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autoctonia, rifiuto della

mescolanza, civilizzazione:
da isocrate a megastene
Cinzia Bearzot
Università Cattolica di Milano

Per chi, come me, non è specialista dell’età ellenistica non è stato facile inse-
rirsi nel tema di questo incontro, a cui gli organizzatori Tommaso Gnoli e Fede-
ricomaria Muccioli hanno avuto la cortesia di invitarmi. Ho pensato quindi che
potesse essere di qualche utilità fornire un quadro introduttivo alla discussione,
che, partendo dalla chiusura caratteristica dell’età classica, espressa dal mito del-
l’autoctonia, ne mostrasse le prime fratture di fronte alle nuove frontiere aperte
dalle conquiste di Alessandro. Nel mio intervento cercherò quindi di delineare il
processo con cui un mito di identità, utilizzato proprio per sottolineare originalità
e autonomia culturale e per negare il valore degli interscambi culturali, venne, in
un contesto storico del tutto nuovo, in parte superato, ma in parte anche adattato
a nuove prospettive e coniugato con una valorizzazione degli apporti culturali
esterni.

1. L’autoctonia come mito di identità

Afferma Diodoro, in I 9, 3, che il mito dell’autoctonia è tendenzialmente pre-


sente presso tutti i popoli, Greci e barbari:
«Sull’antichità del genere umano è aperta una controversia non soltanto tra
i Greci, ma anche tra molti popoli barbari, perché tutti dicono di essere, tra
tutti quanti gli uomini, autoctoni e di aver inventato quanto è utile nella vita
(eJautou;~ aujtovcqona~ levgonte~ kai; prwvtou~ tw`n aJpavntwn ajnqrwvpwn
euJreta;~ genevsqai tw`n ejn tw/` bivw/ crhsivmwn)»1.

Come appare chiaro anche dal testo diodoreo, l’autoctonia (la rivendicazione
di essere ‘nati dalla terra’ e di non essere immigrati nella propria sede di stan-

1
La traduzione è di G. Cordiano - M. Zorat, in Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libri I-III, Milano
2004. Cfr. A. Burton, Diodorus Siculus, Book I. A Commentary, Leiden 1972, 51-52.

Gnoli, Muccioli (eds.), Incontri tra culture, Milano 2007, 7-28


8 Cinzia Bearzot

ziamento dall’esterno, quindi di ‘aver abitato sempre la stessa terra’)2 intende


valorizzare al massimo l’identità locale sugli apporti esterni, in termini etnici e
di civilizzazione. Nel mondo greco, la rivendicazione di identità etnico-culturale
che tale mito esprime contribuisce a corroborare la caratteristica resistenza greca
verso ogni forma di integrazione, sia verso il barbaro sia addirittura verso lo xe-
nos, il Greco appartenente ad una diversa comunità politica3. Diversamente che
nel mondo romano, dove la coscienza di essere fin dalle origini un popolo misto4
favorisce la disponibilità all’incontro e all’integrazione con il ‘diverso’ sul piano
etnico, sociale e culturale, in Grecia l’ideale è costituito, in linea generale, dalla
‘non mescolanza’5, anche se talora la tradizione conserva traccia del contrasto tra
il modello culturale dell’aujtovcqwn e quello dell’e[phlu~, l’immigrato6. L’utiliz-
zazione, in vari contesti, del mito dell’autoctonia – di cui propongo qui alcuni
esempi – mette bene in evidenza questo atteggiamento di sostanziale chiusura,
collegato ad una acuta consapevolezza della propria superiorità culturale7.

2
Questo il significato più antico del termine aujtovcqwn secondo V.J. Rosivach, Autochthony and
the Athenians, CQ 37, 1987, 294-306; il significato di «nato dalla terra», collegato con il rapporto
tra gli Ateniesi ed Eretteo, eroe autoctono già in Il. II 547-548 (tevke de zeivdwro~ a[roura), sarebbe
invece posteriore e risalirebbe al V secolo, quando l’assenza di memoria relativa a migrazioni e la
contrapposizione con i Dori, immigrati nel Peloponneso, generarono negli Ateniesi la convinzione
di essere da sempre residenti in Attica. Per una parziale correzione della visione di Rosivach su
base archeologica cfr. H.A. Shapiro, Autochthony and the Visual Arts in Fifth-Century Athens, in
Democracy, Empire, and the Arts in Fifth-Century Athens, Cambridge, Mass.-London 1998, 127-
151.
3
M. Moggi, Greci e barbari: uomini e no, in Civiltà classica e mondo dei barbari. Due modelli a
confronto, Trento 1991, 31-46; Id., Straniero due volte: il barbaro e il mondo greco, in Lo straniero
ovvero l’identità culturale a confronto, Roma-Bari 1992, 51-76; Id., Lo straniero (xenos e barba-
ros) nella letteratura greca di epoca arcaica e classica, «Ricerche storico-bibliche» 8, 1-2, 1996,
103-116. Cfr. inoltre R. Hodot, Le vice, c’est les autres, in L’étranger dans le monde grec, II, Actes
du deuxiéme Colloque sur l’étranger, Nancy 19-21 septembre 1991, Nancy 1992, 169-183.
4
Cfr. M. Sordi, Her. VIII, 144, 3 - Sall. Cat. VI, 2: unità e alterità etnica nel modello greco e nel
modello romano, in L’alterità nella dinamica delle culture antiche e medievali: interferenze lin-
guistiche e storiche nel processo della formazione dell’Europa, Atti del Convegno di Milano, 5-6
marzo 2001, Milano 2002, 71-81.
5
Cfr. M. Sordi, Integrazione, mescolanza, rifiuto nell’Europa antica, in Integrazione, mescolanza,
rifiuto. Incontri di popoli, lingue e culture in Europa dall’Antichità all’Umanesimo, Atti del Con-
vegno di Cividale del Friuli, 21-23 settembre 2000, Roma 2001, 17-26.
6
Cfr. N. Loraux, Né de la terre: politique et autochtonie à Athènes, Paris 1996, 75 ss.
7
Riprendo, in questa prima parte, alcuni punti del mio intervento Rivendicazione di identità e rifiu-
to dell’integrazione nella Grecia antica (Ateniesi, Arcadi, Plateesi, Messeni), in Identità e integra-
zione. Passato e presente delle minoranze nell’Europa meridionale, Atti del Seminario di Milano,
29 aprile e 3 maggio 2004, Milano 2007, 15-37. Un’esauriente raccolta di tutto il materiale relativo
al tema dell’autoctonia è offerta da S. Strebel, Autochthonen. Die Vorstellungen der Griechen von
der Herkunft der Menschen aus der Erde, Diss. Tübingen 1962.
Autoctonia, rifiuto della mescolanza, civilizzazione 9

1.1. Nel contesto ateniese, il mito dell’autoctonia torna in diverse fonti8. Cer-
tamente antico e profondamente radicato nella tradizione arcaica, esso viene rivi-
sitato, nel V secolo, in chiave diversa, a sostegno della democrazia sul versante
interno e dell’egemonia ateniese su quello esterno9. Erodoto, per bocca dell’am-
basciatore ateniese che si rivolge al tiranno siracusano Gelone in VII 161, defi-
nisce gli Ateniesi il popolo più antico (ajrcaiovtaton gevno~) della Grecia, i soli
a non avere mai cambiato sede (mou`noi de; o[nte~ ouj metastavnai ÔEllhvnwn).
Tucidide, nell’archeologia, si premura di precisare che l’Attica «fin dai tempi più
remoti era stata abitata sempre dalle stesse persone» (I 2, 4), mentre i Dori erano
giunti nel Peloponneso ottant’anni dopo la guerra di Troia, sotto la guida degli
Eraclidi (I 12, 3)10. La contrapposizione tra gli Ateniesi, autoctoni e di origine
pura, e i popoli giunti da fuori e di carattere ‘misto’ (migavde~) è espressa con
particolare forza da Isocrate (Paneg. 24-25):
«Abitiamo questo paese non avendone scacciato altri né avendolo trovato de-
serto né essendoci riuniti qui come un miscuglio di razze, ma così nobile e
pura è la nostra origine che occupiamo senza interruzione la terra da cui fum-
mo generati, in quanto siamo autoctoni e possiamo chiamare la nostra città
con gli stessi nomi che diamo ai più stretti congiunti. A noi soli fra gli Elleni
spetta di chiamare la stessa terra nutrice, patria, madre»11.
Il tema mitico vale a rivendicare aspetti apparentemente contraddittori del si-
stema di vita ateniese. Da un lato, esso ha un significato democratico e sottolinea
l’uguaglianza fra i cittadini di Atene, tutti parte di una popolazione etnicamente
e culturalmente unitaria, priva di stratificazioni sociali legate all’arrivo di nuove
popolazioni sovrappostesi a quelle già insediate nel territorio (come era invece
avvenuto, nel Peloponneso, con l’arrivo dei Dori)12. Non a caso, nella tradizione
8
Per le fonti principali cfr., oltre a quelle menzionate di seguito nel testo, Eur. Ion 585 ss.; Plato
Mx. 237b ss.; Isoc. De pace 49-50; Dem. LX 4 ss.; [Dem.] LIX 74; Hyp. VI 7; Lycurg. Leocr. 100
(= Eur. F 360 Nauck). In generale, cfr. N. Loraux, L’autochtonie, une topique athénienne. Le mythe
dans l’espace civique, «Annales (ESC)» 34, 1979, 3-26; Ead., Les enfants d’Athéna. Idées athé-
niennes sue la citoyenneté et la division des sexes, Paris 1981; Ead., Né de la terre, cit.
9
Cfr. Rosivach, Autochthony, cit., 302 ss.; Shapiro, Autochthony and the Visual Arts, cit., 130 ss.
10
La traduzione dei passi di Tucidide è di F. Ferrari, in Tucidide, La guerra del Peloponneso, I-III,
Milano 1985. Sul carattere antidorico del tema dell’autoctonia, cfr. R. Parker, Myths of Early A-
thens, in Interpretations of Greek Mythology, London-Sydney 1987, 187-214, partic. 194-195.
11
Cfr. De pace 49-50; Panath. 124-125. La traduzione dei passi di Isocrate è di M. Marzi, in Iso-
crate, Opere, I-II, Torino 1991. Sul tema dell’identità greca in Isocrate cfr. S. Saïd, The Discourse
of Identity in Greek Rhetoric from Isocrates to Aristides, in Ancient Perceptions of Greek Ethnicity,
Cambridge, Mass. 2001, 275-300.
12
Cfr. E. Luppino, I Pelasgi e la propaganda politica del V secolo a.C., in CISA 1, 1972, 71-78;
E. Montanari, Il mito dell'autoctonia. Linee di una dinamica mitico-politica ateniese, Roma 1981,
53 ss.; Rosivach, Autochtony, cit., 302-303; M. Sordi, Propaganda e confronto politico, in Alle
radici della democrazia: dalla polis al dibattito costituzionale contemporaneo, Roma 1998, 57-67,
partic. 60 ss.
10 Cinzia Bearzot

ateniese l’origine delle altre città è vista come esito di migrazioni e quindi viziata
da contrasti tra diversi strati della popolazione, mentre quella di Atene appare
immune da questa macchia originaria; Atene può così vantare una profonda unità
del corpo cittadino, che rende la sua esperienza civica unica, e qualitativamente
superiore, rispetto a quella delle altre città greche e che trova espressione nella
sua costituzione democratica13. Questo aspetto è messo bene in evidenza da un
passo di Tucidide (II 36, 1), tratto dal celebre Epitafio di Pericle:
«Ma per prima cosa comincerò dagli antenati … Restando sempre i medesimi
abitatori di questa terra, in un seguito ininterrotto di generazioni, grazie al
loro valore, la tramandarono libera (eleuthera) fino ai nostri giorni».

Analoga sottolineatura delle conseguenze che discendono dall’essere gli Ate-


niesi autoctoni, in termini di libertà e di democrazia, emerge da un passo dell’Epi-
tafio di Lisia (II 17-18):
«Era prerogativa dei nostri antenati combattere con risoluzione unanime in
difesa della giustizia. La loro stessa origine infatti si fonda sul diritto! Essi
non abitavano, come la maggior parte degli uomini, una terra altrui dopo es-
sersi raccolti da molte parti e aver scacciato altre genti, ma erano autoctoni ed
ebbero la stessa terra come madre e come patria. Primi e unici a quel tempo
cacciarono le potenti famiglie che li dominavano e fondarono la democrazia,
nella convinzione che la libertà di tutti sia il miglior fondamento della concor-
dia, e messe in comune le speranze nate dalle lotte si governavano con spirito
libero»14.

Infine Platone, nel Menesseno (238e-239a), in un contesto probabilmente ca-


ratterizzato da un’intonazione ironica, ma che riproduce senza dubbio i luoghi
comuni diffusi presso l’opinione pubblica ateniese contemporanea15, nota che
l’uguaglianza politica e giuridica tra i cittadini ateniesi è una conseguenza diretta
dell’uguaglianza di nascita:

13
Cfr. S. Gotteland, L’origine des cités grecques dans les discours athéniens, in Origines gen-
tium, Bordeaux-Paris 2001, 79-93. Per la contrapposizione tra Atene e gli altri Greci in relazione
all’autoctonia cfr. anche le osservazioni di M. Detienne, The Art of Founding Autochthony: Thebes,
Athens, and Old-Stock French, «Arion. A Journal of Humanities and the Classics» 9, 2001, 46-55.
14
Cfr. II 43. La traduzione dei passi di Lisia è di E. Medda, in Lisia, Orazioni, I-II, Milano 1991-
1995. Per le questioni relative all’autenticità dell’Epitafio cfr. Medda, in Lisia, Orazioni, cit., I, 104
ss.; in particolare J. Walz, Der lysianische Epitaphios, Philologus Suppl.-B. 29, 1936, 46 ss.; J.K.
Dover, Lysias and the Corpus Lysiacum, Berkeley-Los Angeles 1968, 57 ss.; S. Usher - D. Najok, A
Statistical Study of Authorship in the Corpus Lysiacum, CHum 16, 1982, 103-104; ora C. Bearzot,
La “vittoria dei barbari” nell’Epitafio di Lisia (II, 59), in Vivere da democratici. Studi su Lisia e
la democrazia ateniese, Roma 2007, 177-198.
15
Cfr. Loraux, Les enfants d’Athéna, cit., 315 ss. Per la bibliografia sulle diverse questioni relative
al Menesseno cfr. M. Bertoli, Archino tra oratoria e politica: l’epitafio, RIL 137, 2003, 339-366.
Autoctonia, rifiuto della mescolanza, civilizzazione 11

«Causa di tale costituzione politica è la nostra uguaglianza di nascita. Mentre


le altre città sono composte di uomini di tutte le provenienze e ineguali, sì
che tale ineguaglianza si rispecchia nelle stesse costituzioni politiche, che
sono tirannidi ed oligarchie, e gli abitanti si considerano, gli uni di fronte agli
altri, o come schiavi o come padroni; noi e i nostri, tutti fratelli perché frutto
di una sola madre, non ci consideriamo né schiavi né padroni gli uni degli
altri, ma la nostra eguaglianza di origine, dovuta alla stessa natura (ijsogoniva
kata; fuvs in), ci costringe a ricercare uguaglianza legale, stabilita per legge
(ijsonomiva kata; novmon)»16.
Si osservi peraltro che un analogo uso in senso ‘democratico’ del mito dell’au-
toctonia si riscontra, per esempio, nella Beozia del IV secolo, in cui il mito degli
Sparti, nati dai denti del drago ucciso da Cadmo, seminati da Atena, viene riela-
borato a fondamento dell’ideologia democratica, di derivazione ateniese e incon-
sueta nella tradizione beotica, che informa la rinnovata Lega beotica del 37917.
Collegato con il tema dell’autoctonia è anche la rivendicazione della specifici-
tà culturale degli Ateniesi: in quanto autoctoni e non mescolati, essi sono immuni
da influenze esterne e portatori di una cultura del tutto originale. Così, ancora
nell’Epitafio pericleo, l’esperienza democratica ateniese è presentata, in apertura
e in chiusura, come un modello esclusivamente ‘indigeno’ (Thuc. II 37, 1 e 41, 1):
«Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi
siamo più d’esempio agli altri che imitatori ... Concludendo, affermo che tutta
la città è la scuola della Grecia».
Sulla stessa linea, sempre nel Menesseno platonico (245c-d) viene sviluppata
l’opposizione tra gli Ateniesi, puramente Greci e privi di commistioni con i bar-
bari, e gli altri Greci (Peloponnesiaci, Tebani, Argivi) meixobavrbaroi18:
«La generosità e la coscienza di libertà della città sono così solide, sane, e
per natura avverse al barbaro, grazie al fatto che noi siamo Greci puri, senza
alcuna mescolanza con i barbari (dia; to; eijlikrinw`~ ei\nai {Ellhne~ kai;
ajmigei`~ barbavrwn). Gente come Pelope, Cadmo, Egitto, Danao e molti altri
di questo genere, per natura barbari, Greci per leggi, non hanno vita comune
con noi; ma propriamente Greci, senza mescolanza alcuna di sangue barbaro,
perciò puro è l’odio che si è venuto installando nella nostra città per chi sia di
natura estranea»19.

16
La traduzione è di F. Adorno, in Platone, Opere, II, Roma-Bari 1974.
17
Cfr., su Cadmo e gli Sparti, F. Vian, Les origines de Thèbes. Cadmos et les Spartes, Paris 1963;
per la rielaborazione del mito cfr. M. Sordi, Mitologia e propaganda nella Beozia antica, A&R 11,
1966, 15-24 (= Ead., Scritti di storia greca, Milano 2002, 271-284); Ead., La restaurazione della
lega beotica nel 379/8 a.C., «Athenaeum» 51, 1973, 79-91, partic. 85 ss.
18
Cfr. M. Casevitz, Le vocabulaire du mélange démographique: mixobarbares et mixhellènes, in
Origines gentium, cit., 41-47.
19
La traduzione di Adorno, in Platone, Opere, II, cit., è leggermente adattata.
12 Cinzia Bearzot

Una diversa prospettiva, contrapposta a quella di Pericle e forse in diretta po-


lemica con lui, offre invece Pseudo-Senofonte (Ath. pol. II 7-8), criticando nello
stile di vita ateniese la commistione, provocata dal dominio del mare, di elementi
venuti da tutti i popoli greci e barbari, laddove gli altri Greci adottavano uno stile
di vita proprio20:
«Sentendo tutte le lingue, hanno preso ora una parola dall’una, ora una parola
dall’altra, e mentre i Greci parlano piuttosto la loro propria lingua e conserva-
no modo di vita e foggia d’abito tradizionali, gli Ateniesi li hanno mescolati
con elementi presi da tutti quanti i Greci e i barbari»21.

Qui la democrazia è vista piuttosto come fattore di inopportuna commistione


tra cittadini da una parte e inferiori, stranieri e barbari dall’altra22: tuttavia, pur
nell’espresso rifiuto di alcuni elementi della propaganda democratica collegati
con il tema dell’autoctonia, resta confermata l’idea della superiorità delle culture
che appaiono aliene da ogni forma di commistione.
D’altro lato, il mito dell’autoctonia ha in ambito ateniese un risvolto assai meno
nobile rispetto al ruolo, fin qui illustrato, di fondamento dell’uguaglianza demo-
cratica. Poiché esso si basa su una forte rivendicazione di identità anche etnica,
esso vale infatti a giustificare la ‘serrata’ della cittadinanza, voluta dalla legge di
Pericle del 451/5023, che limitava l’accesso al corpo dei cittadini di pieno diritto ai
figli di padre e di madre ateniese, con l’intento di riservare ad un gruppo relativa-
mente limitato i privilegi derivanti dal possesso dello status di cittadino: privilegi
che nella democrazia ateniese erano tanto significativi da frenare ogni disponibi-
lità ad estenderli oltre la cerchia dei cittadini ‘puri’ (i kaqarw`~ jAqhnai`oi). Se,
infatti, l’origine autoctona determina una forte unità nel corpo civico, presentato
come privo di originarie divisioni interne, essa crea anche una mentalità elitaria,

20
Cfr. D. Lenfant, Mélanges ethniques et emprunts culturels: leur perceptions et leur valeur dans
l’Athènes classique, in Origines gentium, cit., 59-77, partic. 71-72.
21
La traduzione è di G. Serra, La Costituzione degli Ateniesi dello Pseudo-Senofonte, Bollettino
dell’Istituto di Filologia greca dell’Università di Padova, Suppl. 4, Roma 1979. Cfr. W. Lapini,
Commento all’Athenaion politeia dello Pseudo-Senofonte, Firenze 1997, 183 ss.
22
Cfr. anche, a proposito di meteci e schiavi, II 10-12, con S. Cataldi, jAkolasiva e ijshgoriva di
meteci e schiavi nell’Atene dello Pseudo-Senofonte. Una riflessione socio-economica, in L’opposi-
zione nel mondo antico, CISA 26, 2000, 75-101.
23
Sulla legge di Pericle cfr. C.B. Patterson, Pericles’ Citizenship Law of 451-50 B.C., Salem, Mass.
1981; K.R. Walters, Perikles’ Citizenship Law, CA 2, 1983, 314-336; A.L. Boegehold, Perikles’
Citizenship Law of 451/0 B.C., in Athenian Identity and Civic Ideology, Baltimore-London 1994,
57-66; A. French, Pericles’ Citizenship Law, AHB 8, 1994, 71-75. Per la relazione tra tema del-
l’autoctonia e la volontà di limitare l’accesso alla cittadinanza cfr. Rosivach, Autochtony, cit., 303-
304.
Autoctonia, rifiuto della mescolanza, civilizzazione 13

che, insistendo sulla purezza etnica, afferma un’opposizione nei confronti delle
diverse categorie di esclusi (gli stranieri, ma anche le donne)24.
Infine, va considerata anche l’utilizzazione del tema dell’autoctonia nell’am-
bito della politica estera, in chiave egemonica ed imperialistica. Da una parte,
l’implicita contrapposizione tra Ioni autoctoni e Dori immigrati, tra l’autoctonia
degli Ateniesi e la provenienza esterna degli Spartani, costituì un fattore di legit-
timazione della superiorità anche morale del blocco ionico facente capo ad Atene
rispetto a quello dorico facente capo a Sparta, per tutto il periodo che va dalla fine
delle guerre persiane alla fine della guerra del Peloponneso: non a caso Isocrate
(Paneg. 63) afferma, a proposito delle relazioni tra Sparta e Atene, che «non è
davvero conforme alla tradizione che gli immigrati comandino agli autoctoni».
Dall’altra, l’immagine dell’Attica come madrepatria dell’intera stirpe ionica, che
armonizza mito dell’autoctonia e tema della parentela ionica e trova espressione
particolare nello Ione di Euripide (da collocare tra 418 e 413)25, ebbe un ruolo
assai importante nel sostenere le pretese egemoniche degli Ateniesi rispetto agli
alleati ionici della lega delio-attica26.

1.2. Gli Ateniesi pretendevano di essere i soli tra i Greci ad essere autoctoni:
così, almeno, si esprime il coro nelle Vespe di Aristofane (1076-1077): jAttikoi;
movnoi dikaivw~ ejggenei`~ aujtovcqone~, ajndrikovtaton gevno~27. In realtà, la ri-
vendicazione di autoctonia era diffusa presso altre popolazioni greche28. Molto
ben attestato è il tema dell’autoctonia degli Arcadi, usato in un contesto geopo-
litico molto diverso, quello del Peloponneso, la cui storia era stata caratterizzata
dall’arrivo successivo di diverse popolazioni e dalla ricerca di non sempre facili

24
Cfr. A.W. Saxonhouse, Myths and the Origins of Cities: Reflections in the Autochthony Theme
in Euripide’ Ion, in Greek Tragedy and Political Theory, Berkeley-Los Angeles-London 1986,
252-273; N. Loraux, Kreousa the Autochthon: a Study of Euripides’ Ion, in Nothing to Do with
Dionysos?, Princeton 1990, 168-206; Ead., Né de la terre, cit., 27 ss.
25
Cfr. G. Guidorizzi, in Euripide, Ione, Milano 2001, VIII-IX (XXIII ss. per i principali riferimenti
bibliografici).
26
Cfr. 585 ss. e, in particolare, i vv. 1575 ss. Sul tema, cfr. Ed. Délébecque, Euripide et la guerre du
Péloponnèse, Paris 1951, 225 ss.; J.P. Barron, Religious Propaganda of the Delian League, JHS 84,
1964, 35-48; G.B. Walsh, The Rhetoric of Birthright and Race in Euripides’ Ion, «Hermes» 106,
1978, 301-315; C. Dougherty, Democratic Contradictions and the Synoptic Illusion of Euripides’
Ion, in Demokratia: A Conversation on Democracies, Ancient and Modern, Princeton 1996, 249-
270, 255; S.E. Hoffer, Violence, Culture and the Workings of Ideology in Euripides’ Ion, CA 15,
1996, 289-318, partic. 312 ss.; J.M. Hall, Ethnic Identity in Greek Antiquity, Cambridge 1997, 51
ss.; D. Konstan, To Hellenikon Ethnos: Ethnicity and the Construction of Ancient Greek Identity, in
Ancient Perceptions of Greek Ethnicity, Cambridge, Mass. 2001, 29-50, partic. 34 ss.
27
Cfr. anche Isoc. Paneg. 25; Panath. 124. Accosta invece Ateniesi ed Arcadi Dem. XIX 261.
28
Rimando al lavoro di Strebel, Autochthonen, cit. supra, n. 7.
14 Cinzia Bearzot

compromessi di convivenza con i popoli già presenti sul territorio29. Gli Sparta-
ni, non a caso, giustificavano la loro egemonia sul Peloponneso con il mito del
ritorno degli Eraclidi, testimoniato anche da Tucidide (I 12, 3: «I Dori dopo ot-
tant’anni [dalla guerra di Troia] conquistarono il Peloponneso sotto la guida degli
Eraclidi»)30: l’arrivo dei Dori nella penisola non sarebbe stata dunque una vera
e propria invasione di popoli estranei all’area peloponnesiaca, ma il ritorno alla
loro terra d’origine degli antichi abitanti.
In questo contesto di tensioni e rivalità fra popolazioni etnicamente non omo-
genee, gli Arcadi, all’epoca dell’egemonia tebana, si appellarono alla tradizione
che li voleva unica popolazione autoctona del Peloponneso, presente già in Ero-
doto (VIII 73: «Il Peloponneso è abitato da sette popoli: due di questi sono nativi
del luogo, e si trovano oggi stanziati nel paese che anche in antico abitavano, e
cioè gli Arcadi e gli abitanti della Cinuria»)31, in Tucidide (I 2, 3: «Le terre mi-
gliori subivano continui mutamenti di abitatori, come quella che ora è chiamata
Tessaglia e la Beozia e la maggior parte del Peloponneso ad eccezione dell’Ar-
cadia») e in Ellanico (FGrHist 4 F 161)32, per rivendicare il diritto all’egemonia
su di esso, sia contro gli Spartani, invasori provenienti dall’esterno, sia contro i
Tebani, possibili «nuovi Spartani», a loro volta estranei al Peloponneso.
Molto significativo, in questo senso, è il discorso che Senofonte attribuisce al-
l’arcade Licomede di Mantinea, esponente delle classi elevate che aveva abbrac-
ciato la causa democratica, fautore all’indomani di Leuttra del secondo sinecismo
di Mantinea e del rinnovato sviluppo del federalismo arcadico, ma tutt’altro che
disposto a sostenere, una volta tramontato il pericolo spartano, eccessive ingeren-
ze da parte tebana nel Peloponneso33. Con tale discorso, che risale all’anno 364

29
Per le fonti, cfr. Rosivach, Autochtony, cit., 305-306.
30
Cfr. Hall, Ethnic Identity, cit., 56 ss.
31
La traduzione è di L. Annibaletto, in Erodoto, Storie, Milano 1956. Aggiunge Erodoto che «gli
abitanti della Cinuria, che sono nati sul posto, pare che siano i soli Ioni; ma sono stati trasformati in
Dori, a causa del dominio degli Argivi e del passare del tempo: sono essi i Tireati e i loro vicini».
32
Il frammento proviene da Arpocrazione s.v. Aujtovcqone~ (oiJ ∆Aqhnai`oi ... aujtovcqone~ de; kai;
“Arkade~ h|san, wJ~ ÔEllanikov~ fhsi, kai; Aijginh`tai kai; Qhbai`oi); il riferimento agli Arcadi, se-
condo Rosivach, Autochtony, cit., 306, n. 46, che si basa su F. Jacoby, FGrHist I A Komm., Leiden
1957, 470, è l’unico attribuibile ad Ellanico. La tradizione sull’autoctonia degli Arcadi, secondo
Rosivach, Autochtony, cit., 305-306, metteva l’accento sul loro carattere indigeno; solo con Eforo
essa sarebbe stata corroborata con la leggenda della discendenza degli Arcadi da Licaone, figlio di
Pelasgo «nato dalla terra» (già in Hes. fr. 161 Merkelbach-West).
33
Su Licomede cfr. S. Dušanić, The Arcadian League of the Fourth Century, Beograd 1970, 292
ss.; J. Buckler, The Theban Hegemony, 371-362 B.C., Cambridge, Mass.-London 1980, 105-106,
158-159, 185 ss.; H. Beck, Polis und Koinon. Untersuchungen zur Geschichte und Struktur der
griechischen Bundesstaaten im 4. Jahrhundert v. Chr., Historia Einzelschr. 114, Stuttgart 1997, 74
e n. 48, 222 ss.; cfr. inoltre Chr. Tuplin, The Failings of Empire. A Reading of Xenophon Hellenica
2.3.11-7.5.27, Historia Einzelschr. 76, Stuttgart 1993, 151 ss.
Autoctonia, rifiuto della mescolanza, civilizzazione 15

e che Senofonte riporta, in forma in parte diretta in parte indiretta, in HG VII 1,


23-24, Licomede rivendica agli Arcadi l’egemonia peloponnesiaca, spezzando
l’accordo politico e militare fra Tebe e gli alleati peloponnesiaci ricordato dallo
stesso Senofonte in apertura del passo:
«Comparve poi un certo Licomede di Mantinea, non inferiore a nessuno per
nascita, noto per le sue ricchezze e soprattutto ambizioso. Costui riempì di
orgoglio gli Arcadi, affermando che erano gli unici a poter considerare il Pe-
loponneso loro patria perché ne erano gli unici abitanti autoctoni e che la po-
polazione arcadica era la più numerosa e la più forte della Grecia. Diceva che
erano anche i più coraggiosi, come testimoniava il fatto che, ogni volta che
qualcuno aveva bisogno di rinforzi, preferiva gli Arcadi a chiunque altro. Gli
Spartani, inoltre, non avevano mai invaso il territorio di Atene senza di loro e
anche i Tebani, adesso, non erano andati contro Sparta senza gli Arcadi. ‘Se
avete buon senso, quindi, smettete di partecipare a qualsiasi spedizione vi si
chiami; come in passato avete reso possibile col vostro aiuto l’espansione di
Sparta, così anche ora, se seguirete senza riflettere i Tebani e non pretenderete
il vostro turno di comando, molto probabilmente troverete presto in loro degli
altri Spartani’»34.

Il tema dell’autoctonia ha, come si è già ricordato, anche precise implicazioni


democratiche, che si ripropongono qui nella contrapposizione tra gli Arcadi, stato
federale a orientamento democratico, e la Sparta oligarchica paladina delle auto-
nomie cittadine. Ma l’aspetto a mio parere più significativo sta nel collegamento
tra il mito dell’autoctonia e la crescita di una autocoscienza che porta gli Arcadi
a rivendicare l’egemonia sul Peloponneso. Licomede presenta infatti gli Arcadi
come gli unici abitanti autoctoni del Peloponneso, dunque i più antichi e i soli a
poter vantare diritti sul territorio; inoltre, come la popolazione «più numerosa e
più forte della Grecia», come la più coraggiosa e capace di fornire un insostitui-
bile contributo militare. La rivendicazione dell’origine autoctona e della forza
militare e demografica degli Arcadi va di pari passo con l’invito ad assumersi
le relative responsabilità storiche come egemoni di un Peloponneso libero da
influenze esterne, finalmente nelle mani non di usurpatori venuti da fuori, ma di
una forte identità locale.
La rinnovata autocoscienza arcadica è significativamente notata dallo stesso
Senofonte, pure poco incline ad apprezzare le aspirazioni dei popoli peloponne-
siaci, che egli doveva ritenere politicamente immaturi35: egli infatti, a proposito
delle campagne in favore degli Argivi e contro Asine di Laconia, afferma (HG
VII 1, 25) che gli Arcadi non si lasciavano fermare né dal buio, né dal maltempo,
34
La traduzione dei passi di Senofonte è di M. Ceva, in Senofonte, Elleniche, Milano 1996.
35
Cfr. M. Sordi, I caratteri dell’opera storiografica di Senofonte nelle Elleniche, 2, «Athenaeum»
29, 1951, 273-348, partic. 313 ss.
16 Cinzia Bearzot

né da lunghi itinerari né da montagne invalicabili, ed «erano fermamente convin-


ti di essere i più forti». A conferma della crescita di autocoscienza determinata
dall’intervento di Licomede, si noti che la medesima percezione dell’Arkadikón,
unita alla consapevolezza della propria forza militare, ritorna nelle parole del-
l’Arcade Antioco, delegato alle trattative di pace tenutesi nel 367 a Susa:
«Antioco, vedendo che la potenza arcadica (tò Arkadikón) 36 era stata tenu-
ta in poco conto, non accettò neppure i doni e riferì ai Diecimila che il Re
aveva un’infinità di fornai, cuochi, coppieri e valletti, ma uomini in grado di
combattere con i Greci, pur avendo cercato tanto, non era riuscito proprio a
vederne» (HG VII 1, 38).

Con il suo discorso Licomede, sottraendo, con la sua impostazione nazionali-


sta, l’Arcadia alla protezione di Tebe e presentando i Tebani non come liberatori,
ma come possibili «nuovi Spartani», mostra dunque la volontà di riappropriarsi
del controllo del Peloponneso attraverso la presa di coscienza e la convinta riven-
dicazione di un’identità etnica fortemente legata alla dimensione locale e nutrita
della coscienza che i tradizionali egemoni, gli Spartani, costituivano una forza
estranea e che i Tebani, a loro volta, non avevano titoli per rivendicare influenza
su un’area cui erano estranei37.

1.3. Il tema dell’autoctonia trova poi riscontro in ambito beotico. Autoctoni


sono detti i Tebani, insieme ad Ateniesi, Arcadi ed Egineti, in Arpocrazione s.v.
Aujtovcqone~, che cita Ellanico (FGrHist 4 F 161); ma, come già si è detto, l’uni-
co riferimento attribuibile all’attidografo sembra quello relativo agli Arcadi38.
Tuttavia, la tradizione sull’autoctonia dei Tebani presente in Pausania (IX 5, 1)
e collegata non tanto con la vicenda degli Sparti di Cadmo, quanto con quella di
Ogigo, re autoctono figlio di Beoto e primo sovrano del territorio intorno a Tebe
(gh`n de; th;n Qhbaivda oijkh`sai prw`ton levgousin “Ekthna~, basileva de; ei\nai
tw`n ∆Ekthvnwn a[ndra aujtovcqona ”Wgugon), sembra da porre in relazione con un
filone risalente appunto ad Ellanico (FGrHist 4 F 51) e a Filocoro (FGrHist 328
F 94)39. Gli Ecteni di Ogigo, anch’essi probabilmente autoctoni ed estinti per una
pestilenza, furono sostituiti dagli Ianti e dagli Aoni, che Pausania ritiene Beoti
(IX 5, 1: Boiwvtia ejmoi; dokei`n gevnh kai; oujk ejphluvdwn ajnqrwvpwn)40; sconfitti

36
L’espressione tò Arkadikón indica, in realtà, il koinón arcadico.
37
Cfr., per ulteriore approfondimento, C. Bearzot, Federalismo e autonomia nelle Elleniche di
Senofonte, Milano 2004, 127 ss.
38
Cfr. supra, n. 32.
39
Cfr. R.J. Buck, A History of Boeotia, Edmonton 1979, 45, il quale ritiene comunque che anche
FGrHist 4 F 161 possa essere riferito ai Tebani.
40
Barbari li riteneva invece Ecateo (FGrHist 1 F 119).
Autoctonia, rifiuto della mescolanza, civilizzazione 17

dai Fenici di Cadmo, gli Ianti fuggirono, mentre gli Aoni rimasero e si fusero con
gli invasori.
Il significato democratico assunto dal tema dell’autoctonia dei Tebani nel con-
testo storico del IV secolo è stato ricordato più sopra in relazione al mito degli
Sparti. Esso potrebbe tuttavia trovare un’altra e più antica radice nella necessità,
da parte di Tebe, di contrastare le pretese egemoniche di Orcomeno, che aveva
controllato la Beozia in età arcaica41 e il cui antico dominio era ricordato ancora
da Isocrate, nel Plataico, come fondamento della resistenza alle ambizioni di
Tebe (§ 10: «Se guardano alla tradizione, non sono loro [sc. i Tebani] a dover
comandare agli altri, ma piuttosto a dover pagare tributo agli Orcomenii; così
appunto stavano le cose nel tempo antico»). Il ruolo svolto dallo straniero Cadmo
nella fondazione di Tebe, negativamente considerato nella tradizione ateniese42,
sarebbe potuto risultare nocivo alle ambizioni tebane: di qui la necessità di rie-
quilibrarlo con leggende come quelle degli Sparti e di Ogigo, che accostavano
all’eroe fondatore straniero un sovrano autoctono e compagni anch’essi autocto-
ni, e che, coniugando modello autoctono e modello straniero, contribuivano a
legittimare il contestato ruolo di Tebe in Beozia, terra d’immigrazione (Thuc. I 2,
3) in cui l’autoctonia poteva costituire un solido argomento a sostegno di aspira-
zioni egemoniche.
Sempre in ambito beotico, è interessante la tradizione sull’autoctonia dei
Plateesi, conservata da Pausania (IX 1, 1: oiJ de; Plataiei`~ to; ejx ajrch`~ ejmoi;
dokei`n eijs in aujtovcqone~), che non ne esplicita l’origine. Ad essa si oppongo-
no tradizioni di segno diverso, secondo le quali Platea sarebbe stata colonia dei
Tebani (Thuc. III 61, 2) o degli Ateniesi (Heraclid. fr. I, 11 Pfister). Tucidide fa
rivendicare ai Tebani, nel 427, la fondazione di Platea, in seguito alla cacciata di
popolazioni miste:
«Noi divenimmo loro nemici per la prima volta quando, dopo la nostra fon-
dazione di Platea e di altri luoghi della Beozia – luoghi che occupammo dopo
aver scacciato popolazioni miste –, costoro non vollero lasciarsi guidare da
noi come era stato prima stabilito, ma separati dagli altri Beoti, violando le
leggi della patria, quando si videro costretti si avvicinarono agli Ateniesi e
assieme a loro ci recarono gravi danni e altri ne subirono a loro volta».

Eraclide Critico, nel suo scritto Sulle città della Grecia, scrive a proposito di
Platea che i cittadini dicono di essere coloni degli Ateniesi (o{ti jAqhnaivwn eijs i;n

41
Cfr. Buck, A History of Boeotia, cit., 97-98; inoltre, L. Prandi, I Flegiei di Orcomeno e Delfi, in
Religione e politica nel mondo antico, CISA 7, Milano 1981, 51-63.
42
Cfr. Montanari, Il mito dell’autoctonia, cit., 150 ss.; Loraux, Né de la terre, cit., 88 ss.; Detienne,
The Art of Founding Autochthony, cit., 53 ss.
18 Cinzia Bearzot

a[poikoi) e che sono jAqhnai`oi Boiwtoiv43.


Questo complesso di tradizioni rivela una polemica sulla posizione di Platea
in Beozia: se la tradizione sull’autoctonia affranca Platea dalla dipendenza sia
da Tebe sia da Atene e le dà un ruolo particolarmente autorevole fra le altre città
beotiche, le due tradizioni ‘coloniali’ sono sospette, giacché la prima intende
chiaramente giustificare le ambizioni tebane di controllo su Platea44, mentre la
seconda (che sembra più tarda, dato che non vi è cenno in proposito nel dibattito
del 427 riportato da Tucidide nel III libro) pone l’attenzione, giustificandolo,
sul rapporto privilegiato intrattenuto dai Plateesi con Atene fin dalla fine del VI
secolo. Ma la relazione tra le diverse tradizioni sembra indubbia: poiché, infatti,
la rivendicazione tebana di aver colonizzato Platea era rafforzata dalla pretesa
dei Tebani stessi di aver occupato la Parasopiade cacciandone una popolazione
mista (xummeivktou~ ajnqrwvpou~), è probabile che la tradizione sull’autoctonia
plateese reagisca appunto alla pretesa tebana di aver scacciato dal territorio di
Platea un ‘popolo misto’, o peggio ancora, come attesta Eforo (FGrHist 70 F 21),
di averlo aggregato ai Beoti col nome di Thebagheneis (ejkalou`nto de; Qhbage-
nei`~, o{ti prosegevnonto toi`~ a[lloi~ Boiwtoi`~ dia; Qhbaivwn), sottolineando
ulteriormente il legame tra Tebe e Platea45.
In Beozia, dunque, le tradizioni sull’autoctonia appaiono particolarmente dif-
fuse e tendono a legittimare un ruolo egemonico (quello di Tebe) o a rivendicare
l’indipendenza (quella di Platea rispetto a Tebe, che pretendeva di averla colo-
nizzata allontanando, o integrando, una popolazione mista). In tutti i casi, è for-
temente presente il problema degli apporti stranieri, da quello del fenicio Cadmo
a quello dei xummeivktoi a[nqrwpoi della zona di Platea: apporti che la tradizione
locale tende a ridimensionare, sovrapponendovi miti legittimanti di autoctonia.
Essere autoctoni, non mescolati e culturalmente autonomi da apporti esterni co-
stituisce, per le comunità il cui ruolo egemonico o la cui indipendenza sono messi
in discussione, una incontestabile fonte di legittimazione.

1.4. Un ultimo caso interessante riguarda gli Egineti, ricordati come autoctoni,
con Ateniesi, Arcadi e Tebani, dal ricordato lemma Aujtovcqone~ di Arpocrazio-
ne. L’autoctonia degli Egineti sarebbe presente già in Esiodo (fr. 205 Merkel-
bach-West = Schol. Pi. N. III 21); Pausania (II 29, 2) afferma che Zeus avrebbe
fatto nascere dalla terra gli Egineti per procurare sudditi al figlio Eaco (to;n Diva

43
Cfr. F. Pfister, Die Reisenbilder des Herakleides, Sitzungsberichte der Österreichischen Akade-
mie der Wissenschaften 227, 2, Wien 1951, 146.
44
In opposizione con la tradizione che faceva di Anfione e Zeto, proveniente dalla Parasopiade, i
fondatori di Tebe: cfr. Prandi, Platea, cit., 19 ss.
45
La progressiva identificazione dei Thebagheneis con gli Sparti di Cadmo è attestata in Androzio-
ne (FGrHist 324 F 60) e in Diodoro (XIX 53, 4): cfr. Sordi, Mitologia e propaganda, cit., 275 ss.
Autoctonia, rifiuto della mescolanza, civilizzazione 19

ajnei`nai tou;~ ajnqrwvpou~ fasi;n ejk th`~ gh`~)46. Riferimenti all’autoctonia de-
gli Egineti, in collegamento con il mito degli Eacidi, sono presenti in Pindaro e
sono stati studiati analiticamente da Jeffrey Carnes come espressione di rivalità
con Atene (con la quale viene sottolineata un’opposizione) e con Sparta (dalla
quale viene rivendicata l’indipendenza)47; è stato inoltre osservato che, forse, la
vicenda erodotea delle statue delle dee Damia e Auxesia, sottratte dagli Egineti
agli Epidauri e piantate nel centro della loro isola (V 82-89), potrebbe esprimere
una rivendicazione di autoctonia48. Il tema dell’autoctonia degli Egineti – il cui
sviluppo fu impedito dall’espulsione degli Egineti dalla loro isola nel 431 – po-
trebbe dunque essere espressione delle tensioni per il controllo del golfo Saronico
ed esprimere, ancora una volta, una rivendicazione di legittimità per le proprie
pretese egemoniche o autonomistiche.

A conclusione di questo primo punto, possiamo affermare che il mito dell’au-


toctonia, collegato con l’antichità di un popolo, con l’occupazione stabile del
territorio, con la non mescolanza con stranieri, con l’‘invenzione’ di tevcnai e
l’adozione di pratiche di civilizzazione, riveste nel mondo greco un ruolo fonda-
mentale nella rivendicazione della propria identità etnico-culturale ed è usato, di
volta in volta, per affermare la superiorità di un popolo rispetto agli altri ponen-
do l’accento su aspetti diversi: dall’uguaglianza ‘democratica’ tra le componenti
della cittadinanza alla difesa dei propri privilegi (ad Atene e nella Tebe demo-
cratica del IV secolo), dalla giustificazione di pretese egemoniche su elementi
culturalmente affini (l’egemonia di Atene sulla Ionia, quella di Tebe in Beozia)
alla rivendicazione nazionalistica dei propri diritti ancestrali su un territorio con-
tro usurpatori di diversa origine (l’indipendenza degli Arcadi da Sparta e da in-
gerenze esterne al Peloponneso, quella dei Plateesi da Tebe), fino alla rivalità tra
potenze gravitanti su una medesima area di influenza (Atene/Egina, Tebe/Platea).
In tutti i casi, appare forte la tendenza a sottolineare la propria identità politica e
culturale nei confronti di altre realtà etnico-culturali, anche interne al mondo el-
lenico, verso le quali viene percepita e sottolineata, a diversi livelli, un’estraneità
che rifiuta ogni prospettiva di integrazione.

46
«Gli Egineti abitano l’isola dirimpetto alla regione di Epidauro. Dicono che essa non fosse in
origine abitata da uomini: era deserta, quando Zeus vi portò Egina, la figlia di Asopo, e l’isola ebbe
questo nome in luogo del primo, che era Enone; narrano poi che Eaco, una volta cresciuto, chiese a
Zeus degli abitanti, e così il dio li fece balzare direttamente dalla terra». Apollodoro (Bibl. III 12, 6
ss.) e Strabone (VIII 6, 16) parlano invece di Mirmidoni, uomini nati dalle formiche. Cfr. D. Musti,
in Pausania, Guida della Grecia, II, La Corinzia e l’Argolide, Milano 1986, 308.
47
Cfr. J.S. Carnes, Pindar’s Use of the Aiginetan Autochthony Myths, Diss. Chapel Hill 1986.
48
Cfr. Montanari, Il mito dell'autoctonia, cit., 150-151. Sulla vicenda erodotea cfr. G. Nenci, in
Erodoto, Le Storie, V, La rivolta della Ionia, Milano 1994, 280 ss.
20 Cinzia Bearzot

Particolarmente interessante, a questo proposito, è il contributo di Isocrate,


che appare come un teorico del rifiuto della mescolanza49; nei suoi interventi,
autoctonia e civilizzazione non possono essere scissi, come mostra l’elogio della
generosità di Atene nel far parte a tutti i Greci dei tesori della sua civiltà au-
toctona, mentre gli apporti culturali provenienti dall’esterno non trovano alcuna
valorizzazione:
« [La nostra città] è stata non solo la protagonista dei cimenti bellici, ma an-
che la promotrice di ogni altra istituzione, in mezzo a cui viviamo, con cui ci
reggiamo politicamente e grazie a cui possiamo sostentare la nostra vita. ...
In primo luogo, dunque, il bisogno primario della nostra natura fu soddisfatto
grazie alla nostra città. ... Quando Demetra giunse nel nostro paese al tempo
delle sue peregrinazioni causate dal ratto di Core, concepì benevolenza verso
i nostri progenitori per i loro servigi, di cui nessun altro all’infuori degli ini-
ziati può sentir parlare, ed elargì loro due doni, i supremi fra tutti, le biade che
ci hanno permesso di elevarci sul modo di vivere ferino, e l’iniziazione, che
consente ai partecipanti di nutrire più dolci speranze per la fine della vita e per
tutta l’eternità. Ora, la nostra città fu non solo così amata dagli dei, ma anche
così amante degli uomini che, diventata signora di beni così preziosi, non li
negò ad altri, ma fece parte a tutti di ciò che aveva ricevuto. E i misteri ancor
oggi li celebriamo annualmente; quanto alle biade, la nostra città insegnò una
volta per sempre l’uso, la coltura e i vantaggi che ne derivano. ... Ma, a parte
ciò, se tralasceremo tutti questi argomenti per indagare sulle origini, vedremo
che i primi uomini apparsi sulla terra non trovarono subito quel tenore di vita
che hanno adesso, ma a poco a poco se lo procurarono con i loro sforzi. Chi
dunque si deve ritenere che più probabilmente l’abbia ricevuto in dono dagli
dei o conseguito con le proprie ricerche? Non forse coloro che, per ammissio-
ne generale, furono i primi venuti al mondo e sono i più portati per natura alle
arti e i più pii verso gli dei? (Paneg. 26-33)»50.

« [I nostri antenati] amministrarono sia gli affari della città sia i propri così
santamente e nobilmente come conveniva a uomini discesi dagli dei, che per
primi avevano abitato una città e obbedito a leggi, che in ogni tempo avevano
praticato la pietà verso gli dei e la giustizia verso gli uomini, che non erano
misti di varie razze né di origine straniera (mhvte migavda~ mht j ejphvluda~),
ma che soli fra gli Elleni erano autoctoni, avevano come nutrice quella terra
da cui erano nati e amavano il loro paese come i migliori figli amano i propri
padri e le proprie madri (Panath. 124-125)».

49
Cfr. C. Bearzot, Xenoi e profughi nell’Europa di Isocrate, in Integrazione, mescolanza, rifiuto.
Incontri di popoli, lingue e culture in Europa dall’Antichità all’Umanesimo, Atti del Convegno di
Cividale del Friuli, 21-23 settembre 2000, Roma 2001, 47-63.
50
Cfr. § 39: «Per prima si diede leggi e stabilì una costituzione».
Autoctonia, rifiuto della mescolanza, civilizzazione 21

Uno dei risvolti dell’autoctonia è, infatti, la grande antichità (già abbiamo


ricordato Hdt. VII 161, 3, che definisce gli Ateniesi ajrcaiovtaton gevno~); gli
autoctoni, quindi, iniziano prima il processo di civilizzazione consistente nel col-
tivare i cereali e l’ulivo, nell’apprendere diverse tevcnai (tra cui l’uso delle armi
a scopo di difesa), nell’abitare una polis, nell’usare novmoi, nell’osservare la reli-
gione51. Inoltre, gli autoctoni non sono migavde~ e come tali non devono nulla ad
apporti esterni; l’idea dell’autoctonia si unisce all’indisponibilità ad ammettere
imprestiti culturali. Tali imprestiti infatti, anche se parzialmente praticati52, sono
in realtà temuti sul piano teorico, tanto che Platone e Aristotele evitano accurata-
mente il rischio di mescolanze con stranieri, specialmente barbari, nelle loro città
ideali53.
Solo raramente la mescolanza può assumere valore positivo54: nel caso in cui
essa si accompagni ad un’espansione greca a danno dei barbari, come nella mi-
grazione ionica o nell’ellenizzazione delle città cipriote; in contesti particolari,
come per esempio nella Sicilia dell’età di Dionisio I, quando Filisto sembra teo-
rizzare la dynasteia europea di Dionisio come un impero sovranazionale e mul-
tietnico55; oppure, nel caso in cui si debba sostenere il diritto di un invasore, come
nell’Archidamo di Isocrate (§ 32)56. Ma si noti, in particolare nei primi due casi,
che qui sono i Greci ad essere giunti da fuori presso ‘autoctoni’, in realtà geogra-
fiche etnicamente assai composite come l’Asia Minore, Cipro e la Sicilia, dove
il loro apporto civilizzatore venne accolto in modo complessivamente positivo e
diede significativi risultati di integrazione culturale e, soprattutto, di acquisizione
alla civiltà greca di nuovi territori.

51
Oltre ai citati passi di Isocrate, cfr. Plato Mx. 237e ss.
52
Cfr. Lenfant, Mélanges ethniques et emprunts culturels, cit., 59-77, più propensa ad ammettere la
disponibilità in questo senso rispetto a A. Diller, Race Mixture Among the Greeks before Alexander,
Urbana 1937, convinto che i Greci temessero i contatti culturali più delle commistioni etniche.
53
Cfr. Gotteland, L’origine des cités grecques, cit., 86 ss.
54
Cfr. Gotteland, L’origine des cités grecques, cit., 83 ss.
55
Cfr. M. Sordi, L’Europa di Filisto, in Studi sull’Europa antica, I, Alessandria 2000, 61-76.
56
Ma si osservi che lo stesso Isocrate esprime parere opposto nel Panegirico, §§ 61-65, dove si
sottolinea il carattere di ejphvlude~ degli Spartani, e soprattutto nel Panatenaico, §§ 45-46, dove gli
Spartani stessi finiscono per negare l’aspetto civilizzatore della loro invasione trascurando «l’agri-
coltura, le arti e ogni altra attività» in nome delle esigenze della conquista. Cfr. C. Bearzot, Uomini
ed eventi del passato spartano nell’oratoria attica, in Costruzione e uso del passato storico nella
cultura antica, Atti del Convegno di Firenze, 18-20 settembre 2003, in corso di stampa.
22 Cinzia Bearzot

2. Tra autoctonia e civilizzazione: l’India di Megastene

Il mito dell’autoctonia è dunque un mito di identità, non di integrazione; se la


purezza etnica (essere eijlikrinw`~, o kaqarw`~ {Ellhne~) è un valore e la mesco-
lanza (essere misti di varie razze, migavde~, e di origine straniera, ejphvlude~) un
disvalore, l’incontro con altri popoli e culture non può trovare valorizzazione da
parte di chi si rifà all’autoctonia. Viceversa, laddove la necessità di confrontarsi
con altre culture si impone, il mito dell’autoctonia perde di attualità; e infatti le
attestazioni della terminologia dell’autoctonia nelle fonti non classiche, o non
riferite all’età classica, sono del tutto irrilevanti.
Diventa allora interessante Diodoro II 38, 1, che, pur non citandolo mai, risale,
come concordemente ammesso in base al confronto con Strabone (XV) e Arriano
(VII-VIII) che invece fanno a lui espressamente riferimento in più occasioni, a
Megastene (FGrHist 715 F 4 = Diod. II 35-42)57, inviato di Seleuco I presso il re
Chandragupta nel 304/3 e autore di Indiká in 4 libri, redatti tra 305 e 290 circa58.
In questo passo Diodoro, in base a Megastene, riferisce del carattere autoctono
dei popoli indiani:
«Si dice59 che abitino l’intera India, che è immensa, molti popoli di varie
razze, e che nessuno di essi abbia avuto origine, all’inizio, in terra straniera,
mentre pare che tutti siano autoctoni; inoltre si dice che il paese non abbia
mai accolto una colonia straniera, né mai ne abbia inviata una presso un altro
popolo».

L’affermazione è inserita in un contesto molto idealizzato, simile a quella che


altri etnografi presentavano per altri popoli, e suggerisce che Megastene appli-
casse alle vicende dell’India categorie greche tradizionali, prima fra tutte quella

57
Cfr., per uno status quaestionis, Cordiano, in Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libri I-III, cit.,
62 ss. e 521, n. 1; più analiticamente, A. Zambrini, Gli Indika di Megastene, I, ASNP s. III, 12,
1982, 71-149; II, ASNP s. III, 15, 1985, 781-853; Id., A proposito degli Indika di Arriano, ASNP
s. III, 17, 1987, 139-154; contra R.C. Majumdar, The Indika of Megasthenes, JAOS 78, 1958, 273-
276; ad una mediazione di Agatarchide pensa C. Dognini, L’Indiké di Arriano. Commento storico,
Alessandria 2000, 209 ss.
58
Così la vulgata, su cui cfr. fra gli altri E. Olshausen, Prosopographie der hellenistischen Kö-
nigs-gesandten, Leuven 1974, 172-174, nr. 127; Zambrini, Gli Indika di Megastene, I, cit., 71-72.
Essa è stata ora rimessa in discussione, sulla scorta di una suggestione di Brown, The Merits and
Weakness of Megasthenes, cit., 12 ss., da A.B. Bosworth, A Historical Commentary on Arrian’s
History of Alexander, II, Oxford 1995, 242 ss.; Id., The Historical Setting of Megasthenes’ Indica,
CPh 91, 1996, 113-127; cfr. in proposito infra, 27-28. Per una sintesi recente su Megastene e la
sua attività, con ampi riferimenti bibliografici, cfr. K. Karttunen, India and the Hellenistic World,
Studia Orientalia, 83, Helsinki 1997, 70 ss.
59
La dipendenza della frase da levgetai indica la sospensione del giudizio storico: cfr. Cordiano,
in Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libri I-III, cit., 38 ss., partic. 43-44.
Autoctonia, rifiuto della mescolanza, civilizzazione 23

dell’autoctonia60 che intende esprimere l’autonomia, l’originalità e l’intrinseco


valore della civiltà indiana61. Diodoro prosegue poi su questa linea, tratteggiando
uno sviluppo culturale del tutto immune da apporti esterni, secondo le coordinate
tradizionali dell’autoctonia: prima raccoglitori di ciò che la natura spontanea-
mente offriva, i popoli dell’India, come quelli della Grecia, inventarono in se-
guito le tevcnai e tutto ciò che è utile per la vita (tw`n tecnw`n ... kai; tw`n a[llwn
pro;~ to;n bivon crhsivmwn: la visione è la stessa presente in Diod. I 9, 3, il passo
da cui siamo partiti).
Fin qui, dunque, nulla di nuovo: autoctoni e quindi da tempi antichissimi stan-
ziati nella loro terra, gli Indiani hanno conosciuto una evoluzione culturale spon-
tanea, immune da apporti esterni e da fenomeni di natura coloniale, nell’uno e
nell’altro senso. Il carattere greco, e fortemente idealizzato, di questa visione
è stato ampiamente sottolineato. In un celebre intervento incentrato sui debiti
della storiografia ellenistica nei confronti di Erodoto, O. Murray62 ha avanzato
l’ipotesi che Megastene scrivesse sull’India replicando ad Ecateo di Abdera e
strutturando dunque la sua opera su quella del predecessore: l’intento sarebbe
quello di rappresentare l’India come un paese ideale, un modello per l’impero
dei Seleucidi, come lo era l’Egitto per l’impero dei Tolemei. A. Zambrini63 ha
opportunamente ridiscusso e messo a fuoco l’ipotesi di Murray, sottolineando
che gli Indiká sono certamente espressione di una etnografia propagandistica, che
60
Nei frammenti di Megastene non vi è riferimento esplicito al termine autoctonia: tuttavia, i
FF 11a e 11b parlano espressamente dell’isolamento dell’India, che non fece mai guerra ad altri
popoli né subì mai invasioni o dominazioni (ad esclusione delle spedizioni di Dioniso, Eracle ed
Alessandro).
61
La presenza in Megastene di buone tradizioni locali indiane, accanto ad elementi della tradi-
zione greca, è ammessa da K. Meister, La storiografia greca, trad. it., Roma-Bari 1992 (= Stutt-
gart-Berlin-Köln 1990), 167-168; Karttunen, India and the Hellenistic World, cit., 76 ss.; cfr., su
singoli argomenti, F.F. Schwarz, Onesikritos und Megasthenes über den Tambapannidipa, GB 5,
1976, 233-263; I. Puskás, Indian Religions in Classical Sources, ACD 25, 1989, 61-66. Maggiore
scetticismo sull’uso e sulla corretta comprensione di tradizioni locali, e quindi sull’attendibilità di
Megastene, è espressa da T.S. Brown, The Reliability of Megasthenes, AJPh 76, 1955, 18-33; Id.,
The Merits and Weakness of Megasthenes, Phoenix 11, 1957, 12-24; Majumdar, The Indika, cit.,
276; T.S. Brown, A Megasthenes Fragment on Alexander and Mandanis, JAOS 80, 1960, 133-135.
Cfr. in particolare, per i problemi relativi ad alcuni aspetti istituzionali e culturali, L. Skurzak, En
lisant Mégasthène. Nouvelles observations sur la civilisation indienne, Eos 67, 1979, 69-74; J.
Sachse, Le problème de la non-existence de l'esclavage en Inde selon Onésicrite et Mégasthène,
Eos 71, 1983, 299-308; Karttunen, India and the Hellenistic World, cit., 82 ss.; per un’ottima messa
a fuoco metodologica cfr. Zambrini, Gli Indika di Megastene, II, cit., 802 ss. Un’ampia sintesi
ragionata della bibliografia su Megastene è fornita in Zambrini, Gli Indika di Megastene, I, cit., 71
ss., insieme ad una accurata disamina dei suoi rapporti con la precedente etnografia greca (102 ss.;
a questo proposito cfr. K. Karttunen, India in Early Greek Literature, Helsinki 1989); per un’utile
esemplificazione, cfr. K. Karttunen, A Miraculous Fountain in India, Arctos 19, 1985, 55-65.
62
O. Murray, Herodotus and Hellenistic culture, CQ 22, 1972, 200-213.
63
Zambrini, Gli Indika di Megastene, I, cit., 97 ss. e 140 ss.; II, cit., 781-853.
24 Cinzia Bearzot

idealizza l’India in quanto terra proposta come modello ideale per il regno seleu-
cidico, ma esprimendo dubbi sull’esistenza di uno scontro ideologico con Ecateo.
Se infatti sia l’etnografia ecataica che quella megastenica appaiono certamente
a servizio delle due monarchie ellenistiche, fornendo loro elementi di appoggio
culturale e di giustificazione ideologica, è anche vero che la situazione delle due
aree appare diversa: quando Megastene scrive, agli inizi del III secolo, l’India è
ormai perduta per i Seleucidi, mentre l’Egitto resta la base del potere tolemai-
co. Più che di rispondere ad Ecateo, dunque, Megastene si sarebbe preoccupato
di proporre un modello politico-sociale e culturale adatto alle caratteristiche del
regno seleucidico, comportante uno stato centralizzato e una società rigidamente
gerarchizzata, guidati da un re capace di porsi come mediatore delle differenze
etniche e culturali.
Il carattere di modello ideale dell’India di Megastene64 spiega bene l’adozione
di categorie greche come quella dell’autoctonia: analoghe esigenze propagan-
distiche guidano però Megastene ad affrontare in modo inedito il problema del
rapporto tra autoctonia e sviluppo culturale. Anche in questo caso, notevole è
la differenza rispetto ad Ecateo: mentre quest’ultimo presenta l’Egitto non solo
come una società perfetta, con governo, leggi e costumi ideali, guidata da un re
illuminato e paternalista dai tratti tipicamente ellenistici, ma anche come culla
della civiltà e colonizzatore di tutta l’ecumene, in modo da presentare i Greci
come coloni egiziani e rendere così meglio accetta la dinastia tolemaica, Mega-
stene propone un’India che, pur presentando analoghi tratti fortemente idealizza-
ti, non è fonte di civiltà per altri popoli65. L’autoctonia dei suoi abitanti e il suo
conclamato isolamento culturale («si dice che il paese non abbia mai accolto una
colonia straniera, né mai ne abbia inviata una presso un altro popolo»), lungi dal
costituire un punto di partenza per la diffusione di una civiltà originale (come
era stato nel caso di Atene), vengono piuttosto coniugati con l’accoglienza degli
insegnamenti di due grandi eroi civilizzatori, Dioniso ed Eracle.
Dopo aver negato rapporti con altri popoli e aver affermato che in India «pro-
gressivamente vennero inventate le arti e le altre cose utili per la vita», Diodoro
(II 38, 3-6) espone infatti il racconto dei loghiotatoi fra gli Indiani (attribuito, in
II 39, 1, agli «abitanti della regione montuosa dell’India»):
«Dioniso giunse dalle contrade d’Occidente con una considerevole armata;
visitò tutta quanta l’India, poiché nessuna città importante era in grado di op-
porglisi. ... Poi, occupandosi della conservazione dei raccolti, mise a parte di
questa conoscenza gli Indiani, e trasmise loro la scoperta del vino e delle altre
cose utili alla vita. Inoltre, divenne fondatore di città importanti, riunendo i
64
Cfr. anche G. Bruno Sunseri, L’ jIndikh; cwvra da Scilace ad Alessandro Magno, in POIKILMA.
Studi Cataudella, I, La Spezia 2002, 201-217.
65
Zambrini, Gli Indika di Megastene, II, cit., 781 ss.
Autoctonia, rifiuto della mescolanza, civilizzazione 25

villaggi insieme e trasferendoli in località in buona posizione, e insegnò loro a


onorare la divinità e introdusse leggi e tribunali; in generale, dal momento che
introdusse molte belle attività, fu ritenuto un dio e ottenne onori immortali».

Viene qui riproposta l’idea tipicamente greca di Dioniso eroe civilizzatore,


secondo uno schema consueto: l’eroe conduce una spedizione militare, insegna
la cerealicoltura e la viticoltura, promuove fondazioni di città, introduce leggi e
culti, e infine viene divinizzato. Che questa vicenda fosse presente in Megastene
è dimostrato dal confronto con Strabone (XV 1, 6-7 = FGrHist 715 F 11a) e Ar-
riano (Ind. V 4 ss. = FGrHist 715 F 11b).
In II 39, 1-4 Diodoro riferisce poi di un altro racconto degli Indiani, i quali
«affermano che Eracle nacque presso di loro e, analogamente ai Greci, gli at-
tribuiscono la clava e la leontea. Per la sua forza fisica e la sua prodezza eccel-
leva di molto sugli altri uomini e sgombrò dalle bestie selvatiche terra e mare.
... Divenne fondatore di non poche città, e la più famosa e la più grande di esse
la chiamò Palibotra; vi fece costruire anche una reggia sontuosa e vi stabilì un
gran numero di abitanti; fortificò la città con notevoli fossati, riempiti d’acqua
di fiume. E quando Eracle fu trapassato dal mondo dei vivi, ottenne onore im-
mortale, mentre i suoi discendenti, che pure regnarono per molte generazioni
e realizzarono imprese notevoli, non fecero né una spedizione militare oltre
confine, né inviarono una colonia presso un altro popolo».

Eracle dunque sarebbe nato in India e avrebbe liberato il paese dalle bestie
selvatiche, il che costituisce il necessario presupposto della civilizzazione; fu il
fondatore di Pataliputra, la capitale del regno di Chandragupta; dopo la sua mor-
te, per l’India si ripropone lo stato di isolamento originario, dato che i sovrani
successori di Eracle non ricevono né inviano colonie. Anche la storia di Eracle in
India era riportata da Megastene, come attesta Arriano (Ind. VIII 4 ss. = FGrHist
715 F 12a).
L’India è presentata così da Megastene non come una forza civilizzatrice, qua-
le appunto l’Egitto di Ecateo (e di Erodoto prima di lui), ma come una ‘colonia’
sul piano culturale: o meglio come un paese di autoctoni chiusi a qualsiasi in-
fluenza, tranne che a quella di eroi civilizzatori evidentemente greci. I moderni
hanno discusso se si debba ritenere che dietro le figure di Dioniso e di Eracle
si nascondano divinità locali o se la loro identità sia, come pare più probabile,
interamente greca66: certo le loro vicende parallele evocano irresistibilmente la

66
Per questa seconda ipotesi si pronuncia S.S. Hartman, Dionysos and Heracles in India According
to Megasthenes. A Counter-Argument, «Temenos» 1, 1965, 55-64, contro A. Dahlquist, Megasthe-
nes and Indian religion, Stockholm 1962; altra bibliografia in Dognini, L’Indiké di Arriano, cit.,
214 ss.; opportunamente, a mio parere, si esprime Zambrini, Gli Indika di Megastene, I, cit., 100,
affermando di non essere convinto che nelle figure greche di Dioniso ed Eracle vadano ricercate a
tutti i costi due divinità indiane.
26 Cinzia Bearzot

figura di Alessandro, che, peraltro, si proponeva espressamente di emulare i due


semidei (secondo Arr. V 2, 1, Alessandro a Nisa rifletteva sul fatto che «era giun-
to ormai dove era arrivato Dioniso, e sarebbe andato più lontano del dio»; cfr.
Iustin. XII 7, 6: laetus non militiam tantum, verum et vestigia se dei [scil. Diony-
si] secutum; Iustin. XII 7, 13: captus itaque cupidine Herculis acta superare)67.
L’assimilazione tra Alessandro e Dioniso, tra Alessandro ed Eracle era tipica
della propaganda e della storiografia di Alessandro, a partire da Clitarco68; essa
assunse un ruolo ancora maggiore nella propaganda dei diadochi (tra cui Seleu-
co)69 e nella relativa storiografia (compreso Megastene)70; e proprio nel contesto
di impronta megastenica che ci interessa Diodoro ricorda, in II 39, 4, il passaggio
di Alessandro in Asia come terzo elemento di rottura nell’unità culturale indiana
dopo l’arrivo di Dioniso e di Eracle.
Megastene dunque, come ha messo in evidenza A. Zambrini71, ammette e va-
lorizza il carattere autoctono degli abitanti dell’India e il suo assoluto isolamento
storico (una visione che esclude la possibilità di pretese conquiste dell’India da
parte di figure appartenenti a culture non greche)72, per ammetterne la violazione
solo da parte degli eroi civilizzatori greci Dioniso ed Eracle e del loro epigono
Alessandro, la cui spedizione ripropone e porta a compimento l’opera dei mitici
precursori. La cultura greca appare così l’unica capace di ottenere, nell’India del-
l’autoctonia e dell’isolamento culturale, un riconoscimento di superiorità tale da
spezzare tale isolamento e da aprirla, se pure solo momentaneamente (giacché di
nuovo, dopo la morte di Eracle, i suoi discendenti «non fecero né una spedizione
militare oltre confine, né inviarono una colonia presso un altro popolo»), a fecon-
de influenze esterne.

