo 151
116
Ivi, (trad. it. cit. p. 224).
117
Ivi, (trad. it. cit. p. 227).
118
Ivi, (trad. it. cit. pp. 280-281).
152 Crisi e rinascita del liberalismo classico
sano dimostrare che non esiste alcuna causa finale»119. E se non è pos-
sibile lavorare sulla comprensione delle “cause finali”, delle aspirazioni
e degli obiettivi degli uomini, non si può avere alcun tipo di progresso
nello studio delle vicende umane. Essendo i giudizi di valore i dati ul-
timi nell’analisi dell’azione umana è impossibile usare i metodi delle
scienze naturali, perché il tipo di conoscenze è qualitativamente diverso
e perché giudizi di valore non costituiscono il punto di arrivo bensì di
partenza per la riflessione umana.
In fondo storicismo e scientismo cadono nello stesso tipo di erro-
re, cercare di spiegare i fenomeni umani senza far veramente riferimento
all’uomo, alle sue scelte, al perché delle sue scelte e ai suoi obiettivi, sog-
gettivi e talvolta “irrazionali” per gli osservatori esterni, ma sempre de-
terminanti e “giusti” per l’uomo che agisce. Non sapendo partire dalla
spiegazione dell’azione umana, non sono neanche in grado di compren-
dere che il compito delle scienze sociali è quello di spiegare come l’agire
degli uomini si combina in modo spesso imprevisto ed imprevedibile,
dando luogo a creazioni che non sono frutto della volontà umana, ma di
una tale combinazione di azioni volte a perseguire fini personali. Tale
approccio è diventato a tal punto prevalente nelle scienze sociali, in cui
ormai si ritengono reali solo le azioni di gruppo, che Mises contrappone
al termine “scienze sociali” quello di “scienze dell’azione umana”, come
unico corretto approccio allo studio delle scienze dell’uomo in società.
La società non è un soggetto reale, che può pensare e agire, sono
solo gli individui ad esistere e solo essi, pensando ed agendo, costitui-
scono i fatti sociali. Il collettivismo, sinonimo di totalitarismo, è la con-
seguenza politica di questo errore gnoseologico di fondo, poiché ribalta
questa posizione, poiché considera reale la società e non gli individui,
i quali sarebbero solo una immagine illusoria, una sorta di “fantasma”.
Esso ritiene quindi che le scienze sociali si debbano occupare solo delle
“attività di gruppo”, poiché l’individuo ha importanza “solo come mem-
bro di un gruppo”, e dunque esclude dall’analisi tutte quelle azioni che
non sono riconducibili ad un gruppo, ossia esclude ogni azione dell’in-
dividuo come singolo. Tuttavia, se si escludono le azioni individuali non
solo non si riesce a comprendere perché un individuo decide in alcuni
casi di agire nella categoria del gruppo, ma si escludono tutte quelle
azioni in cui un individuo non agisce in azioni di gruppo, che è un’altra
categoria fondamentale delle scienza sociali. E in realtà le stesse attività
119
Ivi, (trad. it. cit. p. 282).
La critica del totalitarismo 153
120
Ivi, (trad. it. cit. p. 292).
121
Ivi, (trad. it. cit. p. 297).
154 Crisi e rinascita del liberalismo classico
122
F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, Routledge and Kegan Paul, London
1969 (trad. it., La società libera, SEAM, Roma 1996).
La critica del totalitarismo 155
126
Cfr. F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. pp. 83 e ss.).
127
Ivi, (trad. it. cit. p. 87). Interessante è anche la premessa alla prima edizione, scritta
da John Chamberlain, secondo il quale «Hayek non è un devoto del laissez-faire; egli crede
in un sistema di libera impresa. Schema che è compatibile con standard di salario minimo,
standard di assistenza sanitaria, un minimo di assicurazione sociale obbligatoria. Ed è
anche compatibile con certi tipi di investimenti statali», Ivi, (trad. it. cit. p. 39). Popper
dal canto suo, in una lettera del 1946 a Carnap, “difende” l’amico, riferendosi a The Road
to Serfdom, in questi termini: «egli non è certamente un difensore del capitalismo sfrena-
to. Al contrario, insiste sul bisogno di un sistema di “previdenza sociale”, di una politica
anticiclica ecc.», K.R. POPPER, After the Open Society. Selected Social and Political Writings
(eds. J. Shearmur, P.N. Turner), Routledge, London 2008 (trad. it. Dopo la società aperta,
Armando, Roma 2009, pp. 183-184).
La critica del totalitarismo 159
C. HAYES, Popper, Hayek and the Open Society, Routledge, London-New York 2009.
160 Crisi e rinascita del liberalismo classico
130
In una lettera del 1943 a Rudolf Carnap, commentando la critica radicale che aveva
fatto di Marx ne The Open Society and its Enemies, Popper scrive «malgrado il mio atteg-
giamento critico ho un debole per Marx, e lo ammiro come pensatore. Inoltre nel libro
dichiaro chiaramente di dovere molto all’influenza di Marx», K.R. POPPER, After the Open
Society… op. cit. (trad. it. cit. p. 170).
131
Interessanti considerazioni a questo proposito vengono sviluppate in J. SHEARMUR,
The Political Thought of Karl Popper, op. cit., (trad. it. cit. pp. 42-43).
La critica del totalitarismo 161
ossia l’idea che sia possibile instaurare il bene (ed infatti il concetto è
sviluppato in opposizione all’utopismo), ma pare di fatto ampiamente
riconciliabile sia con il welfare state sia, almeno in parte, con lo stesso
socialismo, poiché non vi sono ragioni di principio contro l’idea che vi
possa essere una pianificazione per la sua realizzazione. E considerazio-
ni analoghe, forse anche più radicali, potrebbero essere svolte riguardo
all’idea popperiana di “ingegneria gradualistica”, che si oppone alla
“ingegneria utopica” di Platone che ha portato alla mentalità totalitaria,
ma che egli stesso sembra a tratti propenso a vedere come una forma
di pianificazione. E a questo proposito è significativo un passaggio in
una nota di The Open Society132. In un primo momento, quando ancora
non aveva letto The Road to Serfdom, Popper sostiene che l’ingegneria
utopica corrisponde in larga misura «a quella che Hayek chiama pia-
nificazione “centralizzata” o “collettivistica”», aggiungendo che Hayek
sarebbe favorevole ad una “pianificazione per la libertà”, la quale ap-
punto potrebbe prendere la forma della sua “ingegneria gradualistica”.
Successivamente si rende conto dell’errore di attribuire ad Hayek una
tale terminologia133, ma la nota rimane assai indicativa di come Popper
non vedesse una relazione diretta tra la pianificazione, in qualunque
forma, e la genesi del totalitarismo.
In realtà è tutto il rapporto tra il socialismo (non marxista) e Pop-
per ad essere piuttosto controverso. In una lettera del 1947, in cui ri-
spondeva alla domanda di Carnap se si considerasse ancora socialista,
egli indica le convinzioni che ancora condivide con i socialisti, e queste
sono la necessità di una perequazione dei redditi “di gran lunga maggio-
re” di quanto non vi sia in ogni stato da lui conosciuto, e di esperimenti
politici ed economici “ragionevolmente coraggiosi”, anche se critici. E
poi aggiunge: «non vedo perché tali esperimenti non potrebbero arriva-
re fino all’esperimento della “socializzazione dei mezzi di produzione”,
a patto che (a) vengano consapevolmente affrontati i considerevoli e seri
pericoli sollevati da tali esperimenti e vengano adottati i mezzi per farvi
fronte (b) venga abbandonata la mistica e ingenua idea che la socializ-
zazione sia una sorta di panacea». E dopo aver criticato più in dettaglio
la convinzione dei socialisti che la socializzazione sia una panacea, ed
espresso la convinzione che essa «possa peggiorare le cose piuttosto che
migliorarle» aggiunge: «in altre parole non sono né a favore della socia-
132
Si tratta della quarta nota al capitolo 9, K.R. POPPER, The Open Society op. cit. (trad.
it. cit. I, p. 378).
133
Si veda l’aggiunta a quella stessa nota, inserita dopo aver letto The Road to Serfdom.
162 Crisi e rinascita del liberalismo classico
136
Cfr. L. VON MISES, Die Gemeinwirtschaft… op. cit. (trad. it. cit. pp. 439 e ss. e 500 e ss.).
164 Crisi e rinascita del liberalismo classico
137
L. VON MISES, Die Gemeinwirtschaft… op. cit. (trad. it. cit. pp. 439-440).
138
L. VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. p. 66).
La critica del totalitarismo 165
139
L. VON MISES Theory and History, op. cit. (trad. it. cit. p. 99).
140
Ivi, (trad. it. cit. p. 207).
166 Crisi e rinascita del liberalismo classico
143
F.A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science… op. cit., (trad. it. cit. p. 160.
144
Ivi, (trad. it. cit. p. 161).
168 Crisi e rinascita del liberalismo classico
scienza non lo debba fare, poiché essa deve solo valutare se quei fini pos-
sono essere raggiunti e a quali costi. È una posizione che autori come
Strauss avrebbero dal loro punto di vista ritenuto relativistica, ed è forse
difficile negare che vi sia un relativismo di fondo se guardiamo al pro-
blema da una prospettiva straussiana. La questione ha però una doppia
sfaccettatura. Da un lato bisogna infatti chiedersi se abbia ancora sen-
so definire relativistiche queste posizioni una volta che si sia compreso
quale sia l’argomentazione di Hayek e Mises riguardo al problema della
la giustizia, o se invece non sia più relativistica una società che affida ad
alcuni uomini (non importa se una maggioranza o una leadership) la
capacità di decidere per tutti, di volta in volta, cosa sia eticamente giu-
sto, e lasci aperta la possibilità di ridefinire il “giusto” al cambiare delle
maggioranze o delle leadership. Da un altro punto di vista poi, biso-
gnerebbe “utilitaristicamente” chiedersi se nel momento in cui si vuole
arrivare a condannare dei valori e dei fini come “malvagi”, sia meglio
condannarli con riferimento ad altri valori “buoni” (come ad esempio
pensava Strauss), che probabilmente lasceranno indifferente chi non li
condivide, oppure con argomentazioni razionali che mostrano tutte le
disastrose conseguenze del perseguimento di quei valori e di quei fini.
Possiamo dialetticamente combattere dei valori in virtù di altri valori,
ritenuti più “buoni” e magari “universali”, ma, a parte la risorsa ultima
della violenza, che non è una strada praticabile per un filosofo politico,
per ottenere il nostro scopo di far cambiare idea a chi ha valori diver-
si non bisognerebbe sottovalutare la “semplice” soluzione misesiana
di usare l’analisi scientifica, che consente di far vedere le conseguenze
dell’adesione ad alcuni valori, come il miglior modo per combattere va-
lori “negativi” e far prevalere il valore della libertà.
In conclusione quella di Mises e Hayek è anche una riflessione
sulla giustizia, sull’etica e sui valori, ma in una prospettiva completa-
mente innovativa, che ritiene un grave rischio l’idea che lo stato debba
realizzare dei valori etici, qualunque essi siano, per tutta la comuni-
tà, anche perché una volta che si accetta di attribuire allo stato questo
compito non possiamo mai essere sicuri di quali saranno i valori che i
politici ci convinceranno di dover realizzare, e non sapremo mai quali
saranno le conseguenze indesiderate di un tentativo che in sé stesso po-
trebbe anche essere condivisibile.
Seguendo questo filo interpretativo si potrebbe anche sostenere
che il modello di società fondata su valori etici abbia in parte trovato
una sua realizzazione nella società del welfare state, un modello di “so-
170 Crisi e rinascita del liberalismo classico
1
In Italia una tale tesi è stata fatta propria da Norberto Bobbio, il quale in Liberali-
smo e democrazia (N. BOBBIO, Liberalismo e democrazia, Franco Angeli, Milano 1991) non
solo ha sostenuto che le due tradizioni sono conciliabili, ma che per molti aspetti la de-
mocrazia è la “naturale prosecuzione” del liberalismo. Egli però indica tale prosecuzione
solo se si intende la democrazia «nel suo significato giuridico-istituzionale e non in quello
etico», e dunque «in un significato più procedurale che sostanziale» (p. 26). La compati-
bilità si ha insomma quando si intende la democrazia come formula politica (ossia come
idea della sovranità popolare), ma non quando si guarda all’ideale ugualitario che essa
propone. L’idea di Bobbio è comunque che «lo sviluppo della democrazia è diventato il
principale strumento per la difesa dei diritti di libertà» (p. 31), e dunque le due tradizioni,
che hanno un punto di partenza comune nell’individuo, in ultima analisi si intrecciano
naturalmente. Più problematica la posizione di un altro maestro degli studi politologici in
Italia, Giovanni Sartori, per il quale nonostante a partire dalla metà del XIX secolo l’ideale
democratico e quello liberale si siano “fusi” e “confusi”, rimangono tra i due alcune dif-
ferenze sostanziali, cfr. G. SARTORI, Democrazia. Cos’è. Rizzoli, Milano 1993, p. 203 e ss. e
soprattutto G. SARTORI, The Theory of Democracy Revisited. I. The Contemporary Debate,
II, The Classic Issues, Chathman House Publisher, Chathman (N.J.) 1987, in particolare
vol. II, capitolo 13, nel quale mostra la sua netta preferenza per la democrazia liberale.
172 Crisi e rinascita del liberalismo classico
mente stata l’immissione del demos nello stato liberale, bisogna anche
riconoscere delle importanti differenze teoriche; se infatti il liberalismo
è una teoria della limitazione del potere, la democrazia è una teoria della
legittimazione del potere, e non si tratta di una differenza da poco, ma
di una diversa visione, carica di conseguenze, di quale sia il problema
politico fondamentale e su quale possa essere il ruolo dello stato.
Limitazione e legittimazione del potere naturalmente sono tutt’al-
tro che incompatibili, ma, sia a livello pratico sia teorico, con il trionfo
della democrazia le cose per il liberalismo si semplificano e si complica-
no al contempo. Si semplificano perché, almeno in teoria, le persone nei
confronti delle quali si esercita il potere (i cittadini) sono anche coloro
che controllano il potere, che hanno la possibilità di cambiare chi lo
amministra, e il ricambio di uomini e di partiti, di minoranze che di-
ventano maggioranze, gioca solitamente a favore del governo limitato.
Ma le cose per un altro verso si complicano, perché è possibile che un
potere che dispone di una legittimazione così forte tenda sempre più
ad espandersi e a ritenersi legittimato a fare qualunque cosa, purché
autorizzato da una maggioranza di cittadini. La qual cosa rischia di far
dimenticare quale sia la ragione e l’importanza della limitazione del
potere, qualunque ne sia la legittimazione.
In sostanza, per quanto possa anche apparire paradossale, la li-
mitazione di un potere sovrano con una legittimazione “esterna”, os-
sia di provenienza diversa rispetto ai soggetti sui quali il suo potere si
applica, è un percorso concettualmente (anche se non empiricamente)
più semplice e lineare rispetto alla limitazione di un sovrano che at-
tinge dall’oggetto della sua sovranità la sua legittimazione. Rivendicare
la necessità di limitare il potere di un monarca assoluto è qualcosa di
concettualmente molto diverso dal rivendicare la necessità di limitare
un popolo che governa sé stesso. Ed è un problema così diverso dal
precedente da porre l’interrogativo se basti, per limitare questo potere
democratico, una semplice “rimodulazione” degli strumenti del costi-
tuzionalismo e della divisione dei poteri, in una realtà in cui legislativo
ed esecutivo non soltanto hanno la stessa fonte di legittimità, ma sono
uno espressione dell’altro. Nelle “vecchie” monarchie il potere legisla-
tivo dei parlamenti, espressione della società (o di una parte di essa),
limitava e condizionava il potere esecutivo del sovrano, espressione del-
la “volontà divina” e della tradizione, mentre nelle democrazie l’ese-
cutivo è espressione del parlamento, o quando non lo è direttamente è
comunque anch’esso espressione del voto popolare. Rimane il principio
Liberalismo e democrazia 173
1. L’idea di libertà
8
Su tutti si vedano M.N. ROTHBARD, The Ethics of Liberty, Humanities Press, Atlan-
tic Highlands (N.J.) 1982 (trad. it. L’etica della libertà, Liberilibri, Macerata 1996) e C.B.
MACPHERSON, Democratic Theory. Essays in Retrieval, Clarendon Press, Oxford 1973.
9
I. BERLIN Two Concepts of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 70).
10
Si veda il nono capitolo di L. VON MISES, Die Gemeinwirtschaft… op. cit. (trad. it.
cit. pp. 218 e ss.).
Liberalismo e democrazia 177
11
Ivi, (trad. it. cit. p. 226).
12
Importante è anche ricordare che per Mises la libertà è sempre “libertà esteriore”,
poiché quella interiore non può a suo giudizio rientrare nei limiti di uno studio scientifico.
13
Ivi, (trad. it. cit. p. 226).
14
Ivi, (trad. it. cit. p. 228).
178 Crisi e rinascita del liberalismo classico
15
Ivi, (trad. it. cit. p. 229).
16
Ibidem.
Liberalismo e democrazia 179
17
Mises riassume con grande chiarezza il suo pensiero in una lettera (inedita) mandata
il 24 febbraio del 1955 a John van Sickle, nella quale scrive: «Inequality of wealth and
income is an essential feature of the market economy. It makes the consumers supreme
in giving them the power to force all those engaged in production to fill the wishes of the
consumers in the best possible and cheapest way. It shifts control of the material factors of
production into the hands of those who know how to employ them to the best advantage
of the consumers. It makes competition work. It is progressive in the best sense of the
term and benefits all strata of the population». E a conclusione della lettera aggiunge: «all
declarations in favour of free enterprise, private initiative, democracy and so on, are vain
if one does not openly endorse the principle of wealth and income inequality». La lettera è
conservata nell’archivio della Foundation for Economic Education di Irvington, New York.
180 Crisi e rinascita del liberalismo classico
tentativo, non semplice, di avere una crescita che sia equa. Le demo-
crazie hanno trovato una risposta con lo stato sociale, ma la potenziale
contraddittorietà con l’idea di Mises, per la quale la diseguaglianza
non solo è necessaria alla crescita ma è anche un fatto naturale da ac-
cettare come tale, è qualcosa su cui i liberali devono riflettere. E forse
proprio partendo da questo aspetto si può vedere in che termini per
Mises si pone il “problema” della democrazia, un problema teorico
di cui egli vede chiaramente l’importanza, anche se non sa sempre
affrontarlo in tutta la sua profondità.
Nella sua definizione di cosa sia la libertà Mises ha chiaramente
prospettato un’idea liberale, forse per alcuni aspetti un po’ ingenua,
di società capace di autoregolamentarsi e nella quale i processi demo-
cratici non sembrano destinati ad avere un ruolo di grande rilievo.
Nella società liberale come concepita da Mises sostanzialmente non
esistono prevaricazioni ma soltanto relazioni di dipendenza reciproca,
tra individui liberi, che trovano un loro equilibrio. Le stesse disegua-
glianze sono il risultato di un processo di cooperazione sociale in cui
non esiste l’arbitrio, e vanno dunque considerate alla stregua di fatti,
che vanno accettati come tali e non giudicati negativamente o positi-
vamente. Teorie quali il socialismo, che vedono negli equilibri della
società capitalistica basata sulla cooperazione sociale l’esistenza di in-
giustizie o la negazione della libertà, sono per Mises teorie erronee,
non scientifiche, perché non tengono conto delle leggi naturali che
sono alla base della società. Il problema è qui capire come classificare
la teoria democratica alla luce delle idee di Mises. È infatti innegabile
che se il liberalismo pone come unico principio l’uguaglianza davanti
alla legge, escludendo la possibilità che possa esistere ogni altra forma
di uguaglianza, la democrazia ha invece tra i propri obiettivi non solo
la realizzazione dell’uguaglianza politica, ma anche di un certo gra-
do di uguaglianza sociale, garantendo uguali condizioni di partenza,
uguali opportunità ecc.. La domanda allora è quanto una tale teoria
politica sia compatibile con il principio di cooperazione sociale, e dun-
que con la libertà, come intese da Mises, e più in generale come alla
luce delle sue riflessioni vada considerato il rapporto tra liberalismo e
democrazia.
Per alcuni versi Mises considera la democrazia come un qualcosa
di estremamente limitato, che riguarda solo l’ambito dell’assetto isti-
tuzionale e organizzativo dello stato, e gli contrappone il liberalismo
inteso invece come «un’ideologia che abbraccia la vita sociale nel suo
Liberalismo e democrazia 181
24
Su questi temi si veda L. VON MISES Human Action, op. cit., (trad. it. cit. pp. 145 e ss.).
Liberalismo e democrazia 183
27
Ivi, (trad. it. cit. p. 7).
Liberalismo e democrazia 185
28
Ivi, (trad. it. cit. pp. 9-10).
29
Ivi, (trad. it. cit. p. 10).
30
Ivi, (trad. it. cit. p. 12).
31
J.A. SCHUMPETER, Capitalism, Socialism and Democracy, George Allen and Unwin,
London 1950 [1942] (trad. it.: Capitalismo, socialismo e democrazia, ETAS, Milano 2001).
32
La seconda parte del libro, dal titolo Può il capitalismo sopravvivere? Inizia con una
186 Crisi e rinascita del liberalismo classico
sostenere che nella quarta parte del suo lavoro, dal titolo Socialismo e
democrazia, nonostante egli presenti solo due modelli della democra-
zia, ve ne sia in realtà un terzo, non enunciato esplicitamente ma che
rispecchia bene i dubbi di un liberale di fronte al meccanismo democra-
tico. Partendo dalla “demolizione” della dottrina classica Schumpeter
si prefigge di elaborare una definizione esclusivamente procedurale ed
empirica, in cui la democrazia venga descritta come un metodo di scelta
(approvazione) dei detentori del potere, indifferente a qualunque valore.
L’analisi è particolarmente interessante perché considerare la democra-
zia come un semplice meccanismo di votazione e di selezione dei gover-
nanti è in realtà una cartina di tornasole per vedere se quel meccanismo
sia sufficiente a definire la democrazia, o se sia necessario tentare di
fornirne una nuova e diversa definizione, cosa che egli fa, anche se non
lo dice esplicitamente, analizzando il modello della democrazia liberale.
Quella che Schumpeter chiama “concezione classica” della demo-
crazia è trattata nei primi due capitoli della quarta parte di Capitalism,
Socialism and Democracy, ed è di notevole rilevanza ai fini di questo lavoro
perché sintetizza bene le preoccupazioni di un liberale davanti alla demo-
crazia. La democrazia classica si basa sulla credenza che esista un “bene
comune” in grado di “offrire risposte precise ad ogni domanda”, e che esso
possa essere realizzato guardando a quella che è la volontà popolare. Ma
se il carattere saliente della democrazia classica è la realizzazione “dell’a-
nima popolare”, nel rispetto di date procedure, gli esiti che ne derivano
possono tranquillamente essere diversissimi tra loro a seconda delle circo-
stanze, e dunque possono anche essere lontanissimi non solo dagli ideali
liberali, ma anche da quegli ideali che comunemente si è soliti attribuire
alla democrazia – si pensi agli esempi proposti di esiti “democratici” come
la caccia alle streghe, l’antisemitismo e la persecuzione dei cristiani.
Ma anche senza spingersi sino alla “realizzazione dell’anima po-
polare”, e limitandosi alla concezione etimologica della democrazia
domanda e una risposta secche: «può sopravvivere il capitalismo? No, non lo credo», e
poco più avanti aggiunge che «il rendimento attuale e potenziale del sistema capitalistico
[…] mina alla base gli istituti sociali che lo proteggono e crea inevitabilmente condizioni
in cui esso non potrà più vivere, e che ne indicano come erede apparente il socialismo»,
Ivi, (trad. it. cit. p. 59). Poi conclude quella seconda parte sostenendo di aver dimostrato
che «fattori oggettivi e soggettivi, economici ed extraeconomici […] preparano non sol-
tanto la distruzione del capitalismo, ma la nascita di una civiltà socialista. Tutti puntano
in questa direzione. Il processo capitalistico non soltanto distrugge la propria impalcatura
istituzionale, ma crea le condizioni del sorgere di un’altra. Distruzione non è forse il ter-
mine esatto: dovrei parlare di trasformazione» (trad. it. cit. p. 167).
Liberalismo e democrazia 187
come “governo del popolo”, Schumpeter nota come tale definizione ab-
bia «tanti significati quante sono le combinazioni fra tutte le definizioni
possibili del concetto di popolo»33, e dunque come, qualunque sia la
(auto)definizione di popolo, alcuni soggetti siano in ogni caso destinati
a rimanere fuori da quella definizione e naturalmente dal processo de-
mocratico. Anche in questo caso le categorie tagliate fuori, pur nel ri-
spetto delle procedure democratiche (si lascia che sia il popolo ad auto-
definirsi), possono essere diversissime tra loro, e non è detto che l’esito
sia “democratico”. A essere tenuti fuori dalla comunità politica possono
essere gli stranieri, i minorenni, le donne, o anche gli appartenenti a
una determinata fede religiosa, come nei casi di comunità politiche che
appunto si autodefiniscono sulla base di un forte sentimento religioso.
Esclusioni ancora oggi esistenti, o latenti, in maniera diversa e in diver-
se parti del mondo, e l’esclusione di queste categorie così diverse tra
loro dalla comunità politica va naturalmente valutata in maniera diversa
(basti ricordare come l’esclusione di un minore sia una situazione solo
transitoria). Tuttavia rimane sempre in piedi il problema di fondo, ossia
il diritto di una comunità ad autodefinirsi tale, e dunque il suo diritto
di poter escludere chi non rientra in quella definizione. Emerge dunque
come la stessa (auto)definizione di cosa sia il popolo, la stessa apparte-
nenza al popolo, sia una questione “di opinione e di gradi”.
Da questo problema in un certo senso “primordiale” della demo-
crazia, emerge come il semplice criterio della maggioranza, e dunque
della legittimità della scelta in ragione esclusivamente del criterio di
titolarità (una scelta è legittima se è compiuta da chi è titolato a com-
pierla, e in democrazia è il popolo) possa creare a un liberale non po-
che perplessità. Infatti anche in questo caso si possono avere, pur nel
perfetto rispetto formale della democrazia come volontà popolare, esiti
totalmente contrastanti non solo con la libertà individuale, ma anche
con quelli che di solito si ritengono i valori della democrazia. Tuttavia,
se si riconosce l’esistenza di valori superiori che non possono essere “in-
taccati” dal meccanismo democratico, e dunque se si decide di preferire
a una scelta a maggioranza che li nega un regime non democratico che
li garantisce, allora bisogna anche accettare come legittima, ad esempio,
l’idea di un socialista che ritenendo il capitalismo un male da abbatte-
re ad ogni costo è disposto ad accettare metodi non democratici pur
di eliminarlo. Insomma, se si accetta la democrazia come un metodo
33
Ivi, (trad. it. cit. p. 253).
188 Crisi e rinascita del liberalismo classico
34
È anche interessante notare come nella riflessione di Schumpeter siano totalmente
assenti riferimenti a tutti quei pensatori che si sono confrontati con la dottrina democratica
per indicarne i limiti e con l’intento di trovare un insieme di istituzioni sì democratiche ma
anche capaci di tutelare la libertà individuale.
35
Ivi, (trad. it. cit. p. 261).
190 Crisi e rinascita del liberalismo classico
36
Ivi, (trad. it. cit. p. 279).
Liberalismo e democrazia 191
40
Ivi, (trad. it. cit. p. 281).
Liberalismo e democrazia 193
41
Ivi, (trad. it. cit. p. 299).
42
Ivi, (trad. it. cit. p. 300).
43
Le condizioni sono in tutto quattro, e la terza riguarda l’esigenza di una «burocrazia
esperta, dotata di prestigio, di una buona tradizione, di un forte senso del dovere e di un
non meno forte esprit de corps», capace di «guidare e, se necessario, istruire gli uomini
politici a capo dei ministeri». Ivi, (trad. it. cit. p. 302). Si tratta di un requisito che può
essere variamente interpretato, ma anch’esso può benissimo essere visto nella sua funzione
194 Crisi e rinascita del liberalismo classico
di freno degli “abusi” della politica. Anche se in realtà il punto è piuttosto controverso,
perché nella sua analisi del socialismo Schumpeter pone l’efficienza della burocrazia come
un requisito della possibile realizzazione e del buon funzionamento di un sistema socialista.
44
Ivi, (trad. it. cit. p. 303).
45
Ivi, (trad. it. cit. p. 304).
46
Ivi, (trad. it. cit. p. 310).
Liberalismo e democrazia 195
del potere che impedisce ad esso di essere arbitrario» 48. Gli studi sulle
diverse correnti del liberalismo lo condussero così a tracciare una netta
distinzione tra quello che chiamò il “vero” individualismo di origine
anglosassone, ossia una teoria della società che spiega i fenomeni sociali
a partire dalle azioni individuali, e il “falso” individualismo di origine
francese, basato su una illimitata fiducia nella ragione individuale e sul
conseguente disprezzo di qualunque cosa non fosse da essa progetta-
ta49. Entrambe le concezioni entrarono a far parte del programma del
liberalismo del diciannovesimo secolo, ma in realtà la seconda delle
due correnti apparteneva alla tradizione democratica (o quanto meno
ne aveva subito una determinante influenza) e l’aver dato anche ad essa
il nome di liberale impedì a lungo di comprendere come in realtà i due
princìpi non fossero solo diversi, ma anche per certi versi antagonisti.
Alcuni anni dopo Hayek riassumerà così tale principio:
48
F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. p. 122).
49
Il riferimento è F.A. VON HAYEK, Individualism: True and False, Blackwell, Oxford
1946 (trad. it. Individualismo: quello vero e quello falso, prefazione di D. Antiseri, Rubbet-
tino, Soveria Mannelli 1997).
50
F.A. VON HAYEK, Studies in Philosophy, Politics and Economics, op. cit., (trad. it. cit.
p. 296). Questo passo è stato anche commentato da Norberto Bobbio, che ha visto nell’o-
pera di Hayek, senza peraltro risparmiarle critiche, la “summa della dottrina liberale con-
temporanea”. A suo giudizio Hayek distingue chiaramente liberalismo e democrazia, privi-
legiando nel primo nettamente l’aspetto economico su quello politico (caratteristica che in
verità sembra più propria di Milton Friedman che di Hayek). Cfr. N. BOBBIO, Liberalismo
e democrazia, op. cit., pp. 62-64. Alcuni anni più tardi Hayek tornerà su questo stesso con-
cetto, scrivendo: «il liberalismo si interessa alle funzioni del governo e, in particolare, alla
limitazione dei suoi poteri. Per la democrazia il problema centrale è quello di chi debba
dirigere il governo. Il liberalismo esige che ogni potere – e quindi anche quello della mag-
gioranza – sia sottoposto a limiti. La democrazia giunge invece a considerare l’opinione
della maggioranza come il solo limite ai poteri governativi. La diversità tra i due princìpi
emerge nel modo più chiaro se si pone mente ai rispettivi opposti: per la democrazia il
198 Crisi e rinascita del liberalismo classico
governo autoritario, per il liberalismo il totalitarismo. Nessuno dei due sistemi esclude
necessariamente l’opposto dell’altro: infatti una democrazia può benissimo esercitare un
potere totalitario, ed è al limite concepibile che un governo autoritario agisca secondo
princìpi liberali» F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. pp. 158-159).
51
La citazione è dal saggio Whither Democracy? ora in F.A. VON HAYEK, New Stu-
dies… op. cit. (trad. it. cit. p. 170).
Liberalismo e democrazia 199
55
Ivi, (trad. it. cit. p. 42).
56
Ivi, (trad. it. cit. p. 49).
57
Sul modo di concepire la libertà in relazione al diritto si veda R.L. CUNNINGHAM
(ed.), Liberty and the Rule of Law, Texas A&M University Press, College Station 1979, p.
318 e ss. e I. CARTER, Libertà uguale, op. cit.
58
F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 49).
Liberalismo e democrazia 201
59
«Almeno finché non riguardano me personalmente, ma sono fatte in modo da esse-
re applicabili in modo uniforme a tutte le persone che si trovino in circostanze analoghe, le
norme relative alla coercizione non sono affatto diverse da qualsiasi ostacolo naturale che
si faccia risentire sui miei piani. In quanto si limitano a dirmi cosa accadrà se faccio qual-
cosa o qualcos’altro, le leggi dello Stato hanno per me lo stesso valore delle leggi naturali;
e io posso servirmi delle mie cognizioni di esse per raggiungere i miei scopi, così come mi
servo delle mie cognizioni delle leggi naturali». Ivi, (trad. it. cit. p. 197).
60
Egli indica tre caratteristiche della democrazia particolarmente importanti e posi-
tive: 1 - è l’unico mezzo pacifico per cambiare il governo sino ad ora scoperto; 2 - è stata
storicamente una buona garanzia per la libertà individuale; 3 - è un metodo per “educare”
le maggioranze e formare l’opinione pubblica (il riferimento è naturalmente a Tocquevil-
le). Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 153-155).
202 Crisi e rinascita del liberalismo classico
61
Ivi, (trad. it. cit. p. 150).
62
Ivi, (trad. it. cit. p. 152).
63
Ivi, (trad. it. cit. p. 156). Su questi temi si veda anche il già citato saggio Whither
Democracy?, F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. pp. 168-179).
64
F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 157).
Liberalismo e democrazia 203
rettive per effetto delle quali in una società libera i tentativi sbagliati
saranno abbandonati e quelli giusti prevarranno»65.
Guardando ai processi spontanei Hayek delinea dunque un
modello di ordine liberale che, almeno dal punto di vista teorico, si
presenta come alternativo e in parte incompatibile con altre forme di
produzione dell’ordine, o più precisamente con quell’unica alternativa
rappresentata dall’idea che un buon ordine sociale possa nascere e mo-
dificarsi esclusivamente tramite la volontà umana. Idea che può assu-
mere colorazioni e gradazioni assai diverse, ma che comunque accomu-
na la democrazia e il socialismo. In questo senso, alcune delle critiche
gnoseologiche proposte nei confronti del totalitarismo, analizzate nel
capitolo precedente, potrebbero in parte essere riproposte nei confronti
della democrazia, ossia nei confronti della convinzione che sia possibile
(questa volta con l’opinione della maggioranza e non tramite la scienza)
determinare con una scelta umana razionale e deliberata quale sia il mi-
glior modello di società, e quale sia la direzione nella quale lo sviluppo
umano deve andare. Se la critica di Hayek investe più radicalmente il
socialismo, non può tuttavia lasciare fuori la democrazia, la quale, da
questa prospettiva, ha con il socialismo solo una differenza di grado e
non di sostanza.
Tuttavia se questa può essere la conclusione teorica cui si può
giungere guardando al diverso fondamento gnoseologico che Hayek in-
dividua per il liberalismo da una parte e per il socialismo e la democra-
zia dall’altra, bisogna indubbiamente rilevare come egli cerchi decisa-
mente un punto d’incontro con la teoria democratica. E si può sostenere
che questo viene cercato, non senza alcune difficoltà, anche nella parte
centrale del libro, ossia nell’analisi della rule of law e della sua relazione
con la libertà individuale.
Dopo aver definito la coercizione come un rapporto tra uomini, e
averla qualificata come ineliminabile all’interno della società66, Hayek
65
Ivi, (trad. it. cit. p. 157).
66
A criticare i concetti di coercizione, libertà e rule of law come intesi da Hayek, fu
Ronald Hamowy, il quale riteneva tra le altre cose che quel concetto di libertà fosse «funda-
mentally incompatible with the one which forms the basis of a consistent libertarianism»,
R. HAMOWY, Hayek’s Concept of Freedom: A Critique, in «New Individualist Review», n. 1,
pp. 28-32, 1961, p. 31. L’articolo fu scritto da Hamowy quando questi aveva appena inizia-
to il dottorato proprio sotto la supervisione dello stesso Hayek, e fu pubblicato nella «New
Individualist Review», una rivista fondata da lui e altri studenti e destinata a diventare un
luogo di discussione di grande importanza per il rinascente pensiero liberale. Sempre su
quella rivista Hayek replicò al suo studente, ripubblicando poi quella sua risposta in F.A.
204 Crisi e rinascita del liberalismo classico
sostiene che essa può essere evitata se all’individuo viene assicurata una
“sfera privata” entro la quale gli sia possibile sfuggire alle interferenze
del potere politico. Tale sfera può essere delimitata e garantita efficace-
mente solo tramite norme generali che «regolano le condizioni in cui
gli oggetti e le circostanze diventano parte di una sfera garantita di una
persona»67. Tale diritto, che ha il suo perno nella proprietà privata, non è
stato concepito da una mente umana, ossia non è stato “deliberatamente
progettato”, come non lo sono stati il denaro, il linguaggio e molte abi-
tudini e convenzioni sociali. Il requisito fondamentale di un diritto che
sia garanzia di libertà è dunque quello di avere norme che siano generali,
astratte e applicabili a tutti. Hayek appare consapevole del fatto che anche
norme con tali caratteristiche potrebbero dare luogo a forti limitazioni
della libertà, tuttavia sostiene che questo sia altamente improbabile e che
la principale garanzia perché non avvenga «è che le norme vadano appli-
cate a chi le pone e a chi le esegue - cioè ai governanti come ai governati
- e che nessuno abbia il potere di accordare deroghe»68. Alle norme ge-
nerali e astratte Hayek contrappone le leggi intese come “comandi spe-
cifici”, che sono i principali strumenti di oppressione e che consentono
che degli uomini governino su altri uomini. Anche dove Hayek non lo
dice esplicitamente è chiaro che la sua preoccupazione verte sul fatto che
i regimi democratici ritengano possibile modellare la società secondo i
VON HAYEK, Studies in Philosophy, Politics and Economics, op. cit., (trad. it. cit. pp. 607-
612). Alcuni anni dopo Hamowy tornò approfonditamente sugli stessi temi, confermando
le sue critiche, R. HAMOWY, Freedom and the Rule of Law in F. A. Hayek, in «Il Politico»,
xxxvi, n. 2, 1971, pp. 349-371. Per una ricostruzione di quelle critiche si veda A.O. EBEN-
STEIN, Friedrich Hayek. A Biography op. cit. (trad. it. cit. pp. 386 e ss.).