67
Paragoni tra Alessandro da una parte e Dioniso ed Eracle dall’altra, a favore del re, erano espressi
da Anassarco secondo Arr. Ind. IV 10, 6 e da Agide e Cleone secondo Curt. VIII 5, 8.
68
Cfr. A.D. Nock, Notes on Ruler-Cult, I. Alexander and Dionysos, JHS 48, 1928, 21-43; P. Gou-
kowsky, Essai sur les origines du mythe d’Alexandre, II, Nancy 1981, 36 ss.; L. Prandi, Fortuna
e realtà dell’opera di Clitarco, Historia Einzelschr. 104, Stuttgart 1996, 162 ss.; A.B. Bosworth,
Alexander and the East, Oxford 1996, 98 ss.
69
Cfr. R.A. Hadley, Seleucus, Dionysus or Alexander?, NC 14, 1974, 9-13, sull’uso dell’immagine
di Alessandro raffigurato come Dioniso nella monetazione di Seleuco; cfr. in particolare, per le
fonti su Alessandro e Dioniso, 12-13.
70
Cfr. Cordiano, in Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libri I-III, cit., 68-69. Il rapporto fra le figure
di eroi/re civilizzatori e quella di Alessandro è messo in evidenza da M. Sartori, Storia, “utopia” e
mito nei primi libri di Diodoro, «Athenaeum» 62, 1984, 492-536.
71
A. Zambrini, Idealizzazione di una terra. Etnografia e propaganda negli Indiká di Megastene,
in Modes de contacts et processus de transformation dans les sociétés antiques, Actes du Colloque
de Cortone, 24-30 mai 1981, Pisa-Roma 1983, 1105-1118; Id., Gli Indika di Megastene, II, cit.,
781 ss.
72
Cfr. ancora Strabo XV 1, 6-7 (= FGrHist 715 F 11a) e Arr. Ind. V 4 ss. (= FGrHist 715 F 11b).
Autoctonia, rifiuto della mescolanza, civilizzazione 27

Autoctonia e isolamento dalle influenze culturali straniere vengono dunque,


nella visione di Megastene, coniugati con l’accoglienza di eroi civilizzatori greci,
Dioniso, Eracle ed Alessandro: questa visione accosta un’autonomia culturale
riconosciuta, espressa nell’idea dell’autoctonia, alla disponibilità ad accogliere
l’influenza greca e i relativi apporti culturali. I re autoctoni dei Greci sono spesso,
come è stato sottolineato, anche eroi civilizzatori, che si opponevano agli eroi
civilizzatori stranieri come Pelope e Cadmo73; nel caso indiano, l’autoctonia non
esclude apporti culturali da parte di eroi civilizzatori stranieri, cosicché l’autocto-
nia perde quei risvolti di esclusività evidenti nel contesto storico del mondo delle
poleis e può infine essere inserita in un nuovo contesto di confronto culturale e di
progressiva integrazione tra culture.
Questa nuova applicazione del concetto di autoctonia si comprende bene nel-
la prospettiva tradizionale, accolta e sviluppata da Zambrini, che considera gli
Indiká di Megastene come un’opera espressamente concepita in riferimento a
problemi e finalità dell’impero seleucidico, per fornire un modello ideale di stato
e di società che potesse contribuire alla riflessione sull’edificazione di una real-
tà statale complessa e articolata, completamente nuova per i Greci. Abbastanza
recentemente, tuttavia, A.B. Bosworth74 ha avanzato una nuova ipotesi sul con-
testo cronologico dell’attività diplomatica e storiografica di Megastene. La sua
missione presso Chandragupta, solitamente collegata con un incarico di Seleuco
e collocata nel 304/3, sarebbe in realtà da porre, sulla base di Arr. Ind. V 3, negli
anni 320-318, quando egli, nell’ambito dei suoi rapporti con Sibirzio, satrapo
dell’Aracosia, avrebbe incontrato, poco dopo la morte di Alessandro, sia Chan-
dragupta sia Poro. Il testo tràdito di Arriano, infatti, suona Megasqevnh~ ... sug-
genevsqai gavr Sandrakovttw/ levgei, tw/` megivstw/ basilei`' ∆Indw`n, kai; Pwvrw/
e[ti touvtou meivzoni («Megastene … dice infatti di avere incontrato Sandracotto,
il più grande re indiano, e Poro, ancora più grande di lui»); nonostante esso non
crei problemi di ordine linguistico, Schwanbeck lo ha emendato in kai; Pwvrou
e[ti touvtw/ meivzoni75, che costringe a tradurre «Megastene ... dice infatti di avere
incontrato Sandracotto, il più grande re indiano, più grande persino di Poro»76.

73
Cfr. Loraux, Né de la terre, cit., 28 ss.; D. Viviers, Vrais et faux Crétois, «Topoi» 6, 1996, 205-
220, partic. 210 ss.
74
Bosworth, The Historical Setting, cit., 113-127.
75
E.A. Schwanbeck, Megasthenes Indica, Amsterdam 1966 (= Bonn 1846).
76
N. Biffi, L’Indiké di Arriano. Introduzione, testo, traduzione e commento, Bari 2000, 134-135,
discute il problema testuale e, pur non conoscendo l’intervento di Bosworth in CPh 91, 1996, ci-
tato alla nota precedente, accoglie l’ipotesi di una diversa datazione dell’ambasceria, sulla base di
Bosworth, A Historical Commentary on Arrian’s History of Alexander, II, cit., 242 ss.; viceversa
Dognini, L’Indiké di Arriano, cit., 65-66, pur segnalando l’articolo di Bosworth del 1996 e la sua
ipotesi di datazione, sulla quale peraltro non prende posizione, non fa alcun cenno al problema
testuale.
28 Cinzia Bearzot

Il problema è nato dal fatto che il paragone tra Chandragupta e Poro sembra
poco comprensibile nel 304/3, quando le satrapie indiane create da Alessandro
erano ormai state assorbite nell’impero Maurya77; ma lo diviene perfettamente
se l’ambasceria di Megastene va collocata in un momento più vicino alla morte
di Alessandro, quando la figura di Poro aveva ancora un’importanza e un’at-
tualità che perse quando il regno di Chandragupta si estese alla valle dell’Indo.
L’ambasceria andrebbe così inserita nel contesto della guerra di Antigono, cui
Sibirzio era fedele, contro Pitone satrapo della Media, quindi nel 319/8; e gli In-
diká dovrebbero risalire non agli inizi del III secolo, ma al 310 circa. L’ipotesi di
Bosworth è assai stimolante e ha il pregio di essere storicamente congruente con
il testo tràdito di Arriano: ma, anche se essa dovesse essere confermata, la nostra
prospettiva non ne risulterebbe alterata. Megastene, in questo caso, scriverebbe
infatti sotto l’immediata influenza della vicenda di Alessandro e la sua immagine
dell’India come terra mai violata, se non da Dioniso e da Eracle, prima della con-
quista del Macedone intenderebbe esaltare tale conquista e offrire un contributo
all’idea di una possibile integrazione fra una cultura allogena autoctona, come
quella indiana, e la cultura greca, civilizzatrice e colonizzatrice. La prospettiva
resterebbe quella di una dichiarata compatibilità tra autoctonia, cioè originalità
culturale, e civilizzazione, cioè accoglienza di apporti esterni: l’antica civiltà in-
diana, caratterizzata da un’accentuata autonomia, si rendeva infine permeabile al
superiore apporto di civilizzazione legato alla conquista di Alessandro.
Il tema dell’autoctonia può così sopravvivere, nel contesto culturale elleni-
stico, nella misura in cui non esclude più la possibilità di scambi culturali e di
reciproche interazioni. La sua occorrenza è estremamente rara, ma Megastene/
Diodoro mostra che la cultura greca non arretrò del tutto di fronte allo sforzo di
riadattare il concetto di autoctonia ad una situazione del tutto nuova rispetto a
quella della Grecia delle città. Ne è analoga testimonianza, in un contesto molto
più tardo, anche l’evoluzione del tema dell’autoctonia ateniese nella cultura greca
di età romana, quando esso vale a proporre, in un clima non più di esclusione ma
di integrazione come quello dell’impero romano, la centralità di Atene in senso
non più politico, ma strettamente culturale: Atene, pur nell’assoluta originalità
del suo contributo culturale, espressa nella sopravvivenza del concetto di autocto-
nia, diventa il centro di una Grecità non tanto politica, e quindi esclusiva, quanto
culturale, e quindi aperta all’integrazione di tutti78.

77
Cfr. Karttunen, India and the Hellenistic World, cit., 254 ss.; Id., In India e oltre: Greci, Indiani,
Indo-Greci, in I Greci. Storia cultura arte società, 3, I Greci oltre la Grecia, Torino 2001, 167-202,
partic. 172-173 (con bibliografia).
78
Cfr. E. Oudot, Penser l' autochthonie athénienne à l’époque impériale, in Origines gentium, cit.,
95-108; Saïd, The Discourse of Identity in Greek Rhetoric, cit., 286 ss.
babilonia e i diadochi di
alessandro: staticità asiatica e
dinamismo macedone 1

Franca Landucci Gattinoni


Università Cattolica di Milano

Negli ultimi anni ha avuto grande diffusione una lettura storico-allegorica del-
le megalographiae dipinte nell’oecus (grande sala di ricevimento) della villa ro-
mana di Boscoreale, scoperta nel 1901 dal Bernabei2: i cinque pannelli affrescati
delle pareti occidentale e orientale della stanza (oggi divisi tra il Museo Nazio-
nale di Napoli e il Metropolitan Museum di New York) sarebbero una copia di
un soggetto analogo dipinto in Macedonia nella prima metà del III secolo, copia
eseguita nella villa pompeiana intorno alla metà del I secolo, quando le decora-
zioni di gusto ellenistico erano considerate l’ornamento ideale delle grandi dimo-
re private degli aristocratici romani.
Nel quadro di questa lettura storico-allegorica3, le due figure femminili dipin-
te nel pannello centrale della parete occidentale, sedute una di fronte all’altra e
divise da un grande scudo macedone, vengono in genere interpretate come l’alle-
goria della Macedonia vincente, collocata in posizione dominante, con la lancia
in mano, e dell’Asia sconfitta, disarmata e pensosa, posta più in basso rispetto
1
Tutte le date del testo, salvo diversa indicazione, devono essere considerate a.C.
2
Cfr. F. Bernabei, La villa pompeiana di P.Fannio Sinistore scoperta presso Boscoreale, Roma
1901. Per un rapido riepilogo della storia archeologica di questa villa di Boscoreale (la cosiddetta
villa di Publio Fannio Sinistore) e per una analisi ragionata della copiosa bibliografia sugli affreschi
in questione, cfr. F.G.J.M. Müller, The Wall Paintings from the Oecus of the Villa of Publius Fan-
nius Synistor in Boscoreale, Amsterdam 1994, il quale, nella sua monografia, rifiutando l'interpre-
tazione ‘storica’ oggi sostenuta dalla grande maggioranza degli studiosi, dà una elaborata lettura
mitologica dei dipinti, che, a suo avviso, sono tutti riferibili alla saga di Achille. Per un elenco di
altre, variegate, interpretazioni mitologiche e/o religiose del ciclo affrescato, cfr. appunto l'indi-
ce di Müller, Wall Paintings, cit., 139-140, al quale bisogna aggiungere G. Sauron, Quis Deum?
L'expression plastique des idéologies politiques et religieuses à Rom à la fin de la république et au
début du principat, BEFAR 285, Roma 1994, 325-374.
3
Cfr. e.g. R.R.R. Smith, Spear - won Land at Boscoreale: on the Royal Paintings of a Roman
Villa, JRA 7, 1994, 100-128; R.A. Billows, Kings and Colonists. Aspects of Macedonian Imperial-
ism, Leiden-New York-Köln 1995; B.Virgilio, Basileus. Il re e la regalità ellenistica, in S. Settis
(a cura di), I Greci. Storia Cultura Arte Società, 2.III, Una storia greca. Trasformazioni, Torino
1998, 107-176; Id., Re e regalità ellenistica negli affreschi di Boscoreale, in B.Virgilio (a cura di),
Studi ellenistici, 12, Pisa-Roma 1999, 93-105; Id., Lancia, diadema e porpora. Il re e la regalità
ellenistica, Pisa 20032, 76-85.

Gnoli, Muccioli (eds.), Incontri tra culture, Milano 2007, 29-54


30 Franca Landucci Gattinoni

alla sua controparte4, in una evidente ipostasi di quell’incontro/scontro tra culture


nell’Oriente ellenistico che è il tema centrale di queste giornate di studio.
Dato, però, che la Macedonia vittoriosa appare quasi più perplessa e malinco-
nica dell’Asia sconfitta, questa immagine ci richiama a tutte le complesse proble-
matiche suscitate dalla conquista macedone dell’impero achemenide, quando due
mondi lontani e, fino ad allora, estranei l’uno all’altro furono costretti a interagire
nei ruoli loro imposti dalle travolgenti vittorie di Alessandro Magno, ruoli la cui
interpretazione fu resa ancora più ardua dalla subitanea e prematura scomparsa
del giovane sovrano, visto che la sua carismatica figura era stato l’unico riferi-
mento comune ai due mondi in questione.
In questa sede, nell’impossibilità di affrontare nella loro globalità tali que-
stioni, ho scelto di affrontare l’analisi delle testimonianze relative agli inizi della
presenza di Seleuco in Babilonia, nella convinzione che, attraverso il confronto
tra fonti letterarie di matrice ellenica e fonti documentarie babilonesi, essa possa
costituire un paradigma fondamentale anche per i periodi successivi.
Per quanto riguarda le fonti letterarie di matrice ellenica, spiccano, per im-
portanza, i libri XVIII-XX della Biblioteca Storica di Diodoro, che, con la loro
ampiezza e articolazione, costituiscono per i moderni una vera e propria pietra
di paragone nell’affrontare le problematiche relative ai Diadochi di Alessandro5;
in essi il nome di Seleuco è collegato per la prima volta alla realtà di Babilonia
a proposito del congresso di Triparadiso dell’estate del 3206, quando, secondo
4
Per la prima interpretazione allegorica di questo pannello, cfr. M. Robertson, The Boscoreale Figure
- Paintings, JRS 45, 1955, 58-67; fino a quel momento era molto diffusa l’interpretazione storica di
F. Studniczka, Imagines illustrium, JDAI 38-39, 1923-24, 57-128, il quale vedeva nella figura posta
più in alto il ritratto di Antigono Gonata e nella donna pensosa più in basso la madre Fila.
5
La bibliografia sulla storia del primo Ellenismo in Diodoro è sterminata: per un primo, sistemati-
co, approccio, cfr. J. Seibert, Das Zeitalter der Diadochen, Erträge der Forschung 185, Darmstadt
1983, 27-36; per un aggiornamento, cfr. F. Landucci Gattinoni, Duride di Samo, CeRDAC Mono-
grafie 18, Roma 1997, 169-204; Ead., La tradizione su Seleuco in Diodoro XVIII-XX, in Diodoro e
l’altra Grecia, Atti del Convegno di Milano, 15-16 gennaio 2004, Milano 2005, 155-181.
6
Non è qui il luogo per affrontare compiutamente i problemi cronologici dell’età dei Diadochi, sui
quali negli ultimi 50 anni si è sviluppata un’ampia discussione critica, che ha visto gli studiosi divi-
dersi tra i sostenitori di una cronologia alta, che è tradizionalmente legata al nome del Beloch (cfr.
K.J. Beloch, Griechische Geschichte, IV.1, Leipzig 19272, 73-115) e che ha come punto di partenza
la datazione del congresso di Triparadiso all’estate del 321, e i sostenitori di una cronologia bassa,
che è fondata, in primis, sulle acute osservazioni del Manni (cfr. E. Manni, Tre note di cronologia
ellenistica, RAL s. VIII, 4, 1949, 53-85) e che ha come punto di partenza la datazione del congresso
di Triparadiso all’estate del 320. Per una ricapitolazione delle ragioni a favore di una cronologia
alta, cfr. A.B. Bosworth, Philip III Arrhidaeus and the Chronology of the Successors, «Chiron» 22,
1992, 55-81; Id., The Legacy of Alexander. Politics, Warfare and Propaganda under the Successors,
Oxford 2002, in particolare 279-284; per una ricapitolazione delle ragioni a favore della cronolo-
gia bassa, cfr. R.A. Billows, Antigonos the One-Eyed and the Creation of the Hellenistic State,
Berkeley-London 1990, 82-84; F. Landucci Gattinoni, in Ead. - C.F. Konrad, Plutarco. Sertorio
- Eumene, Milano 2004, 383-384. Per una summa del dibattito sulla cronologia della prima età dei
Babilonia e i Diadochi di Alessandro 31

Diodoro7, fu nominato satrapo di Babilonia, cioè di una regione che costituiva


uno dei nuclei centrali di tutto l’impero che era stato di Alessandro. La notizia
della nomina di Seleuco a satrapo di Babilonia ci è nota anche dal breve riassunto
foziano dei Successores di Arriano8, in un contesto del tutto analogo a quello
diodoreo, cioè nella trascrizione dell’elenco ufficiale delle decisioni prese a Tri-
paradiso9, mentre Appiano, nell’ampio excursus del Libro Siriaco dedicato alla
storia dei Seleucidi, inserisce questa informazione in una concisa elencazione
delle tappe ufficiali della carriera del personaggio, come aveva già fatto per la no-
tizia del comando militare concesso a Seleuco nella spartizione del 32310: prima
generale, poi satrapo di Babilonia e, infine, re11.
Se Diodoro non offre alcuna spiegazione del fatto che uno dei più stretti col-
laboratori militari del defunto Perdicca abbia ricevuto, a Triparadiso, un premio
di tale portata dal capo della coalizione che aveva appena eliminato il vecchio
reggente, Cornelio Nepote, nella sua breve biografia di Eumene, afferma esplici-
tamente che Seleuco era stato uno degli assassini di Perdicca12, autorizzando così

Diadochi, cfr. ora tre degli importanti contributi pubblicati in W. Heckel - L. Tirtle - P. Wheatley
(eds.), Alexander’s Empire: Formulation to Decay, Claremont (CA) 2007: P.V. Wheatley, An In-
troduction to the Chronological Problems in Early Diadoch Sources and Scholarship, 179-192; E.
M. Anson, Early Hellenistic Chronology: The Cuneiform Evidence, 193-198; T. Boiy, Cuneiform
Tablets and Aramaic Ostraca: Between the Low and High Chronologies of the Early Diadoch Pe-
riod, 199-207. Cfr. anche T. Boiy, Aspects chronologiques de la période de transition (350-300 av.
J. C.), in P. Briant - F. Joannès (éd. par), La transition entre l’empire achéménide et les royaumes
hellénistiques, Persika 9, Paris 2006.
7
Cfr. Diod. XVIII 39, 5-6: meta; de; tau`ta [scil. Antivpatro~] ta;~ satrapeiva~ ejx ajrch`~ ejmeriv-
sato … tw`n d j a[nw satrapeiw`n [scil. e[dwke] th;n de; Babulwniva SeleuvkwÛ.
8
Cfr. Arr. Succ. fr. 9, 35: [scil. Antivpatro~] tw`n d j a[nw satrapeiw`n ... SeleuvkwÛ de; th;n Ba-
bulwnivan prosevqhke.
9
Solo descrittivo e non problematico il commento di A. Simonetti Agostinetti (a cura di), Fla-
vio Arriano, Gli Eventi dopo Alessandro, CeRDAC Monografie 15, Roma 1993, 80-83; a questo
proposito, cfr. ora anche H. Klinkott, Diodors Reichsbeschreibung nach Alexanders Tod: Ist die
Satrapienliste XVIII 5-6 ein persisches Dokument?, in K. Brodersen (Hrsg.), Zwischen West und
Ost, Studien zur Geschichte des Seleukidenreichs, Hamburg 1999, 45-93.
10
Sul comando militare concesso a Seleuco nel convegno di Babilonia del 323, cfr. Diod. XVIII 3,
4 ([Perdicca] Sevleukon d je[taxen ejpi; th;n iJpparcivan tw`n eJtaivrwn); Iustin. XIII 4, 17 (summus
castrorum tribunatus); App. Syr. 57, 292 (hJgemw;n th`~ i{ppou th`~ eJtairikh`~).
11
Cfr. App. Syr. 57, 292 (molto rapidi e poco incisivi i commenti di G. Marasco, Appiano e la storia
dei Seleucidi fino all’ascesa al trono di Antioco III, Firenze 1982, 84-85; K. Brodersen, Appians
Abriss der Seleukidengeschichte (Syriake 45, 232-70, 369). Text und Kommentar, München 1989,
142-143): [scil. Sevleuko~] givgnetai d j eujqu;~ jAlexavndrou metastavnto~ hJgemw;n th`~ i{ppou
th`~ eJtairikh`~ h|~ dh; kai; JHfaistivwn hJghvsato jAlexavndrwÛ kai; ejpi; jHfaistivwni Perdivkka~,
meta; de; th;n i{ppon satravph~ te th`~ Babulwniva~ kai; basileu;~ ejpi; thÛ` satrapeiva.Û
12
Nep. Eum. 5, 1: Haec dum apud Hellespontum geruntur, Perdiccas apud Nilum flumen inter-
ficitur a Seleuco et Antigene, rerumque summa ad Antipatrum defertur. Non si trovano accenni
espliciti alla partecipazione di Seleuco all’uccisione di Perdicca nel breve riassunto foziano dei
Successores di Arriano, dove, però, si sottolinea il ruolo giocato da Seleuco stesso a Triparadiso, al
32 Franca Landucci Gattinoni

l’ipotesi che la Babilonide fosse la ricompensa del suo tradimento13, tanto più
che egli prese il posto di Docimo, il quale, proprio per volontà di Perdicca, aveva
a sua volta soppiantato l’oscuro Archon, nominato satrapo di Babilonia subito
dopo la morte di Alessandro14, come sappiamo da un lacerto dei Successores di
Arriano, ancora leggibile, pur tra molte difficoltà, in un palinsesto vaticano15,
dove sembrano esserci accenni ad una ‘accoglienza’ di Docimo da parte dei Ba-
bilonesi dopo una iniziale resistenza armata (forse al fianco di Archon?)16.
Questi accenni arrianei sono l’unica testimonianza di matrice ellenica sulle
interrelazioni tra ‘governanti’ macedoni e ‘governati’ babilonesi negli anni im-
mediatamente successivi alla morte di Alessandro, anche se non è da escludere
che la presenza, in rapida successione, di ben tre satrapi a Babilonia, certo foriera
di insicurezza ed instabilità, per i continui cambiamenti operati al vertice del po-
tere esecutivo macedone in loco, abbia provocato disorientamento e malcontento
nella popolazione locale. In effetti, il sostanziale disinteresse delle fonti greche
per l’atteggiamento dei Babilonesi nei confronti dei rappresentanti dell’establish-
ment macedone nel post-Alessandro contrasta nettamente con l’attenzione che gli
Alessandrografi dedicano al rapporto tra il sovrano e Babilonia, nella descrizione
sia del suo primo ingresso in città, subito dopo la battaglia di Gaugamela, sia del
suo ritorno, dopo la spedizione in India, ormai alla vigilia della morte.
A proposito del primo avvenimento, la tradizione classica17, se, da un lato,

fianco di Antigono, in difesa di Antipatro (cfr. Arr. Succ. fr. 9, 33), prima che quest’ultimo proce-
desse ufficialmente alla spartizione delle satrapie.
13
Cfr. A. Mehl, Seleukos Nikator und sein Reich. I. Teil: Seleukos’ Leben und die Entwicklung
seiner Machtposition, Studia Hellenistica 28, Leuven 1986, 27-28; J.D. Grainger, Seleukos Nikator.
Constructing a Hellenistic Kingdom, London-New York 1990 (le citazioni del testo sono dall’edi-
zione italiana: Genova 1993), 32; in entrambi i testi, ampia discussione della bibliografia preceden-
te. Per una esplicita sottolineatura della partecipazione di Seleuco all’assassinio di Perdicca, cfr. S.
Sherwin White - A. Kuhrt, From Samarkhand to Sardis. A New Approach to the Seleucid Empire,
London 1993, 10.
14
Su Archon l’unico riferimento bibliografico disponibile in H. Berve, Das Alexanderreich auf
prosopographischer Grundlage, II, München 1926, nr. 163; su Docimo, la cui carriera, segnata
da tradimenti e defezioni, si prolungò almeno fino all’epoca della battaglia di Ipso, cfr. Billows,
Antigonos the One-Eyed, cit., 382-383.
15
Cfr. Arr. Succ. fr. 10A, 3-5 (Cod. Rescr. Vatic. Gr. 495 fol. 230); per una traduzione e un sin-
tetico commento del testo, cfr. Simonetti Agostinetti (a cura di), Flavio Arriano, Gli Eventi dopo
Alessandro, cit., 64-65.
16
Dello stesso parere, U. Scharrer, Seleukos I. und das babylonische Königtum, in Brodersen
(Hrsg.), Zwischen West und Ost, cit., 95-128, partic. 124.
17
Cfr. Diod. XVII 64, 4; Curt. V 1, 17-23 e 36-39 (i paragrafi 24-35 sono dedicati alla descrizione
topografica di Babilonia); Arr. Anab. III 16, 3-5. Plut. Alex. 35, 1, a proposito dell’inizio di un
viaggio di Alessandro ad est di Babilonia, ricorda en passant, come un fatto ormai già avvenuto, la
sottomissione totale della regione che in Babilonia aveva il suo centro; nessun riferimento all’in-
gresso di Alessandro a Babilonia né in Giustino, né nei Prologi trogiani.
Babilonia e i Diadochi di Alessandro 33

descrive come trionfale l’ingresso in Babilonia di Alessandro, circondato e osan-


nato da una folla festosa composta da tutti gli esponenti della società locale, dai
rappresentanti dello sconfitto governo persiano, nella persona del governatore
Mazeo, ai capi religiosi, dai membri delle milizie ai semplici popolani, dall’altro,
sottolinea che le prime azioni compiute dal Macedone furono dirette al culto del
dio Bel e alla salvaguardia del suo tempio, l’Esagila dei testi cuneiformi, cuo-
re e motore della società locale18. Nell’analisi dei testi di riferimento, la critica
ha ancora di recente messo in evidenza che il confronto con i precedenti assiri
(ingresso di Sargon II nel 710) e persiani (ingresso di Ciro il Grande nel 539),
del tutto ignorati dalle nostre fonti, dimostra la ritualità della scena costruita dai
Babilonesi per celebrare il riconoscimento ufficiale della legittimità regale di un
conquistatore vittorioso, che, a sua volta, accettava e riconosceva la centralità
della struttura templare19.
Per quanto riguarda, invece, il rientro di Alessandro in Babilonia, alla fine del
324, secondo tutta la storiografia antica20, l’interrelazione tra il sovrano e la città
si sarebbe giocata soprattutto nel rapporto con i sacerdoti, i cosiddetti Caldei
della tradizione classica, definiti da Diodoro come astrologi di grande fama a
causa della loro abilità nel leggere il futuro nelle stelle21: essi sconsigliarono ad
Alessandro di entrare in città, perché, se lo avesse fatto, sarebbe andato incontro
alla morte, data la negatività delle congiunzioni astrali che lo riguardavano; no-
nostante questa profezia di morte, il sovrano entrò in Babilonia, ancora una volta
bene accolto dalla popolazione indigena22, ma dovette fronteggiare altri presagi,
18
Sull’Esagila, il tempio del dio Bel, il Bel-Marduk dei Babilonesi, cfr., oltre ai riferimenti di F.
Sisti (a cura di), Arriano, Anabasi di Alessandro. Volume I, Milano 2001, 505, le recenti osserva-
zioni di T. Boiy, Late Achaemenid and Hellenistic Babylon, Orientalia Lovaniensia Analecta 136,
Leuven 2004, 59-61 e 81-85, legate sia alle ricerche archeologiche, che all'analisi delle notizie
contenute nelle tavolette cuneiformi.
19
Per un confronto con i precedenti assiri e persiani, cfr., in particolare, A. Kuhrt, Alexander in
Babylon, in H. Sancisi Weerdenburg - J.W. Drijvers (eds.), Achaemenid History V. The Roots of
the European Tradition, Leiden 1990, 121-130; P. Briant, Alexandre à Babylon: images grecques,
images babyloniennes, in Id., Alexandre le Grand dans les littératures occidentales et proche-
orientales, Paris 1999, 23-32. Scharrer, Seleukos I. und das babylonische Königtum, cit., 119-123,
sottolinea la ‘costrizione’ dei Babilonesi, pur non rilevata dalle fonti classiche, a ben accogliere
Alessandro, mettendo, dunque, implicitamente in dubbio la veridicità delle manifestazioni di giubi-
lo, mentre G.F. Del Monte, Da «barbari» a «re di Babilonia»: i Greci in Mesopotamia, in S. Settis
(a cura di), I Greci. Storia Cultura Arte Società, 3, I Greci oltre la Grecia, Torino 2001, 137-166,
partic. 140-148, sembra convinto che almeno al momento dell’ingresso di Alessandro in Babilonia,
l’establishment locale fosse molto ben disposto nei confronti del vincitore di Dario. Sulla stessa
linea di Del Monte, cfr. Boiy, Late Achaemenid and Hellenistic Babylon, cit., 106-107.
20
Cfr. Diod. XVII 112, 1-6; 116, 1-7; Plut. Alex. 73, 1-9; Arr. Anab. VII 16, 5-6; 17, 1-6; 22, 1-5;
24, 1-3; Iustin. XII 13, 3-7. In Curzio il passo sul rientro di Alessandro a Babilonia è in lacuna.
21
Cfr. Diod. XVII 112, 2.
22
Cfr. Diod. XVII 112, 6. Sull’uso del termine enchorios in Diodoro, cfr. ora P. Anello, Barbaros
ed enchorios in Diodoro, in Diodoro e l’altra Grecia, cit., 223-237.
34 Franca Landucci Gattinoni

che, nelle descrizioni elaborate dalle fonti di tradizione ellenica, sono presentati
in un’aura di pesante negatività, come preludio al racconto della morte del re.
Di particolare interesse l’episodio relativo allo sconosciuto che, approfittando
di un attimo di disattenzione dei servitori del re, si sarebbe seduto sul trono, su-
scitando il disappunto del personale indigeno, che avrebbe tardato a rimuoverlo
per rispetto di un’usanza locale non meglio identificata; i tre autori23, che, pur in
racconti caratterizzati da particolari diversi, ci conservano una tradizione sostan-
zialmente condivisa, sottolineano che l’episodio fu interpretato come un segno
premonitore della morte di Alessandro, visto che lo sconosciuto aveva occupato
un trono ‘vuoto’, cioè privo di un re che lo occupasse.
Gli studiosi moderni, invece, sono ormai concordi nel ritenere che le fonti clas-
siche abbiano descritto, senza rendersene conto, l’antico rito babilonese del co-
siddetto ‘sostituto regale’24, nel quale il sovrano era sostituito, per un breve tempo
predefinito, da un ‘signor nessuno’, che veniva poi eliminato, ma divergono nel
giudizio da dare sull’atteggiamento tenuto in questa occasione dai sacerdoti ba-
bilonesi. Chi, sulla scia di Arriano25, ipotizza che i sacerdoti babilonesi covassero
ormai una sorda inimicizia nei confronti di Alessandro, per il timore che volesse
gestire direttamente le ricchezze del tempio26, si limita ad inserire l’episodio in
una rielaborazione fittizia della celebrazione dell’Akitu, cioè della festa babilo-
nese di primavera, legata all’inizio dell’anno nuovo, «durante la quale i simboli
regali, di cui veniva spogliato il re, erano esposti sul trono o indossati da un ‘so-
stituto regale’ che poi veniva messo a morte»27: siccome Alessandro non avrebbe
partecipato a questa festa, di fondamentale importanza per la realtà epicoria, la
sua regalità non sarebbe più stata considerata legittima dalla popolazione locale.
Chi, invece, ipotizza che i sacerdoti indigeni avessero a cuore le sorti del gio-
vane sovrano macedone e stessero cercando di stornare da lui i cupi presagi che

23
Diod. XVII 116, 2-4; Plut. Alex. 73, 6-74, 1; Arr. Anab. VII 24, 1-3.
24
Unica eccezione a me nota, in un’opera dedicata in particolare ad un’analisi delle fonti, quella di
N.G.L. Hammond, Sources for Alexander the Great. An Analysis of Plutarch’s Life and Arrian’s
Anabasis Alexandrou, Cambridge 1993, 140-142 e 300-302: lo studioso anglosassone si limita
ad accennare all’episodio della ‘usurpazione’ del trono di Alessandro, senza alcun riferimento al
‘sostituto regale’ babilonese. Non stupisce, invece, che opere dedicate ad un’analisi dell’intera
parabola di Alessandro ignorino tale questione, limitandosi in genere ad accennare a non meglio
precisati «segni infausti» che avrebbero accolto Alessandro al momento del rientro in Babilonia:
cfr. e.g. A.B. Bosworth, Conquest and Empire. The Reign of Alexander the Great, Cambridge 1988,
167-173.
25
Cfr. Arr. Anab. VII 17, 1-6 e 24, 3.
26
Per questa posizione, cfr. soprattutto l’articolata esposizione di S.K. Eddy, The King is Dead. Stu-
dies in the Near Eastern Resistance to Hellenism 334-31 B.C., Lincoln 1961, 108-110; sulla stessa
linea, Scharrer, Seleukos I. und das babylonische Königtum, cit., 122-123; A. Zambrini in F. Sisti
- A. Zambrini (a cura di), Arriano, Anabasi di Alessandro. Volume II, Milano 2004, 646.
27
Zambrini in Sisti - Zambrini (a cura di), Arriano, Anabasi di Alessandro. Volume II, cit., 646.
Babilonia e i Diadochi di Alessandro 35

gli pendevano sul capo28, ritiene che essi, in accordo con Alessandro, avessero
organizzato una cerimonia del ‘sostituto regale’ (forse proprio in occasione del-
l’Akitu del 323), per scaricare sulla testa del povero ed ignoto prescelto ad essere
re per un giorno, destinato comunque a morte sicura, le ombre di malaugurio che
già si allungavano sul Macedone. I testi in questione, pur nella loro complessi-
tà, che certo non facilita la comprensione né di quali fossero le reali intenzioni
di Alessandro nei confronti dei Babilonesi, né di quali fossero i veri sentimenti
dei Babilonesi nei confronti del giovane re vittorioso29, danno comunque spazio,
nella descrizione delle vicende macedoni, alla realtà locale, che, a proposito dei
Diadochi, in generale, e di Seleuco, in particolare, torna poi alla ribalta solo nel
momento in cui, subito dopo la sconfitta e la morte di Eumene di Cardia, proprio
a Babilonia si consumava la rottura tra Antigono e Seleuco, che, fino ad allora,
era stato un fido alleato del Monoftalmo30.
A differenza di Appiano31, che, con grande concisione, ci informa che Seleuco,
messo in difficoltà dalle intimidazioni di Antigono, si decise a fuggire in Egit-
to, presso Tolemeo di Lago, Diodoro32 non si limita a riportare la notizia della
fuga di Seleuco, ma si dilunga sull’oracolo che i Caldei avrebbero presentato ad
Antigono, informandolo che, se si fosse lasciato scappare Seleuco, quest’ultimo
sarebbe divenuto padrone dell’Asia, mentre il Monoftalmo stesso sarebbe morto
combattendo contro di lui. Lo storico di Agirio chiude il capitolo con un rimando
28
Per questa posizione, cfr. S. Sherwin White, Seleucid Babylonia: a Case Study for the Installa-
tion and Development of Greek Rule, in A. Kuhrt - S. Sherwin White (eds.), Hellenism in the East.
The Interaction of Greek and non-Greek Civilizations from Syria to Central Asia after Alexander,
Berkeley-Los Angeles 1987, 1-31, partic. 9; P. Briant, Histoire de l’Empire Perse. De Cyrus à
Alexandre, Paris 1996, 882-883; Boiy, Late Achaemenid and Hellenistic Babylon, cit., 112-113.
29
Segni di ostilità dei Babilonesi nei confronti di Alessandro sono stati ‘letti’ nell'interpretazione
‘canonica’ della cosiddetta Profezia dinastica babilonese (cfr. l’editio princeps in A. Grayson,
Babylonian Historical-Literary Texts [=BHLT], Toronto-Buffalo 1975, 24-37), in cui sarebbe vati-
cinata una rivalsa di Dario III, appoggiato dagli dei babilonesi, contro gli invasori khanei (da iden-
tificare con Alessandro stesso e i suoi Macedoni). Per questa opinione, cfr., tra gli altri, G. Marasco,
La «profezia dinastica» e la resistenza babilonese alla conquista di Alessandro, ASNP s. III, 15,
1985, 529-537; Kuhrt, Alexander and Babylon, cit., 121-130; Sherwin White, Seleucid Babylonia,
cit., 10 (posizione che a me sembra in contraddizione con quanto da lei sostenuto a 9 [cfr. supra, n.
28]); F. Muccioli, ‘Il re dell’Asia’: ideologia e propaganda da Alessandro Magno a Mitridate VI,
in L. Criscuolo - G. Geraci - C. Salvaterra (a cura di), Simblos. Scritti di storia antica, 4, Bologna
2004, 105-158. Per ulteriori riflessioni sulla suddetta Profezia dinastica, cfr. infra, 49-53.
30
Sulla rottura tra Antigono e Seleuco, cfr. le acute osservazioni di Mehl, Seleukos Nikator und
sein Reich, cit., 52-55, e di Grainger, Seleukos Nikator, cit., 272, n. 46 (indicazione di nota a 62),
il quale sottolinea che su questa problematica «le riflessioni degli storici moderni … sono scarse e
brevi»; per una analisi storiografica, cfr. ora Landucci Gattinoni, La tradizione su Seleuco in Dio-
doro XVIII-XX, cit., 155-181; per una breve riflessione sul governo di Antigono a Babilonia, dopo
la fuga di Seleuco, cfr. Boiy, Late Achaemenid and Hellenistic Babylon, cit., 123-125.
31
App. Syr. 53, 268.
32
Diod. XIX 55, 6-9.
36 Franca Landucci Gattinoni

a quella parte della Biblioteca in cui sarebbero stati narrati gli avvenimenti profe-
tizzati dai Caldei, cioè, in pratica, con un rimando alla descrizione della battaglia
di Ipso, che si trovava nell’ormai perduto libro XXI, dove, in base alle parole qui
riportate da Diodoro, non è da escludere che fosse inserito un excursus dedica-
to agli omina imperii costruiti dalla propaganda di Seleuco, excursus analogo a
quelli che ancora leggiamo in Giustino ed Appiano, dove però è del tutto assente
ogni riferimento alla profezia dei Caldei e sono ricordati presagi, sì favorevoli a
Seleuco, ma chiaramente collegati alla religiosità greca, con puntuali riferimenti
al culto apollineo33.
Se è vero, come era già stato notato a suo tempo dalla Bearzot34, che l’oracolo
dei Caldei, così come noi lo conosciamo da Diodoro, per la precisione dei suoi
riferimenti alla morte di Antigono, non può che essere stato rielaborato dopo la
battaglia di Ipso, forse sulla base del ricordo di un incontro tra il Monoftalmo e
i Caldei realmente verificatosi nel 315, incontro che, a fronte alla arrogante su-
perbia di Antigono, doveva aver rafforzato i sentimenti filoseleucidici del clero
babilonese, è altrettanto vero che lo storico di Agirio riprende esplicitamente il
tema della simpatia della popolazione locale per Seleuco, a proposito del rientro
di quest’ultimo a Babilonia, dopo la vittoria da lui riportata, al fianco di Tolemeo,
nella battaglia di Gaza del 312, sull’esercito antigonide guidato dal giovane De-
metrio35.
Secondo Diodoro36, infatti, « quando Seleuco invase la Babilonide, la maggior
parte degli abitanti gli veniva incontro e, unendosi a lui, dichiarava che avrebbe
33
Cfr. Iustin. XV 4, 1-12 e App. Syr. 56, 283-292 (per un commento a questi passi, cfr., rispetti-
vamente, H.D. Richter, Untersuchungen zur hellenistischen Historiographie. Die Vorlagen des
Pompeius Trogus für die Darstellung der nachalexandrischen hellenistischen Geschichte (Iust.13-
40), Frankfurt a.M.-Bern-New York-Paris 1987, 67-71; Brodersen, Appians Abriss der Seleuki-
dengeschichte, cit., 131-142). Per una riflessione più approfondita sugli omina imperii in favore di
Seleuco Nicatore, omina imperii che in genere hanno molto interessato la critica, cfr. R.A. Hadley,
Hieronymus of Cardia and Early Seleucid Mythology, «Historia» 17, 1969, 142-152; Id., Royal
Propaganda of Seleucus I and Lysimachus, JHS 94, 1974, 50-65; C. Bearzot, A proposito di alcuni
prodigi relativi a Seleuco I Nicatore, GFF 6, 1983, 3-15; Ead., Il santuario di Apollo Didimeo e la
spedizione di Seleuco I a Babilonia, in CISA 10, Milano 1984, 51-81; Marasco, Appiano e la storia
dei Seleucidi, cit., 69-84; Muccioli, ‘Il re dell’Asia’, cit., 105-158.
34
Bearzot, A proposito di alcuni prodigi relativi a Seleuco I Nicatore, cit., 6; da notare che Boiy,
Late Achaemenid and Hellenistic Babylon, cit., 121-122, considera una pura invenzione la profezia
dei Caldei narrata da Diodoro, dopo una analisi della bibliografia moderna che ignora totalmente
quella in lingua italiana.
35
Sulla battaglia di Gaza, cfr. Diod. XIX 80-86. Su questo avvenimento, cfr. Mehl, Seleukos Nika-
tor und sein Reich, cit., 62-103, il quale, 83, n. 55, sottolinea che le fonti parallele (Plut. Demetr.
5, 2-4; App. Syr. 54, 272; Paus. I 6, 5; Iustin. XV 1, 6) sono così concise da impedire un puntuale
confronto sulle rispettive tendenze storiografiche; Grainger, Seleukos Nikator, cit., 60-91; Billows,
Antigonos the One-Eyed, cit., 124-129, che legge gli avvenimenti ‘dalla parte’ degli Antigonidi.
36
Diod. XIX 91, 1-2; la traduzione è di P. Martino in Diodoro, Biblioteca Storica. Libri XVI-XX,
Palermo 1992, 274-275.
Babilonia e i Diadochi di Alessandro 37

collaborato a realizzare ogni sua decisione. Satrapo di questa regione per 4 anni,
egli si era portato bene con tutti, sollecitando il consenso popolare e premunen-
dosi di gente che lo avrebbe aiutato, quando fosse giunto per lui il tempo di
contendere per la supremazia». Se Diodoro dedica un intero capitolo alla positi-
va interrelazione tra Seleuco e i Babilonesi37, anche Appiano38, pur con estrema
sinteticità, sembra condividere pienamente il punto di vista diodoreo sulla que-
stione, affermando che «Seleuco, anche se con pochi uomini, riuscì a riprendere
Babilonia, ricevendo un’ottima accoglienza dalla popolazione locale, e in poco
tempo incrementò di gran lunga il suo dominio».
Nel quadro della interrelazione tra Seleuco e Babilonia, è da notare ancora che,
mentre le fonti classiche, sia letterarie che cronografiche, a proposito degli avve-
nimenti degli anni 312 e 311, danno grande importanza soprattutto alla battaglia
di Gaza, pur non ignorando il successivo rientro di Seleuco a Babilonia39, in am-
bito orientale fu proprio questo secondo evento ad essere sentito come epocale,
tanto da diventare il punto zero dell’Era Seleucidica40, che fu per secoli un vero e
proprio caposaldo della cronografia dell’oriente ellenistico41.
37
Cfr. Diod. XIX 91, 1-5.
38
App. Syr. 54, 273.
39
Per le fonti letterarie sulla battaglia di Gaza, cfr. Diod. XIX 80-86; Plut. Demetr. 5, 2-4; App. Syr.
54, 272; Paus. I 6, 5; Iustin. XV 1, 6; per le fonti cronografiche, cfr. Marmor Parium in FGrHist
239 F B16; Castor in FGrHist 250 F 12; Porphyrius in FGrHist 260 F 32, 4; per una accurata
analisi di queste fonti cronografiche, cfr. da ultimo A.B. Bosworth, The Legacy of Alexander. Po-
litics, Warfare and Propaganda under the Successors, Oxford 2002, 225-229, che affronta, per
l’ennesima volta, la questione della datazione della battaglia di Gaza, che alcuni fissano all’autunno
del 312 giuliano, altri, invece, alla primavera del medesimo anno, schierandosi con i sostenitori
della cronologia alta, che, fissata ab origine da K.J. Beloch, Griechische Geschichte, IV.2, Leipzig
19272, 243, è ora sostenuta, oltre che da Bosworth, da L. Schober, Untersuchungen zur Geschichte
Babyloniens und der Oberen Satrapien von 323-303 v.Ch., Frankfurt-Bern 1981, 97, n. 1; a favore
della cronologia bassa, cfr., da ultimo, J.K. Winnicki, Militäroperationen von Ptolemaios I. und
Seleukos I. in Syrien in den Jahren 312-311 v.Chr. (I), AncSoc 20, 1989, 55-92, partic. 59-60; Bil-
lows, Antigonos the One-Eyed, cit., 125-127; P.V. Wheatley, The Chronology of the Third Diadoch
War, 315-311 BC, «Phoenix» 52, 1998, 257-281, partic. 258-261; Id., Antigonus Monophthalmus
in Babylonia, 310-308 BC, JNES 61, 2002, 39-47; Id., The Year 22 Tetradrachms of Sidon and
the date of the Battle of Gaza, ZPE 144, 2003, 268-276; Boiy, Late Achaemenid and Hellenistic
Babylon, cit., 123-125.
40
Per una ricapitolazione storico-storiografica sulle problematiche relative all’Era Seleucidica, cfr.
Ed.Will, Histoire politique du monde hellénistique, I, Nancy 19792, 67; per una recentissima messa
a punto cronografica, cfr. T. Boiy, Early Hellenistic Chronography in Cuneiform Tradition, ZPE
138, 2002, 249-255, il quale, a 253, esplicita chiaramente l’equazione 1 SE = 311/0 BC, consi-
derando quest’ultima indicazione come riferita all’anno babilonese, che iniziava con il mese di
Nisannu, corrispondente al Marzo/Aprile del calendario giuliano; cfr. ora Id., Late Achaemenid and
Hellenistic Babylon, cit., 125-126.
41
L’uso esclusivo dell’Era Seleucidica nelle fonti documentarie locali è dimostrato in maniera pa-
radigmatica dalla cosiddetta Lista Reale di Babilonia (editio princeps in A.J. Sachs - D.J. Wiseman,
A Babylonian King List of the Hellenistic Period, «Iraq» 16, 1954, 202-211; cfr. ora l’edizione di
G.F. Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I: Testi Cronografici, Pisa-Roma 1997,
38 Franca Landucci Gattinoni

In effetti, la sottolineatura presente in Diodoro e in Appiano sul favore goduto


da Seleuco presso le popolazioni locali è esplicitamente collegata, almeno nel più
ampio contesto diodoreo, sia al passato, cioè ai quattro anni di buon governo da
lui esercitato dopo il congresso di Triparadiso, sia al presente, cioè alla sua ca-
pacità di atteggiarsi amichevolmente nei confronti di tutti coloro con cui veniva
a contatto, in un’ottica che sembra prefigurare un profondo coinvolgimento del
personaggio nella realtà locale, vista però in maniera indifferenziata, senza alcun
approfondimento di problematiche originariamente estranee al vittorioso esta-
blishment greco-macedone42.
Le notazioni diodoree sul buon governo di Seleuco in Babilonia acquistano
ancora maggiore rilievo se paragonate alle notazioni di segno opposto che si leg-
gono non solo in Diodoro, ma anche in Plutarco, a proposito del comportamento
tenuto nelle regioni orientali sia da Antigono che da suo figlio Demetrio, com-
portamento che appare finalizzato non tanto alla tessitura di duraturi rapporti di
collaborazione con la popolazione locale, quanto piuttosto alla razzia sistematica
del territorio, per soddisfare la brama di bottino delle truppe.
Lo storico di Agirio, infatti, non si limita ad accennare brevemente al fatto che
molti soldati nemici, nel corso della prima campagna orientale intrapresa da Se-
leuco dopo il rientro a Babilonia, passarono dalla sua parte «perché erano offesi
dalla condotta di Antigono»43, senza ulteriori specificazioni, ma, nel succinto rac-
conto del tentativo di riprendere Babilonia messo rapidamente in atto da Deme-
trio, su ordine del Monoftalmo44, sottolinea che, una volta catturata una delle due
cittadelle, l’Antigonide lasciò liberi i suoi uomini di saccheggiarla, affrettandosi
poi a tornare in Siria, dopo aver lasciato uno dei suoi ufficiali, di nome Archelao,
a proseguire l’assedio dell’altra45.
Riferendosi a questo stesso episodio, Plutarco non solo conferma la veridicità
dei saccheggi autorizzati dal Poliorcete, ma esplicitamente giudica il compor-
tamento di questi incompatibile con una reale volontà di governo del territorio:
«[Demetrio] ai soldati ordinò di far bottino e prendere ogni cosa che potessero

208-211), nella quale è ancora leggibile l’elenco dei sovrani che regnarono su Babilonia a partire da
Alessandro III di Macedonia fino ad Antioco IV di Siria, mentre sono gravemente danneggiate le
ultime linee che contenevano i nomi dei successori di quest’ultimo: tutte le date sono espresse, non
con gli anni di regno di ciascun sovrano, ma con l’anno dell’Era Seleucidica, considerata dunque
come unico e imprescindibile riferimento di cronologia assoluta.
42
Cfr. Diod. XIX 91, 1-2, per il passato; 92, 5, per il presente.
43
Diod. XIX 92, 4: oiJ pleivou~ tw`n stratiwtw`n ta; me;n to;n kivndunon kataplhgmevnoi, ta; de;
proskoptovnte~ toi`~ uJp j jAntigovnou prattomevnoi~ metebavlonto pro;~ Sevleukon.
44
Cfr. Diod. XIX 100, 3-7.
45
Diod. XIX 100, 7: (Demetrio) [tw`n ajkropovlewn] th;n eJtevran eJlw;n e[dwke toi`~ ijdivoi~ stra-
tiwvtai~ eij~ diarpaghvn.
Babilonia e i Diadochi di Alessandro 39

portar via o razziare dalla regione, poi se ne ritornò verso il mare lasciando a Se-
leuco un dominio su quella satrapia più sicuro di prima; infatti, saccheggiandola
come se non interessasse più a lui e a suo padre, Demetrio dava l’impressione di
rinunciarvi»46.
Chiuso questo episodio, le fonti classiche ‘si allontanano’ definitivamente dal-
la situazione di Babilonia, per rivolgere di nuovo lo sguardo agli avvenimenti del-
lo scacchiere egeo, tanto che Diodoro, nella descrizione delle clausole della pace
siglata tra i Diadochi nella seconda metà del 311, ignora la ‘questione orientale’,
limitandosi a sottolineare l’egemonia di Antigono «su tutta l’Asia»47. Se, dunque,
nella tradizione di matrice ellenica, a proposito del rientro di Seleuco a Babilonia
nel 311, affiorano degli accenni ai rapporti tra i Diadochi e le popolazioni locali,
questo avviene sempre nella misura in cui essi appaiono organici al problema del
destino politico-militare dell’impero che era stato di Alessandro, a prescindere
dalla quotidianità delle masse coinvolte nella questione: dai dati storiografici in
nostro possesso, sembra, in effetti, che tutti i Diadochi si muovessero in scenari
internazionali di grande respiro e che il loro dinamismo fosse direttamente pro-
porzionale al desiderio di rafforzare la propria posizione personale.
Lo stesso Seleuco, tra il 316 e il 311, si spostò instancabile tra Babilonia,
l’Egitto, l’Egeo, la Siria, le satrapie orientali, adattando il proprio comportamento
alle diverse realtà incontrate, con l’obiettivo primario di arrivare a garantirsi una
dorivkthto~ cwvra non più insidiata da mire e rivendicazioni altrui48, certo anche
grazie alla sua capacità di costruire una positiva interrelazione con le popolazioni
locali, interrelazione che, nelle fonti classiche, appare come uno strumento e non
un fine del potere del personaggio in questione, il quale, muovendosi all’interno
delle ampie coordinate geografiche dell’impero di Alessandro, dal suo punto di
vista, non poteva non inserire la Babilonide in un sistema multietnico e multicul-
46
Plut. Demetr. 7, 4. La traduzione è di O. Andrei in O. Andrei - R. Scuderi (a cura di), Plutarco,
Vite parallele. Demetrio - Antonio, Milano 1989, 135-137; sul saccheggio di un territorio da parte
di un dinasta, come segno di sostanziale disinteresse per un governo stabile del territorio medesimo,
cfr. ora il commento di Bosworth, The Legacy of Alexander, cit., 242, con riferimenti anche alla
precedente tradizione achemenide.
47
Cfr. Diod. XIX 105, 5, che indica la firma della pace come il primo avvenimento dell’anno attico
311/10. Per un aggiornamento bibliografico sulle ampie discussioni della critica a proposito delle
clausole della pace del 311, cfr. da ultimo Bosworth, The Legacy of Alexander, cit., 241, n. 113; F.
Landucci Gattinoni, L’arte del potere. Vita e opere di Cassandro di Macedonia, Historia Einzel-
schr. 171, Stuttgart 2003, 124, n. 181.
48
Sul concetto di dorivkthto~ cwvra cfr. F. Landucci Gattinoni, Tra monarchia nazionale e mo-
narchia militare: il caso della Macedonia, in C. Bearzot - F. Landucci - G. Zecchini (a cura di),
Gli stati territoriali nel mondo antico, CSA (= Contributi di Storia Antica) 1, Milano 2003, 199-
224, partic. 200, n. 8, con bibliografia precedente, alla quale si aggiunga M. Corsaro, Doni di terra
ed esenzioni dai tributi: una riflessione sulla natura dello stato ellenistico in Asia Minore, in L.
Criscuolo - G. Geraci - C. Salvaterra (a cura di), Simblos. Scritti di storia antica, 3, Bologna 2001,
227-261, partic. 253-256.
40 Franca Landucci Gattinoni

turale, dove spiccava, però, per importanza il retaggio greco-macedone, nella cui
matrice i Diadochi stessi si riconoscevano.
A questa prospettiva delle fonti classiche, che dilata la Grecità in tutto il ter-
ritorio un tempo dominato dai Persiani, sono del tutto estranee, a priori, le fonti
documentarie babilonesi, che, per la produzione che ci interessa, cioè quella non
strettamente amministrativa, ma di matrice cronografico-letteraria49 è, come so-
stiene il Del Monte50, «tutta di origine templare» e sostanzialmente concentrata
sulla propria realtà più immediata. Sempre il Del Monte, infatti, sottolinea che «il
Tempio babilonese è autoreferenziale, una struttura culturalmente chiusa, incar-
dinata sulla difesa e sulla conservazione del passato in funzione del culto al quale
è finalizzata anche tutta la sua non indifferente attività economica; … l’unico
suo interlocutore esterno è il re, colui dal quale solo ci si aspetta la conferma
e possibilmente l’ampliamento dei privilegi di cui il Tempio tradizionalmente
gode. Non è un caso che gli ambienti templari si mostrino del tutto indifferenti
all’origine dei re: unico interesse è che questi si adeguino ai modelli tradizionali
del Tempio».
In effetti, la autoreferenzialità delle fonti documentarie babilonesi è già eviden-
te anche nei riferimenti alla nomina di Seleuco a satrapo di Babilonia51 e al suo
successivo ingresso in città: a proposito di questi avvenimenti, la cosiddetta Cro-
naca dei Diadochi, testo di matrice cronografica è forse il principale testimonium
cuneiforme sugli anni immediatamente posteriori alla morte di Alessandro52. Nel
diritto della tavoletta, sotto l’anno 4 di Filippo (= 320/19), si sottolinea non solo
49
Per una concisa sintesi sulla natura e l’origine dei testi cronografici di età ellenistica giunti sino
a noi, Diari astronomici, Cronache e Liste Reali, cfr. Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica.
Volume I, cit., IX-XII, il quale, nella Introduzione alla sua edizione dei testi suddetti, sottolinea, tra
l’altro, che nei Diari astronomici «sono raccolte osservazioni regolari della volta celeste relative
ai movimenti degli astri, eclissi di luna, solstizi ed equinozi ed eventi astronomici e meteorologici
di vario tipo alle quali sono aggiunte più o meno occasionalmente informazioni sui prezzi di al-
cune derrate di base, sul livello dell’Eufrate, sullo Zodiaco e su eventi cittadini notevoli», che le
Cronache, derivate direttamente dai Diari, «non fanno che estrapolare e disporre in ordine crono-
logico le sezioni ‘storiche’ dei Diari». e, infine, che le Liste Reali, «per quanto non possano essere
considerate fonti primarie», ci conservano dati preziosi, in quanto estratte direttamente dai Diari
astronomici.
50
Del Monte, Da «barbari» a «re di Babilonia», cit., 137, da cui è tratta anche la più lunga citazio-
ne inserita subito dopo queste poche parole.
51
Sulla nomina di Seleuco a satrapo a Babilonia, avvenuta nel congresso di Triparadiso del 320,
cfr. supra, 30-32.
52
La Cronaca dei Diadochi era originariamente composta da un testo di quattro colonne; la I e la
II erano incise sul diritto (= Ro), la III e la IV sul rovescio (=Vo) di una tavoletta, della quale oggi
sopravvive, pur con gravi lacune, solo la parte corrispondente alla I e alla IV colonna. Per una
edizione recente del testo a noi noto della Cronaca dei Diadochi (o Cronaca 10), cfr. Del Monte,
Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 183-194, con traduzione italiana e puntuali riferi-
menti alle precedenti edizioni della Cronaca stessa e, in particolare a quella, in genere considerata
canonica, specie nel mondo anglosassone, di A.K. Grayson, Assyrian and Babylonian Chronicles
Babilonia e i Diadochi di Alessandro 41

che Seleuco fu nominato satrapo di Akkad e che nel mese di novembre/dicem-


bre egli entrò in Babilonia, ma anche che «in quell’anno furono rimossi i detriti
dell’Esagila», formula stereotipata che ricorre con una certa regolarità in tutta la
documentazione babilonese, in riferimento ai lavori di manutenzione del tempio,
e che, oltre a indicare l’interesse dei compilatori a questa manutenzione, mette in
evidenza la disponibilità del detentore del potere a farla eseguire53.
Il fatto che Seleuco, fin dal suo primo ingresso a Babilonia54, abbia accon-
sentito alla prosecuzione dei lavori di manutenzione dell’Esagila, già iniziati da
Alessandro55, è stato interpretato come un segno di buona volontà e di rispetto nei
confronti della sensibilità religiosa della popolazione locale56, sempre attenta al
destino del santuario simbolo della propria identità, tanto che anche nel prosie-
guo della Cronaca dei Diadochi si ritrovano analoghe espressioni formulari sulla
manutenzione dell’Esagila, la prima delle quali è citata nel passo, datato all’anno
6 di Alessandro IV, dedicato al rientro di Seleuco a Babilonia dopo la battaglia di
Gaza, dove si sottolinea, tra l’altro, l’istituzione, da parte del dinasta medesimo,
di un nuovo sistema di datazione, in un anno che diventerà poi il primo dell’Era
Seleucidica57.
L’orgogliosa proclamazione, da parte di Seleuco, di questa eclatante novità
cronologica apre la seconda parte superstite della Cronaca, cioè la IV colonna
originaria, che è incisa sul rovescio della tavoletta e che, per quanto possiamo
oggi leggere, nonostante la frammentarietà del testo, contiene una lunga, com-
plessa e articolata narrazione di eventi accaduti durante una guerra sanguinosa e
crudele, combattuta sul suolo babilonese tra Seleuco e un nemico sicuramente da
identificare con il Monoftalmo, dato che il nome di Antigono ricorre più volte nel

(= ABC), Locust Valley, New York 1975, nr. 10, 115-119; per una edizione on-line della Cronaca
dei Diadochi, cfr. il sito www.livius.org, dove, nel link ancient Greece: Diadochi, è visibile il testo,
in varie versioni, curate, nella traduzione e nel commento, da R.J. van der Spek.
53
Per il testo della Cronaca dei Diadochi sull’anno 4 di Filippo, cfr. Del Monte, Testi dalla Babi-
lonia Ellenistica. Volume I, cit., 183-184, Ro 1-6; per un commento a proposito dei detriti dell’Esa-
gila, cfr. ibid., 188-189, con esplicito rimando alle notazioni di 13-17.
54
Sull’ingresso di Seleuco in Babilonia, ignorato dalla tradizione classica e a noi testimoniato solo
dal passo in questione della Cronaca dei Diadochi, cfr. Mehl, Seleukos Nikator und sein Reich, cit.,
39-42; Grainger, Seleukos Nikator, cit., 39-41; Bosworth, The Legacy of Alexander, cit., 210-245.
55
Cfr. supra, 33.
56
G. Marasco, La fondazione dell’impero di Seleuco I: espansione territoriale e indirizzi politici,
RSI 96, 1984, 301-337, partic. 302.
57
Il passo in questione in Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 189-191, Vo
1-13. Per una lettura di questo passo come espressione della volontà di Seleuco di istituire un nuovo
sistema di datazione, cfr. R.J. van der Spek, Nippur, Sippar, and Larsa in the Hellenistic Period,
in M. deJ. Ellis (ed.), Nippur at the Centennial: Papers Read at the 35th Rencontre Assyriologique
Internationale, Philadelphia, 1988, Philadelphia 1992, 235-260, partic. 245-248. Sull’Era Seleuci-
dica in generale, cfr. supra, 37, n. 40.
42 Franca Landucci Gattinoni

testo ancora leggibile58. Per quanto riguarda la datazione di questi fatti59, l’unico
riferimento ancora integro è quello all’anno 7 di Alessandro IV, corrispondente al
310/9, che si trova alla l. Vo 14 del testo, dopo la riga di separazione, che, come
affermano concordemente tutti gli editori, è tipica dei testi cuneiformi per indica-
re, anche iconograficamente, una scansione cronologica: per questo, data la natu-
ra annalistica del nostro documento, tutti gli avvenimenti delle ll. Vo 1-13, privi
di ogni indicazione di divisione cronologica, devono essere riferiti all’anno 6 di
Alessandro, che si conclude, appunto, alla l. Vo 13, subito prima della suddetta
riga di separazione, mentre è difficile stabilire con sicurezza dove abbia termine
la descrizione degli eventi dell’anno 7, che ha il suo inizio nella successiva l. Vo
14.
Per molto tempo, infatti, si è ipotizzato60 che l’indicazione dell’anno 8 di Ales-
sandro (=309/8) fosse caduta nella lacuna che, per la rottura della tavoletta ori-
ginaria61, inizia dopo la l. Vo 17 e che veniva considerata pari ad almeno 4 linee;
su tale base, all’anno 8 di Alessandro erano datati gli avvenimenti descritti nelle
linee indicate come Vo 21-33 nella ormai canonica edizione di Grayson, mentre
i fatti narrati nelle successive ll. Vo 34-43, nella prima delle quali è presente una
indicazione annalistica dove è ancora leggibile il nome di Alessandro, ma, pur-
troppo, non più il numero dell’anno di regno, erano datati al 308/7, integrando
con il numero 9 l’anno di regno mancante.
Una recente revisione dei due spezzoni superstiti della tavoletta originaria ha,
però, accertato che la lacuna tra le due parti è minima e non può aver causato la
perdita di più di una linea di testo62; per questo è oggi più facile postulare che in
questa unica linea perduta non vi fosse la segnalazione cronologica dell’inizio di
un nuovo anno: in questa ipotesi, le linee abitualmente indicate come Vo 21-33 si
riferirebbero tutte ad eventi dell’anno 7 di Alessandro (=310/9), mentre le succes-

58
Cfr. Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 189-191, ll. Vo 15, 21, 23, Bs
(= bordo sinistro) l.
59
Per una rapida sintesi della cronografia del primo Ellenismo nelle tavolette cuneiformi, cfr. Boiy,
Early Hellenistic Chronography in Cuneiform Tradition, cit., 249-255.
60
S. Smith, Babylonian Historical Texts Relating to the Capture and Downfall of Babylon, London
1924, 124-149, partic. 144; Grayson, ABC, cit., nr. 10, 115; Schober, Untersuchungen zur Ge-
schichte Babyloniens, cit., 123-124.
61
I due spezzoni superstiti della tavoletta originaria, oggi conservati al British Museum di Londra,
hanno naturalmente due diversi numeri di inventario: BM 34660, per la parte superiore, corri-
spondente, nel rovescio, alle ll. Vo 1-17, BM 36313, per la parte inferiore, corrispondente, sempre
nel rovescio, alle ll. Vo 21-43, secondo la numerazione adottata, in maniera arbitraria, dal primo
editore, nell’ipotesi, citata supra nel testo, che la lacuna fra le due parti fosse di 4 linee (per una
analisi accurata di tale questione, cfr. Wheatley, Antigonus Monophthalmus in Babylonia, 310-308
BC, cit., 39-47, partic. 42).
62
Cfr. la collazione di I.L. Finkel apud M.J. Geller, Babylonian Astronomical Diaries and Correc-
tions of Diodorus, BSOAS 53, 1990, 1-7, partic. 1, n. 4.
Babilonia e i Diadochi di Alessandro 43

sive Vo 34-43 (con l’aggiunta delle due linee ancora leggibili sull’estremo margi-
ne sinistro inferiore) non potrebbero che descrivere avvenimenti datati all’anno 8
di Alessandro (=309/8), invece che all’anno 9 del medesimo sovrano (=308/7)63.
All’interno di questa griglia cronologica, possiamo individuare con sicurez-
za, e citare con oggettività, a prescindere da eventuali riferimenti alla tradizione
classica, una serie di eventi strettamente connessi alla realtà locale di Babilonia,
collazionando tra loro le letture, talora ampiamente divergenti, di Del Monte (an-
cora molto legato alle edizioni canoniche di Smith e di Grayson) e di van der
Spek (audace innovatore nella decodifica del testo), ma tralasciando le sezioni
così lacunose da rendere di fatto impossibile un’integrazione coerente dei conte-
nuti perduti.
Secondo la Cronaca dei Diadochi, dunque, nel 311/10 babilonese64, nel mese
di Ab (luglio-agosto 311), Seleuco riuscì probabilmente a conquistare un Palazzo,
non meglio identificato, da lui già attaccato nei mesi precedenti, e, in questo fran-
gente, non chiuse (con le dighe) l’Eufrate. In un mese successivo, Seleuco uscì
da Babilonia e si diresse verso una località non più identificabile, che è sul Tigri.
Nel mese di Arahsamnu (ottobre-novembre 311) fu stipulato un patto di amicizia
reciproca tra Seleuco e un esercito di Gutium, che, come dice Del Monte65, «in
quest’epoca è designazione geografica solo letteraria e generica per le regioni
al di là del Tigri a nord-est di Babilonia». Il compilatore della Cronaca chiude i
riferimenti dell’anno 311/10 riportando la formula relativa alla rimozione dei de-
triti dall’Esagila, rimozione che, però, non sappiamo se sia realmente avvenuta,
perché, a causa della lacunosità del testo, Del Monte e van der Spek danno due
letture inconciliabili della l. Vo 13: secondo lo studioso italiano i lavori sarebbero
stati effettuati, mentre secondo lo studioso olandese sarebbero stati sospesi66.