67
F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 194).
68
Ivi, (trad. it. cit. p. 212). In realtà questa argomentazione è particolarmente debole
se si pensa proprio a quello che è il fondamento della riflessione hayekiana e in generale
della Scuola austriaca, la teoria dei valori soggettivi. Se infatti si accetta l’idea che siano
gli uomini a poter stabilire leggi generali e astratte, non si potrà anche negare che ciò che
per alcuni è un’utile limitazione della libertà per altri potrebbe essere una limitazione
inaccettabile. Nel momento in cui sono i primi (maggioranza) a creare quella regola, non
basta certo il fatto che anche loro vi siano soggetti per risolvere il problema. Ciò che è
debole nel ragionamento di Hayek è la mancanza di un criterio oggettivo per definire quali
regole, indipendentemente dalla loro generalità, astrattezza e imparzialità (intesa appunto
come applicabilità a tutti), garantiscano la libertà e quali no. Si tratta di una debolezza di
cui risente in generale anche la teoria dell’evoluzione spontanea, poiché niente garantisce
che a sopravvivere siano quelle regole che tutelano la libertà e non delle altre che non la
tutelano affatto. Su come questi problemi della teoria hayekiana siano stati più volte messi
in luce si veda A.M PETRONI, L’eredità di Hayek, in «Il Politico» anno LVII, n. 3, 1992, pp.
377-391, che richiama in particolare le osservazioni di Buchanan.
Liberalismo e democrazia 205
propri desideri, e che per realizzare tale obiettivo siano inclini a usa-
re i “comandi specifici”. Tali comandi non hanno quelle caratteristiche
fondamentali per un buon ordine che invece hanno le norme generali
e astratte le quali sono le uniche, conformemente ai problemi riguardo
alla divisione della conoscenza, in grado di rimediare alla nostra “costi-
tuzionale ignoranza”, e all’impossibilità di conoscere le circostanze a cui
queste norme andranno applicate. L’utilizzo di norme generali e astratte
consente dunque anche di fare previsioni corrette rispetto al comporta-
mento delle altre persone, caratteristica essenziale per definire un ordi-
ne, e anzi essenza stessa di un ordine sociale, il quale si ha quando «gli
individui non solo utilizzano in modo efficace le loro conoscenze ma […]
possono anche prevedere, con una certa sicurezza, la collaborazione che
possono aspettarsi dagli altri»69.
Perché possano darsi queste condizioni è necessario che vi sia un
qualche potere che le garantisca e che risulta essenziale per il mante-
nimento dell’ordine spontaneo e del diritto che nasce con la selezione
culturale. Il potere e la politica non costruiscono il diritto e l’ordine, ma
hanno un ruolo fondamentale nel preservarli e anche nel promuoverli.
È questo un punto essenziale della riflessione di Hayek, poiché da esso
emerge come egli da un lato, già nel 1960, guardi alla superiorità dei
processi sociali spontanei rispetto agli ordini costruiti, ma da un altro
ritenga essenziale l’intervento del legislatore, e della volontà umana,
perché tali processi possano avere una vera realizzazione. L’uomo non
può dunque programmare il modo in cui si realizzerà l’ordine sociale,
ma può “produrre” le condizioni per la formazione di quell’ordine e
della sua salvaguardia o rinnovamento. E creare le condizioni perché un
ordine possa stabilirsi e rinnovarsi è appunto il compito, tutt’altro che
marginale, del legislatore, il quale deve garantire all’ambiente sociale
quella “regolarità” che consentirà la formazione di un ordine a partire
dall’azione di individui intelligenti che perseguono il loro fine e che
sanno su quali “circostanze del proprio ambiente” possono contare70.
A questo punto si tratta di capire come si possa definire e inqua-
drare la rule of law in questo complicato processo di formazione di un
ordine spontaneo, e quale sia la relazione tra rule of law e democrazia.
Dopo aver delineato, con particolare attenzione al costituzionalismo
americano e al Rechtsstaat tedesco, la nascita e la storia della rule of Law,
69
F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 212).
70
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 217-218).
206 Crisi e rinascita del liberalismo classico
mente non potrebbero che dipendere dalle scelte dell’autorità, con tutto
ciò che ne consegue in termini di rischi per la libertà, compresa quella
di scegliere la propria occupazione. Insomma, o l’individuo condivide
scelta e rischio, o perde entrambe. Questo non vale solo per i sistemi
socialisti, ma entro una certa misura anche per le democrazie, e Hayek
mette il dito nella piaga quando osserva che nel momento in cui si ga-
rantisce la protezione del lavoro e della sicurezza economica ad alcune
persone inevitabilmente si crea un contrasto tra chi ha quel privilegio
e chi non lo ha, e che tanto più si cerca di acquisire quella sicurezza
interferendo con il mercato tanto più grande diventa quel divario. Per
quella via inoltre si affaccia un sistema di valori sociali nuovo, in cui è la
sicurezza economica garantita per via politica a conferire dei privilegi,
uno status negato agli altri. Proprio per evitare questi mali, che sem-
brano tipici della democrazia quanto del socialismo, la sicurezza deve
essere dispensata fuori dal mercato e la concorrenza fatta funzionare
senza ostacoli. Se infatti «una certa sicurezza è essenziale per preservare
la libertà»74, non si può esaltare la sicurezza a discapito della libertà, la
quale ha un prezzo, e per difenderla bisogna essere disposti a fare duri
sacrifici, anche materiali.
Al problema della “libertà nello stato assistenziale”, è dedicata
anche la terza parte di The Constitution of Liberty, la parte del libro che
ha attirato le più dure critiche di alcuni pensatori liberali, a iniziare da
Mises75. Qui Hayek indica una serie di compiti, dalla sicurezza sociale
all’istruzione, di cui è bene che uno stato liberale, finanziandosi con
la tassazione, si faccia carico. Egli sostiene dunque che vi siano tutta
una serie di servizi e beni pubblici che lo stato deve fornire, purché il
suo operare sia conforme a princìpi generali e non sia qualcosa che una
74
F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. p. 189).
75
A questo proposito Mises scrisse: «It was the great merit of Professor Friedrich von
Hayek to have directed attention to the authoritarian character of socialist schemes. Now
Professor Hayek has enlarged and substantiated his ideas in a comprehensive treatise, The
Constitution of Liberty. In the first two parts of this book the author provides a brilliant
exposition of the meaning of liberty and the creative powers of a free civilization. Unfor-
tunately, the third part of Professor Hayek’s book is rather disappointing. Here the author
tries to distinguish between socialism and Welfare State. Socialism, he alleges, is on the
decline; the Welfare State is supplanting it. And he thinks that the Welfare State is under
certain conditions compatible with liberty. Professor Hayek has misjudged the character
of the Welfare State», L. VON MISES, Liberty and its Antithesis, in «Christian Economics»
1 agosto 1960, p. 3. La recensione è anche citata in A.O. EBENSTEIN, Friedrich Hayek. A
Biography op. cit. (trad. it. cit., p. 389).
Liberalismo e democrazia 209
76
«Lungi da propugnare uno “stato minimo”, riteniamo indispensabile che in una
società avanzata il governo debba usare il proprio potere di raccogliere fondi per le impo-
ste per offrire una serie di servizi che per varie ragioni non possono essere forniti - o non
possono esserlo in modo adeguato - dal mercato», F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and
Liberty, op. cit. (trad. it. cit. pp. 416-417).
77
«La maggior parte della gente non è ancora disposta ad affrontare la lezione più
allarmante della storia moderna, e cioè che i maggiori crimini dei nostri tempi sono stati
perpetrati da governi che avevano l’appoggio entusiastico di milioni di persone, guidate da
impulsi morali. Non è assolutamente vero che Hitler o Mussolini, Lenin o Stalin facessero
appello soltanto ai peggiori istinti dei loro popoli: essi esercitavano un certo fascino nei
confronti di quei sentimenti dominanti anche nelle democrazie contemporanee. Qualun-
que sia stata la delusione provata dai sostenitori più maturi di questi movimenti quando
si resero conto degli effetti delle politiche che avevano sostenuto, non c’è dubbio che le
masse dei movimenti comunisti, nazionalsocialisti o fascisti comprendevano molti uomini
e donne ispirati da ideali non molto diversi da quelli di alcuni dei filosofi sociali più in-
fluenti nei paesi occidentali», F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad.
it. cit. p. 344).
78
Nel saggio La costituzione di uno stato liberale, pubblicato per la prima volta nel
1967 nella rivista “Il Politico”, diretta da Leoni, Hayek scrive: «l’interpretazione corrente
della separazione dei poteri si basa […] su un ragionamento tortuoso e la rende un ra-
gionamento totalmente vuoto; solo il corpo legislativo deve approvare le leggi e non deve
possedere nessun altro potere, ma qualsiasi cosa decida è legge. Questo sviluppo si è avuto
dalla crescita del governo democratico interpretato come governo illimitato, e dalla filo-
210 Crisi e rinascita del liberalismo classico
sofia giuridica ad esso congeniale, il positivismo giuridico, che tenta di uniformare tutto
il diritto alla volontà espressa di un legislatore», F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit.
(trad. it. cit. pp. 111-112).
79
Cfr. F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. pp. 238 e
ss.). Si vedano anche i riferimenti nel saggio dedicato appunto agli errori del costruttivi-
smo in F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. p. 24-25).
80
Cfr. F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. pp. 472 e
ss.). Più avanti aggiunge: «non soltanto pace giustizia e libertà, ma anche la democrazia
è un valore essenzialmente negativo, una norma procedurale che serve come protezione
dal dispotismo e dalla tirannia. […] Tuttavia, anche la democrazia […] è oggi minata dal
tentativo di darle un contenuto “positivo”. Sono quasi certo che la democrazia illimitata
ha i giorni contati. Se si vogliono mantenere i valori fondamentali della democrazia, la si
deve adottare in una forma diversa, o si perderà, prima o tardi, la possibilità di sbarazzarsi
di un governo oppressivo. [...] Il vero valore della democrazia è di servire come una pre-
cauzione sanitaria atta a proteggerci contro qualsiasi abuso di potere», al contrario però
essa è oggi diventata «la causa principale di un aumento progressivo del potere e del peso
della macchina burocratica», pp. 506-510. Si veda anche F.A. VON HAYEK, New Studies…
op. cit. (trad. it. cit. p. 168 e ss.) in cui scrive anche «tutta la democrazia che conosciamo
oggi in Occidente è più o meno una democrazia illimitata», p. 169.
Liberalismo e democrazia 211
a tutte le altre limitazioni del potere»81. Questo ha dato luogo alla na-
scita di una “mostruosa istituzione”, ossia di un potere assoluto che non
riconosce altre leggi e limitazioni oltre a quelle che egli stesso emana82.
Un parlamento onnipotente di questo tipo, anche se autorizzato dalla
maggioranza dei cittadini, significa «la morte della libertà individuale»,
poiché «possiamo avere o un parlamento libero o un popolo libero. La
libertà personale richiede che qualsiasi autorità sia limitata da princìpi
durevoli, sostenuti da una approvazione generale»83.
Tutto questo è aggravato dal fatto che le maggioranze parlamenta-
ri sono in realtà una somma di minoranze, ognuna delle quali persegue
proprie finalità e interessi con potere di scambio e ricatto sugli altri
componenti della maggioranza84. Proprio per questo suo essere partico-
larmente soggetto ai gruppi di interesse il sistema democratico necessita
di severe limitazioni, che consentano di salvaguardare la libertà perso-
nale. Si tratta di una degenerazione del vero ideale della democrazia, e
ciò che è avvenuto è che «si è creato, sotto il falso nome di democrazia,
un meccanismo in cui non decide la maggioranza, ma dove ogni suo
membro, per perseguire i suoi propri scopi, deve prestarsi a molte cor-
ruzioni al fine di ottenere l’appoggio della maggioranza. Per quanto am-
mirevole sia il principio delle decisioni a maggioranza per questioni che
necessariamente concernono tutti, il risultato dell’applicazione di tale
81
F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 374).
82
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. p. 410). Hayek scrive anche: «spero verrà il giorno in cui la
gente considererà con lo stesso orrore l’idea di un insieme di uomini, pur autorizzati dalla
maggioranza dei cittadini, dotati del potere di ordinare quanto gli aggrada, come oggi
aborrisce molte forme di governo autoritario».
83
Ivi, (trad. it. cit. p. 476-477).
84
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. p. 383). Interessante a questo proposito è anche un saggio
del 1973, Economic Freedom and Representative Government, nel quale Hayek si mostra
assai pessimista riguardo alla possibilità di conciliare capitalismo e democrazia. A suo
giudizio, anche in una società in cui la maggioranza della popolazione è favorevole al li-
bero mercato, i partiti e il governo saranno sempre ostaggio di minoranze, le quali magari
si dichiareranno favorevoli al mercato, ma poi in pratica chiederanno sempre eccezioni
per la propria situazione, e il governo non potrà fare a meno di soddisfare questi interessi
speciali. E la “radice del male” a suo avviso è sempre il potere illimitato delle assemblee
legislative, un potere che la maggioranza si trova costretta a dover usare in modo diverso
da come la maggioranza dei cittadini vorrebbe. «Ciò che noi chiamiamo la volontà della
maggioranza è così, in realtà, una mistificazione delle istituzioni esistenti, ed in particolare
dell’onnipotenza dell’assemblea legislativa sovrana che, attraverso la meccanica del pro-
cesso politico, sarà portata a fare cose che la maggior parte dei suoi membri non vuole
veramente, semplicemente perché non esistono limiti formali ai suoi poteri», F.A. VON
HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. p. 123).
212 Crisi e rinascita del liberalismo classico
85
F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 512). Nel 1976
aveva anche scritto: «l’accordo da parte della maggioranza circa la spartizione del botti-
no conquistato schiacciando la minoranza di concittadini, o decidendo quanto si debba
prendere loro, non è democrazia – o almeno non è quell’ideale di democrazia che ha una
qualsiasi giustificazione morale. La democrazia in sé stessa non è egualitarismo. Ma la
democrazia illimitata è destinata a diventare egualitaria», F.A. VON HAYEK, New Studies…
op. cit. (trad. it. cit. p. 174). Questo è anche, come si vedrà, uno dei principali argomenti
di Leoni nella sua critica della democrazia.
86
Sempre ne La costituzione di uno stato liberale scrive «legislazione democratica e
governo democratico sono probabilmente due obiettivi entrambi desiderabili, ma porre
queste funzioni nelle mani dello stesso organo distrugge la tutela della libertà individuale
che la separazione dei poteri intendeva fornire», Ivi, (trad. it. cit. p. 113).
87
L’idea è far votare ogni cittadino una sola volta nella vita, a quarant’anni, per eleg-
gere un suo coetaneo che rimarrà in carica quindici anni (ogni anno si eleggerebbe un
quindicesimo dell’assemblea) e che al termine del mandato potrà avere cariche esclusi-
vamente onorifiche, cfr. F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it.
cit. pp. 486 e ss.). L’obiettivo è naturalmente anche quello di evitare collusioni con l’altra
assemblea e con i partiti politici.
88
Ivi, (trad. it. cit. p. 411).
89
Sulla importante distinzione tra volontà e opinione si veda Ivi, (trad. it. cit. p. 118 e
ss.) e F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. pp. 112 e ss. e 103), in cui scrive:
«dall’esigenza che l’opinione della maggioranza debba prevalere non consegue affatto che
la sua volontà per questioni particolari debba essere illimitata». Come noto sull’importan-
za della pubblica opinione il riferimento di Hayek è A.V. DICEY, Lectures on the Relations
Liberalismo e democrazia 213
Between Law and Public Opinion in England, London, McMillan 1905 (trad. it. Diritto
e opinione pubblica nell’Inghilterra dell’Ottocento, Il Mulino, Bologna, 1997). Questo è
naturalmente molto importante anche per quanto riguarda la trattazione della rule of law
e del concetto di ordine spontaneo, cfr. anche A.V. DICEY, Introduction to the Study of the
Law of the Costitution, London, Mcmillan 1915.
90
F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. pp. 412-414) e
F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. pp. 102-107).
91
F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 405).
92
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 493-495).
93
Per una analisi sistematica delle difficoltà presenti in questo ed altri aspetti del
pensiero di Hayek si veda J. GRAY, Hayek on Liberty, op. cit., capitolo 6, che, nonostante
non tenga conto delle critiche successive al 1984, anno della prima edizione, è ancora oggi
una delle trattazioni più rilevanti.
214 Crisi e rinascita del liberalismo classico
94
F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 376).
95
F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 272).
Liberalismo e democrazia 215
tasse comunque nel momento in cui una tale assemblea fosse frutto di
un’elezione fu fatto rilevare ad Hayek, già nel 1963, da Bruno Leoni96,
ma l’austriaco non tenne in grande conto tale osservazione. Egli non
tenterà mai di divincolare completamente la tutela della libertà indivi-
duale dalla scelta dell’uomo, per ancorarla a princìpi da esso immuta-
bili. Certamente non è detto che una tale operazione sia effettivamen-
te realizzabile, e soprattutto non è detto che possa portare al risultato
sperato, tuttavia essa sarà uno dei più importanti orizzonti teorici del
liberalismo contemporaneo, esplorato dai Libertarians, i quali però fini-
ranno per muoversi in una prospettiva assai diversa da quella hayekiana
e sostanzialmente anarchica.
Nell’ambito del liberalismo classico del Novecento, la posizione di
Hayek rimane probabilmente la più coerente e quella che si è spinta più
avanti di tutte nella ricerca di limiti invalicabili per il potere politico, e
proprio per questo nella prospettiva di un compromesso solido e teori-
camente ben fondato con la democrazia. Oltre quel limite rimane solo la
tradizione Libertarian, con “l’intermezzo” purtroppo breve, a causa della
prematura scomparsa, ma teoricamente molto significativo, di Leoni.