63
Geller, Babylonian Astronomical Diaries, cit., 1-7; Wheatley, Antigonus Monophthalmus in Ba-
bylonia, 310-308 BC, cit., 39-47, partic. 42; Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume
I, cit., 189-194; Boiy, Late Achaemenid and Hellenistic Babylon, cit., 129. Wheatley e Del Monte,
condividendo, come van der Spek, l’ipotesi di una lacuna di non più di una linea, accettano la
nuova datazione, ma mantengono la vecchia numerazione, che pure Wheatley definisce arbitraria,
come fa del resto Del Monte, ibid., 192, che ammette di aver mantenuto la numerazione presente
in Grayson, ABC, cit., n.10, 115-119, «per evitare confusione»; van der Spek, in www.livius.
org, invece, cambia anche la numerazione delle linee del testo: dopo la l. Vo 18, da lui dichiarata
unintelligible, continua con la l. Vo 19, fino all’ultima ancora leggibile che indica come 41 (+ le ll.
1-2 ancora leggibili sull’estremo margine sinistro inferiore), con una sfasatura di due unità rispetto
alla numerazione canonica.
64
Cfr. Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 189-192, ll. Vo 1-13; van der
Spek, in www.livius.org, ll. Vo 1-13.
65
Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 4.
66
Cfr. Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 191, l. Vo 13: In quell’anno [fu
rimossa] la terra dell’Esagil[..; van der Spek, in www.livius.org, l. Vo 13: That year, debris of
Esagila [was] n[ot removed].
44 Franca Landucci Gattinoni

Nel 310/09 babilonese67, Antigono e Seleuco combatterono tra di loro da Ab


(agosto-settembre 310) a Tasrit (dicembre 310-gennaio 309); a partire dal mese
di Tasrit e nei due mesi successivi, di Sabat (gennaio-febbraio 309) e Addaru
(febbraio-marzo 309), Antigono, apparentemente senza trovare resistenza, im-
pazzò a Babilonia e nel suo territorio con distruzioni e saccheggi, arrivando poi a
nominare Archelao satrapo di Akkad, cioè di Babilonia medesima. La situazione
del territorio era così deteriorata che il compilatore della Cronaca non solo affer-
ma, alla l. Vo 23, che «pianti e lamenti si sparsero nella regione»68, ma, scrivendo
che con 1 siclo d’argento si potevano comprare 6 misure di orzo, sottolinea an-
che che i prezzi dei generi alimentari erano alle stelle, visto che, come si evince
chiaramente dalle tabelle dei prezzi ricostruite da Del Monte per il primo secolo
dell’Era Seleucidica, nelle annate «normali», con 1 siclo d’argento si potevano
comprare circa 50 misure di orzo e, nelle annate più favorevoli, più di 100 misure
di orzo69. Le notazioni relative al 310/09 si chiudono, come quelle relative all’an-
no precedente, con la formula sulla rimozione dei detriti dall’Esagila, rimozione
che di nuovo non sappiamo se sia avvenuta o se sia stata sospesa a causa della
guerra, non tanto perché ancora una volta il testo tradito offra a Del Monte e a van
der Spek la possibilità di due letture inconciliabili della l. Vo 33, con lo studioso
italiano che conferma l’effettuazione dei lavori, e lo studioso olandese che la
nega70, quanto piuttosto perché in questo caso tutta la locuzione verbale della for-
mula è in lacuna, lasciando così nel campo della totale arbitrarietà ogni decisione
sulla presenza o meno di un avverbio di negazione nell’originale perduto.
Per quanto riguarda invece l’anno 309/08 babilonese71, le poche righe super-
stiti dopo la datazione iniziale sono così lacunose che è oggettivamente impos-
sibile ricostruire una sequenza evenemenziale con dati coerenti e comprensibili;
è, comunque, certo che la situazione di Babilonia era ancora drammatica, poiché,
come per l’anno precedente, vi sono chiari accenni a costi esagerati delle derrate,
a saccheggi perpetrati nella città e nelle campagne, a pianti e lamenti che si dif-
67
Cfr. Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 189-192, ll. Vo 14-17, 21-33;
van der Spek, in www.livius.org, ll. Vo 14-17, 19-31.
68
La traduzione è di Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 191, ad locum, ma
è sostanzialmente confermata da van der Spek, in www.livius.org, ad locum.
69
Cfr. Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 28-31; dello stesso parere, van
der Spek, in www.livius.org, ad locum, n. 5; sul problema dei prezzi nella Babilonia ellenistica,
cfr. anche R. van der Spek, The Effect of War on the Prices of Barley and Agricultural Land in
Hellenistic Babylonia, in J. Andreau - P. Briant - R. Descat (éd. par), Économie antique. La guerre
dans les économies antiques, Saint Bernard de Comminges 2000, 293-313.
70
Cfr. Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 191, l. Vo 33: [Fu rimossa]
la terra dell’Esagil[..; van der Spek, in www.livius.org, l. Vo 31: Debris of Esagila [was not
removed].
71
Cfr. Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 189-192, ll. Vo 34-43; van der
Spek, in www.livius.org, ll. Vo 32-41.
Babilonia e i Diadochi di Alessandro 45

fondevano nella regione. Risulta poi di grande interesse quanto è ancora parzial-
mente leggibile nelle due linee incise sull’estremo margine sinistro del rovescio
della tavoletta72, dove troviamo un esplicito richiamo a una battaglia combattuta
dall’esercito di Antigono contro l’esercito di Seleuco il giorno 25 del mese di Ab
dell’anno [8] di Alessandro, corrispondente, secondo van der Spek73, al 10 agosto
del 309.
All’attacco iniziale portato da Antigono contro Seleuco nel mese di Ab del
31074, proprio un anno prima della battaglia appena citata, fa riferimento anche
il Diario astronomico -30975, dove, a proposito dei giorni 24 e 25 di quel mese,
il compilatore, nel corpo delle osservazioni celesti, nota, tra l’altro, che la po-
polazione fu presa dal panico e che le truppe di Antigono combatterono76, con-
fermando, quindi, anche se con grande sinteticità, le notizie della Cronaca dei
Diadochi su una realtà evenemenziale che, così come ci è descritta in queste
fonti babilonesi, sembra essere del tutto assente nelle fonti classiche, dove manca
qualsivoglia esplicito richiamo ad avvenimenti bellici «babilonesi» compresi tra
il 311 e il 30877.

72
Cfr. Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 189-192, ll. Bs 1-2; van der
Spek, in www.livius.org, ll. Bs 1-2.
73
Cfr. van der Spek, in www.livius.org, l. Bs 2; di diversa opinione, Wheatley, Antigonus Mo-
nophthalmus in Babylonia, 310-308 BC, cit., 39-47, che, richiamandosi all’autorità di R.A. Parker
- W.H. Dubberstein, Babylonian Chronology 626 BC - AD 75, Providence, RI 1956, 37, data il
giorno 25 del mese di Ab dell’anno [8] di Alessandro al 30 agosto del 309 giuliano.
74
Per la descrizione di questo attacco nella Cronaca dei Diadochi, cfr. supra, 43-44, e n. 67, per
gli estremi del testo.
75
Cfr. Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 17-22, partic. 21-22, dove il
mese di Ab di quell’anno è indicato come corrispondente ai 30 giorni compresi tra il 17 agosto e il
15 settembre del 310. Sulla natura dei Diari astronomici, cfr. supra, 40, n. 49; per la loro citazio-
ne, sulla base della ormai canonica edizione di A.J. Sachs - H. Hunger, Astronomical Diaries and
Related Texts from Babylonia. I: Diaries from 652 BC to 262 BC, Wien 1988, cfr. le note di Del
Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., ix, il quale ci ricorda che «l’anno babilone-
se cominciava nel mese di Nisan, in primavera, così che gli ultimi mesi cadono nel secondo dei due
anni giuliani consecutivi, e che l’anno astronomico, marcato col segno – (meno), fa riferimento al
secondo di questi due anni»; in altre parole, credo si possa dire, ad esempio, che l’anno babilonese
compreso tra il marzo 331 e il marzo 330 equivale all’anno astronomico –330.
76
Cfr. Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 21-22, ll. Ro 8-14.
77
Cfr. supra, 43-44. Diodoro, nostra fonte principale, dopo le informazioni sul trionfale rientro di
Seleuco a Babilonia, in seguito alla vittoria di Gaza (XIX 90-92), si limita ad accennare, in maniera
molto sommaria, ad una spedizione di Demetrio contro Babilonia (XIX 100, 3-7), che nel testo
in questione è datata sicuramente prima della fine dell’anno attico 312/11, visto che è l’ultimo
avvenimento dello scacchiere greco-asiatico descritto nella Biblioteca prima dell’annuncio della
firma della pace tra i Diadochi, datata dallo storico siceliota all’inizio dell’anno attico 311/10 (XIX
105, 1-4). Dato che, nel testo, i due capitoli relativi alla spedizione di Demetrio e alla pace tra i
Diadochi sono separati solo da quattro capitoli relativi al mondo occidentale (Italia e Sicilia), è
logico pensare che essi siano cronologicamente molto vicini e che, dunque, sia ipotizzabile una
datazione della spedizione di Demetrio alla fine dell’anno attico 312/11. Non è, però, possibile
46 Franca Landucci Gattinoni

Sic stantibus rebus, c’è chi ipotizza una possibile integrazione tra i contenuti
della Cronaca dei Diadochi e il racconto di Diodoro, il cui testo costituisce, per
noi, l’ossatura della ricostruzione storica classica: in particolare, il Billows e il
Geller78, in maniera indipendente l’uno dall’altro, sostengono che la spedizio-
ne di Demetrio, descritta da Diodoro (e, pur con minore precisione cronologica,
da Plutarco) come strettamente collegata al rientro di Seleuco in Babilonia, nel
312/1179 attico, sia da identificare con l’invasione di Antigono a noi testimoniata,
sotto l’anno 310/09 babilonese, dalla Cronaca dei Diadochi, nel cui impianto
cronologico dovrebbero dunque essere inseriti i passi diodorei, con un abbassa-
mento della loro datazione di circa due anni, che avrebbe ripercussioni pesanti
sulla struttura stessa della Biblioteca, visto che verrebbe messo in discussione
tutto il contesto temporale di riferimento80.

una maggiore puntualizzazione perché lo storico siceliota non cita l’arconte del 312/11, ma sotto
il nome dell’arconte del 313/12 (Diod. XI 73, 1: arconte Teofrasto) cumula gli avvenimenti di due
anni attici, 313/12 e 312/11, senza dare alcuna indicazione sul cambio di data, limitandosi poi a
citare l’arconte del 311/10 (XIX 105, 1: arconte Simonide). Sulla questione, cfr. ora Bosworth, The
Legacy of Alexander, cit., 226. Sulla datazione di questa spedizione di Demetrio, appare diversa, e
molto più ambigua, la posizione di Plutarco, che, nella Vita di Demetrio, dopo aver utilizzato una
cronologia relativa di grande indeterminatezza, senza alcun puntuale riferimento ad annum, alla
fine della narrazione dell’episodio sembra instaurare una stretta connessione temporale tra il ritiro
di Demetrio da Babilonia e l’assedio di Alicarnasso da parte di Tolemeo, assedio che conosciamo
solo dal passo in questione, ma che, se realmente avvenuto, non può che essere datato nel quadro
dell’offensiva tolemaica in Asia Minore del 309/08, cioè in un momento posteriore di circa due
anni alla firma della pace del 311(cfr. Plut. Demetr. 7, 4-5: [Demetrio, dopo aver ordinato ai suoi
uomini di saccheggiare Babilonia,] ejpanh`lqen ejpi; qavlassan, bebaiotevran Seleuvkw/ th;n ajrch;n
ajpolipw;n: … Ptolemaivou mevntoi poliorkou`nto~ jAlikarnasovn, ojxevw~ bohqhvsa~ ejxhvrpase
th;n povlin. Sull’offensiva di Tolemeo in Asia Minore, cfr. Diod. XX 27, 1-2, che pure non accenna
affatto all’assedio di Alicarnasso. Su questa offensiva di Tolemeo e, soprattutto, sul suo successivo
sbarco in Grecia, cfr. ora, oltre alla rapida sintesi di G. Hölbl, A History of the Ptolemaic Empire,
trad. ingl., London-New York 2001 (= Darmstadt 1994), 19-20, le riflessioni di C. Bearzot, in C.
Bearzot - F. Landucci Gattinoni, I Diadochi e la Suda. 3. Il caso di Demetrio Poliorcete e di Tole-
meo di Lago, «Aevum» 76, 2002, 33-47.
78
Billows, Antigonos the One-Eyed, cit., 136-140; Geller, Babylonian Astronomical Diaries, cit.,
1-7.
79
Cfr. supra, 38-39.
80
A questo proposito, cfr. la tabella finale di Geller, Babylonian Astronomical Diaries, cit., 7, dove
Diod. XIX 90, datato al 312/11 attico, è abbassato al periodo 311-10 (calendario giuliano? Nulla
dice l’Autore), Diod. XIX 100, datato ancora al 312/11, è abbassato al periodo 310-308 (calenda-
rio giuliano?), e Diod. XIX 91-92, datato naturalmente al 312/11 attico, è abbassato addirittura al
307. Altrettanto ingarbugliato il più articolato ragionamento di Billows, Antigonos the One-Eyed,
cit., 136-142, il quale, in effetti, giunto alla fine della sua fatica, a 142, n. 13, si sente in dovere di
notare che la cronologia da lui adottata comporta un notevole rearrangement del contesto narrativo
diodoreo e promette di pubblicare a separate paper, per chiarire tutta la problematica cronologica:
di questo studio promesso io, ad oggi, non ho trovato alcuna traccia, e nulla del genere è noto a
Bosworth, The Legacy of Alexander, cit., 223-224 e n. 60, dove c’è un esplicito richiamo alla tesi
sostenuta da Billows nel 1990, senza ulteriori riferimenti bibliografici. Sulla stessa linea di Geller e
Babilonia e i Diadochi di Alessandro 47

La maggior parte degli studiosi si limita, invece, a ipotizzare, come ha fatto an-
cora di recente il Bosworth81, che «le fonti greche e quelle babilonesi …. coprano
periodi di tempo diversi» (e consecutivi): in base a questa tesi, oggi maggioritaria
tra gli studiosi, se non si può escludere che gli avvenimenti ‘babilonesi’ anteriori
al 311/10 e posteriori al 316/5 (ultimo anno superstite nel diritto della Cronaca
dei Diadochi), del tutto assenti nel testo a noi noto, fossero trattati nelle colonne
II e III della tavoletta, oggi purtroppo perdute, dobbiamo invece prendere atto
della grave lacuna contenutistica della tradizione classica che, con molta disin-
voltura, dopo un rapido accenno alla spedizione di Demetrio contro Babilonia
sicuramente anteriore, secondo Diodoro, alla pace del 31182, abbandona brusca-
mente il mondo mesopotamico, senza dare neanche la pur minima notizia dei
successivi scontri tra Antigono e Seleuco.
In entrambe le ipotesi sopracitate, risulta ridimensionata la credibilità com-
plessiva dell’informazione diodorea sugli avvenimenti ‘babilonesi’, nella prima
per le sue gravi imprecisioni cronologiche, nella seconda, invece, per il totale
silenzio su questioni politico-militari di notevole spessore; viene così ad essere
indebolito anche il ‘dogma’ storiografico sulla compattezza e sulla grande affi-
dabilità dei libri XVIII-XX della Biblioteca, considerati ipostasi fedele e conti-
nua delle Storie di Ieronimo di Cardia83; ancora una volta, come mi è già spesso
capitato in passato84, l’analisi puntuale di una sezione del testo diodoreo sembra

di Billows, cfr. ora le riflessioni di Boiy, Late Achaemenid and Hellenistic Babylon, cit., 130-134,
che le riassume, con molta chiarezza, nella tabella a 133.
81
Bosworth, The Legacy of Alexander, cit., 223-225; tra i molti che sono allineati sulle posizio-
ni sostenute anche da Bosworth, cfr. e.g. Schober, Untersuchungen zur Geschichte Babyloniens,
cit., 132-135; Sherwin White, Seleucid Babylonia, cit., 10-14; Grainger, Seleukos Nikator, cit.,
105-112; Sherwin White - Kuhrt, From Samarkhand to Sardis, cit., 10-11; Wheatley, Antigonus
Monophthalmus in Babylonia, 310-308 BC, cit., 39-47.
82
Per la descrizione della spedizione di Demetrio, cfr. Diod. XIX 100, 3-7; per l’annuncio della
pace firmata tra i Diadochi, cfr. Diod. XIX 105, 1-4. Per una riflessione su questa parte del testo
diodoreo, cfr. supra, n. 77.
83
Cfr. e.g. Bosworth, The Legacy of Alexander, cit., 224, che, a proposito delle fonti di Diodoro (e
di Plutarco) sugli avvenimenti ‘babilonesi’ dà per scontata l’identificazione della loro fonte comu-
ne con Ieronimo di Cardia, senza alcuna ulteriore riflessione; ancora sulla stessa linea Wheatley,
Antigonus Monophthalmus in Babylonia, 310-308 BC, cit., 39-47, il quale, partendo dall’osserva-
zione che l’assenza, in Diodoro, di ogni riferimento alla guerra combattuta tra Antigono e Seleuco
negli anni 310-308 is puzzling, sottolinea, in maniera del tutto apodittica, che Diodoro e Plutarco
derivano surely da Ieronimo di Cardia, il quale doveva avere ricordato così sotto voce (in italiano
nel testo di Wheatley) la guerra del 310-308 tra Antigono e Seleuco, da convincere sia Diodoro che
Plutarco a cassare l’informazione, un lacerto della quale sopravviverebbe, a suo avviso, unicamente
in Polyaen. IV 9, 1, dove è descritto, in maniera del tutto decontestualizzata, uno stratagemma usato
da Seleuco, durante uno scontro con Antigono, per vincere le già soverchianti truppe nemiche.
84
Per una ricapitolazione delle mie ricerche sulle fonti di Diodoro XVIII-XX, cfr. ora Landucci
Gattinoni, La tradizione su Seleuco in Diodoro XVIII-XX, cit., 155-181; Ead., Per un commento
48 Franca Landucci Gattinoni

invitare a una profonda revisione di una ‘ortodossia’ storiografica dei moderni


che appare fondata più su una petizione di principio che su reali dati di fatto.
A prescindere, però, da queste problematiche sulla Quellenforschung diodo-
rea, che non è qui il caso di riprendere, per mancanza di tempo e di spazio, è
importante sottolineare che quanto abbiamo visto finora della tradizione docu-
mentaria babilonese dà grande rilievo alla drammatica situazione vissuta dalle
popolazioni indigene a causa dell’invasione delle truppe antigonidi, mentre non
sembra presentare esplicite notazioni negative legate alla presenza e/o al com-
portamento di Seleuco. In questa tradizione documentaria, la costante attenzione
alla realtà locale, anche nei suoi aspetti più quotidiani, come quelli legati al costo
dell’orzo, si coniuga con la chiara aspirazione ad una tranquilla continuità, messa
gravemente a rischio da Antigono Monoftalmo, al cui arrivo, come si legge nel
Diario astronomico -309, Ro 9, «nel paese si sparse terrore», e che, nei 12 mesi
successivi, come si legge per ben due volte nella Cronaca dei Diadochi, Vo 26-
27 e 39-40, «saccheggiò città e campagne», cosicché «pianti e lamenti si sparsero
nella regione».
Mentre le fonti classiche, come abbiamo già visto, interpretano le azioni com-
piute dai Diadochi a Babilonia dal punto di vista dei conquistatori macedoni, i
quali, come Demetrio durante la spedizione datata da Diodoro al 312/1185, non
esitavano ad autorizzare il saccheggio del territorio, senza alcuna preoccupazione
per la popolazione locale, quando ritenevano che ciò fosse congruente con la loro
strategia, in una dinamica di articolate interrelazioni tra tutti i protagonisti del
dopo-Alessandro, le fonti documentarie babilonesi leggono (e giudicano) le ge-
sta dei Diadochi unicamente in rapporto ai cambiamenti che esse introducevano
nelle condizioni di vita degli abitanti del territorio, disinteressandosi totalmente
delle questioni internazionali, che mettevano in connessione il destino di Babilo-
nia con il resto dell’impero.
Per questo, quando la Cronaca parla dei saccheggi compiuti dagli uomini di
Antigono nella regione, viene messo in primo piano il problema della sopravvi-
venza stessa dei Babilonesi, esponenti di un mondo immobile, più volte costretto
a subire i violenti attacchi di milizie straniere ed estranee, guidate da comandanti
sempre pronti a partire per altri e distanti lidi; proprio il desiderio e, di conse-
guenza, la ricerca della perduta stabilità da parte della popolazione potrebbero
aver contribuito a far apparire in una luce positiva Seleuco, che, pur essendo
macedone e legato alle dinamiche dell’impero, al suo rientro a Babilonia, dopo

storico al libro XVIII di Diodoro: riflessioni preliminari, in D. Ambaglio (a cura di), Epitomati ed
epitomatori: il crocevia di Diodoro Siculo. Atti del Convegno, Pavia, 21-22 aprile 2004, Como
2005, 175-190.
85
Cfr. in particolare Diod. XIX 100, 3-7; Plut. Demetr. 7, 1-4; cfr. supra, 38-39.
Babilonia e i Diadochi di Alessandro 49

quattro anni di esilio, aveva mostrato, come nota esplicitamente Diodoro86, un


atteggiamento collaborativo con l’establishment locale, atteggiamento che, nel-
l’ottica babilonese, poteva prefigurare un convinto rispetto dei costumi e delle
tradizioni ancestrali degli abitanti del territorio.
L’esistenza di una buona sintonia tra Seleuco, da un lato, e i notabili babilone-
si, dall’altro, sembra, dunque, ‘leggibile’ nell’impostazione globale della super-
stite IV colonna della Cronaca dei Diadochi, visto che Seleuco vi appare come
l’unico in grado di combattere in difesa della realtà epicoria contro l’invasore
Antigono (anche se con esiti alterni): su questa base, viene spontaneo domandarsi
se anche in altre fonti documentarie babilonesi siano rintracciabili, nei confronti
di Seleuco, riferimenti positivi, utili a confermare quanto abbiamo appena notato
a proposito della Cronaca.
A questo riguardo, è facile pensare a un altro noto testo cuneiforme, la cosid-
detta Profezia dinastica, opera che, fin dalla apparizione dell’editio princeps,
pubblicata dal Grayson nel 1975, ha suscitato ampie discussioni tra gli studiosi,
a partire dalla ricostruzione della sua struttura originaria87, anche se vi è un so-
stanziale accordo sul fatto che essa offrisse, in teoria in forma di previsione, ma
di fatto come vaticinium ex eventu, una successione di anonimi re di Babilonia,
identificabili dal numero di anni del loro regno e da alcuni dettagli del loro ope-
rato, a partire dal crollo dell’impero Assiro fino all’arrivo dei Macedoni, e che

86
Diod. XIX 91, 1-2; scettico sulla possibilità di considerare le notazioni di Diodoro sul favore
goduto da Seleuco presso il popolo di Babilonia come il riflesso di una vera e propria realtà storica
si mostra ora Boiy, Late Achaemenid and Hellenistic Babylon, cit., 134. Sul passo in questione di
Diodoro, cfr. supra, 36-37.
87
Per quanto riguarda la struttura originaria del testo, se Grayson, BHLT, cit., 24-37, ha ritenuto
che la tavoletta contenesse, per ciascun lato, due sole colonne, tutte ancora parzialmente leggibili,
W.G. Lambert, The Background of Jewish Apocalyptic, London 1978, 1-20, ha, invece, avanzato
l’ipotesi che in origine sulla tavoletta vi fossero tre colonne per lato, con la totale scomparsa, ad
oggi, delle colonne III e IV, ipotesi già nota a Marasco, La «profezia dinastica», cit., 531, n. 7, e
ora esplicitamente accettata nella recentissima edizione di R. van der Spek, Darius III, Alexan-
der the Great and the Babylonian Scholarship, in W. Henkelman - A. Kuhrt (eds.), Achaemenid
History XIII. A Persian Perspective. Essays in Memory of Heleen Sancisi-Weerdenburg, Leiden
2003, 289-346. Per quanto riguarda le eventuali ricadute di questa ipotesi nella ricostruzione del
piano dell’opera, chi ipotizza che in origine il testo constasse di sei colonne, ritiene che nelle due
colonne perdute fossero elencati i re Achemenidi compresi tra Dario I e Artaserse, la cui assenza
costituisce una crux della ricostruzione del testo in sole quattro colonne fatta da Grayson. Su tutte
le problematiche relative alla Profezia dinastica, senza alcuna pretesa di esaustività, cfr., oltre agli
studi già indicati a proposito della struttura del testo, anche le riflessioni di Sherwin White, Seleucid
Babylonia, cit., 10-14; Kuhrt, Alexander and Babylon, cit., 121-132; Briant, Alexandre à Babylone,
cit., 23-32; C. Saporetti, Vaticini mesopotamici ex eventu, in La profezia apologetica di epoca
persiana ed ellenistica. Atti del X Convegno di Studi Veterotestamentari (Rocca di Papa, 8-10
settembre 1997), «Ricerche Storico Bibliche» 11, 1999, 15-30, in particolare 18-22; Muccioli, ‘Il
re dell’Asia’, cit., 105-158.
50 Franca Landucci Gattinoni

si chiudesse con un colofone, nel quale, come è ancora oggi visibile, era inciso
l’ordine di comunicare la profezia ai soli iniziati.
In questa sede, a noi interessano i contenuti delle due colonne ancora parzial-
mente superstiti sul rovescio della tavoletta, che corrispondono alla III e alla IV
nella numerazione del Grayson, qui conservata, in continuità con la posizione
di altri, come Del Monte, per evitare possibili fraintendimenti: secondo il Gray-
son88, la cui opinione è spesso considerata un imprescindibile punto di riferimen-
to, nella III colonna, dopo un accenno al breve regno del re di Persia Arsete e
all’ascesa al trono di Dario III, poi attaccato dagli invasori Khanei, da tutti iden-
tificati con i Macedoni di Alessandro89 (col. III, ll. 1-12), sarebbe profetizzato
un contrattacco vincente di Dario III, benedetto dagli dei babilonesi e foriero di
benessere e felicità per il popolo (col. III, ll. 13-23). Nella IV colonna, invece, pur
così mutila da rendere quasi impossibile una qualsivoglia ricostruzione di senso
compiuto, sarebbero rilevabili riferimenti, naturalmente ‘profetici’, data la natura
del documento, a Filippo III Arrideo, ad Alessandro IV e alla conquista di Babi-
lonia da parte di Seleuco (col. IV, ll. 1-6). In questa interpretazione del testo, che
presuppone, come terminus post quem per la sua compilazione, l’insediamento di
Seleuco a Babilonia, il Grayson legge un forte interesse dello scriba ad una alter-
nanza tra regni ‘buoni’ e ‘cattivi’, ipotizzando, pur senza molta convinzione, un
giudizio negativo su quello di Seleuco90, ma non può non giudicare impossibile
riconciliare la profezia sulla disfatta inflitta ai Khanei dal re da lui identificato
con Dario III (col. III, ll. 13-23) con la realtà storica della vittoria di Alessandro a
Gaugamela, perché, come riconosce l’editore stesso, «è estremamente improba-
bile che il ‘profeta’ abbia volutamente falsificato il risultato e le conseguenze di
una così famosa e ben conosciuta battaglia»91.
Di questo era convinto a priori anche il Marasco92, che, per risolvere questa
aporia, lasciata in sospeso dal Grayson, ha datato la Profezia ai mesi immediata-
mente successivi alla battaglia di Gaugamela, quando, a suo avviso, una parte del
clero babilonese, ostile ad Alessandro, avrebbe ancora sperato in una rivincita di

88
Cfr. Grayson, BHLT, cit., 34-37, con la translitterazione e la traduzione del testo originale delle
colonne III e IV della tavoletta in questione.
89
Dopo le prime indicazioni in proposito di Grayson, BHLT, cit., 26, cfr. e.g. le riflessioni di Ma-
rasco, La «profezia dinastica», cit., 530, n. 4; Del Monte, Da «barbari» a «re di Babilonia», cit.,
144-147; van der Spek, Darius III, Alexander the Great and the Babylonian Scholarship, cit., 305 e
321. È ormai opinione condivisa che l’etnico Khanei o, secondo altre traslitterazioni, Hanei, fosse
in origine il nome di un popolo mesopotamico delle steppe ad ovest di Babilonia, ma che, in età
ellenistica, venisse usato nei testi cuneiformi, ‘arcaizzanti’ e/o ‘letterari’, per indicare i Macedoni,
cioè un popolo che veniva da ovest.
90
Cfr. Grayson, BHLT, cit., 9 e 17.
91
Cfr. Grayson, BHLT, cit., 26-27.
92
Cfr. Marasco, La «profezia dinastica», cit., 529-537.
Babilonia e i Diadochi di Alessandro 51

Dario e avrebbe, dunque, elaborato il testo in questione come un vero vaticinio


per il futuro; in questa prospettiva, oggi seguita da alcuni Iranisti, che insistono
per una lettura filo-achemenide del documento93, lo studioso italiano non può che
negare l’esistenza di qualsivoglia riferimento a Seleuco nella IV colonna, che
egli giudica così mutila da essere in pratica incomprensibile. Di diverso parere la
Kuhrt e la Sherwin White94, che non solo accettano in toto la lettura e la datazio-
ne del testo proposta dal Grayson, liquidando con molta (forse troppa!) sicurezza
le perplessità di quest’ultimo a proposito della contraddizione tra vittoria profe-
tizzata e sconfitta reale di Dario III, ma, valorizzando gli ipotetici accenni alla
conquista di Seleuco nella col.IV, vi leggono, a differenza del Grayson, una forte
impronta filo-seleucidica, impressa all’opera dal clero babilonese, che avrebbe
elaborato la profezia quando, cacciato definitivamente Antigono dalla regione,
Seleuco era ormai divenuto ‘padrone’ del territorio, dove, come ricordavano, non
ante, ma post eventum, i sacerdoti locali, era riuscito a riportare ordine, pace e
benessere, nonostante le devastazioni provocate da una lunga guerra impietosa,
che, come abbiamo già visto, è descritta con dovizia di particolari nella Cronaca
dei Diadochi.
In base all’impostazione che della questione fanno le due studiose sopraci-
tate, la Profezia dinastica costituirebbe, dunque, una testimonianza importante
ed esplicita del rapporto di collaborazione instauratosi tra Seleuco e il clero ba-
bilonese, nel cui ambiente questo testo sarebbe stato elaborato, proprio per mo-
strare al nuovo dinasta i desiderata della società epicoria, dato che, come è stato
autorevolmente sottolineato anche da Momigliano95, la Profezia dinastica «non
fa storia universale, ma locale», presupponendo che «Babilonia resta e i suoi do-
minatori, buoni o cattivi, mutano».
È, però, innegabile che in questo quadro, che ben si concilia con quanto ave-
vamo già detto della posizione di Seleuco a proposito della Cronaca dei Diado-
chi96, resta ancora e sempre irrisolta l’aporia, già evidenziata dal Grayson, tra
vittoria profetizzata e sconfitta reale di Dario III, tanto che, negli ultimi quindici
anni, parecchi studiosi hanno ripreso la questione, proponendo varie teorie, più o
meno innovative, nella convinzione che sia comunque necessario superare questa
esplosiva contraddizione. Il Geller97, in maniera così sintetica da risultare addi-

93
Cfr. e.g. Briant, Alexandre à Babylone, cit., 23-32; C. Saporetti, Vaticini mesopotamici ex eventu,
cit., 18-22.
94
Kuhrt, Alexander and Babylon, cit., 121-130; Sherwin White, Seleucid Babylonia, cit., 10-14.
95
A. Momigliano, Daniele e la teoria greca della successione degli imperi, RAL 35, 1980, 157-
162.
96
Cfr. supra, 48-49.
97
Geller, Babylonian Astronomical Diaries, cit., 1-7.
52 Franca Landucci Gattinoni

rittura criptica, ipotizza che le ll. 13-23 della col. III Grayson si riferiscano, non
ad una inesistente e anti-storica rivincita di Dario III contro Alessandro III, ma
alle «guerre combattute tra Antigono e Seleuco tra il 310-308 e il 307», datando
in quest’ultimo anno la definitiva vittoria di Seleuco, che sarebbe stata descritta
anche nella parte finale, oggi perduta, della Cronaca dei Diadochi.
Una ipotesi affine a quella di Geller, di cui pure non cita il nome, è stata avan-
zata anche da Del Monte98, il quale nel personaggio che «radunerà l’esercito»,
avendo al suo fianco le divinità babilonesi, Enlil, Shamash e (Marduk) (col. III
Grayson, ll. 13-17), vede, come appunto il Geller, non un improbabile Dario III,
ma Seleuco, vittorioso sugli invasori Khanei, ipostasi di tutti gli eserciti macedo-
ni che avevano devastato il territorio babilonese dall’epoca di Alessandro a quella
di Antigono, fino alla agognata stabilizzazione raggiunta proprio grazie al nuovo
dinasta. In questa lettura di Del Monte, la Profezia appare come un testo di aperta
propaganda filoseleucidica, voluto dall’ambiente templare che, in prosieguo di
tempo, arrivò ad adottare i membri di questa dinastia come «re di Babilonia non
solo legittimi e legittimati dagli dei, ma in qualche modo anche ‘autoctoni’ (è
Seleuco che raduna ‘l’esercito di Akkad’ per scacciare Alessandro [sic: da leg-
gere Antigono? N.d.A.] e i suoi Khanei), fino ad essere inseriti nella ininterrotta
regalità babilonese risalente ai tempi mitici del diluvio»99. Questa ricostruzione
filoseleucidica, che, tra l’altro, mi sembra anche perfettamente congruente con il
dettato delle fonti classiche, che parlano più volte esplicitamente dei buoni rap-
porti tra Seleuco e i Babilonesi100, è stata di recente contestata da van der Spek101,
che, attraverso una analisi attenta della Profezia dinastica, ritiene non accettabile
l’identificazione con Seleuco del re che raduna «l’esercito di Akkad» per una vit-
toriosa battaglia contro le truppe dei Khanei (col. III Grayson, ll. 13-23), perché
essa comporterebbe una troppo marcata svalutazione del ruolo di Alessandro nel
testo.
In alternativa a questa interpretazione, il van der Spek propone due ipotesi, tra
le quali confessa di non essere capace di scegliere; nella prima102, egli identifica
il re che raduna «l’esercito di Akkad» con Alessandro medesimo, nuovo re di
Babilonia, ma, per far questo, deve supporre un madornale errore dello scriba,

98
Del Monte, Da «barbari» a «re di Babilonia», cit., 146-147, che data la Profezia in piena età
seleucidica, forse addirittura al II secolo e che, per maggiori approfondimenti sull’intera questione,
rimanda a Id., Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume II, Pisa-Roma, c.d.s
99
Del Monte, Da «barbari» a «re di Babilonia», cit., 147.
100
Cfr. supra, 36-37.
101
van der Spek, Darius III, Alexander the Great and the Babylonian Scholarship, cit., 289-346,
partic. 311-342.
102
van der Spek, Darius III, Alexander the Great and the Babylonian Scholarship, cit., 327-330.
Babilonia e i Diadochi di Alessandro 53

che, quando parla di sconfitta inflitta da tale sovrano all’esercito dei Khanei, cioè
dei Macedoni (fatto certo non ascrivibile in nessun caso ad Alessandro!), avrebbe
inteso scrivere Gu-ti-i (Gutiei103) invece di Ha-ni-i(Khanei), con un chiaro riferi-
mento a popolazioni barbare stanziate al di là del Tigri, a nord-est di Babilonia:
si tratta, a mio avviso, di una forzatura del testo del tutto inaccettabile, perché
giustificata solo dalla necessità di piegarlo ad una ricostruzione moderna, che, in
questo modo, finisce per apparire del tutto gratuita.
Quanto alla seconda ipotesi, che per molti aspetti si colloca sulla scia di ciò che
era già stato fatto da altri, in primis, il Marasco104, il van der Spek105 propone di
considerare la l. 12 della col. IV Grayson come il punto finale del vaticinium ex
eventu e il punto iniziale di una «vera predizione»: secondo lo studioso olandese,
il compilatore della Profezia, che già ben conosceva la definitiva vittoria di Ales-
sandro su Dario III, avrebbe prefigurato il crollo del potere macedone di Alessan-
dro medesimo, causato da un futuro re, immaginato come capace di portare una
nuova era di pace in Akkad. In questa prospettiva, non solo il terminus ante quem
dell’opera sarebbe la morte di Alessandro, che, nella realtà, fu sconfitto, non da
un nuovo re di Akkad, ma da una malattia tanto repentina quanto violenta, ma,
dato che essa continuava per almeno un’altra colonna, sarebbe necessario pensare
a un vero vaticinio di grande ampiezza e articolazione, che prescindesse, di fatto,
da un puntuale contatto con l’esistente, in un’ottica ‘divinatoria’, che renderebbe
il testo praticamente inutilizzabile per una ricostruzione storica del periodo post-
Gaugamela.
Sic stantibus rebus106, mi sembra difficile negare che, anche se le interpreta-
zioni filoseleucidiche della Profezia dinastica presentano meno contraddizioni
e difficoltà delle altre, le ambiguità del testo rendono impossibile considerarlo
una conferma sicura dell’ipotesi che Seleuco I, appena rientrato a Babilonia, già
rappresentasse ufficialmente, per il clero locale, colui che si sarebbe rivelato
capace di riportare la pace, radicando il suo insediamento sul territorio. Risale,
infatti, non all’epoca del Nicatore, ma a quella di suo figlio Antioco, il primo

103
Sui Gutiei (=abitanti di Gutium), cfr. supra, 43 e n. 65, con la citazione del passo di Del Mon-
te, Testi dalla Babilonia Ellenistica. Volume I, cit., 4, dove si legge che «Gutium in quest’epoca
è designazione geografica solo letteraria e generica per le regioni al di là del Tigri a nord-est di
Babilonia».
104
Cfr. supra, 49 e n. 87.
105
van der Spek, Darius III, Alexander the Great and the Babylonian Scholarship, cit., 331-342.
106
Molto prudente la posizione di Boiy, Late Achaemenid and Hellenistic Babylon, cit., 131 e 134,
il quale, dopo aver sottolineato che la Profezia dinastica acquisterebbe una chiara valenza filoseleu-
cidica solo se venisse confermata l'ipotesi di Geller, Babylonian Astronomical Diaries, cit., 1-7, che
identifica con Seleuco ‘colui che raduna l'esercito di Akkad’, non prende posizione, limitandosi a
dire che la Profezia dinastica è un testo problematico.
54 Franca Landucci Gattinoni

documento babilonese nel quale un sovrano di origine macedone appare perfetta-


mente inserito nella realtà indigena: si tratta del famoso Cilindro di Borsippa, un
documento di fondazione templare, frutto di una lunga tradizione epicoria107, nel
quale, come sottolinea opportunamente il Virgilio108, Antioco I presenta se stesso
e i suoi interventi a favore dei templi di Borsippa (e dell’Esagila di Babilonia), in
un modo che è del tutto conforme «alla ideologia reale e ai formulari religiosi di
antichissima data»:
Antioco, Grande Re, re forte, re dell’intero mondo, re di Babilonia, re di tutte
le terre, il sostentatore dell’Esagila e dell’Ezida, il figlio primogenito del re Se-
leuco il Macedone re di Babilonia, [sono] io.
È, dunque, evidente che, in Oriente, già durante il regno del figlio di Seleuco,
nella generazione degli Epigoni, il dinamismo macedone dei Diadochi si era or-
mai integrato e cristallizzato «all’interno di una ideologia babilonese immutabil-
mente esclusiva, autoreferente e totalizzante»109, in un quadro di staticità sociale
tesa soltanto a perpetuare la sua stessa esistenza.

107
Il Cilindro di Borsippa è stato più volte tradotto e commentato; a questo proposito, senza nes-
suna pretesa di esaustività, cfr. oltre la canonica edizione di J.B. Pritchard, Ancient Near Eastern
Texts Relating to the Old Testament, Princeton 19693, 317, le traduzioni italiane di Del Monte, Da
«barbari» a «re di Babilonia», cit., 146-152, e di Virgilio, Lancia, diadema e porpora, cit., 74-75.
Per più ampie riflessioni, cfr., oltre all’ormai classico studio di D. Musti, Lo Stato dei Seleucidi.
Dinastia popoli città da Seleuco I ad Antioco III, SCO 15, 1966, 61-197, partic. 99-105, A. Kuhrt
- S. Sherwin-White, Aspects of Seleucid Royal Ideology: The Cylinder of Antiochus I from Bor-
sippa, JHS 111, 1991, 71-86; P. Briant, De Samarkand à Sardes et de la ville de Suse au pays des
Hanéens, «Topoi» 4, 1994, 455-467, partic. 459-461.
108
Virgilio, Lancia, diadema e porpora, cit., 74.
109
Virgilio, Lancia, diadema e porpora, cit., 75.
gli egiziani e la cultura
economica greca: qualche
documento riconsiderato

Lucia Criscuolo
Università di Bologna

Grazie a numerosi studi, negli ultimi anni il problema della definizione, inter-
pretazione e valutazione della storia economica dell’Egitto ellenistico e romano
ha goduto di un’attenzione intensa, tanto da prospettare ormai un disegno e una
forma nuova rispetto al quadro conosciuto e reso familiare dai fondamentali lavo-
ri di C. Préaux e M. Rostovtzeff, riconosciuti rappresentanti della teoria moder-
nista, nonché dalla serie di ‘reazioni’, di matrice neo-primitivista, suscitate dal-
l’opera di M. Finley, a sua volta oggetto poi di parecchie discussioni critiche1.

1
Le opere di riferimento degli autori summenzionati, rispettivamente L’Économie royale des La-
gides, Bruxelles 1939, Social and Economic History of the Hellenistic World, Oxford 1941 (trad.
it. Storia economica e sociale del mondo ellenistico, Firenze 1966-1980), The Ancient Economy,
Berkeley-Los Angeles 19852, sono celeberrime e hanno segnato fino a poco tempo fa, direttamente,
nei primi due casi, o indirettamente, non solo le principali ricostruzioni dell’economia egiziana,
ma di riflesso anche l’attività stessa di edizione di buona parte dei papiri tolemaici. Tra gli ormai
numerosi lavori recenti sul tema storiografico su menzionato segnalo, soprattutto per la lucidità
dell’analisi di aspetti specialmente significativi per l’Egitto, J.K. Davies, Hellenistic Economies in
the Post-Finley Era, in Z.H. Archibald - J.K. Davies - V. Gabrielsen - G.J. Oliver (eds.), Hellenistic
Economies, London-New York 2001, partic. 39-45; nonché, dello stesso autore, After Rostovtzeff,
MedAnt 7, 2004, partic. 22. Sulla necessità di liberarsi dalla polemica annosa tra modernismo e pri-
mitivismo cfr. ad esempio J. Andreau, Twenty Years after Moses I. Finley’s The Ancient Economy
(traduzione dal francese di un contributo pubblicato in «Annales HSS» 50, 1995, 947-960), in W.
Scheidel - S. von Reden (eds.), The Ancient Economy, Edimburgh 2002, 35. La nutrita bibliografia
sull’argomento mi pare abbia sposato questa idea, ma non mi sembra che negli ultimi 10 anni l’ana-
lisi di documenti e problemi concreti, almeno per il mondo greco e più in particolare per l’Egitto
tolemaico, abbia segnato significativi progressi in questo senso, cfr. ad esempio J. Manning, The
Relationship of Evidence to Models in the Ptolemaic Economy (332 BC - 30 BC), in J.G. Manning -
I. Morris (eds.), The Ancient Economy. Evidence and Models, Stanford 2005, 163-186; più concreti
i lavori di S. von Reden, Money and Coinage in Ptolemaic Egypt. Some Preliminary Remarks, in
B. Kramer - W. Luppe - H. Maehler - G. Poethke (Hrsgg.), Akten des 21. internationalen Papyrolo-
genkongresses, Berlin, 13-19/8/1995, Arch.f.Pap., Beih. 3, Stuttgart-Leipzig 1997, 1003-1008; The
Politics of Monetization in Third-Century BC Egypt, in A. Meadows - K. Shipton (eds.), Money
and Its Uses in the Greek World, Oxford 2001, 65-76; Money in the Ancient Economy: A Survey of
Recent Research, «Klio» 84, 2002, 141-174.

Gnoli, Muccioli (eds.), Incontri tra culture, Milano 2007, 55-69


56 Lucia Criscuolo

Lo scopo di queste pagine è di contribuire a reimpostare una piccola parte del


problema2, cioè quella concernente la qualità e quantità degli eventuali mutamen-
ti intervenuti nell’economia dell’Egitto dal III al I secolo a.C., in conseguenza
della conquista macedone, o in altri termini di verificare se e in che misura la
cultura economica greca abbia influenzato e modificato l’assetto di alcune delle
relazioni economiche nella parte egiziana del regno tolemaico3, ovvero ne sia
stata trasformata. Per cultura economica greca s’intenderà infatti in questa sede
l’insieme di istituzioni e di prassi che connotarono, identificarono, regolarono
l’economia ovvero le attività economiche di una comunità greca (quindi pro-
duzione di beni non solo d’uso, scambi interni ed esterni di merci, fisco, valute,
banche, tutte comunque caratterizzate dall’impiego di moneta, ecc.), ne compre-
sero le relazioni, ne modificarono, più o meno deliberatamente, l’assetto, secon-
do modalità corrispondenti essenzialmente alla ‘cellula-polis’4. Con ‘egiziani’ si
designano qui gli abitanti dell’Egitto in quanto appartenenti, anche parzialmente,
all’etnia indigena o comunque portatori di una cultura risalente all’età faraonica,
scarsamente modificata dalle successive dominazioni persiane5, ma non solo; in

2
Con la ben nota capacità di lettura storica del Maestro bruxellense, un obiettivo del tutto analogo
fu perseguito esattamente 30 anni fa da J. Bingen nel suo contributo Économie grecque et société
égyptienne au III siécle, in H. Maehler - V.M. Strocka (Hrsgg.), Das ptolemäische Ägypten. Akten
des internationalen Symposions 27.-29 September 1976 in Berlin, Berlin 1978, 211-218: a chi scri-
ve, notoriamente di scarsa statura, non resta che tentare di salire sulle spalle del gigante, usando la
scala fornita dai 30 anni trascorsi e proponendo quindi, sulla scorta di una sostanziale consonanza
di valutazione storica, argomenti leggermente diversi. Del resto la necessità di lasciarsi alle spalle
molti dei postulati che hanno fondato gli studi storico-economici del mondo antico fino al secondo
dopo guerra è bena argomentata da I. Morris e J. Manning nell’‘Introduction’ al volume The Acient
Economy. Evidence and Models, cit, 1-44; cfr. anche J.K. Davies, Linear and Nonlinear Flow
Models for Ancient Economies, ibid., 127-156, partic. 130-134, il quale parla di «starting again» a
proposito della necessità di predisporre nuovi modelli interpretativi.
3
Sottolineo ‘nella parte egiziana del regno’ perché un aspetto che non mi risulta finora toccato è
che l’organizzazione economica del regno, per i Tolemei, comprendeva necessariamente anche
i territori extra-egiziani. Nel pur ancora indispensabile R. S. Bagnall, The Administration of the
Ptolemaic Possessions Outside Egypt, Leiden 1976, non se ne fa, per ovvie ragioni, un’adeguata
trattazione.
4
Per ovvie ragioni di sintesi in questa sede mi limito a rinviare, per il peculiare rapporto tra questo
tipo di cultura economica e gli strati socialmente elevati delle poleis greche, nonché di Roma, al-
l’utilissima rassegna di S. von Reden, Money in the Ancient Economy. A Survey of Recent Resear-
ch, «Klio» 84, 2002, 141-174, partic. 143-148. Tuttavia, per l’aspetto più strettamente monetario,
mi pare interessante ricordare la conclusione di G. Le Rider, Histoire économique et monetaire
de l’Orient hellénistique, in Id., Études d’histoire monétaire et financière du monde grec. Écrits
1958-1998, III, Athènes 1999, 809, che ascrive la peculiare forma di ‘mercantilismo’ economico
attuato, anche attraverso tecniche ed espedienti di carattere monetario dai primi due Tolemei, alle
caratteristiche della realtà economica egiziana pregressa.
5
O almeno così solitamente si ritiene: peraltro non mancano contributi che dovrebbero ormai in-
durre a una maggiore considerazione di articolazioni e sfumature interpretative più complesse. Per
esempio gli aspetti più frequentemente toccati dalla dottrina per quanto concerne l’economia del-
Gli egiziani e la cultura economica greca 57

quanto risultino portatori di questa cultura ovviamente vengono inclusi anche


quegli egiziani grecizzati ovvero anche quei parlanti-greco egizianizzati che sono
da me intesi come semplicemente egiziani. In pratica si tratta di prescindere dal-
l’elemento onomastico che, com’è noto, può essere in alcuni casi fuorviante, e
privilegiare le caratteristiche giuridiche o i connotati sociali più evidentemente
appartenenti alla tradizione encoria.
La scelta del periodo tolemaico viene dalla constatazione che proprio in questa
fase è più facilmente riscontrabile la quasi perfetta coincidenza degli studi che
hanno analizzato realtà egiziana con il paradigma negativo costituito dai 6 punti
proposti recentemente da Davies6 per spiegare come gli studi sulla storia eco-
nomica antica richiedano nuovo impulso e iniziative (compartimentalizzazione
negli studi, incoerenza nei prestiti di modelli di definizione da altre discipline,
incertezza sull’autonomia della dimensione economica, difficoltà di definire una
specifica economia7, reale distinzione tra economia e economia pubblica, assunto
che la sua economia sia ‘monocolore’).

l’Egitto persiano sono proprio quelli relativi alla centralizzazione amministrativa, cfr. D. Rathbone,
The Ancient Economy and Graeco-Roman Egypt, in Scheidel - von Reden (eds.), The Ancient Eco-
nomy, cit., 161 (= L. Criscuolo - G. Geraci [a cura di], Egitto e storia antica dall’Ellenismo all’età
araba, Bologna 1989, 164): «Attempts to determine the balance between Greek innovation and
native tradition will always be controversial, but in general it would seem that the economic cen-
tralisation and development which we associate with early Ptolemaic Egypt owed far more to the
Achaemenids and the Saite pharaohs than commonly recognised by classical scholars», e P. Briant,
Histoire de l’empire perse. De Cyrus à Alexandre, Paris 1996, 425-426, nonché gli aspetti concer-
nenti l’introduzione dell’uso della moneta d’argento, in particolare di coniazioni di ‘civette’, cfr. G.
Le Rider, Cléomenes de Naucratis, in Id., Études d’histoire monétaire et financière du monde grec,
III, cit., 1147-1150 (= BCH 121, 1997, partic. 83-86) e ancora J.H. Kroll, A Small Find of Silver
Bullion from Egypt, AJN Second Series 13, 2001, 1-20, partic. 13-15; P. G. van Alfen, The “Owls”
from the 1989 Syria Hoard with a Review of Pre-Macedonian Coinage in Egypt, AJN Second Se-
ries 14, 2002, 1-57, partic. 15-51; Id., Two Unpublished Hoards and Other Owls from Egypt, ibid.,
59-71, partic. 67-69. Per una serie di valutazioni particolarmente acute e sensate si veda inoltre
Briant, Histoire de l’empire perse, cit., 417-418: «…une opposition aussi tranchée entre économie
dite naturelle et économie monétaire relève d’une vision grecque, qui simplifie outrageusement le
mécanisme des échanges de biens…».
6
Cfr. Linear and Nonlinear Flow, cit., 130-132.
7
Forse questo è il punto meno calzante dato che l’Egitto è sempre stato rappresentato come un’en-
tità non solo facilmente identificabile dal punto di vista economico, ma peculiarmente isolata e non
mutuabile per comprendere realtà diverse. In parte, ma senza riferirvisi, anche Manning sottolinea
alcuni di questi aspetti, per esempio la compartimentalizzazione degli studi che ha relegato l’Egitto
in un territorio poco familiare agli storici antichi, frequentato quasi esclusivamente da papirologi
ed epigrafisti, vd. The Relationship of Evidence to Models, cit., 166. È infatti innegabile che molti
dei reali o pretesi aspetti di specificità (sempre comunque omogeneamente isolati da ogni categoria
cronologica), come l’assenza di evergetismo, di apparenti sollecitazioni esterne al dinamismo eco-
nomico, e quindi la dimensione scarsamente interattiva dell’economia egiziana, se non come rispo-
sta alla maggiore o minore capacità di sviluppo da parte dell’amministrazione centrale, comportano
di solito un ulteriore limite all’utilizzo dei dati egiziani. Peraltro non mancano sovente curiose
58 Lucia Criscuolo

Tuttavia l’analisi della storia economica del regno tolemaico, e, forse, del-
l’Egitto in genere, è stata fino a poco tempo fa per lo più ancora scandita da
due momenti fondamentali, rappresentati rispettivamente dai due capisaldi del
‘para-modernismo’ di Cl. Préaux e di M. Rostovtzeff, cioè dalla definizione di
una sua ‘économie royale’, contemporaneamente dirigistica e mercantile8, e dalla
ricezione, dagli anni ’70 e ’80, della ripresa ‘primitivista’ finleyana9. Ed è credo
utile ricordare che, paradossalmente, l’architettura interpretativa in entrambi i
casi si fondava essenzialmente sulle medesime realtà documentali, molto partico-
lari, costituite dalle ricevute fiscali su ostraka, pubblicate dal Wilcken nel 1899,
pubblicazione dedicata al Mommsen con un denso studio storico che partiva ad-
dirittura dall’ostracismo ateniese10, dal cosiddetto archivio del segretario di vil-

forme di ‘schizofrenia accademica’, se mi si consente l’espressione: per esempio Manning, The


Relationship of Evidence to Models, cit., 177 (ma non è certo l’unico !), richiama il solito legame
faraonico dei Tolemei per descrivere il rapporto patrimoniale del territorio egiziano con i sovrani
e il conseguente ampio spazio coperto dall’amministrazione («The Ptolemies followed pharaonic
theology by claiming ownership of all the land, and thus all sources of production in Egypt, and
state income was coordinated through the large bureaucracy»), mentre fuori d’Egitto il medesimo
rapporto patrimoniale, quanto meno sul piano teorico, è ascritto per Alessandro e per i suoi succes-
sori (eccetto i Tolemei !) più convincentemente al diritto di conquista, cfr. per esempio da ultimo,
G.G. Aperghis, The Seleukid Royal Economy, Cambridge 2004, 88.
8
Per un’analisi recente della definizione pseudo-aristotelica di questo tipo di organizzazione eco-
nomica vd. R. Descat, Qu’est-ce que l’économie royale?, in F. Prost (Sous la direction de), L’orient
méditerranéen de la mort d’Alexandre aux campagnes de Pompéee. Cités et royaumes à l’époque
hellénistique, Actes du colloque international SOPHAU, Rennes avril 2003, «Pallas» 62, 2003,
149-168; comprensibilmente, per il suo stesso taglio, il contributo non affronta il problema del-
l’evoluzione della basilikè oikonomia, così come descritta dalla fonte antica nell’epoca successiva
a quella dei Diadochi, cui invece la fonte pertiene.
9
Va da sé che questo tipo di approccio, improntato a una forte enfasi sulla caratterizzazione del-
l’economia egiziana come economia in natura contrapposta a quella monetaria, ha compreso anche
il periodo romano. Qui ricordo, a puro titolo di esempio e in particolare per il solo Egitto tolemaico,
soprattutto i contributi, spesso dimenticati, della compianta collega Alessandra Gara, Limiti struttu-
rali dell’economia monetaria nell’Egitto tardo-tolemaico, in B. Virgilio (a cura di), Studi Ellenisti-
ci, 1, Pisa 1984, 107-134; Il significato economico della politica monetaria nell’Egitto ellenistico,
in Stato Economia Lavoro nel Vicino Oriente antico, Milano 1988, 128-137; e, insieme a Daniele
Foraboschi, Sulla differenza tra tassi di interesse in natura e in moneta nell’Egitto greco-romano,
in R.S. Bagnall - G.M. Browne - A.E. Hanson - L. Koenen (eds.), Proceedings of the Sixteenth
International Congress of Papyrology, New York, 24-31 July 1980, Chico 1981, 335-343; L’econo-
mia dei crediti in natura (Egitto), «Athenaeum» 60, 1982, 69-83; nonché anche più recentemente
del solo Foraboschi, Civiltà della moneta e politica monetaria nell’ellenismo, in B. Virgilio (a cura
di), Studi Ellenistici, 4, Pisa 1994, 173-186; Id., The Hellenistic Economy: Indirect Intervention by
the State, in E. Lo Cascio - D.W. Rathbone (eds.), Production and Public Powers in Classical An-
tiquity, Cambridge 2000, 37-43; Id., Stratagemmi finanziari e teorie economiche, MedAnt 7, 2004,
557-568. E si vedano anche, con risultati analoghi, A.E. Samuel, The Money Economy and the
Ptolemaic Peasantry, BASP 21, 1984, 187-206; J. Rowlandson, Money Use among the Peasantry
of Ptolemaic and Roman Egypt, in Meadows - Shipton (eds.), Money and Its Uses, cit., 145-155.
10
U. Wilcken, Griechische Ostraka, München 1899.
Gli egiziani e la cultura economica greca 59

laggio Menches, pubblicato nel 1902 come primo volume dei Tebtunis Papyri11,
e soprattutto dall’archivio di Zenone, comparso progressivamente dalla fine della
prima guerra mondiale fino agli anni ’60 quando la pubblicazione del nucleo
londinese ha in pratica concluso l’edizione dell’archivio (circa 2000 documenti)
e il cui studio ha dato adito anche, a mio parere, ad alcune distorsioni nella rico-
struzione di vicende della storia economica del III secolo12.
Peraltro più di recente si sta affermando, a mio avviso giustamente, anche per
l’economia lagide un orientamento interpretativo di tipo razionalistico13 che attri-
buisce all’amministrazione alessandrina volontà e capacità d’intervento sull’as-
setto economico del regno14.
11
The Tebtunis Papyri, Part I, edited by B.P. Grenfell - A.S. Hunt - J.G. Smyly, London 1902.
L’edizione del cosiddetto archivio di Menches venne pressoché completata (ancora alcuni testi o
piuttosto frammenti di testi risultano inediti) da J. G. Keenan e J. C. Shelton con la pubblicazione
del IV volume dei Tebtunis Papyri, London 1976; per questi documenti si vedano ora anche i
volumi di A.M.F.W. Verhoogt, Menches, Komogrammateus of Kerkeosiris, P.Lugd.Bat. 29, Lei-
den-New York-Köln 1998, e Regaling Officials in Ptolemaic Egypt, P.Lugd.Bat. 32, Leiden-New
York-Köln 2005.
12
L’opera di riferimento, come sintesi degli aspetti documentati dall’archivio nonché per la biblio-
grafia precedente, rimane quella di C. Orrieaux, Zénon de Caunos, parépidemos, et le destin grec,
Paris 1985 (pur con alcune riserve esposte in recensioni, compresa quella di chi scrive); ma non
sono mancati utilissimi contributi anche più di recente, tra cui segnalo i lavori di un grande studioso
della documentazione economica tolemaica, Tony Reekmans, e in particolare, La consommation
dans les archives de Zénon, Papyrologica Bruxellensia 27, Bruxelles 1996.
13
Del resto l’espressione di razionalismo economico era stata applicata all’Egitto addirittura prima
della comparsa delle opere della Préaux e di Rostovtzeff, cfr. G. Mickwitz, Economic Rationalism
in Graeco-Roman Agriculture, «The English Historical Review» 208, 1937, 577-589, naturalmente
facendo riferimento alla documentazione zenoniana sulla dorea di Apollonio.
14
Cfr. D. Rathbone, Ptolemaic to Roman Egypt. The Death of the Dirigiste State?, in Lo Cascio
- Rathbone (eds.), Production and Public Powers Production and Public Powers, cit., 44-53, in cui
ad esempio, per spiegare il presunto indebolimento della capacità di controllo dei processi di col-
tivazione e dello sfruttamento agricolo da parte del potere centrale tolemaico nel II e I secolo a.C.,
finalmente non si evoca più una degenerazione politica e morale della dinastia, ma una evoluzione
provocata dalla «growth in monetisation after two centuries of royal minting…army depended as
much on mercenaries as cleruchs, courtiers were rewarded with cash instead of doreai and taxes
in cash were more common and far more important part of royal revenues»; tuttavia l’opera che
maggiormente esprime le convinzioni dell’autore concerne, com’è noto, l’assai più tardo archivio
di Eronino, Economic Rationalism and Rural Society in Third-Century A.D. Egypt, The Heroninus
Archive and the Appianus Estate, Cambridge 1991. Si vedano però le riserve, che non condivido,
espresse da J. Andreau - G. Maucourant, À propos de la “rationalité économique” dans l’antiquité
gréco-romaine. Une interprétationn des thèses de D. Rathbone, «Topoi» 9, 1999, 47-102, partic.
60; P. Christensen, Economic Rationalism in Fourth-century BCE Athens, «Greece & Rome» 50,
2003, 31-56, partic. 36; soprattutto quest’ultimo, per quanto comprensibilmente, nella sua critica
secondo la quale in Egitto mancherebbe il presupposto di un autentico razionalismo, cioè la pos-
sibilità di scelta di forme di investimento in relazione, ad esempio, al rischio, sembra ignorare un
articolo significativo in proposito di J. Gachet, P. Cairo Zénon IV 59649: un mémoire à Zénon.
Trois propositions pour l’exploitation commerciale d’un navire, CRIPEL 12, 1990, 101-129, in cui
addirittura si propongono tre diverse possibilità per uno stesso investimento proprio in relazione al
rischio e alla valutazione di redditività del bene locato.
60 Lucia Criscuolo

Sulla scorta di queste basi documentali e della loro più diffusa interpretazione,
la realtà economica egiziana veniva, e ancora viene, descritta come una struttura
fondata sullo sfruttamento capillare delle risorse agricole, in particolare cereali-
cole, da cui deriverebbe la funzione valutaria del pyros, il grano; su questa realtà
poi i Lagidi avrebbero innestato un sistema di monopoli (del papiro, degli oli,
del vino, delle risorse minerarie, allevamento ecc.) basato inevitabilmente sulla
moneta, strumento tipicamente greco, che si sarebbe affiancato per completare
l’opera di sfruttamento e che avrebbe rappresentato l’ineludibile veicolo d’inseri-
mento dell’economia monetale in un paese altrimenti fedele a quella ‘in natura’.
Ed è proprio la diffusione della moneta come strumento di scambi, insieme alla
predominanza della produzione granaria, uno degli elementi cardine per la defi-
nizione del significato che la presenza greca ha avuto in Egitto e la dottrina ha
più volte cercato, in modo contraddittorio, di misurarne il peso e gli effetti, per lo
più giungendo a conclusioni scettiche, soprattutto per il periodo tolemaico e per
l’ambiente indigeno, con ciò creando i presupposti di una più difficile compren-
sione anche di fenomeni successivi15.
Ora, a parte la considerazione che i quasi due secoli di soggezione alla so-
vranità achemenide avevano già introdotto coniazioni egiziane, e che quindi lo
stesso presupposto circa la novità dell’introduzione della moneta da parte lagide

15
Cfr. Gara, Limiti strutturali, cit., 110: «Ma l’assenza di una documentazione papirologica capil-
larmente distribuita nelle diverse aree geografiche della chora e delle città non consente ancora di
comprendere se il sistema finanziario e fiscale dei Tolemei e quindi le “forme di un’economia mo-
netaria” hanno veramente convertito all’uso della moneta quegli abitanti dei villaggi i cui rapporti
economici erano da sempre imperniati sullo scambio in natura» e 134: «Sembra innegabile che la
politica monetaria degli ultimi Tolomei, concentrata quasi esclusivamente nella produzione del
tetradracmo d’argento, abbia volutamente emarginato aree rurali e settori importanti dall’uso della
moneta. La moneta reale rimane strumento fondamentale della vita economica dei Greci in partico-
lare nelle città, ai livelli elevati delle transazioni e in un certo settore della fiscalità, che non appare
comunque maggioritario nel quadro complessivo della documentazione»; ormai più sfumata e arti-
colata è la posizione di studiosi come la von Reden, Politics of Monetization, cit., 70 ss., partic. 74:
«Among papyrologists, economic questions do not tend to be discussed on an equally generalizing
level as among historians of classical Greece, but, since earlier conceptions of a planned or dirigiste
economy have become obsolete, the view prevails that the introduction of coinage by the Greeks
created its own dynamics… In a tense coincidence of presence and absence, money was a crucial
social bond between central and local authorities, Greeks and Egyptians, lenders and borrowers,
as well as taxpayers and those who provided the cash with which taxes could be paid». Accanto a
questo tipo di conclusioni, generate da analisi, forse discutibili, ma accurate di documenti, si tro-
vano poi affermazioni sommarie, per questo altrettanto discutibili, come in M.C. McClellan, The
Economy of Hellenistic Egypt and Syria: An Archaeological perspective, in B.B. Price (ed.), An-
cient Economic Thought, London-New York 1997, 178: «All one can say at this point is that, from
the period of Persian domination into the period of Roman domination, there seem to have been a
continual increase in the degree to which the Egyptian economy was monetarized». Come si vede,
il problema maggiore è ancora di distinguere tra la mera ‘presenza’ di moneta, in quanto rappresen-
tazione e/o espressione di un valore, e il suo uso, ovvero la sua effettiva e diffusa circolazione.
Gli egiziani e la cultura economica greca 61

viene ormai fortemente ridimensionata16, rimane tuttavia da verificare sui do-


cumenti quello che, con rarissime eccezioni17, gli studiosi, sostanzialmente pri-
mitivisti, hanno affermato circa la persistenza dell’uso del grano come valuta
o circa la funzione ‘esclusivamente contabile’ del denaro rispetto allo scambio
reale riservato al prodotto18.
Nelle pagine che seguono ci si soffermerà su uno dei temi più frequentementi
affrontati dai sostenitori della persistenza, non solo di una mentalità, ma di un
effettivo istituto economico dell’Egitto pre-greco, cioè l’uso ‘monetale’ del grano
e in genere dei prodotti agricoli. Questo uso è invocato nell’interpretazione di
alcuni conti di versamenti in grano e altri prodotti agricoli che al grano vengono
equiparati, trasformandolo, secondo le letture correnti, in valuta, nonché di altri
testi contenenti documentazione della contabilità privata.
Forse gli esempi più famosi sono due ben noti papiri dell’archivio di Zenone,
P. Lond. VII 1994 e 1995, datati circa all’ottobre 251 a.C., due lunghissimi conti
di prelievi e restituzioni di cereali e altri prodotti, inclusi oleaginose, come il
sesamo o il ricino, o legumi, come i ceci, effettuati da Herakleides, miriaruro, ap-
parentemente presso il granaio della dorea posseduta dal dieceta Apollonios nel
territorio dello stesso villaggio19. Ciò che ha colpito maggiormente gli studiosi
16
Cfr. supra, nota 4; quanto al periodo della conquista di Alessandro e al governatorato di Cleome-
ne cfr. G. Le Rider, Alexandre le Grand. Monnaie, finances et politique, Paris 1983, 215-265.
17
C. Orrieux, Les Papyrus de Zénon. L’horizon d’un grec en Egypte au III siècle avant J. C., Paris
1983, 38, a proposito proprio del P. Lond. VII 1994, qui di seguito commentato; in generale la
lettura di Orrieux, sebbene arricchita da sensibilità e ‘correttivi’ corrispondenti al cinquantennio di
distanza che lo separava dal lavoro della Préaux, appare sostanzialmente ‘modernista’, in particola-
re per quanto concerneva l’aspetto imprenditoriale della presenza greca in Egitto.
18
Estendendo così notevolmente il significato di una realtà peraltro definita in modo più sfumato
da Bingen, Économie grecque et société égyptienne, cit., 212 («…il ne faut pas oublier que, dans
l’Égypte grecque, puis romaine, l’économie monétaire n’a jamais marqué qu’un secteur relati-
vement restreint des échanges et des obligations, particulièrment des salaires. Les paiements en
nature, surtout en blé, mais aussi en huile, en vin, etc, resteront une des réalités les plus vivantes
de la vie économique en Égypte, et surtout à la campagne»), cfr. ad esempio D. Foraboschi - A.
Gara, L’economia dei crediti in natura in Egitto, «Athenaeum» 60, 1982, 71 («In epoca ellenistica i
cereali svolgono ancora una funzione di quasi-moneta»), 69 («…è molto probabile che non di rado
la moneta svolgesse qui una mera funzione di unità di conto, mentre poi le transazioni reali avveni-
vano in natura»); Gara, Limiti strutturali, cit., 128-129 («Accanto alla moneta reale, che mantiene
la sua funzione di mezzo di pagamento oltre che nell’ambito delle transazioni private in alcuni
settori della fiscalità, un’altra misura dei valori si è mantenuta in Egitto…: il grano»); e ancora
di recente Foraboschi, Stratagemmi, cit., 564 («il grano continua ad essere una sorta di moneta»);
Rowlandson, Money Use, cit., 149 («in these contexts [collecting private rents in kind] wheat can in
fact be seen serving two distinct functions of a currency: as a medium of payment …and as a store
of value»); H. Cadell - G. Le Rider, Prix du blé et numéraire dans l’Égypte lagide de 305 à 173,
Papyrologica Bruxellensia 30, Bruxelles 1997, 24-25.
19
Per il contenuto dei testi si veda la chiarissima introduzione dell’editore, T.C. Skeat, P. Lond
VII, pp. 97-101. Secondo lo Skeat è probabile che i conti siano stati redatti nell’ufficio di Maron,
sitikos del granaio e si riferiscono principalmente al prelievo per sementi o anche per salari o vitto
62 Lucia Criscuolo

che si sono occupati di questi papiri è che i totali dei conti, annuali e per ben tre
anni, dal 33 al 35 del Filadelfo, sono espressi in termini di pyros cioè di grano,
al quale tutti gli altri prodotti sono equiparati secondo criteri differenti: la tavola
di equivalenza predisposta dall’editore mostra infatti che mentre alcune derrate
erano considerate alla pari (per esempio 1 artaba di ceci = isopyros, 1 artaba di
grano), altre valevano di più (1 artaba di papavero = 2 di grano) o di meno (1 ar-
taba di olyra = 0, 4 artabe di grano; di orzo 1 = 0, 6)20. Si veda ad esempio il conto
indicato alle linee 90-100 di P. Lond. VII 1994 (le corrispondenze con il grano,
calcolate secondo i valori sopra citati, sono mie; in grano il papiro qui dà solo il
totale della somma dei diversi importi):
«altro conto delle sementi nell’anno 34 per i raccolti dell’anno 35.
Devi (Herakleides) prendere
di grano (artabe) 4650,
di ceci 100 (isopuros),
di orzo 8200 (=4920 di grano),
di olyra 1200 (=480 di grano),
di papavero 12,5 (=25 di grano)
di lino 400 (isopyros),
di fieno 75 (isopyros), in totale di grano 10.650»