Nella riflessione di Bruno Leoni97 si trova una delle più dure criti-
che liberali alla democrazia e al concetto di rappresentanza politica, basa-
ta su un potente parallelo tra i meccanismi democratici di produzione del
diritto e la pianificazione. Un binomio, quello tra legislazione e pianifica-
96
Si veda la lettera dell’otto maggio 1963 pubblicata in M. QUIRICO, Hayek e Bruno
Leoni: due lettere inedite su diritto e libertà, in «Il Politico», LXI, n. 2, 1996, 183-196.
97
La letteratura su Leoni è ormai diventata molto vasta, e negli ultimi anni sul suo
pensiero in Italia, oltre a numerosi articoli, si sono pubblicati quattro libri: A. MASALA, Il
liberalismo di Bruno Leoni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, E. BAGLIONI L’individuo e
lo scambio. Teoria ed etica dell’ordine spontaneo nell’individualismo di Bruno Leoni, ESI,
Napoli 2004, C. LOTTIERI, Le ragioni del diritto. Libertà individuale e ordine giuridico nel
pensiero di Bruno Leoni, Rubbettino-Facco, Soveria Mannelli 2006 e A. FAVARO, Bruno Le-
oni. Dell’irrazionalità della legge per la spontaneità dell’ordinamento, ESI, Napoli 2009. Da
ricordare anche la pubblicazione della raccolta di saggi AA.VV. La teoria politica di Bruno
Leoni, a cura di A. Masala, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005 e la riedizione di molte
delle sue opere, alcune delle quali erano state nel tempo completamente dimenticate e la
divulgazione del suo pensiero anche all’estero, grazie anche all’opera del think-tank che
porta il suo nome, Istituto Bruno Leoni, diretto da Alberto Mingardi.
216 Crisi e rinascita del liberalismo classico
101
B. LEONI Democracy, Socialism and Rule of Law op. cit. (trad. it. cit. p. 428).
102
B. LEONI, Il pensiero politico e sociale, op. cit., p. 95.
Liberalismo e democrazia 219
103
B. LEONI, Freedom and the Law, op. cit., (trad. it. cit. p. 114).
220 Crisi e rinascita del liberalismo classico
104
Alla conferenza della Mont Pèlerin Society del 1957 Hayek sostenne che l’unico
modo di garantire la libertà economica e politica consistesse nel fissare regole generali e
uguali per tutti, facendo riferimento al sistema della rule of law. Questa argomentazione
fu già allora considerata insufficiente da Leoni, secondo il quale è «possibile immaginare
una regola perfettamente eguale e generale, che tuttavia non garantisce alcuna “libertà”
agli individui nel senso in cui noi la intendiamo […]. Mirando a limitare la discrezionalità
dei funzionari pubblici, il prof. Hayek sembra avere in grande sospetto il potere esecutivo
(e non dico che abbia torto); ma che cosa diremo del potere legislativo? Questo rilievo me
ne suggerisce un altro: il prof. Hayek concepisce le regole generali come mutevoli? Una
regola perfettamente chiara, generale ed eguale può venire abolita domani, e sostituita da
un’altra non meno uguale e generale, che a sua volta può essere sostituita dopodomani. Si
presenta così il problema della certezza della regola. […] [Il] sistema della common law,
Liberalismo e democrazia 221
Nella sua analisi Leoni si riferisce anche alle riflessioni sul diritto
nel mondo antico, la quale cosa ci restituisce anche il problema della
democrazia nella sua reale dimensione storica e teorica, non legata alle
contingenze del momento. Leoni risale alle affermazioni di Catone il
Censore sulla creazione del diritto come processo collettivo, che nessun
uomo da solo sarebbe in grado di realizzare, arrivando a proporre un
parallelo con le critiche della pianificazione fatte da Mises. Quelle criti-
che a suo giudizio ricordano proprio le parole di Catone sull’impossibi-
lità per un unico uomo di creare ciò che solo generazioni di uomini in
molti secoli sono in grado di fare. In particolare egli nota come Catone
usi un’argomentazione sulla conoscenza analoga a quella di cui si serve
Mises per criticare l’economia pianificata, e a questo proposito scrive:
«il fatto che le autorità centrali di un’economia totalitaria non conosca-
no i prezzi di mercato quando fanno i loro piani economici è solo un co-
rollario del fatto che le autorità centrali non abbiamo mai una conoscen-
za sufficiente dell’infinità di elementi e di fattori che contribuiscono alle
relazioni sociali fra gli individui in ogni momento e ad ogni livello»105.
La difesa che gli economisti come Mises hanno fatto del libero mercato
può essere considerata valida anche per la formazione spontanea (non
“centralizzata” nella sola opera dei parlamenti) del diritto, mentre un
processo basato esclusivamente sulla legislazione rischia seriamente di
essere incompatibile con il libero mercato e con la libertà individuale.
Già i greci e i romani avevano capito che per essere veramente
liberi dall’interferenza del potere politico bisogna essere in grado di
poter prevedere le conseguenze delle proprie azioni in vista delle leggi
future. La certezza di lungo periodo conta quanto e più di quella a breve
termine, magari garantita da una legge fatta per risolvere un problema
specifico, e solo la prima consente l’esistenza della rule of law e della
libertà individuale, la quale è “libertà dall’interferenza” di chiunque,
pubbliche autorità incluse. Un importante insegnamento proviene dallo
implica una certezza che il sistema continentale non possiede; i giudici inglesi sono infatti
vincolati al precedente, mentre i corpi legislativi non lo sono. […] Sono sufficienti gli
aspetti formali della regola (la sua generalità e la sua eguale applicabilità) invocati dal prof.
Hayek, a garantire le libertà economiche e politiche dei cittadini? Non dimentichiamo che
queste libertà sono state nell’ultimo cinquantennio profondamente limitate […] ad opera
del potere legislativo, […] proprio per mezzo di regole generali», B. LEONI, Intervento sul
tema “Concetto di intervento e limiti della discrezionalità nella coercizione amministrativa”,
(X Congresso della Mont Pèlerin Society, Saint Moritz, 2-8 settembre), in «Il Politico», n.
3, 1957, pp. 708-709.
105
B. LEONI, Freedom and the Law, op. cit., (trad. it. cit. p. 101).
222 Crisi e rinascita del liberalismo classico
jus civile romano, che era solo in minima parte un diritto scritto, ma era
ben più certo del diritto prodotto per via legislativa. Gli antichi romani,
pur non conoscendo la certezza della legge scritta, erano perfettamente
in grado di prevedere le conseguenze giuridiche delle proprie azioni
e quindi si sentivano sicuri nel progettare il proprio comportamento
futuro. Per loro la certezza del diritto consisteva soprattutto nell’impos-
sibilità che un’assemblea legislativa o un qualunque altro potere fosse in
grado di cambiare arbitrariamente e improvvisamente le regole vigenti,
rendendoli incapaci di prevedere le conseguenze delle loro azioni. Sotto
questo profilo le relazioni giuridiche del mondo romano erano simili
alle relazioni economiche proprie del libero mercato: in entrambe man-
ca la costrizione e l’intervento arbitrario e imprevedibile di un’autorità.
Nel modo di produrre diritto degli antichi romani, a cui in tempi mo-
derni si avvicina il sistema di common law britannico, non c’è un potere
in grado di imporre, seppure con procedure prestabilite, nuove regole
da un giorno all’altro, ma il diritto viene invece scoperto con un’indagi-
ne spassionata dei giureconsulti. Le corti di giustizia accertano il “diritto
vivente”, trascurando i princìpi astratti e badando invece ai casi parti-
colari; il diritto che si cerca è quello creato nello stesso modo in cui si
forma il linguaggio e in cui avvengono le transazioni economiche nel
libero mercato – tramite le libere azioni dei cittadini, ossia tramite il
comportamento quotidiano della gente comune, e non tramite un “pia-
no” imposto dall’alto.
Quel modo di concepire e produrre il diritto va oggi completa-
mente scomparendo a causa dell’affermarsi della legislazione e del suo
“mito” fondante, la rappresentanza politica. E le critiche che Leoni ri-
serva alla rappresentanza non sono affatto più morbide di quelle rivolte
alla legislazione. Come prima cosa la rappresentanza politica viene defi-
nita un’illusione, o meglio viene definito totalmente illusorio il fatto che
possa essere “resa presente” la volontà degli elettori con il meccanismo
dell’elezione dei rappresentanti. I rappresentanti non potranno infatti
prescindere dalla libera interpretazione della volontà di chi li ha de-
legati, e inoltre si troveranno anche a dover affrontare problemi che
non esistevano al momento dell’elezione e rispetto ai quali né hanno
idea di quale sia la volontà degli elettori né hanno avuto modo di dire
loro come si sarebbero comportati davanti a quei problemi106. Questo
106
«È ovvio che le questioni in gioco nella vita politica sono troppe e troppo complicate
e che molte di esse sono sconosciute sia ai rappresentanti sia ai rappresentati. In queste
condizioni, nella gran parte dei casi non si potrebbero dare istruzioni», Ivi, (trad. it. cit.
Liberalismo e democrazia 223
p. 136). Queste difficoltà si manifestano a prescindere dal metodo con cui si scelgono
i rappresentanti, anche se gli elementi coercitivi presenti nella votazione accentuano il
fenomeno.
107
A questo proposito Lottieri opportunamente commenta: «alla visione aristotelica
delle norme generali che è ripresa da Hayek (e nella quale non vi è grande interesse per
il contenuto delle leggi stesse), Leoni oppone una concezione più individualistica, che
punti a salvaguardare la libertà e quindi il diritto di proprietà», C. LOTTIERI, Le ragioni del
diritto, op. cit., p. 31.
108
Leoni stesso aveva dato un contributo originale e innovativo a quel filone di studi,
che sarebbe poi stato grandemente arricchito dalla riflessione di James Buchanan e Gor-
don Tullock, cfr. B. LEONI, The Meaning of “Political” in Political Decisions, in «Political
Studies», n. 3, 1957, pp. 225-239 (trad. it. Natura e significato delle “decisioni politiche”,
in B. Leoni Scritti di scienza politica e teoria del diritto, a cura e con introduzione di M.
Stoppino, con una nuova prefazione di Giorgio Rebuffa, Facco-Rubbettino, Soveria Man-
nelli, 2009 [1980], pp. 97-121), e B. LEONI, Political Decisions and Majority Rule, in «Il
Politico», n. 4, 1960, pp. 724-733 (trad. it. ora in B. Leoni Scritti di scienza politica e teoria
del diritto, op. cit. pp. 123-137).
109
B. LEONI, Freedom and the Law, op. cit., (trad. it. cit. p. 23).
224 Crisi e rinascita del liberalismo classico
110
Ivi, (trad. it. cit. pp. 138-139). Sull’impossibilità per la democrazia rappresentativa
di far coesistere scelte collettive e libertà individuale si veda R. CUBEDDU, Friedrich A. von
Hayek and Bruno Leoni, in «Journal des Economistes et des Etudes Humaines», vol. IX,
n. 2\3, 1999, pp. 343-370, pp. 360-361.
111
Alla critica della rappresentanza, oltre che Freedom and the Law, è dedicato anche
B. LEONI, A “Neo-Jeffersonian” Theory of the Province of the Judiciary in a Democratic
Society, in «UCLA Law Review», n. 4, 1963, pp. 965-984 (trad. it. Una teoria “neo-jeffer-
soniana” della funzione del potere giudiziario in una società democratica, ora in B. Leoni
Le pretese e i poteri: le radici individuali del diritto e della politica, Introduzione di Ma-
rio Stoppino, Milano, Società Aperta 1997, pp. 73-96), un confronto con S. HOOK, The
Paradoxes of Freedom, University of California Press, Berkeley 1962, un saggio a difesa
della democrazia e del principio di maggioranza, e dunque della produzione del diritto
esclusivamente per via legislativa, nel quale si attacca anche il controllo di legittimità co-
stituzionale delle leggi, sulla base del principio della sovranità (illimitata) del parlamento.
112
B. LEONI, A “Neo-Jeffersonian” Theory… op. cit. (trad. it. cit. p. 79).
113
Ivi, (trad. it. cit. pp. 83-84).
114
Ivi, (trad. it. cit. p. 90).
Liberalismo e democrazia 225
115
B. LEONI, Freedom and the Law, op. cit., (trad. it. cit. p. 10).
116
Ivi, (trad. it. cit. p. 144).
226 Crisi e rinascita del liberalismo classico
della libertà individuale, e dall’altro alla perdita del senso del diritto e del-
la giustizia da parte dei cittadini, che si abituano a ritenere giusto solo ciò
che è frutto dell’operare dei parlamenti. Il compito del diritto dovreb-
be al contrario essere prevalentemente negativo, ossia avere l’obiettivo
non di realizzazione qualcosa che vuole la maggioranza, ma di tutelare
e proteggere la libertà dei singoli individui, identificando quella che è
la loro volontà comune, condivisa da tutti. Scoprire la volontà comune
è anzitutto scoprire che cosa la gente non vorrebbe che le venisse fat-
to, scoperta assai più semplice del determinare cosa la gente vorrebbe
fare. In ogni società infatti le convinzioni riguardo alle cose da non fare
sono molto più omogenee di quelle sulle cose da fare, e su tali questioni
si può dire che non esistano minoranze. Questo diritto, a giudizio di
Leoni, può essere identificato sulla base del principio di una semplice
“regola aurea”, contenuta nel pensiero di Confucio prima ancora che
nel Vangelo: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Un
principio prettamente negativo, e per questo adatto più di ogni altro a
connotare la libertà.
La riflessione di Leoni è dunque tutta volta ad individuare i limiti
della democrazia, o forse bisognerebbe dire della politica in generale,
la quale basandosi su decisioni prese da alcuni e valide per tutti con-
tiene in sé un ineliminabile elemento di coercizione. E a partire dalla
constatazione dei limiti della democrazia egli indica la strada per ri-
durre il più possibile la sfera delle decisioni collettive, per arrivare ad
un sistema che, guardando all’insegnamento del diritto romano e della
common law, sia veramente in grado di tutelare la libertà individuale.
Bisogna dunque, nell’economia, nel diritto e nella politica, ridurre “la
vasta area” delle decisioni collettive, per cercare di «stabilire uno stato
di cose simile a quello che prevale nell’ambito del linguaggio, della com-
mon law, del libero mercato, della moda, del costume, ecc., dove tutte
le scelte individuali si adattano reciprocamente e nessuna è mai messa
in minoranza». L’area in cui si ritengono necessarie le decisioni collet-
tive è dunque oggi colpevolmente sovrastimata, e per contro «l’area in
cui gli adattamenti individuali spontanei sono stati ritenuti necessari o
convenienti è stata circoscritta ben più severamente di quanto non sia
consigliabile se vogliamo conservare il significato tradizionale dei gran-
di ideali dell’Occidente»117.
Ogni volta che si sostituisce, senza una vera necessità, la regola di
117
Ivi, (trad. it. cit. p. 145).
Liberalismo e democrazia 227
121
Ivi, (trad. it. cit. p. 171).
Liberalismo e democrazia 229
122
Su questi temi un ottimo punto di riferimento è, nonostante gli anni, G. SARTORI,
The Theory of Democracy Revisited op. cit., II, in particolare il primo e secondo capitolo.
123
Alcune interessanti considerazioni sul rapporto tra democrazia e libertà si trovano
in A.O. HIRSCHMAN. The Rhetoric of Reaction. Perversity, Futility, Jeopardy, Harvard Uni-
versity Press, Cambridge (Mass) 1991 (trad. it. Retoriche dell’incertezza. Perversità, futilità,
messa a repentaglio, Il Mulino, Bologna 1991).
230 Crisi e rinascita del liberalismo classico
che si difende è che nessuno può interferire con la libertà degli altri di
perseguire i propri fini, purché questo lo si faccia senza nuocere alla li-
bertà altrui, e l’autorità si giustifica proprio per prevenire, e sanzionare,
il tentativo di alcuni di impedire ad altri di esercitare la propria libertà,
di interferire (coercitivamente) con essa, decidendo al loro posto cosa è
giusto e cosa deve essere realizzato.
Ora questa idea di libertà va incontro a non poche difficoltà, e la
discussione intorno ad esse rappresenta un passaggio assai interessante
della filosofia politica contemporanea, che non è qui possibile ripercor-
rere124. Quello che si vuole fare è invece analizzare meglio quali siano
gli elementi caratterizzanti di quell’idea di libertà “negativa”, per ve-
dere poi come essi forniscano i binari sui quali si instrada la rinascita
del liberalismo classico. Il primo punto da ricordare, che abbiamo visto
essere stato messo in luce da Mises, Hayek e Leoni, è che la libertà
riguarda sempre un rapporto tra persone. Questo importante aspetto
si comprende meglio guardando alla negazione della libertà, ossia alla
coercizione, la quale è sempre qualcosa che altri uomini esercitano su
di noi. Essa è allora strettamente connessa al concetto di potere, in-
teso come la capacità di indurre o costringere gli altri a fare cose che
non farebbero se non ci fosse il nostro intervento. In questo senso si è
liberi solo quando si è liberi dalla coercizione, dall’interferenza eser-
citata da altre persone, e non da altri ostacoli pure importanti ma non
riconducibili alla volontà umana. Un ostacolo “naturale”, non imposto
dalla volontà umana, può limitarci fortemente e renderci incapaci di
raggiungere i nostri obiettivi, anche più della coercizione esercitata da
altri uomini, ma non è la negazione della libertà. Se una condizione di
indigenza mi impedisce di abbandonare il luogo in cui mi trovo, o se
me lo impedisce un ostacolo fisico o una malattia, la conseguenza può
essere una limitazione della mia capacità di agire anche peggiore della
limitazione imposta dall’arbitrio di altri uomini, ma in quei casi non si
può dire che non sono libero di agire, infatti non ho la capacità, o la
possibilità, di raggiungere il mio obiettivo, ma continuo ad essere libe-
ro. Il fatto che nei casi limite riportati come esempio non cambi molto in
termini pratici per la realizzazione dei propri obiettivi, non può negare
l’importanza della distinzione tra la libertà e quella che potremmo forse
chiamare impossibilità fisica.
124
Sull’argomento si veda ad esempio la raccolta di saggi I. CARTER, M. RICCIARDI (a
cura di), L’idea di libertà, Feltrinelli, Milano 1996.
Liberalismo e democrazia 233
128
Qui egli sembra essere molto vicino a quella concezione di “regole prudenziali” di
Oakeshott, tuttavia non si può dimenticare che l’intento di Hayek era quello di indicare
dei limiti certi per garantire la libertà e che dunque egli si muoveva su un piano diverso
rispetto a quello più eminentemente filosofico e descrittivo nel quale si muoveva l’inglese.