A questo punto però, e prima di accogliere la tesi di un valore monetale del


grano, la cui funzione pratica rimarrebbe peraltro abbastanza incomprensibile in
sé, è forse bene ritornare alla situazione prospettata da questi testi zenoniani. Il
granaio della dorea, un granaio privato, riceveva infatti da Apollonios, che ne era
il proprietario, la disposizione di fornire al miriaruro Herakleides, un impiegato
dell’amministrazione regia, certe quantità di sementi di tipo differente. Gli stessi
documenti peraltro mostrano per i primi due anni considerati, il 33 e il 34, che i
prelievi e la restituzione, non solo non rispettavano esattamente le corrisponden-
ze previste dal promemoria di Apollonio, ma che il chiaro intento del granaio era
di ‘rastrellare’ la maggiore quantità di grano possibile, consegnando meno grano
di quanto stabilito e accettando invece (o imponendo addirittura?) la restituzione
proprio in grano di eccessi di semente diversa dal grano21. Tanto che nei bilanci
finali in grano Herakleides risultava nei primi due anni aver acquisito un ‘credito’
(cioè aver riconsegnato un valore maggiore di quello che aveva ricevuto), ricon-
segnando per esempio nell’anno 33 più grano e orzo di quelli ricevuti, o nel 34
ricevendo invece del grano previsto, una maggiorata quantità di lino e una discre-
di operai ingaggiati dal miriaruro, o anche per foraggio di animali. Di contenuto analogo e riferito
agli stessi anni, con in più la menzione di quote di sementi da consegnare a Herakleides previste
anche per l’anno 36, in P. Cairo Zen. II 59292, verso, ll. 420 ss.
20
Skeat, loc. cit., 98-99.
21
Cfr. le bellissime tabelle riepilogative A e B predisposte dallo Skeat.
Gli egiziani e la cultura economica greca 63

ta di sesamo (un’oleaginosa che quell’anno non era affatto prevista e che come
tale ‘valeva’ più del cereale), e restituendo ancora una volta un valore maggiore
di quello ricevuto; i totali di grano versati anno per anno, rispetto alle sementi in
grano prelevate, erano corretti, cioè corrispondenti alla distinta di Apollonios: ciò
che alla fine del triennio rappresentò una situazione debitoria era proprio il corri-
spettivo in grano degli altri prodotti, ricevuti al posto del grano e non restituiti22.
In particolare mi pare interessante che più volte venissero fornite a Herakleides
maggiori quantità di oleaginose per le quali, com’è noto da P. Rev. Laws, non
solo i detentori di doreai erano autorizzati a trattenere le quantità necessarie alla
semina, ma era fissato dallo stato un prezzo particolarmente vantaggioso per i
produttori ‘privati’, 6 dracme all’artaba di sesamo, contro le 4 che l’amministra-
zione statale stanziava per finanziare la semina di terreni pubblici23. Dunque da
una parte abbiamo un granaio che non consegna grano, ma altri prodotti e che
però vuole o accetta grano, anche rispetto a sementi più pregiate. Perché? È pos-
sibile che all’interno della dorea si tentassero piccole manovre speculative, anche
all’insaputa di Apollonios, sia per incrementare, all’occasione, la produzione di
beni potenzialmente più redditizi, le oleaginose, sia, nel peggiore dei casi, per
rastrellare il più possibile grano, bene che, essendo di interesse dello stato ma non
sotto il suo stretto controllo, ed essendo oggetto di un libero mercato, consentiva
più facili profitti in denaro, diversamente dalle oleaginose. Ciò che sicuramente
si può escludere, dato il contesto e proprio perché si tratta di documenti prove-
nienti dall’amministrazione della dorea di Apollonios (per antonomasia greca),
è che l’equivalenza tra il grano e le altre sementi avesse una funzione monetale
e rappresentasse quindi un segno della persistenza di un’economia naturale di
origine faraonica.
22
Si veda per esempio il sesamo, che nel triennio doveva essere fornito per 111 artabe e mezza,
secondo Apollonio, e che invece venne consegnato al miriaruro, assolutamente fuori quota, per un
totale di 756 artabe e mezza, vd. P. Lond. VII, Table E allegata all’edizione e cfr. D.B. Sandy, The
Production and Use of Vegetables Oils in Ptolemaic Egypt, BASP Suppl. 6, Atlanta Ga., 1989,
partic. 66.
23
Cfr. P. Rev. Laws rispettivamente 43, per il prezzo da versare ai privati per acquistare il prodotto
da destinare alla semina, e 41 ll. 14 ss. per quello versato dall’oikonomos per finanziare la semina
a cura di funzionari pubblici. Non è dunque un caso fortuito se, come riporta la tavola predisposta
dall’editore, anche all’interno dei due lunghi conti il sesamo è valutato sia a 4 artabe sia a 6 artabe
di grano: un’ipotesi è che nel primo caso si trattasse di semente ‘regolare’ rimasta al di fuori di
quella utilizzabile dall’amministrazione della dorea, nel secondo caso che siano state consegnate
quote sottratte a quelle da versare allo stato (per le quali era previsto un introito di 6 dracme);
inoltre proprio per questa coltivazione vi era differenza tra i raccolti autunnali e quelli estivi, cfr.
P. Lond. VII 1994, nota a l. 137. Naturalmente tutti questi calcoli e le ipotesi conseguenti riposano
sull’assunto, peraltro solitamente comprovato dalla documentazione coeva, che esistesse una parità
ufficiale, fissata ad Alessandria, 1 artaba di grano = 1 o 2 dracme d’argento, ma naturalmente non
si può escludere che ci fossero variazioni, e non provano che il grano fosse unità di conto, ma solo
che lo stato fissava un suo prezzo.
64 Lucia Criscuolo

Un altro esempio di testo usato in passato per invocare un uso monetale del
grano24, parimenti tratto dallo stesso archivio di Zenone, è il P. Cairo Zen. V
59825, del 24 maggio 252 a.C., che contiene un interessante ordine di pagamento
di Zenone al banchiere Artemidoros: il documento si presenta diplomaticamente
come un contratto, o un testamento, con una sorta di scriptio interior, origina-
riamente sigillata, riassunto della più estesa seconda parte, indirizzata appunto
dall’amministratore del dieceta Apollonios al banchiere di Philadelphia25. In esso
venivano disposti vari pagamenti a dipendenti della dorea, tra i quali Pyron, un
impiegato di un certo livello già alle dipendenze dirette del dieceta stesso: secon-
do quanto iscritto nella scriptio interior (ll. 3-7) Pyron, al momento di ricevere un
fondo di 30 dracme per vestiario e il salario di tre mesi (Phamenoth, Pharmouthi e
Pachon), si sarebbe visto dedurre 62 dracme e 3 oboli per 60 artabe di grano (cioè
un valore di poco più di 1 dracma per artaba), nonché altre 20 dracme per 15 mine
di lana e 8 dracme di fondo spese di un viaggio (per un totale di 90 dr. e 3 oboli).
Ma, nella versione più dettagliata, la deduzione veniva specificata in forma diver-
sa: 50 dracme per un importo di artabe che in realtà non è leggibile (ll. 30-31, gli
editori, Gueraud e Jouguet, hanno riportato, arbitrariamente, 60 sulla base delle
linee precedenti ed è per questo che anche nei commenti successivi si è trovata
difficoltà a spiegare una così forte differenza di prezzo), mentre l’importo da
detrarre per una doppia fornitura di lana (ll. 32-34) risulta maggiore esattamente
di 13 dracme, sicché il totale della detrazione, e quindi del credito di Zenone, in
realtà è lo stesso. Poiché sicuramente la seconda parte, ricca di dettagli, è stata
scritta per prima, come si può constatare dalla tavola allegata alla pubblicazione
che mostra un testo pieno di correzioni e cancellature rispetto alle linee riassun-
tive tracciate nella parte superiore del foglio, l’aggiustamento degli importi diffi-
cilmente dipendeva da un valore diverso del grano, ma da una quantità di cereale
più bassa che risultava ricevuta da Pyron (motivata dal fatto che la parte del suo
salario in denaro era stata incassata in misura maggiore dall’impiegato, oppure un
piccolo prestito in natura per una coltivazione privata26): Zenone, per far tornare

24
Cfr. Gara, Significato economico, cit., n. 23.
25
Cfr. anche R. Bogaert, Banques et banquiers dans l’Arsinoïte à l’époque ptolémaïque. II. Les
banques dans les village du nome, ZPE 68, 1987, 111 (= Id., Trapezitica Aegyptiaca. Recueil de
recherches sur la banque en Égypte gréco-romaine, Firenze 1994, 333) e Id., Les Opérations des
banques de l’ Égypte ptolémaïque, AncSoc 29, 1998-99, 125-126.
26
Dalla documentazione dell’archivio gli affari tra Zenone e Pyron risultano spesso intricati, cfr.
Reekmans, La consommation dans l’archive de Zénon, cit., 84. D’altra parte risulta un po’ strano,
e non mi pare che sia stato notato da nessuno, che la detrazione da applicare al salario trimestrale
di Pyron corrisponda a un totale di 90 dracme e mezza a fronte di un credito che, se il suo salario
fosse rimasto quello che risulta da P. Cairo Zen. IV 59647, non poteva superare le 66 dracme (30
per l’imatismos + 30 per 3 mesi a 10 dracme + 6 dracme ca. di valore delle 2 artabe mensili di grano
alimentare che presumibilmente riceveva): se il papiro non nasconde altri sotterfugi contabili, non
Gli egiziani e la cultura economica greca 65

i conti, avrebbe inserito nella parte di testo che faceva fede, cioè quella sigillata,
una quantità di grano corrispondente al debito di Pyron, scaricandovi una parte
del valore della lana e scontando invece una parte della lana stessa e relativi im-
porti (20 dracme invece di 33), prelevata dal dipendente: se e quale potesse essere
il senso di un tale aggiustamento sulla lana, non sul grano, non pare ipotizzabile,
ma di certo questo documento, in una corretta contestualizzazione, non ha niente
a che vedere con un valore monetale del grano.
Se la documentazione dell’archivio di Zenone, prevalentemente concernente
persone e contesti sociali ed economici greci o fortemente grecizzati, si presta da
un lato a enfatizzare il carattere modernizzante della presenza economica mace-
done nelle prime generazioni, ma dall’altro potrebbe suscitare dubbi sulla diffu-
sione e penetrazioni della mentalità economica greca nel tessuto egiziano, altri
testi di epoca successiva, diversamente analizzati, non lasciano spazio a riserve
di alcun tipo. Di nuovo mi soffermerò solo su papiri che sono stati interpretati in
passato, a mio avviso impropriamente, come documenti di una persistente fun-
zione monetale del grano nell’economia della chora.
Il papiro Tebt. III 832, della fine del II secolo, proveniente dai cartonnages
di mummie di coccodrillo, è un esempio della natura di questi testi, non proprio
fra i più attraenti27. Non appartiene, come la maggior parte dei testi di quella rac-
colta, agli archivi di Kerkeosiris, ma presumibilmente di qualche altro villaggio,
forse Oxyrhyncha. Si tratta di un ‘land survey’, nel quale per ogni coltivatore
veniva indicata l’estensione e ubicazione delle terre affidate, spesso frammenta-
te in località diverse, l’importo di rendita in grano dovuta e le singole quote, in
grano, di altri prodotti ed eventualmente denaro che erano stati versati a fronte
del dovuto: per es., un coltivatore risulta assegnatario di 8 1/4 arure che devono
rendere 41 artabe di grano, ovvero il corrispettivo del loro valore. La terra è di-
stribuita in territori diversi, 3 e 3/4 arure nella località di Hephaistios, delle quali
3 e 1/4 seminate a grano e 1/2 ad orzo; in un altro luogo 4 e 1/2 arure delle quali
3 seminate a frumento e 1 e 1/2 a fieno. Il totale fa 8 e 1/4. Queste dunque era-
no le coltivazioni previste dai funzionari pubblici. Il reddito effettivo risultante
da questi appezzamenti però è registrato come segue: 26 e 1/2 artabe in grano
(delle 41 da ottenere), 1 e 2/3 di orzo, corrispondenti ad 1 di grano (cioè 5:3,
esattamente come nei documenti zenoniani di P. Lond. VII sopra esaminati!),
1 di sesamo corrispondente a 7 (qui invece il rapporto è di maggior valore per

resta che supporre che il salario di Pyron in quel momento fosse almeno raddoppiato, da 10 a 20
dracme al mese.
27
Cfr. per un’interpretazione ‘primitivista’, Gara, Limiti strutturali, cit., 130-131, secondo la quale
non solo si sarebbe applicata una contabilizzazione di prodotti agricoli in grano, ma in grano sareb-
bero stati trasformati anche importi di denaro: in realtà, come si vedrà, si tratta di banali forme di
adaeratio per importi di rendite fondiarie che si sarebbero dovute versare in grano.
66 Lucia Criscuolo

l’oleaginosa rispetto al III secolo)28, e 130 ‘chalkoi’ pari a 6 artabe e ½, per un


totale del valore di 41 artabe di grano29: decisamente un raccolto, o una semina
insufficiente, compensata dal versamento in denaro. Come si evince anche da
altri testi30, il chalkos, la moneta utilizzata, ormai notoriamente sempre di bronzo,
corrispondeva ad un valore di 20 dracme di bronzo, dunque a una sorta di deben
bronzeo31, e questa corrispondenza consente quindi di calcolare a quale tasso di
‘cambio’ l’amministrazione accettava i pagamenti in denaro per le rendite dovute
in quel momento, vale a dire 400 dracme per artaba da versare al raccolto, na-
turalmente. Dunque da un lato il valore monetale relativamente basso del grano
poteva favorire la coltivazione di prodotti diversi o addirittura la convenienza a
trattenere in parte il grano prodotto pagandone in moneta il valore richiesto per la
rendita, dall’altro, poiché lo stato a sua volta cercava comunque di procacciarsi
con le rendite della terra regia grandi quantitativi del cereale, ogni altra forma di
pagamento di tali rendite doveva essere ricondotta ad esso, ovvero al prezzo uffi-
ciale fissato ad Alessandria. Ancora una volta appare piuttosto chiaramente da un
lato, pur nella parallela salvaguardia dei prodotti oggetto di monopoli, l’interesse
dello stato ad ammassare la maggiore quantità di grano possibile, sottraendola ad
un mercato libero alimentato anche dai coltivatori regi, che a loro volta tentavano
in tutti i modi di trattenere per sé la derrata. Nel contempo però credo che non ci
sia dubbio che tutto il meccanismo economico che ormai regolava la produzione
agricola fosse imperniato proprio su una cultura monetaria, incluso, all’occasio-
ne, l’uso di circolante per importi notevoli (i 130 chalkoi ad esempio), e non su
un utilizzo valutario del grano, la cui eventuale ‘tesaurizzazione’, ammesso che si
possa parlare in questi termini, aveva chiaramente un fine di mercato.

28
Sandy, The Production and Use of Vegetables Oils, cit., 68-70 calcola la redditività del sesamo,
dalle testimonianze zenoniane, in 3, 5 artabe di prodotto per arura: il che significa, approssimati-
vamente, data la differenza del contesto di cui si parla sia per epoca sia per località, che solo 1/3 di
arura era stata seminata con l’oleaginosa.
29
Cfr. ad esempio P. Tebt. III 832, fr. 1, col. I, ll. 1-4; un’articolazione analoga per i canoni di terra
basiliké si trova anche in P. Tebt. III 829, e la stessa procedura di riconduzione al valore granario è
anche presente nel rapporto preliminare sugli incassi delle rendite di Kerkeosiris per il 123 a.C. di
P. Tebt. IV 1029, col I, l. 11 e col. II, l. 33. Queste testimonianze mi pare conducano ad una ancora
maggiore considerazione dell’effettiva diffusione e circolazione di denaro anche nelle campagne
e anche in concorrenza con la stessa economia fiscale lagide, così fortemente legata alle rendite
in cereali, contra, ad esempio Rowlandson, Money Use, cit., 147: «The persistence of taxes and
private rents in kind constitutes the most obvious limitation on the monetization of the agrarian
economy».
30
Cfr. per esempio P. Tebt. I 68, l. 60 e commento.
31
Cfr. per una possibile identificazione con esemplari monetali rinvenuti R. Hazzard, Ptolemaic
Coins, Toronto 1995, 65, n. 23 e fig. 96, peraltro coniati nel III secolo a.C. Naturalmente è più che
probabile che tra i bronzi circolassero pezzi cui era attribuito, più o meno convenzionalmente, il
valore di 20 dracme.
Gli egiziani e la cultura economica greca 67

Quello appena esaminato è un documento pubblico, generato dall’amministra-


zione del villaggio o del territorio, ma non mancano esempi anche in ambito
privato. Un secondo papiro, SB XVI 12675, è stato usato parimenti per sostenere
che il grano aveva funzione di valuta presso gli egiziani32. Per maggiore comodità
ne riporto il testo di seguito, per quanto scorretto:
e[tou" 14 Pacw;n 29, lovgo" /
Petermou'qi" devktwn:
toch'" Krivtwn
oi[nou 1 2300
a[rtwn 19 ajna; 15 ·200‚ (givnontai) 285
o[rkthx 140
kuavmou" 50
o[xi" 40
ejlaivou 1/É 4 50
a{la 20
koluvkinto" 30
krabi;n 20
ajqhvra 70
(givnontai) 705
(givnetai) to; pa'n (calkou') 3005
ajna; 1080 (purou') ajrtabw'n 2 5É6
Parmou'qi" 15 »Wro" ∆Amen( ) ·3‚ 6 ajªna; 1É 6º
Pacw;n 4 »Wro" ∆Ameneuv"
hJmhvra" 23 ajna; 1É 6, (givnetai) to; ãpa'nà (purou') ajrtabw'≥ªn 4 5É 6º
pestofovrou 1 1É /3 lo(ipo;n) (ajrtavbh") 2É /3
Pau'ni 2 ajrtabw'n 2 2É /3 Mesorhv
Petosi'ri" Marrh'" 2 2/É 3
verso
ª º4 hJmhvra" 30 ajna; 400 (givnontai) (tavlanta) 2
ª º ∆Amenneu;" 4080
ª Peºtesou'co" Mavrwn 2000
ª (givnetai) tºo; pa'n (calkou') (tavlanta) 3 80 (w|n) (tavlanta) 2 4600,
lo(ipai;) 1480

32
Cfr. Gara, Limiti strutturali, cit., 131. L’editio princeps del documento si deve a J. Keenan - M.
Toumazou, Ptolemaic Account (P. Tebt. 131), ZPE 41, 1981, 263-269: il testo non è chiarissimo
nel suo significato, soprattutto perché la totale mancanza da parte dello scrivente egiziano di co-
noscenze grammaticali, specie per la declinazione dei nomi propri (sono tutti invariabilmente in
nominativo), rende difficile capire se le voci del conto siano tutti esborsi del carpentiere e quale sia
il nesso tra il recto e il verso: per le ultime linee, come pura congettura si potrebbe proporre che il
4 di un mese ci sia stato un esborso di 3 talenti e 80 dracme di cui due per il salario (arrotondato)
di due persone per 30 giorni.
68 Lucia Criscuolo

Si tratta del conto di una serie di spese sostenute da un carpentiere, Petermou-


this, tra le quali anche quella per un ricevimento. C’è una serie di prodotti acqui-
stati, che vengono valutati in dracme di bronzo, per un totale di 3005 dracme di
cui si dà la corrispondenza con 2 artabe e 5/6 di grano, al valore di 1080 dracme
ad artaba. Ci sarebbe dunque un’equiparazione tra un valore monetario, in dracme
di bronzo, e uno in natura, espresso sulla base del prezzo di un’artaba di grano, il
che ha fatto pensare che il pagamento avvenisse in grano. Seguono poi una serie
di indicazioni, presumibilmente di versamenti, di razioni per giornate di lavoro
di una stessa persona, Horos figlio di Amenneus, prima per 6, poi per 23 giorni
ad 1/6 di artaba al giorno, con un totale di 4 artabe e 5/6 di grano. Abbiamo poi
altri importi sempre indicati in grano. Sul verso invece tutte le voci, che rappre-
sentano dei totali, sono riportate in denaro. Ciò vuol dire che la valutazione totale
veniva fatta sul bronzo, ed è perciò una pura ipotesi che quello che circolava in
realtà fosse solo il grano: sappiamo invece che dal III secolo a.C. le retribuzioni
del lavoro comprendevano comunemente sia salari in denaro sia, a integrazione,
un corrispettivo alimentare che a volte, come si è visto anche dall’ordine di paga-
mento di Zenone, veniva calcolato comunque proprio in denaro.
Un dato interessante da notare è il prezzo per artaba di grano indicato dal pa-
piro, che è raro trovare su documenti privati: 1080 dracme per artaba, un prezzo
piuttosto elevato. Normalmente l’artaba veniva valutata 400-500 fino, a volte, a
600-700 dracme per artaba. Dobbiamo però tenere presente che il prezzo ufficiale
dell’artaba era solitamente fissato, ad Alessandria, in dracme d’argento. Questo
vuol dire, poiché l’artaba di grano valutata in argento oscilla pochissimo in età to-
lemaica (tra III e I secolo è quasi sempre 1 dracma per artaba; al massimo arriva,
in certi momenti, a 2 dracme), che il prezzo del grano espresso in bronzo diventa
un modo per valutare il rapporto tra argento e bronzo33. In questo caso oscillereb-
be tra un massimo di 1:1080 ad un minimo (supponendo un prezzo massimo di 2
dracme d’argento per artaba) di 1:540. Ciò corrisponde a quello che conosciamo
della cosiddetta inflazione tolemaica della moneta bronzea, perfettamente ana-
lizzata e definita dal Reekmans agli inizi degli anni 5034, che ha caratterizzato
l’economia interna dell’Egitto. Il prezzo del grano poi all’interno delle campagne
oscillava notevolmente in relazione al momento dell’anno: per esempio, prima
della semina o del raccolto (com’è il caso del nostro documento che si riferisce al
mese di Pachon) raggiungeva i prezzi più alti. Abbiamo dunque qui una conferma

33
Cfr. Gara, loc. cit., supra, n. 32.
34
Cfr. T. Reekmans, Monetary History and the Dating of Ptolemaic Papyri, Studia Hellenistica 5,
Lovanii 1948, 15-43; Id., The Ptolemaic Copper Inflation, Studia Hellenistica 7, Louvain-Leiden
1951, 61-119, a cui si aggiunga W. Clarysse - E. Lanciers, Currency and the Dating of Demotic
and Greek Papyri from the Ptolemaic Period, AncSoc 20, 1989, 117-132, per qualche ulteriore
messa a punto.
Gli egiziani e la cultura economica greca 69

sia di questo aspetto del mercato interno, sia dell’oscillazione valutaria bronzo/
argento, ma certamente non di una funzione valutaria del grano, per il semplice
fatto che il documento riporta chiaramente i totali in denaro. Anche le razioni ali-
mentari in grano di lavoratori come Horos, con cui è ottenuta una parte di questi
dati, vengono calcolate alla fine sulla base di uno standard bronzeo. Forse la mo-
neta non era fisicamente presente nelle casse del soggetto (ma perché no, poi?),
ma era ormai indiscutibile riferimento strumentale ed intellettuale.
Non mi pare pertanto che la tipologia dei testi presi in esame possa avallare
la convinzione che l’Egitto greco abbia mantenuto un sistema economico imper-
meabile, fondato sulla valutazione prevalente, se non esclusiva, in natura, al di là
delle inevitabili situazioni legate alla gestione della parte agricola dell’economia.
La ‘monetarizzazione’ e soprattutto l’inserimento in un mercato mediterraneo più
ampio e vivace, rispetto a quello conosciuto nel passato faraonico o persiano, non
solo introdussero costantemente il parametro monetale nella misurazione e nella
valutazione della produzione agricola, ma trasformarono i comportamenti e la
mentalità encorii, non di rado con risultati sorprendenti per la stessa amministra-
zione greca che forse, con il tempo, mostrò di non sapere far fronte a sua volta a
possibili espedienti o artifici con la stessa elasticità35.

35
Per un ulteriore completamento dei dati che sono stati fin qui esaminati, e soprattutto per l’inte-
grazione costituita dall’analisi dei prestiti in natura e dei documenti di affitto o sub-affitto di terra
con canoni in natura, rinvio ad un contributo separato.
sui decreti di metropolis in
onore di apollonio
Biagio Virgilio
Università di Pisa

1. I due decreti.

I due decreti emanati dalla città di Metropolis in Ionia in onore del cittadino
evergete Apollonio, riuniti e incisi su due lati di un blocco di marmo che costi-
tuiva la base della statua dell’evergete, sono stati rinvenuti nel 1999 sulla terraz-
za del bouleuterion nel corso degli scavi condotti da Recep Meriç a Metropolis
(città attalide nel III-II sec. a.C., sulla strada fra Smirne ed Efeso, fra gli attuali
villaggi di Yeniköy e Özbey, nel distretto di Torbalı)1. I nuovi documenti sono
stati egregiamente pubblicati nel 2003: Helmut Engelmann ha curato l’edizione
e la traduzione tedesca (Die Inschriften, 4-11); Boris Dreyer ha curato l’ampio
commento distribuendolo in due parti: la prima (Teil I, Zeilenkommentar, 13-65),
con il commento lineare~puntuale a ciascuno dei due decreti; la seconda (Teil II,
Historische Kommentar, 66-90), con un commento storico dedicato alla rivolta
di Aristonico in generale e specialmente alla luce dei nuovi importanti dati che
emergono dal decreto cronologicamente più recente di Metropolis in onore di
Apollonio. Fra gli indici e la bibliografia (91-134), si apprezza in particolare
l’accurato indice greco (91-100). Infine, alla carta del territorio di Metropolis
sono fatte seguire le foto dei due decreti (Taf. I-II) che tuttavia non agevolano
un controllo diretto del testo. Gli editori hanno scelto di presentare i due decreti
non seguendo l’ordine cronologico ma partendo dal secondo e ultimo decreto,
inciso sulla faccia principale (A. Dekret der Hauptseite) della base, che è stato
all’origine della statua in onore dell’evergete e della incisione anche del decreto

1
R. Meriç, Metropolis in Ionien. Ergebnisse einer Survey-Unternehmung in den Jahren 1972-1975,
Beiträge zur klassischen Philologie 142, Königstein-Taunus 1982; Id., Metropolis Excavations. the
First Five Years 1990-1995, Izmir 1996.

Gnoli, Muccioli (eds.), Incontri tra culture, Milano 2007, 71-86


72 Biagio Virgilio

più antico sulla faccia secondaria (B. Dekret der Nebenseite) della stessa base2.
(Nella mia esposizione seguirò invece l’ordine cronologico dei due decreti).
L’interesse dei nuovi documenti e i meriti degli editori sono indubbiamente
notevoli e sono testimoniati dai contributi e dalle recensioni che sono presto se-
guite alla pubblicazione del volume3.

Il decreto più antico (40 linee), emanato nel 15° anno del regno di Attalo II
(144/143 a.C.), riguarda i titoli di merito di Apollonio che si è illustrato prima
all’estero, poi in patria come ambasciatore «presso i re ed altri» e come everge-
te: egli ha composto dei conflitti d’interesse su delle terre sorti con i vicini, ha
contribuito a risolvere a favore della città alcune controversie fiscali, grazie a
lui la città ha ottenuto dal re (probabilmente Attalo II) sovvenzioni annuali per
l’approvvigionamento di olio per il ginnasio e per l’istruzione dei fanciulli di
condizione libera.
Il punto critico di questo decreto è rappresentato dalla interpretazione che bi-
sogna dare del verbo ejfeurivskw (l. 19) nel contesto della controversia fiscale
risolta da Apollonio contro gli appaltatori delle tasse di transito del fiume Kay-
ster (ll. 18-24). B. Dreyer ritiene che il verbo ejfeurivskw «... significa ‘produrre
utili supplementari’ e indica un guadagno supplementare per quel che riguarda
la riscossione del pedaggio»4; pertanto egli spiega la controversia fra Metropolis
e gli appaltatori delle dogane come dovuta alla mancata destinazione a favore
di Metropolis delle somme incassate in più dagli appaltatori5. Più semplice e,
mi sembra, più convincente, la spiegazione di C.P. Jones: egli attribuisce al ver-
bo ejfeurivskw il significato ordinario di «inventare», e pertanto ritiene che gli

2
B. Dreyer - H. Engelmann (Hrsgg.), Die Inschriften von Metropolis, Teil I, Die Dekrete für Apol-
lonios: Städtische Politik unter den Attaliden und im Konflikt zwischen Aristonikos und Rom, IK
63, Bonn 2003.
3
C.P. Jones, Events Surrounding the Bequest of Pergamon to Rome and the Revolt of Aristonicos.
New Inscriptions from Metropolis, JRA 17, 2004, 469-485; Ph. Gauthier, Bull. Épigr. 2004, nrr.
280-282; B. Virgilio, Sulle città dell’Asia Minore occidentale nel II secolo a.C., in B. Virgilio (a
cura di), Studi Ellenistici, 16, Pisa 2005, 531-564, partic. 560-563; C. Eilers, JRS 95, 2005, 253-
254; B. Puech, AE 2003 [2006], nr. 1679. Il secondo decreto di Metropolis è stato nuovamente
considerato da B. Dreyer, Rom und die griechischen Polisstaaten an der westkleinasiatischen Küste
in der zweiten Hälfte des zweiten Jahrhunderts v.Chr. Hegemoniale Herrschaft und lokale Eliten
im Zeitalter der Gracchen, in A. Coşkun (Hrsg.), Roms aufwärtige Freunde in der späten Republik
und in frühen Prinzipat, Göttingen 2005, 55-74.
4
Dreyer, I. Metropolis, cit., 50-57, partic. 55: «... bedeutet ejfeurivskw “zusätzliche Gewinne brin-
gen” und bezeichnet einen zusätzlichen Gewinn bei der Erhebung der Maut».
5
Ph. Gauthier, Bull. Épigr. 2004, nr. 281, 651, è propenso a ritenere convincente la interpretazione
data da Dreyer «de cette clause difficile, parce-que sans véritable parallèle».
Sui decreti di Metropolis in onore di Apollonio 73

appaltatori delle tasse abbiano ‘inventato’ delle nuove tasse per la città di Me-
tropolis violando e di fatto vanificando qualche esenzione fiscale concessa alla
città dai re Attalidi e ripristinata grazie all’intervento di Apollonio6. L’evergete,
infatti, «esortato ad intervenire, sostenne anche il giudizio contro di loro (i.e.:
gli appaltatori delle tasse), grazie al quale egli preservò la liberalità stabilita per
le tasse» (ll. 22-23: uJpevsth paraklhqei;~ kai; th;n pro;~ touvtou~ É diavkrisin,
di jh|~ ejthvrhsen th;n ujpokeimevnhn ejn toi`~ tevlesin filanqrwpivan): «la libera-
lità (filanqrwpiva) stabilita per le tasse» non può che riferirsi ai privilegi fiscali
concessi a Metropolis dai re Attalidi.

Il decreto più recente e più importante (56 linee) è reso per la morte dell’ever-
gete e porta la data del 6 Daisios (circa maggio) di un anno che può essere stato
il 1307 o il 132 a.C8. Dopo avere ripreso in generale il motivo dei titoli di merito
di Apollonio per tutta la sua vita (ll. 3-13), il decreto richiama le circostanze
della morte di Attalo III Filometore nel 133 a.C. e il pronto schieramento della
città dalla parte dei Romani nella guerra contro Aristonico (nel dossier epigrafico
sulla guerra9, il decreto di Metropolis contiene ora il riferimento più esplicito e
più dettagliato). Nel decreto si legge che, mentre i Romani, «comuni benefattori
e salvatori», avevano riconosciuto la eleutheria delle città in precedenza poste
sotto la regalità di Attalo, Aristonico intendeva revocarla alla città. Per questo,
Apollonio si è impegnato in ogni modo contro le pretese di Aristonico a regnare e
sostenendo la determinazione del demos a salvaguardare la eleutheria (ll. 13-19):
motivi che evidentemente esprimono la scelta filoromana della città e la stessa
propaganda romana. La città elesse perciò Apollonio comandante di un corpo di
spedizione formato da neaniskoi10 e li inviò nella zona di guerra di Thyatira in
Lidia. Qui egli ha saputo mantenere la disciplina dei giovani e ha reso manifesto

6
Jones, Events Surrounding the Bequest, cit., 476-477, partic. 477: «Attalos II or a predecessor
had granted Metropolis a ‘concession’ exempting it from certain tolls on goods conveyed th[r]ough
the ‘Caystrian harbor’. A common sense of ejfeurivskw is ‘invent’, and tax-collectors, probably
royal, had ‘invented new taxes’ by levying them on items hitherto exempt ... The loss incurred by
the Metropolitans in paying these taxes caused them to appeal to higher autority ... and thanks to
Apollonios the ‘established concession’ was restored».
7
Dreyer, I. Metropolis, cit., 15, 42-43, 78, 90.
8
Jones, Events Surrounding the Bequest, cit., 480-485.
9
P. Brun, Les cités grecques et la guerre: l’exemple d’Aristonicos, in J.-C. Couvenhes - H.-L. Fer-
noux (Edd.), Les cités grecques et la guerre en Asie Mineure à l’époque hellénistique, Actes de la
journée d’études de Lyon, 10 octobre 2003, Tours 2004, 21-54, partic. 44-52.
10
Giovani fra i 20 e i 30 anni: Dreyer, I. Metropolis, cit., 34-35, con il rinvio soprattutto a Ph. Gau-
thier - M.B. Hatzopoulos, La loi gymnasiarchique de Béroia, Athènes-Paris 1993, 76-78, 100, 177;
cfr. Ph. Gauthier, Bull. Épigr. 2005, nr. 149.
74 Biagio Virgilio

a tutti il suo valore partecipando alle azioni militari e sostenendo i combattimenti


col nemico (ll. 27-29: thvn te kata; tou;~ neaÉnivskou~ eujtaxivan11 parevscen,
kai; th;n kaq jeJauto;n eujyucivan a{pasin toi`" paratugcavnousin ªfaºÉnera;n
ejpoivhsen, kai; oujdevpote diaklivvna" to;n ejsovmenon aujtw`i pro;" ejnantivou"
ajgw`na ktl.)
Quando ormai l’impresa era alla fine, Apollonio morì «giudicando essere bel-
lo, dopo essersi battuto per la patria, per i cittadini e per la libertà restituita, avere
come sudario la gloria e l’onore che gli persisteranno» (ll. 31-32: kai; kalo;n ei\nai
hJghsavmeno~ uJpe;r patrivdo~ kai; politw`n É kai; th`~ ajpodedomevnh~ ejleuqeriva~
ajgwnisavmeno~ ejntavfion e[cein th;n ejpesomevnhn aujtw`i dovxan kai; timh;n).
Come ho già osservato altrove12, il termine ejntavfion ha qui più propriamente il
significato di «lenzuolo funebre», «sudario», piuttosto che quello di «Gabe am
Grabe»13 o di «grave-monument»14. Questa del decreto di Metropolis è, a mia
conoscenza, la prima attestazione – non proveniente da iscrizioni funerarie15 – del
motivo degli onori e delle virtù civiche come ejntavfion; il motivo retorico del
kalo;n ejntavfion, rappresentato dalle virtù civiche, da un onore, dalla morte per
la patria, dalla libertà e perfino dal potere tirannico, è diffuso nella tradizione sto-
riografico-letteraria16. La presenza di questo motivo nel decreto di Metropolis è

11
Eujtaxiva esprime l’ordine e la disciplina negli eserciti, nelle guarnigioni e nel ginnasio, com-
postezza e rettitudine dei giudici e dei loro segretari nel soggiorno all’estero, ma anche regola e
rettitudine nella vita privata. I decreti di Metropolis documentano varî significati di eujtaxiva. Nel
decreto più antico si legge che Apollonio ha condotto la sua vita con laboriosità e disciplina (ll. 6-7:
filopovnw~ kai; met jeujtaxiva~ uJfestavmeno" to;n aujtou` bivon). Nel decreto più recente (l. 28, cit.),
eujtaxiva riunisce in sé una doppia valenza: quella di disciplina propria di un contingente militare
e, trattandosi di neaniskoi, quella di disciplina propria del ginnasio. Cfr. Dreyer, I. Metropolis,
38, 46-47; B. Virgilio, Le esplorazioni in Cilicia e l’epistola regia sulla indisciplina dell’esercito
acquartierato a Soli, MUSJ 60, 2007, 165-240 (con ulteriore bibliografia e documentazione su
eujtaxiva nei varî contesti: militare, del ginnasio, dei giudici e della vita privata; per la eujtaxiva
nel ginnasio entrambi rinviano soprattutto a Gauthier - Hatzopoulos, La loi gymnasiarchique de
Béroia, cit., 102-105).
12
Virgilio, Sulle città dell’Asia Minore occidentale, cit., 562-563 con n. 75.
13
Engelmann, I. Metropolis, cit., 7. Cfr. Ph. Gauthier, Bull. Épigr. 2004, nr. 282, 653: «... “Gabe
am Grabe” glose plutôt que traduction ... mais il s’agit bien de “ce qu’on ensevelit avec le mort” ...
l’ejntavfion consistant ici ... non point en objects précieux mais en “valeurs”, à savoir “la gloire et
l’honneur civiques”».
14
Jones, Events Surrounding the Bequest, cit., 473.
15
Cfr. SEG 26 (1976-1977) [1979], nr. 1808 l. 3, con J. et L. Robert, Bull. Épigr. 1977, nr. 564 (epi-
gramma funerario ellenistico dall’Egitto); TAM V 2, nr. 1406 l. 5 (iscrizione funeraria sul sarcofago
di un vescovo cristiano della seconda metà del IV secolo in Lidia).
16
Dreyer, I. Metropolis, cit., 39-40; D. Campanile, Vivere e morire da sofista: Adriano di Tiro, in
B. Virgilio (a cura di), Studi Ellenistici, 15, Pisa 2003, 245-273, partic. 266-273; Virgilio, Sulle città
dell’Asia Minore occidentale, loc. cit. (supra, n. 12).
Sui decreti di Metropolis in onore di Apollonio 75

indizio dell’elevato livello compositivo e ‘retorico’ del decreto stesso: un aspetto


raramente considerato negli studi di epigrafia ellenistica. L’interesse per questo
aspetto delle iscrizioni ellenistiche risale alla Griechische Kunstprosa di Eduard
Norden (1868-1941), dove per la prima volta era messo in evidenza il marcato
uso di espressioni auliche, ‘letterarie’ e ‘retoriche’, nella grande iscrizione di An-
tioco I di Commagene al Nemrud Daǧı, arrivando a riconoscervi la persistenza
dello stile della ‘prosa d’arte asiana’17.
La città di Metropolis elogia dunque Apollonio e gli decreta una statua di
bronzo da collocare nell’agora. La statua è sovvenzionata ‘spontaneamente’ dai
figli18 che dunque sono elogiati dal decreto e si vedono accordato il permesso di
erigere sulla loro proprietà privata un heroon del padre davanti alla porta della
città (ll. 34-42). Il decreto sollecita anche il recupero delle spoglie di Apollonio

17
E. Norden, Die antike Kunstprosa vom VI. Jahrhundert v.Chr. bis in die Zeit der Renaisssance,
Leipzig 1915-19183, I, 140-147; J. Waldis, Sprache und Stil der großen griechischen Inschrift
vom Nemrud-Dagh in Kommagene (Nordsyrien). Ein Beitrag zur Koine-Forschung, (Diss. Zürich),
Heidelberg 1920. Cfr. E.A. Judge, The Rhetoric of Inscriptions, in St.E. Porter (ed.), Handbook of
Classical Rhetoric in the Hellenistic Period 330 B.C.-A.D. 400, Leiden-New York-Köln 1997, 807-
828, partic. 813-815 (con il rinvio a Norden, loc. cit., e a Waldis, Sprache und Stil, cit.).
18
Ph. Gauthier, Le décret de Thessalonique pour Parnassos. L’évergète et la dépense pour sa statue
à la basse époque hellénistique, «Tekmeria» 5, 2000, 39-62, ha ben mostrato come, a partire dal
II secolo a.C., le spese dei costosi onori decretati in favore degli evergeti (corona, statua, ecc.) non
siano più, o per lo meno non siano prevalentemente a carico delle finanze cittadine ma siano ‘spon-
taneamente’ sostenute dagli stessi onorati o dai loro familiari: da un lato per le difficoltà finanziarie
delle città, dall’altro per la volontà degli evergeti di conformarsi così al loro costante ruolo everge-
tico nei confronti della comunità (e forse anche seguendo l’esempio dell’evergetismo di alcuni re
ellenistici che non avevano fatto pesare sulle finanze delle città, sostenendole essi stessi, le spese
degli onori da queste decretati in loro favore). Cfr. Dreyer, I. Metropolis, cit., 40-41, n. 138.
19
Nel caso di Eugnotos di Acrefie, comandante della cavalleria dei Beoti morto suicida sul campo
di battaglia, dopo innumerevoli atti di valore, per non sopravvivere alla sconfitta nella guerra contro
l’esercito invasore di Demetrio Poliorcete (293 o 291 a.C.), sono gli stessi nemici a restituire alla
città la spoglia inviolata (ajskuvlhton) dell’eroico comandante: L. Moretti, ISE, nr. 69; J. Ma, The
Many Lifes of Eugnotos of Akraiphia, in Virgilio (a cura di), Studi Ellenistici, 16, cit., 141-191.
Sui funerali pubblici dei caduti in battaglia si deve partire dal celebre e discusso passo di Tucidide
II 34 e dallo studio di F. Jacoby, Patrios Nomos: State Burial in Athens and the public Cemetery in
the Kerameios, JHS 64, 1944, 37-66 (= Id., Abhandlungen zur Griechischen Geschichtsschreibung,
Leiden 1956, 260-315): vd. F. Maltomini, L’indagine di Jacoby sugli usi funerari ateniesi, in C.
Ampolo (a cura di), Aspetti dell’opera di F. Jacoby, (Seminari A. Momigliano 1. Scuola Normale
Superiore, Pisa 18-19 dic. 2002), Pisa 2006, 93-108, e B. Bravo, Il Patrios Nomos di Jacoby, la
critica del testo, il cimitero del Keramikos nell’immaginario civico ateniese, ibid., 109-131. Sui riti
funerari pubblici in età ellenistica, cfr. P. Herrmann, Gevra~ qanovntwn. Totenruhm und Totenehrung
im städtischen Leben der hellenistischen Zeit, in M. Wörrle - P. Zanker (Hrsgg.), Stadtbild und
Bürgerbild im Hellenismus (Kolloquium, München 24. bis 26. Juni 1993), München 1995, 189-
197; M.-Th. Couilloud-Le Dinahet, Les rituels funéraires en Asie Mineure et en Syrie à l’époque
hellénistique (jusqu’au milieu du Ier siècle av. J.-C.), in F. Prost (Ed.), L’Orient méditerranéen de
la mort d’Alexandre aux campagnes de Pompée. Cités et royaumes à l’époque hellénistique, (Actes
du Colloque international de la SOPHAU, Rennes, avril 2003), Rennes 2003, 65-95.
76 Biagio Virgilio

(l. 41: peri; th`~ tw`n ojstw`n ajnakomidh`~)19 perché la città possa celebrare degni
funerali non appena gli inviati del senato romano abbiano debellato Aristonico
e ristabilito pace e ordine (ll. 42-45). Infine, si dispone che il decreto sia esposto
nell’agora, inciso con il precedente decreto sulla base della statua di Apollonio e
corredato dei nomi dei giovani caduti a Thyatira (ll. 45-56).

2. Le linee 28-36 del primo decreto.

H. Engelmann ha presentato questa edizione delle ll. 28-36 del decreto più

28 diovper oJ Dh`mo~ ejn a{pasin e-


ª ..... ..... º aujtw`i proairouvmeno~ kata; to; divkaion ejn timh`i te kai; promhqivai dia;
30 ª ..... ..... ... jApºollwvnion, diatelei` ejgmarturoumevnhn de; kai; th;n uJpe;r
ª ..... ..... ..... ..... ..... ... o{pºw~ ou|tov~ te kata; to; kalw`~ e[con timh`~
32 ªtugcavnhi th`~ kaqhkouvsh~ kai; oiJ loipoi;º qewrou`nte~ th;n tou` Dhvmou peri; tw`n
ª ..... ..... ..... ..... ... ejqevlwsiºn≥ aJmilla`sqai pro;~ ajjreth;n e[conte~
34 ª ..... ..... ..... ..... .... th;n tou` Dhvmºo≥u eujcaristivan: dedovcqai tw`i
ªDhvmwi: ejpainevsai aujto;n ejpi; toi`~ progegrºa≥mmevnoi~ kai; tou` yhfivsma-
36 ªto~ ajnagnwsqevnto~, stefanw`sai aujto;n ejn tw`i qeavtrºwi ktl

antico:
L’iscrizione è integra nelle ll. 1-28, mentre presenta lacune di varia estensione
all’inizio delle ll. 29-40. L’editore H. Engelmann ha integrato la l. 32 e le ll. 35-
40; C.P. Jones ha proposto una integrazione per la l. 33; Ph. Gauthier ha proposto
delle correzioni alle integrazioni di H. Engelmann per le ll. 35-36. Per parte mia
ritengo di potere proporre delle integrazioni per le ll. 29-31 e 34 che mi sembrano
sostenute dall’interno stesso dei due decreti nei quali sono evidenti e forti le ana-
logie e le riprese formulari e terminologiche.
Bisogna prima di tutto osservare quanto sia ampia l’oscillazione del numero
delle lettere e quanto questa sia variamente e irregolarmente distribuita nelle ll. 1-
28 conservate integralmente: si passa dalle 51 lettere della l. 1 alle 79 lettere della
l. 6 (nelle altre linee: 54 lettere nella l. 19; 56 nelle ll. 2, 20; 57 nella l. 18; 58 nelle
ll. 4, 21-22; 60 nelle ll. 17, 25, 28; 61 nelle ll. 13, 26; 63 nelle ll. 3, 23-24, 27;
64 nella l. 5; 65 nelle ll. 15-16; 66 nelle ll. 10, 14; 67 nella l. 8; 68 nella l. 7; 69
nelle ll. 11-12; 70 nella l. 9). Nel decreto più recente l’oscillazione è pressocché
identica: si passa dalle 67 lettere della l. 8 alle 94 lettere della l. 42. Tale oscilla-
zione è certamente dovuta al fatto che le lettere non hanno ovunque una altezza
uniforme; gli editori segnalano infatti che «le lettere, incise accuratamente, sono
Sui decreti di Metropolis in onore di Apollonio 77

alte circa 0,7 cm., talvolta diventano anche più piccole ... Alcune linee hanno una
scrittura più fitta, soprattutto nel decreto della faccia principale»20. Questa descri-
zione e le alte oscillazioni del numero di lettere nelle linee fanno dubitare della
‘accuratezza’ dell’incisione. Pertanto è possibile calcolare con margini oscillanti
di approssimazione la varia estensione delle lacune che si riscontrano all’inizio
delle ll. 29-39 del decreto qui preso in considerazione. L’oscillazione del numero
delle lettere nelle varie linee dei due decreti di Metropolis è perfino più ampia,
per esempio, di quella che M. Holleaux osservava nel decreto di una città della
Misia in onore dello stratego attalide Korragos, dove «l’écriture est remarquable
par son irregularité» e «le nombre des lettres ... flotte arbitrairement du minimun
de 28 (l. 15) au maximun de 44 (l. 11)»21. In casi di questo genere L. e J. Robert
osservavano: «Cela peut montrer combien seraient trompeurs les calculs mécani-
ques de restitutions à tant de lettres par lignes»22.
Le integrazioni che propongo per le ll. 29-31 e 34 del primo decreto di Metro-
polis tengono conto della approssimazione alla quale sono pervenuto osservando
l’oscillazione del numero di lettere conservate negli spazi corrispondenti delle
linee integre (ho cercato di migliorare con elaborazioni al computer la mediocre
foto pubblicata in I. Metropolis, Taf. II); ma, al di là del semplice calcolo ‘mec-
canico’ orientativo del numero delle lettere, le integrazioni proposte mi sembrano
sorrette in particolare dal contesto dei due decreti e dai luoghi paralleli.
Linea 29. (Il numero di lettere atteso può oscillare da 9 a 12 circa.) Una even-
tuale integrazione ejªpakolouqei`nº aujtw`i proairouvmeno~ ktl è stata giudi-
cata improbabile: cfr. Dreyer, I. Metropolis, cit., 65, n. 266. Propongo invece:
eɪujcavristo~ w]nº aujtw`i, oppure eªujÉcavristo~ w]nº ktl, rispettando la divisione
sillabica delle parole alla fine della l. 28 (il dubbio sulla collocazione della lettera
U dipende dal fatto che la foto in I. Metropolis non permette di chiarire se la E
sia l’ultima lettera della l. 28 oppure se essa poteva essere seguita da un’altra let-
tera). Comunque sia, l’integrazione proposta è avvalorata poco dopo dalla l. 34:
th;n tou` Dhvmºo≥u eujcaristivan. L’espressione oJ dh`mo~ eujcavristo~ w]n (con altre
varianti) figura comunemente nei decreti cittadini. Per qualche caso (limitato al-
l’Asia Minore) cfr., e.g., I. Pergamon, nr. 18 l. 36; nr. 224 A l. 14; I. Magnesia,
nr. 92a l. 8; I. Ephesos, nr. 1390 l. 4; nr. 1447 l. 15; I. Tralleis, nr. 26 l. 3; Milet

20
I. Metropolis, 2: «Die sorgfältig geschlagenen Lettern sind etwa 0,7 cm. hoch, gelegentlich wer-
den sie kleiner ... Manche Zeilen sind eng gedrängt geschrieben, insbesondere im Dekret der Haup-
tseite».
21
M. Holleaux, Inscription trouvée à Brousse, BCH 48, 1924, 1-57, partic. 3-9 (= Id., Études
d’épigraphie et d’histoire grecques, II, Paris 1938, 73-125, partic. 75-81). (Holleaux, ibid., 45-48
=114-116, proponeva di attribuire il decreto alla città di Apollonia al Rindaco; L. Robert, Hellenica
XI-XII, Paris 1960, 510, n. 2, a Miletoupolis).
22
L. e J. Robert, La Carie, II, Le plateau de Tabai et ses environs, Paris 1954, 286.
78 Biagio Virgilio

VI. 3, nr. 1052 l. 42; MAMA VI, nr. 173 l. 19; TAM III 1, nr. 7 l. 16; ecc.
Linea 30. (Il numero di lettere atteso può oscillare da 13 a 17 circa.) Propongo:
proairouvmeno~ kata; to; divkaion ejn timh`i te kai; promhqivai dia; É ªpanto;~
kaqistavnai jApºollwvnion ktl. Cfr., e.g., I. Priene, nr. 108 ll. 99-100: boulovme-
no~ dia; panto;~ ªejnº É eujdaimonivai kaqestavnai tou;~ polivta~.
L’espressione ejn timh`i te kai; promhqivai offre lo spunto per alcune conside-
razioni. Il termine promhqiva è molto raro nella epigrafia ellenistica23; pertanto
è da ritenere un fatto notevole che il termine sia attestato in entrambi i decreti di
Metropolis; alla l. 29 del primo decreto: proairouvmeno~ kata; to; divkaion ejn
timh`i te kai; promhqivai ktl; alle ll. 11-12 del secondo e definitivo decreto: ajei;
mevn pote aujto;n ejm pa`s in dietevlei timh`~ kai; promhÉqiva~ ajxiw`n ktl. In en-
trambi i casi il termine figura nella locuzione timh; kai; promhqiva. Nel decreto di
Priene in onore di Herodes (120 circa a.C.) il termine figura nel nesso eujnoiva te
kai; promhqiva24. Nel frammento di un decreto onorario emanato dalla tribù degli
Otorkondeis per un evergete (II-I secolo a.C.), gli editori sono stati concordi nel
riconoscervi la locuzione ejpisthvmh kai; promhqiva: il primo termine è stato par-
zialmente integrato, mentre il secondo termine è interamente leggibile. Nel 1894
i primi editori, Ed. Hula ed E. Szanto, presentavano infatti questa edizione della l.
7 del decreto degli Otorkondeis copiato da E. Szanto in quello stesso anno in una
casa di Mylasa: . . . ejpisthvºmh~ kai; promhqiva~ ajxiou`nte~ ktl25. Nel 1987, nel-
la edizione delle iscrizioni di Mylasa, W. Blümel ha presentato questa ulteriore
edizione della l. 7: [- - - ejpistºhv≥mh~ kai; promhqiva~ ajxiou`nte~ ktl26. Sarebbe
questa, a mia conoscenza, l’unica attestazione del nesso ejpisthvmh kai; promh-
qiva in tutta la tradizione greca letteraria, epigrafica, papiracea27. Mi chiedo perciò
se nel decreto degli Otorkondeis sia corretta l’integrazione del termine ejpisthvmh
e la sua connessione con il termine promhqiva, e se abbia un senso l’espressione
23
Cfr., e.g., I. Priene, nr. 109 ll. 31-32: a{ma th`i pro;~ to;n patevra sunauxhqeivsh/ É mevcri tevlou~
eujnoiva/ te kai; pr°omhqivaø/ o≥nØ; I. Priene, nr. 117 l. 61: i{na kai; oiJ loipoi; ginwvskone~ h}n poiei`tai
pr≥om≥ªhvqeian hJ povli~ toiouvtºwn ajndrw`n ktl; I. Mylasa I, nr. 113 l. 7: ª ejpistºh≥vmh~ kai;
promhqiva~ (vd. infra); P. Herrmann - H. Malay, New Documents from Lydia, ÖAW. Philos-hist.
Kl., Denkschriften 340, Ergänzungsbände zu TAM 24, Wien 2007, nr. 32 A ll. 15-16 (con il riman-
do ad A. Wilhelm, Anz. Österr. Akad. Wiss. Wien. Philos.-hist. Kl. 1924, 149-262, partic. 156 =
Kleine Schriften, I. 2, Leipzig 1974, 191-204, partic. 198).
24
I. Priene, nr. 109 ll. 31-32 (cit. supra, n. 23).
25
Ed. Hula - E. Szanto, Bericht über eine Reise in Karien, SBAW 132, 2, Wien 1894, 13, nr. 3.
26
I. Mylasa I, nr. 113 (cit. supra, n. 23).
27
Ho condotto l’indagine sul CD del Tesaurus Linguae Graecae (SNS e University of California)
e sul CD Greek Documentary Texts (The Packard Humanities Institute).
28
Il termine ejpisthvmh appartiene ad altri contesti. Per il significato di «conoscenza, competenza,
perizia tecnico-professionale» cfr., e.g., P. Oxy VI, nr. 896 ll. 2-5: para; Aujrhlivou ... zwgravfou
th;n É ejpisthvmhn; P. Oxy XLIII, nr. 3123 ll. 7-8: mhde;n a[topon mhde; uJpenanɪtivoºn≥ th`~ dhmo-
siva~ ejpisthvmh~; Chr. Wilcken, nr. 395 l. 23: th;n ijatrikh;n ejpisthvmhn; F. Delphes III 4, nr.
Sui decreti di Metropolis in onore di Apollonio 79

«... ritenendo(lo) degno di conoscenza28 e considerazione ...». Tanto più che nel
facsimile del calco dell’iscrizione predisposto da E. Szanto e riprodotto da W.
Blümel (I. Mylasa I, p. 39) la prima lettera conservata della l. 7 sembra essere
chiaramente uno iota e non i resti di un eta di incerta lettura. Anche nella copia di
G. Cousin, che aveva già copiato l’iscrizione a Mylasa nel 1889 pubblicando poi
la sola copia in maiuscole nel 1898, è chiaramente leggibile uno iota29.
Su mia richiesta, il Dr. Georg Rehrenböck (che ringrazio vivamente per la sua
grande cortesia e accuratezza) ha controllato i materiali relativi alla iscrizione
di Mylasa conservati presso la Kleinasiatische Kommission della Akademie der
Wissenschaften di Vienna confermandomi la sicura lettura dello iota e inviando-
mi copia dei documenti: 1) il facsimile del calco; 2) la pagina dello Skizzenbuch
(I, 45) di E. Szanto con la copia in maiuscole dell’iscrizione; 3) tre pagine della
scheda nr. 272 sulla iscrizione di Mylasa: una pagina contiene le annotazioni di
E. Szanto («Mylasa. In domo Turci cuiusdam ... Escripsi anno 1894. Edidimus
Hula et ego ...») seguite dalla sua trascrizione dell’iscrizione; una seconda pagina
contiene il facsimile dell’iscrizione; una terza pagina contiene la riproduzione
della copia in maiuscole di G. Cousin e la indicazione delle integrazioni succes-
sivamente proposte da L. Robert per la l. 930. Ebbene, nel facsimile del calco e
nelle copie di Ed. Hula, E. Szanto, G. Cousin, la prima lettera conservata della
l. 7 dell’iscrizione è inequivocabilmente uno iota, nella sequenza IMHS ktl. Di
tale iota, perfettamente leggibile nel facsimile del calco e nelle copie dell’iscri-
zione, inspiegabilmente non è tenuto alcun conto nella trascrizione manuale di E.
Szanto contenuta nella scheda nr. 272 della Kleinasiatische Kommission e nella
edizione a stampa di Ed. Hula ed E. Szanto in «SBer. Akad. Wiss. Wien» 1894,

83 ll. 2-3: ∆Aristokleivdhn ... fusiko;n ejªpiºsthvmhn; F. Delphes III 4, nr. 108 ll. 6-7: kata; th;n
ijatªrikh;nº É ejpisthvmhn; ecc. In una iscrizione funeraria di Ancyra, di età imperiale romana, si
dice che l’adolescente defunto, un tredicenne, ha vissuto pavsh/ cavriti ke; ejpisthvmhÊ ke; ...É pai-
deiva/ kekosme≥vn≥on, «ornato di ogni grazia, conoscenza ed educazione», dove il nesso cavri~ ke;
ejpisthvmh ke; paideiva indica la amabilità del figlio, il profitto dello scolaro e la buona formazione
del futuro (mancato) cittadino: S. Mitchell, Inscriptions from Ancyra, AS 27, 1977, 63-103, partic.
84, nr. 18. In una iscrizione funeraria di Synnada si dice che il defunto si era distinto «per sapienza,
capacità di giudizio e perizia», sofivh/ kai; gnwvmh/ kai; ejpisthvmh/: A. Körte, Kleinasiatische Stu-
dien. VI. Inschriften aus Phrygien, AthMitt 25, 1900, 398-444, partic. 410-411; ecc.
29
G. Cousin, Voyage en Carie, BCH 22, 1898, 361-402, partic. 386, nr. 34. Ibid., 361: «En 1889 le
Ministère de l’Instruction publique m’accorda une mission pour explorer de nouveau cette partie
de l’Asie Mineure que j’avais parcourue en 1885 avec M. Dihle et en 1886 avec M. Deschamps».
Ibid., 380: «Plusieurs des inscriptions que j’ai copiées à Mylasa et à Olymos en 1885 et 1889, et que
je publie aujourd’hui ont été copiées vers le même temps par M. Judeich et ses amis, ou quelques
années plus tard par MM. Eduard Hula et Emil Szanto». (Ibid., come anno della pubblicazione di
Ed. Hula ed H. Szanto è indicato il 1895 invece del 1894; così pure in I. Mylasa I, nr. 113).
30
Cousin, Voyage en Carie, loc. cit.; L. Robert, Études d’épigraphie grecque, RPhil 51, 1927, 97-
132, partic. 124 (= Id., OMS II, 1052-1087, partic. 1079) (cfr. SEG 4 [1929], 236).
80 Biagio Virgilio

dove si legge appunto ejpisthvºmh~. Da questa imperfetta trascrizione ed edizione


di Ed. Hula ed E. Szanto si è passati a un eta di incerta lettura nella edizione di W.
Blümel: egli aderisce alla edizione della l. 7 data dai primi editori; ma, osservan-
do il facsimile del calco che egli stesso stesso riproduce e lo Skizzenbuch (I 45) di
E. Szanto che egli anche cita (I. Mylasa I, p. 39), W. Blümel avrà probabilmente
ritenuto che l’asta visibile nella l. 7 sia stata parte di quell’eta che Hula e Szanto
avevano inserito dentro la parentesi dell’integrazione: ejpisthºmh~, e avrà prefe-
rito spostare l’eta fuori della parentesi sottopuntandolo per segnalare la (presun-
ta) parziale conservazione e la incerta lettura della lettera: ª- - - ejpistºh≥vmh~.
Tuttavia, essendo certa la lettura IMHS nella l. 7 dell’iscrizione di Mylasa, e per
analogia con le due attestazioni della locuzione timh; kai; promhqiva nei decreti
di Metropolis, nel decreto degli Otorkondeis bisognerà restituire e leggere ª- - -
tºimh`~ kai; promhqiva~ ajxiou`nte~. È dunque da eliminare dal lessico epigrafico
ellenistico la locuzione ejpisthvmh kai; promhqiva, peraltro mai altrove documen-
tata nella lingua greca.

Linea 31. (Il numero di lettere atteso può oscillare da 29 a 35 circa.) Propon-
go: diatelei` ejgmarturoumevnhn de; kai; th;n uJpe;r É ªaujtou` para; tw`n povlewn
eujfhmivan ajpodidou;~ o{pºw~ ou|tov~ te ktl. L’integrazione è suggerita dalle ll.
9-10 dello stesso decreto, dove si legge: ejgmarturoumevnhn labw;n para; tw`n
povlewn th;n kaq j aujto;n eujfhmivan. Per diatelei` ... ajpodidou;~ cfr., e.g., I. Prie-
ne, nr. 99 ll. 8-10: o{pw~ É ou\n aujtw`i ... ta;~ É ajxiva~ tima;~ kai; cavrita~ oJ dh`mo~
ajpodidou;~ diatelh`i ktl.

Linea 32. (Il numero di lettere atteso può oscillare da 29 a 35 circa.) L’integra-
zione è del primo editore H. Engelmann.

Linea 33. (Il numero di lettere atteso può oscillare da 31 a 39 circa.) C.P.
Jones, JRA 17, 2004, 474, propone di integrare: kai; oiJ loipoi;º qewrou`nte~
th;n tou` Dhvmou peri; tw`n É ªajgaqw`n ajndrw`n diavlhyin ejqevlwsiºn≥ aJmilla`sqai
pro;~ ajreth;n ktl. (osservando l’uso del termine diavlhyi~ anche nel decreto più
recente: l. 10, l. 37). Ma è molto più pertinente il confronto con le ll. 46-47 del
decreto più recente, dove si legge: o{pw~ kai; oiJ loipoi; eijdovte~ th;n tou` Dhvmou
ai{resin h}n e[cei pro;~ tou;~ kaÉlou;~ kai; ajgaqou;~ tw`n ajndrw`n trevpwntai kai;
aujtoi; pro;~ ajreth;n ktl. Pertanto, anche per una migliore corrispondenza della
lacuna con il numero di lettere atteso, propongo di integrare: kai; oiJ loipoi;º
qewrou`nte~ th;n tou` Dhvmou peri; tw`n É ªkalw`n kai; ajgaqw`n ajndrw`n ai{resin
ejqevlwsiºn≥ aJmilla`sqai pro;~ ajreth;n ktl.31 Osservo che alla l. 38 dello stesso

31
Formulario abbastanza comune nei decreti cittadini. Cfr., e.g., I. Priene, nr. 117 l. 61 (cit. an-
che supra, n. 23): i{na kai; oiJ loipoi; ginwvskone~ h}n poiei`tai pr≥om≥ªhvqeian hJ povli~ toiouvtºwn
ajndrw`n ktl.
Sui decreti di Metropolis in onore di Apollonio 81

decreto è stata agevolmente integrata da H. Engelmann l’espressione a[ndra É


[kalo;n kai; ajgaqo;n ktl] sulla base della l. 36 del decreto più recente; che nel
decreto più recente si legge ajndri; kalw`i kai; ajgaqw`i alla l. 8, a[ndra kalo;n kai;
ajgaqo;n alla l. 36, kalou;~ kai; ajgaqou;~ tw`n ajndrw`n alle ll. 46-47.

Linea 34. (Il numero di lettere atteso può oscillare da 35 a 41 circa.) Propon-
go: e[conte~ É ªajreth`~ e{neken kai; eujnoiva~ th`~ eij~ aujto;n th;n tou` Dhvmºo≥u
eujcaristivan. Qui la città auspica la emulazione e i comportamenti virtuosi e
devoti dei futuri evergeti; nel decreto più recente l’espressione ajreth`~ e{neken
kai; eujnoiva~ (l. 39) attesta e certifica la ‘virtù e la devozione’ già messe in atto
da Apollonio. L’espressione ajreth`~ e{neken kai; ..., molto comune nei decreti
onorari ellenistici, è più frequentemente accompagnata dal termine eujnoiva~, ma
anche da filotimiva~, kalokajgaqiva~, eujergesiva~, dikaiosuvnh~, ecc. (cfr. fi-
lotimiva~ alla l. 13 del decreto più antico; ajrethvn te kai; kalokajgaqivan alla l.
13 del decreto più recente).
Una possibile integrazione alternativa potrebbe essere: e[conte~ É ªejpi; toi`~
gegenhmevnoi~ ajgaqoi`~ th;n tou` Dhvmºo≥u eujcaristivan. Tuttavia la escluderei
perché l’espressione ejpi; toi`~ gegenhmevnoi~ ajgaqoi`~ (e. g. nel decreto di Tel-
messo in onore di Eumene II: M. Segre, RFIC 60, 1932, 447, l. 16; nel decreto di
Pergamo in onore di Attalo III: I. Pergamon, nr. 246 l. 3; vd. anche la dedica di
Eumene II nel Grande Altare di Pergamo: I. Pergamon, nr. 69, dove l’espressione
è quasi interamente integrata) indica i benefici effettivamente compiuti dall’ever-
gete e non i benefici auspicati dalla città e ancora da compiere.

Linea 35. (Il numero di lettere atteso può oscillare da 39 a 46 circa.) [ejpainev-
sai aujto;n ktl.] H. Engelmann; [ejpainevsai jApollwvnion ktl.] Ph. Gauthier,
Bull. Épigr. 2004, nr. 281, 651 (per analogia con le ll. 35-36 del decreto più
recente: dedovcqai tw`i Dhvmwi: ejpainevsai jApolÉlwvnion).

Linea 36. (Il numero di lettere atteso può oscillare da 40 a 48 circa.) kai; tou`
yhfivsmaɪto~ ajnagnwsqevnto~ stefanw`sai aujto;n ejn tw`i qeavtrºwi H. Engel-
mann; kai; tou` yhfivsmaɪto~ kurwqevnto~ (vel ejpikurwqevnto~), stefanw`sai
aujto;n ejn tw`i dhvmºwi (?) Ph. Gauthier, Bull. Épigr. 2004, nr. 281, 651-652.
Per concludere, tenendo conto della edizione di H. Engelmann, delle osser-
vazioni di C.P. Jones e di Ph. Gauthier, delle proposte testuali che ho fin qui
presentato, mi sembra che le ll. 28-36 del decreto più antico possano essere così
restituite:
82 Biagio Virgilio

28 diovper oJ Dh`mo~ ejn a{pasin eªuj-


ªcavristo~ w]nº a≥ujtw`i, proairouvmeno~ kata; to; divkaion ejn timh`i te kai; promhqivai dia;
30 ªpanto;~ kaqistavnai jApºollwvnion, diatelei` ejgmarturoumevnhn de; kai; th;n uJpe;r
ªaujtou` para; tw`n povlewn eujfhmivan ajpodidou;~ o{pºw~ ou|tov~ te kata; to; kalw`~ e[con timh`~
32 ªtugcavnhi th`~ kaqhkouvsh~ kai; oiJ loipoi;º qewrou`nte~ th;n tou` Dhvmou peri; tw`n
ªkalw`n kai; ajgaqw`n ajndrw`n ai{resin ejqevlwsiºn≥ aJmilla`sqai pro;~ ajreth;n e[conte~
34 ªajreth`~ e{neken kai; eujnoiva~ th`~ eij~ aujto;n th;n tou` Dhvmºo≥u eujcaristivan: dedovcqai tw`i
ªDhvmwi: ejpainevsai jApollwvnion ejpi; toi`~ progegrºa≥mmevnoi~ kai; tou` yhfivsma-
36 ªto~ ejpikurwqevnto~, stefanw`sai aujto;n ejn tw`i dhvmºwi (vel ejn tw`i qeavtrºwi) ktl.

28-31. Virgilio ~ 32. Engelmann ~ 33. Virgilio. Jones: ªajgaqw`n ajndrw`n


diavlhyin ejqevlwsiºn≥ ~ 34. Virgilio ~ 35. Gauthier. Engelmann: ªejpainevsai
aujto;n] ~ 35-36. Gauthier. Engelmann: kai; tou` yhfivsmaɪto~ ajnagnwsqevnto~
stefanw`sai aujto;n ejn tw`i qeavtrºwi.

3. Traduzione dei due decreti.

I. «(Linee 1-4) Nel 15° anno del regno di Attalo (II) Philadelphos (= 145/4
o 144/3 a.C.), il 6° (giorno) del mese di Panemos, il Consiglio ha deliberato su
proposta degli strateghi Andromachos figlio di Kyniskos, Hegelochos figlio di
Museo, Filippo figlio di Filippo, Boutheros figlio di Neon, Agesandros figlio di
Agesandros:
(Linee 4-8) poiché Apollonio figlio di Attalo figlio di Andron, avendo ricevuto
la più nobile educazione fin dalla più giovane età, ha scelto, impegnandosi al
massimo, di competere per la virtù in ogni circostanza conducendo la propria vita
con laboriosità e con disciplina, onde non solo in patria si è procurata la buona
fama da parte dei concittadini (linee 8-12) ma anche in terra straniera, nelle città
nelle quali ha soggiornato, si è reso famoso – procurando un onore anche alla pa-
tria – ricevendo dalle città gli attestati di elogio nei suoi confronti. Ritornato dalla
(sua) permanenza all’estero, si elevò nello svolgere utilmente attività politica32 e
rese il suo servizio nelle liturgie dedicandosi senza esitazione, come conveniva a
un cittadino amante della patria.

32
Ll. 10-11: proh`lqen ejpi; to; politeuvesqai sumÉferovntw~; l. 27: politeuovmeno~ diatelei`
kaqareivw~ kai; proquvmw~, «continua a svolgere attività politica in maniera irreprensibile e con
passione». Come il verbo politeuvesqai ha il significato di «svolgere attività politica», così al
termine politeiva (l. 38 in questo decreto e l. 36 nel decreto più recente) va attribuito il significato
di «attività politica, cittadina»: cfr. infra, n. 41.
Sui decreti di Metropolis in onore di Apollonio 83

(Linee 12-18) Egli ha svolto continuamente ambascerie presso i re e gli altri33


con totale perseveranza senza mancare affatto di zelo e di munificenza. In occa-
sione delle controversie sulla terra sorte con i vicini – la qual cosa appunto è della
massima importanza per una città –, ponendo tutto in secondo piano rispetto alla
devozione nei confronti della patria, si comportò da protagonista esprimendo la
sua propria laboriosità e zelo senza mai compromettere34 gli interessi generali
della città per il proprio vantaggio; perciò accadde che gli interessi del popolo
furono salvaguardati senza che risultasse scadimento alcuno.
(Linee 18-23) Riguardo alle tasse per noi ulteriormente escogitate dagli appal-
tatori delle imposte sul transito del porto del Kayster, dal momento che noi erava-
mo giunti alla più grande angoscia e agitazione, (Apollonio) considerando essere
suo personale il danno occorso alla città, trascurando tutto ciò che lo riguardava,
esortato ad intervenire sostenne anche il giudizio contro di loro grazie al quale
egli preservò la liberalità stabilita per le tasse.
(Linee 23-28) Egli anche ottenne dal re grazie alla sua tenacia 500 dracme al-
l’anno per la fornitura d’olio ai neoi, e similmente anche per i ragazzi di condizio-
ne libera 500 dracme per la (loro) istruzione: le quali cose appunto procurarono
alla città onore non comune. Sotto ogni altro riguardo egli continua a svolgere
attività politica35 in maniera irreprensibile e con passione dedicandosi a tutto ciò
che risulti onorevole.
(Linee 28-34) Perciò il Demos, sotto ogni riguardo [riconoscente] nei suoi
confronti, proponendosi secondo il giusto [di porre per sempre ?] Apollonio in
onore e in considerazione, insiste [nel concedere l’elogio] testimoniato [dalle cit-
tà a suo favore] di modo che egli, secondo quanto è onorevole, abbia l’onore
che gli spetta e gli altri, osservando [la disposizione] del Demos nei confronti
degli [uomini nobili e valorosi, vogliano] competere per la virtù ottenendo [per la
(loro) virtù e devozione nei suoi confronti] la gratitudine del Demos;
(Linee 34-40) [il Demos] ha deciso: [di elogiare Apollonio per ciò che è stato
in precedenza] scritto, e quando il decreto [sia stato ratificato di incoronarlo da-
vanti al Demos (oppure: nel teatro)] mentre l’araldo fa questa proclamazione: ‘Il
Demos incorona Apollonio figlio di Attalo figlio di Andron [che è stato] uomo

33
I.e. presso i re Attalidi e i loro alti funzionari. In questo decreto si dice: dietevlei presbeuvwn
prov~ te tou;~ basilei`~ kai; É tou;~ a[llou~ meta; pavsh~ ejkteneiva~, spoudh`~ kai; filotimiva~
oujde;n ejlleivpwn. Nel decreto successivo (ll. 7-8) si dice che Apollonio in precedenza iJkanou;~ de;
ajgw`na~ ejpi; tw`n basilevwn kai; tw`n a[llwn ejxousiw`n ceirisavnªto~º dikaivw~ É kai; meta; pavsh~
ejkteneiva~, «ha trattato con giustizia e con ogni tenacia non pochi conflitti presso i re e le altre
autorità».
34
Jones, Events Surrounding the Bequest, cit., 473, traduce ottimamente l’espressione oujdevpote ...
ajllaxavmeno~: «never ... compromising».
35
Cfr. supra, n. 32.
84 Biagio Virgilio

[nobile e generoso nella (sua) attività politica’36. E Apollonio] faccia [un sacri-
ficio] ad Ares [in favore del Demos insieme con gli] anziani secondo i costumi
patrii».

II. «(Linee 1-3) Quando era sacerdote Metrofane figlio di Apollonio figlio di
…, quando era sacerdote37 di Roma … figlio di Deonnus figlio naturale di Deme-
trio, il sesto (giorno) del mese di Daisios, la Boulé ha deciso su proposta38 degli
strateghi colleghi di Alessandro figlio di Troilos:
(Linee 3-8) poiché Apollonio figlio di Attalo figlio di Andron in precedenza
ha profuso ogni zelo a favore degli affari della città senza evitare alcun pericolo
né sofferenza, donde derivò che il Demos pervenisse a condizione di gran lunga
migliore, dato che egli nelle circostanze più difficili ha fornito molte prove della
(sua) devozione verso la patria, dato che ha regolato con giustizia e con ogni
tenacia non pochi conflitti presso i re e le altre autorità39, (linee 8-13) e come si
conveniva a un uomo nobile e generoso che si è proclamato protettore e soccor-
ritore della città, donde il Demos avendo la massima opinione di lui e ritenendo
essere nobile rendere le degne grazie a quelli che con devozione fanno ogni cosa
a favore della città, da sempre ha continuato a ritenerlo degno in tutto di onore
e considerazione e ha mostrato anche con un decreto la virtù e la nobiltà che ha
accompagnato l’uomo per tutta la vita.
(Linee 13-19) E ora, essendo il re (Attalo III) Filometore trapassato, e i Ro-
mani, comuni benefattori e salvatori, avendo dato, secondo quanto essi hanno
decretato, la libertà a tutti quelli in precedenza sottoposti alla regalità di Attalo, ed
essendo sopraggiunto Aristonico e volendo revocare la libertà a noi concessa dal
Senato, (Apollonio) ogni cosa si sobbarcò a dire e a fare contro quello che si era
conferito la regalità contro il giudizio dei Romani comuni benefattori, nobilmente
prodigandosi per la libertà conformemente al proposito del Demos. (Linee 19-24)
Essendo sorta la necessità di inviare neaniskoi al campo di Thyatira, il Demos,
che fin dall’inizio aveva scelto la parte dei Romani e l’amicizia e alleanza nei loro
confronti, e avendo con immensa gioia ricevuto la libertà, volendo dimostrare la
propria disposizione e benevolenza che nelle circostanze più difficili (il Demos)
ha nei confronti degli affari pubblici dei Romani, ha votato Apollonio figlio di

36
Cfr. infra, n. 41.
37
L. 1: ejpi; iJerevw~ Mhtrofavnou tou` jApollwnªivou tou` dei`no~, tºou` de; th`~ JRwvmh~ Engelmann;
D. Rousset, ap. Ph. Gauthier, Bull. Épigr. 2004, nr. 282, 652: ejpi; me;n iJer°evw~ Mhtrofavnou tou`
jApollwnivou tou` dei`no~, iJer°eºv w~ de; th`~ JRwvmh~.
38
L. 2: strathgw`ªn gnwvmhiº Engelmann; Ph. Gauthier, Bull. Épigr. 2004, nr. 282, 652: «...
strathgw`ªn gnwvmh (supprimer l’iota abundans) ...». Ma la presenza dello iota è consigliata dalla
analogia con la l. 2 del decreto più antico, dove appunto si legge strathgw`n gnwvmhi.
39
Cfr. supra, n. 32.
Sui decreti di Metropolis in onore di Apollonio 85

Attalo figlio di Andron comandante della spedizione dei neaniskoi, (linee 24-
31) ed egli, sottostando (a ciò) e scegliendo di essere coerente con se stesso e di
rendere manifesta la sua devozione verso la patria e i Romani anche con i fatti,
conducendo i neaniskoi inquadrati ai suoi ordini e giunto presso Publio, Gaio e
Papos40 che erano a capo dell’armata, partecipando alle incursioni che si faceva-
no e alle altre incombenze mantenne la disciplina fra i neaniskoi, e rese manifesto
il suo coraggio a tutti quanti i presenti e a quelli inquadrati ai suoi ordini, e senza
mai evitare lo scontro che gli potesse occorrere con i nemici, confermò insieme
con i neaniskoi anche nelle imprese di guerra il valore e la gloria che in preceden-
za era stata propria dei nostri antenati, come gli è stato testimoniato.
(Linee 31-35) Infine, quando l’operazione stava per concludersi, esortando i
(suoi) commilitoni, come si conveniva a lui e alla nostra città, e giudicando essere
bello, dopo essersi battuto per la patria, per i cittadini e per la libertà restituita,
avere come sudario la gloria e l’onore che gli persisteranno, e dunque, avendo
egli combattuto insieme con i neaniskoi ed essendo caduto, e avendo l’assemblea
dato agli strateghi la disposizione di prendersi la migliore cura di lui, il Demos
ha deciso:
(Linee 35-40) di elogiare Apollonio figlio di Attalo figlio di Andron, che è
stato in precedenza uomo nobile e generoso nella (sua) attività politica41, e che
ora si è battuto valorosamente e in modo degno della propria virtù e secondo la
considerazione della città nei suoi confronti; di elevare una sua statua di bronzo
su una base di marmo nel luogo più eminente dell’agorà facendovi (questa) epi-
grafe: ‘Il Demos (onora) Apollonio figlio di Attalo figlio di Andron per il valore
e la devozione che ha continuamente avuto nei confronti degli affari dei Romani
e nei confronti della città’.
(Linee 40-45) Avendo i suoi figli Attalo e Agesandro affermato che essi forni-
ranno dai propri fondi la spesa occorrente per queste cose, (il popolo ha deciso)
di onorare anche costoro per la devozione verso il Demos e per l’affetto verso
il padre; di accordare ai figli il permesso di costruire un suo heroon davanti alla
porta (della città) sulla loro proprietà privata; e di essere solleciti nel recupero
delle spoglie, di modo che, non appena i legati inviati dal Senato dopo avere con
il loro coraggio e virtù sbaragliato Aristonico ristabiliscano lo stato delle cose in
pace e buon ordine, (Apollonio) essendo stato uomo valoroso nei confronti del
Demos possa ricevere il funerale che gli compete.

40
Contro la correzione Pap<i>os di Engelmann e Dreyer (I. Metropolis, cit., 6, 73), Jones, Events
Surrounding the Bequest, cit., 481, ritiene che ‘Papos’, uno dei tre comandanti, fosse un greco
d’Asia e non un Romano.
41
Ph. Gauthier, Bull. Épigr. 2004, nr. 282, 653: «... peri; th;n politeivan, non pas ici “vis-à-vis de
la communauté civique” (on lirait plutôt alors polivteuma), mais “dans son activité civique”» (con
l’opportuno rinvio a P. Herrmann, EA 21, 1993, 71-73).
86 Biagio Virgilio

(Linee 45-48) Si incida questo decreto nell’agorà sulla base (della statua) ed
anche quello a lui reso in precedenza, di modo che gli altri, vedendo la disposi-
zione che il Demos ha nei confronti degli uomini nobili e valorosi si volgano essi
stessi alla virtù. E insieme si incidano anche i nomi dei caduti in battaglia perché
anche a questi tocchi l’onore del Demos.
(Linee 49-56) (Nomi di 14 neaniskoi caduti) Asclepiade figlio di Asclepiade
figlio di Demetrio; Hegades figlio di Peroitios; Alessandro figlio di Callicrate;
Sarapion figlio di Dikaiogenes; Apollonio figlio di Kyniskos; Metrodoro figlio di
Metrodoro; Neon figlio di Diomede; Diodoto figlio di Demetrio figlio di Killa-
masios; ...monos figlio di Eukles figlio di Meixidemos; Perigenes figlio di Apol-
lodoto; Papylos figlio di Socrate; Solone figlio di Socrate; Apollonio figlio di
Matreas; Kleonikos figlio di Kleon».
la rappresentazione dei parti
nelle fonti tra ii e i secolo a. c.
e la polemica di livio contro i
levissimi ex græcis
Federicomaria Muccioli
Università di Bologna
Pochi passi nell’opera di Tito Livio sono conosciuti come l’excursus del IX
libro1. Partendo dalle vicende e dall’elogio di Papirio Cursore, lo storico patavino
trae lo spunto per proporre un interessante e ben noto esempio di storia ‘contro-
fattuale’ (quale sarebbe stata la sorte dello Stato romano se si fosse combattuto
con Alessandro Magno). In tale contesto fortemente polemico, intriso di remi-
niscenze retoriche, spicca la violenta invettiva contro quei Greci che esaltano
le vicende e la figura del Macedone a scapito della grandezza di Roma e che,
del tutto stoltamente, sono favorevoli anche alla gloria dei Parti contro il nomen
Romanum2.
Il luogo liviano da tempo costituisce per i moderni una palestra storiografi-
ca3, in cui uno degli esercizi principali è senz’altro determinare chi si celi dietro

1
IX 17-19.
2
IX 18, 6: Id vero periculum erat, quod levissimi ex Graecis, qui Parthorum quoque contra nomen
Romanum gloriae favent, dictitare solent, ne maiestatem nominis Alexandri, quem ne fama quidem
illis notum arbitror fuisse, sustinere non potuerit populus Romanus.
3
Cfr., tra gli studi più recenti, G. Cresci Marrone, Alessandro tra ideologia e propaganda in età
augustea, GIF 9, 1978, 245-259; V. Viparelli Santangelo, Ironia e ideologia nell’excursus del IX
libro delle Storie di Livio, BSL 8, 1978, 43-55; F.W. Walbank, Livy, Macedonia and Alexander,
in Ancient Macedonian Studies in Honor of Charles F. Edson, Thessaloniki 1981, 335-356; L.
Braccesi, L’ultimo Alessandro (dagli antichi ai moderni), Padova 1986 (dove sono ripresi e riela-
borati studi pubblicati precedentemente; cfr. ora anche Id., L’Alessandro occidentale. Il Macedone
e Roma, Roma 2006); L. Braccesi - A. Coppola - G. Cresci Marrone - C. Franco, L’Alessandro di
Giustino (dagli antichi ai moderni), Roma 1993; J. Isager, Alexander the Great in Roman Literatu-
re from Pompey to Vespasian, in J. Carlsen - B. Due - O. Steen Due - B. Poulsen (eds.), Alexander
the Great. Reality and Myth, Rome 1993, 75-84, partic. 80 ss.; N. Biffi, L’excursus liviano su Ales-
sandro Magno, BSL 25, 1995, 462-476; W. Suerbaum, Am Scheideweg zur Zukunft. Alternative
Geschehensverläufe bei römischen Historikern, «Gymnasium» 104, 1997, 36-54; G. Forsythe, Livy
and Early Rome. A Study in Historical Method and Judgment, Historia Einzelschr. 132, Stuttgart
1999, 114-118 (che peraltro ignora quasi tutta la bibliografia precedente); M. Mahé-Simon, L’enjeu
historiographique de l’excursus sur Alexandre (IX, 16, 11-19, 17), in D. Briquel - J.-P. Thuillier
(éd. par), Le censeur et les Samnites. Sur Tite-Live, livre IX, Paris 2001, 37-63; R. Morello, Li-
vy’s Alexander Digression (9.17-19): Counterfactuals and Apologetics, JRS 92, 2002, 62-85; B.
Tisé, Imperialismo romano e imitatio Alexandri: due studi di storia politica, Lecce 2002. Per un

Gnoli, Muccioli (eds.), Incontri tra culture, Milano 2007, 87-115


88 Federicomaria Muccioli

l’affermazione levissimi ex Graecis. In estrema sintesi, si discute se Livio scagli


i suoi strali contro più autori, tacciati di antiromanesimo4 oppure se, nell’utilizzo
di favent nel testo, si abbia un pluralis pro singulari e quindi unico sia il Gre-
co biasimato: i possibili bersagli sono stati individuati in Metrodoro di Scepsi5,
Memnone di Eraclea (ovviamente fissando per costui una datazione alta, in epoca
postcesariana se non addirittura augustea)6 e, in particolare, Timagene di Ales-
sandria, secondo una convinzione espressa da molti e soprattutto dal Treves, in
alcune illuminanti pagine7. Ed è ormai proprio opinione diffusa quella di iden-
tificare il principale, se non unico oggetto della polemica liviana proprio nello
storico di Alessandria, amico di Asinio Pollione e ostile ad Augusto, e di datare
la pagina liviana al 23-20 a.C., periodo delle trattative di Augusto con Fraate IV e
del recupero delle insegne sottratte nel 53 a.C. a Carre. Ora, è certo che Timagene
trattasse di Alessandro Magno e dell’epoca ellenistica, ma nessuno tra i fram-

inquadramento della temperie politico-culturale cfr., nell’ambito di una assai vasta bibliografia, G.
Cresci Marrone, Ecumene augustea. Una politica per il consenso, Roma 1993; F. Rohr Vio, Le voci
del dissenso. Ottaviano Augusto e i suoi oppositori, Padova 2000.
4
Cfr., per tutti, I. Lana, Velleio Patercolo o della propaganda, Torino 1952, 200-201 (Metrodoro
di Scepsi, Apollodoro di Artemita, Empilo di Rodi, Stratone amico di Bruto, Potamone di Mitilene,
che si occupò di Alessandro Magno; non tutti gli scrittori succitati possono però essere considerati
con certezza antiromani); J. Engels, Augusteische Oikumenegeographie und Universalhistorie im
Werk Strabons von Amaseia, Stuttgart 1999, 238 (Metrodoro di Scepsi, Esopo autore di un encomio
di Mitridate VI, Eraclide di Magnesia e Teucro di Cizico).
5
Cfr. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II.1, Bari 1966, 540-542, n. 485 (accanto ai nomi
di Timagene e di Memnone); Forsythe, Livy and Early Rome, cit., 116. A Metrodoro pensa anche
A. Coppola, L’imitatio Alexandri in Trogo e in Livio: un confronto aperto, in Braccesi - Coppola
- Cresci Marrone - Franco, L’Alessandro di Giustino (dagli antichi ai moderni), cit., 45-69, partic.
62-63 (per via indiretta, attraverso il confronto del luogo liviano con Dion. Hal. Ant. Rom. I 4, 2 e
Iustin. XXXVIII 6, 7). Sulla possibilità che Metrodoro sia oggetto degli strali di Dionisio di Ali-
carnasso cfr., dettagliatamente, D. Briquel, Le regard des autres. Les origines de Rome vues par
ses ennemis (début du IVe siècle / début du Ier siècle av. J.-C.), Paris 1997, 117-152, 197-201. Su
questo storico (FGrHist 184) e sul suo ruolo ipotizzabile nella propaganda a favore di Mitridate VI
del Ponto cfr. inoltre J.-M. Alonso-Núñez, Un historien antiromain: Métrodore de Scepsis, DHA
10, 1984, 253-258; P. Pédech, Deux Grecs face à Rome au Ier siècle av. J.-C: Métrodore de Scepsis
et Théophane de Mitylène, REA 93, 1991, 65-78, partic. 65-71.
6
Cfr. Braccesi, L’ultimo Alessandro, cit., 20-23 (ma vd. anche la posizione più sfumata espressa
ibid,, 47-48). Per una discussione sull’opera storiografica di Memnone (FGrHist 434) cfr., da ulti-
mo, F. Santangelo, Memnone di Eraclea e il dominio romano in Asia Minore, in L. Criscuolo - G.
Geraci - C. Salvaterra (a cura di), Simblos. Scritti di storia antica, 4, Bologna 2004, 247-261.
7
P. Treves, Il mito di Alessandro e la Roma di Augusto, Milano-Napoli 1953, 58 ss. (con la biblio-
grafia ivi riportata); cfr. FGrHist 88 T 9; M. Sordi, Timagene di Alessandria: uno storico ellenocen-
trico e filobarbaro, in ANRW II/30.1, Berlin-New York 1982, 775-797, partic. 777-778, 796-797;
Mahé-Simon, L’enjeu historiographique, cit., 42; Biffi, L’excursus liviano, cit. (che intravede uno
stretto collegamento con Asinio Pollione e con i nostalgici di Antonio). Diversamente, cfr. la posi-
zione di G. Bruno Sunseri, indicativa già nel titolo del suo contributo: Sul presunto antiromanesimo
di Timagene, in Studi di storia antica offerti dagli allievi a Eugenio Manni, Roma 1976, 91-101.
La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I sec. a. C. 89

menti tràditi si riferisce specificatamente ai Parti o ad avvenimenti che possano


essere correlati al mondo partico o allo scontro con quel popolo8.
Non è però mia intenzione incentrare il presente contributo su questa Quel-
lenforschung, adducendo nuovi argomenti a supporto o a sfavore dell’ipotesi Ti-
magene. Ritengo più proficuo verificare se l’affermazione liviana sia indirizzata
contro un’esaltazione estemporanea dei Parti ad opera di uno o più autori greci,
oppure se davvero si assista da parte greca ad una rappresentazione dell’altro, ov-
vero i Parti, con piena consapevolezza in senso etnografico e conseguentemente
storiografico, una rappresentazione che può aver offerto materia per un diverso
utilizzo o una rilettura del tema dell’ajrchv romana e della pretesa di controllare
l’intera ecumene, in relazione al concetto di translatio imperii nonché a quello
dell’imitatio Alexandri in ambito romano9. È un’operazione invero non facile,
che, come del resto impone lo stesso luogo liviano, non può prescindere da una
considerazione delle fonti greche sulle imprese di Alessandro Magno, anche in
rapporto e in opposizione a quelle di Roma. E senz’altro la preferenza accordata
a quelle del Macedone è, se non una costante, almeno un tema ricorrente nella
pubblicistica greca, anche in autori apparentemente insospettabili10.
A ciò si aggiunga che la valutazione negativa di Livio nei confronti di questi
levissimi ex Graecis presuppone un forte pregiudizio culturale, che vizia la pro-
spettiva interpretativa. Nel giudizio dello storico patavino (e certamente del mi-
lieu di buona parte della cultura romana, non solo quella di cui egli è esponente)
il mondo ellenistico è inteso secondo un chiaro processo corruttivo. Ciò emerge
in un noto passo quale è Liv. XXXVIII 17, 1, nel discorso del console Cn. Manlio
alle truppe nel 189/8, prima dello scontro con i Galli d’Asia: Macedones, qui in
Alexandream in Aegypto, qui Seleuciam ac Babyloniam, quique alias sparsas per
orbem terrarum colonias habent, in Syros Parthos Aegyptios degenerarunt.
8
Vd. Curt. Ruf. IX 5, 21 (= FGrHist 88 F 3). I tentativi della critica di scorgere simpatie filopartiche
in Timagene non paiono particolarmente persuasivi; cfr. G. Clementoni, Cassio Dione, le guerre
mitridatiche ed il problema partico, InvLuc 7-8, 1985-1986, 141-160; J. Atkinson, Originality and
its Limits in the Alexander Sources of the Early Empire, in A.B. Bosworth - E.J. Baynham (eds.),
Alexander the Great in Fact and Fiction, Oxford 2000, 307-325, partic. 314-317.
9
Per la diffusione di questo secondo tema nella cultura romana cfr., recentemente, Tisé, Imperiali-
smo romano e imitatio Alexandri, cit.; S. Bianchetti, La concezione dell’ecumene di Alessandro in
Diodoro XVII-XVIII, in C. Bearzot - F. Landucci (a cura di), Diodoro e l’altra Grecia. Macedonia,
Occidente, Ellenismo nella Biblioteca storica, Milano 2005, 127-153.
10
È indicativo, a tal proposito, il De fortuna Romanorum di Plutarco, che, seppur rappresenti con
ogni probabilità un’opera giovanile del Cheronese, quasi un’esercitazione retorica (secondo alcuni
incompiuta), ben riflette proprio lo spirito greco non esente da critiche sulla formazione e sull’es-
senza stessa dell’egemonia romana, nonché sul ruolo della fortuna; ciò indipendentemente da una
valutazione generale del pensiero plutarcheo. Vd., in particolare, De fort. Rom. 326a-b, sul mancato
scontro tra Alessandro e i Romani. Parimenti indicativa è la duplice orazione De Alexandri Magni
fortuna aut virtute, che pone l’accento su alcuni aspetti pressoché elusi o trascurati nella Vita di
Alessandro.
90 Federicomaria Muccioli

I Macedoni si trasformano, nella costruzione chiastica del periodo, in Egitto in


Egizi, in Siria in Siriaci e nella regione babilonese in Parti. Il presupposto è dun-
que che la sostituzione dell’impero partico a quello seleucide venga vista come
una vera e propria degenerazione (etico-culturale), tanto più riprovevole in chi
esalta il nome partico in contrapposizione e opposizione a quello romano. Anche
se il passo risente di un innegabile sostrato retorico, come ha sottolineato l’Ashe-
ri11, e pur con tutti i rischi che una decontestualizzazione comporta, si rintraccia
dunque nel pensiero liviano e in generale romano un (pre)giudizio di fondo sul
mondo partico, che si innesta e si salda con la generale valutazione sul mondo
ellenistico e sui suoi sovrani, che si sono lasciati corrompere dalla trufhv12. Non
mancano però eccezioni rilevanti; infatti il luogo liviano va confrontato con un
passo degli Annali di Tacito (VI 42), in cui è descritta Seleucia sul Tigri, una
civitas potens, saepta muris neque in barbarum corrupta sed conditoris Seleuci
retinens. E più oltre, in riferimento ai suoi abitanti: quotiens concordes agunt,
spernitur Parthus13.
Vi sono inoltre altri elementi che vanno tenuti in considerazione per una più
completa comprensione della polemica liviana. Il primo, che può essere solo men-
zionato in questa sede, è la consapevolezza nelle fonti latine dello sviluppo dei
Parti e dell’emergenza di un problema partico, dopo il 53 e la disfatta di Crasso a
Carre, prima della politica augustea degli anni 23-20 a.C.14 È una consapevolezza,
invero non immediata ma graduale, che si intreccia con il progetto di Cesare di

11
D. Asheri, Colonizzazione e decolonizzazione, in S. Settis (a cura di), I Greci. Storia Cultura
Arte Società, 1, Noi e i Greci, Torino 1996, 73-115, partic. 100, che motiva il suo giudizio anche
in rapporto a Liv. XXXVII 54, 18-22. Diversamente, per una valorizzazione del discorso cfr., per
tutti, G. Zecchini, Cn. Manlio Vulsone e l’inizio della corruzione a Roma, in M. Sordi (a cura di),
Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l’Oriente, CISA 8, Milano 1982, 159-178, partic.
164-166.
12
Per un primo orientamento al riguardo cfr. C. Moreschini, Livio e il mondo greco, SCO 34, 1984,
27-57; G. Achard, Tite-Live et les Grecs, in P. Defosse (éd. par), Hommages à Carl Deroux, II, Pro-
se et linguistique, Médecine, Bruxelles 2002, 3-11; B. Isaac, The Invention of Racism in Classical
Antiquity, Princeton-Oxford 2004, 307 ss. e, in chiave più generale, G. Traina, Notes on Hellenism
in the Iranian East (Classico-Oriental Notes, 6-8), «Iran and the Caucasus» 9, 2005, 1-14.
13
Cfr. anche Plin. N.H. VI 122 (libera hodie et sui iuris Macedonumque moris). In un’altra prospet-
tiva vd. anche la lettera tràdita da Sallustio di Mitridate VI del Ponto al re partico, in cui si afferma
che quest’ultimo possiede Seleucia maxuma urbium (Hist. IV fr. 69, 1-23, partic. 19 Maurenbre-
cher).
14
Per un prospetto delle fonti è ancora utile E. Paratore, La Persia nella letteratura latina, in La
Persia e il mondo greco-romano, Roma 1966, 505-558, partic. 513 ss.; più recentemente, con at-
tenzione rivolta anche alle fonti greche, H. Sonnabend, Fremdenbild und Politik. Vorstellungen der
Römer von Ägypten und dem Partherreich in der späten Republik und frühen Kaiserzeit, Frankfurt
am Main-Bern-New York 1986, 157 ss. Relativamente a Carre cfr., determinatamente, D. Timpe,
Die Bedeutung der Schlacht von Carrhae, MH 19, 1962, 104-129.
La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I sec. a. C. 91

spedizione contro i Parti, gli eventi successivi e la propaganda politica a Roma,


sviluppata dalla pubblicistica a più livelli soprattutto in epoca augustea15.
Ma va tenuto anche nel debito conto il rapporto stesso dei Parti non tanto con
la cultura latina quanto soprattutto con la cultura greca, e la possibilità di scor-
gere connessioni e interazioni culturali a molteplici livelli, quelle che con occhio
deformante sono considerate solo processi degenerativi da Livio mentre sono
implicitamente rifiutate da Tacito, che sottolinea la strenua difesa dell’identità
macedone. Al riguardo è noto il giudizio del Meyer, poi ampiamente ripreso dal-
la dottrina, secondo cui la morte del re seleucide Antioco VII nel 129 a.C. nello
scontro contro i Parti rappresentò una vera e propria catastrofe per la cultura
ellenistica in Asia continentale, oltre che per il regno dei Seleucidi16. Lasciando
agli archeologi il problema di verificare puntualmente i segnali di continuità e di
discontinuità nella cultura materiale17, è interessante in questa sede confrontare
tale giudizio del Meyer con quello degli antichi e delle fonti letterarie (in primis
quelle greche), ovvero, per converso, riconoscere se, in questo caso, davvero si
assiste nel 129 ma anche nel 64/3 a.C. (con il decisivo intervento di Pompeo) alla
caduta di un impero senza rumore, adattando a questo contesto una nota espres-
sione del Momigliano18.
Le fonti letterarie e storiografiche hanno invero coscienza di una cesura, intesa
in senso lato (la guerra di Mitridate I e di Fraate II contro i fratelli seleucidi De-
metrio II e Antioco VII), se non dal punto di vista culturale, sicuramente dal pun-
to di vista politico-militare. Infatti le campagne partiche dei due sovrani aprono
davvero gli occhi dei Greci alla monarchia degli Arsacidi anche dal punto di vista
strettamente storiografico ed etnografico e ciò è verificabile già per Posidonio

15
Vd. i riflessi della questione partica nei poeti dell’epoca o anche la rappresentazione dei Parti
nell’iconografia monumentale. Su questi aspetti cfr., da ultimi, rispettivamente G. Zecchini, Il bi-
polarismo romano-iranico, in C. Bearzot - F. Landucci - G. Zecchini, L’equilibrio internazionale
dagli antichi ai moderni, Contributi di storia antica 3, Milano 2005, 59-82, partic. 72 e n. 38 (ar-
ticolo utile anche per un quadro storico) e C.B. Rose, The Parthians in Augustan Rome, AJA 109,
2005, 21-75.
16
E. Meyer, Ursprung und Anfänge des Christentums, II, Stuttgart-Berlin 1921, 270-273, partic.
272 («Die Niederlage des Antiochos Sidetes im Jahre 129 ist die Katastrophe des Hellenismus im
kontinentalen Asien und zugleich die des Seleukidenreichs»); cfr., tra gli altri, H. Bengtson, Storia
greca, trad. it., II, Bologna 1985, 311-312; C. Habicht, The Seleucids and their Rivals, in CAH2
VIII, Rome and the Mediterranean to 133 B.C., Cambridge 1989, 324-387, partic. 369, 372-373.
17
Importanti sono a questo proposito sono le articolate osservazioni di A. Invernizzi, riguardo al-
l’ellenizzazione di Nisa: Thoughts on Parthian Nisa, «Parthica» 6, 2004, 133-143.
18
Sull’importanza della sistemazione dell’Oriente ad opera di Pompeo, nell’ambito dell’espansio-
ne romana, cfr., da ultimi, J. Wiesehöfer, The Medes and the Idea of the Succession of Empires in
Antiquity, in G.B. Lanfranchi - M. Roaf - R. Rollinger (eds.), Continuity of Empire (?). Assyria,
Media, Persia, Padova 2003, 391-396, partic. 394; F. Muccioli, Aspetti della translatio imperii in
Diodoro: le dinastie degli Antigonidi e dei Seleucidi, in Bearzot - Landucci (a cura di), Diodoro e
l’altra Grecia, cit., 183-222, partic. 218-222.
92 Federicomaria Muccioli

(infatti costui dedicò un excursus ai Parti nel V libro delle sue Storie, laddove
parlava dei Seleucidi e di Demetrio II)19. Anche Strabone, nella sua Geografia,
informa di non voler dedicare troppo spazio ai Parti, giacché ha dedicato loro un
lungo excursus nel VI libro degli JIstorika; uJpomnhvmata20. Dato che egli, come
Posidonio, è un continuatore di Polibio, nell’economia della sua opera tale sezio-
ne si colloca proprio attorno al periodo relativo alla spedizione partica appunto di
Demetrio II del 139 a.C. Lo stesso interesse per i Parti si riscontra anche in altri
autori di storie universali come Nicolao Damasceno21 o in storici di epoca più
tarda, come Pompeo Trogo (noto attraverso il riassunto di Giustino)22.
È questo dunque il punto di partenza che permette di scorgere, a mio avviso,
un cambiamento di prospettiva nella valutazione delle fonti (pressoché esclusiva-
mente quelle greche) tra II e I secolo a.C. I nomi su cui si intende appuntare l’at-
tenzione sono soprattutto Polibio, Apollodoro di Artemita e Posidonio nonché,
anche per la loro funzione di tramiti di fonti precedenti, Diodoro e Alessandro
Poliistore. Inutile precisare che spesso è una tradizione trasmessa solo attraverso
frammenti o rifluita, in parte o in toto, in fonti di epoca successiva o che solo
parzialmente rientrano nell’arco cronologico qui compreso: si pensi a Strabone o
ai libri sui Parti in Pompeo Trogo-Giustino (soprattutto il XLI e il XLII; cfr. gli
importanti accenni contenuti a XXXVI 1, 2 ss.).
Prima della spedizione partica di Demetrio II, l’interesse dei Greci nei con-
fronti dei Parti sembra assai limitato e poco spazio, a quanto si lascia scorgere
dalla tradizione, doveva essere riservato alla descrizione della loro separazione
dal regno dei Seleucidi nel III e ancora per buona parte del II secolo23. Ne offre
una testimonianza sufficientemente chiara Polibio nelle sue Storie. Il regno parti-
co e il suo re, Arsace II, hanno un’importanza del tutto relativa nel libro X, com-
misurata e subordinata all’anabasi orientale di Antioco III24. I capitoli polibiani
sono straordinariamente dettagliati e precisi nella descrizione geografica ivi con-

19
Athen. IV 152f-153a (= FGrHist 87 F 5 = fr. 57 Edelstein-Kidd = fr. 114 Theiler).
20
IX 9, 3 (= FGrHist 91 F 1; FGrHist 782 F 3). Cfr. D. Ambaglio, Gli Historikà Hypomnemata di
Strabone. Introduzione, traduzione italiana e commento dei frammenti, MIL 39, 1990, 377-424,
partic. 383, 405-406.
21
Athen. VI 252d (= FgrHist 90 F 79), su cui ha richiamato l’attenzione E. Gabba, Sulle influen-
ze reciproche degli ordinamenti militari dei Parti e dei Romani [1966], ora in Id., Per la storia
dell’esercito romano in età imperiale, Bologna 1974, 7-42, partic. 15 (cfr. 10-17, per un quadro
complessivo, in cui trova posto anche l'importante opera di Q. Dellio sulla spedizione partica di
Antonio: FGrHist 197).
22
Vd., in particolare, i libri XXXVI e XLI-XLII.
23
Cfr. le osservazioni di A. Momigliano, Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture, trad.
it., Torino 1980, 142-145; A. Magnelli, Giustino (41.1-6) e le origini del regno degli Arsacidi,
«Sileno» 19, 1993, 467-479, partic. 467.
24
27-31; cfr. XI 34, 5.
La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I sec. a. C. 93

tenuta e, con ogni probabilità, derivano direttamente o indirettamente proprio da


un testimone oculare, ovvero qualcuno al seguito del sovrano. Non deve pertanto
stupire che si assista a un evidente misconoscimento della realtà politica e mo-
narchica degli Arsacidi. Prova ne sia il fatto che il sovrano viene definito Arsace,
senza accenno al suo titolo reale o senza che venga ammessa una qualche forma
di sovranità o di signoria sui suoi territori, così come si riscontra per altri dinasti
orientali25. Siamo ancora molto lontani dall’idealizzazione della regalità arsacide
e, in particolare, del fondatore della dinastia (Arsace I), articolata su modelli di
carattere ellenistico, attestata nelle fonti successive, per quanto tarde26.
L’autore che ha attirato l’attenzione sui Parti, in ambito greco, con una mo-
nografia esplicitamente loro dedicata, in almeno quattro libri, è Apollodoro di
Artemita; costui viene datato generalmente attorno al 100 a.C. o ai primissimi
decenni del I secolo, senza però che vi siano elementi realmente indicativi al
riguardo nella sua opera: unico terminus cronologico significativo ante quem è
il ripetuto utilizzo di Strabone nella Geografia27. Se si apre l’apposita sezione
etnografica nella raccolta dello Jacoby (FGrHist 779-782) si nota che non sono
affatto numerosi gli scritti intitolati Parqikav nella storiografia classica, tra i qua-
li ci si rammarica di non possedere, se non per brevi frammenti, quello di Arriano.
25
Su questi capitoli cfr. F.W. Walbank, A Historical Commentary on Polybius, II, Oxford 1967,
231 ss., partic. 232, 236. Il Walbank ha supposto che si trattasse di una fonte mercenaria, già indivi-
duata nel libro V (A Historical Commentary on Polybius, I, Oxford 1957, 570), su cui, contra, T.S.
Brown, Apollophanes and Polybius, Book 5, «Phoenix» 15, 1961, 187-195 (a favore della dipen-
denza da un’opera storica, peraltro inattestata, del medico Apollofane di Seleucia di Pieria); H.H.
Schmitt, Untersuchungen zur Geschichte Antiochos’ des Grossen und seiner Zeit, Historia Einzel-
schr. 6, Wiesbaden 1964, 175-180 (per l’ipotesi di un autore vicino a Zeuxis ovvero Zeuxis stesso).
Cfr. inoltre le osservazioni di J.-L. Ferrary, L’«oikoumène», l’Orient et l’Occident d’Alexandre
le Grand à Auguste: histoire et historiographie, in Convegno per Santo Mazzarino, Roma 1998,
97-132, partic. 107-109 sulla prospettiva geopolitica dello storico acheo, tendente ad escludere
l’espansione partica e i regni battriani.
26
Vd. quanto scrive Ammiano Marcellino (XXIII 6, 2-6), in un excursus tanto interessante quanto
confuso (per la continua e pericolosa sovrapposizione tra Parti e Sassanidi); cfr. J.W. Drijvers,
Ammianus Marcellinus’ Image of Arsaces and Early Parthian History, in J.W. Drijvers - D. Hunt
(eds.), The Late Roman World and its Historian. Interpreting Ammianus Marcellinus, London-
New York 1999, 193-206. Vd. anche Iustin. XLI 5, 5-6 (= FGrHist 782 F 5b), cfr. XLI 6, 9 (ma
anche, in controtendenza, XXXVI 1, 3-5); Suda s.v. jArsavkh~, Pavrqwn basileuv~ (ammesso che
il re in questione sia proprio Arsace I; il particolare della morte a causa di una ferita riportata in
guerra non è di per sé indicativo perché la tradizione sulla fine di questo sovrano non è univoca).
La rappresentazione offerta da Ammiano presenta innegabili punti di contatto, ma anche significa-
tive divergenze con il racconto di Pompeo Trogo/Giustino; cfr. M. Raimondi, Gli interessi locali
nell’opera di Ammiano Marcellino, in Storiografia locale e storiografia universale, Como 2001,
497-512, partic. 509-510.
27
Su questo autore cfr., in particolare, J.-M. Alonso-Núñez, Un historien entre deux cultures: Apol-
lodore d’Artémita, in M.-M. Mactoux - E. Geny (éd. par), Mélanges Pierre Lévêque, II, Anthro-
pologie et société, Paris 1989, 1-6; Ferrary, L’«oikoumène», cit., 109 ss. Da questi studi è agevole
risalire alla bibliografia anteriore (vd. anche i lavori citati alle nn. 30, 33, 37).
94 Federicomaria Muccioli

Apollodoro costituisce dunque, per noi, un chiaro, anche se non unico, esempio
di autore di Parqikav utilizzato da Strabone. Infatti, nel II libro della Geografia,
lo scrittore di Amasea dichiara i suoi debiti per quanto riguarda le informazioni
dettagliate sull’Ircania e la Battriana nei confronti degli autori di Parqikav, pre-
cisamente oiJ peri; ∆Apollovdwron to;n ∆Artemithnovn28. È dubbio se ci si trovi
in presenza di un uso perifrastico della formula oiJ periv più accusativo, oppure
se, come intendono i traduttori del passo nella Loeb e nella Coll. Budé, bisogna
pensare ad Apollodoro e ad altri autori, anche se mi sembra azzardato tradurre
«Apollodoro e la sua scuola»29. Niente comunque esclude l’utilizzo da parte di
Strabone di altri scrittori di cose partiche, non meglio precisati30. Un discorso a
parte meriterebbe invece Isidoro di Carace, autore in età augustea di un’opera
intitolata Staqmoi; Parqikoiv, difficilmente ascrivibile tout court a un filone sto-
riografico o etnografico31.
In questa sede, comunque, si accetta quella che è la communis opinio, ritenen-
do che Apollodoro costituisca la traccia (principale?) del racconto di Strabone,
soprattutto nell’XI libro della Geografia (e forse anche negli accenni ai Parti nel
XVI libro), mentre deve essere lasciato in sospeso, anche per motivi cronologici,
il suo eventuale utilizzo da parte di Posidonio32. Ancora più problematico è il suo
impiego, diretto o mediato, da parte di Pompeo Trogo/Giustino (in particolare nel

28
II 5, 12 (= FGrHist 779 F 3a). Cfr. I 2, 1, in cui Strabone afferma che l’ejpikravteia dei Romani
e dei Parti ha notevolmente allargato le conoscenze geografiche rispetto al passato e ai suoi prede-
cessori (peraltro non citati nominalmente); ricordando altresì l’importanza delle conquiste di Ales-
sandro e di Mitridate Eupator (e dei suoi generali) al riguardo, riconosce che i Parti hanno reso più
familiari l’Ircania, la Battriana e i paesi vicini nonché gli Sciti uJpe;r touvtwn, fino a quel momento
meno conosciuti. In modo simile, a XI 6, 3-4, polemizzando tra l’altro con gli storici di Alessandro,
riconosce i meriti degli scrittori di cose partiche riguardo alla loro descrizione di luoghi e popoli
delle terre più lontane dell’Asia.
29
Così H.L. Jones, The Geography of Strabo, I, Cambridge, Mass.-London 1960 (rist. = 1917),
453; cfr. G. Aujac, Strabon. Géographie, t. I - 2e partie (Livre II), Paris 1969, 93 («Apollodore
d’Artémita et autres»).
30
Cfr. l’ipotesi espressa a suo tempo dal Tarn circa l’utilizzo da parte di Pompeo Trogo (e di altri
autori) di un non meglio noto storico che scrisse sull’Oriente greco e partico (fino alla morte di Mi-
tridate II): W.W. Tarn, The Greeks in Bactria and India, Cambridge 19512, 45 ss. Più recentemente,
cfr. anche V.P. Nikonorov, Apollodorus of Artemita and the Date of his Parthica Revisited, in E.
Dąbrowa (ed.), Ancient Iran and the Mediterranean World, Electrum, 2, Kraków 1998, 107-122,
partic. 109, secondo il quale, dai passi di Strabone succitati, si inferisce addirittura che Apollodoro
avesse avuto contemporanei più giovani che a lui attinsero, e che furono poi utilizzati dallo stesso
Strabone.
31
Sulle finalità di quest’opera (FGrHist 781) cfr., da ultimo, la discussione di N. Kramer, Das
Itinerar Staqmoi; Parqikoiv des Isidor von Charax - Beschreibung eines Handelsweges?, «Klio»
85, 2003, 120-130.
32
Nega l’utilizzo Alonso-Núñez, Un historien entre deux cultures, cit., 4. Analogamente anche
Nikonorov, Apollodorus of Artemita, cit., 109 ss. in base alla sua proposta di datazione al 50 a.C.
circa per i Parqikav di Apollodoro.
La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I sec. a. C. 95

XLI e nel XLII libro), il cui racconto presenta analogie con quello straboniano,
ma anche non trascurabili differenze33.
La critica, sulla scorta di Strabone, è giustamente concorde nel ritenere che
Apollodoro sia un autore fondamentale per l’ampliamento delle conoscenze geo-
grafiche fino all’India, sebbene lo stesso scrittore di Amasea non esiti ad esprime-
re riserve sulle enfatizzazioni contenute nel suo racconto, anteponendogli quello
di altri autori, non meglio precisati34.
Indipendentemente da ciò, spesso Apollodoro viene ritenuto uno scrittore filo-
partico o un autore greco che dà voce al punto di vista partico, se non addirittura
un vero e proprio storiografo ufficiale35. È una valutazione che però non trova
alcun riscontro nei passi chiaramente ascrivibili ad Apollodoro e dunque deve
considerarsi indiziaria, anche se è possibile che costui abbia utilizzato materiale
partico, pure di carattere ufficiale, data la sua provenienza da Artemita, città della
Mesopotamia sotto il controllo degli Arsacidi36. Non so però se e quanto sia le-
gittimo parlare di completa adesione all’ideologia partica. Più prudentemente si

33
L’importanza di Apollodoro come fonte guida comune dei due scrittori è stata enfatizzata da F.
Altheim - R. Stiehl, Geschichte Mittelasiens im Altertum, Berlin 1970, 359-379, 455-459; J.-M.
Alonso-Núñez, The Roman Universal Historian Pompeius Trogus on India, Parthia, Bactria and
Armenia, «Persica» 13, 1988-1989, 125-155, partic. 130 ss.; Id., Un historien entre deux cultures,
cit., 2-4 e relative note (ivi ulteriore bibliografia). Cfr. anche la posizione più sfumata di J. Wolski,
Schöpften Strabon und Justinus aus der gleichen Quelle bei der Darstellung der frühen Geschichte
Parthiens, «Latomus» 62, 2003, 373-380, che sottolinea l’influsso anche di Posidonio, rintraccia-
bile in Pompeo Trogo/Giustino; sulla traccia di Posidonio nelle Storie filippiche (e in Diodoro) cfr.
anche C. Lerouge-Cohen, Les guerres parthique de Démétrios II et Antiochos VII dans les sources
gréco-romaines, de Posidonios à Trogue/Justin, JS 2005, 217-252. Ha individuato invece l’uso
combinato di più fonti (Posidonio, Timagene e Apollodoro) nelle Storie filippiche T. Liebmann-
Frankfort, L’histoire des Parthes dans le livre XLI de Trogue Pompée: essai d’identification de ses
sources, «Latomus» 28, 1969, 894-922; diversamente, Magnelli, Giustino (41.1-6), cit., ritiene che
Pompeo Trogo avesse usato le opere di Strabone (il quale avrebbe a sua volta fuso e amalgamato
i racconti di Apollodoro e di Posidonio). Una posizione piuttosto scettica sulla possibilità di risol-
vere la Quellenfrage trogiana è in B. van Wickevoort Crommelin, Die Parther und die parthische
Geschichte bei Pompeius Trogus - Iustin, in J. Wiesehöfer (Hrsg.), Das Partherreich und seine
Zeugnisse. The Arsacid Empire: Sources and Documentation, Historia Einzelschr. 122, Stuttgart
1998, 259-277.
34
Vd. XV 1, 3 (= FGrHist 779 F 7b) e infra, nel testo.
35
Così Alonso-Núñez, Un historien entre deux cultures, cit., 4; Wolski, Schöpften Strabon und
Justinus, cit., 375 («offizieller Verfasser der Geschichte über die frühe Phase der Arsakiden-Staa-
tes»); Id., L’empire des Arsacides, Lovanii 1993, 12-13, 35-36, 107-108 e n. 38 (che arriva ad
affermare che la polemica di Livio contro i levissimi ex Graecis testimonia l’azione di propaganda
degli Arsacidi contro Roma, e che questi levissimi sarebbero stati al servizio dei Parti).
36
Decisamente improntata allo scetticismo è invece la posizione di J.W. Drijvers, Strabo on Parthia
and the Parthians, in Wiesehöfer (Hrsg.), Das Partherreich, cit., 279-293, partic. 282, n. 16. Su
Artemita e la sua posizione all’interno dell’impero partico cfr. R. Gonnella, Neue Überlegungen zur
parthischen Münzstätte Artemita, JNG 51-52, 2001-2002, 1-15 (che si oppone alla tesi sostenuta
dal Sellwood e dallo Shore circa l’esistenza di una zecca partica ivi impiantata).
96 Federicomaria Muccioli

può affermare che Apollodoro, da un osservatorio certamente privilegiato come


Artemita, abbia voluto proporre a un pubblico greco una realtà orientale (partica
ma anche battriana e indo-greca) trascurata o per lo meno non approfondita dalla
storiografia anteriore, in particolare Polibio, ormai propensa a scrivere una sto-
ria dell’Ellenismo in chiave romanocentrica37. D’altro canto tale attenzione non
comporta, ipso facto, che Apollodoro fosse necessariamente ostile ai Romani,
giacché non vi sono elementi indicativi in proposito nei suoi frammenti ed è assai
discutibile che abbia scritto la sua opera quando già lo scontro tra Romani e Parti
aveva raggiunto toni drammatici38; con ciò non si esclude comunque che potesse
essere ritenuto misorwvmaio~, in ambienti greci ideologicamente filoromani.
Vi sono peraltro altri casi di intellettuali greci vissuti nel regno partico, come
Archedemo, che andò a vivere tra i Parti impiantando a Babilonia una scuola
stoica che sopravvisse al suo fondatore39. Tra i sovrani ellenistici, spicca il caso
di Demetrio II, che durante il lungo periodo trascorso in prigionia presso il regno
dei Parti (tutto o in buona parte consumato in Ircania), finì con lo sposare una
principessa arsacide (Rodogune), adottando anche costumi e fogge partiche40.
Rimase però sostanzialmente netta la barriera tra Greci e Parti, considerati
come dei barbari con usanze spesso assolutamente aberranti o criticabili, il che
trova adeguato supporto nelle stesse fonti, anche quelle in buona misura favore-
voli agli Arsacidi. Si tratta di un pregiudizio etnico ben vivo nonostante lo sforzo
di aprirsi all’ellenizzazione degli stessi sovrani partici. Il riferimento va, in primo
luogo, al titolo ufficiale Philhellen, adottato da Mitridate I e poi da diversi altri
dinasti. È pur vero che questo epiteto non deve essere inteso, unidirezionalmente,
come prova di un atteggiamento di una supina adesione alla cultura ellenica. In-
fatti la sua funzione strumentale, come mezzo per accattivarsi i favori delle città
greche, non può essere certamente sottovalutata, in sintonia con quanto avviene
per altri sovrani: più che al titolo Philhellen di Antioco I di Commagene il riferi-

37
Così Ferrary, L’«oikoumène», cit., 110-111. Una visione equilibrata dell’opera di Apollodoro è
anche in M.L. Chaumont, Apollodorus, in EncIr II, 1987, 160-161.
38
Diversamente, Alonso-Núñez, Un historien entre deux cultures, cit., 2-3; cfr. anche Lana, Velleio
Patercolo o della propaganda, cit., 200, n. 41.
39
Strabo XIV 5, 14; Plut. De exil. 605b, che ne attribuiscono l’origine rispettivamente a Tarso e ad
Atene. Nulla di più sappiamo su Archedemo; è comunque interessante osservare che nella regione
babilonese lo Stoicismo doveva essere assai fiorente, come testimonia anche il suo discepolo Apol-
lodoro, originario della stessa città. Per converso cfr. il caso di Anficrate di Atene che fu allontanato
dalla sua patria e rifiutò di recarsi a Seleucia (Plut. Luc. 22, 6-7).
40
Cfr. V. Messina, More gentis Parthicae. Ritratti barbuti di Demetrio II sulle impronte di sigillo
da Seleucia al Tigri, «Parthica» 5, 2003, 21-36, con riferimento alla monetazione e a sigilli prove-
nienti da Seleucia sul Tigri. Diversamente, P.F. Mittag, Beim Barte des Demetrios. Überlegungen
zur parthischen Gefangenschaft Demetrios’ II., «Klio» 84, 2002, 373-399 (che non scorge precise
influenze partiche nella decisione di Demetrio di farsi crescere la barba, supponendo invece una
esplicita volontà del sovrano di collegarsi a Zeus).
La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I sec. a. C. 97

mento è in particolare a Philhellen attestato nelle coniazioni di Damasco tra l’84


e il 72 a.C. di Areta III re di Nabatea, prima della conquista della città ad opera
di Tigrane il Grande d’Armenia41. Va comunque senz’altro sfumata la tendenza
a radicalizzare questa posizione, che si ritrova in parte della dottrina degli ultimi
anni42. Infatti in tal modo non si tengono nel debito conto tutti quegli elementi e
quelle fonti che invece suggeriscono o attestano i contatti reciproci nonché le mu-
tuazioni attuate dai Parti dal mondo greco-macedone e dalle forme di regalità ivi
presenti; ciò senza necessariamente evocare unicamente quel passo di Plutarco
(Crass. 33, 2), in cui si afferma, tra l’altro, che il re partico Orode non era ignaro
di lingua e di letteratura greche, mentre l’armeno Artavasde componeva tragedie
e scriveva opere in prosa e storiche.
Credo pertanto che si possa condividere la posizione del Wiesehöfer, che in
un certo qual modo media tra le due succitate, e che tende appunto a valorizzare
i vari gradi e le varie forme di attrazione (culturale lato sensu) dei Parti verso il
mondo greco. Non si può in ogni caso parlare di un vero e proprio tentativo di in-
tegrazione ed equiparazione alle altre monarchie ellenistiche e occorre mantenere
il concetto di bipolarità, in ogni caso imperfetta, giacché si ha una prevalenza
dell’elemento iranico rispetto a quello greco-macedone43. Gli stessi Arsacidi e i
personaggi ad essi collegati comunque ricercano una visibilità presso il mondo
41
Vd. la documentazione raccolta e discussa, recentemente, da D. Keller, in U. Hackl - H. Jenni - C.
Schneider, Quellen zur Geschichte der Nabatäer, Textsammlung mit Übersetzung und Kommentar,
Mit Beiträgen von D. Keller, Freiburg-Göttingen 2003, 142-144. Sulle vicende di Damasco in quel
periodo, legate anche al controllo della città da parte di Cleopatra Selene forse per un breve periodo
prima del 72, cfr. O.D. Hoover, Dethroning Seleucus VII Philometor (Cybiosactes): Epigraphical
Arguments against a Late Seleucid Monarch, ZPE 151, 2005, 95-99. Per quanto riguarda il rapporto
con il mondo greco di Antioco I di Commagene cfr., da ultimi, P.F. Mittag, Zur Selbststilisierung
Antiochos’ I. von Kommagene, «Gephyra» 1, 2004, 1-26; M. Facella, La dinastia degli Orontidi
nella Commagene ellenistico-romana, Pisa 2006, 225 ss.
42
Sul carattere solo strumentale del titolo, per accattivarsi (per motivi politici e anche economici) la
benevolenza delle città greche (come probabilmente in primo luogo Seleucia sul Tigri) soggette al
controllo partico insistono, tra gli altri, J. Wolski, Sur le «philhellénisme» des Arsacides, «Gerión»
1, 1983, 145-156 (con prospettiva più ampia cfr. anche Id., Die Parther und ihre Beziehungen zur
griechisch-römischen Kultur, «Klio» 65, 1983, 137-149); E. Dąbrowa, Philhellên. Mithridate Ier et
les Grecs, in Dąbrowa (ed.), Ancient Iran and the Mediterranean World, Electrum 2, cit., 35-44;
R. Fowler, ‘Most Fortunate Roots’: Tradition and Legitimacy in Parthian Royal Ideology, in O.
Hekster - R. Fowler (eds.), Imaginary Kings. Royal Images in the Ancient Near East, Greece and
Rome, Stuttgart 2005, 125-155, partic. 151-155 (con attenzione ai vari e compositi elementi che
caratterizzano l’ideologia partica).
43
Cfr. J. Wiesehöfer, Iranische Ansprüche an Rom auf ehemals achaimenidische Territorien, AMI
n.F. 19, 1986, 177-185, partic. 177-179; Id., “Kings of Kings” and “Philhellên:” Kingship in Arsa-
cid Iran, in P. Bilde - T. Engberg-Pedersen - L. Hannestad - J. Zahle (eds.), Aspects of Hellenistic
Kingship, Aarhus 1996, 55-66, partic. 60 ss.; Id., “Denn Orodes war der griechischen Sprache
und Literatur nicht unkundig...”. Parther, Griechen und griechische Kultur, in R. Dittmann et
alii (Hrsgg.), Variatio Delectat: Iran und der Westen. Gedenkschrift für Peter Calmeyer, Münster
2000, 703-721.
98 Federicomaria Muccioli

greco, e in particolare a Delo, come attestano due importanti iscrizioni di fine


II-inizio I secolo a.C. (I. Délos 1581-1582). Tralasciando altri elementi, ricor-
do solo la nota lettera di Artabano II alla città di Susa (Seleucia sull’Euleo) nel
21 d.C., che dimostra grande dimestichezza della cancelleria reale nei confronti
della lingua greca, e in particolare della koinè ellenistica, con aperture anche alla
moda atticistica44.
Tornando ad Apollodoro, a suggerire una certa cautela nel considerarlo un
autore tout court filopartico vale anzitutto la considerazione che la sua attenzio-
ne è sì rivolta all’accrescimento del regno arsacide ma anche a quello dei regni
orientali che si richiamano alla grecità; pertanto nei suoi Parqikav l’espansione
partica nel II secolo risulta notevolmente ridimensionata, soprattutto attraverso
il confronto con le altre fonti45. Infatti, secondo Apollodoro (citato da Strabone
nella Geografia), Diodoto (I) aveva diviso la Battriana in satrapie; di queste solo
due, l’Aspiones e la Turiusa, erano state conquistate dai Parti e sottratte ad Eu-
cratide46. Ma, significativamente, questa affermazione è in contrasto con quanto
scrive Pompeo Trogo, riassunto da Giustino, relativamente alla sottomissione,
pressoché totale, dei Battriani ad opera di Mitridate I e dei Parti (XLI 6, 1-6) ed è
anche in contrasto con l’elogio di Mitridate I di Diodoro Siculo (da Posidonio) e
di Alessandro Poliistore in Agazia47.
Il lungo regno di Mitridate I (circa 171-138 a.C.) è, oggettivamente, il primo
grande regno della dinastia, quello in cui si assiste ad una vera e propria politica
espansionistica. Questo sovrano, nel passo della Geografia, non viene neppure
nominato (e questo silenzio può senz’altro addebitarsi allo sforzo di concisione
operato da Strabone) ma sembra da escludere che nel pur sintetico quadro propo-
sto egli venisse esaltato come un secondo fondatore della dinastia, dopo Arsace
I. La stessa figura di Arsace I, da quanto si desume dalla Geografia, viene ridi-
mensionata, almeno per quanto riguarda le fasi iniziali della sua azione, dato che
l’accento è posto essenzialmente sulla sua debolezza48. Traspare anzi chiaramen-
te come Apollodoro inquadrasse l’espansione del regno partico nel quadro delle
dinamiche ‘geopolitiche’ asiatiche. Infatti, esaltando l’ajrethv della Battriana, trae
lo spunto per magnificare le conquiste di Menandro e di Demetrio, figlio di Euti-

44
RC 75, su cui cfr., da ultimi, A.C. Cassio, La lingua greca come lingua universale, in S. Settis
(a cura di), I Greci. Storia Cultura Arte Società, 2.III, Una storia greca. Trasformazioni, Torino
1998, 991-1013, partic. 1009-1011; R. Merkelbach, Der Brief des Artabanos an die Stadt Susa (=
Seleukeia am Eulaios), EA 34, 2002, 173-177.
45
Cfr. Magnelli, Giustino (41.1-6), cit., 477.
46
Strabo XI 11, 2 (= FgrHist 779 F 7a); cfr. anche Strabo XI 9, 2 (= FGrHist 782 F 3, che com-
prende anche XI 9, 3).
47
Vd. infra.
48
Strabo XI 9, 2; cfr. XI 8, 8.
La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I sec. a. C. 99

demo re dei Battriani, che arrivarono a debellare un numero maggiore di e[qnh di


Alessandro Magno49. Analoghe affermazione sono in un frammento, pressoché
parallelo, sempre citato da Strabone, dove Apollodoro parla dei Greci che pro-
vocarono la ribellione della Battriana dai successori di Seleuco I e sostiene che,
ampliando i loro possedimenti, arrivarono a controllare una porzione dell’India
maggiore di quella soggetta ai Macedoni; tra costoro viene ricordato per nome
il solo Eucratide (II secolo a.C.), che avrebbe dominato su più di cento città50.
L’attenzione e la polemica, esplicita nel secondo passo, da parte di Strabone nei
confronti di Apollodoro si spiegano essenzialmente tenendo conto del ruolo e
della straordinaria importanza che l’impresa di Alessandro Magno rivestiva per
lo scrittore di Amasea. È pertanto comprensibile il suo atteggiamento piuttosto
scettico nei confronti delle affermazioni di Apollodoro sull’ampiezza delle con-
quiste dei re battriani e indo-greci e sulla possibilità di un raffronto con quelle del
figlio di Filippo51.
Un altro elemento meritevole di approfondimento riguardo alla testimonianza
di Apollodoro è costituito dall’origine dei Parti e dalla creazione in Partia di uno
Stato autonomo dall’impero dei Seleucidi. In proposito, come è noto, esiste una
duplice tradizione che presenta tra l’altro grossi problemi di cronologia, problemi
che hanno suscitato peraltro un notevole dibattito critico, soprattutto negli anni
’80 e ’90 dello scorso secolo52. La prima versione, pur con molte incertezze, vuo-

49
Strabo XI 11, 1 (= FGrHist 779 F 7a). Difficile determinare con esattezza la realtà storica; cfr.
P. Bernard, in P. Bernard - G.J. Pinault - G. Rougemont, Deux nouvelles inscriptions grecques de
l’Asie centrale, JS 2004, 227-356, partic. 271-276.
50
Strabo XV 1, 3 (= FGrHist 779 F 7b).
51
Sulla rappresentazione straboniana del Macedone e della sua spedizione in Oriente (anche in
rapporto all’espansione romana, in particolare sotto Augusto) cfr., tra gli altri, le osservazioni di
D. Dueck, Strabo of Amasia. A Greek Man of Letters in Augustan Rome, London-New York 2000,
partic. 104 ss.; B. Tisé, Strabone, l’ecumene romana e la monarchia macedone, in G. Traina (a cura
di), Studi sull’XI libro dei Geographika di Strabone, con la collaborazione di A.A. De Siena e B.
Tisé, Galatina 2001, 127-140, partic. 131-140.
52
A favore di una datazione ‘alta’ (secessione e creazione del regno partico sotto il regno di Antioco
II: 261-246) cfr. E.J. Bickerman, Notes on Seleucid and Parthian Chronology, «Berytus» 8, 1943-
1944, 73-83, partic. 79-83 e, più recentemente, D. Musti, Syria and the East, in CAH2 VII.1, The
Hellenistic World, Cambridge 1984, 175-220, partic. 213-214, 219-220 (Appendix: The Date of
the Secession of Bactria and Parthia from the Seleucid Kingdom). Per una datazione ‘bassa’ (occu-
pazione della Partia all’epoca della guerra tra i fratelli Seleuco II e Antioco Ierace: circa 240/239-
237), peraltro preferita dalla maggioranza della critica, cfr. le osservazioni di K. Brodersen, The
Date of the Secession of Parthia from the Seleucid Kingdom, «Historia» 35, 1986, 378-381; Id.,
Appians Abriss der Seleukidengeschichte (Syriake 45,232-70,369). Text und Kommentar, München
1989, 203-206; J. Wolski, Quelques remarques concernant la chronologie des débuts de l’État
parthe, IA 31, 1996, 167-178; Id., Schöpften Strabon und Justinus, cit., 379 e n. 29. L’era partica,
che inizia il primo giorno del mese di Nisan del 247, trae origine dall’assunzione del titolo regale di
Arsace in seguito all’invasione dall’Astauene (e non della Partia), come attesta Isid. Char. FGrHist
781 F 2, 11.
100 Federicomaria Muccioli

le il fondatore Arsace a capo di una tribù nomade di ceppo scitico; costui, con i
suoi uomini, avrebbe invaso e occupato la Partia, uccidendone il satrapo Andra-
gora (a sua volta ribellatosi ai Seleucidi, come del resto Diodoto in Battriana).
La seconda tradizione, invece, ricorda due fratelli Arsace e Tiridate, uno dei due
oggetto delle attenzioni ‘particolari’ del satrapo seleucidico (Ferecle in Arriano,
Agatocle in Sincello, che parla espressamente di satrapia della Battriana); dalla
loro ribellione sarebbe sorto lo Stato partico. In base a questo racconto, dopo il
breve regno di Arsace (due anni) sarebbe seguito quello di Tiridate (per trenta-
sette anni, a dire di Sincello). La prima tradizione, generalmente considerata più
attendibile, è rappresentata da una linea Strabone-Trogo (in Giustino)-Appiano
e la seconda, invece, da Arriano-Eusebio-Zosimo-Sincello-Fozio53. Si tratta, nel
complesso, di due filoni difficilmente conciliabili tra loro, anche se non del tutto
esenti da sovrapposizioni e punti di contatto54. Il Wolski ha rigettato, con buoni
anche se non ultimativi argomenti, la veridicità della seconda tradizione, arrivan-
do addirittura a rifiutare la realtà storica stessa di Tiridate, il che è quanto meno
discutibile55. Rimane comunque il problema di determinare quando sia sorta que-
sta seconda versione, soprattutto a proposito della regalità di Tiridate56.

53
Vd., rispettivamente, Strabo XI 9, 2; Iustin. XLI 1, 10 ss. (= FGrHist 782 F 4); 4, 3 ss. (cfr. Trog.
Prol. XLI); App. Syr. 65, 346 e Phot. 58, 17a, 31 ss. Henry (= Arr. FGrHist 156 F 30a); Eus.
Chron. II 120 Schoene; Zos. I 18, 1; Sync. 343 ll. 4-13 Mosshammer (= FGrHist 156 F 31).
54
Il tentativo di Bickerman, Notes on Seleucid and Parthian Chronology, cit., di combinare tra
loro i racconti di Strabone, Giustino e Arriano e di farli risalire tutti ai Parqikav di Apollodoro di
Artemita non ha avuto molta fortuna critica.
55
Così in numerosi lavori, le cui conclusioni sono riassunte in L’empire des Arsacides, cit., 29 ss.;
The Seleucids. The Decline and Fall of their Empire, Kraków 1999, 33-56. In particolare, sui tratti
favolistici del racconto dei due fratelli (che richiama temi della tradizione antica e che sarebbe stato
modellato in connessione con il mito dei Dioscuri) cfr. Id., L’origine de la relation d’Arrien sur la
paire des frères Arsacides, Arsace et Tiridate, AAntHung 24, 1976, 63-70. Diversamente, a favore
dell’esistenza di Tiridate, anche sulla scorta dell’ostracon di Nisa nr. 2638 (= nr. 1760 secondo la
precedente numerazione), vd. i fondamentali lavori di G.A. Košelenko, i cui risultati sono riassunti
in La genealogia dei primi Arsacidi (ancora sull’ostrakon di Nisa n. 1760), «Mesopotamia» 17,
1982, 133-146 (trad. it.). Cfr. inoltre le osservazioni di A. Bader, Parthian Ostraca from Nisa:
Some Historical Data, in La Persia e l’Asia centrale da Alessandro al X secolo, Roma 1996, 251-
276; J.D. Lerner, The Impact of Seleucid Decline on the Eastern Iranian Plateau, Historia Einzel-
schr. 123, Stuttgart 1999, 13-31; G.F. Assar, Genealogy and Coinage of the Early Parthian Rulers
I, «Parthica» 6, 2004, 69-93 (con proposte di datazione ‘eterodosse’ riguardo ad altri aspetti del
regno partico).
56
È opinione diffusa nella critica che la tradizione relativa ai due fratelli sia stata, se non inventata,
quanto meno ripresa o rielaborata nel I secolo d.C., in particolare alla corte di Armenia (sotto l’ar-
sacide Tiridate I, che regnò appunto trentasette anni dal 63 al 100 d.C., lo stesso periodo attribuito
al suo omonimo da Sincello); così K.W. Dobbins, Mithradates II and his Successors: A Study of the
Parthian Crisis 90-70 B.C., «Antichthon» 8, 1974, 63-79, partic. 63-64. Cfr. anche Assar, Genea-
logy and Coinage cit., 78 («relatively late pieces of propaganda»). Una svalutazione di questa rico-
struzione genealogica, unitamente a un (eccessivo) ridimensionamento dell’influenza achemenide
sui Parti è in Fowler, ‘Most Fortunate Roots’, cit., 130 ss., partic. 149-151.
La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I sec. a. C. 101

D’altro canto non si può trascurare come, in questo secondo filone, venga pro-
clamata una discendenza dei Parti dal re persiano Artaserse57. Il motivo del ri-
chiamo agli Achemenidi (talora unitamente al recupero delle ascendenze, reali o
fittizie, da Alessandro Magno e dai Seleucidi) è ricorrente in numerose dinastie
dove la componente iranica doveva convivere con quella greco-macedone e quin-
di un’analisi della tradizione va intesa non solo in termini storiografici, ma pure
nel quadro dei rapporti tra le diverse casate nella fase declinante dell’Ellenismo
e in considerazione della propaganda e delle strategie attuate dai Parti, anche nei
confronti di Roma58. È un aspetto che figura in modo palmare nel discorso degli
ambasciatori di Artabano II a Tiberio, riportato da Tacito59. Pur attraverso il filtro
tacitiano, è possibile, se non sicuro, che la valorizzazione del richiamo alla tradi-
zione achemenide e macedone fosse iniziata tempo prima, all’epoca di Mitridate
II o addirittura dello stesso Mitridate I, tenuto conto dell’importante ruolo giocato
appunto da costui nello sviluppo di una vera e propria ideologia reale partica60.