Per un confronto tra Hayek e Oakeshott si veda S. COTELLESSA, Il ragionevole disaccordo.
236 Crisi e rinascita del liberalismo classico
Hayek, Oakeshott e le regole “immotivate” della società, Vita e Pensiero, Milano 1999,
mentre interessanti considerazioni su Oakeshott e la tradizione liberale si trovano nel se-
condo capitolo di G. GIORGINI, Liberalismi eretici, op. cit.
Liberalismo e democrazia 237
130
Su come la riflessione di Leoni abbia influenzato quella di Hayek si rimanda a J.
SHEARMUR, Hayek and After. Hayekian Liberalism as a Research Programme, Routledge,
London-New York 1996, in particolare pp. 88-91.
Capitolo Quinto
LIBERALISMO E MODELLI DI ORDINE
1
Inutile dire che questi due modelli non esauriscono di certo la casistica riguardo
alla ricerca del fondamento dell’ordine sociale, neanche per quanto riguarda la sola sfe-
ra del liberalismo classico. Basti pensare a tale proposito agli importanti tentativi di un
recupero dei temi aristotelici in funzione liberale di D. RASMUSSEN, D. DEN UYL, Liberty
and Nature: An Aristotelian Defense of Liberal Order, Open Court, Chicago, 1991, o al
recupero delle tematiche etiche e del diritto naturale proposto ad esempio in T.R. MA-
CHAN, Classical Individualism. The Supreme Importance of each Human Being, Routledge,
London-New York 1998.
242 Crisi e rinascita del liberalismo classico
umana, indica per la prima volta la possibilità della nascita “non in-
tenzionale” e spontanea delle istituzioni sociali. Verrà dunque indagato
il percorso della tradizione che parte da Mandeville, cercando di illu-
strare come le moderne teorie sull’ordine della Scuola austriaca rap-
presentino l’ideale sviluppo, non senza elementi di novità, del modello
dell’autore de The Fable of the Bees. Un modello che, se portato alle sue
estreme conseguenze teoriche, può anche condurre alle negazione della
necessità delle scelte collettive, e dunque della politica come tradizio-
nalmente intesa.
A partire dalla distinzione tra le due diverse anime del liberali-
smo, o meglio tra le due diverse “fondazioni” della teoria liberale, sarà
anche possibile tentare di capire da un lato quanto vi sia di nuovo nella
rinascita del liberalismo classico nel secondo dopoguerra, e dall’altro
quanto le critiche che su diversi piani abbiamo visto essere state mosse
a quella tradizione fossero davvero da attribuire ad essa. La spiegazione
dell’ordine inintenzionale è infatti assai diversa dalle altre soluzioni li-
berali, e il non aver sempre tenuto ben distinte queste diverse spiegazio-
ni, o forse il non aver capito tutte le implicazioni che si generano da esse,
potrebbe aver talvolta portato ad attribuire al liberalismo classico re-
sponsabilità non sue, magari muovendo critiche sulla base di categorie
che sono difficilmente comprensibili nell’ambito di quella tradizione.
2
Cfr. T. HOBBES Elements i, XIX, 5; De Cive ii, V, 5; Leviathan ii, XVII.
3
ARISTOTELE, Politica I, 2
4
Come noto una soluzione opposta, in senso libertario, del problema di Hobbes è
lo stato minimo di R. NOZICK, Anarchy, State and Utopia, Blackwell, Oxford 1970 (trad. it.
Anarchia, stato e utopia, introduzione di S. Maffettone, Le Monnier, Firenze 1981).
5
A. SMITH, The Theory of Moral Sentiments, 1759 (trad. it. Teoria dei sentimenti
morali, a cura di A. Zanini, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991, pp. 435-436).
244 Crisi e rinascita del liberalismo classico
6
De Cive, i, I, 6.
7
S. WOLIN, Politics and Vision… op. cit. (trad. it. cit. p. 369), il quale però non tratta
nella sua analisi dell’elemento religioso.
8
A questo proposito potrebbe essere assai interessante un’analisi delle considerazio-
ni svolte da Hobbes in Elementi i, XIII sugli usi del linguaggio.
9
Interessante è anche l’attualizzazione che del problema della cooperazione sociale
in Hobbes fa Rawls guardando ai problemi sollevati dalla teoria dei giochi, cfr. J.J. RAWLS
Lectures on the History of Political Philosophy, edited by Samuel Freeman, Harward Uni-
versity Press, Cambridge (Mass) 2007 (trad. it. Lezioni di storia della filosofia politica, nota
all’edizione italiana di S. Veca, Feltrinelli, Milano 2007, pp. 80 e ss.). mentre sull’impor-
tanza del problema della cooperazione sociale per la teoria liberale spunti interessanti si
trovano in G. CEVOLANI, R. FESTA, Giochi di altruismo. L’approccio evoluzionistico alla coo-
Liberalismo e modelli di ordine 245
Tutto questo induce Hobbes a trovare l’unica via d’uscita non nel-
la natura degli uomini, ma nell’artificio che essi, utilizzando una ragione
non più schiava delle passioni, possono creare. Poiché con i suoi presup-
posti antropologici Hobbes ha negato non solo ogni possibile inclina-
zione naturale alla società in termini di benevolenza verso il prossimo,
ma anche ogni possibile coincidenza tra bene privato e bene pubblico,
l’ordine può essere creato solo in termini interamente artificiali, ovvero-
sia politici. Quello che fa Hobbes è individuare una passione più forte
delle altre, la paura della morte violenta, rispetto alla quale tutti gli
uomini sono uguali (tutti possono essere uccisi e tutti possono uccide-
re), e legarla ad una razionalità differente dalla razionalità soggettiva,
ad una ragione oggettiva, che si manifesta nella capacità di individuare
i mezzi indispensabili al raggiungimento della pace10. Questa ragione
è in realtà il frutto delle leggi di natura11, che non sono, come nella
tradizione storica e cristiana, leggi di coscienza, ma regole di opportu-
nità, regole di esperienza per evitare la distruzione. A partire da qui si
realizza il patto sociale, che intercorre tra tutti gli individui (“di tutti
con tutti”) i quali rinunciano totalmente al loro diritto naturale su tutto
e istituiscono un sovrano a loro esterno. Il sovrano, non entrando nel
patto, rimane di fatto l’unico detentore dell’originario diritto su tutto,
diventando così unico interprete, tramite le leggi positive, del giusto e
dell’ingiusto e creando in tal modo quell’ordine, inteso come unità di
significati (e dunque possibilità di comunicazione), che risultava impos-
sibile concepire quando tutti mantenevano il loro diritto naturale di
giudicare il bene e il male.
Dato che gli uomini sono talmente diversi da non poter essere mai
d’accordo su cosa è bene e cosa è male, l’unica alternativa all’anarchia è
un potere assoluto e insindacabile, che metta fine alle dispute tra i sudditi.
La “condivisione dei significati” si ha solo quando c’è un potere che la
impone, che impone di parlare uno stesso linguaggio, che attribuisce alle
parole uno stesso significato. In questo senso il sovrano può essere visto
come “un grande definitore”12, e la ragione e il bene comune, più che
associarsi alla verità, si associano alla certezza. Il potere del sovrano deve
perazione umana, saggio introduttivo a M. Ridley, Le origini della virtù. Gli istinti umani e
l’evoluzione della cooperazione, IBL Libri, Torino 2012.
10
Si veda N. MATTEUCCI, Alla ricerca dell’ordine politico, Il Mulino, Bologna 1984, pp.
125 e ss.
11
De Cive, ii, II e III e Leviathan i, XIV e XV.
12
S. WOLIN, Politics and Vision… op. cit. (trad. it. cit. p. 373).
246 Crisi e rinascita del liberalismo classico
perciò essere assoluto, ma esso non produce mai una trasformazione qua-
litativa dell’uomo e non tenta mai di trasformare la società in organismo:
l’ordine politico rimane nella dimensione esteriore ed è sempre concepito
per servire un fine individuale dei sudditi13. Al sovrano è addirittura af-
fidata l’interpretazione delle scritture, ma, nonostante ciò, egli non entra
nella coscienza dei suoi sudditi, e anche l’interpretazione delle scritture è
da intendersi come una “necessità tecnica”. In tal modo Hobbes sembra
voler tentare di risolvere il suo primo problema: come salvare gli uomini
dall’anarchia senza ricadere in quell’organicismo che la “sua” modernità
e il suo “liberalismo” avevano ormai negato e superato.
Ma il sovrano assoluto trova al suo potere un limite assai inte-
ressante ai fini di questa ricerca, poiché apre le porte all’analisi di un
modello opposto a quello di Hobbes, inaugurato dalla riflessione di
Mandeville. Nel trattare i doveri dei sovrani14 Hobbes sembra anche vo-
ler mostrare come in realtà l’ordine sia una delle opzioni possibili e non
una necessità logica, poiché lo stato di natura, che nell’esperienza stori-
ca è la guerra civile, è sempre in agguato. Per questo motivo il sovrano,
che come tutti gli uomini persegue la sua utilità, ossia il mantenimento
del potere, sarà indotto a governare bene, ossia a seguire quella “legge
naturale” che gli impone un comportamento congruo alla possibilità di
auto-conservarsi come sovrano, e in tal senso il mantenimento dell’ordi-
ne sembra affidato proprio ad un perseguimento razionale del proprio
interesse da parte del sovrano.
La ricerca dell’utilità personale si presenta come il tratto caratte-
rizzante del pensiero di Mandeville, ma ha in questo autore una valenza
completamente diversa da quella che assume in Hobbes, anche perché
assume un significato politico in riferimento alle azioni di tutti gli in-
dividui e non solo a quelle del sovrano. L’utilità di Mandeville favori-
sce infatti una sorta di selezione naturale delle istituzioni, le quali non
sono deliberatamente create dagli uomini, non sono frutto di un patto
sociale. Questo, a giudizio di Hayek, ne fa l’iniziatore di una nuova tra-
dizione di pensiero del liberalismo, fondata su una nuova soluzione del
problema di come sia possibile l’ordine sociale15. In Hobbes, come si
13
Cfr De Cive, ii, XIII, 3 «lo Stato, infatti, non è stato istituito in vista di sé stesso, ma
in vista dei cittadini».
14
De Cive ii, XIII e Leviathan ii, XXX.
15
A Mandeville Hayek aveva dedicato pagine importanti già nel saggio Individualism:
true and false, ma torna organicamente sul tema in Dr Bernard Mandeville, del 1966, poi
inserito in F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. pp. 271-289). Un’ampia
Liberalismo e modelli di ordine 247
18
Cfr. T. MAGRI, Introduzione a B. Mandeville, La favola delle api, ovvero vizi privati,
pubblici benefici, a cura di T. Magri, Laterza, Roma-Bari 1987, “La società produce, at-
traverso l’adattamento dei bisogni e delle capacità degli individui ai suoi vincoli interni e
alle sue regolarità, le forme di comportamento individuale che la sostengono, ed elimina
(mediante sanzioni non soltanto politiche, ma anche e soprattutto sociali […]) i compor-
tamenti con essa incompatibili”, p. xxiii. Queste considerazioni sono sviluppate da Man-
deville soprattutto nella seconda parte di The Fable of the Bees, in particolare nei dialoghi
iii, e v.
19
In un certo senso le norme di Mandeville possono anche ricordare le “regole uni-
versali di condotta” che secondo Michael Oakeshott costituiscono il “bene comune” di
un sistema politico liberale, Cfr. M. OAKESHOTT, On Human Conduct, Clarendon Press,
Oxford 1975 (trad. it. La condotta umana, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 211-213).
Liberalismo e modelli di ordine 249
20
A sostenere che l’idea che i vizi privati possano produrre pubblici benefici non sia
poi “tanto scandalosa” è stato Dario Antiseri, che ricorda anche questa frase dalla Summa
Theologiae di San Tommaso d’Aquino «multae utilitates impedirentur si omnia peccata di-
stricte prohiberentur», D. ANTISERI Introduzione a F.A. VON Hayek, Individualismo: quello
vero e quello falso, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1997, pp. 5-34, p. 17.
250 Crisi e rinascita del liberalismo classico
inizio con Mandeville è che non ha più senso guardare alla politica
come elemento necessario per la nascita di un ordine sociale, e questo
nonostante essa mantenga un ruolo fondamentale per la conservazione
dell’ordine medesimo. Guardando a questo fondamentale problema si
chiarisce anche la diversità rispetto a tradizioni di pensiero cha fanno
parte della famiglia liberale, ma che non hanno nella teoria dell’ordine
spontaneo il loro elemento caratterizzante. Un contributo importante
alla comprensione di questo aspetto, che conferisce una forte alterità e
autonomia al liberalismo spontaneistico rispetto a tutte le altre spiega-
zioni del problema dell’ordine, è il noto libro di Albert O. Hirschman,
The Passions and the Interests. Political Arguments for Capitalism befo-
re its Triumph21, nel quale, in maniera talvolta semplicistica ma sicu-
ramente efficace, si illustra un percorso di storia delle idee riguardo
al “come si fece ricorso agli interessi per fronteggiare le passioni”. Il
punto di partenza di Hirschman è il Rinascimento, quando con Ma-
chiavelli emerge definitivamente che non basta più affidarsi alla morale
filosofica o ai precetti religiosi per porre un freno alle passioni umane,
potenzialmente distruttive, e si realizza definitivamente che è necessario
partire dalla natura dell’uomo per individuare una soluzione al pro-
blema dell’ordine. Bisogna insomma individuare delle alternative alla
semplice richiesta di obbedienza ai comandi di natura religiosa, i quali
da soli non sono più in grado di garantire l’ordine. Oltre alla soluzione
basata sulla repressione delle passioni, e dunque sulla coercizione di un
ordine che si legittima in quanto esiste (soluzione che ovviamente ha nel
patto hobbesiano la sua articolazione più avanzata), Hirschman espone
due altre soluzioni, basate sull’idea del controllo delle passioni tramite
altre passioni, due soluzioni che appaiono tra loro simili, ma che sono
in realtà ben diverse.
Una soluzione è quella che abbiamo appena illustrato, e che Hir-
schman definisce “frenante”, poiché consiste nell’“imbrigliare” le passio-
ni, anziché reprimerle. È l’idea di «trasformare in qualcosa di costrut-
tivo le passioni disgregatrici», e Hirschman individua in Pascal e Vico
dei precursori della “mano invisibile” di Smith, e in Mandeville il primo
pensatore che compiutamente ritiene possibile usare le passioni a profitto
del bene pubblico. L’altra soluzione si distingue dalla precedente perché
21
A.O. HIRSCHMAN, The Passions and the Interests. Political arguments for Capitalism
before its Triumph, University Press, Princeton, Princeton 1977 (trad. it. Le passioni e
gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Feltrinelli,
Milano 1979).
Liberalismo e modelli di ordine 251
vuole trovare una spiegazione razionale al freno delle passioni e far così
sparire quella che veniva vista come una sorta di “alchimia” ingenua che
caratterizzava il pensiero di Mandeville e di Smith. Emerge qui il concet-
to del divide et impera, ossia il principio che alcune passioni possano fun-
gere da contrappeso per le altre passioni, e che questo meccanismo possa
poi anche applicarsi al potere politico. Pioniere, forse inconsapevole, di
questa idea è Bacone, che anticipa le riflessioni di Spinoza e soprattut-
to di Hume22, ed è proprio quest’ultimo, che vede la ragione come com-
pletamente schiava delle passioni, a sostenere che solo con l’avidità, una
passione più potente delle altre, è possibile frenare le altre passioni23. Il
meccanismo, dopo essere stato applicato agli individui, viene riproposto
nella sfera statale, con il noto principio della separazione dei poteri, del
checks an balances, che trova la sua massima espressione nell’America del
Federalist24. E questa soluzione sembra poter coniugare il bilanciarsi delle
passioni con la dottrina del contratto sociale.
A giudizio di Hirschman la parte più importante di questa solu-
zione, la sua grande “rivoluzione”, riguarda il mutamento del concetto
di “interesse”, il quale dopo essere stato a lungo denigrato assunse infi-
ne una nuova e positiva connotazione, legata all’idea di cura degli affari
umani. L’interesse si colloca così come una terza categoria, a metà strada
tra ragione e passione, prendendo il meglio da entrambe, e diventando
«una base realistica per dare alla società un ordine vivibile»25. È grazie
ad esso che l’operare degli uomini diventa costante e dunque prevedibile,
come in passato lo era l’agire delle persone virtuose, risolvendo quello
che era il principale nodo problematico di Machiavelli come di Hobbes.
Con Hume si ha poi l’identificazione tra interesse e denaro, e l’identifi-
cazione della cupidigia come passione “universale”, a cui fare riferimento
per interpretare e prevedere i comportamenti umani. Ma il desiderio di
22
Come noto l’importanza di Hume per la tradizione liberale è stata enorme, e va ben
al di là degli aspetti messi in luce da Hirschman. In lingua italiana si vedano almeno L.
INFANTINO, Ignoranza e libertà, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999, pp. 107 e ss. e A. PA-
NEBIANCO, Il potere, lo stato, la libertà. La gracile costituzione della società libera, Il Mulino,
Bologna 2004, a cui si rimanda anche per le indicazioni bibliografiche.
23
Su questo si veda anche A. PANEBIANCO, L’autonomia e lo spirito. Azioni individuali,
istituzioni, imprese collettive, Il Mulino, Bologna 2009, che riprende e rende attuale il tema
del rapporto tra ragione e passione, dedicando grande attenzione a Hume.
24
Sulla rilevanza delle vicende, sia storiche sia di riflessione teorica, americane per la
tradizione liberale si veda L.M. BASSANI, Dalla rivoluzione alla Guerra civile. Federalismo e
stato moderno in America 1776-1865, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009.
25
A.O. HIRSCHMAN, The Passions and the Interests… op. cit. (trad. it. cit. pp. 41).
252 Crisi e rinascita del liberalismo classico
26
Ivi, (trad. it. cit. p. 54. Nella terza parte del suo volume Hirschman dedica attenzio-
ne all’idea, prevalentemente sviluppata da Ferguson e Tocqueville, per la quale l’aspira-
zione alla tranquillità e al privilegiare i propri interessi personali, favorita dal commercio e
dai progressi materiali, potrebbe favorire il deterioramento dello spirito civico (lasciando
lo spazio politico in mano a chi è interessato per indole ad acquisire il potere) e dunque
il dispotismo. Si tratta in un certo senso del ribaltamento della tesi di Montesquieu, per
il quale invece il progresso economico porta al progresso dell’arte politica. In un certo
senso è anche la dimostrazione che alcuni maestri del liberalismo avevano già affrontato
alcuni dei temi che nel primo capitolo abbiamo visto essere stati sviluppati dai critici del
liberalismo.
27
Cfr. A.O. HIRSCHMAN, The Passions and the Interests… op. cit. (trad. it. cit. pp. 75 e ss).