57
Vd. Sync. 343 ll. 7-8 Mosshammer. Il passo, che si ritiene derivare interamente dai Parqikav di
Arriano (FGrHist 156 F 31), è stato valorizzato da J. Wolski, Arsakiden und Sasaniden, in R. Stiehl
- H.E. Stier (Hrsgg.), Beiträge zur Alten Geschichte und deren Nachleben. Festschrift für Franz
Altheim zum 6.10.1968, I, Berlin 1969, 315-322, partic. 320-322 (identifica il personaggio con Ar-
taserse I). Vedono invece un riferimento ad Artaserse II, tra gli altri, J. Neusner, Parthian Political
Ideology, IA 3, 1963, 40-59, partic. 45; Wiesehöfer, Iranische Ansprüche an Rom, cit., 178; G.
Gnoli, The Idea of Iran. An Essay on its Origin, Roma 1989, 118 ss. Fozio, comunque, precisa che
Arriano sosteneva che i Parti erano un gevno~ Skuqikovn, senz’altra specificazione o richiamo espli-
cito agli Achemenidi, e che sarebbero emigrati dalla Scizia addirittura all’epoca del faraone egizio
Sesostri e del regno di Iandyses in Scizia (FGrHist 156 F 30a; cfr. F 32). Sulla scarsa attendibilità
di quest'ultimo dato cfr. P.A. Stadter, Arrian of Nicomedia, Chapel Hill 1980, 137.
58
Per un primo orientamento in proposito cfr. F. Muccioli, Philopatris e il concetto di patria in età
ellenistica, in B. Virgilio (a cura di), Studi ellenistici, 19, Pisa 2006, 365-398.
59
Tac. Ann. VI 31.
60
Per questi aspetti cfr. l’interpretazione di J. Wolski, Les Achéménides et les Arsacides. Contri-
bution à l’histoire de la formation des traditions iraniennes, «Syria» 43, 1966, 65-89 e le osserva-
zioni di Wiesehöfer, Iranische Ansprüche an Rom, cit. Può essere di qualche utilità richiamare il
fatto che nell’excursus liviano si insista su una ‘barbarizzazione’ di Alessandro, trasformatosi in
persiano (cfr. Sonnabend, Fremdenbild und Politik, cit., 216-218, che confronta Liv. IX 18, 2-4 con
Liv. XXXVIII 17, 11). Inoltre la figura di Ciro II viene ricordata con una certa insofferenza e vena
polemica (IX 17, 6). Questa risulta un poco strana, se si considera che la funzione paradigmatica
dell’Achemenide era nota e apprezzata anche ai Romani; basti solo ricordare il giudizio elogiativo
di Cicerone (e la sua conoscenza della senofontea Ciropedia), su cui cfr., per tutti, A. Cristofori, Il
giudizio della società provinciale sugli amministratori romani in età repubblicana: considerazioni
sulla documentazione, in L. Mooren (ed.), Politics, Administration and Society in the Hellenistic
and Roman World, Leuven 2000, 55-75, partic. 62-64 (ivi riferimenti e bibliografia). Il collegamen-
to tra Persiani-Alessandro e Parti (che peraltro la tradizione romana spesso sovrappone, almeno no-
minalmente, ai Medi e ai Persiani, a loro volta confusi tra loro) è del tutto implicito nel testo liviano.
Occorre però anche ricordare che la propaganda augustea riprese il tema della vittoria greca (in
particolare ateniese) contro i Persiani a Salamina, come testimonia lo spettacolo di combattimento
navale offerto da Augusto nel 2 a.C. (con evidente allusione ai barbari Persiani/Parti). In proposito
102 Federicomaria Muccioli

Inoltre va osservato che alcuni elementi di contatto tra i due filoni fontuali sum-
menzionati sono rintracciabili nello stesso Strabone e forse anche in Giustino. Il
primo infatti, pur con molta prudenza, avvalora la tradizione secondo cui Arsace
era il capo dei Daai Sparni (o Aparni o Parni), situati sulla costa orientale del
Mar Caspio e migrati forse dai Daai della Meotide61, che è popolazione peraltro
ben nota nella tradizione classica e di sicuro ceppo scitico62. Subito dopo Strabo-
ne però menziona anche, liquidandola sbrigativamente, una versione alternativa
sull’origine dei Parti, secondo la quale Arsace era della Battriana e, all’ascesa di
Diodoto, era fuggito in Partia suscitandovi una rivolta63. Anche se Jacoby non ha
incluso XI 9, 2 nel F 5a di Apollodoro di Artemita (che comprende solo XI 9, 1),
vi è quanto meno da chiedersi se entrambe le versioni fossero già nei suoi Par-
qikav e se questo autore, attento alle vicende battriane, avesse proposto (anche) un
racconto alternativo sulle origini dello Stato partico, che dobbiamo pensare non
avesse avuto l’imprimatur della propaganda arsacide. Quanto a Pompeo Trogo,
nel racconto di Giustino, particolare attenzione merita la notizia del XII libro:
Alessandro, dopo aver sottomesso i Parti, avrebbe nominato loro governatore il
nobile persiano Andragora; i re dei Parti avrebbero poi tratto origine da costui64.
Invece a XLI 4, 1 ss. si sostiene che la satrapia era stata assegnata a Staganore,
dopo la morte di Alessandro, e che all’epoca della ribellione di Arsace, era tenuta
da Andragora, appena ribellatosi ai Seleucidi. Vi è dunque una sovrapposizione
di personaggi con lo stesso nome (il primo dei quali presumibilmente fittizio),
con il chiaro scopo di creare un collegamento con l’impero persiano o comunque
con la tradizione achemenide, secondo il filone fontuale del XII libro (evidente-
mente diverso rispetto a quello del XLI libro, e sostanzialmente non seguito da
Pompeo Trogo)65.

cfr., per tutti, A. Spawforth, Symbol of Unity? The Persian-Wars Tradition in the Roman Empire,
in S. Hornblower (ed.), Greek Historiography, Oxford 1994, 233-247, partic. 237 ss.
61
XI 9, 2-3. Cfr., con analoga cautela, Iustin. XLI 4, 6 su Arsace. In Strabo XI 9, 2-3 (e in altri
luoghi della Geografia: XI 7, 1; 8, 2) vi è un problema filologico. La lectio Spavrnou~ è, ad es., pre-
ferita da Magnelli, Giustino (41.1-6), cit., 475, n. 43; R. Nicolai - G. Traina, Strabone. Geografia.
Caucaso, Asia centrale e Anatolia libri XI-XII, Milano 2000, 140-141, sulla scorta dell’edizione di
F. Lasserre, Strabon. Géographie, t. VIII (Livre XI), Paris 1975, 92, 140-141 (in base al confronto
con Iustin. XLI 1, 10); cfr. 76, 84. Diversamente legge Jones, The Geography of Strabo, cit., 274-
275 (∆Apavrnou~); cfr. 248-249, 260-261. Nella dottrina si parla comunque prevalente di Aparni (o
anche Parni, forma che è riportata nei manoscritti straboniani).
62
Vd., per tutti, Hdt. I 125.
63
XI 9, 3; vd. anche Iustin. XLI 4. In proposito cfr. Magnelli, Giustino (41.1-6), cit., 475-477.
64
Vd. XII 4, 12; cfr. XI 15, 1-2.
65
Cfr. Liebmann-Frankfort, L’histoire des Parthes, cit., 902-903. A conferma della duplicità della
tradizione seguita da Pompeo Trogo vi è anche il fatto che a Staganore, secondo quanto si afferma a
XIII 4, 23, toccò il governo sui Sogdiani mentre a Filippo quello sui Parti. Di una certa rilevanza è
anche l’affermazione riferita a Mitridate VI nella sua lettera ad Arsace in Sallustio (Hist. IV fr. 69,
1-23, partic. 19 Maurenbrecher), sul fatto che i Parti abbiano il regnum Persidis.
La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I sec. a. C. 103

La componente scitica è senz’altro degna di attenzione, sia dal punto di vista


etnografico sia propriamente storiografico: nelle fonti i Parti sono di ceppo sci-
tico in contrasto con le altre popolazioni scitiche o ritenute scitiche, contro cui
talora combattono66. Il richiamo a tale origine non è privo di rilevanza, giacché
nella tradizione gli Sciti sono spesso rappresentati come un popolo libero, tra
l’altro l’unico a non piegarsi o ad opporsi ad Alessandro Magno. Ciò è evidente
in un passo di Curzio Rufo, circa l’ambasceria degli Sciti al Macedone durante
la traversata della Sogdiana, ma anche in Pompeo Trogo-Giustino67. L’immagine
degli Sciti come popolo che vive felicemente ad uno stato primitivo è un topos
che si riscontra anche per altre popolazioni e che trovava facile presa in certa sto-
riografia di età ellenistica68. Ed è chiaro che poteva ben prestarsi ad adattamenti e
strumentalizzazioni forse anche in chiave antiromana, soprattutto da parte di chi
sottolineava l’equazione Parti = Sciti.
L’aspetto etico nella rappresentazione etnografica dei Parti, con l’opposizione
tra trufhv e vita morigerata, gioca indubbiamente un ruolo decisivo nella spiega-
zione dell’espansione degli Arsacidi. Strabone, infatti, afferma chiaramente che
causa del successo dei Parti è il loro stile di vita e i loro costumi, che hanno molto
del barbaro e dello scita, ma hanno ancor più quanto occorre per dominare e per
vincere in guerra. È un’affermazione che va confrontata con alcuni passi di Po-
sidonio nonché con quanto affermato nel XLI libro di Giustino69. Per converso,
decisamente negativa era la posizione di altri intellettuali greci schierati al fianco
di Roma. In particolare, spicca la figura di Teofane di Mitilene, che mosse dure
critiche ai Parti, quando dopo la battaglia di Farsalo Pompeo aveva intenzione di
rifugiarsi presso i loro domini. Riuscì a dissuadere l’amico romano e a convincer-
lo ad andare in Egitto da Tolemeo XIII, sostenendo che i Parti erano il popolo più
infido, erano privi di moderazione ed in grado solo di misurare il potere in base
alla violenza e all’intemperanza70.

66
Cfr. quanto riferito da Iustin. XLI 1, 9 ss. e, soprattutto, XLII 1, 1 ss., sia pure in modo appros-
simativo. In particolare, i problemi vertono sull’identità etnica dei Tocari, su cui cfr. C.A. Cianca-
glini, Sciti, iranici, nomadi: problemi di etnonimia in Strabone, in Traina (a cura di), Studi sull’XI
libro dei Geographika, cit., 11-83 (nega che fossero Sciti).
67
Curt. Ruf. VII 8, 12-30; Iustin. II 3, 1 ss. Cfr. L. Ballesteros-Pastor, Le discours du Scythe à
Alexandre le Grand (Quinte-Curce 7.8.12-30), RhM n.F. 146, 2003, 23-37.
68
Vd. il discorso di uno dei capi degli Arabai Nabatei a Demetrio Poliorcete in Diod. XIX 97, 3-5,
riconducibile all’opera di Ieronimo di Cardia ovvero, più persuasivamente, alla rielaborazione di
Agatarchide di Cnido, come propone M. Mazza, Il prezzo della libertà: la risposta degli Arabi Na-
batei a Demetrio Poliorcete, in E. Lelli (a cura di), Arma virumque ... Studi di poesia e storiografia
in onore di Luca Canali, Pisa-Roma 2002, 45-66.
69
Strabo XI 9, 2. Per una dipendenza da Posidonio di questa spiegazione straboniana dei successi
partici cfr. Lasserre, Strabon. Géographie, cit., 92, n. 3.
70
Plut. Pomp. 76, 7-9 (= FGrHist 188 T 8d). Anche se il passo figura, come è logico, tra i testi-
monia non vi è da dubitare che Teofane riflettesse un’opinione ben consolidata nel mondo greco,
104 Federicomaria Muccioli

La discussione sviluppatasi nella dottrina circa l’influenza di Posidonio sulla


rappresentazione straboniana dei Parti risente, inevitabilmente, della pressoché
totale assenza di frammenti al riguardo negli JIstorika; uJpomnhvmata dello scrit-
tore di Amasea. Del resto, i passi sicuramente posidoniani riferiti ai Parti non sono
molti, tutti noti da Ateneo tranne un frammento in Strabone, sul duplice sinedrio
partico71. Tra questi un frammento tratto dal V libro dei Deipnosofisti lascia sup-
porre una valutazione altamente negativa. Il passo è incentrato sul comportamen-
to tenuto da quello definito oJ kalouvmeno" fivlo" nei confronti del re, molto pro-
babilmente Mitridate I, visto il contesto nell’economia delle Storie posidoniane72.
Suddetto personaggio non si siede a tavola come gli altri, bensì per terra, com-
portandosi come un cane, che aspetta quanto gli getta il re e poi viene allontanato
e addirittura frustato. E pur tuttavia, si butta a terra in atto di prostrazione come
se si trovasse di fronte ad un benefattore. È probabile, così come ha supposto il
Musti, che qui si sia in presenza di una paretimologia di origine stoica, proposta
o ripresa da Posidonio, del termine proskuvvnhsi", tendente proprio a cogliere un
collegamento con il cane, attraverso la cruda immagine73. La rappresentazione
del banchetto del re ivi proposta da Posidonio viene esplicitamente collegata da
Ateneo a un altro frammento dell’erudito di Apamea, tratto dal XVI libro delle
Storie74. Tuttavia è probabile che il primo luogo posidoniano costituisca, coscien-
temente o meno, non la descrizione di un momento simposiaco, quanto piuttosto
di una vera e propria pratica rituale di sottomissione75. Pare in ogni caso frainteso
o non compreso appieno l’importante ruolo svolto dalla categoria dei fivloi, sia

non solo microasiatico, e conseguentemente nella pubblicistica. Tale rappresentazione corrisponde


a quella diffusa nel mondo romano; vd., per tutti, Hor. Ep. II 1, 112 (Parthis mendacior); Iustin.
XLI 3, 7-10.
71
XI 9, 3 (= FGrHist 87 F 71 = fr. 282 Edelstein-Kidd = fr. 48 Theiler; cfr. FGrHist 91 F 1; FGrHist
782 F 3).
72
Athen. IV 152f-153a (= FGrHist 87 F 5 = fr. 57 Edelstein-Kidd = fr. 114 Theiler).
73
D. Musti, Posidonio e l’etimologia di proskynesis, in ERKOS. Studi in Onore di Franco Sartori,
Padova 2003, 159-172.
74
Athen. IV 153a-b (= FGrHist 87 F 12= fr. 64 Edelstein-Kidd = fr. 154 Theiler).
75
Così J. Malitz, Die Historien des Poseidonios, München 1983, 284-285 e n. 205, seguito da K.
Vössing, Mensa Regia. Das Bankett beim hellenistischen König und beim römischen Kaiser, Mün-
chen-Leipzig 2004, 44 e n. 3, con ulteriori osservazioni. Cfr. anche Wolski, Les Achéménides et
les Arsacides, cit., 81-82, secondo il quale la fonte ultima del passo sarebbe un testimone oculare,
forse uno degli inviati seleucidi che soggiornarono nel campo partico; quanto ivi descritto farebbe
parte del sistema dispotico impiantato a corte, in buona misura modellato su quello achemenide.
Dal canto suo G. Traina, Notes classico-orientales 4-5, in E. Dąbrowa (ed.), Ancient Iran and its
Neighbours. Studies in Honour of Prof. Jósef Wolski on Occasion of His 95th Birthday, Electrum
10, Kraków 2005, 89-93, partic. 89-90, propone un confronto tra il luogo diodoreo e Cic. Phil. VIII
24; XIII 26: Antonio, per imitare costumi partici, fece fustigare deliciarum causa da servi pubblici
in un banchetto il senatore L. Vario Cotyla, uomo a lui legato.
La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I sec. a. C. 105

come gruppo sociale legato al sovrano sia anche come termine utilizzato nella
titolatura aulica (il che ha sufficienti riscontri nella documentazione, ad esempio
nelle succitate iscrizioni delie)76. E ciò avvicina il regno partico, almeno per que-
sti aspetti della nomenclatura, alle dinastie ellenistiche, tolemaica e soprattutto
seleucide, da cui potrebbe essere stato mutuato l’uso (forse anche solo attraverso
un’interpretatio linguistica). L’accentuazione di questa esasperata kolakeiva ha
peraltro significativi riscontri anche in altre rappresentazioni etnografiche dello
scrittore di Apamea, come quella riguardante i Celti77.
La descrizione posidoniana delle usanze dei sovrani partici non è comunque
nel suo complesso del tutto negativa, bensì in chiaroscuro, in cui sono presen-
ti elementi positivi accanto ad altri in cui è invece stigmatizzata la trufhv che
accomuna i Parti ai sovrani e alle città di Siria. In un frammento derivante dal
XIV libro su Fraate II, emerge bene la contrapposizione tra i mores Parthici e la
degenerazione dei Seleucidi, incarnata da Antioco VII, autore di una sfortunata
campagna in Oriente in cui trovò la morte78. Viene infatti criticato il lusso ecces-
sivo della spedizione partica, a cui si accompagnava anche una condotta assoluta-
mente depravata del sovrano dovuta alla sua ubriachezza, causa della sua rovina
e morte, insieme al suo qavrso", secondo le parole attribuite al sovrano partico
(Fraate II), al momento di dare sepoltura al cadavere del Seleucide.
Vi sono altri passi riconducibili all’opera posidoniana che vanno analizzati.
Un escerto di Diodoro, tratto dal XXXIII libro, che corrisponde al fr. 113 della
silloge Theiler, non ha suscitato particolare attenzione nella dottrina, soprattutto
quella pertinente al mondo partico79. Ora, è ben noto che il Theiler è stato fin trop-
76
Su questi aspetti nella nomenclatura partica e sui casi accertati nelle fonti cfr. I. Savalli-Lestrade,
Les philoi royaux dans l’Asie hellénistique, Genève 1998, 205-212 e passim.
77
Vd. Athen. IV 151e ss. (= FGrHist 87 FF 15, 18 = T 80, fr. 67 Edelstein-Kidd = fr. 170 Theiler).
Sui Celti in Posidonio, oggetto di un’ampia bibliografia, cfr., da ultimi, M. Ruggeri, I Celti in Posi-
donio, Firenze 2000; F. Muccioli, Interessi etnografici e tradizioni storiografiche nel Libro celtico
di Appiano, in Storiografia locale e storiografia universale, cit., 347-377; M. Martin, Le forme di
dipendenza nel mondo celtico da Posidonio a Cesare, MedAnt 5, 2002, 639-676; Id., Omero come
archetipo culturale nell’etnografia celtica di Posidonio d’Apamea (con un confronto con l’etno-
grafia britannica di Timeo di Tauromenio), in F. Montanari - P. Ascheri (a cura di), Omero tremila
anni dopo, Roma 2002, 579-623; S. Giurovich, Alcune riflessioni in margine a Strabone II.3.7 (e ai
principi etnografici di Posidonio), RSA 33, 2003, 131-170; F.J. Gómez Espelosín, La imagen de lo
céltico en la historiografía grecorromana, in J.M. Candau Morón - F.J. González Ponce - G. Cruz
Andreotti (eds.), Historia y mito. El pasado legendario como fuente de autoridad, Málaga 2004,
211-239, partic. 221 ss.
78
Athen. XII 540b-c (= FGrHist 87 F 9a = fr. 61a Edelstein-Kidd = fr. 151a Theiler), da leggersi assie-
me a un altro frammento: Athen. X 439d-e (= FGrHist 87 F 11 = fr. 63 Edelstein-Kidd = fr. 155 Thei-
ler); vd. anche Athen. V 210c-d (= FGrHist 87 F 9b = fr. 61b Edelstein- Kidd = fr. 151b Theiler).
79
Per una prima analisi del passo cfr. Malitz, Die Historien des Poseidonios, cit., 284; J. Lens Tue-
ro, Sobre la problemática de la hegemonía en la Biblioteca histórica de Diodoro de Sicilia [1984],
ora in J. Lens (ed.), Estudios sobre Diodoro de Sicilia, Granada 1994, 13-18, partic. 18; Lerouge-
Cohen, Les guerres parthique de Démétrios II et Antiochos VII, cit., 235.
106 Federicomaria Muccioli

po generoso nelle attribuzioni posidoniane; difatti il brano non figura nelle altre
raccolte dei frammenti dello scrittore di Apamea80. L’assegnazione a Posidonio
del passo e, in genere, di questa sezione frammentaria della Biblioteca storica è
comunque più che probabile. Il luogo si incentra sulla figura di Arsace, ovvero
Mitridate I, data la posizione negli excerpta e, in ogni caso, tiene adeguatamente
conto delle dinamiche dell’espansione partica. Si tratta di un vero e proprio elo-
gio del sovrano, contrapposto al ritratto negativo del figlio Fraate II nella Biblio-
teca storica. Vengono infatti esaltate l’ejpieivkeia e la filanqrwpiva di questo
re barbaro, qualità che gli permisero tra l’altro di ingrandire considerevolmente
il suo regno arrivando addirittura fino all’India e sottomettendo tutta la regione
che era stata soggetta a Poro81. ∆Epieivkeia e ajndreiva, unite all’assenza di trufhv
e di uJperhfaniva sono poi le caratteristiche del sovrano, una volta ampliati i
domini: egli inoltre, divenuto signore di molti popoli, insegnò ai Parti le usanze
migliori che ciascuno di essi praticava. Il passo si presta a diverse considerazioni.
In particolare i primi due termini, ejpieivkeia e filanqrwpiva, sono concetti che
si è spesso voluto riferire alle categorie interpretative in chiave moraleggiante
di Posidonio, ma sono peculiari non soltanto di questo autore bensì di tutta una
tendenza storiografica, compreso lo stesso Diodoro82. E, comunque sia, l’esal-
tazione di questo sovrano (indipendentemente da alcuni aspetti intollerabili per
un Greco, come le crudeltà della vita di corte descritte da Posidonio) si ritrova,
quasi specularmente, anche in Pompeo Trogo/Giustino, dove Mitridate è defini-
to uomo di eccezionale valore, capace di estendere i confini del suo impero dal
Caucaso all’Eufrate83. L’orizzonte geopolitico del passo, pur essendo abbastanza
indefinito o in qualche misura impreciso84, risulta più esteso di quello di Apollo-
Il luogo non era comunque sfuggito all’attenzione di E. Breccia, Mitridate I il Grande, di Partia,
«Klio» 5, 1905, 39-54, partic. 51, 53 (senza però una discussione approfondita).
80
Il Kidd, menzionando il luogo diodoreo nel suo commento al frammento riguardo alla proskuvnh-
si", sottolinea il contrasto tra i due passi nella presentazione del sovrano; I.G. Kidd, Posidonius. II.
The Commentary: (i) Testimonia and Fragments I-149, Cambridge 1988, 290.
81
Sulla dimensione asiatica e non meramente regionale dei domini di Mitridate I (ma anche di Mi-
tridate II) cfr. Wolski, Les Achéménides et les Arsacides, cit., 77 ss.; Id., L’empire des Arsacides,
cit., 75 ss. (scettico sulla validità complessiva del dato diodoreo).
82
Cfr., ad es., J.L. Calvo Martínez, La epieíkeia desde Platón a Plutarco, in A. Pérez Jiménez - J.
García López - R. Ma̻. Aguilar (eds.), Plutarco, Platón y Aristóteles, Madrid 1999, 45-61 (che però
non approfondisce l’importanza del termine nella filosofia e nella storiografia di età ellenistica);
Muccioli, Aspetti della translatio imperii, cit., 211-213 (con ulteriore bibliografia); Lerouge-Cohen,
Les guerres parthique de Démétrios II et Antiochos VII, cit., 235.
83
Iustin. XXXVIII 9, 3; XLI 5, 10; 6, 1-2 e 6-9; cfr. Oros. V 4, 16 (con una coloritura a forti tinte).
84
La menzione del Caucaso potrebbe far pensare a una confusione con l’ampliamento della sfera
d’influenza partica fino in Armenia, sotto Mitridate II. Tuttavia i Macedoni avevano chiamato Cau-
caso, per motivi di prestigio, le montagne dell’India settentrionale (Strabo XI 5, 5; 8, 1; XV 1, 11) e
dunque, seguendo questa accezione, non vi è sensibile differenza con quanto affermato da Diodoro.
In proposito cfr. Liebmann-Frankfort, L’histoire des Parthes, cit., 906-908.
La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I sec. a. C. 107

doro-Strabone e sempre rapportato, implicitamente, ad Alessandro Magno (nella


menzione di Poro). L’espressione pollw`n e[qnwn ejgkrathv" è certo generica, ma
ha riscontri sicuri nella realtà storica e nella titolatura del sovrano, definito Re dei
Re nella documentazione85.
Nel suo commento il Theiler ha suggerito la provenienza da una sezione et-
nografica sui Parti, basandosi sulla menzione nel passo di novmima86. È un’affer-
mazione che permette di supportare l’idea che Posidonio avesse rivolto la sua
attenzione anche agli aspetti etnografici, e dunque la sua rappresentazione dei
Parti andrebbe per lo meno riponderata, proprio alla luce dei suoi criteri interpre-
tativi, così come ha fatto luce la critica in altri contesti (si pensi al mondo celtico),
tenendo anche conto dei momenti degenerativi in senso etico87. Vi è pertanto da
chiedersi se possa risalire a Posidonio, direttamente o indirettamente, il filone
storiografico presente nelle fonti classiche e tendente a valorizzare il fondatore
(Arsace I) e il ‘rifondatore’ della dinastia (Mitridate I) prima di uno scadimento
della dinastia, secondo una parabola evolutiva che avvicina il regno partico alle
dinastie ellenistiche.
A questi passi si può accostare anche un frammento di Alessandro Poliistore,
noto attraverso Agazia (e, parzialmente, Sincello)88. È difficile e probabilmen-
te anche non fondamentale in questo contesto determinare se davvero Agazia
utilizzasse direttamente il Poliistore, oppure se fosse a lui noto attraverso una
Mittelquelle; in particolare, la Cameron ritiene che lo storico bizantino leggesse
Alessandro Poliistore e le altre fonti greche citate a II 25 attraverso un «handbook

85
Vd. la lettura del rilievo di Hung-e Azhdar proposta da J. Harmatta, Parthia and Elymais in the
2nd Century B.C., AAntHung 29, 1981, 189-217, partic. 200 ss.; Id., Mithridates I and the Rise of
Parthian Writing System, ibid. 29, 1981, 219-225. Questa interpretazione ha avuto ampio seguito
nella dottrina; cfr., tra gli altri, J. Wolski, Le titre de «roi des rois» dans l’idéologie monarchique
des Arsacides, ibid. 30, 1982-1984, 159-166; Id., L’empire des Arsacides, cit., 82-83, 97-99; Wie-
sehöfer, “King of Kings”, cit., 59; R. Schmitt, Parthische Sprach- und Namenüberlieferung aus
arsakidischer Zeit, in Wiesehöfer (Hrsg.), Das Partherreich, cit., 163-204, partic. 168. Contra, A.
Invernizzi, Elymaeans, Seleucids, and the Hung-e Azhdar Relief, «Mesopotamia» 33, 1998, 219-
259, il quale tra l’altro osserva che la lettura dell’Harmatta non si basa su una visione autoptica ma
solo su documentazione fotografica tutt’altro che perspicua; cfr, anche Fowler, ‘Most Fortunate
Roots’, cit., 142; 145-146 e n. 64. Il titolo Re dei Re per Mitridate I in ogni caso è attestato nella
documentazione cuneiforme; cfr. G.-F. Del Monte, Testi dalla Babilonia Ellenistica, I, Testi cro-
nografici, Pisa-Roma 1997, 244-245.
86
W. Theiler, Poseidonios. Die Fragmente, II, Erläuterungen, Berlin-New York 1982, 93.
87
Vd. Diod. XXXIV/XXXV 18 e, soprattutto, 19 (= Posid. fr. 159 Theiler); cfr. XXXIV/XXXV
21 (su Evemero, governatore che seppe ritagliarsi uno spazio autonomo in Mesopotamia = fr. 161
Theiler; costui è chiamato Imero in Athen. XI 466b-c = Posid. FGrHist 87 F 13 = fr. 65 Edelstein
- Kidd = fr. 158 Theiler; Iustin. XLII 1, 3; cfr. Savalli-Lestrade, Les philoi royaux, cit., 208, per un
status quaestionis riguardo al personaggio).
88
Agath. II 25, 3-10 Keydell; Sync. 439 ll. 23 ss. Mosshammer (= Alex. Pol. FGrHist 273 FF
81a-b).
108 Federicomaria Muccioli

of chronology», identificabile con la Cronikh; iJstoriva di Esichio di Mileto, in


cui veniva affrontato il periodo da Belo alla morte di Anastasio con diverse sin-
cronizzazioni89.
Il frammento non ha suscitato particolare attenzione né presso coloro che han-
no analizzato la polemica di Livio contro i levissimi ex Graecis né tanto meno
presso i cultori di cose partiche90. Alessandro di Mileto, soprannominato Polii-
store, è autore spesso citato ma non ancora studiato sistematicamente, se non per
singoli aspetti o singole sue opere (come i Libukav)91. Riguardo a questo poligrafo
di I secolo a.C., appartenente alla scuola di Cratete di Mallo e autore tra l’altro
di cinque libri intitolati Su Roma, valgono o sono considerate ancora valide le
osservazioni dello Jacoby, secondo cui egli avrebbe composto una serie di mono-
grafie che si potrebbero definire regionali, ispirate ad un preciso disegno: offrire
ad un pubblico, quale quello romano, un quadro dei popoli e delle culture (in
particolare d’Oriente) con cui entrava in contatto, in particolare dopo le conquiste
pompeiane. La prospettiva sarebbe senz’altro filoromana, simile, si è ipotizzato,
a quella di Posidonio, autore di poco anteriore92.

89
Suda s.v. ÔHsuvcio~ Milhvs io~. Vd. A. Cameron, Agathias on the Sassanians, DOP 23-24, 1969-
1970, 67-183, partic. 107 (cfr. Agath. II 27, 6 Keydell, dove è chiaro l’utilizzo di fonti cronogra-
fiche). Su Agazia cfr., in generale, A. Cameron, Agathias, Oxford 1970 e, più recentemente, A.
Kaldellis, The Historical and Religious Views of Agathias: A Reinterpretation, «Byzantion» 69,
1999, 206-252; D. Brodka, Die Geschichtsphilosophie in der spätantiken Historiographie. Studien
zu Prokopios von Kaisareia, Agathias von Myrina und Theophylaktos Simokattes, Frankfurt a.M.
2004, 152-192.
90
Cfr. comunque il cursorio accenno di Atkinson, Originality and its Limits in the Alexander Sour-
ces, cit., 309.
91
Cfr. G. Ottone, Libyka. Testimonianze e frammenti, Tivoli 2002, 475-541.
92
F. Jacoby, FGrHist, IIIa, Kommentar, Leiden 1943, 250 ss., seguito, tra gli altri, da G. Zecchini,
Linee di egittografia antica, in L. Criscuolo - G. Geraci (a cura di), Egitto e storia antica dall’El-
lenismo all’età araba. Bilancio di un confronto, Bologna 1989, 703-713, partic. 709-710 (ivi il
paragone con Posidonio); Ottone, Libyka, cit., 476-478; D.W. Roller, The World of Juba II and
Kleopatra Selene. Royal Scholarship on Rome’s African Frontier, New York-London 2003, 65;
cfr. Momigliano, Saggezza straniera, cit., 126; J. Christes, Sklaven und Freigelassene als Gram-
matiker und Philologen im antiken Rom, Wiesbaden 1979, 42 e le puntualizzazioni di E. Rawson,
Intellectual Life in the Late Roman Republic, Baltimore 1985, 8, 44, 62, 249, 256 e passim (che
peraltro ritiene che la ricezione al Poliistore a Roma fosse assai limitata) e di L. Troiani, Due studi
di storiografia e religione antiche, Como 1988, 7-39 (Sull’opera di Cornelio Alessandro sopran-
nominato Polistore). Sulle vicende biografiche di Alessandro Poliistore, tra cui spicca la sua cattura
durante la prima guerra mitridatica, il suo acquisto da parte di Cornelio Lentulo, presso il quale
lavorò come paedagogus, la liberazione e l’ottenimento del diritto di cittadinanza grazie a Silla vd.
Suda s.v. jAlevxadro~ oJ Milhvs io~; Serv. Dan. Vergil. A X 388 (= FGrHist 273 TT 1-2) e infra. Il
paragone tra Alessandro Poliistore e Posidonio ha un preciso valore, logicamente, se si ammette che
quest’ultimo fu filoromano e, segnatamente, filopompeiano, su cui però non si intende discutere in
questa sede.
La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I sec. a. C. 109

In questo quadro, in cui peraltro troverebbe posto anche una visione ‘pitago-
rica’ degli eventi e delle vicende umane93, si inserisce lo scritto intitolato presu-
mibilmente Caldaikav, a cui F. Jacoby ha attribuito alcune interessanti notizie
riguardanti i Parti94. Non è nota infatti l’esistenza di un’opera di Alessandro Po-
liistore chiamata Parqikav, o espressamente dedicata al regno partico, anche se
abbiamo traccia di uno scritto chiamato ∆Indikav (F 118). L’attribuzione ai Cal-
daikav dei passi di Agazia e di Sincello (FGrHist 273 FF 81a-b) è comunque
pienamente giustificabile e permette di inquadrare il regno partico nella grande
tradizione orientale delle monarchie, a partire dagli Assiri; è quindi una prima
forma di apprezzamento del regno degli Arsacidi, inserito in un preciso contesto
storico e anche culturale. Va aggiunto che Alessandro Poliistore utilizza o mostra
di conoscere in modo approfondito in questo scritto l’opera di Berosso Caldeo,
il quale appunto presentava una visione dell’Asia secondo un’ottica babilonese,
una visione che tenesse conto non solo della storia politica ma anche di quella
culturale. Lo scrittore milesio riporta altresì le parole della Sibilla babilonese,
circa le origini di Babilonia (FF 79a-c). Dunque un autore potenzialmente inte-
ressante, che sarebbe riduttivo relegare solo al ruolo di compilatore erudito, privo
di originalità.
Nel passo in questione del II libro delle Storie di Agazia, Alessandro Poliisto-
re figura espressamente due volte, e sono citati anche l’oscuro Bione95 nonché
Ctesia di Cnido96 e Diodoro Siculo97. I capp. 24-26 sono estremamente complessi
ma anche di notevole importanza, sotto diversi aspetti, pure per gli iranisti, per il
passo riguardante il problema della datazione di Zoroastro, oggetto di recenti e
accese discussioni nella dottrina98.
93
La suggestione nel testo è in S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II.2, Bari 1966, 174 (cfr.
Id., Il pensiero storico classico, II.1, cit., 112 e note 398 e 401, 477). Effettivamente Alessandro
Poliistore fu tramite importante nella trasmissione della tradizione su Pitagora e i Pitagorici; scrisse
un Sui simboli pitagorici e l’opera Sulla successione dei filosofi (Clem. Alex. Strom. I, 70, 1; Diog.
Laert. VIII 24 ss. = FGrHist 273 FF 94, 93).
94
Per una prima introduzione a questo scritto cfr. Troiani, Due studi di storiografia, cit., 32-33.
95
FGrHist 89 F 1 (cfr. Sync. 439 l. 26 Mosshammer). È l’unico frammento attribuito a questo
autore; lo Jacoby, sulla scorta di Diog. Laert. IV 58 (= T 1), ha riferito il frammento in Agatocle
ai nove libri delle Muse (una storia universale?), attribuiti a un Bione rJhtorikov~. La datazione
proposta è il II-I secolo a.C.
96
FGrHist 688 F 1ob = fr. 1ob Lenfant (cfr. Eus. Chron. I 59, ll. 33 ss. Schoene = FGrHist 688 F
1oa = fr. 1oa Lenfant).
97
Il riferimento a Diodoro, autore caro ad Agazia (cfr., ad es., Cameron, Agathias, cit., 32, 57-58,
119, 145) e a certa storiografia di età bizantina, riguarda con ogni evidenza il II libro della Biblio-
teca storica (28, 8). Qui peraltro Ctesia è utilizzato come fonte guida.
98
II 24, 6. Cfr. A.S. Shahbazi, Recent Speculations on the “Traditional Date of Zoroaster”, SI 31,
2002, 7-45 (con ipotesi espresse anche in altri lavori) e le critiche puntuali espresse da G. Gnoli,
Agathias and the Date of Zoroaster, «East and West» 54, 2004, 55-62; cfr. Id., Once more Zoroa-
ster’s Time. A Manichaean Dating, «East and West» 45, 1995, 313-319.
110 Federicomaria Muccioli

Preme osservare che nel cap. 25 sono utilizzati schemi cronografici di chiara
ascendenza greca e non persiana, a differenza di 26, 1, in cui sono utilizzate fonti
persiane (note ad Agazia tramite il suo traduttore Sergio). Lo schema che viene
proposto, a partire da 25, 4 è quello della translatio imperii, con alcune significa-
tive e sorprendenti varianti rispetto alla vulgata e con una cronologia molto pro-
blematica. Nell’applicazione del canone della translatio si assiste infatti a una
successione Assiri (§§ 4-5), Medi (§ 6), Persiani (§ 7), Macedoni (§ 8) e, infine,
Parti (§§ 9-10). Pur attraverso il filtro di Agazia e della sua attenzione storiogra-
fica, almeno in questa sezione, rivolta solo ad Oriente, è altamente significativo
che questo sia uno schema che contempla solo la realtà orientale, comprenden-
dovi Alessandro (e i Macedoni) e, successivamente, i Parti. Il canone tràdito da
Agazia stravolge quelli che sono i canoni della storiografia occidentale, ovvero
viene cancellata o non viene recepita una tradizione storiografica che parte dal II
secolo, da Polibio o anche da Emilio Sura, soprattutto se si accetta una datazione
alta di questo autore99. È pur vero che vi è spazio anche per i Romani: infatti si
afferma che la forza e il mito dell’invincibilità dei Macedoni furono distrutti dalle
lotte intestine e dagli scontri con i Romani: è però una presenza incidentale sia nel
cap. 25 sia anche nel cap. 26, indipendentemente dal cambio di fonte pressoché
sicuro e prescindendo dalla presenza o meno di una Mittelquelle (cioè Esichio di
Mileto), che potrebbe avere citato Alessandro Poliistore e gli altri autori greci.
I problemi sorgono a proposito della cronologia e dei computi utilizzati che
non si accordano affatto tra loro, nonostante i tentativi della critica di conciliarli.
Anzitutto viene attribuito agli Assiri un dominio di almeno milletrecentosei anni
e ai Medi un’ajrchv di non meno di trecento anni (§§ 5-6). In realtà sono periodi
troppo estesi rispetto alla realtà storica, ma, quel che conta dal punto di vista sto-
riografico, sono presenti, pur con qualche differenza, già in Ctesia (utilizzato da
Diodoro), fonti espressamente citate nel passo100. La dominazione dei Persiani di

99
Riferimenti in Muccioli, Aspetti della translatio imperii, cit., 197 e n. 39. Cfr. ora anche L. Cotta
Ramosino, Mamilio Sura o Emilio Sura? Alcune considerazioni sulla teoria della successione degli
imperi nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, «Latomus» 64, 2005, 945-958 (dove è ripresa
l’ipotesi, già espressa a suo tempo da A. Reifferscheid e soprattutto da S. Mazzarino, che Emilio
Sura vada identificato con Mamilio Sura).
100
Riguardo agli Assiri vd. Diod. II 21, 8 (più di milletrecentosessanta anni); 26-28 (più di mil-
letrecento anni); i due passi corrispondono a FGrHist 688 F 1b e fr. 1b Lenfant. Queste cifre non
sono necessariamente in contrasto e non vi è bisogno di interventi testuali; cfr. B. Eck, Diodore de
Sicile. Bibliothèque historique, t. II, Livre II, Paris 2003, 145, n. 42; D. Lenfant, Ctésias de Cnide.
La Perse. L’Inde. Autres fragments, Paris 2004, 244, n. 242. Per quanto riguarda i Medi vd. Diod. II
31, 10-34, 6 (= FGrHist 688 F 5 = fr. 5 Lenfant): il computo di più di duecentottantadue anni lì of-
ferto è assolutamente inconciliabile con quello, storicamente ben più veritiero anche se ugualmente
problematico in Erodoto (I 102-106). Sul problema dell’inserzione dei Medi nella successione degli
imperi cfr. Wiesehöfer, The Medes and the Idea of the Succession of empires, cit.; per uno sguardo
d’insieme sui vari aspetti, anche cronologici della c.d. egemonia dei Medi assai utili sono anche
La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I sec. a. C. 111

duecentoventotto anni, a cui seguì quella di Alessandro non crea problemi solo se
si parte dal 559, che comunque è il primo anno di regno di Ciro per alcune fonti,
e si arriva al 331 (altrimenti si dovrebbe pensare al 558 e al 330, morte di Dario
III). Il dato più problematico è però quello della durata dell’egemonia macedone,
nel suo complesso, rapportata a quella dei Medi, sette anni di meno. Un periodo
di duecentonovantatré anni, sulla scorta espressamente dell’autorità di Alessan-
dro Poliistore: dunque, stricto sensu, dal 331 al 39 o 38 a.C., data che tuttavia
non costituisce una cesura storica e storiografica, anche se si vedesse nel termine
Makedovne" un riferimento al regno di Siria, dall’83 al 69 a.C. sotto il controllo
di Tigrane il Grande, comunque un sovrano armeno e non partico. Secondo la
Cameron si dovrebbe pensare al 323-30, ovvero fino alla conquista dell’Egitto,
periodizzazione senz’altro più accettabile ma che obbliga ad ipotizzare un altro
errore nel testo e per, di più, una fine dell’impero macedone con una successione
‘normale’ (dai Macedoni ai Romani), che si accorda con il resto della tradizio-
ne101. Si prescinde però dalla successione tra Macedoni e Parti, confermata del
resto anche nel passaggio da un sistema cronologico ad un altro. Infatti Agazia,
nel capitolo successivo (26, 1), come si è detto, utilizza un computo cronologico
basato chiaramente su fonti persiane che tende a contrarre il dominio partico in
modo inaccettabile, in rapporto all’avvento dei Sassanidi nel 226 (secondo la cro-
nologia seguita dallo storico bizantino; cfr. IV 24): 270 anni invece di 470 anni e
più, stabilendo come inizio dell’era partica il canonico 247 a.C.102
Risulta difficile e forse avventuroso inoltrarsi in tale guazzabuglio cronologico,
un nonsense bizantino per riprendere una definizione dello Schwartz103. Tuttavia,
pur in questo problematico contesto, è chiara l’importanza e addirittura la predo-
minanza dei Parti in Oriente, nella prospettiva riflessa da Alessandro Poliistore,
che potrebbe essere anche incline a un certo strabismo o essere stata recepita da
Agazia (o da Esichio di Mileto) solo in parte, nel quadro della storiografia bizan-

gli altri saggi contenuti nel volume Continuity of Empire (?), cit. Per quanto concerne il fondatore
della dinastia è imprescindibile la testimonianza erodotea (I 96, 1-101, 1), su cui cfr. l’analisi di M.
Meier - B. Patzek - U. Walter - J. Wiesehöfer, Deiokes, König der Meder. Eine Herodot-Episode in
ihren Kontexten, Stuttgart 2004. A margine, va notato che nella scelta di Diodoro e di Alessandro
Poliistore la testimonianza di Ctesia viene (implicitamente) anteposta a quella di altri autori di
Persikav, come Dinone, che offrivano una versione molto diversa riguardo alla presa del potere
di Deioce (Athen. XIV 633c-e = FGrHist F 690 F 9; cfr., indicativamente, R. Drews, The Greek
Accounts of Eastern History, Washington 1973, 116 ss.). Evidentemente l’opera di Ctesia finì per
avere un’importanza preponderante nei processi di selezione (e di trasmissione?).
101
Agathias on the Sassanians, cit., 103-104. Nessun elemento utile al riguardo è dato cogliere nei
frammenti degli jAiguptiakav di Alessandro Poliistore (FGrHist 273 FF 1-11, 108; cfr. FF 130,
133).
102
Cfr. Cameron, Agathias on the Sassanians, cit., 105 ss., 136 ss.
103
E. Schwartz, Alexandros, 88, in RE I.2, 1894, 1449-1452, partic. 1449.
112 Federicomaria Muccioli

tina e dei suoi interessi104. Del resto pure la pressoché coeva storiografia armena,
in particolare Mosè di Chorene, ha pagine interessanti o se non altro meritevoli
di riconsiderazione sui Parti, peraltro ignorate o misconosciute dai classicisti,
anche a proposito della dimensione asiatica della dinastia arsacide105. In altri ter-
mini non si può affatto escludere che Alessandro Poliistore, nei suoi Caldaikav
o anche in altre opere, proponesse uno schema della translatio imperii bipartito
(Oriente e Occidente), del quale nel capitolo di Agazia è utilizzata appunto solo
la pars orientale.
L’idea che il regno dei Parti costituisse un altro mondo, concorrenziale a Roma,
finì poi col diffondersi ampiamente nella pubblicistica di età imperiale106. Più
dettagliatamente, figura in alcuni passi di Strabone, autore la cui lealtà alla causa
romana è comunque indubitabile107. Ma si riscontra anche nella nota espressione
di Giustino: Parthi, penes quos velut divisione orbis cum Romanis facta nunc
Orientis imperium est108. La formula Orientis imperium va adeguatamente sotto-
lineata, qualunque posizione si prenda sulla prospettiva di Pompeo Trogo, a cui

104
Cfr. E.M. Jeffreys, The Attitudes of Byzantine Chroniclers towards Ancient History, «Byzantion»
49, 1979, 199-238; D. Mendels, Greek and Roman History in the Bibliotheca of Photius - A Note,
«Byzantion» 56, 1986, 196-206, partic. 204 e n. 39; D. Roques, L’historiographie protobyzantine
(IVe̻-VIIe̻ siècle) et les fragments des historiens grecs de Rome, «Ktema» 29, 2004, 231-252; Bro-
dka, Die Geschichtsphilosophie, cit., partic. 190-192 (sull’importanza di Roma in contrapposizione
alla Persia: vd. Agath. IV 29, 4). L’espansione del regno partico (e successivamente sassanide) è
sottolineata, ma senza benevolenza, anche in Giovanni d’Antiochia, su cui cfr. il contributo di U.
Roberto, nel presente convegno (partic. n. 15, con rimando al fr. 144 dell’edizione del Bizantino da
lui curata: Ioannis Antiocheni Fragmenta ex Historia chronica, Berlin-New York 2005, 218-219 =
FHG IV 561 fr. 66).
105
Vd. Mos. Chor. P.H. II 2 (dove viene ripresa la concezione erodotea del mondo diviso in tre
parti, Europa, Asia e Libye: ai Parti spetta appunto l’Asia). Sulla diffidenza della critica nei con-
fronti delle fonti armene basti qui il rimando a J. Wolski, The Decay of the Iranian Empire of the
Seleucids and the Chronology of the Parthian Beginnings, «Berytus» 12, 1956-1958, 35-52, partic.
36, n. 4. Per una rivalutazione cfr. I. Ramelli, Un tributo dei Parti a Roma agli inizi del I sec. a.C.?,
RIL 134, 2000, 321-330 (riguardo a Mos. Chor. P.H. II 72 e a un possibile tributo versato dai Parti
ai Romani agli inizi del I secolo a.C.) e le imprescindibili osservazioni di G. Traina, Materiali per
un commento a Movsēs Xorenac‘i, Patmut‘Iwn Hayoc‘, I, «Muséon» 108, 1995, 279-333, partic.
290-291 (dove, tra l’altro è proposto un interessante paragone tra il metodo di lavoro di Mosè di Co-
rene e quello di Agazia, sulla scorta di Agath. II 24, 8 e 25, 4-5); Id., Materiali per un commento a
Movsēs Xorenac‘i, Patmut‘Iwn Hayoc‘, II, «Muséon» 111, 1998, 95-138. Una riconsiderazione sul-
le origini del regno partico nella tradizione armena è proposta dallo stesso Traina: The Arsacid Past
in the Earliest Armenian Historiography, in Iranian Identities in the Course of History, Convegno
della Societas Iranologica Europaea, ISIAO, Roma, 21-24 settembre 2005, in corso di stampa.
106
Vd. Manil. IV 674-675; Tac. Ann. II 2 e 56 nonché Ioseph. Ant. Iud. XVIII 46.
107
VI 4, 2; XI 9, 2; XVI 1, 28. Decisamente eterodossa la posizione di Isaac, The Invention of Ra-
cism, cit., 374 e n. 25, secondo cui oggetto delle critiche di Livio potrebbe essere stato, tra gli altri,
Strabone, il quale comunque non era in piena sintonia con la posizione dello storico patavino; cfr.
al riguardo Tisé, Strabone, l’ecumene romana e la monarchia macedone, cit., 139-140.
108
XLI 1, 1; cfr. XLIII 1, 1.
La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I sec. a. C. 113

Giustino attinge, e sul suo presunto antiromanesimo. Negli ultimi anni questo è
stato generalmente rifiutato o ridimensionato dalla critica più accorta, indipen-
dentemente dall’utilizzo di fonti antiromane (come Timagene e Metrodoro di
Scepsi); probabilmente colgono il vero quanti intendono tale riconoscimento di
una divisione dell’ecumene tra Romani e Parti nel quadro più complessivo di una
presa di coscienza trogiana, prudente e articolata, dell’importanza decisiva del-
l’imperium romano109. In base all’indubitabile somiglianza dei passi, è possibile
che alla base di Strabone e di Pompeo Trogo vi sia un’identica fonte, in grado
di intendere o soltanto di intravedere l’ormai incipiente divisione del mondo in
due ‘sfere d’influenze’, ma sarebbe errato sovrastimarla senza tener conto della
capacità di analisi dei due autori110.
Della creazione ed espansione dello Stato partico nel passo di Agazia (II 25,
9-10), che si è riferito ad Alessandro Poliistore, sono colte le due tappe princi-
pali. La prima è con Arsace, il fondatore della dinastia, colui che dà lustro ad un
popolo sottomesso e precedentemente pressoché sconosciuto (e[qno~ kathvkoon
kai; h{kista ejn tw/` pro; tou` ojnomastovtaton). Nel testo viene ricordato il solo
Arsace come fondatore, senza alcuna menzione di Tiridate (così come fanno in-
vece Arriano e, dato significativo per Agazia, altri autori di epoca bizantina che
a lui almeno in parte attingono, in primo luogo Sincello); si parla però espres-
samente di ajpovstasi~ di Arsace, ed è un termine che a rigore si adatta meglio

109
Cfr. XLIII 1, 1. Sulla visione storiografica e geopolitica di Pompeo Trogo, quale si desume dal
filtro di Giustino, condivisibili osservazioni sono in M. Mazza, Roma e i quattro imperi. Temi della
propaganda nella cultura ellenistico-romana [1996], ora in Id., Il vero e l’immaginato. Profezia,
narrativa e storiografia nel mondo romano, Roma 1999, 1-42, partic. 18-21 (che parla di ‘relati-
vizzazione’ della conquista romana mediante l’adesione allo schema della translatio imperii; ivi
una discussione della bibliografia anteriore). Cfr. inoltre R. Urban, ‘Gallisches Bewußtsein’ und
‘Romkritik’ bei Pompeius Trogus, in ANRW II/30.2, Berlin-New York 1982, 1424-1443, partic.
1433 ss.; G. Cresci Marrone, L’Alessandro di Trogo: per una definizione dell’ideologia, in Braccesi
- Coppola - Cresci Marrone - Franco, L’Alessandro di Giustino cit., 11-43; J.M. Alonso-Núñez, An
Augustan World History: The Historiae Philippicae of Pompeius Trogus, G & R 34, 1987, 56-72,
partic. 64 («Here Trogus seems to believe that there was room only for a single world power», con
riferimento a XI 12, 15); Id., Trogue-Pompée et l’impérialisme romain, BAGB 1990, 72-86; Atkin-
son, Originality and its Limits in the Alexander Sources, cit., 317-318. Decisamente discutibile, e
non solo per problemi di cronologia, la possibilità che le succitate affermazioni contenute nell’Epi-
tome delle Storie filippiche trogiane riflettano in qualche modo la realtà e la visione geopolitica di
Giustino e non di Pompeo Trogo, come suggerisce P.A. Brunt, Roman Imperial Themes, Oxford
1990, 458.
110
Ad Apollodoro di Artemita ha pensato Alonso-Núñez, Un historien entre deux cultures, cit.,
2-3, ma l’idea ivi espressa che nel I quarto del I secolo a.C. tale scrittore potesse avere una luci-
da prospettiva geopolitica in funzione antiromana lascia alquanto perplessi. Per un’interpretatio
straboniana di tale spartizione del mondo, indipendentemente dalla Quellenfrage, cfr. K. Clarke,
Between Geography and History. Hellenistic Constructions of the Roman World, Oxford 1999,
226-228; Dueck, Strabo of Amasia, cit., 113-115; N. Biffi, Il Medio Oriente di Strabone. Libro XVI
della Geografia, Bari 2002, 170.
114 Federicomaria Muccioli

alla seconda tradizione sull’origine dei Parti. Poi vi è l’esaltazione della figura di
Mitridate I, pur con una chiara imprecisione: ouj pollw/` u{steron (sono passati in
realtà diversi decenni tra i due regni)111 e il suo ruolo nella storia partica: ej" mevga
ti klevo" to; Parquaivwn o[noma ejxenegkovnto". L’espressione sembra accordarsi
con la gloria Parthorum a cui i Graeci favent nel luogo liviano. Il regno di Mitri-
date, dunque, diventa anche qui, come nel passo di Diodoro attinto da Posidonio,
il discrimine per la creazione di un grande impero partico. In questa prospettiva i
confini della potenza arsacide finiscono col dilatarsi, ben oltre le dimensioni che
vengono loro riconosciute dai noti passi di Strabone e di Pompeo Trogo-Giusti-
no. I Parti infatti governano ta; o{la tranne l’Egitto, il che rappresenta comunque
una deformazione della realtà.
Se così è, dunque, è lecito affermare che Alessandro Poliistore nei Caldaikav
proponeva uno schema di translatio imperii dagli Assiri fino ai Parti assoluta-
mente aberrante, nella prospettiva romana. Certo, rimane il problema della cro-
nologia dell’autore e della cronologia relativa dei computi proposti: la data del
39 o quella del 30 a.C. obbligano a ritenere che il Poliistore sia vissuto fin quasi
al periodo di composizione del passo di Livio da cui si è partiti, il che non è
poi completamente inconciliabile con quanto afferma la Suda riguardo al fatto
che fosse attivo ai tempi di Silla e oltre e con la notizia di Svetonio secondo cui
sarebbe stato maestro del liberto di Augusto Gaio Giulio Igino112. Non è tuttavia
una data imprescindibile nella valutazione che si propone, subordinata agli altri
aspetti che ho inteso invece evidenziare113.
È però difficile determinare se Alessandro Poliistore sia il bersaglio o rientri
direttamente o indirettamente tra i bersagli della polemica di Tito Livio contro i
levissimi ex Graecis114. Più prudentemente si può sostenere che, chiunque si celi
111
Se Mitridate I fu sovrano, come si è detto, circa tra il 171 e il 138 a.C., ben più aleatoria è la da-
tazione di Arsace I: secondo il Wolski (ad es., in L’empire des Arsacides, cit., 49 ss., 200), potrebbe
aver regnato fino al 217 a.C.
112
Suda s.v. jAlevxadro~ oJ Milhvs io~; Suet. De gramm. 20 (= FGrHist 273 TT 1, 3).
113
Contro la tendenza a fissare l’attività di Alessandro Poliistore alla prima metà del I secolo a.C.
cfr. già G.F. Unger, Wann schrieb Alexander Polyhistor?, «Philologus» 43, 1884, 528-531; Id.,
Die Blüthezeit des Alexander Polyhistor, ibid. 47, 1889, 177-183: secondo questo studioso Agazia
avrebbe frainteso Alessandro Poliistore, il quale, descrivendo l’Herrschaft macedone non avrebbe
inteso indicarne la conclusione al 39 a.C. (giacché persisteva ancora il regno tolemaico); questa
data sarebbe solo indicativa per determinare la fine della sua opera. Sul problema della cronologia,
oltre alle osservazioni di F. Jacoby nel suo Kommentar a FGrHist 273, cfr. anche, più recentemente,
Christes, Skaven und Freigelassene, cit., 40; Roller, The World of Juba II and Kleopatra Selene,
cit., 65, che propende decisamente per una cronologia lunga di Alessandro Poliistore, arrivando
ad affermare che costui visse i suoi ultimi anni «in Octavian’s household» ed ebbe contatti con gli
ambienti eruditi romani (cfr. 159, 187, circa i possibili rapporti con Giuba di Mauretania).
114
Lo storico patavino, a quanto risulta, conosceva e addirittura seguiva quanto affermato dal Polii-
store (probabilmente nella sua opera Su Roma), a proposito dell’origine del nome Tevere; vd. Serv.
Dan. Verg. A VIII 330 (= FGrHist 273 F 109; cfr. Liv. I 3, 8).
La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I sec. a. C. 115

sotto questa espressione (plausibilmente anche lo stesso Timagene e il suo Sui


re), trovava nella tradizione, già a partire da Posidonio, se non dallo stesso Apol-
lodoro, una rappresentazione dei Parti e dei suoi sovrani almeno in parte positiva.
Tale rappresentazione ben si prestava ad un utilizzo, chiaramente strumentale, in
chiave antiromana, anche in termini di translatio imperii, concetto peraltro assai
caro agli autori greci filoromani (come testimonia inequivocabilmente Dionigi di
Alicarnasso, nei capitoli iniziali delle sue Antichità romane)115.

115
In questo modo credo possano essere superate alcune obiezioni di chi si oppone all’ipotesi di
Timagene come autore; cfr. H.R. Breitenbach, Der Alexanderexkurs bei Livius, MH 26,1969, 146-
157, partic. 157: «doch möchte ich es sehr in Frage stellen, ob ein in Rom lebender Grieche es
wagen durfte, direkt antirömische, den Landesfeind, die Parther, begünstigende Äußerungen zu pu-
blizieren. Einige freche Bonmots eines griechischen Enfant terrible mochte augusteische Toleranz
ignorieren, aber antirömische Publizistik war eine andere Sache».
TUCH E CARAKTHR DEL SOVRANO
TRA IRANISMO ED ELLENISMO
NELLE ISCRIZIONI DI ANTIOCO I DI
COMMAGENE
Antonio Panaino
Università di Bologna — Sede di Ravenna

In una serie di lavori precedenti a questo studio (ed ai quali rimando per molte
delle affermazioni e dei riferimenti testuali qui solo cursoriamente richiamati)1
ho cercato di mettere in luce alcuni aspetti, a mio avviso assolutamente fraintesi,
dell’ideologia regale iranica, con particolare attenzione – sebbene non esclusi-
vamente – per quelli pertinenti all’epoca sasanide, i quali risultano essenziali
per una valutazione critica dell’effettiva (o meno) divinizzazione degli Šāhān
Šāh. Credo, in proposito, di aver potuto dimostrare che l’uso del termine medio-
persiano bay (bag in partico), dall’ambiguo significato di «dio», ma in quanto
«ripartitore, distributore della parte», accezione peraltro ancora conservata nel
pahlavi dei libri sino in epoche tarde, ove le stelle fisse sono considerate dei
bayān («distributori») che ripartiscono (baxtand) la parte (baxt) assegnata dal
destino, sia da ricostruire con una certa circospezione. Infatti, si deve notare che
giammai i sovrani sasanidi osarono definirsi yazadān, che pure nella versione
greca delle iscrizioni sasanidi sono indicati come qew'n; per il traduttore greco (o
comunque per il cancelliere che fu capace di tradurre la Vorlage regia in greco)
gli yazadān sono qeoiv alla stregua del pahlavi bay, termine che viene reso a sua
volta sistematicamente2 come qeou'. Ciò significa che nel registro semantico e
nel repertorio linguistico della versione greca delle trilingui sasanidi non si dava
apparentemente la possibilità, salvo il ricorso ad un imprestito oppure ad un calco
semantico sull’iranico, di distinguere nettamente gli yazadān, cioè gli «dei» per
eccellenza del Mazdeismo, Ohrmazd in primis, da un bay, che, quindi, può essere
tanto preso per un epiteto divino, quanto per un attributo umano (col senso di «si-

1
The Bagān of the Fratarakas: Gods or «divine» Kings? in C. Cereti - M. Maggi - E. Provasi (eds.),
Religious themes and texts of pre-Islamic Iran and Central Asia: studies in honour of Professor
Gherardo Gnoli on the occasion of his 65th birthday on 6th December 2002, Beiträge zur Iranistik,
Wiesbaden 2003, 265-288; Astral Charachters of Kingship in the Sasanian and Byzantine Worlds,
in Convegno internazionale: La Persia e Bisanzio (Roma, 14-18 Ottobre 2002), Roma 2004, 555-
594; The «Gift» of the «Givers», in J. K. Choksy (ed.), Studies in Honour of Dastur F. Kotwal, in
corso di stampa.
2
Tale termine ricorre sistematicamente in determinazioni epesegetiche.

Gnoli, Muccioli (eds.), Incontri tra culture, Milano 2007, 117-131


118 Antonio Panaino

gnore ripartitore»). Non a caso l’impiego sintattico di bay risulta estremamente


sorvegliato nella prosa sasanide (con rarissime eccezioni3, si noti bene, anche in
tutto il resto del contesto linguistico medio-iranico, compreso quello orientale),
giacché, quando esso occorre posposto ad un nome proprio distingue un essere
divino (paykar ēn ohrmazd-bay «questa è la rappresentazione di Ohrmazd il dio»
(ANRm-b)4, se, invece, anteposto (paykar ēn mā̆zdēsn bay ardašir šāhān šāh
«questa è la rappresentazione del Signore mazdeo Ardašīr» [ANRm-a])5, esso si
riferisce ad un sovrano e, comunque, ad un essere umano6. Ho, altresì, cercato
di dimostrare che la regalità sasanide non ha mai peccato di u{bri~ nell’esaltare
la divinità dei sovrani, che, piuttosto, appaiono, anche secondo le fonti bizantine
relative alla Persia, come esseri divini solo in rapporto agli uomini, ma come
uomini straordinari rispetto agli dei. La complessa ed articolata teologia zoroa-
striana avrebbe, in vero, mal digerito una divinizzazione simile a quella del poli-
teismo greco-romano, poiché, nonostante gli apparenti stilemi politeistici, palesi
nella menzione della moltitudine degli yazadān, Ohrmazd resta sempre il primo e
l’unico vero dio creatore-organizzatore del cosmo, mentre tutte le altre sono solo
deità subordinate (a guisa di campioni di Dio)7 e, nonostante la loro importanza
storica, come nel caso di Mihr o di Anāhīd e Wahrām, appaiono secondarie.
Allo stesso modo, il fatto che i sovrani sasanidi fossero denominati nelle loro
iscrizioni con il complesso titolo di kē čihr az yazadān, tradotto in greco come
ejk gevnou~ qew'n, deve ricevere una più circostanziata discussione; in realtà, tale
designazione può anche essere interpretata come riferita al čihr reale, inteso, non
come in genere è stato fatto, ossia come «seme, stirpe, discendenza», bensì, più
probabilmente, almeno anche alla luce delle fonti armene, come «foggia, viso,
aspetto»8. Tale interpretazione è confortata, oltre che da alcune fonti esterne (ad

3
Degno di nota per il suo carattere eccezionale è, ad esempio, l’uso di bay, bagān bagistōm «il più
divino tra gli dei» (in partico manicheo), nonché di yazad, in riferimento esplicito al profeta Mani.
Si veda, sulla questione, C. Leurini, Riedizione di frammenti di inni relativi alla gerarchia della
Chiesa manichea e pubblicazione di inediti, Dottorato di Ricerca in «Società, regalità e sacerdozio
nella metodologia filologica, storica e antropologica (V-XVI sec.)», XV Ciclo, Università di Bolo-
gna, Sede di Ravenna 2005, 51-52, 74, 78-80.
4
M. Back, Die sassanidischen Inschriften, Acta Iranica 18, Téhéran-Liège 1978, 282.
5
Back, Die sassanidischen Inschriften, cit., 281.
6
Cfr. M. Boyce, Varuna the Baga, in Monumentum Georg Morgenstierne, I, Acta Iranica 21, Lei-
den 1981, 59-72, partic. 65-66.
7
Rimando sulla questione al mio recente contributo: Per una definizione possibile del «monotei-
smo» mazdaico. Note e considerazioni comparative con i grandi monoteismi giudaico-cristiani, in
M. Perani (a cura di), L’interculturalità dell’ebraismo, Ravenna 2004, 15-34.
8
Vd. ancora Panaino, The Bagān of the Fratarakas, cit., 279-281; Id., Astral Charachters of King-
ship, cit., 565-566, nonché Pahlavi gwcyhl: Gōzihr o Gawčihr?, in M. Bernardini e N. L. Tornesello
(eds.), Scritti in onore di G. D’Erme, Napoli, 2005, 795-826.
Tuvch e carakthvr del Sovrano 119

esempio armene)9, anche e soprattutto dal fatto che nell’iconografia monumen-


tale gli Šāhān Šāh sono rappresentati in dimensioni ed in posizioni speculari, ma
del tutto equipollenti a quelle divine; non a caso l’unica distinzione possibile tra
dio e re si lascia evincere dalla diversa foggia della corona o da alcuni attributi e
particolari minori, che ritroviamo, almeno in parte, anche nella Commagene. È
chiaro che, quindi, il sovrano si presenta come un essere sovrumano, di fattezze
e aspetto simili a quello di un dio, che d’altro canto rappresenta sulla terra, do-
vendo perpertuarne il culto a capo di una Chiesa organizzata, ma, soprattutto, con
l’obbligo di perseguirne il piano antidemoniaco nella realtà storica in attesa del
trionfo finale delle forze del bene. Ci troviamo, pertanto, di fronte ad un’ideolo-
gia regale speculare, anche per diversi aspetti concernenti la funzione di kosmo-
kravtwr del sovrano, a quella del basileuv~ bizantino, la «cui cristomimesi» non
si tradusse mai in una vera e propria divinizzazione, nonostante l’imbarazzo che
essa ha potuto recare a non pochi studiosi di formazione confessionale, come ha
ben sottolineato A. Carile10.
Sulla scorta di queste premesse ho anche rilevato che la semplice comparazio-
ne tra il titolo di bay e quello di qeov~ appare impropria, se non si tiene conto sia
dei diversi campi semantici assunti nelle rispettive lingue e culture da questi tito-
li, sia della presenza latente di un terzo elemento, ovvero quello del latino divus,
che a sua volta resta in una posizione asimmetrica rispetto ai due precedenti. Se,
infatti, divus rimanda ad un sovrano divinizzato post mortem, diverso è storica-
mente l’uso seleucide, solo in parte anticipato dallo stesso Alessandro Magno,
di qeov~, che presuppone l’idealizzazione, in un contesto politico-religioso non
strettamente vincolato da una teologia rigorosa come quella cristiana e quella
mazdaica, fatto già sottolineato dal Nock11, di una figura sovrumana a cui viene

9
Secondo la versione di Movsēs Xorenac‘i (I 9), dello stile epistolare iranico, su cui si è soffermato
J. Russell, The Scepter of Tiridates, «Le Muséon» 114, 2001, 187-215, partic. 190, n. 11; vd. sem-
pre Panaino, Astral Charachters of Kingship in the Sasanian and Byzantine Worlds, cit., 562.
10
A. Carile, La sacralità rituale dei BASILEIS bizantini, in F. Cardini - M. Saltarelli (a cura di),
Adveniat Regnum. La regalità sacra nell’Europa cristiana, Genova 2000, 65-117, partic. 108-110;
Id., Le insegne del potere a Bisanzio, in La corona e i simboli del potere, Rimini 2000, 65-124,
partic. 105.
11
A. D. Nock, Conversion: The Old and the New in Religion from Alexander the Great to Augusti-
ne of Hippo, Oxford 1981. Si vedano, inoltre, i più recenti studi di P. Debord, Le culte royal chez
les Séleucides, in L’Orient méditerranéen de la mort d’Alexandre aux campagnes de Pompée. Cités
et royaumes à l’époque hellénistique. Actes du colloque de la SOPHAU, Rennes, 4-6 avril 2003,
Rennes 2003, 281-308; B. Virgilio, Epigrafia e culti dei re seleucidi, in P. Xella - J.-A. Zamora (a
cura di), Epigrafia e storia delle religioni: dal documento epigrafico al problema storico-religioso,
Roma, Escuela Española de Historia y Arqueología en Roma, 29 maggio 2002, SEL 20, Verona
2003, 39-50; P. van Nuffelen, Le culte royal de l’empire des Séleucides: une réinterpretation, «Hi-
storia» 53, 2004, 278-301.
120 Antonio Panaino

tributato un Herrscherkult12. A ciò si deve, inoltre, aggiungere, a quanto abbia-


mo visto, un terzo elemento a sé stante, ovvero proprio quello del mp. bay, che
a sua volta si contrapponeva a yazad. Che i Persiani possano aver tratto qualche
ispirazione dai Seleucidi è, infatti, possibile (magari attraverso un qualche raro
precedente partico che deve, però, essere considerato come di scarso impatto),
ma di certo, sul piano del linguaggio politico-teologico, essi ben distinsero fun-
zioni e prerogative di un bay umano da quelle di uno yazad propriamente divino,
anche se non deve essere escluso un certo gioco deliberato nel tradurre politica-
mente, secondo il linguaggio dei nemici, un proprio titolo. Questa dicotomia tra
bay e yazad di certo non poteva essere resa in greco, né trova corrispondenza
nel linguaggio politico-religioso romano imperiale tanto in lingua latina quanto
in lingua greca. Se mai al traduttore interessava rendere, come si è già rilevato,
politicamente, ossia in modo comprensibile per un occidentale, il senso più facile
e piatto del mp. bay; di fatto, per un funzionario romano operante sulla frontiera
orientale nulla di meno strano sarebbe stato il fatto di sapere che anche i maestosi
sovrani sasanidi fossero dei qeoiv o dei divi, anche se poi, come sappiamo, il senso
di tali titoli rimandava a concezioni alquanto differenti da quelle iraniche e per
giunta addirittura diverse tra loro.
Per queste ragioni, il caso della Commagene di Antioco I offre il destro per me-
glio comprendere alcune delle complesse dinamiche sia di interazione ma anche
di differenziazione culturale determinatesi nell’incontro, non sempre ostile, tra
mondo iranico occidentale ed ellenismo orientale, un sinecismo, in questo caso,
certamente gravido di significati ed implicazioni molteplici. Infatti, la Commage-
ne palesa l’esito di un duplice fenomeno, quello dell’ellenizzazione dell’elemen-
to autoctono, anche iranico, ma, di converso, l’iranizzazione, almeno parziale,
dell’elemento ellenistico. Le iscrizioni di Antioco I ed i culti in esse attestati, oltre
che l’esplicita menzione di una triade divina greco-iranica (Zeus Oromasdes, Mi-
thras Helios Hermes, Artagnes Herakles Ares), sulla quale molto si è già scritto13
e di cui non intendo trattare diffusamente in questa sede, costituiscono una fonte
di continuo interesse e ci impongono una sorta di sfida concettuale ininterrotta.
Lo stesso dicasi per i problemi concernenti il celeberrimo «oroscopo» di Nemrud

12
Si veda, in particolare, lo studio di S.R.F. Price, Gods and Emperors: the Greek Language of the
Roman Empire, JHS 104, 1984, 79-95.
13
Vd., e.g., J. Duchesne-Guillemin, Iran and Greece in Commagene, in Études Mithriaques. Actes
du 2e Congrès International, Téhéran di 1er au 8 septembre 1975, Téhéran-Liège 1978, 187-199;
Id., Iran und Griechenland in der Kommagene, Xenia 12, Konstanz 1984 (versione tedesca del pre-
cedente articolo); Gh. Gnoli, Politica religiosa e concezione della regalità sotto gli Achemenidi, in
Gururājamañjarikā. Studi in onore di G. Tucci, I, Napoli 1974, 24-88, 38-39. Si tenga conto della
complessa discussione offerta da M. Boyce, in M. Boyce - Fr. Grenet, A History of Zoroastrianism,
III, Zoroastrianism under Macedonian and Roman Rule, With a Contribution by R. Beck, Leiden
1981, 308-360.
Tuvch e carakthvr del Sovrano 121

Dagh, che, pur costituendo il primo tema astrologico a noi tràdito (in veste epi-
grafica) in lingua greca14, sembra piuttosto perpetuare una tradizione di origi-
ne mesopotamica, come ha sottolineato D. Pingree15, in quanto esso rappresenta
probabilmente il manifestarsi di un omen celeste (corrispondente alla presenza di
determinati pianeti nel segno del Leone) in coincidenza con il riconoscimento da
parte dei Romani del potere di Antioco come sovrano della Commagene, anziché
rappresentare un tema natale di carattere prettamente individuale.
Tra i molti aspetti meritevoli di attenzione presenti in tali fonti16, ed in partico-
lare nell’iscrizione BEc, il cui testo è stato recentemente ricostituito con impor-
tanti apporti da Crowther e Facella17, ve ne sono alcuni sui quali mi permetterò di
attrarre la vostra attenzione. La presenza del termine qeov~ è attestata nell’incipit
delle iscrizioni di Antioco (l. 2) per indicare il Basileu;~ mevga~, ma anche la ma-
dre del sovrano, la regina Laodike, è qui definita qeav (qea'~). Tale terminologia
non ha nulla di antico iranico, né di achemenide, giacché mai i sovrani dell’antica
Persia si sono fatti appellare baga-, né nelle versioni in accadico il loro nome è
contrassegnato dal determinativo accadico ilu, come, invece, avviene nel caso dei
teonimi. Al contrario, le fonti classiche (si veda, e.g., il caso citato da Plutarco
nella Vita di Temistocle, XXVII [Loeb], 3)18 indicano con chiarezza che il sovra-
no persiano era considerato come una «icona di dio» [wJ~ eijkovna qeou'], ma non

14
Vd. O. Neugebauer - H.B. van Hoesen, Greek Horoscopes, Philadelphia 1959, 14-16. In un altro
lavoro intendo discutere il recente tentativo di M. Crijns (The Lion horoscope proposal for a new
dating, incluso in E. M. Moormann and M. J. Versluys, « Babesch. Bulletin Antieke Beschaving»,
77, 2002, 73-111, partic. 97-101) di antedatare al 14 luglio 109 a.C. (anziché al 7 luglio 62 a.C.
come proposto da Neugebauer).
15
D. Pingree, From Astral Omens to Astrology. From Babylon to Bīkāner, Roma 1997, 26.
16
L. Jalabert - R. Mouterde, Inscriptions grecques et latines de la Syrie. Tome Premier. Comma-
gène et Cyrrhestique, Nos 1-256, Paris 1929; H. Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kom-
magene im Lichte neuer Inschriften-Funde, Göttingen 1964; cfr. B. Virgilio, Lancia, diadema e
porpora. Il Re e la regalità ellenistica, Pisa 20032, 251-262; si veda anche J. Waldis, Sprache und
Stil der großen griechischen Inschrift vom Nemrud-Dagh in Kommagene (Nordsyrien), Heidelberg
1920. Importante, anche se molto criticato soprattutto per il tentativo di interpretare i culti della
Commagene come mitraici, il lavoro di H. Waldmann, Die kommagenischen Kultreformen unter
König Mithridates I Kallinikos und seinem Sohne Antiochos I, EPRO 34, Leiden 1973.
17
Vd.C. Crowther - M. Facella, New Evidence for the Ruler Cult of Antiochus of Commagene from
Zeugma, in G. Heedemann - E. Winter (Hrsgg.), Neue Forschungen zur Religionsgeschichte Klei-
nasiens, Bonn 2003, 45-53.
18
Vd. P. Calmeyer, Zur bedingten Göttlichkeit des Grosskönigs, AMI N.F. 14, 1981, 55-60, partic.
56. Mi sembra opportuno ricordare che la fonte di riferimento per Plutarco fu Fania di Ereso, pe-
ripatetico del IV sec., autore attento ai rapporti tra Greci e Persiani, su cui si veda ora F. Muccioli,
«Fania di Lesbo, un filosofo e assai esperto di ricerca storica» (Plut., Them., 13, 5). Plutarco e
i rapporti tra biografia, storia e filosofia etica, in The Unity of Plutarch’s Work: Moralia in the
Lives, Features of the Lives in the Moralia, 7th International Plutarch Society Congress, Rethumno,
May 2005, in corso di stampa.
122 Antonio Panaino

era affatto venerato o indicato come un dio vero e proprio. Quanto mi sembra ol-
tremodo degno di attenzione sta, invece, in un’affermazione di Antioco, riportata
subito dopo la menzione della già citata triade divina greco-iranica, nella quale
egli sostiene di aver eretto non solo le immagini degli dei, ma anche «la rappre-
sentazione della mia propria forma ricevendo le benevolenti mano destre degli
dei» [BEc, 19-2119: ... ajgavlmasi daimonivoi~ carakth'ra morfh'~ ejmh'~ decov-
menon qew'n eujmenei'~ dexia;~ parevsthsa]. Ora, il riferimento al carakthvr del
sovrano, in N 60-61 definito suvnqronon carakth'ra morfh'~ ejmh'~20, e l’esplicita
menzione della sua «forma» affiancata (come in trono) a quella delle divinità,
viene ad illuminare o, comunque, a meglio circostanziare alcune delle premesse
su cui, in epoca sasanide, si sarebbe sviluppata l’ideologia regale del sovrano
come essere dalla figura simile a quella degli dei, ovvero divinamente determi-
nata a guisa di icona umana paragonabile alla superiore sfera degli esseri celesti.
Non posso, a questo punto, non menzionare ancora una volta una famosa lettera
inviata da Cosroe I a Giustiniano, che viene citata da Menandro Scolastico21, in
occasione della firma della «Pace dei 50 anni» (sancita nel 562); in tale epistola
il sovrano persiano si presenta non solo come qei'o~ «divino» (e non come qeov~),
ma egli addirittura dichiara di essere o{~ ejk qew'n carakthrivzetai «che è fatto
a immagine degli dei». L’uso di un verbo tecnico come carakthrivzw «incido
un’immagine su di una moneta o su di un sigillo» e, quindi, l’esplicito rimando
al gr. carakthvr «incisione (su moneta)»22, vanno direttamente confrontati con il
riferimento al carakth'ra morfh'~ ejmh'~ contenuto nell’iscrizione di Antioco. La
giustapposizione di un’immagine del sovrano a quella degli dei assume così un
significato particolare nella storia della regalità antica e tardo antica; essa risulta
connessa alla «fortuna propria» (tuvch~ ejmh'~) del sovrano, menzionata poche
righe prima (cfr. BEc, l. 17-18). Il fatto che Antioco I sentisse la necessità di en-
fatizzare (e forse giustificare) la presenza della propria immagine unita a quella
degli dei, che, con benevolenza, gli hanno stretto la destra, con le loro mani cele-
sti (cei'ra~ oujranivou~; cfr. BEc, l. 22) e che, in precedenza, così opportunamen-

19
Cfr. Crowther - Facella, New Evidence for the Ruler Cult of Antiocus of Commagene from Zeug-
ma, cit., 46, 47.
20
Cfr. Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 57.
21
Cfr. C. Müller, Fragmenta Historicorum Graecorum, IV, Paris 1851, 209; R.C. Blockley, The
History of Menander the Guardsman. Introductory essay, Text, Translation, and Historiographical
Notes, Liverpool 1985, 62-63; A. Christensen, L’Iran sous les Sassanides, Copenhagen 1944, 260;
N. Oikonomides, Correspondence between Heraclius and Kavādh-Široe in the Paschal Chroni-
cle (628), «Byzantion» 41, 1971, 269-281, partic. 274-276. Sulla questione si rimanda a Panaino,
Astral Charachters of Kingship in the Sasanian and Byzantine Worlds, cit., 560-562.
22
H.G. Liddell - R. Scott, Greek-English Lexicon, Oxford 19409, 1977.
Tuvch e carakthvr del Sovrano 123

te gli avevano prestato assistenza, suggerisce implicitamente che anche questo


sovrano certamente non pensasse di essere un «dio» esattamente alla stregua di
Zeus Oromasdes e degli altri precedentemente citati.
La compresenza di elementi iranici, così forte nella menzione di rituali da
compiersi da parte di sacerdoti in costume persiano e, quindi, verisimilmente di
formazione religiosa genericamente mazdaica, deve farci riflettere sull’intricato
mélange greco-iranico della Commagene. Che una tale situazione di contamina-
zione biunivoca, anche in sede cultuale, non costituisca un fatto episodico appare
confermato, come cortesemente mi ha fatto notare il collega F. Muccioli23, dal-
l’interessante circostanza, menzionata da Appiano (Mithr. 65), secondo la quale
Mitridate VI, nel 81 a.C., festeggiando una vittoria sui Romani, avrebbe celebrato
sacrifici a Zeus Stratios (che si presenta come un dio greco) conformemente al
rituale seguito dai Re Persiani a Pasargadae24. Tale riferimento mostra come il
culto commagenico non si trovi affatto ad essere isolato. Notiamo, inoltre, che
non solo Antioco, alcuni dei suoi antenati, ma diverse divinità di Nemrud Dagh,
indossano la tiara persiana, mentre Zeus-Oromasdes e Apollo-Mithra impugnano
il baresman25, ovvero il fascio di rami indispensabile nel rituale mazdaico e ben
attestato anche nei rilievi sasanidi per denotare e distinguere gli dei rispetto ai
sovrani.
Ricordiamo a proposito della dexiosis di Antioco con le divinità, su cui mol-
tissimo è stato già scritto, che tale rito presenta aspetti molto significativi26 sia
in ambiente greco-romano sia iranico; in quest’ultimo contesto essa ricorre sia
nella ritualità sacerdotale, sia nelle pratiche devozionali dei laici, ove è attestata
una sua variante in cui una persona prende tra le sue due mani la destra dell’al-
tro, pronunciando una formula in medio-persiano detta hamāzōr, per via della
sua prima parola: hamāzōr hamā ašō b(aw)ēm «possiamo noi essere una (sola)
forza, una sola verità»27. Si noterà, come ha già fatto Young28, che nella dexiosis
la divinità è sempre collocata alla destra dell’osservatore, esattamente come nei
rilievi sasanidi, nei quali Ohrmazd talora trasferisce l’anello regale al sovrano,
posto a sinistra.

23
Comunicazione epistolare del 22-3-2005.
24
Cfr. anche Boyce - Grenet, A History of Zoroastrianism, cit., 293-294.
25
Vd. Boyce, in Boyce - Grenet, A History of Zoroastrianism, cit., 331.
26
Cfr. ora G. Petzl, Antiochos I. von Kommagene im Handschlag mit den Göttern. Der Beitrag der
neuen Reliefstele von Zeugma zum Verständnis der Dexioseis, in Heedemann - Winter (Hrsgg.),
Neue Forschungen, cit., 81-84.
27
Boyce, in Boyce - Grenet, A History of Zoroastrianism, cit., 317-318.
28
J. H. Young, Commagenian tiaras: royal and divine, AJA 68, 1964, 29-34, partic. 33.
124 Antonio Panaino

La stessa menzione del crovno~ a[peiro~, nel testo introduttivo al nomos della
grande iscrizione (A 83-84)29, ma anche quella del crovno~ aijwvnio~ in N 1030,
sembra, almeno per alcuni aspetti, poter alludere31 anche al concetto divinizzato
di Zurvan akarana, il tempo senza confini, che è essenziale nella cosmologia zo-
roastriana32, sebbene tale interpretazione presenti ancora alcuni lati incerti, sotto-
lineati da Duchesne-Guillemin33. Certamente degno di attenzione è il riferimento
ai troni celesti di Zeus-Oromasdes (pro;~ oujranivou~ Dio;~ jWromavsdou qrovnou~
[N 41-42])34, che ricorda la descrizione del paradiso zoroastriano, dove, nel cielo
più alto, siede Ohrmazd in trono, affiancato dagli Amahraspand, i «benefici im-
mortali»35. Antioco puntualizza il fatto di aver eretto lo hierothesion vicino a tale
dimora divina e soprattutto menziona la futura presenza del sw'ma morfh'~ ejmh'~
(N 40-41)36, posto nel santuario, dopo aver inviato la sua yuchv verso il trono ce-
leste37; si ricordi a questo proposito l’ascesa della natura incorruttibile dell’anima
(yuch'~ fuvs in a[fqarton) del padre di Antioco, Mitridate Kallinikos, eij~ ajivdion

29
Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 70; Virgilio, Lancia, diadema e
porpora, cit., 253-259.
30
Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 50.
31
Vd. Boyce, in Boyce - Grenet, A History of Zoroastrianism, cit., 332-333.
32
Sullo Zurvanismo si veda soprattutto R.Ch. Zaehner, Zurvan, a Zoroastrian Dilemma, Oxford
1955 (New York 19722). Si tenga conto del fatto che Gh. Gnoli, Considerazioni sulla concezione
del tempo e sul dualismo nell’Iran antico, in Il Tempo e l’Uomo. Atti della IX Settimana di Semi-
nari Interdisciplinari [Arcavacata 11 - 14 giugno 1990], Cosenza 1991, 9-16), propone un’origine
abbastanza antica per tale dottrina, mentre per Ph. Gignoux (La conception du temps dans l’Iran
ancien, in Cinquième et sixième Colloques d’Histoire des Religions, Orsay 1981, 101-115) e per
Sh. Shaked (The Wisdom of the Sasanian Sages, Boulder, Colorado 1979, XXXIV) si tratterebbe
di un’innovazione più recente. Cfr. anche A. Panaino, Cronologia e storia religiosa nell’Iran zo-
roastriano, in E. Gabba (a cura di), Presentazione e scrittura della Storia: Storiografia, epigrafi,
monumenti. Atti del Convegno di Pontignano (aprile 1996), Biblioteca di Athenaeum 42, Como
1999, 127-143. Sulle possibili ascendenze di origine indo-iranica di tale dottrina, come conferma
la letteratura indiana dedicata a Kāla, cfr. J. Scheftelowitz, Die Zeit als Schicksalgottheit in der
indischen und iranischen Religion, Stuttgart 1929. Sono da tenere inoltre presenti le influenze delle
tradizioni astromantiche di origine mesopotamica, alle quali si sono aggiunti elementi ellenistici
— in particolare le speculazioni sul concetto di Aijwvn (cfr. H.F. Junker, Über iranische Quellen der
hellenistischen Aion-Vorstellung, Leipzig 1923; E. Degani, Aijwvn da Omero ad Aristotele, Padova
1961) — e gnostici (cfr. Gh. Gnoli, La religione zoroastriana [Parte II], in G. Filoramo [a cura di],
Storia delle religioni. 1. Le religioni antiche, Roma-Bari 1994, 499-565, partic. 544-545).
33
Duchesne-Guillemin, Iran and Greece in Commagene, cit., 193.
34
Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 54.
35
Per la concezione dei cieli nello Zoroastrismo vd. A. Panaino, Uranographia Iranica I. The Three
Heavens in the Zoroastrian Tradition and the Mesopotamian Background, in Au carrefour des
religions. Mélanges offerts à Philippe Gignoux, Bures-sur-Yvette 1995, 205-225.
36
Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 54.
37
Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 121: vd. Boyce, in Boyce - Grenet,
A History of Zoroastrianism, cit., 333.
Tuvch e carakthvr del Sovrano 125

makavriwn oi\kon «nella casa eterna dei beati», in A 34-3538. Che tale dottrina sia
iranica e non greca sembra pacificamente ammesso dalla maggior parte degli stu-
diosi che hanno affrontato il problema39, senza per questo voler ricondurre tutte
le cosiddette Himmelsreisen ad un pattern esclusivamente iranico. Per quanto la
presenza di un cadavere sia apparentemente inconciliabile con l’ortodossia zo-
roastriana40, che ha sempre praticato l’esposizione dei corpi (seguita dalla raccol-
ta in ossari dei pietosi resti al fine di non contaminare gli elementi della natura),
ricordiamo che la stessa tradizione achemenide non sembra affatto aver prediletto
tale prassi «ortodossa», come testimoniano i grandi complessi funerari presso i
siti monumentali di Persepoli e di Naqš-i Rustam.
La promessa di una «vita buona» (bivon ajgaqo;n [A 241])41, ossia felice e giu-
sta, per coloro che manterranno il culto di Antioco, con l’assicurazione che Zeus-
Oromasdes ascolterà le loro pie preghiere, sembra evocare il possesso dello stato
di šiyāti- (f.)42 «gioia, quiete» in vita e la beatitudine dell’artāvan-, ossia del
«giusto» dopo la morte, menzionata in una celebre iscrizione persiana di Serse
a Persepoli (XPh, 47-48, 54-56)43. L’idea stessa di felicità, in questo caso, però,
connessa al potere ed al regno, appare dall’iscrizione di Paikuli (cap. 51) di Nar-
seh (293-303)44. In questo caso, si fa esplicito riferimento all’atto di deposizione
dell’usurpatore, Wahrām III, che si slega «il grande diadema» (wuzurg dēdēm
wišādan), a cui conseguono la perdita del «trono» (gāh), della «gloria» reale
(xwarrah) e dello «onore» (padixšat)45. Il fatto che gli uomini troveranno in Zeus-
Oromasdes un benevolente compagno di combattimento (sunagwnisthv~) nel-

38
Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 37, 190; Virgilio, Lancia, diadema
e porpora, cit., 252, 258.
39
A.D. Nock, suvnnao~ qeov~, HSCPh 41, 1930, 1-62, partic. 27; Boyce, in Boyce - Grenet, A Hi-
story of Zoroastrianism, cit., 333.
40
Vd. Boyce, in Boyce - Grenet, A History of Zoroastrianism, cit., 342.
41
Cfr. Boyce, in Boyce - Grenet, A History of Zoroastrianism, cit., 334-335. Cf. Dörrie, Der Kö-
nigskult des Antiochos von Kommagene, cit., 121; Virgilio, Lancia, diadema e porpora, cit., 257,
262.
42
Vd. A. Piras, A proposito di antico-persiano šiyāti, «Studi Orientali e Linguistici» 5, 1994-1995,
91-97; Id., The ‘Quiet of the Worship’. An Avestan-Manichaean Middle Persian parallel, «East and
West», 49/1-4, 1999, 281-284.
43
Vd. Gh. Gnoli, Ašavan. Contributo allo studio del libro di Ardā Wirāz, in Gh. Gnoli - A.V. Rossi
(a cura di), Iranica, Seminario di Studi Asiatici. Serie Minor X, Napoli 1979, 387-452.
44
P.O. Skjærvø, The Sassanian Inscription of Paikuli. Part. 3.1. Restored text and translation; Part.
3.2. Commentary, Wiesbaden 1983, Part 3.1, 51-52; Part 3.2, 52-53.
45
Vd. A. Piras, La corona e le insegne del potere nell’impero persiano, in La corona e i simboli del
potere, Rimini 2000, 7-29; Id., Sulla gioia e sul diadema. Interazioni culturali fra Zoroastrismo,
Manicheismo e Vicino Oriente, in Varia Iranica, Orientalia Romana 7, Roma 2004, 183-211.
126 Antonio Panaino

le loro azioni giuste, secondo A 248-24946 (eujmenh' te sunagwnisth;n ajgaqw'n


e[rgwn), ma anche secondo le versioni di Arsameia e Gerger47, riprende l’idea
mazdaica della vita come luogo di battaglia contro le forze devianti del male, e
quindi ci troviamo in presenza, come ha già presupposto Duchesne-Guillemin48,
di un’allusione ai combattimenti nella sfera della vita morale. Inoltre, si è fatto
notare che la eujsebiva, variante dialettale di eujsevbeia (che pur occorre nelle
iscrizioni della Commagene) «la cura» o «la pietà», menzionata da Antioco, non
ha solo un’interpretazione greca49, ma deve essere considerata alla luce del fatto
che tale termine corrisponde alla traduzione data dai Greci d’Aracosia del dham-
ma (cfr. scr. dharma-) delle iscrizioni di Aśoka Maurya50, per il quale, invece, gli
Zoroastriani avevano utilizzato l’aramaico qsyt’51, verisimilmente per rendere il
concetto di aṣ̌a-, «la verità e l’ordine cosmico»52. Tra l’altro, è bene ricordare che
l’ eujsevbeia assunse un’importanza assolutamente rimarchevole nel vicino regno
di Cappadocia, fatto che pare di notevole importanza per meglio circostanziare la
forza di tale concetto in quest’area culturale e politica. Le connotazioni religiose
e speculative di questo termine, che solleva fortissime implicazione di ordine
etico-morale e religioso, soprattutto in contesto iranico (essendo, almeno in parte,
differentemente orientato l’impianto vedico, ove comunque è ben attestato il lem-
ma ṛtá-; cfr. a.p. ạrta-), sono estremamente significative sul piano del dualismo
etico mazdaico. Non a caso Antioco dichiara in N 11-2353: «Io credo che la pietà è
non solo per noi umani il possesso più sicuro di tutto ciò che possiamo possedere,
ma anche la gioia più dolce ( jEgw; pavntwn ajgaqw'n ouj movnon kth's in bebaiotav-
thn ajlla; kai; ajpovlausin hJdivsthn ajnqrwvpoi~ ejnovmisma th;n eujsevbeian [N
11-14])54 (...). «Lungo tutta la mia vita io sono stato visto da tutta la gente del mio
regno come uno che tiene la pietà come sua più vera difesa e come sua inimita-
bile goia» (par j o{lon te to;n bivon w[fqhn a{pasi basileiva~ ejmh'~ kai; fuvlaka

46
Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 124; Virgilio, Lancia, diadema e
porpora, cit., 257, 262.
47
Cfr. Boyce, in Boyce - Grenet, A History of Zoroastrianism, cit., 334.
48
Duchesne-Guillemin, Iran and Greece in Commagene, cit., 191.
49
Vd. Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 50-52; cfr. Boyce, in Boyce
- Grenet, A History of Zoroastrianism, cit., 344.
50
Cfr. D. Schlumberger, Une bilingue gréco-araméenne d’Asoka, JA 1958, 1-7; L. Robert, Obser-
vations sur l’inscription grecque, in idem, 7-18; vedi anche G. Pugliese Carratelli (a cura di), Gli
editti di Aśoka, Milano 2003, 117, 120.
51
A. Dupont-Sommer, L’inscription araméenne, JA, 1958, 19-35, partic. 20, 23.
52
Vd. la discussione in A. Panaino, Rite, parole et pensée dans l’Avesta ancien et récent, ÖAW,
Phil-hist. Klasse, Sitzungsberichte 716. Band, Wien 2004, 76-95.
53
Vd. Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 51.
54
Vd. Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 51.
Tuvch e carakthvr del Sovrano 127

pistotavthn kai; tevryin ajmivmhton hJgouvmeno~ th;n oJs iovthta [N 16-20])55. Per
queste ragioni, egli aggiunge, di essere «sfuggito, contro tutte le aspettative, da
gravi pericoli» (Di’ a} kai; kinduvnou~ megavlou~ paradovxw~ dievfugon [N 20-
21])56, vivendo a lungo ed evitando situazioni disperate. Per quanto non si possa
escludere la presenza di un topos letterario e politico relativo al possesso acquisi-
to del regno come un atto di riconoscimento divino per la rettitudine del sovrano,
che viene per così dire scelto e preferito dagli dei, secondo un modulo ben noto
anche nelle iscrizioni achemenidi, resta il fatto che la «pietà» è uno strumento
fondante la dignità regale.
Alquanto intricata appare, invece, l’interpretazione della concezione della tuv-
ch di Antioco I. In questo caso le teorie avanzate sono diverse e discordanti:
che, nell’ideologia regale del mondo iranico, la tuvch potesse corrispondere al
xv̻arǝnah-57, il farn o xwarrah [GDE] delle fonti pahlavi, quella sorta di aureo-
la, di nembo luminoso, spesso connesso anche al diadema, che distingue dei ed
uomini straordinari e che nel sovrano si associa per alcuni tratti simbolici anche
alla corona (ed in particulare al suo korymbos oppure alle ali tanto dell’aquila,
associata a Wahrām, il dio della vittoria, oppure del falcone Varǝgna), nonché al
concetto di fortuna regia, risulta un fatto alquanto assodato58. Tale xwarrah sarà
interpretato esplicitamente nelle fonti islamiche come «la gloria del re». Non di-
menticheremo, inoltre, la simbologia del diadema regio, spesso concesso da una
Nike nei rilievi partici, conformemente ai canoni dell’arte ellenistica, né il fatto
che tale concezione trovasse una certa eco anche in contesto manicheo, come nel
caso dell’esplicito riferimento all’incoronazione di Šābuhr I (Codice Manicheo di
Colonia, 18, 7)59, riguardo alla quale si puntualizza che il sovrano «cinse il gran-
dissimo diadema» (diavdhma mevgiston ajnedhvsato)60. Già il Nock61 riteneva che
fosse impossibile determinare il preciso equivalente persiano della neva tuvch di

55
Ibid.
56
Ibid.
57
Sull’argomento si veda la sintesi offerta da Gh. Gnoli, s.v. Farr(ah), in EncIr IX, 1999, 312-
319.
58
Sull’importanza della tuvch ‘personale’ dei sovrani in età ellenistica, si veda G. Sfameni Gaspar-
ro, Daimôn and tuchê in the Hellenistic religious experience, in P. Bilde - T. Engberg-Pedersen - L.
Hannestad - J. Zahl (eds.), Conventional Values of the Hellenistic Greeks, Aarhus 1997, 67-109.
Cfr. anche D. P. Orsi, «Il daimon del Re», QS 13, 1981, 259-267.
59
Vd. ora L. Cirillo, La Vita di Mani. Il Codice greco di Colonia, in Gh. Gnoli (a cura di), Il Ma-
nicheismo. I, Mani e il Manicheismo, Milano 2003, 46, 47. Cfr. anche W. Sundermann, Shapur’s
Coronation: The Evidence of the Cologne Mani Codex Reconsidered and Compared with Other
Texts, «Bulletin of the Asia Institute» 4, 1990, 295-299.
60
Vd. M.-L. Chaumont, Corégence et avènement de Shāhpuhr 1er, in Mémorial Jean de Menasce,
Louvain 1974, 140, 142; Skjærvø, The Sassanian Inscription of Paikuli, cit., Part. 3.2, 53.
61
Nock, suvnnao~ qeov~, cit., 26.
128 Antonio Panaino

Antioco, suggerendo che di volta in volta essa potesse corrispondere al xv̻arǝnah-,


all’immagine della fravašī (a sua volta messa in relazione da Moulton62 allo ajqav-
nato~ frrontiv~ «il pensiero immortale» di N 64)63, cioè a quella sorta di anima
protettiva del singolo, molto importante nella tradizione zoroastriana, o ancora ad
un daivmwn. Addirittura il Campbell64 ha cercato di identificare la Tuvch della pro-
duttività con uno degli Amǝṣ̌a Spǝṇta, precisamente con Spǝṇtā Armaiti, ma tale
soluzione mi sembra dubbia. Certamente, il fatto che Antioco I dichiari: «E dalla
stessa pietra (scil. con cui sono state fatte le divine immagini degli dei [ajgavl-
mata]), intronizzata tra gli dei graziosi, io ho consacrato l’immagine della mia
forma e quindi permesso alla nuova Tuvch di partecipare degli antichi onori dei
grandi dei» (ajpov te liqeiva~ mia'~ daivmosin ejphkovoi~ suvnqronon carakth'ra
morfh'~ ejmh'~ sunanevqhka kai; tuvch~ neva~ hJlikiw'tin ajrcaivan qew'n megavlwn
timh;n ejpoihsavmhn [N 59-63])65, contiene diversi tratti di possibile origine irani-
ca che mi accingo a discutere. Tra questi bisogna registrare anche il fatto che gli
dei, in particolare Ahuramazdā, in antico persiano, siano «grandi» per eccellenza
(vazarka-); ma soprattutto, nel caso sempre di Ahuramazdā, egli è maqišta- «il
più grande (tra gli dei»). In tale ambito, la menzione congiunta dell’immagine
del sovrano in trono come gli dei e tra di loro, unitamente alla compartecipazione
della nuova Tuvch agli onori divini, rappresenta un tipo di investitura distintiva
del potere regale, che non è affatto estranea alla concezione mazdaica del pote-
re, soprattutto nell’esaltazione del peculiare ruolo del re come essere prescelto
e investito di una luce divina, che lo distingue da tutti gli altri viventi. Il fatto
che il termine farnah- (forma sud-occidentale rispetto all’avestico xv̻arǝnah-) non
compaia nelle iscrizioni achemenidi non significa affatto che tale idea fosse estra-
nea alla regalità achemenide, giacché, e.g., tale tema nominale è attestato rego-
larmente nello Sprachgut dell’onomastica persiana (Vindafarnah-, *Farnadāta-,
*Artafarnah- = ∆Artafevrnh~, etc.)66; inoltre, il topos dell’acquisizione e della
perdita della gloria degli Iranici, presente, ad esempio, nel mito di Yima, l’eroe
civilizzatore per eccellenza della cultura zoroastriana, si ritrova, mutatis mutan-
dis, anche nel De divinatione di Cicerone (I 23, 46) in riferimento alla durata del
regno di Ciro, come ebbero altresì a rimarcare H.S. Nyberg67 e Gh. Gnoli68.

62
J.H. Moulton, Early Zoroastrianism, London 1913, 254 ss.
63
Vd. Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, 57.
64
L.A. Campbell, Mithraic iconography and ideology, EPRO 11, Leiden 1968, 133.
65
Vd. Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 57.
66
Cfr. W. Brandenstein - M. Mayrhofer, Handbuch des Altpersischen, Wiesbaden 1964, 118.
67
H.S. Nyberg, Die Religionen des alten Iran, Deutsch von H. H. Schaeder, Leipzig 1938, 73-75.
68
Gnoli, Politica religiosa, cit., 72.
Tuvch e carakthvr del Sovrano 129

È in questo articolato complesso di categorie e di concetti che si intersecano,


implicando un vero e proprio fenomeno di interculturalità religiosa e spirituale,
che bisogna riflettere sul senso della regalità commagenica.
Allora, il fatto che la grande iscrizione (A 253-256)69 dichiari che i posteri ed i
giusti «sempre troveranno tutte le immagini degli spiriti gentili [pavnta~ te dai-
movnwn eujmenw'n carakth'ra~] come annunciatori senza inganni di una vita felice
e come compagni di combattimento nelle buone imprese» [ajyeudei'~ profhvta~
eujtucou'~ bivou kai; sunagwnista;~ tovlmh~ ajgaqh'~ dia; panto;~ euJriskevtw-
san] ci induce ad ulteriori considerazioni. Mary Boyce70 ha ben sottolineato il
fatto che in questo contesto il carakthvr non è altro che una eijkwvn degli esseri
divini e umani, le cui statue sono state erette nel santuario del sovrano; ella, però,
insiste sulla novità di tale concezione, sostenendo che sarebbe estranea allo Zo-
roastrismo primitivo, che si sarebbe caratterizzato per un certo aniconismo. Mi
sembra, però, che già il complesso persepolitano manifesti una certa tendenza
verso rappresentazioni di Ahura Mazdā e del sovrano, in modo tale che l’inter-
pretazione del Gran Re come icona di dio sulla terra, successivamente confer-
mata da Plutarco, trovi un certo conforto. Inoltre, per quanto il rimando a tali
carakth're~, secondo Dörrie71, ci mostri che, di fatto, gli dei sono identici alla
loro rappresentazione (Abbild), bisogna notare che la presenza di un carakthvr
umano necessita di una legittimazione e di una giustificazione, che, per quanto
renda sublime il sovrano ed i suoi antenati, ne demarca la differenza ontologica
rispetto alla sfera divina vera e propria.
Prima di concludere, vorrei però sottolineare qualche altro tratto di continuità
tra il linguaggio delle iscrizioni achemenidi (ma anche di quelle sasanidi) e quel-
le della Commagene, che mi sembra meritare una certa considerazione. Nella
grande iscrizione di Arsameia (A), alle ll. 35-4072 (ma anche passim), Antioco
I dichiara di aver restaurato e abbellito, rendendoli più belli, i monumenti dei
suoi antenati, precisando che: «ciò che la circostanza ha trascurato o il tempo
ha distrutto, tutto io per mia cura l’ho edificato, l’ho riparato, l’ho ingrandito,
ho aggiunto altro ancora» (o{sa te kairo;~ parei'den h] crovno~ katevfqeiren,
pavnta di j ejmh'~ pronoiva~ ta; me;n e[ktisa, ta; de; ejqeravpeusa, ta; d j hu[xhsa,
ta; de; proseishvgagon). [A 42-45])73. Questa preoccupazione è ben presente,

69
Vd. Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 127; Virgilio, Lancia, diadema
e porpora, cit., 257, 262.
70
Boyce, in Boyce - Grenet, A History of Zoroastrianism, cit., 334-335.
71
Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 127.
72
Vd. Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 40; Virgilio, Lancia, diadema e
porpora, cit., 252, 258.
73
Vd. Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 40; Virgilio, Lancia, diadema e
porpora, cit., 252, 258.
130 Antonio Panaino

nei testi persepolitani, soprattutto quelli di Serse74, in cui si enfatizza l’opera di


costruzione continuata dal sovrano ed il miglioramento di quanto in precedenza
già iniziato dal padre. Ma c’è qualcosa di ancor più rilevante. Nel Novmo~, A 210-
22875, si afferma:
«Se qualche malfattore della nostra memoria conduca qui un’armata nemica,
o guidando in qualche modo un brigante o un ladro dell’onore consacrato,
oppure anche se uno nasconde l’odio vile dell’invidia che procura inimici-
zie, e consumando il proprio occhio su beni altrui rivolge parola insidiosa
o pensiero contrario al meglio o corrispettiva mano insolente contro i nostri
monumenti, costui si aspetti gli animi implacabili di tutti gli dei. Infatti dure
pene, ministre della grande collera degli dei, perseguitano una vita scellerata
con molteplici supplizi sino alla estrema espiazione. Sappia egli che una legge
del cielo per decreto immortale sospinge le mani pesanti degli dei al castigo
degli uomini malvagi, con le quali un’indole empia pagherebbe il fio dovuto
alle collere inflessibili» (’O~ d j a]n kakou'rgo~ hJmetevra~ ejnqavde prosivh
mnhvmh~ polevmion strato;n h] lhsth;n trovpon h] klw'pa kaqwsiwmevnh~ a[gwn
timh'~ h] kaªi;º fqovnou ti~ a[nandron kruvpth mei'so~ ajrnoumevnh~ e[cqra~
ojfqalmovn te thvkwn i[dion ejp j ajllotrivoi~ ajgaqoi'~ fwnh;n ejpivboulon h]
nou'n meªisºovcrªhºsªton h] cei'raº prosfevrh bavskanon ªhJmºetevroi~ ajfi-
druvmasin, ou|to~ ajnilavtou~ qumou;~ prosdokavtw qew'n pavntwn. ªPoinai;º
ga;r ajqwvpeutoi covlou megavlou diavkonai daimovnwn ªbºivon kakou'rgon eij~
ejscavta~ ªdivºka~ polutrovpoi~ basavnoi~ diwvkousin. «Isªtw wJ~º novmo~
oujravnio~ ajqanavtw/ dovgmati bareiva~ ªejfevlkeiº qew'n cei'ra~ ejpi; kakw'n
timwrivan ajndrw'n, vac. ai|~ ajªsºebh;~ trovpo~ ojfeilomevna~ divka~ ajparai-
thvtoi~ teivseien ojrgai'~).

Al di là delle minacce contro eventuali distruttori dell’iscrizione e dei monu-


menti, ampiamente attestate non solo nelle fonti achemenidi, ma anche in quelle
mesopotamiche, rilevo una certa continuità con la formula achemenide (DPd,
16-20)76 di invocazione ad Ahuramazdā, affinché allontani dal regno tre calamità,
hainā- «l’esercito nemico», dušiyāra- «la cattiva annata, la siccità» e drauga- «la
menzogna». Diversi anni or sono avevo già dimostrato la complessa articolazione
di questa formula,77 che trova corrispondenze sia nella letteratura avestica (Tištar
Yašt)78 sia nell’Ardā Wīrāz Nāmag, testo escatologico zoroastriano in pahlavi79.
74
Cfr. Kent, Old Persian, New Haven 1953, 147-153.
75
Vd. Dörrie, Der Königskult des Antiochos von Kommagene, cit., 106, 113; Virgilio, Lancia, dia-
dema e porpora, cit., 256, 261-262.
76
Cfr. Kent, Old Persian, cit., 35-136.
77
A. Panaino, hainā-, dušiyāra-, drauga-: un confronto antico-persiano avestico, «Atti del Sodalizio
Glottologico Milanese» 27, 1986, 95-102.
78
Cfr. A. Panaino, Tištrya, Part I. The Avestan Hymn to Sirius, Rome 1990, 143-145.
79
A. Panaino, Ancora sulle tre calamità, «Atti del Sodalizio Glottologico Milanese» 32, 1991
[1993], 70-83.
Tuvch e carakthvr del Sovrano 131

Nel passo sopra menzionato troviamo due delle calamità iraniche: l’armata nemi-
ca (polevmion strato;n), nonché «l’odio vile dell’invidia che procura inimicizie,
e consumando il proprio occhio su beni altrui rivolge parola insidiosa o pensiero
contrario al meglio», minaccia che, per diversi aspetti corrisponde all’idea di
drauga-, «la menzogna», intesa sia in senso etico-morale, come contrapposta ad
ạrta-, sia in senso politico come sovversione del governo legittimo. Che il con-
fronto tra tali elementi possa rientrare nel novero delle pure coincidenze, per
quanto potenzialmente possibile, mi sembra meno probabile.
Ricordiamo infine, che l’attenzione alla fondazione di un culto a favore dei
defunti, con una complessa e articolata descrizione dei riti e dei sacrifici da per-
petuare da parte di un clero e di un apparato di ierodouli specificamente dedicati
a siffatto scopo, costituisce la parte conclusiva della grande iscrizione trilingue di
Šābuhr a Naqš-i Rustam, presso la Kaʿba-i Zardušt80. Anche in questo caso, una
semplice coincidenza appare eccessiva; si tratta, piuttosto, della circolazione, in
contesto rituale e religioso iranico-ellenistico, di tradizioni apparentate, che, di
volta in volta, hanno trovato l’adattamento e la realizzazione cultuale e culturale
più consona e che, anche in epoche successive, non hanno mai cessato di interagi-
re tra loro, sino quasi a raggiungere una sorta di specularità e di non troppo tacita
imitatio tra mondo sasanide e bizantino.

80
Cfr. Ph. Huyse, Die dreisprachige Inschrift Šābuhrs I. an der Ka‘ba-i Zardušt (ŠKZ), Corpus
Inscriptionum Iranicarum, I-II, London 1999, I, 45-64.
antioco i di commagene
sulle monete

Andrea Gariboldi
Università di Bologna

A dispetto del grandioso e monumentale progetto di culto dinastico e di pro-


paganda imperiale messo in atto da Antioco I di Commagene1 (70-35 circa a.C.),
la monetazione di questo sovrano appare assai modesta, tanto nel volume delle
emissioni quanto nella ripetitività dei soggetti raffigurati. È ben noto, infatti, al-
meno sin dal diciannovesimo secolo2, un tipo monetale eneo, solitamente attri-
buito ad Antioco. La moneta (Fig. 1), dal valore di due chalci, presenta sul dritto
anepigrafo il busto giovanile del re, rivolto verso destra, imberbe, con una tiara
di tipo armeno a cinque punte, decorata al centro da una stella ad otto punte e da
due aquile affrontate. Al rovescio vi è un leone che incede verso destra; in alto
BASILEWS; in esergo ANTIOCOU.
Stupisce la somiglianza fra la tiara indossata da Antioco I e quella di Tigrane
il Grande d’Armenia3 (95-55 a.C.). La scelta da parte di Antioco di indossare la
medesima corona di Tigrane, al posto del copricapo a punta di tipo commageni-
co4, quale figura sulle monete dei predecessori nel regno di Commagene, come
1
Si vedano D. Allgöwer, Antiochos I de Commagène entre sceptre et diadème, AION (Archeol.)
15, 1993, 257-287; B. Jacobs, Die Galerien der Ahnen des Königs Antiochos I. von Kommagene auf
dem Nemrud Daǧi, in J. Munk Højte (ed.), Images of Ancestors, Aarhus 2002, 75-88; B. Virgilio,
Lancia, diadema e porpora, Pisa 20032, 126-130, 251-262; C. Crowther - M. Facella, New Evi-
dence for the Ruler Cult of Antiochus of Commagene from Zeugma, in G. Heedemann - E. Winter
(Hrsgg.), Neue Forschungen zur Religionsgeschichte Kleinasiens, Bonn 2003, 41-80; M. Facella,
La dinastia degli Orontidi nella Commagene ellenistico-romana, Pisa 2006, 225-297, con ampia
bibliografia.
2
E. Babelon, Catalogue des monnaies grecques de la Bibliothèque Nationale. Les Rois de Syrie,
d’Arménie et de Commagène, Paris 1890, CCXII-CCXIV; 218 (Pl. XXX, 5); W. Wroth, Catalogue
of Greek Coins in the British Museum. Catalogue of the Greek Coins of Galatia, Cappadocia and
Syria, London 1899, XLIV-XLV (Pl. XIV, 8).
3
R.D. Sullivan, Diadochic Coinage in Commagene after Tigranes the Great, NC 13, 1973, 18-39;
P.Z. Bedoukian, Coinage of the Armenian Kingdoms of Sophene and Commagene, ANSMusN 28,
1983, 71-88, partic. 81-82; M. Alram, Nomina Propria Iranica in Nummis, Iranisches Personenna-
menbuch 4, Wien 1986, 72-74 (Tf. 6-7); Facella, La dinastia degli Orontidi, cit., 228-229.
4
J.H. Young, Commagenian Tiaras: Royal and Divine, AJA 68, 1964, 29-34; M. Facella, Basileus
Arsames. Sulla storia dinastica di Commagene, in B. Virgilio (a cura di), Studi Ellenistici, 12, Pisa-
Roma 1999, 127-158, partic. 156-157.

Gnoli, Muccioli (eds.), Incontri tra culture, Milano 2007, 133-138


134 Andrea Gariboldi

Arsame, Samo e Mitradate I Callinico5, riveste, evidentemente, un forte significa-


to politico. In occasione della vittoria di Lucullo su Tigrane, nel 69 a.C., Antioco
risulta che fosse già re di Commagene6, e fu mantenuto dai Romani in tale impor-
tante posizione. Si potrebbe pensare, pertanto, ad una sorta di conferimento del
potere di Antioco sulla Commagene per concessione di Tigrane; oppure, più pro-
babilmente, si deve ritenere che Antioco desiderasse mettere in evidenza, tramite
l’ostentazione della tiara armena, la propria indipendenza politica e la sua di-
scendenza dal casato degli Orontidi, i quali, a loro volta, vantavano una parentela
con gli Achemenidi, in quanto un avo paterno di Antioco, di nome Oronte, aveva
sposato una delle figlie di Artaserse II. Il satrapo d’Armenia Oronte, infatti, è ve-
nerato su una delle stele della celebre galleria degli antenati del Nemrud Dagh7.
Antioco decise di enfatizzare sulle monete questa particolare linea genealogica
armeno-achemenide, piuttosto che la sua pur illustre discendenza seleucide per
via materna, proclamata presso lo hierothesion. Merita di essere menzionato, a
tal proposito, il fatto che nell’iscrizione di Sofraz Köy8 (SO ll. 5-6) Antioco sot-
tolinei con orgoglio di essere stato il primo ad assumere la tiara nella dinastia di
Commagene: prw`to~ ajnalabw;n th;n kivtarin.
L’attribuzione di questa emissione monetale ad Antioco I di Commagene,
piuttosto che a Tigrane il Grande9, è corroborata anche dal confronto con alcuni
rilievi del Nemrud Dagh, che mostrano Antioco con la medesima tiara armena
a cinque punte, e con un mento piuttosto sottile, rispetto alla poderosa mascella
dei ritratti di Tigrane10. Un altro elemento significativo è dato dalla presenza del
leone, sia al rovescio delle monete di Antioco sia, ad esempio, sulla tiara del
sovrano, rappresentata sul rilievo della terrazza occidentale, con scena di dexio-
sis fra Antioco e Mithra (Fig. 2). Il leone risulta essere, in sostanza, un animale
simbolo della regalità di Commagene, assieme all’aquila11, ed inoltre, è ovvio il

5
Alram, Nomina Propria Iranica, cit., 81-84 (Tf. 8).
6
Dio XXXVI 2, 5.
7
Facella, Basileus Arsames, cit., 129-133.
8
Crowther - Facella, New Evidence, cit., 72-73.
9
P.Z. Bedoukian, A Coin of Tigranes the Great of Armenia Struck in Commagene, NC 10, 1970,
19-22.
10
Sullivan, Diadochic Coinage, cit., 18-22; Id., The Dynasty of Commagene, in ANRW II.8, Berlin-
New York 1977, 732-798, partic. 763.
11
Facella, Basileus Arsames, cit., 129, n. 5; Wroth, Catalogue of Greek Coins, cit., XLV. Il leone
compare anche sulle monete ‘autonome’ emesse dalla città di Samosata, forse coeve alle monete
con l’effigie di Antioco Theos (Wroth, Catalogue of Greek Coins, cit., 116, 2-5). Samosata sull’Eu-
frate, in quanto capitale del regno di Commagene, potrebbe essere una sede di zecca assai adatta per
le monete di Antioco. Ricordo che anche nella monetazione satrapale achemenide il leone, quale
animale regale, figura associato a simboli astrali. Vd. A. Gariboldi, Astral Symbology on Iranian
Coinage, «East and West» 54, 2004, 31-53, partic. 35-36 (Fig. 1).
Antioco I di Commagene sulle monete 135

collegamento fra il leone sulle monete di Antioco e il cosiddetto “oroscopo” di


Nemrud Dagh, una stele con la raffigurazione della costellazione del Leone, con
le diciannove stelle e i pianeti Giove, Mercurio, Marte e Luna12. L’ipotesi che tale
rilievo alluda al riconoscimento del potere regale di Antioco sulla Commagene
da parte dei Romani13, nel 65/64 a.C., dei quali Antioco si dichiara apertamente
‘amico’ nelle iscrizioni14, piuttosto che alla sua nascita vera e propria, mi sembra
condivisibile, ed anzi, potrebbe trovare un’ulteriore conferma in base al fatto che
il tipo monetale principale di Antioco presenta proprio il carakthvr del basileus
associato al leone. Non credo che sia possibile, inoltre, datare l’omen del Leone
ad un momento precedente all’ascesa del potere di Tigrane (95 a.C.), dato che fu
Antioco ad adottare il prestigioso modello della tiara di Tigrane, e non il contrario.
Un problema ancora aperto circa le monete di Antioco è quello della loro cro-
nologia. Le monete, infatti, non recano alcuna data. Wagner ha avanzato l’ipotesi
che esse siano da attribuire ai primi anni di regno di Antioco, in quanto il re si
presenta con la tiara armena, come sui rilievi, e associato al leone, che dovrebbe
alludere al suo rafforzamento del potere15. Inoltre, lo studioso nota la mancanza
sulle monete del titolo di Megas, che compare invece nelle iscrizioni di Antioco
successive al riconoscimento di Roma16, ed anche sulle monete del figlio di lui,
Mitradate II17. Una titolatura monetale «incompleta» (unvollständige) certamente
denota una differente o solo parziale propaganda dinastica rispetto alla lunga ti-
tolatura regale che Antioco proclama nelle iscrizioni greche, ma non può, credo,
essere indicativa di un momento cronologico più antico. Sappiamo bene, infatti,
quanto i monarchi ellenistici differenziassero, a seconda dei contesti e del tempo
opportuni, la citazione dei loro epiteti reali18. Nasce altresì il sospetto che anche

12
D. Pingree, From Astral Omens to Astrology from Babylon to Bīkāner, Serie Orientale Roma 78,
Roma 1997, 26; O. Neugebauer - H.B. van Hoesen, Greek Horoscopes, Philadelphia 1959, 14-16;
J. Wagner, Die Könige von Kommagene und ihr Herrscherkult, in J. Wagner (Hrsg.), Gottköni-
ge am Euphrat. Neue Ausgrabungen und Forschungen in Kommagene, Sonderband Antike Welt,
Mainz am Rhein 2000, 11-25, partic. 19-20; Crowther - Facella, New Evidence, cit., 64.
13
Si veda l’articolo di Panaino, supra, 120-121 e n. 14. Pingree e Neugebauer datano l’oroscopo di
Antioco al 6/7 luglio del 62 a.C.
14
Sullivan, The Dynasty of Commagene, cit., 765; Antioco assunse il titolo di Philorhomaios e
garantì il sostegno militare a Pompeo, il quale magna praemia tribuit, come ricorda Cesare (BC
III 4, 6).
15
Wagner, Die Könige von Kommagene, cit., 20.
16
Facella, La dinastia degli Orontidi, cit., 280-281; B. Jacobs, Zur relativen Datierung einiger kom-
magenischer Heiligtümer: Sofraz Köy - Samosata - Arsameia am Nymphaios - Nemrud Dagi, in R.
Rolle - K. Schmidt (Hrsgg.), Archäologische Studien in Kontaktzonen der antiken Welt, Göttingen
1998, 37-47, partic. 42.
17
Alram, Nomina Propria Iranica, cit., 83 (Tf. 8, 247-248).
18
F. Muccioli, La scelta delle titolature dei Seleucidi: il ruolo dei philoi e delle classi dirigenti
cittadine, in L. Criscuolo - G. Geraci - C. Salvaterra (a cura di), Simblos. Scritti di storia antica,
136 Andrea Gariboldi

una parte del complesso architettonico del Nemrud Dagh sia stata realizzata in
retrospettiva, durante il lungo regno di Antioco19. Il volto fissato eternamente
nella bellezza giovanile, la presenza del leone, ed una titolatura regale essenziale,
sono indicatori del desiderio di Antioco di manifestare ai suoi sudditi gli elementi
primari e simbolici della propria regalità senza tempo. Anche gli storici greci, del
resto, quando parlano di Antioco, non lo nominano con la sua verbosa titolatura,
ma, semplicemente, lo chiamano ∆Antivoco~ oJ Kommaghnov~.
Un ultimo tipo monetale in rame, apparso da circa un ventennio20, di valore
inferiore rispetto al precedente, reca al rovescio un’aquila su ramo, rivolta a de-
stra. Il ritratto e la leggenda sono analoghi al nominale da due chalci. L’aquila
fu utilizzata come soggetto monetale già sulle monete di Mitradate I Callinico21,
nonché su numerose emissioni di re Seleucidi22, per cui non sorprende questa
continuità iconografica nella monetazione commagenica.
Le monete di Antioco I, in conclusione, sembra che siano state coniate più allo
scopo di perpetuare la tradizione di autocelebrazione dei dinasti di Commagene,
che per motivi economici. Suggeriscono questa ipotesi la mancanza di nominali

3, Bologna 2001, 295-318; Id., Plutarco e l’importanza della giustizia nell’idealizzazione del re
ellenistico, in Quaderni del Dipartimento di Paleografia e Medievistica dell’Università di Bologna,
dottorato, 3, Bologna 2005, 25-39, partic. 38-39, ipotizza che la presenza del titolo Dikaios nella
lunga titolatura di Antioco possa essere un richiamo dinastico al nonno, Samo, il quale adottò que-
sta epiclesi sulle monete; non si può nemmeno escludere che con Dikaios si volesse alludere anche
ad un rapporto stretto fra il sovrano e Mithra, come testimoniano i rilievi. Certamente il concetto
del re ‘giusto’ è tipico delle monarchie orientali. Mi pare interessante notare, inoltre, che il titolo
Dikaios venne assunto per la prima volta nella dinastia partica durante gli ultimi anni di regno di
Mitradate II (123-88 a.C.), dunque poco prima del dinasta di Commagene (si veda D. Sellwood,
An Introduction to the Coinage of Parthia, London 19802, 84, type 29; Id., Parthian Coins, in The
Cambridge History of Iran, 3 (I), The Seleucid, Parthian and Sasanian Periods, Cambridge 1983,
279-298, partic. 285). Sebbene ufficialmente Antioco I si dichiarasse «amico dei Romani», per
ovvie necessità politiche, si deve tenere conto che egli diede in sposa la figlia Laodice al re dei Parti
Orode II (57-38 a.C.), il padre di Pacoro e il vincitore della battaglia di Carrhae (Dio XLIX 23, 4).
L’accusa di ‘filopartismo’, riferita ad Antioco, è poi una costante nelle lettere di Cicerone, il quale,
ad esempio, scriveva: etiam si sunt amici nobis, tamen aperte Parthis inimici esse non audent (Cic.
Fam. XV 4, 4), oppure: multa dixi in ignobilem regem, quibus totus est explosus (Cic. Ad Q. Fr. II
12, 2). Si veda Sullivan, The Dynasty of Commagene, cit., 766-768; J.-L. Ferrary, Philhellénisme et
impérialisme: aspects idéologiques de la conquête romaine du monde hellénistique, de la seconde
guerre de Macedonie à la guerre contre Mithridate, Rome 1988, 500-501 suppone che Antioco
potrebbe aver assunto il titolo di Filevllhn su imitazione di Phraates III (70-57 a.C.); tale titolo,
comunque, fu portato la prima volta da Mitradate I re dei Parti, e in seguito anche da Mitradate
II (Sellwood, Parthian Coins, cit., 282-285). Risulta assai arduo, in definitiva, stabilire a chi ef-
fettivamente Antioco ammiccasse, mediante l’assunzione di titolature regali ampiamente diffuse
nell’Oriente ellenistico; ma forse il suo scopo era proprio questo.
19
Crowther - Facella, New Evidence, cit., 62-65; Facella, La dinastia degli Orontidi, cit., 286-
291.
20
Bedoukian, Coinage of the Armenian Kingdoms, cit., 82 (Pl. 12, 26-27).
21
Alram, Nomina Propria Iranica, cit., Tf. 8, 244-245.
Antioco I di Commagene sulle monete 137

in metallo prezioso e la rarità degli esemplari23. Antioco, tuttavia, non era affatto
povero, dal momento che offrì ben mille talenti al generale Ventidio, vittorioso
sul parto Pacoro, suo genero, per risparmiare la città di Samosata (38 a.C.); una
proposta generosa che i Romani non seppero sfruttare subito, e Marco Antonio si
accontentò di prelevare solamente trecento talenti24, prima di tornarsene indietro,
lasciando così Antioco ancora libero di regnare.

Facella, La dinastia degli Orontidi, cit., 222-223, n. 92.


22

Analoghe considerazioni valgono anche per Mitradate Callinico: vd. Facella, La dinastia degli
23

Orontidi, cit., 223.


138 Andrea Gariboldi

TAVOLA I

Fig. 1: Recto e verso di una moneta di Antioco I. Da Wagner (Hrsg.), Gottkönige, cit., fig. 25a-b, p. 19

Fig. 2: Particolare del ritratto di Antioco I, su rilievo della terrazza ovest di Nemrud Dagh, Da
Wagner (Hrsg.), Gottkönige, cit., fig. 67, p. 53.
nomoi, eleutheria e democrazia a
maronea nell’età di claudio*
John Thornton
Università di Roma «La Sapienza»

«Certes, il est toujours difficile de dégager,


à partir des décisions gravées sur la pierre,
les intentions et les mobiles des hommes
qui les avaient votées»1
1. A consentire la possibilità, e anzi a suggerire l’opportunità di un discorso su
nomoi, eleutheria e democrazia, a Maronea, nell’età di Claudio, è la recente pub-
blicazione di due frammenti di un decreto della città, rinvenuti a Samotracia l’uno
nell’agosto del 1988, l’altro già nel luglio del 19862. Il riconoscimento dell’ap-
partenenza dei due frammenti3 alla stessa stele, successivo all’edizione del testo
da parte di Kevin Clinton4, ha consentito di intendere meglio la procedura senza
precedenti istituita a Maronea per l’invio di ambascerie all’imperatore5; a distan-

* Desidero ringraziare l’amico Tommaso Gnoli per l’invito al Convegno e la magnifica accoglienza
a Ravenna; sono grato inoltre a tutti i partecipanti intervenuti nella discussione, e in particolare al
professor Geraci, per i suggerimenti e gli spunti offertimi.
1
Ph. Gauthier, Les cités hellénistiques: épigraphie et histoire des institutions et des régimes politi-
ques, in Praktika tou HV Dieqnou" Sunedriou Ellhnikh" kai Latinikh" Epigrafikh", Aqh-
na, 3-9 Oktwbriou 1982, Aqhna 1984, 82-107, in particolare 105. La scelta di porre in epigrafe
questa frase di Philippe Gauthier vuole indicare la consapevolezza della difficoltà d’interpretazione
del documento di Maronea e affermare fin dall’inizio la prudenza con cui si propongono le consi-
derazioni che seguono.
2
K. Clinton, Maroneia and Rome: Two Decrees of Maroneia from Samothrace, «Chiron» 33, 2003,
379-417.
3
Indicati qui di seguito semplicemente come I e II; per la loro descrizione vd. Clinton, Maroneia
and Rome, cit., rispettivamente 381 e 397.
4
Clinton, Maroneia and Rome, cit., 398 riteneva ancora che «the two decrees were not inscribed on
the same stele»; cfr. però poi Idem, Two Decrees of Maroneia from Samothrace: Further Thoughts,
«Chiron» 34, 2004, 145-148, in particolare 145.
5
Cfr. Clinton, Maroneia and Rome, cit., 379: «a new procedure, hitherto unattested anywhere, for
the appointment of ambassadors»; per la «Originalität des Beschlusses, mit dem Maroneia […]
seine Kontakte mit Rom zu optimieren versuchte» cfr. anche M. Wörrle, Maroneia im Umbruch.
Von der hellenistischen zur kaiserzeitlichen Polis, «Chiron» 34, 2004, 149-167, in particolare 151;
158; Idem, La politique des évergètes et la non-participation des citoyens. Le cas de Maronée sous
l’Empereur Claude, in P. Fröhlich et Chr. Müller (éd. par), Citoyenneté et participation à la basse
époque hellénistique. Actes de la table ronde des 22 et 23 mai 2004, Paris, BNF organisée par le
groupe de recherche dirigé par Philippe Gauthier de l’UMR 8585 (Centre Gustave Glotz), Genève
2005, 145-161, in particolare 149 («quelque chose d’inouï»).