Liberalismo e modelli di ordine 253
29
Qui Hirschman richiama anche N. ROSENBERG, Mandeville and Laissez-faire, in
«Journal of the History of Ideas», vol. XXIV, n. 2, 1963, pp. 183-196.
30
Cfr. A.O. HIRSCHMAN, The Passions and the Interests… op. cit. (trad. it. cit. p. 83).
31
Alcune significative differenze tra i due tuttavia emergono dalla lettura di G. KENNEDY,
Adam Smith: A Moral Philosopher and His Political Economy, Palgrave, New York 2010.
32
È nota la fulminante conclusione de La favola delle api: «chi vuole tornare all’età
dell’oro, deve tenersi pronto per le ghiande come per l’onestà», B. DE MANDEVILLE, The
Fable of the Bees: or, Private Vices, public Benefits op. cit., (trad. it. cit. p. 21).
256 Crisi e rinascita del liberalismo classico
33
Sull’importanza dell’utilitarismo nella tradizione liberale, e sulla distinzione tra due
diversi tipi di utilitarismo, si veda N.P. BARRY, On Classical Liberalism, op. cit., capitolo 2.
34
L. VON MISES, Kritik des Interventionismus: Untersuchengen zur Wirtscaftspolitik
und Wirtschaftsideologie der Gegenwart, Gustav Fischer, Jena 1929 (trad. it. in I fallimenti
dello stato interventista, prefazione di L. Infantino, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997,
pp. 165 e ss.).
35
Cfr. Ivi, (trad. it. cit. 167 e ss., pagine in cui viene anche citato Menger).
36
A questo proposito si rimanda a quanto detto nella prima parte del terzo capitolo.
Liberalismo e modelli di ordine 257
37
C. MENGER, Untersuchungen... op. cit. (trad. it. cit. p. 188).
38
A giudizio di Hayek la “tesi centrale” di Mandeville è racchiusa in questa frase
della seconda parte di The Fable of the Bees: «spesso attribuiamo all’eccellenza del genio
umano, e alla profondità della sua penetrazione, ciò che in realtà è dovuto alla lunghezza
del tempo, e all’esperienza di molte generazioni», cfr. F.A. VON HAYEK, New Studies… op.
cit. (trad. it. cit. p. 281).
258 Crisi e rinascita del liberalismo classico
2. Ordine e conoscenza
Dopo i lavori “classici” ora trattati uno dei più importanti e ori-
ginali contributi alla teoria della nascita inintenzionale dell’ordine è
sicuramente proprio quello di Hayek40. La sua opera rappresenta pro-
39
F.A. VON HAYEK, Individualism: True and False, op. cit., (trad. it. cit. p. 43 nota 3), a
suo giudizio inoltre Menger «probabilmente è stato anche il primo a far notare il collega-
mento tra le teorie che concepiscono la società e le istituzioni come una creazione delibe-
rata [design theories] e il socialismo». Interessante è anche il recupero all’interno di questa
tradizione degli scolastici della Scuola di Salamanca, in particolare Luis de Molina e Juan
de Lugo, per limitarsi ai due soli nomi citati anche da Hayek. A tale proposito studi im-
portanti sono A.A. CHAFUEN, Christians for Freedom. Late-Scholastic Economics, Ignatius
Press, San Francisco 1986 (trad. it. Cristiani per la libertà. Radici cattoliche dell’economia
di mercato, Liberilibri, Macerata 1999) e J. HUERTA DE SOTO, La Escuela Austriaca: merca-
do y creatividad empresarial, Editorial Síntesis, Madrid 2001 (trad. it. La Scuola austriaca.
Mercato e creatività imprenditoriale, a cura di P. Zanotto, prefazione di R. Cubeddu, Rub-
bettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 64 e ss).
40
Sull’argomento si vedano, tra gli altri, J. GRAY, Hayek on Liberty, op. cit., in parti-
colare pp. 34 e ss. e N. MATTEUCCI, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Il Mulino,
Bologna 1992, in particolare pp. 187 e ss.
Liberalismo e modelli di ordine 259
41
Cfr. A. QUINTON (ed.), Political Philosophy, Oxford University Press, Oxford 1967, p. 2.
260 Crisi e rinascita del liberalismo classico
diede ad Hayek la forza di superare una grave crisi personale e dare una
veste definitiva ad alcuni dei suoi studi più importanti, consentendogli
di concludere, alla soglia degli ottant’anni, la trilogia Law, Legislation
and Liberty, il cui ultimo libro, nonostante la maggior parte dell’opera
fosse «in forma quasi definitiva sin dalla fine del 1969» 42, venne dato
alle stampe nel 1979. Tale opera rappresenta il principale contributo di
Hayek alla filosofia politica, e contiene la sua spiegazione di come sia
possibile che all’interno di una società si formi un ordine complesso e
di cosa possa essere fatto per mantenerlo e migliorarlo.
La riflessione di Hayek su questo tema si sviluppa con notevole co-
erenza a partire sin dai primi scritti degli anni Trenta, e si delinea come
un percorso in cui delle intuizione avute nel campo dell’economia e del-
la psicologia vengono estese al campo della politica e del diritto. Non si
tratta naturalmente di una riduzione di questi due elementi all’economia
e alla psicologia, né tanto meno di una “soluzione del problema politico
con mezzi economici”, per riprendere la definizione di Strauss. Ciò che
invece elabora Hayek è la spiegazione di come sia possibile passare da
conoscenze disperse e soggettive a un sistema che coordina tali cono-
scenze e le convoglia in direzione di un ordine oggettivo e complesso. La
sua è dunque innanzitutto una riflessione teorica, che si basa su assunti
gnoseologici e che gli permette di individuare un meccanismo che, an-
che se viene scoperto in economia, consente di comprendere come in tut-
ti i fenomeni sociali sia possibile sfruttare al meglio conoscenze limitate
e fallibili e passare dalla soggettività all’oggettività43.
Il saggio centrale, che segna l’inizio della riflessione hayekiana sul
problema della conoscenza e dell’ordine è Economics and Knowledge44,
del 1937, a cui seguiranno alcuni anni più tardi The Use of Knowled-
ge in Society e The Meaning of Competition45. Hayek stesso definisce
Economics and Knowledge «il contributo più originale che io abbia
42
F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 367).
43
L’importanza degli scritti economici di Hayek è analizzata in F. DONZELLI, Introdu-
zione, in F.A von Hayek, Conoscenza, mercato, pianificazione, Il Mulino, Bologna 1988, che
mette bene in luce come le opere successive si pongano in stretta continuità con essi.
44
F.A. VON HAYEK, Economics and Knowledge, in «Economica», February 1937, pp.
43-68 (trad. it. Economia e Conoscenza in F.A. von Hayek Conoscenza, mercato, pianificazio-
ne, cit. pp. 227-252). Sull’importanza di questo saggio nella “trasformazione” del percorso
scientifico di Hayek si veda B. CALDWELL, Hayek’s Challenge, op. cit., pp. 205 e ss.
45
Si tratta di due saggi poi confluiti in F.A. VON HAYEK, Individualism and Economic Or-
der, University of Chicago Press, Chicago 1948 (trad. it. parziale in F.A. von Hayek Conoscenza,
mercato, pianificazione, cit.).
Liberalismo e modelli di ordine 261
46
F.A. VON HAYEK, Hayek on Hayek… op. cit. (trad. it. cit. pp. 114-115).
47
F.A. VON HAYEK (ed.), Collectivist Economic Planning: Critical Studies on the Pos-
sibilities of Socialism, Routledge, London 1935 (trad. it. parziale Pianificazione economica
collettivistica, Einaudi, Torino, 1946).
48
F.A. VON HAYEK, The use of Knowledge in society in «American Economic Review»,
XXXV, n. 41 September 1945, pp. 520-530 (trad. it. L’uso della conoscenza nella società,
in F.A. von Hayek Conoscenza, mercato, pianificazione, a cura e con introduzione di F.
Donzelli, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 277-292, pp. 277-278).
262 Crisi e rinascita del liberalismo classico
49
Ivi, (trad. it. cit. p. 280).
50
Di grande importanza è anche la critica di Hayek alla teoria dell’equilibrio econo-
mico generale, si veda ancora F. DONZELLI, Introduzione, op. cit., pp. 16 e ss.
51
Scrive Hayek: il «problema della divisione della conoscenza […] è totalmente ana-
logo, o almeno di pari importanza a quello della divisione del lavoro. A differenza però
di quest’ultimo, che ha sempre rappresentato uno dei principali argomenti d’indagine fin
dall’inizio della nostra scienza, quello della divisione della conoscenza è stato totalmente
trascurato; nonostante ciò, mi sembra che esso costituisca il problema veramente centrale
dell’economia quale scienza sociale», F.A. VON HAYEK, Economics and Knowledge, op. cit.
(trad. it. cit. p. 246).
52
La relazione tra teoria economica e filosofia politica nel pensiero di Hayek è ana-
lizzata in R. CUBEDDU, Friedrich A. von Hayek, Borla, Roma 1995, pp. 66 e ss. e in A.O.
EBENSTEIN, Hayek’s Journey. The Mind of Friedrich Hayek, Palgrave Macmillan, London-
New York 2003, pp. 89 e ss.
Liberalismo e modelli di ordine 263
53
F.A. VON HAYEK, Economics and Knowledge, op. cit. (trad. it. cit. p. 250).
54
F.A. VON HAYEK (ed.), Collectivist Economic Planning… op. cit., (trad. it. cit. p. 284).
55
Ivi, (trad. it. cit. pp. 286-287).
264 Crisi e rinascita del liberalismo classico
lismo e lo stato di diritto, idee che per alcuni aspetti erano alla base di
The Constitution of Liberty, non si sono dimostrati una difesa sicura per
la libertà e l’ordine politico liberale74. Ciò che ora guida le riflessioni
di Hayek è la consapevolezza che la produzione del diritto da parte di
assemblee legislative è in realtà difficilmente compatibile con il man-
tenimento di un ordine politico liberale. L’equiparare, pur tentando di
mantenere distinte nella pratica le due cose, la legittimità di norme ge-
nerali e astratte con provvedimenti governativi e amministrativi (che
hanno naturalmente obiettivi completamente diversi, ma sono prodotti
in ultima analisi dagli stessi organi e hanno una medesima legittimazio-
ne, ossia la volontà popolare) porta ad una perdita di consapevolezza
della fondamentale distinzione tra le due, e al trionfo di una mentalità,
tra i cittadini come tra gli intellettuali e i politici, inconciliabile con il
mantenimento del tipo di ordine politico che egli aveva in mente75. È
dunque dal senso di insoddisfazione per i rimedi pensati e proposti con
The Constitution of Liberty che egli viene spinto a redigere questa nuova
opera, basata sull’idea che le “credenze dominanti nel nostro tempo”
sono incompatibili con gli ideali di libertà, e le ragioni sono «soprattut-
to queste: la perdita della fede in una giustizia indipendente dagli inte-
ressi personali; un conseguente uso della legislazione per autorizzare la
coercizione, non solo per prevenire azioni ingiuste, ma per raggiungere
particolari risultati a favore di specifici gruppi o persone; e la fusione
nelle medesime assemblee legislative dei compiti di proclamare le regole
di giusta condotta e di dirigere l’attività del governo»76.
Il presupposto gnoseologico di Law, Legislation and Liberty è lo
74
E questa consapevolezza lo induce a scrivere, in una amara considerazione collo-
cata nella presentazione dell’opera: «nella forma in cui la conosciamo, tale divisione tra
il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo, non ha raggiunto gli scopi per cui era stata
progettata. […] Il primo tentativo di assicurare la libertà individuale per mezzo di forme
costituzionali è evidentemente fallito», F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op.
cit. (trad. it. cit. p. 5).
75
«A dispetto del crollo dei regimi totalitari nel mondo occidentale, le loro idee di
base hanno continuato a guadagnare terreno nella sfera teorica, così che tutto ciò che oggi
è necessario per trasformare totalmente il sistema giuridico in un sistema totalitario è solo
di lasciare che siano tradotte in pratica le idee che già dominano nella sfera del pensiero
astratto», Ivi, (trad. it. cit. p. 91). Va comunque ricordato che anche in quest’opera Hayek
non perde la speranza di arrivare ad un “compromesso” tra il liberalismo e la teoria de-
mocratica, e questo sembra un altro importante elemento di continuità con l’opera prece-
dente, anche se ora gli sviluppi di quella teoria vengono guardati con una preoccupazione
maggiore.
76
Ivi, (trad. it. cit. p. 6).
Liberalismo e modelli di ordine 271
stesso di The Constitution of Liberty: «la civiltà si fonda sul fatto per
cui noi tutti traiamo vantaggi da una conoscenza che in realtà non
possediamo»77, e che nessuno può possedere nella sua interezza. Nel
ripercorrere la distinzione tra coloro che hanno ritenuto che l’ordine si
potesse formare tramite un progetto umano e coloro che invece lo riten-
gono il risultato inintenzionale dell’azione umana, Hayek questa volta
riconduce la distinzione già al pensiero greco, cosa che gli fa modificare
la terminologia nella trattazione dell’intero problema. Guardando alla
distinzione greca tra physis (per natura), nomos (per convenzione) e the-
sis (per decisione deliberata), giunge a definire il nomos la “legge della
libertà”, costituito da regole di condotta, e la thesis “il sistema giuridico
creato dalla legislazione”, costituito da regole di organizzazione. A que-
sti due tipi di leggi corrispondono due differenti tipi di ordine78, che
i greci potevano indicare con due termini diversi: cosmos era l’ordine
formatosi spontaneamente, taxis era l’ordine costruito dall’uomo.
I due tipi di ordine sono molto diversi, e solo relativamente conci-
liabili. «L’ordine spontaneo sorge dal fatto che ciascun elemento tende a
equilibrare tutti i vari fattori che operano nella sua sfera, e che tutti gli
elementi aggiustano le proprie azioni gli uni rispetto agli altri; è un equili-
brio che andrebbe distrutto se alcune di quelle azioni fossero determinate
da un altro ente sulla base di una diversa conoscenza ed al servizio di fini
diversi»79. Ordine spontaneo e organizzazione possono dunque coesistere
solo entro certi limiti, poiché si basano su due diversi princìpi ordinatori
che possono facilmente entrare in conflitto. Il principio di organizzazione
(che si incarna nell’operare del governo) coesiste con l’ordine spontaneo,
ma ne deve essere comunque subordinato, infatti esso assolve delle fun-
zioni fondamentali, ma è una parte di un ordine più generale. È una di-
stinzione, questa hayekiana, che riprende quella classica della tradizione
liberale tra stato e società, dove il primo è solo uno degli elementi, se pure
uno tra i più importanti, che costituiscono la seconda.
Il nomos, su cui si forma l’ordine spontaneo denominato cosmos, è
77
Ivi, (trad. it. cit. p. 23).
78
Qui Hayek definisce l’ordine in questo modo: «uno stato di cose in cui una mol-
teplicità di elementi di vario genere sono in relazione tale, gli uni rispetto agli altri, che
si può imparare, dalla conoscenza di qualche partizione spaziale o temporale dell’intero
insieme, a formarsi aspettative corrette sulle altre parti di quell’insieme, o, almeno, aspet-
tative che hanno una buona possibilità di dimostrarsi corrette», Ivi, (trad. it. cit. p. 49).
79
Ivi, (trad. it. cit. pp. 66-67). Sul rapporto e la possibile coesistenza tra ordine sponta-
neo e ordine organizzato si veda A. ZANFARINO, Il pensiero politico contemporaneo, Morano,
Napoli 1994, pp. 578 e ss. e B. CALDWELL, Hayek’s Challenge, op. cit. p. 313, 353 e ss.
272 Crisi e rinascita del liberalismo classico
anche le parti che ad esso ricorrono, non ha bisogno «di sapere qual-
cosa sulla natura dell’ordine complessivo, o di conoscere un qualche
“interesse della società” da servire», ma deve solo sorvegliare sul buon
funzionamento delle leggi medesime.
Gli sforzi del giudice fanno pertanto parte di quel processo di adatta-
mento della società alle circostanze esterne mediante cui si sviluppa l’ordine
spontaneo. Egli aiuta tale processo di selezione approvando quelle regole che,
come quelle che hanno funzionato bene in passato, rendono l’incontro delle
diverse aspettative più verosimile che non il loro conflitto. Egli diviene così uno
strumento di quell’ordine. Persino quando, nell’adempimento di questa funzio-
ne, crea nuove regole, non diviene il creatore di un nuovo ordine, ma la sua ope-
ra resta al servizio del mantenimento dell’ordine già esistente e funzionante84.
84
Ivi, (trad. it. cit. p. 149).
85
Ivi, (trad. it. cit. p. 153).
86
Ivi, (trad. it. cit. p. 95). Nonostante non venga citato qui Hayek sembra davvero
riprendere, anche nella terminologia, l’analisi di Leoni.
87
«L’intero movimento a sostegno della codificazione è stato sostenuto dalla credenza
che essa aumentasse la predicibilità delle decisioni giurisprudenziali. […] Sebbene l’attività
legislativa possa senz’altro aumentare la certezza del diritto su certi punti particolari, sono ora
persuaso che tale vantaggio sia più che compensato dal fatto negativo di richiedere che solo ciò
che viene formulato in atti legislativi debba avere forza di legge. A me sembra che le decisioni
giurisprudenziali possano di fatto essere maggiormente predicibili quando il giudice è pure
vincolato dalle concezioni diffuse intorno a ciò che è giusto, anche quando esse non siano
suffragate dalla lettera della legge, piuttosto che non quando egli deve limitarsi a derivare le
274 Crisi e rinascita del liberalismo classico
proprie visioni solamente da quelle, tra tutte le credenze accettate, che hanno trovato espressio-
ne nella legge scritta», Ivi, (trad. it. cit. p. 146). Anche in questo caso sembra di leggere Leoni.
88
Ivi, (trad. it. cit. pp. 62-63).
89
J.M. BUCHANAN The Limits of Liberty. Between Anarchy and Leviathan, Chicago
1975 (trad. it. I limiti della libertà, Rusconi, Milano 1998, p. 92 e ss) e Freedom in Constitu-
tional Contract, College Station, London 1977 (trad. it. Libertà nel contratto costituzionale,
Il Saggiatore, Milano 1990, p. 34 e ss.) Queste e altre critiche si trovano esposte in A.M.
PETRONI, S. MONTI BRAGADIN, Introduzione a F.A. von Hayek, Legge, Legislazione e libertà,
Il Saggiatore, Milano 1994.
Liberalismo e modelli di ordine 275
95
La critica è qui naturalmente rivolta all’utilitarismo, e in particolare a Bentham.
96
F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 187).
97
Ivi, (trad. it. cit. p. 306). Va però ricordato che Hayek non considerava questa sua
analisi incompatibile con l’opera di John Rawls, poiché riteneva che egli usasse l’espres-
sione “giustizia sociale” come un parametro per valutare gli effetti delle istituzioni sociali.
Infatti egli scrive: «Prima di abbandonare questo argomento voglio sottolineare ancora
una volta come il riconoscimento che in combinazioni quali giustizia “sociale”, “econo-
mica”, “distributiva” o “retributiva”, il termine “giustizia” è del tutto privo di significato,
non deve indurre a fare di ogni erba un fascio. La giustizia amministrata dai tribunali è
estremamente importante non soltanto come base delle norme giuridiche di mera condot-
ta. Esiste indubbiamente un autentico problema di giustizia in rapporto alla formazione
deliberata delle istituzioni politiche, problema a cui il Professor Rawls ha recentemente
dedicato un importante libro. Il fatto che mi dispiace, e che ritengo sviante, è sempli-
cemente che egli usa a tal proposito l’espressione “giustizia sociale”. Ma non ho alcuna
divergenza di fondo con un autore che prima di trattare quel problema riconosce che il
compito di scegliere specifici sistemi o distribuzioni giuste di beni desiderati deve essere
“abbandonato perché ritenuto sbagliato di principio e in ogni caso non passibile di una
risposta definitiva. I princìpi di giustizia definiscono piuttosto i vincoli che le istituzioni e
le loro attività devono soddisfare se le persone che ne fanno parte non devono avere a la-
mentarsi. Se questi vincoli sono soddisfatti, la distribuzione che ne risulta, qualunque essa
sia, può essere accettata come giusta (o almeno non ingiusta)”» [J. RAWLS, Constitutional
Liberty and the Concept of Justice, in C.J. Friedrich and J.W. Chapman (eds.), Nomos, VI:
Justice, Yearbook of the American Society for Political and Legal Philosophy, Atherton
Press, New York 1963, p. 102]. Poi in nota aggiunge: «non credo che il libro più letto
del professor Rawls, A Theory of Justice, [A Theory of Justice, Harward University Press,
Cambridge (Mass.) 1971; edizione rivisitata, A Theory of Justice, Harward University
Press, Cambridge (Mass.) 1999 (trad. it. Una teoria della giustizia, revisione, cura e nuova
introduzione di S. Maffettone, Feltrinelli, Milano 2008)] contenga un’affermazione altret-
tanto chiara di questo che è il punto principale. Ciò potrebbe spiegare perché quest’opera
sembri spesso essere interpretata - a torto, io credo - come un supporto alle richieste so-
cialiste» F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 306 e nota).
278 Crisi e rinascita del liberalismo classico
della giustizia sociale, che però alla fine «verrà riconosciuta essere un
fuoco fatuo che ha portato gli uomini ad abbandonare molti dei valo-
ri che in passato hanno promosso lo sviluppo della civiltà»98. Un’idea,
quella della giustizia sociale come un “fuoco fatuo”, che non si è dimo-
strata molto fortunata, dato che oggi essa è considerata da molti come
l’argomento principe della filosofia politica99.
Ad una tale critica della giustizia sociale corrisponde però, come
si è visto, la convinzione che lo stato debba assumere tutta una serie di
compiti “positivi” per migliorare la vita dei cittadini, compiti che non
si limitano solo alla produzione di beni pubblici, ma anche a garantire
un reddito minimo (finanziato con la tassazione e quindi “fornito fuori
dal mercato”) a tutti coloro che per qualsiasi motivo non sono in grado
di procurarsi nel mercato un reddito adeguato100. Hayek è per questi
aspetti decisamente lontano dalle posizioni dei Libertarians, egli è un li-
berale classico che rivendica per lo stato alcuni fondamentali compiti. Il
problema che però egli non sa risolvere è l’indicare come, una volta che
i compiti dello stato non sono più solo garantire l’ordine e la sicurezza,
sia possibile trovare dei criteri certi con cui individuare questi compiti,
almeno nel momento in cui non si ha più fiducia nei meccanismi demo-
cratici per la loro individuazione.
Una attenta ricostruzione e valutazione dell’intera opera di Rawls (anche delle parti che
Hayek non ha potuto conoscere) è S. MAFFETTONE, Rawls. An Introduction, Polity Press,
Cambridge 2010.
98
F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 268).
99
Si veda ad esempio W. KYMLYCKA, Contemporary Political Philosophy. An Introduc-
tion, Oxford University Press, Oxford 1990 (trad. it. Introduzione alla filosofia politica con-
temporanea, Feltrinelli, Milano 1996). In una prospettiva simile si muove anche S. VECA,
La filosofia politica, Laterza, Bari 1998, con il suo peraltro pregevole tentativo di rileggere
molti dei problemi della filosofia politica alla luce delle categorie rawlsiane.
100
Cfr. F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. pp. 292-293,
ma anche 428 e ss.) in cui il reddito minimo viene definito come “un compito necessario
della Grande società in cui l’individuo non può più rivalersi sui membri del piccolo grup-
po specifico in cui era nato” (p. 249).
Liberalismo e modelli di ordine 279
3. L’individualismo radicale
101
Il riferimento è a B. LEONI, Lezioni di filosofia del diritto: vol. I, Il pensiero antico,
Pavia, Viscontea 1949 (litografia), il cui contenuto era certamente conosciuto da Hayek (in-
fatti egli ne parla nella commemorazione a Pavia per l’amico scomparso, cfr. Bruno Leoni
the Scholar, in Scaramozzino, P. (a cura di) Omaggio a Bruno Leoni, Quaderni della Rivista
«Il Politico», n. 7, Giuffrè, Milano, pp. 23-32; ora in The Fortunes of Liberalism.. op. cit. pp.
253-58). Tuttavia in Law, Legislation and Liberty egli non fa riferimento alcuno a quegli scrit-
ti di Leoni, che pure lo dovevano aver influenzato. Sull’argomento rimando a A. MASALA,
Bruno Leoni filosofo della politica, «Il Politico», LXVI, n. 2, 2001, pp. 271- 307.
280 Crisi e rinascita del liberalismo classico
102
Infatti, secondo Leoni se consideriamo le decisioni politiche come «decisioni di
gruppo raggiunte in base a qualche procedimento coercitivo» dobbiamo ammettere che,
salvo i casi di unanimità, la coercizione «sembra essere l’unico sistema logico per ottenere
delle decisioni di gruppo», B. LEONI, The Meaning of “Political” in Political Decisions, op.
cit., (trad. it. cit. p. 118).
Liberalismo e modelli di ordine 281
esso: non è possibile concepire un obbligo se non esiste prima una pretesa, così come nei
fenomeni economici non può esservi offerta senza che prima vi sia la domanda.
107
B. LEONI, The Law as Claim of the Individual, in «Archiv für Rechts - und Sozialphi-
losophie», 1964, pp. 45-58 (trad. it. ora in B. Leoni, Il diritto come pretesa, op. cit. p. 123).
108
Leoni completa così il suo paragone: « la norma giuridica corrisponde al prezzo di
mercato. Il prezzo di mercato esprime la condizione alla quale la stragrande maggioranza
dell’offerta (che è anch’essa una domanda) si incontra con la domanda. Nello stesso modo
la norma giuridica esprime la condizione alla quale le pretese si incontrano nella stragrande
maggioranza dei casi e con la maggiore probabilità […]. E solo quando una pretesa ha una
grandissima probabilità di essere avanzata e di essere soddisfatta essa diventa una pretesa
giuridica e si traduce in un incontro tra pretese, che può essere formulato in una norma
giuridica; analogamente, solo quando il prezzo richiesto ha una fortissima probabilità di
essere domandato e di essere accettato si traduce in un vero e proprio prezzo di mercato»,
B. LEONI, Appunti dal corso di Lezioni di “filosofia del diritto”, a cura di S. Lenghi 1966 (ci-
clostilate); ora in B. LEONI, Il diritto come pretesa, a cura di A. Masala, introduzione di M.
Barberis e postfazione di Alberto Febrajo, Liberilibri, Macerata 2004, pp. 246. L’idea che
esista un “mercato del diritto”, nel quale le regole corrispondono a quelli che nel mercato
dei beni sono i prezzi, è ripresa da Leoni anche in una lettera ad Hayek, datata 7 aprile 1962
e ora pubblicata in A. MASALA, Il liberalismo di Bruno Leoni, op. cit., pp. 241-242.
109
Ivi, p. 206.
284 Crisi e rinascita del liberalismo classico
110
Ivi, pp. 219.
Liberalismo e modelli di ordine 285
111
A tale influenza è anche dedicato gran parte di C. LOTTIERI, Le ragioni del diritto,
op. cit., che alla luce delle categorie misesiane e del confronto con la filosofia di Rothbard
analizza e attualizza le tesi di Leoni.
112
«La giuridicità delle pretese può essere accertata, verificata, solo come fatto storico,
e in base a una constatazione storica; non con metodi logici o scientifici», B. LEONI, Ap-
punti dal corso di Lezioni di “filosofia del diritto”, op. cit., pp. 212.
286 Crisi e rinascita del liberalismo classico
riguardo alla teoria di mercato113. Per Leoni dunque, come in parte anche
per Hayek, l’ordine dipende da una scelta, da una selezione che si incarna
nella tradizione, esso non può essere il risultato di capacità intellettuali
ma è frutto di una tradizione morale, e la ragione non può fare meglio
della tradizione. Tuttavia, proprio in questo suo richiamo così forte alla
tradizione e nella sua totale sfiducia nella legislazione, ossia in ciò che per
Hayek era, almeno in parte, la capacità umana di correggere e migliorare
il processo di evoluzione spontanea, si può individuare un “conservatori-
smo profondo e filosoficamente fondato”114 che non si ritrova nella stessa
misura negli altri esponenti della Scuola austriaca.
Vi è poi un altro importante aspetto che segna la distanza tra Ha-
yek e Mises da una parte e Leoni dall’altra, ossia il fatto che quest’ultimo
sembra focalizzare più intensamente il rapporto tra stato e coercizione.
Per i liberali classici come Mises e Hayek infatti lo stato è un appa-
rato necessario e indispensabile di coercizione, che serve a correggere
l’imperfezione umana115. Considerando un tale apparato necessario essi
risolvono almeno in parte, e sia pure in maniera residuale, il proble-
ma dell’ordine sociale (o quantomeno il problema del mantenimento
dell’ordine) facendo ricorso al potere politico e alla coercizione. La loro
è la soluzione classica del liberalismo: si eliminano il potere e la coer-
cizione dalla società per collocarli nello stato, il quale viene ridotto al
minimo poiché il suo unico scopo è preservare il funzionamento del
mercato e le libere interazioni tra gli individui. Sotto questo aspetto né
Hayek né Mises, per loro stessa ammissione, sono degli anarchici, poi-
ché non ripudiano la coercizione come tecnica sociale, non avversano lo
stato ma anzi gli attribuiscono un ruolo centrale nel creare e mantenere
l’ordine sociale. Per questa via, come si è visto in precedenza, essi trova-
no un incontro con la teoria democratica, poiché senza il consenso della
maggioranza non vi può essere garanzia per la libertà.
Una tale visione dello stato e della politica in un primo momento
è anche propria di Leoni: lo stato è caratterizzato dai rapporti di potere,
113
Infatti, lo stesso Hayek ha dichiarato che Economics and Knowledge, «era un tenta-
tivo di convincere Mises stesso che egli sbagliava quando asseriva che la teoria di mercato
era un a priori; solo la logica delle azioni individuali era un a priori, ma nel momento
stesso in cui si passava da questo all’interazione di molte persone si entrava in un campo
empirico», F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. p. 104). Leoni ha
una posizione speculare a quella di Hayek, ma essa riguarda il campo del diritto.
114
L’espressione si trova, rivolta appunto a Leoni, in J.M. BUCHANAN, Freedom in
Constitutional Contract, op. cit. (trad. it. cit. p. 50).
115
Cfr. L. VON MISES, Omnipotent Government… op. cit. (trad. it. cit. pp. 68 e ss.).
Liberalismo e modelli di ordine 287
Pur nella diversità dei suoi autori una parte importante del libera-
lismo classico116 del Novecento, che va prevalentemente sotto il nome di
Scuola austriaca, ha riproposto e ripensato l’idea che l’ordine sociale non
sia (né sia opportuno tentare di farlo diventare) il prodotto dell’artificio
umano, ma sia invece il risultato delle azioni degli uomini che non sono
116
Interessanti ricostruzioni delle vicende del liberalismo classico del Novecento, in-
teso però più come ideologia (e dunque con particolari riferimenti ai suoi “addentellati”
politici) che non come teoria politica, sono: N.P. BARRY, The New Right, Croom Helm,
London 1987, J.L. KELLEY, Bringing the Market back in. The Political Revitalization of
Market Liberalism, New York University Press, New York 1997 e R.S. TURNER, Neo-Libe-
ral Ideology. History, Concepts and Policies, Edinburgh University Press, Edinburgh 2008.
Per una prospettiva storica del ruolo della Scuola austriaca si rimanda a R. RAICO, Classical
Liberalism and Austrian School, Ludwig von Mises Institute, Auburn (AL) 2012.
288 Crisi e rinascita del liberalismo classico
118
Cfr. C. MENGER, Untersuchungen... op. cit. (trad. it. cit. p. 266).
119
«L’accettazione da parte di Hayek dell’origine deliberata di certe norme fondamen-
tali di condotta implica tuttavia l’intervento di una razionalità deliberata nel campo delle
regole del gioco, considerate non più come semplice retaggio della tradizione, come con-
densazione di consuetudini, come oggettivazione di esperienze del passato, ma come un
sistema suscettibile di essere intenzionalmente corretto quando ciò si riveli utile e ragio-
nevole. È questo un punto della sua dottrina che smentisce l’idea di un ordine spontaneo
come valore universale» A. ZANFARINO, Il pensiero politico contemporaneo op. cit., p. 578.
292 Crisi e rinascita del liberalismo classico
rispettare una regola sociale molto diffusa, sia essa coercitiva o meno,
è una scelta che può avere un costo elevatissimo in termini di emargi-
nazione dalla società, ma è pur sempre una scelta che un individuo può
compiere se è disposto a sopportarne i costi. Nel caso invece di regole
fissate dallo stato il loro mancato rispetto non dà luogo ad una qualche
forma di emarginazione sociale, ma ad una sanzione che viene attua-
ta coercitivamente e che può condurre alla privazione della proprietà
come a quella della libertà fisica dell’individuo. Fatto che ripropone
l’antica questione di quale sia il diritto dello stato, o se si preferisce del-
la maggioranza, di imporre e far rispettare coercitivamente regole che
vadano al di là della semplice tutela della libertà individuale.
Ma al di là di quale fosse la soluzione più spendibile politicamente,
o quella filosoficamente più coerente, rimane il fatto che con la rinascita
del liberalismo spontaneistico si torna a discutere su cosa sia veramente
il liberalismo come tradizione di pensiero, al di là delle contingenze
storiche e della necessità di trovare un compromesso con altre tradizioni
di pensiero, e torna anche, magari indirettamente, un confronto con i
temi classici della filosofia politica. In ognuno di questi autori si trova
infatti un tentativo di risposta alla domanda su cosa sia un modello di
ordine liberale e su cosa lo si debba fondare. Si trova cioè un tentativo
di risposta a quelle domande classiche con le quali a molti sembrava
che la filosofia politica del dopoguerra non si volesse più confrontare.
Alla luce delle considerazioni svolte dovrebbe ormai essere chiaro come
quella del liberalismo classico “spontaneistico” possa essere considerata
una teoria politica compiuta, un modello di ordine che trova il suo fon-
damento nella libertà individuale, e dunque in quella che, parafrasando
Hayek, potremmo chiamare la “trinità inseparabile” dei diritti indivi-
duali vita, libertà e proprietà120 , i quali preesistono all’associazione poli-
tica e ne sono anzi a fondamento. Questi diritti individuali non hanno
niente a che fare con il diritto naturale dei classici (e neanche con quello
a cui guardavano i critici del liberalismo analizzati nel primo capitolo),
ma a partire da essi, e guardando ai processi sociali spontanei, si arriva
a dare una risposta alla domanda su quale possa essere considerato il
miglior ordine politico.
Rimane ora da chiarire meglio perché questa risposta non sia re-
lativistica e perché, guardando alla common law e alla rule of law, essa
120
Cfr. F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 136), il
quale però parla di legge, libertà e proprietà.
294 Crisi e rinascita del liberalismo classico
sia anzi compatibile per alcuni aspetti con alcuni degli obiettivi che si
proponevano i sostenitori del diritto naturale.
Come si è avuto modo di vedere, tra gli anni della Seconda guerra
mondiale e gli anni Sessanta molti e importanti filosofi politici riteneva-
no che la loro disciplina versasse in condizioni di profonda decadenza,
e fosse anche in un certo senso corresponsabile della crisi che aveva
travolto il mondo occidentale. A loro giudizio una delle principali ra-
gioni di quella crisi era l’aver tentato di fondare il miglior regime sul
controllo delle passioni umane, e collegavano tale tentativo con il re-
lativismo e con il liberalismo. Un ruolo importante in questo processo
era giocato da quello che Strauss chiamava il diritto naturale moderno,
il quale sostituiva al dovere, fondamento del diritto naturale classico,
i diritti individuali, sui quali poi veniva edificato il giusto ordine, pro-
prio a partire dalla volontà umana. Ciò che più preoccupava molti degli
autori trattati era che quei diritti fossero suscettibili di interpretazioni
soggettive; infatti proprio dalla diversità delle interpretazioni poterono
scaturire il relativismo e il nichilismo, da cui poi nacquero i vari totalita-
rismi. L’alternativa per alcuni era quella di tornare alla antica tradizione
della filosofia politica, ossia ad una riflessione sul giusto ordine tale da
offrire un ancoraggio sicuro e superare le degenerazioni del relativismo.
La diversità di vedute su quale potesse essere un ordine giusto era note-
vole, ma la convinzione che un tale ordine dovesse esistere era condivisa
e può essere esemplificata dalla visione straussiana del diritto naturale, il
quale non è un diritto suscettibile di interpretazioni soggettive (e dun-
que di votazioni a maggioranza, aggiungiamo noi) volte a confermare la
sua autenticità, ma è il riflesso di un ordine naturale, vero e immutabile,
non creato dall’uomo ma che l’uomo, se adeguatamente educato, può
riconoscere121.
Ora, se guardiamo alla teoria liberale come è stata sino a qui
presentata, le critiche sopra esposte possono assumere significati dif-
ferenti a seconda di quale liberalismo si prenda in considerazione122.
121
Per comprendere quali siano le difficoltà a cui va incontro una tale prospettiva può
essere di grande utilità la lettura di F. MONCERI, Altre globalizzazioni. Universalismo liberal
e valori asiatici, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002 e delle conclusioni di Ordini costruiti.
Multiculturalismo, complessità, istituzioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008.
122
La bibliografia sul diritto naturale e il liberalismo è estremamente ampia, una pa-
noramica significativa in lingua italiana è offerta da F. DI BLASI, P. HERITIER (a cura di),
La vitalità del diritto naturale, Phronesis Editore, Palermo 2008, e M. MANGINI, F. VIOLA,
Diritto naturale e liberalismo. Dialogo o conflitto?, Giappichelli, Torino 2009.
Liberalismo e modelli di ordine 295
essere garantiti solo se esiste una forma precisa di ordine politico, ossia
un ordine che consenta a tutti gli individui di fare le proprie scelte nel
rispetto di una legge che fissa dei limiti precisi, ma anche che non con-
sente a nessuno, neanche al potere politico, di usare la coercizione per
realizzare qualcosa di diverso dalla tutela della libertà individuale.
Si tratta insomma di un ordine volto a garantire la convivenza di
una molteplicità di fini individuali, anche molto diversi tra loro, che non
pretende di poter giudicare le diverse concezioni di cosa siano bene e
male per i singoli individui. Ma nonostante questo, o forse proprio a
causa di questo, non si tratta di una teoria “relativistica”. Vi è infatti la
consapevolezza che non ogni tipo di regime può consentire la conviven-
za di concezioni diverse di cosa sia il bene, e dunque non si è neutrali o
indifferenti rispetto al tipo di regime politico che può garantire l’ordine
sociale. Una tale concezione non è infatti compatibile con un regime
politico che ritenga lecito fissare a maggioranza il concetto di bene, poi-
ché così scomparirebbe la possibilità per ognuno di ricercare ciò che
egli ritiene sia il bene. È in tal senso è possibile individuare dei para-
metri di giudizio su quale sia un giusto ordine, e il primo paramento è
sicuramente che un buon regime politico è quello che riduce le scelte
collettive, e coercitive, al minimo, e per quanto possibile tende a farle
scomparire. Quando si riducono (o eliminano) le scelte collettive volte
a creare un ordine “giusto” ciò che rimane sono “buone regole”, ossia
quelle norme che consentono la convivenza di fini diversi e che sono
l’unico “bene comune” di cui una società deve disporre.
L’emergere delle buone regole può dunque avvenire solo tenen-
do fermi i diritti di vita, libertà e proprietà, diritti il cui valore non è
naturalmente determinabile a maggioranza. Di particolare importanza
è il diritto di proprietà, indubbiamente uno degli elementi chiave della
tradizione liberale classica, tanto che se questa davvero si può ridurre
alla “trinità” vita, libertà e proprietà, è forse possibile sostenere che l’e-
lemento della proprietà contiene implicitamente gli altri due. È dunque
fondamentale cercare di capire perché la proprietà è così importante in
questa tradizione di pensiero e, soprattutto, perché la sua tutela ancora
oggi, in società complesse come le nostre, potrebbe essere un modo di
risolvere controversie e di fornire quel terreno comune di dialogo di cui
esse hanno bisogno.
Innanzitutto bisogna chiarire esattamente in cosa consista per la
teoria liberale il diritto di proprietà. Quando i livellatori, prima ancora
di Locke, rivendicavano come essenziale tale diritto, lo facevano perché
Liberalismo e modelli di ordine 297
124
L. STRAUSS, Spinoza’s Critique of Religion, New York, Schoken, 1965 (trad. it. in
Liberalismo antico e moderno, Milano, Giuffrè, 1973, pp. 285 e ss.) idea esposta nel primo
capitolo di questo lavoro. Su questo aspetto del pensiero di Strauss, e in generale sul suo
rapporto con il liberalismo, si veda R. CUBEDDU, Tra le righe. Leo Strauss su Cristianesimo
e Liberalismo, Marco Editore, Lungro di Cosenza, 2010.
300 Crisi e rinascita del liberalismo classico
125
Non è un caso che lo stesso Hayek, dopo aver in maniera sconsolata rilevato quan-
to il termine libertà fosse ormai diventato equivoco e abusato dai suoi stessi oppositori,
avesse argomentato come solo il termine tolleranza mantenesse ancora il pieno significato
del principio della libertà, cfr. F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it.
cit. p. 60). Ed è interessante a questo proposito anche ciò che dice Mises a proposito di
liberalismo e tolleranza: «Il liberalismo chiede tolleranza per ragioni di principio, non di
opportunità. Chiede tolleranza anche per dottrine palesemente assurde, per folli eresie o
per puerili superstizioni: chiede tolleranza per dottrine e opinioni che pure ritiene nocive
e funeste per la società, per correnti di pensiero contro le quali non si stanca di combatte-
re. E se è spinto a richiedere tolleranza non è per riguardo al contenuto delle dottrine da
tollerare, ma perché sa che soltanto la tolleranza può creare e mantenere la pace sociale»,
L. VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. p. 94).
Liberalismo e modelli di ordine 301
tative di persone molto diverse sono diventate diritti sociali, e che questi
diritti per essere realizzati hanno un costo che sono loro a dover pagare.
Certamente si daranno un gran numero di casi complessi, che non
sarà facile risolvere con l’applicazione della “formula” liberale, tuttavia
rimane il fatto che quello liberale può essere visto come un coerente
tentativo di soluzione del problema della conflittualità latente in ogni
società. Difendendo il diritto di proprietà delle proprie idee e del pro-
prio corpo il liberalismo classico fa al contempo due cose: nega che le
aspettative individuali siano diritti sociali, e dunque che debbano essere
realizzate attraverso l’uso del potere politico; riconosce ad ognuno il di-
ritto di cercare di realizzare le proprie aspettative, e di vivere la propria
vita in accordo ai propri princìpi, anche i più diversi. La forza del diritto
di proprietà, inteso nel modo che si è prima illustrato, è dunque nel fatto
che non impone una soluzione comune al problema della realizzazione
di aspettative individuali diverse tra loro, ma lascia a ognuno la possi-
bilità di cercare di realizzarle, con il (forte) limite di rispettare però un
uguale diritto degli altri di tentare di realizzare aspettative diverse, e di
vivere secondo princìpi diversi. Si può considerare la soluzione liberale
parziale e incompleta, ma essa indubbiamente rappresenta un tentativo
di disinnescare il conflitto esistente nelle società in cui si ritiene che
tutte le diverse aspettative abbiano il diritto di essere realizzate tramite
l’uso del potere politico, che è sempre coercizione e dunque limitazione
della libertà.
Indubbiamente non ogni tipo di conflitto è in questo modo “di-
sinnescato”, perché ad esempio il principio del rispetto degli altri di
vivere secondo le loro scelte dovrebbe valere anche per gli appartenenti
a comunità che non riconoscono quel diritto ad alcuni dei propri mem-
bri (si pensi ad esempio alle donne in alcune confessioni religiose, o al
reato di apostasia nella religione islamica). E tali persone non saranno
facilmente disposte a far uscire dalla comunità stessa quei membri che
volessero fare scelte diverse. Ma il fatto che quel principio non sia accet-
tato pacificamente da tutti non vuol dire che non sia giusto e da ritenere
“universale”. Se infatti, prendendo spunto dalla riflessione di Rothbard,
si ammette, come dato oggettivo e fisico, che non è possibile pensare
con la testa di un’altra persona, e che dunque non si può sapere cosa
per lui è giusto e bene fare, allora bisognerà anche ammettere come
una logica conseguenza che non si ha il diritto di imporre ad una per-
sona di vivere in maniera diversa da come essa vuole, sempre che, come
conseguenza di ciò, lui non impedisca agli altri di fare altrettanto. E un
302 Crisi e rinascita del liberalismo classico
tale principio logico non può essere inficiato per il fatto che esso non
viene accettato da alcune culture e da alcune correnti politiche, come
anche per il fatto, non meno importante, che non sempre è facile capire
se una scelta sia il frutto di una libera volontà o se invece sia il risultato
di un condizionamento da parte di altri. E bisognerebbe forse riflette-
re maggiormente su quanto un tale principio logico dovrebbe portare
al ritenere inammissibile la violazione dei diritti individuali, e questo
indipendentemente dal fatto che una tale violazione provenga da indi-
vidui, provenga da gruppi che ne danno una particolare giustificazione
culturale (o tradizionale, o religiosa o quant’altro), o provenga infine da
maggioranze politiche più o meno ampie.
Proprio a partire da queste considerazioni è possibile approfon-
dire quale sia il rapporto del liberalismo classico con l’idea di diritto
naturale, guardando da una parte alla concezione evoluzionistica, che
si è visto avere in Hayek il suo principale esponente, e dall’altra alle
differenze con il libertarismo di Rothbard, la cui filosofia è forse il più
importante, per quanto discutibile, tentativo del Novecento di fondare
la libertà su un diritto naturale razionale.
Se si ricordano le critiche che il liberalismo classico ha rivolto agli
eccessi dell’uso della ragione, è forte la tentazione di ritenere la conce-
zione evoluzionistica del diritto antitetica a un diritto naturale indivi-
duato o individuabile dalla ragione umana. Ma la questione è in realtà
più complessa. Quando Hayek, trattando della rule of law e in generale
del diritto evolutivo, critica la ragione e il diritto naturale, lo fa poiché
ritiene che entrambi i termini abbiano mutato completamente i loro si-
gnificati originari. Il termine “ragione”, che aveva designato anche la
capacità della mente di distinguere tra il bene e il male, cioè tra ciò che
era e ciò che non era in accordo con regole stabilite (ed il riferimento
esplicito è a Locke) è infatti venuto a significare la capacità di costruire
regole per via di deduzione da premesse esplicite. L’espressione “diritto
naturale” ha così assunto il significato di un “diritto della ragione”; vale
a dire un significato quasi opposto a quello originario. Da Grozio in
poi, ad avviso di Hayek, tale “nuovo diritto naturale razionalista” ha
finito per condividere con i positivisti la concezione secondo cui tutto
il diritto era dettato, o poteva almeno essere giustificato, dalla ragione.
La differenza consisteva quindi nel fatto che il “nuovo diritto naturale
razionalista” differiva dal positivismo solo perché assumeva che il di-
ritto potesse essere derivato logicamente da premesse a priori, mentre
quest’ultimo lo concepiva come una costruzione deliberata, fondata sul-
Liberalismo e modelli di ordine 303
126
F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. pp. 31-32).
127
Cfr. F.A. VON HAYEK, The Fatal Conceit… op. cit., (trad. it. cit. p. 229).
304 Crisi e rinascita del liberalismo classico
130
«[Il] nostro sistema della libertà propone necessariamente una teoria etica di ciò
che concretamente la legge dovrebbe essere. In breve, com’è logico per una teoria della
Legge naturale, essa propone una teoria normativa del diritto – nel nostro caso del “diritto
libertario”», M.N. ROTHBARD, The Ethics of Liberty op. cit. (trad. it. cit. p. 9). E più avanti
aggiunge: «il diritto naturale spiega quel che è meglio per l’uomo, quali fini, in armonia
con la sua stessa natura e ad essa confacenti, egli dovrebbe perseguire. Da un importante
punto di vista, quindi, la legge naturale fornisce all’uomo una “scienza della felicità”»,
p. 25. Per una ricostruzione del diritto naturale in Rothbard si rimanda a C. LOTTIERI, Il
pensiero libertario contemporaneo, op. cit., pp. 56 e ss. e P. VERNAGLIONE, Il libertarismo,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 200 e ss. Interessanti considerazioni sui pregi e sui
limiti della concezione libertarian del diritto naturale si trovano in R. CUBEDDU, Il tempo
del liberalismo, in «Biblioteca della libertà», XLVII, gennaio-aprile, n. 203 online, 2012, in
particolare pp. 20-25.
306 Crisi e rinascita del liberalismo classico
Leoni, che non ebbe il tempo di sviluppare molte delle sue intuizioni,
a darci quella che potrebbe essere considerata la migliore definizione
della concezione giuridica del liberalismo classico, la quale può forse
essere definita come una “reinterpretazione empirica delle teorie del
diritto naturale”132.
Ma al di là delle definizioni che si vogliono adottare e delle dif-
ferenze tra i suoi diversi esponenti, dovrebbe ormai essere chiaro come
a partire dal secondo dopoguerra si sia delineata una “rinascita” del
liberalismo classico, ossia una riscoperta di quella tradizione liberale
che ha i suoi presupposti filosofici nel concetto di “ordine spontaneo”,
oltre che nel diritto di proprietà in senso lockiano. Quel liberalismo, e
il suo fondamento filosofico, a partire dalla metà dell’Ottocento aveva
gradualmente perso di interesse e attrattiva, a favore di un liberalismo
diverso, volto a costruire l’“ordine buono” sulla base di considerazioni
etiche da imporre alla società. Il liberalismo classico di Mandeville e dei
moralisti scozzesi rinasce attraverso la Scuola austriaca, la quale si con-
fronta con il problema di quale sia il fondamento di una società giusta, e
cerca una risposta alla domanda classica della filosofia politica su quale
sia il miglior regime politico. Questo tentativo, pur non privo di limiti,
non sempre è stato compreso e apprezzato in tutta la sua grandezza, e
questo forse anche a causa di una visione estremamente innovativa e
originale di come si debbano intendere e affrontare alcuni dei proble-
mi classici della filosofia politica, quali il diritto, la giustizia, l’etica, la
democrazia e la stessa libertà. È proprio guardando a questa originalità
e a questo tentativo di innovare rispetto alle soluzioni classiche, indub-
biamente grandiose ma anche talvolta incapaci di dare tutte le risposte
attese, che si può cogliere l’importanza del contributo del liberalismo
del Novecento. E c’è anche da chiedersi se a far rinascere la discussione
intorno a quelle domande con cui sembrava che la filosofia politica non
si volesse più confrontare non sia stato anche, o soprattutto, il liberali-
smo di matrice austriaca (nelle sue differenti ramificazioni), più che il
progetto rawlsiano di riproporre ancora una volta, seppure in maniera
cit. pp. 285-286). Su questi temi rimando a A. MASALA, C. CORDASCO, R. CUBEDDU, Diritto
naturale o evoluzionismo? In «Nuova civiltà delle macchine», anno XXIX, n. 1-2, 2011,
pp. 435-454., pp. 450 e ss. e dalla lettura dei diversi saggi che compongono quel numero
monografico è anche possibile avere una dettagliata ricostruzione della continuità e delle
differenze tra Classic liberalism e Libertarianism.
132
La definizione si trova in una lettera, a lungo dimenticata, a Pompeo Biondi, B.
LEONI, Terrore, diritto, costituzione, in «Studi Politici», n. 2, 1957, pp. 297-300.
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289, 304, 306. Machlup, F., 82.
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Iannello, N., 81, 83, 109. 242, 246-251, 254-257, 265, 280,
Infantino, L., 62, 81, 82, 83, 84, 87, 93, 291, 295, 307.
109, 247, 250, 256. Mangini, M., 295.
Mannheim, K., 120, 135, 145.
Jhering, R.R.von, 41. Marcuse, H., 112.
Marx, K., 22, 46, 47, 58, 83-85, 120,
Kant, I., 110, 267, 268, 304. 121, 135, 136, 139, 142, 143, 145,
Kaplan, A., 21. 146, 150, 160, 161, 165.
Kaufmann, F., 82. Masala, A., 39, 68, 70, 129, 215, 279,
Kelley, J.L., 287. 283, 307.
Kelsen, H., 43, 44, 209, 282. Matteucci, N., 19, 56, 245, 259, 265,
Kennedy, G., 255. 304.
Keynes, J.M., 63, 68, 72, 112, 114, 156, McAllister, T.V., 46, 49.
259. McNamara, P., 265.
Kirzner, I., 81. Megee, B., 162.
Klein, P.G., 119. Mencken, H.L., 99.
Klein, R., 82. Menger, C., 21, 82, 83, 89, 90, 111, 127,
Kymlycka, W., 278. 137, 139, 147, 160, 238, 256-258,
265-267, 280, 284, 291, 306.
Lal, D., 102. Menger, K., 21.
Laski, H., 68, 122. Merriam, C., 22.
Laslett, P., 18, 19. Mewes, H., 49.
Lasswell, H., 21. Michels, R., 223.
Lenin, 108, 112, 209. Mill, J.S., 41, 57, 70-72, 88, 100, 135,
Lensch, P., 121. 259.
Leoni, B., 70, 209, 210, 212, 215-228, Mingardi, A., 12, 62, 215.
232, 238-239, 273-275, 279-292, Minogue, K., 19.
307. Mises, L.von, 13, 19, 21, 44, 55, 78,
Letwin, S., 71, 72. 81-99, 103, 106-119, 125, 127-131,
Lippman W., 16, 17. 136, 137, 147-169, 176-183, 188,
Locke, J., 30, 31, 33, 34, 37, 37, 38, 57, 208, 220, 221, 232-235, 238, 239,
89, 267, 297, 298, 302. 256, 265, 280, 285-287, 291, 292,
Lottieri, C., 13, 75, 81, 101, 215, 223, 300, 304.
282, 285, 305. Mises, R.von, 21.
Lowell, L., 217. Modugno, R.A., 304.
Moeller van den Bruck, A., 122.
Macaulay, T.B., 70. Mommsen, W.J., 56.
Machan, T.R., 242. Monceri, F., 12, 23, 294.
334 Crisi e rinascita del liberalismo classico
Prefazione 9
Capitolo Primo
LIBERALISMO E FILOSOFIA POLITICA 15
1. La crisi della filosofia politica 15
2. Liberalismo e relativismo 23
3. Liberalismo come economicismo 29
4. Liberalismo e positivismo 36
5. Il problema etico nel liberalismo 49
Capitolo Secondo
TRASFORMAZIONI DELLA TEORIA LIBERALE 55
1. Una lunga metamorfosi 55
2. La teoria etica e sociale dell’Ordoliberalismus 73
3. Le idee e le loro conseguenze 80
4. Moralità e armonia degli interessi 98
Capitolo Terzo
LA CRITICA DEL TOTALITARISMO 105
1. Lo stato onnipotente 107
2. La mentalità collettivista e la via della schiavitù 118
338 Crisi e rinascita del liberalismo classico
Capitolo Quarto
LIBERALISMO E DEMOCRAZIA 171
1. L’idea di libertà 173
2. Democrazia classica, rappresentativa e totalitaria 183
3. Democrazia e rule of law 196
4. Liberalismo o scelte collettive? 215
5. La necessità della democrazia 229
Capitolo Quinto
MODELLI DI ORDINE LIBERALE 241
1. Il liberalismo tra Hobbes e Mandeville 242
2. Ordine e conoscenza 258
3. L’individualismo radicale 279
4. La rinascita del liberalismo classico 287
Bibliografia 309