Gnoli, Muccioli (eds.), Incontri tra culture, Milano 2007, 139-166


140 John Thornton

za di un anno, così, Clinton, stimata in circa 65-80 linee la parte di testo andata
perduta fra i due frammenti, che conservano l’inizio e la fine del documento6, ha
modificato la sua originaria interpretazione, e Michael Wörrle ha potuto presen-
tare, in due riprese, una convincente messa a punto sulla struttura del documento7
e una suggestiva ipotesi sul suo significato nel quadro del passaggio dalla polis
ellenistica alla città imperiale8.
La libertà di Maronea risaliva al termine della terza guerra di Macedonia9. In
un primo momento, in verità, a stare alla testimonianza di Polibio, Eno e Maronea
erano state promesse ejn dwrea/` ad Attalo di Pergamo, nella speranza che si pre-
stasse al progetto romano di impiegarlo contro il fratello, il re Eumene II10 – uno
dei più fedeli alleati di Roma nella conquista dell’Oriente, caduto in disgrazia
dopo Pidna. Solo quando fu chiaro che Attalo non era disposto al tradimento, il
senato, per ritorsione, dichiarò libere Eno e Maronea.
Maronea sembrerebbe aver conservato la sua libertà almeno fino all’età di
Adriano11. Sotto Claudio, tuttavia, la città dovette attraversare momenti di tensio-
ne nei rapporti con l’imperium Romanum: un’ambasceria, rievocando con enfasi
i merita in populum Romanum del demos di Maronea12, aveva dovuto chiedere
all’imperatore la restituzione di privilegi che erano stati intaccati o violati; Clau-

6
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 151; Idem, La politique des évergètes, cit., 146, n. 2 e 151,
per la fine del dossier.
7
Per cui in breve vd. Wörrle, La politique des évergètes, cit., 146-147; 151, n. 11.
8
Clinton, Two Decrees of Maroneia, cit.; Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit.; Idem, La politique
des évergètes, cit.
9
Per l’esclusione di Eno, Maronea ed Abdera dalla prima delle quattro merides in cui fu divisa la
Macedonia cfr. Diod. XXXI 8, 8 e Liv. XLV 29, 6.
10
Polyb. XXX 3, 3-7; cfr. Liv. XLV 20, 2. Per l’interesse di Eumene per queste due città fin dal
tempo della guerra contro Antioco III vd. Polyb. XXII 6, 1-2 e 7; 13, 9; cfr. G. Chiranky, Rome and
Cotys, Two Problems: I. The Diplomacy of 167 B.C. II. The Date of Sylloge3, 656, «Athenaeum»
n.s. 60, 1982, 461-481, in particolare 469, n. 47, i cui sospetti sulla disponibilità del senato a conce-
dere le città ad Attalo («If the Patres had offered Aenus and Maronea to Attalus, it would have been
a violation of a policy which had been consistent since the termination of the war with Antiochus»)
non sembrano però del tutto motivati. Sull’episodio cfr. anche E.V. Hansen, The Attalids of Per-
gamon, Ithaca and London 19712, 121-122; R.E. Allen, The Attalid Kingdom. A Constitutional Hi-
story, Oxford 1983, 142, n. 18. Vd. inoltre J.-L. Ferrary, Rome et les cités grecques d’Asie Mineure
au IIe siècle, in A. Bresson et R. Descat (textes réunis par), Les cités d’Asie Mineure occidentale au
IIe siècle, Ausonius–Publications. Études 8, Bordeaux 2001, 93-106, in particolare 97, n. 22.
11
Clinton, Maroneia and Rome, cit., 380, con riferimento a una lettera di Adriano alla città che
verrà pubblicata a cura di L. Loukopoulou e S. Psomas (cfr. Clinton, Maroneia and Rome, cit., 379,
n. 1). É. Guerber, Considérations récentes sur les cités libres de la partie hellénophone de l’Empire
romain, DHA 23, 1, 1997, 301-306, in particolare 303 ha rilevato che l’eleutheria delle città greche
«s’inscrit parfois dans la très longue durée».
12
I, ll. 5-12. Per le informazioni che fornisce questa parte dell’iscrizione, di cui non ci si occuperà
in questa sede, cfr. Clinton, Maroneia and Rome, cit., 385-389; 392-393.
Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea nell’età di Claudio 141

dio ajpokat≥[evsthse] la città eij" to; ajrcai`on divkaion ejpibebaiwvsa" thvn te


ej≥l≥[euqeriv]a≥n kai; ta; filavnqrwpa pavnta13.
Al ritorno degli ambasciatori, i Maroniti, soddisfatti per il felice esito della
missione, ma forse non del tutto rassicurati dalle promesse dell’imperatore14, o
comunque timorosi che gli attacchi ai loro privilegi potessero ripetersi, avvertiro-
no l’esigenza di prendere provvedimenti per far sì che la libertà e i philanthropa di
cui godevano non venissero ridotti in nessun modo, neppure in futuro (ajnankai-
ovtaton dev ejstin kai; hJma`" pa`san eijsenevnk≥a≥sq≥ai frontivda uJpe;r tou` mhvte
nu`n mhvte a[llotev pote, laqovntwn tw`n th`" povlew" dikaivwn, sunb≥h`nai kata;
mhdevna trovpon ejlas≥w≥q≥h≥`nai hJmw`n th;n ejleuqerivan kai; ta; filavnqrwpa)15. A
questo scopo, apparve necessario che, in qualsiasi momento ne fosse sorta la
necessità, un’ambasceria di Maronea fosse sempre pronta a recarsi a perorare la
causa della città presso l’imperatore (ed eventualmente il senato16), senza che in
nessun modo si potesse ostacolare l’invio di questa missione patriottica (e[[stai
touvtw/ eja;n c≥a≥vr≥i≥n≥ touvtwn kai; dia; yhfivsmaãtÃo" aijwnivou nomoãqethÃq≥evnto" hJ
ejpi; tou;" Seb≥a≥s≥tou;" presbhva kata;{ta} pavnta kairo;n eJtoivmh uJpavrch/, mh-
deno;" ejnoc≥l≥h≥`sai trovpou dunamevnou toi`" boulomevnoi" ajnalabei`n to;n uJpe;r
th`" pat≥ãrivÃd≥o≥" ajgw`na)17. Così, i Maroniti decisero di redigere ed approvare un
decreto, equiparato alle leggi18 e valido in eterno, che, in caso di attentato ai pri-
vilegi della città (qrauomevno≥[u] tino;" tw`n th`" ejleuqeriv a" hJmw`n h] tw`n loipw`n
filanqrwvpwn ka[q∆ oJn]tina≥ou`n trovpon)19, affidava il compito dell’ambasceria
presso l’imperatore ai cittadini benemeriti che si fossero dichiarati disponibili
attraverso una procedura di epangelia, nella forma di un giuramento20. Il testo del
13
I, ll. 17-19. Per il contenuto della risposta dell’imperatore, vd. I, ll. 16-22.
14
I, ll. 19-22 (uJposcovmeno"{comeno≥"≥} [dia;] aj≥pokrivmato" prevpousan kai; dunath;n thlikouvtw/
qew/' uJ≥pov≥scesin kai; eij" to; loipo;n ajnephreavstou" hJma'" diafulac≥q≥h'nai).
15
I, ll. 22-25; cfr. II, ll. 7-10, dove gli stessi temi sono ripresi nei considérants del decreto di nomina
‘preventiva’ degli ambasciatori (ajnankaiovtaton dev ejstin mhdevna kairo;n paraleivpein uJpomi-
mnhvskonta" kaq∆ e{kasta peri; tw'n hJmetevrwn dikaivwn o{pw" a[qrausta kai; sw/'a pavnq∆ hJmei'n
fulavsshtai uJpo; tw'n th'" hJgemoniva" proestwvtwn). Una tendenza «zu Wiederholungen, Längen
und Umständlichkeit» del testo è stata osservata da Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 151, n.
13, e sembra potersi imputare in parte al carattere dell’iscrizione, che prima del testo del decreto
eterno riportava la decisione di redigerlo e approvarlo, con le sue motivazioni, in parte all’identità
fra la situazione che diede origine al provvedimento e quelle di cui il decreto eterno avrebbe dovuto
regolare la gestione.
16
Vd. II, ll. 14-15, con Clinton, Maroneia and Rome, cit., 407, e Wörrle, Maroneia im Umbruch,
cit., 160, n. 35.
17
I, ll. 25-29, discusso più avanti nel testo.
18
Su questo aspetto, e la relativa procedura, vd. Clinton, Maroneia and Rome, cit., 396-397; Wörr-
le, Maroneia im Umbruch, cit., 158-160.
19
I, ll. 32-34.
20
Su cui vd. Clinton, Maroneia and Rome, cit., 395, e Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 160-
162; Idem, La politique des évergètes, cit., 152.
142 John Thornton

giuramento che avrebbero dovuto prestare gli aspiranti ambasciatori è riportato


al termine del decreto21, prima di un altro giuramento che doveva essere pronun-
ciato uJpo; pavntwn, da tutti22.
Dunque, Maronea, uscita indenne da qualche seria minaccia alla sua condizio-
ne privilegiata, non è del tutto tranquilla per il futuro23. Come ha suggerito acuta-
mente Wörrle, la vicenda potrebbe doversi porre negli anni dell’istituzione della
provincia di Tracia24; opportunamente, lo stesso Wörrle ha richiamato le com-
plesse trattative con le autorità romane condotte, nei primi decenni della provin-
cia d’Asia, dai cittadini colofonii Polemeo e Menippo25, che dovettero difendere

21
II, ll. 21-31.
22
II, ll. 31-40. Sui due giuramenti vd. Clinton, Maroneia and Rome, cit., 402-404 (sul giuramento
di tutti, cfr. anche Idem, Further Thoughts, cit., 147-148); Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 164-
166; Idem, La politique des évergètes, cit., 152.
23
Su questa inquietudine ha insistito giustamente Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 158; 167,
n. 64; Idem, La politique des évergètes, cit., 149. In generale, la necessità per le città libere di non
abbassare mai la guardia, nella difesa della loro condizione privilegiata, è un punto fermo nella
ricerca degli ultimi decenni – su cui vd. il bilancio di L. Boffo, La ‘libertà’ delle città greche sotto
i Romani (in epoca repubblicana), «Dike» 6, 2003, 227-249.
24
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 157-158; vd. anche Idem, La politique des évergètes, cit.,
148: sarebbe «sans doute» in questo quadro che i Maroniti avevano inviato a Claudio l’ambasceria
di cui si legge il resoconto in I, ll. 5-22. Clinton, Maroneia and Rome, cit., 384 («it seems reason-
able to assume that this document was issued close to the beginning of Claudius’ reign, though of
course we cannot rule out a later date»); 394 («Cities commonly sent embassies to emperors short
after their accession to make sure that their privileges will be mantained or, if necessary, to have
them restored»); 401, sembrerebbe voler porre l’ambasceria al cui ritorno fu approvato il decreto
all’inizio del regno di Claudio. In questo caso però non si tratta di un’ambasceria di routine, quali
quelle che le città libere inviavano regolarmente al nuovo imperatore per farsi confermare i privile-
gi di cui godevano: gli ambasciatori di Maronea avevano lamentato una violazione dei loro philan-
thropa, e Claudio non poté limitarsi a riconfermarli, ma li dovette restituire: vd. I, ll. 17-18 (di∆ a}}
dh; ajpokat≥[evsthse] auj≥th;n eij" to; ajrcai'on divkaion), con lo stesso Clinton, Maroneia and Rome,
cit., 384; 400-401, e Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 157; comunque, Clinton, Maroneia and
Rome, cit., 394 considerava già la possibilità che la preoccupazione dei Maroniti fosse «heightened
by awareness of the impending conversion of Thrace to a province in 46»; cfr. anche ibidem, 401.
25
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 157-158; Idem, La politique des évergètes, cit., 149. Cfr.
anche Clinton, Maroneia and Rome, cit., 405, n. 74, che ai decreti di Claros aveva rimandato a
proposito della lotta delle città libere «to maintain their privileges». Sui decreti colofonii in onore
di Polemeo e Menippo vd. in primo luogo L. Robert et J. Robert, Claros I. Décrets hellénistiques,
fascicule 1, Paris 1989; quindi J.-L. Ferrary, Le statut des cités libres dans l’Empire romain à la
lumière des inscriptions de Claros, CRAI 1991, 557-577; G.A. Lehmann, “Römischer Tod” in Ko-
lophon/Klaros. Neue Quellen zum Status der “freien” Polisstaaten an der Westküste Kleinasiens
im späten zweiten Jahrhundert v. Chr., NAWG 1998, 3, 131-194; J.-L. Ferrary, La liberté des cités
et ses limites à l’époque républicaine, MedAnt 2, 1999, 69-84; G.A. Lehmann, Polis-Autonomie
und römische Herrschaft an der Westküste Kleinasiens. Kolophon/Klaros nach der Aufrichtung
der Provincia Asia, in L. Mooren (ed.), Politics, Administration and Society in the Hellenistic
and Roman World. Proceedings of the International Colloquium, Bertinoro 19-24 July 1997, Stu-
dia Hellenistica 36, Leuven 2000, 215-238; J.-L. Ferrary, La création de la province d’Asie et la
Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea nell’età di Claudio 143

da ripetuti attacchi, provenienti da parti diverse, i privilegi della loro città, e la sua
non appartenenza al territorio della provincia, in cui tutti si riassumevano26.
L’eccezionalità del decreto di Maronea appare fin dal prescritto: Gnwvmh
bouleutw`n kai; iJerevwn kai; ajrcovntwn kai; ÔRwmaivw≥[n tw`n t]h;n povlin katoi-
kouvntwn kai; tw`n loipw`n politw`n aJpav≥n[twn27. La dichiarazione del consenso28
dei membri della boulè, dei sacerdoti, dei magistrati, dei cives Romani residenti
nella città e infine di tutti gli altri cittadini con cui si apre il testo è senza paralleli.
Wörrle, in un saggio che porta il titolo significativo dalla polis ellenistica alla
polis imperiale, e che rappresenta un importante contributo alla discussione sul
regime dei notabili che si sarebbe affermato a partire dall’età tardo-ellenistica29,
vi ha visto l’espressione di una concezione della città non più «als traditionell
egalitäre und exklusive Politengemeinde, sondern als hierarchisch strukturiertes
Ensemble von Einwohnern», in cui non sarebbe privo di significato che la massa
dei cittadini figuri non solo dopo l’élite dei buleuti, che sarebbero i soli attivi po-

présence italienne en Asie Mineure, in Chr. Müller et Cl. Hasenohr (éd. par), Les Italiens dans le
monde Grec. IIe siècle av. J.-C. – Ier siècle ap. J.-C. Circulation, Activités, Intégration. Actes de la
Table ronde École Normale Supérieure Paris 14 - 16 mai 1998, BCH Suppl. 41, 2002, 133-146;
G.A. Lehmann, ∆Androlhvy ion – Rom und der ‘Menschenfang’-Streit zwischen Kolophon und Me-
tropolis, ZPE 144, 2003, 79-86; Boffo, La «libertà» delle città greche, cit., 228-235.
26
Vd. in primo luogo la chiara formulazione del decreto colofonio in onore di Menippo, col. I, ll.
37-40: tou;" de; katoikou'nta" th;n povlin ejleuqevrwse kategguhvsewn kai; strathgikh'" ejxou-
siva", th'" ejparceiva" ajpo; th'" aujtonomiva" cwrisqeivsh". Per la non appartenenza alla sfera di
competenza del governatore della provincia come elemento essenziale della libertà delle città, cfr.
J. Reynolds, Aphrodisias and Rome. Documents from the Excavation of the Theatre at Aphrodi-
sias conducted by Professor Kenan T. Erim, together with some related texts, JRS Monographs
No. 1, 1982, doc. 14 (subscriptio di Traiano a Smirna, ll. 2-3: ejxh/rhmevnh" th'" povlew" kai; tou'
tuvpou th'" ejparceiva") e doc. 15 (lettera di Adriano ad Afrodisia, ll. 12-14: eijdw;" th;n povlin tav
te a[lla teimh'" ou\san ajxivan kai; ejxh/rhmevnhãnà tou' tuvpou th'" ejparceiva"); vd. comunque già
il contenuto del senatus consultum dell’80 a.C. in favore di Chio, riassunto in un documento di età
augustea, RDGE 70, ll. 13-18, con Boffo, La «libertà» delle città greche, cit., 242; cfr. poi tra gli
altri R. Bernhardt, Entstehung, immunitas und munera der Freistädte. Ein kritischer Überblick,
MedAnt 2, 1999, 49-68; Lehmann, Polis-Autonomie und römische Herrschaft, cit., 230-231; É.
Guerber, Le thème de la liberté des Grecs et ses prolongements politiques sous le Haut-Empire
(un titolo lievemente diverso nell’indice), in H. Inglebert (textes réunis par), Idéologies et valeurs
civiques dans le Monde Romain. Hommage à Claude Lepelley, Paris 2002, 123-142, in particolare
124 («l’extériorité vis-à-vis de la province, apanage politique et administratif des cités libres n’est
pas remise en cause par le pouvoir impérial sous le Haut-Empire»); 131; Ferrary, La création de la
province d’Asie et la présence italienne en Asie Mineure, cit., 139.
27
I, ll. 1-2; cfr. Clinton, Maroneia and Rome, cit., 390-391; Idem, Further Thoughts, cit., 146;
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 156-157; Idem, La politique des évergètes, cit., 147.
28
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 156, n. 14; Idem, La politique des évergètes, cit., 147.
29
Per un bilancio del dibattito intorno alle caratteristiche sociali ed istituzionali dell’età tardo-elle-
nistica vd. ora Ph. Gauthier, Introduction, in Fröhlich et Müller (éd. par), Citoyenneté et participa-
tion à la basse époque hellénistique, cit., 1-6.
144 John Thornton

liticamente, ma anche dopo i cives Romani residenti30. Procedendo nell’analisi,


nel suo primo contributo Wörrle suggeriva la possibilità che la boulè di Maro-
nea, con i cui membri si apre l’elenco gerarchico delle componenti della polis, si
fosse già trasformata in un ordo analogo per modalità di reclutamento al senato
romano31. «Sicher läßt sich das freilich nicht sagen», proseguiva; «es wäre für die
Einschätzung des gesamten Dossiers im Rahmen des sich in späthellenistischer
Zeit unter römischem Einfluß verstärkenden Oligarchisierungstrends […] von
zentraler Bedeutung. Zu beachten ist gerade in diesem Kontext, daß die Maroni-
ten unter den Gaben, die sie den Römern verdanken, dreimal (I Z. 13 f.; II Z. 5;
16) ausdrücklich auch tou;" novmou" nennen»32.
L’ipotesi che Maronea intendesse ringraziare le autorità romane per averne
ricevuto nomoi che prescrivevano la trasformazione della boulè in un ordo, con-
finata in nota, e lasciata in buona misura implicita nel primo contributo, è stata
avanzata con maggior confidenza nella relazione presentata al convegno pari-
gino, in cui Wörrle si è spinto ad affermare che a Maronea «la boulhv s’est sans
doute déjà transformée en un ordo»33, e non ha esitato a parlare di «lois offertes»,
chiedendosi esplicitamente se non potesse farne parte «la réorganisation de la
boulhv en un ordo selon les idées romaines»34.

30
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 156-157, con considerazioni, fonti e bibliografia sulla par-
tecipazione dei cittadini romani residenti al processo decisionale delle poleis che li ospitavano; cfr.
Idem, La politique des évergètes, cit., 147. Un’analoga ripartizione gerarchica della popolazione
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 157; La politique des évergètes, cit., 147 la indica in IAssos
26, ll. 10-11, dove la decisione di inviare un’ambasceria a Roma per salutare la nuova era destinata
ad aprirsi con il regno di Caligola è presentata con la formula e[doxen th'i boulh'i kai; toi'" prag-
mateuomevnoi" par∆ hJmi'n ÔRwmaivoi" kai; tw'i dhvmw'i tw'i ∆Assivwn: «On a donc la même hiérarchie
qu’à Maronée».
31
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 156, n. 15.
32
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 156, n. 15.
33
Wörrle, La politique des évergètes, cit., 147. Sul processo di trasformazione delle boulaì demo-
cratiche vd. F. Quaß, Die Honoratiorenschicht in den Städten des griechischen Ostens. Untersu-
chungen zur politischen und sozialen Entwicklung in hellenistischer und römischer Zeit, Stuttgart
1993, 382-394; H. Müller, Bemerkungen zu Funktion und Bedeutung des Rats in den hellenisti-
schen Städten, in M. Wörrle und P. Zanker (Hrsgg.), Stadtbild und Bürgerbild im Hellenismus.
Kolloquium, München, 24. bis 26. Juni 1993, München 1995, 41-54, in particolare 52-54; R.M.
Kallet-Marx, Hegemony to Empire. The Development of the Roman Imperium in the East from
148 to 62 B.C., Berkeley-Los Angeles-Oxford 1995, 70-72; P. Hamon, À propos de l’institution
du Conseil dans les cités grecques de l’époque hellénistique, REG 114, 2001, XVI-XXI; Idem, Le
conseil et la participation des citoyens: les mutations de la basse époque hellénistique, in Fröhlich
et Müller (éd. par), Citoyenneté et participation à la basse époque hellénistique, cit., 121-144.
34
Wörrle, La politique des évergètes, cit., 148 – dove si esprime però anche la consapevolezza «que
ces lignes mériteraient un traitement beaucoup plus détaillé», impossibile «dans le contexte de ce
colloque».
Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea nell’età di Claudio 145

Quest’ipotesi merita senz’altro di essere discussa, non solo per l’autorità dello
studioso che l’ha avanzata, prima con estrema cautela, poi con maggior fidu-
cia, ma anche perché coerente con il seguito della sua argomentazione, e perché
rappresenta un allontanamento dall’interpretazione di Clinton, che per Maronea
aveva parlato di «the privilege of keeping their freedom and their own laws»35.
Interventi diretti di Roma sulle istituzioni di comunità alleate, quale quello sug-
gerito da Wörrle a proposito della città libera di Maronea, nell’Oriente di lingua
greca, se si fa eccezione per la Bitinia e il Ponto riorganizzati da Pompeo36, sono
attestati finora soltanto al termine di fasi di estrema confusione, o di vera e pro-
pria crisi: in Tessaglia dopo la seconda guerra di Macedonia, in condizioni di cui
Livio si limita a delineare l’anomalia37, e di cui sapremmo probabilmente di più
se ci fosse pervenuto il passo corrispondente di Polibio38; forse a Rodi, quando al
termine della terza guerra di Macedonia si aprì una grave crisi fra la repubblica e

35
Clinton, Maroneia and Rome, cit., 393 (corsivi aggiunti); cfr. anche 406.
36
Plin. ep. X, 79-80. Cfr. per es. F. Quaß, Zur Verfassung der griechischen Städte im Hellenismus,
«Chiron» 9, 1979, 37-52, in partic. 52, e S. Mitchell, Anatolia. Land, Men, and Gods in Asia Minor,
I. The Celts in Anatolia and the Impact of Roman Rule, Oxford 1993, 210: «Except on a small num-
ber of specific occasions, such as the moment when Pompey regulated the administrative arrange-
ments of the cities of Pontus and Bithynia by the lex Pompeia, Roman provincial governors – still
less the Roman senate – did not seek an active role in determining the shape of civic politics». Sulla
diversità della situazione di Bitinia e Ponto organizzate da Pompeo rispetto alla provincia d’Asia
riordinata da Silla al termine della prima guerra mitridatica hanno insistito anche Müller, Bemer-
kungen zu Funktion und Bedeutung des Rats, cit., 52 («In dieser Doppelprovinz ist durch römische
Satzung die Bule zum ordo geworden»), e Hamon, Le conseil et la participation des citoyens, cit.,
122-123 e 134.
37
Liv. XXXIV 51, 4-5 (non liberandae modo ciuitates erant sed ex omni conluuione et confusione
in aliquam tolerabilem formam redigendae. nec enim temporum modo uitiis ac uiolentia et licentia
regia turbati erant, sed inquieto etiam ingenio gentis, nec comitia nec conuentum nec concilium
ullum non per seditionem ac tumultum iam inde a principio ad nostram usque aetatem traducentis);
al § 6 i provvedimenti adottati da Flaminino (a censu maxime et senatum et iudices legit, poten-
tioremque eam partem ciuitatium fecit cui salua et tranquilla omnia esse magis expediebat). Sulla
vicenda cfr. da ultimo J. Thornton, Intervento romano, indebitamento e lotta politica in Tessaglia
nel II secolo a.C., MedAnt 5, 2002, 247-267, in particolare 252-257, e R. Pfeilschifter, Titus Quin-
ctius Flamininus. Untersuchungen zur römischen Griechenlandpolitik, Göttingen 2005, 300 (con
la bibliografia in n. 44).
38
Basti confrontare il diverso modo in cui i due autori presentavano la situazione politica che
avrebbe determinato l’alleanza della Beozia con Antioco III: a un breve cenno in Liv. XXXVI 6, 2
(re uera per multa iam saecula publice priuatimque labante egregia quondam disciplina gentis, et
multorum eo statu qui diuturnus esse sine mutatione rerum non posset) corrisponde la ricca analisi
di Polyb. XX 4, 1 – 7, 5. Cfr. già J. Thornton, Lo storico il grammatico il bandito. Momenti della
resistenza greca all’imperium Romanum, Catania 2001, 55-70.
146 John Thornton

il senato39; nelle città della Lega achea dopo la repressione della rivolta acaica40;
dopo Azio, per volontà di Ottaviano, nelle città schieratesi con Antonio, secondo

39
Il riferimento, in due brani in verità non del tutto chiari del discorso del rodio Astimede in senato,
nel 164 a.C., in Polyb. XXX 31, alla sottrazione da parte dei Romani di th;n tou' dhvmou parrhsivan
(§ 10; un tentativo di interpretazione in R.M. Berthold, Rhodes in the Hellenistic Age, Ithaca and
London 1984, 208-209), e alla perdita per il demos di ta;" prosovdou", th;n parrhsivan, th;n ijso-
logivan (§ 16), ha fatto pensare a imposizioni romane a proposito dell’ordinamento costituzionale
della repubblica, dopo Pidna: vd., oltre al rapido cenno di H. Van Gelder, Geschichte der alten Rho-
dier, Haag 1900, 157 («ihre Verfassung war verletzt»), H.H. Schmitt, Rom und Rhodos. Geschichte
ihrer politischen Beziehungen seit der ersten Berührung bis zum Aufgehen des Inselstaates im
römischen Weltreich, München 1957, 160; 163-165 («dann kann das nur im Sinne eines Eingriffs
ins Verfassungsleben der Insel verstanden werden»; Schmitt derivava un’indicazione in questo
senso anche dalla definizione dei politici rodii filoromani, in Polyb. XXIX 10, 3, come oiJ sw/vzein
spoudavzonte" th;n patrivda kai; tou;" novmou", in cui proponeva di leggere «ein vaticinium ex
eventu»). P.M. Fraser, CR n. s. 9, 1959, 64-67, in particolare 67 riteneva «much more likely that
the Rhodian government itself had found it necessary to introduce some emergency legislation»,
e concludeva che «though the Roman measures were undoubtedly the cause of the loss of parrhe-
sia, it does not necessarily follow that the Romans themselves actually intervened to suppress the
assembly». Contro la tesi di Schmitt, vd. J. Bleicken, «Gnomon» 1959, 439-442, in particolare
442 (i brani di Polibio addotti da Schmitt «sind wohl nicht in einem streng juristischen Sinne zu
verstehen, sondern sollen nur die Ohnmacht der Stadt gegenüber dem rachsüchtigen Rom vor Au-
gen halten»); J. Touloumakos, Der Einfluss Roms auf die Staatsform der griechischen Stadtstaaten
des Festlandes und der Inseln im ersten und zweiten Jhdt. v. Chr., Göttingen 1967, 130-132; F.W.
Walbank, A Historical Commentary on Polybius, III. Commentary on Books XIX-XL, Oxford 1979,
459 (Polibio intenderebbe indicare piuttosto «that such freedom to speak out as an equal was no
longer possible under the shadow of Roman domination, since all utterances had to take account
of this»); Berthold, Rhodes in the Hellenistic Age, cit., 210-211 (il riferimento sarebbe a «Rhodes’
independence and equality among other states, both lost to the republic through Roman hostility»).
V. Gabrielsen, Rhodes and Rome after the Third Macedonian War, in P. Bilde, T. Engberg-Peder-
sen, L. Hannestad, J. Zahle, and Klavs Randsborg (eds.), Centre and Periphery in the Hellenistic
World, Aarhus 1993, 132-161, in particolare 157-158, n. 30 giudica che «the arguments of each side
remain speculative»; da ultimo, vd. H.-U. Wiemer, Krieg, Handel und Piraterie. Untersuchungen
zur Geschichte des hellenistischen Rhodos, «Klio» Beihefte N. F. 6, Berlin 2002, 334-335, che nega
che i riferimenti alla perdita della parrhesia e dell’isologia nel discorso di Astimede possano allu-
dere a mutamenti costituzionali, ma ritiene comunque che di una «Stärkung der Exekutive» possa
trarsi indicazione dalla formula che appare al termine di alcuni decreti databili nella seconda metà
del II secolo a.C., con cui si concede alla boulà di apportare tutte le integrazioni che si rendessero
necessarie.
40
Paus. VII 16, 9 (ejntau'qa dhmokrativa" me;n katevpaue, kaqivstato de; ajpo; timhmavtwn ta;"
ajrcav"), da confrontare con Diod. XXXII 26, 2 (kai; to; suvnolon th;n ejleuqerivan kai; th;n par-
rhsivan ajpobalovnte"); una valutazione negativa dell’attendibilità del brano di Pausania in Kallet-
Marx, Hegemony to Empire, cit., 57-96, in particolare 65-76; per un giudizio diverso cfr. Thornton,
Lo storico il grammatico il bandito, cit., 154-160 (ulteriore bibliografia a p. 154, n. 15). Per un
tentativo di indicare la tendenza della rappresentazione polibiana della guerra acaica vd. J. Thorn-
ton, Tra politica e storia. Polibio e la guerra acaica, MedAnt 1, 1998, 585-634; sul tema classico e
molto dibattuto del rapporto fra il racconto di Pausania e Polibio vd. ora Idem, Pausania e la guerra
acaica. Una lettura di Polibio nel II secolo d.C., in L. Troiani e G. Zecchini (a cura di), La cultura
storica nei primi due secoli dell’impero romano, Milano, 3-5 giugno 2004, Roma 2005, 199-215.
Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea nell’età di Claudio 147

una notizia di Cassio Dione41; forse a Cizico, sotto Tiberio, dopo che alla città
fu revocata per la seconda volta, e definitivamente, la sua libertà42; e in Licia, in
questa stessa età di Claudio, come apprendiamo ora dalla dedica all’imperatore
nello stadiasmus di Patara43. Per Maronea, non è attestata alcuna crisi di que-
sto genere: a conferma dei privilegi della città, gli ambasciatori avevano potuto
snocciolare all’imperatore una serie continua e concorde di dogmata del senato
e di apokrimata imperiali44. Inoltre, le circostanze in cui avvenne la liberazione
di Maronea, e i passi stessi del decreto in cui si fa riferimento ai nomoi sembrano

41
Dio LI 2, 1, su cui vd. già J. Thornton, Pistoì symmachoi. Versioni locali e versione imperiale
della provincializzazione della Licia, MedAnt 7, 2004, 247-286, in particolare 262 e n. 52 alle pp.
262-263.
42
Quanto meno, l’apparizione a Cizico di timeti (censori: su questa magistratura vd. I. Lévy, Études
sur la vie municipale de l’Asie Mineure sous les Antonins, II. Les offices publics, REG 12, 1899,
255-289, in particolare 272-274, e G.E.M. de Ste. Croix, The Class Struggle in the Ancient Greek
World from the Archaic Age to the Arab Conquests, Ithaca, New York 1981, 530-531), in un de-
creto che si è proposto di datare nel secondo quarto del I secolo d.C. (vd. M. Sève, Un décret de
consolation à Cizique, BCH 103, 1979, 327-359, in particolare p. 330, l. 66; il testo era già stato
pubblicato da E. Schwertheim, Ein postumer Ehrenbeschluss für Apollonis in Kyzikos, ZPE 29,
1978, 213-228), e dunque dopo la definitiva revoca della libertà della città da parte di Tiberio, nel
25 d.C., sembra poter suggerire l’introduzione di misure costituzionali volte a favorire le classi
proprietarie. Su tutta la vicenda, vd. J. Thornton, Una città e due regine. Eleutheria e lotta politica
a Cizico fra gli Attalidi e i Giulio Claudi, MedAnt 2, 1999, 497-538. Per il sistema istituito a Cizico
vd. l’accurata analisi di Hamon, Le conseil et la participation des citoyens, cit., 140-143, che rileva
il tentativo di conciliare «l’existence d’un ordre privilégié de citoyens, défini par les timètes, avec
le maintien formel des pratiques de répartition et de rotation issues du régime démocratique an-
cien». La considerazione delle complesse vicende della libertà di Cizico in età giulio-claudia, di cui
Hamon non tiene conto, sembra poter suggerire la possibilità che qui le innovazioni costituzionali
siano state non un fenomeno endogeno, ma il portato dell’intervento romano.
43
Per cui vd. F. I¶ık - H. ˶kan - N. Çevık, Miliarium Lyciae. Das Wegweisermonument von Pa-
tara. Vorbericht, «Lykia» 4, 1998/1999 [ma 2001], e C.P. Jones, The Claudian Monument at Pa-
tara, ZPE 137, 2001, 161-168; all’ulteriore bibliografia indicata in Thornton, Pistoì symmachoi,
cit., 251, n. 14, si aggiunga C. Kokkinia, Ruling, inducing, arguing: how to govern (and survive)
a Greek province, in L. de Ligt - E.A. Hemelrijk - H.W. Singor (eds.), Roman Rule and Civic
Life: Local and Regional Perspectives. Proceedings of the Fourth Workshop of the International
Network Impact of Empire (Roman Empire, c. 200 B.C. – A.D. 476). Leiden, June 25-28, 2003,
Amsterdam 2004, 39-58, in particolare 45-49, e, in attesa dell’edizione definitiva, S. ‡ahin und M.
Adak, Stadiasmus Patarensis – Ein zweiter Vorbericht über das claudische Straßenbauprogramm
in Lykien, in R. Frei-Stolba (Hrsg.), Siedlung und Verkehr im römischen Reich. Römerstrassen
zwischen Herrschaftssicherung und Landschaftsprägung, Akten des Kolloquiums zu Ehren von
Prof. H.E. Herzig, vom 28. und 29. Juni 2001 in Bern, Bern 2004, 227-262. In Licia, l’attribuzione
del controllo dello stato a un consiglio tratto dagli aristoi è conseguenza dell’intervento romano,
certo sollecitato però da una parte della popolazione: un ulteriore elemento che può far ritenere che
anche a Cizico i mutamenti istituzionali siano stati provocati dall’intervento romano; per l’analogia
fra le due vicende cfr. già Thornton, Una città e due regine, cit., 509; 513; 522-529.
44
I, ll. 14-15; II, ll. 6-7. Come osserva Guerber, Le thème, cit., 133-134, «la chancellerie devait
pouvoir vérifier les assertions des ambassadeurs».
148 John Thornton

in realtà suggerire un’interpretazione diversa. Semplicemente, si direbbe, fra i


philanthropa concessi ai Maroniti dalle autorità romane, e confermati a più ripre-
se, doveva figurare l’autonomia, essenziale complemento, o piuttosto elemento
costitutivo del privilegio della libertà: alle autorità romane, la città di Maronea
era debitrice non di leggi imposte, ma, al contrario, della consueta concessione di
poter continuare ad impiegare le proprie leggi45.
Nel decreto di Maronea, il riferimento ai nomoi compare sempre affiancato
alla eleutheria della città e agli altri privilegi di cui godeva: ejl≥e≥u≥qe[rivan de;
kai; nov]m≥o≥u" meta; tw`n a[[llwn filanqrwvpwn e[labe a} dedhvlwtai uJpo;≥ t≥h`≥["
sunklhv]tou dia; dogmavtwn kai; uJpo; tw`n aujtokratovrwn dia; tw`n ajpokrimavt[wn
in I, ll. 13-15; kai; labei`n th;n dia; tw`n th`"] sunklhvtou dogmavtwn kriqei`s[an
ejleuqerivan k]a≥i; tou;" novmou" meta; th`" povlew" kai; cwvra" kai; [pavntwn tw`]n
filanqrwvpwn a} dia; tw`n dogmavtwn kai; ajpokrimavtwn [tw`n] a≥u≥t j okratovrwn
dhlou`taãià in II, ll. 4-7; thvn te ejle[u]qerivan hJmei`n kai; tou;" novmou" kai; th;n
povlin kai; th;n cwvran kai; ta[lla filavnqrwpa pavnta a} oi{ te provgonoi hJmw`n
kai; hJmei`" labovnte" par∆ aujtw`n e[[scomen in II, ll. 15-17. Queste formulazioni
trovano preciso e più esplicito riscontro all’altro capo dello scambio diploma-
tico fra città greche ed autorità romane, in una lettera alla città di Afrodisia in
cui l’imperatore Adriano riprende quella che nella prospettiva locale si sarebbe
potuta presentare come una menzione dei nomoi in un contesto in tutto analogo
alle occorrenze del riferimento alle leggi nell’iscrizione di Maronea: alle ll. 5-7
del documento 15 di Afrodisia46 si legge th;n me;n ejleuqerivan kai; aujtonomivan
kai; ta; a[lla ta; uJpavrxanta uJmei`n parav te th`" sunklhvtou kai; tw`n pro; ejmou`
aujtokratovrwn ejbebaivwsa provsqen. Analogamente, nel 161, Marco Aurelio e
Lucio Vero scrissero agli abitanti di Coronea che o{sa th`" ejleuqeriva" kai; aujto-
nomiva" divkaia ejdovq≥h≥ provteron uJmei`n uJpo; tw`n hJmetevrwn progovnwn ejthvrh-
sevn [te oJ] qeo;" path;≥r≥ hJ[m]w`n, tau`ta kai; hJmei`" bebaiou`men47. Sembrerebbe
dunque che le autorità centrali traducessero in termini di autonomia48 i riferimenti
ai nomoi delle città libere49, per le quali non sembra lecito pensare a un’imposi-
zione dall’esterno di leggi ‘costituzionali’; l’autonomia appare infatti elemento
irrinunciabile della loro condizione di libertà.

45
Così, come si è rilevato, già Clinton, Maroneia and Rome, cit., 393; 406.
46
Reynolds, Aphrodisias and Rome, cit., p. 115.
47
J.H. Oliver, Greek Constitutions of Early Roman Emperors from Inscriptions and Papyri, Phila-
delphia 1989, 264, nr. 117, ll. 8-10.
48
Cfr. anche il tisi; de; th;n aujtonomivan ajpevdosan di Diod. XXXII 4, 4, in sede di valutazione
complessiva dell’imperium Romanum, nella sua fase di epieikeia.
49
Vd. pure la presentazione a Traiano della condizione di Amiso in Plin. ep. X 92: Amisenorum
ciuitas libera et foederata beneficio indulgentiae tuae legibus suis utitur.
Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea nell’età di Claudio 149

Analizzando i precedenti ellenistici della proclamazione della libertà dei


Greci nel 196 a.C., Jean-Louis Ferrary50 ha attirato l’attenzione su una serie di
documenti, che potrebbe farsi risalire sino all’atto di fondazione della seconda
Lega navale attica, nel 377 a.C.51, in cui la condizione di libertà appare accom-
pagnata, o piuttosto scomposta nei tre fattori dell’autonomia, dell’immunità e
dell’assenza di occupazione militare. La concessione della libertà a Maronea è
significativamente vicina, sia cronologicamente sia per analogia di circostanze,
alla proclamazione dell’Istmo: anche in quell’occasione, la libertà elargita dai
Romani vincitori si esplicava nei tre elementi ajfrourhvtou", ajforologhvtou",
novmoi" crwmevnou" toi`" patrivoi"52. Nello stesso periodo, il legame fra liber-
tas e suae leges emerge anche nella lettera degli Scipioni a Eraclea del Latmo:
sugcwrou`men de; uJmi`n thvn te ejleuqerivag kaqovti kai; [tai`" a[]llai" povlesin,
o{sai hJmi`n th;n ejpitroph;n e[dwkan, e[cousin uJ[f∆ auJtou;" pav]nta ta; aujtw`m
politeuvesqai kata; tou;" uJmetevrou" novmou"53. Ancora nel 39 a.C., il s. c. de

50
J.-L. Ferrary, Philhellénisme et impérialisme. Aspects idéologiques de la conquête romaine du
monde hellénistique, de la seconde guerre de Macédoine à la guerre contre Mithridate, École
Française de Rome 1988, 83-88. Flaminino si sarebbe ispirato direttamente al decreto del sine-
drio dell’alleanza ellenica nel 220, alla vigilia della guerra contro gli Etoli, in cui si prometteva a
quanti contro la loro volontà erano stati costretti ad aderire alla Lega etolica di restituirli eij" ta;
pavtria politeuvmata, cwvran e[conta" kai; povlei" ta;" auJtw'n, ajfrourhvtou" ajforologhvtou" ej-
leuq evrou" o[nta", politeivai" kai; novmoi" crwmevnou" toi'" patrivoi" (Polyb. IV 25, 7), o piuttosto
all’atto costitutivo dell’alleanza greco-macedone fondata nel 223 da Antigono Dosone, che doveva
garantire ai membri le stesse condizioni; vd. anche Ferrary, La liberté des cités et ses limites, cit.,
69-70. Cfr. anche Polyb. IV 84, 5 (nelle trattative con Anfidamo, stratego degli Elei, Filippo V ga-
rantì loro, in caso si fossero decisi a passare dalla sua parte, che li avrebbe conservati ejleuq evrou",
ajfrourhvtou", ajforologhvtou", crwmevnou" toi'" ijdivoi" politeuvmasi) e Polyb. XV 24, 2 e 3,
dove su richiesta dei Tasii Filippo promise loro di lasciarli ajfrourhvtou", ajforologhvtou", ajne-
pistaqmeuvtou", novmoi" crh'sqai toi'" ijdivoi".
51
IG II2, 43 (= Syll.3 147), ll. 20-23: ...ejleuqevr]wi o[nti kai; aujtonovmwi, polit[euomevn]wi po-
liteivan h}n a]n bovlhtai, mhvte [fror]a;n eijsdecomevnwi mhvte a[rconta uJpo[dec]omevnwi, mhvte
fovron fevronti ...
52
Polyb. XVIII 46, 5; cfr. il § 15 (ejleuqevrou", ajfrourhvtou", ajforologhvtou" genevsqai, nov-
moi" crwmevnou" toi'" ijdivoi") e vd. già XVIII 44, 2, per il contenuto del senatus consultum portato
dalla commissione dei dieci (ejleuqevrou" uJpavrcein kai; novmoi" crh'sqai toi'" ijdivoi"). In Diodoro
XXVIII 13 Flaminino, di fronte ai notabili greci, avrebbe rivendicato che per volontà del popolo
romano a{pante" oiJ th;n ÔEllavda katoikou'ntev" eijs in ejleuvqeroi kai; ajfrouvrhtoi kai; to; mevgi-
ston toi'" ijdivoi" novmoi" politeuovmenoi. Sulla proclamazione della libertà dei Greci all’Istmo, nel
196 a.C., e per il rapporto fra il concetto di eleutheria e la sempre più minuziosa elencazione dei
privilegi concessi sotto il dominio di Roma, vd. le riflessioni di D. Musti, Città ellenistiche e impe-
rium, MedAnt 2, 1999, 449-462, in particolare 454-455 e 458-459; cfr. inoltre la densa trattazione
di Boffo, La «libertà» delle città greche, cit., 238-249.
53
RDGE 35, ll. 10-12; in generale, sul tema del rapporto fra autonomia e libertà delle città libere
in età ellenistica e sotto l’imperium Romanum, vd. Boffo, La ‘libertà’ delle città greche, cit., 238-
243.
150 John Thornton

Aphrodisiensibus, alle ll. 61-62, recitava esplicitamente ejleuvqeroi kai; ajtelei`"


w\s in, novmoi" te ijdivoi" p[atriv]oi" kai; ou}" a}n meta; tau`ta ejn eJautoi`" kurãwvÃ-
sãwÃsin crw`n[tai54: l’autonomia continuava ad apparire elemento essenziale
della condizione di libertà.
D’altro canto, l’imposizione di leggi o di ordini dall’esterno sembrerebbe in-
dicare di per sé una condizione di non libertà. Il filoromano Micythio di Calcide,
a stare al resoconto liviano, avrebbe motivato la sua convinzione che i Greci non
avevano alcun bisogno di un liberatore quale Antioco III sostenendo che nullam
enim ciuitatem se in Graecia nosse quae aut praesidium habeat, aut stipendium
Romanis pendat, aut foedere iniquo adligata quas nolit leges patiatur55. Invertite
le parti, al termine della guerra, la liberazione dell’Asia minore a nord del Tau-
ro dal dominio di Antioco venne rappresentata in questi termini: ajpoleluvsqai
tine;" me;n fovrwn, oiJ de; froura`", kaqovlou de; pavnte" basilikw`n prostag-
mavtwn56. La necessità di sottostare a leggi imposte dall’esterno definisce dunque,
con il tributo e l’occupazione militare, una condizione di non libertà; non può
stupire così che nel concedere la libertà a una città si indicasse esplicitamente il
diritto di continuare ad amministrarsi secondo le proprie leggi.
A Maronea dunque, più che di leggi date dai Romani, si deve parlare di leg-
gi ‘restituite’, secondo il principio già incontrato nella lettera degli Scipioni a
Eraclea del Latmo. In forza della vittoria su Perseo, i Romani si ritenevano legit-
timamente intitolati a stabilire il destino della polis e della chora di Maronea57
– tanto che il senato poté considerare persino la possibilità di farne dono ad At-
talo58; poi, decise diversamente, proclamando la libertà della città, e restituì ai

54
Reynolds, Aphrodisias and Rome, cit., doc. 8.
55
Liv. XXXV 46, 10. La stessa funzione di negare che vi fosse alcun motivo che potesse giustifi-
care la diabasis di Antioco III quale liberatore della Grecia ha l’affermazione che oujdevna ga;r e[[ti
tw'n ÔEllhvnwn ou[te polemei'sqai uJp∆ oujdeno;" ou[te douleuvein oujdeniv attribuita da Polyb. XVIII
47, 2 a Flaminino e ai legati del senato nelle trattative con gli ambasciatori di Antioco III a Corinto,
nel 196; la diversa traduzione riproposta ancora da Ferrary, Rome et les cités grecques d’Asie Mi-
neure, cit., 94-95 («Aucun Grec ne devait désormais être attaqué par personne ni asservi à person-
ne»), non è accettabile, nonostante l’origine liviana (XXXIII 34, 3). Per qualche cenno sulla storia
dell’interpretazione di questo passo cfr. anche Polibio, Storie, a cura di D. Musti. Volume quinto
(Libri XII-XVIII). Traduzione di M. Mari. Note di J. Thornton, Milano 2003, 638-639, n. 4.
56
Polyb. XXI 41, 2.
57
Come la vittoria su Antioco III aveva dato loro la possibilità di decidere la sorte dell’Asia a
nord del Tauro. Per questa dinamica nel mondo ellenistico, vd. J. Ma, Antiochos III and the Cities
of Western Asia Minor, Oxford 1999, 111-113 con i riferimenti ad alcuni casi e alla bibliografia
precedente.
58
Cfr. già supra, 140, n. 10.
Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea nell’età di Claudio 151

Maroniti, assieme alla polis e alla chora, anche i nomoi59. Analogamente, nel
187 a.C. un senatus consultum aveva stabilito ut Ambraciensibus suae res omnes
redderentur; in libertate essent ac legibus suis uterentur; portoria quae uellent
terra marique caperent…60 L’idea di restituzione, in cui rientrano i beni e la ca-
pacità di imposizione fiscale sul territorio, qui è esplicita – ed esplicitamente si
accompagna alla concessione di amministrarsi secondo le proprie leggi; altri casi
che potrebbero indicarsi sono forse quello di Taso, al termine della prima guerra
mitridatica61, quello di Termesso nella lex Antonia62, e quello di Tarso nei rappor-
ti con il secondo Cesare, Augusto, come delineato da Dione di Prusa63.
La vittoria militare, o la deditio64, davano piena libertà di decidere della sorte
dei vinti, e di stabilire di quali e quanti fra i loro beni potessero mantenere il

59
Si noti che della polis e della chora si parla esplicitamente, accanto agli altri privilegi della città,
in II, ll. 4-7 e 15-17. Cfr. per es. il comportamento romano nei confronti della città di Reggio, tra-
dita dalla legio Campana, quale rappresentato, nella primavera del 199 a.C., dal legato Lucio Furio
Purpurione agli Etoli, replicando alle accuse degli ambasciatori di Filippo V: urbem agros suaque
omnia cum libertate legibusque Reginis reddidimus (Liv. XXXI 31, 7). Un precedente ellenistico
di restituzione delle leggi nella rappresentazione favorevole dell’intervento di Antigono Dosone a
Sparta nel discorso di Licisco, in Polyb. IX 36, 4: wJ" pro;" toi'" a[lloi" ejkbalw;n to;n tuvrannon kai;
tou;" novmou" kai; to; pavtrion uJmi'n ajpokatevsthse polivteuma.
60
Liv. XXXVIII 44, 3-4. Sui privilegi concessi ad Ambracia vd. Bernhardt, Entstehung, immunitas
und munera der Freistädte, cit., 58-59; per l’interpretazione di suae res omnes nel testo liviano,
espressione che «does not refer to various individual pieces of booty [...], but to the city and its
possessions as a whole», in quanto «after the deditio the city (in its material aspect) and all its inha-
bitants become the property of Rome», vd. già J. Linderski, Cato Maior in Aetolia, in R.W. Wallace
and E.M. Harris (eds.), Transitions to Empire. Essays in Greco-Roman History, 360-146 B. C., in
honor of E. Badian, Norman and London 1996, 376-408, in partic. 407, n. 93.
61
Cfr. RDGE 20 e 21, documenti purtroppo estremamente frammentari, con Clinton, Maroneia and
Rome, cit., 386-387.
62
ILS 38; vd. J.-L. Ferrary, La lex Antonia de Termessibus, «Athenaeum» n. s. 63, 1985, 419-457,
in particolare 448 per un riassunto delle disposizioni della legge che ci sono pervenute; sulla ane-
pistathmeia concessa a Termesso cfr. anche Boffo, La «libertà» delle città greche, cit., 246-247.
Per il parallelo con il senatus consultum relativo ad Ambracia cfr. ancora Bernhardt, Entstehung,
immunitas und munera der Freistädte, cit., 58-59 (ma Ferrary, La lex Antonia, cit., 456, osservava
che a Termesso, diversamente che ad Ambracia, dove la concessione di esigere portoria quae uellent
terra marique era limitata dalla clausola dum eorum immunes Romani ac socii nominis Latini essent,
«l’immunité n’est accordée qu’aux publicains, dans l’exercise de leurs fonctions officielles»).
63
Dio Chr. XXXIV 8: toigarou'n a} ti" a]n fivloi" o[ntw" kai; summavcoi" kai; thlikauvthn proqu-
mivan ejpideixamevnoi" kajkei'no" uJmi'n parevsce, cwvran, novmou", timhvn, ejxousivan tou' potamou',
th'" qalavtth" th'" kaq∆ auJtouv". Si noti l’accento posto sulla prothymia mostrata dai Tarsi, che
giustifica la concessione dei privilegi; un’analoga insistenza sui merita in populum Romanum della
città s’incontra a Maronea, come logica premessa della richiesta di restituzione della libertà e dei
connessi philanthropa.
64
Vd. in particolare le ll. 7-10 della tavola di Alcántara, con D. Norr, Aspekte des römischen
Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, ABAW N.F. 101, München 1989, in particolare 51-
64 per un’ampia discussione della clausola della restituzione (la bibliografia precedente a p. 51, n.
2), con i casi paralleli.
152 John Thornton

possesso. Lo aveva spiegato Scipione Africano agli ambasciatori punici dopo


la battaglia decisiva della guerra annibalica65, e lo sapevano anche Menippo ed
Egesianatte, rappresentanti di Antioco III a Roma nel 193 a.C.66 Nel 149, dopo
la loro deditio, ai Cartaginesi venne concessa thvn t∆ ejleuqerivan kai; tou;" nov-
mou", e[ti de; th;n cwvran a{pasan kai; th;n tw`n a[llwn uJparcovntwn kth`s in kai;
koinh`/ kai; kat∆ ijjdivan67. Quando gli ambasciatori punici riferirono l’esito delle
trattative ai concittadini, peri; de; povlew" mh; gegonevnai mneivan eij" megavlhn
ejpivstasin aujtou;" h\ge kai; pollh;n ajmhcanivan68; ben a ragione, come risultò
poi tragicamente.
A Maronea, le leggi, restituite per libera volontà romana, come la stessa polis
con la sua chora, potevano dunque per questo essere annoverate fra i philanthro-
pa concessi dal senato. La restituzione delle leggi va intesa come un elemento
della dichiarazione della libertà della città. Così, i Maroniti non ringraziavano
le autorità romane per leggi imposte dall’esterno69, ma erano riconoscenti per la
concessione th`" aujtonomiva" th`" a{pasin ajnqrwvpoi" prosfilestavth"70.

2. Il discorso si presenta purtroppo assai meno chiaro per quanto riguarda de-
mocrazia e libertà. I cittadini di Maronea, non completamente rassicurati dalla
risposta favorevole dell’imperatore71, approvarono preventivamente, conferen-
dogli forza di legge, un decreto eterno, valido per sempre (yhvfisma aijwvnion
nomoqethqevn)72, che consentiva a chiunque lo desiderasse di registrarsi come

65
Vd. Polyb. XV 17, 5, con la distinzione fra le eventuali concessioni (ei[ ti sugcwrhqhvsetai
filavnqrwpon) e le imposizioni (ei[ ti pavscein h] poiei'n h] didovnai sfivs in ejpitacqhvsetai);
per i Cartaginesi, fra i philanthropa, a fianco alla restituzione delle poleis e della chora controllate
in Africa, con il bestiame, gli schiavi e gli altri beni, figurava anche la clausola e[qesi kai; novmoi"
crh'sqai toi'" ijdivoi", ajfrourhvtou" o[nta" (Polyb. XV 18, 1-3; alla lista dei filavnqrwpa, seguo-
no ta; d∆ ejnantiva touvtoi").
66
Liv. XXXIV 57, 7: esse autem tria genera foederum quibus inter se paciscerentur amicitias ciui-
tates regesque: unum, cum bello uictis dicerentur leges; ubi enim omnia ei qui armis plus posset
dedita essent, quae ex iis habere uictos quibus multari eos uelit, ipsius ius atque arbitrium esse.
67
Polyb. XXXVI 4, 4.
68
Polyb. XXXVI 4, 9.
69
In questo senso, è significativo quanto si apprende dal caso licio (bibliografia supra, in n. 43):
la dedica a Claudio dello stadiasmus di Patara mostra come, anche in un contesto in cui, con la
riduzione a provincia della regione, doveva esservi stata un’imposizione di leggi da parte romana,
fra i locali persino quanti si ritenevano salvati dalla divina pronoia dell’imperatore preferirono
però presentarne l’intervento come restituzione delle leggi patrie, piuttosto che come imposizione
dall’esterno di nuove disposizioni.
70
Secondo l’espressione attribuita da Polyb. XXI 22, 7 agli ambasciatori rodii in senato, nel 189
a.C.; nel brano, ancora una volta, l’autonomia è affiancata alla liberazione.
71
Cfr. già la n. 23.
72
Cfr. I, ll. 26 (cit. sopra nel testo); 47-48, e vd. Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 158; Idem, La
politique des évergètes, cit., 150.
Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea nell’età di Claudio 153

potenziale ambasciatore della città. Nel momento del bisogno, quanti si erano
sottoposti a questa procedura sarebbero potuti partire immediatamente, apparen-
temente senza bisogno di alcuna ratifica ulteriore da parte di alcun organo cittadi-
no73 – e, quel che più conta, senza che nessuno ne potesse impedire o ostacolare
la missione: mhdeno;" e[conto" ejxousivan≥ [t]o≥ut ≥v ou uJpenantivou mhvte gravyai
mhde;n mhvte eijpei`n mhvte [proba]l≥es ≥v q≥ a
≥ i presbeuth;n a[llon h] presbeuvein
tina; ejpi; proskai≥r ≥ [≥ i ti]n≥i≥; uJp
v w ≥ enantivãaà toi`" proeyhfismevnoi" perievcon-
ti yhfivs[mati mhvte ej]mpodivsai th;n presbhvan h] poih`saiv ti macovmenon tw/`
n≥[omoqethqevnti y]hfivsmati kata; mhdevna trovpon74. Sarebbe bastato aggiun-
gere il proprio nome nella copia del decreto approvato preventivamente che do-
vevano detenere, inserirvi il nome dell’imperatore regnante75, e chiudere il do-
cumento da presentare all’imperatore76 con un sigillo che raffigurasse Dioniso,
la divinità principale della città. Una volta apertolo, l’imperatore non vi avrebbe
trovato alcuna esplicita indicazione della singolarità della procedura che aveva
portato all’invio dell’ambasceria; anzi, il documento attribuiva la nomina degli
ambasciatori alla boulè e al demos, e riferiva persino delle entolaì date all’am-
basceria, che prescrivevano, in forma inevitabilmente un po’ generica, in che
modo i rappresentanti della città avrebbero dovuto salutare l’imperatore77, con-
gratulandosi per la buona salute sua e di tutta la famiglia imperiale, e per il buon

73
In realtà, Clinton, Maroneia and Rome, cit., 389 (dove parlava di «the decree authorizing a
particular embassy»); 390 («The ‘decree’ on which they are registered ought therefore to be the
decree that authorizes a specific embassy»); 396; 401; 407 sembrerebbe ritenere che ogni specifica
ambasceria dovesse essere autorizzata da un ulteriore decreto, ma allo stesso tempo individuava
l’obiettivo della procedura nel superamento del «time-consuming process of deliberating about
possible ambassadors and approving them in the Boule and Demos, a process subject to parliamen-
tary maneuvering and obstruction» (390), ed escludeva comunque che si possa parlare di elezione
degli ambasciatori («Incidentally, the procedure described in A resulted in ‘appointment’ of am-
bassadors (katestamevnoi, A, line 38) but apparently did not entail ‘election’; thus hJ/revqhsan here
may be technically incorrect», p. 407); cfr. anche Idem, Further Thoughts, cit., 147 («the decree
[…] that was to be passed on every occasion when it became necessary to send an embassy to the
emperor»; «The emperor’s name would presumably be inscribed when the decree was issued»).
Vd. però contra Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 160-162 e 164, n. 47 («in den entscheidenden
Zeilen I 34 f. wird mit dia; crhmatismou' ejpigravyai eJautou;" tw'/ yhfivsmati ja auch kein Zweifel
daran gelassen, daß die Eintragung der Gesandten in das Dekret nach Selbstnominierung durch
diese selbst vorzunehmen war»); Idem, La politique des évergètes, cit., 161.
74
I, ll. 40-46; cfr. anche il giuramento pronunciato da tutti, II, ll. 32-40.
75
Per questi aspetti, vd. Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 162-163.
76
Per l’effettiva consegna all’imperatore da parte delle ambascerie dei decreti delle città vd. F.
Millar, Emperors at Work, JRS 57, 1967, 9-19, ora in Idem, Rome, the Greek World, and the East,
vol. 2. Government, Society, & Culture in the Roman Empire, ed. by H.M. Cotton & G.M. Rogers,
Chapel Hill and London 2004, 3-22, e naturalmente Idem, The Emperor in the Roman World (31
BC – AD 337), Ithaca, New York 19922, cap. V, 203-272.
77
Per la cui designazione vd. Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 162-163.
154 John Thornton

andamento degli affari di stato, per passare poi, secondo l’uso, a rievocare i privi-
legi della città, con i merita in populum Romanum che avevano portato alla loro
concessione, e a chiederne la conferma – i{n∆ oiJ pavntote kai; ajdialeivptw" th;n
pro;" ÔRwmaivou" eu≥[noian kai; pivstin fulavxante" pavntote th`" ejx aujtw`n dia;
tau`ta cavrito" ajpolavwmen78.
Il giudizio di Wörrle su questa procedura straordinaria è estremamente duro.
Essa risulterebbe in un inganno dell’imperatore79; i promotori del decreto ne sa-
rebbero stati pienamente consapevoli, ma non avrebbero potuto evitarlo, «weil
sie systemisch Unmögliches und Unseriöses planten und damit notwendig in
Widersprüchen endeten»80. In particolare, l’apposizione del sigillo al documento
da consegnare all’imperatore sarebbe degenerata in una farsa: non il sigillo uffi-
ciale della polis avrebbe chiuso il documento, ma uno qualsiasi, a scelta dell’am-
basciatore autonominatosi, purché riproducesse la divinità principale della città81.
Che poi nel documento gli ambasciatori fossero presentati con la legittimazione
derivante dall’investitura dell’assemblea popolare, e non come autonominatisi,
sarebbe un’assurdità, «eigentlich nichts anders als Betrug»82.
Dei punti deboli della procedura escogitata a Maronea, messi a nudo dalla luci-
da analisi di Wörrle, gli ideatori del decreto eterno dovevano essere consapevoli;
non a caso avvertirono l’esigenza di tentare di ‘blindare’ il provvedimento83, per
metterlo al riparo da ogni possibile obiezione. A questo fine mirano l’esplicito
divieto di presentare proposte contrarie al decreto eterno84, la sua equiparazione
ai nomoi, il giuramento richiesto a tutti i cittadini85 — o forse persino a tutti i

78
Per le istruzioni date all’ambasceria vd. II, ll. 11-20 (la citazione dalle ll. 18-20), con Clinton,
Maroneia and Rome, cit., 404-407.
79
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 158; 163-164; Idem, La politique des évergètes, cit., 161.
80
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 158.
81
I, ll. 37-40 (kai; sfragiãsÃavmenoi t≥o; yhv(fisma) sfragei'di [ej]c≥o≥u≥vsh/ provswpon Dion≥uvsou
o} a]n aujtoi; boulhqw's in, ll. 37-38). Cfr. Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 163-164; Idem, La
politique des évergètes, cit., 151 e soprattutto 160-161.
82
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 164; cfr. Idem, La politique des évergètes, cit., 161 («cela,
on peut tout simplement l’appeler de la tromperie»). Per le ambiguità del documento da consegnare
all’imperatore riguardo al processo di designazione degli ambasciatori cfr. già le osservazioni di
Clinton, Maroneia and Rome, cit., 407, riportate nella n. 73.
83
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 165-166: «Festzuhalten bleibt, daß der außergewöhnliche
Schutz, mit dem die neue Art der Gesandtenbestellung umgeben wird, nicht nur auf deren außer-
gewöhnliche Bedeutung, sondern auch auf ein sich an ihr entzündendes Problembewußtsein, wohl
eben auch auf Sorge ihrer Initiatoren um ihren Bestand schließen läßt»; Idem, La politique des
évergètes, cit., 160, discusso più avanti nel testo.
84
I, ll. 40 ss., già cit. sopra nel testo, con Wörrle, La politique des évergètes, cit. 152-153.
85
Così Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 164-165; Idem, La politique des évergètes, cit., 152:
l’ultimo dei tre termini (katavlusi", ajnaivresi" e ajkuvrwsi") della l. II, 39 non potrebbe riferirsi
che all’abolizione di una legge o di un decreto, e dunque anche con questo giuramento s’intendeva
Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea nell’età di Claudio 155

residenti nella città, con l’inclusione dei cives Romani, secondo un’ipotesi che
Wörrle non ritiene si possa scartare86.
Ad obiezioni analoghe a quelle mosse da Wörrle, comunque, i creativi politici
di Maronea avrebbero forse potuto replicare che gli ambasciatori dovevano con-
siderarsi legittimamente eletti dall’assemblea e dal consiglio, in quanto la loro
autocandidatura era stata preventivamente ratificata, o piuttosto persino solleci-
tata da un decreto che conferiva il rango di ambasciatore a chiunque avesse avuto

proteggere la stabilità del decreto eterno – nonostante i toni richiamino la tradizione del giuramento
civico (su cui vd. almeno Gauthier, Les cités hellénistiques: épigraphie et histoire, cit., 94-95).
86
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 164, con preferenza però per l’ipotesi alternativa, che si
tratti di tutti i cittadini contrapposti agli ambasciatori; cfr. Wörrle, La politique des évergètes, cit.,
152. Le due possibilità non devono forse considerarsi rigidamente alternative, se si ammette che
fra i cittadini romani residenti a Maronea almeno alcuni fossero originari della città, e fossero stati
insigniti a titolo personale della cittadinanza romana, senza per questo perdere la cittadinanza di
Maronea. Per i Rhomaioi che, insediandosi in città greche, potevano acquistarne la cittadinanza,
vd. almeno R.M. Errington, Aspects of Roman Acculturation in the East under the Republic, in P.
Kneissl und V. Losemann (Hrsgg.), Alte Geschichte und Wissenschaftsgeschichte. Festschrift für
Karl Christ zum 65. Geburtstag, Darmstadt 1988, 140-157; per l’influenza esercitata da Romani e
Italici residenti in città greche, vd. il bilancio di R. Bernhardt, Rom und die Städte des hellenisti-
schen Ostens (3.-1. Jahrhundert v. Chr.), HZ Sonderheft 18, München 1998, 77-78 (e già Idem,
Polis und römische Herrschaft in der späten Republik (149-31 v. Chr.), Berlin-New York 1985,
262-267); più di recente, sui Greci insigniti della cittadinanza romana – talora difficili da distingue-
re dai Romani che acquistavano la cittadinanza di poleis greche –, cfr. P. Fröhlich, Les magistrats
des cités grecques: image et réalité du pouvoir (IIe s. a.C. – Ier s. p.C.), in Inglebert (textes réunis
par), Idéologies et valeurs civiques, cit., 75-92, in particolare 78-79, e soprattutto ora J.-L. Ferrary,
Les Grecs des cités et l’obtention de la ciuitas Romana, in Fröhlich et Müller (éd. par), Citoyenneté
et participation à la basse époque hellénistique, cit., 51-75; sulla coesione dell’impero assicurata,
nella riflessione di Elio Aristide (Or. XXVI K., 64), da «quel particolare strato sociale, presente in
tutte le città dell’Impero, che è costituito dai ‘cittadini romani’» vd. P. Desideri, La romanizzazione
dell’impero, in A. Schiavone (dir.), Storia di Roma, 2. L’impero mediterraneo, II. I principi e il
mondo, Torino 1991, 577-626, in particolare 588. Per una valutazione negativa del conseguimento
della cittadinanza romana, cfr. G. Bowersock, Artemidorus and the Second Sophistic, in B.E. Borg
(ed.), Paideia: The World of the Second Sophistic, Berlin-New York 2004, 53-63, in particolare
57-59, con riferimento ad Artemidoro I 35 (oi\da dev tina, o{" e[doxe tetrachlokoph'sqai kai; w]n
”Ellhn e[tuce th'" ÔRwmaivwn politeiva" kai; ou{{tw" ajfh/revqh tou' protevrou ojnovmatov" te kai;
ajxiwvmato") e alla lettera 71 di Apollonio di Tiana (R.J. Penella, The Letters of Apollonius of Tyana.
A Critical Text with Prolegomena, Translation and Commentary, «Mnemosyne» Suppl. 56, Leiden
1979, pp. 76-77), da confrontare con Filostrato, VA IV 5: Apollonio avrebbe biasimato l’abbandono
dei tradizionali nomi ellenici per adottare nomi romani; per Artemidoro, un greco che assumeva la
cittadinanza romana perdeva non solo il suo nome ma anche la sua reputazione (axioma): in Arte-
midoro, sarebbero espliciti i sentimenti antiromani che si è creduto di attribuire, impliciti, ad altri
esponenti della seconda sofistica. A proposito della provincia d’Asia, D. Campanile, Nuovi contri-
buti dell’epigrafia per lo studio delle élites locali nelle province orientali in età romana: l’esempio
dell’Asia, in J. Desmulliez et Chr. Hoët-van Cauwenberghe (éditeurs), Le monde romain à travers
l’épigraphie: méthodes et pratiques, UL3, Lille 2005, 15-30, in particolare 20-21 ha osservato
come il possesso della cittadinanza romana implichi l’appartenenza all’élite, ma la sua assenza non
sia sufficiente a negarla.
156 John Thornton

il coraggio e lo spirito civico di rivendicarlo, di assumere personalmente la difesa


dei privilegi della città. Benché solo preventivamente, dunque, la loro nomina
poteva dirsi approvata dalla boulè e dal demos87.
La ragione di fondo della condanna di Wörrle risiede nelle finalità che l’insi-
gne epigrafista ritiene si debbano attribuire all’elaborazione di una simile pro-
cedura. Scopo del decreto approvato da boulè e demos di Maronea sarebbe sta-
to «die Beschlußfassung der Ekklesie über künftige Kaisergesandtschaften zu
erübrigen und die Entscheidung darüber, ob sie stattfinden sollten, in die Hand
von, jedenfalls theoretisch, beliebigen Einzelpersonen zu legen»88. Di fatto, solo
teoricamente l’accesso a questa ristretta élite sarebbe stato aperto a chiunque, a
tutti oiJ boulovmenoi89; dietro il lessico democratico, si nasconderebbe la realtà
del controllo degli affari politici da parte di un’oligarchia90. Wörrle accosta la
procedura elaborata a Maronea all’affidamento della gestione del passaggio dalla
monarchia eij" dhmokrativan, nel 133 a.C., a Pergamo, a una commissione di
synedroi composta di aristoi andres91, e all’assunzione del controllo del koinòn
licio, negli anni successivi al 43 d.C., da parte di un consiglio selezionato fra gli
aristoi 92. A Maronea, con questo decreto si sarebbe voluta conferire una sanzione
legale a una situazione di fatto già creatasi da tempo, il dominio della vita politica
della città da parte di una classe di «Überbürger», incontrollati e incontrollabili93
87
In questo senso, potevano forse trovare qualche giustificazione le formule di II, ll. 10-11 (dedov-
cqai th/' boulh/' kai; tw/' dhvmw/ h/Jrh'sqai presbhvan) e II, l. 20 (h/Jrevqhsan presbeutaiv), contro cui
protesta Wörrle, La politique des évergètes, cit., 161 (e vd. già Clinton, Maroneia and Rome, cit.,
407, già citato supra, in n. 73).
88
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 160; cfr. anche 161: «Mit diesem Formular wurde die Wahl
der Gesandten an den Kaiser durch die Volksversammlung überflüssig gemacht; wie man aus I Z. 41
ff. sieht, war sie geradezu nachdrücklich verboten, weil keine probolhv eines alternativen Anwärters
auf den Geasandtschaftsauftrag eingebracht werden durfte und die Umgehung des gesamten Blanko-
verfahrens durch ein spezielles Gesandtschaftsdekret mit Nennung konkreter Gesandter erst recht
ausgeschlossen war (I Z. 42 f.)»; cfr. anche 164, n. 47, già cit. supra, in n. 73.
89
I, l. 28; l. 34 (pavnte" oiJ boulovmenoi).
90
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 160-162 e soprattutto 167; Idem, La politique des évergètes,
cit., 155 («la cercle d’éventuels ambassadeurs se rétrécissait à l’élite économique et politique»).
91
M. Wörrle, Pergamon um 133 v.Chr., «Chiron» 30, 2000, 543-576, in particolare 544, ll. 11-13
per il testo e 564-565 per il commento.
92
Sulle indicazioni che sembrano potersi trarre dalla dedica a Claudio dello stadiasmus di Patara,
cfr. la bibliografia cit. supra, in n. 43. Per il parallelo con Pergamo e la Licia, vd. Wörrle, Maroneia
im Umbruch, cit., 166-167; Idem, La politique des évergètes, cit., 159-160.
93
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 167; cfr. già 162, con l’osservazione che «in der entschei-
denden Vorbereitungsphase war außer der metaphysisch-irrationalen des Eides keinerlei Kontrolle
der boulovmenoi ajnalabei'n to;n uJpe;r th'" patrivdo" ajgw'na vorgesehen». Per un esame della que-
stione della rendicontazione, essenziale nella democrazia antica, e più in generale del controllo sui
magistrati nelle città greche, nella sua evoluzione dal IV secolo alla tarda età ellenistica, vd. ora
la densa monografia di P. Fröhlich, Les cités grecques et le contrôle des magistrats (IVe-Ier siècle
avant J.-C.), Genève 2004.
Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea nell’età di Claudio 157

da parte di un popolo costretto a riporre in loro ogni speranza di salvezza94.


Per questa proposta interpretativa, Wörrle rimanda95 a due celebri pagine di
Louis Robert96, e alle note considerazioni di Philippe Gauthier sull’emergere di
un regime di notabili a partire dall’età tardo-ellenistica97; il documento di Maro-
nea rinvenuto a Samotracia rappresenterebbe l’istantanea più nitida di un momen-
to decisivo di questo processo nella documentazione disponibile98. A Maronea,
secondo Wörrle, «l’argument d’une efficacité plus grande»99 nella difesa della
libertà della città diverrebbe il pretesto per costringere il demos a rinunciare a una
parte essenziale delle sue prerogative politiche, ridurre il ruolo dell’assemblea e,
in definitiva, liberarsi della democrazia. L’approvazione di questo decreto per-
metterebbe di cogliere il momento del ritirarsi del popolo, per lasciare il posto al
regime dei notabili. «Avec son décret novateur, le démos de Maronée a formelle-
ment renoncé à l’élection de ceux qui devaient le représenter devant Claude et ses
successeurs. C’était, le texte le trahit, la classe politique maronitaine qui voulait
s’en débarrasser, et dans le climat de détresse, d’impuissance et de méfiance en-
vers l’ ejpifanevstato" qeo;" tou` kovsmou qu’était Claude, l’élite des bouleutes
ou un cercle plus restreint parmi eux arriva à imposer sa volonté à l’Assemblée
du peuple […] le démos abandonnait une partie essentielle, peut-être la partie la
plus essentielle, de sa participation politique et de sa marge de manœuvre: doré-
navant la classe politique avait tous les droits d’agir selon sa propre initiative et
sans aucun contrôle»100. L’importanza del documento per la storia sociale ed isti-
tuzionale della polis in età postclassica risiederebbe nella possibilità di addurlo
contro i dubbi di quanti, fra i quali in primo luogo Christian Habicht, in un saggio
dal titolo Ist ein «Honoratiorenregime» das Kennzeichen der Stadt im späteren
Hellenismus?, avevano lamentato la mancanza di prove concrete dell’idea dif-

94
In questa direzione, cfr. già per esempio Lehmann, Polis-Autonomie und römische Herrschaft,
cit., 229.
95
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 167; Idem, La politique des évergètes, cit., 161, n. 50.
96
L. Robert, Théophane de Mytilène à Constantinople, CRAI 1969, 42-64, in particolare 42-44;
analoghe, rapide considerazioni già in Idem, Recherches épigraphiques VII. Décret de la Con-
fédération Lycienne à Corinthe, REA 62, 1960, 324-342 (= OMS II, Amsterdam 1969, 840-858), in
particolare 325-326, cui rinviano ora anche G. Thériault, Évergétisme grec et administration romai-
ne: la famille cnidienne de Gaios Ioulios Théopompos, «Phoenix» 57, 2003, 232-256, in particolare
247, e Gauthier, Introduction, cit., 1-2.
97
Gauthier, Les cités hellénistiques: épigraphie et histoire, cit., 91-92.
98
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 167 («Ein bewußter und gleichzeitig wieder verschleierter
Bruch mit der Tradition an staatsrechtlich sensibler Stelle ist allerdings bislang nirgends so klar
wie in dem neuen Dossier von Maroneia dokumentiert»); Idem, La politique des évergètes, cit.,
156-158.
99
Wörrle, La politique des évergètes, cit., 160.
100
Wörrle, La politique des évergètes, cit., 160.
158 John Thornton

fusa secondo cui «die Vermögenden und Gebildeten […] ‘überschatteten’ die
demokratischen Institutionen wie Volksversammlung, Rat und Gerichte»101. Nel
decreto di Maronea, che emarginerebbe il ruolo dell’assemblea popolare, Wörrle
individua per così dire il ponte, l’anello di congiunzione fra la polis ellenistica e
la polis imperiale102.
In questo modo, il problema della difesa dei privilegi della città sembra sva-
nire, respinto sullo sfondo, o ridotto a mero pretesto; in primo piano si colloca il
tema dell’attentato al ruolo politico dell’assemblea e della ricerca di una sanzione
giuridica dei processi sociali collocati da Robert e da Gauthier nel periodo di
passaggio dal tardo ellenismo all’epoca romana. Questa interpretazione corre il
rischio però di separare la procedura escogitata a Maronea dall’occasione concre-
ta che la suscitò, in un momento in cui, con l’istituzione della provincia di Tracia,
era ragionevole temere che si moltiplicassero attacchi analoghi a quello appena
sventato da una fortunata ambasceria a Claudio. Le preoccupazioni che suggeri-
rono di tentare di ‘blindare’ il provvedimento, nella lettura di Wörrle, sarebbero
state dettate soltanto dal timore di una reazione democratica all’attentato ai poteri
dell’assemblea103; non avrebbero avuto invece alcun rapporto con l’asserita ne-
cessità di opporsi nel modo più rapido ed efficace ad ogni possibile minaccia ai
privilegi della città, e con il tentativo di impedire ogni manovra ostruzionistica,
volta ad ostacolare la difesa delle sue prerogative.
Nell’esplicito divieto fatto agli ambasciatori di mutare il testo del decreto
eterno, cui nulla si doveva sottrarre e nulla aggiungere (mhvte periairou`nta"
mhvte prosgr≥[avfonta" a[llo ti]104), Wörrle in un primo tempo aveva credu-
to di poter riconoscere «einen Vorstellungshorizont […] in dem nachträgliche
Manipulationen potenter Einzelpersönlichkeiten an den in Dekreten festgelegten
Entscheidungen der politischen Gemeinde nichts grundsätzlich Unvorstellbares
waren»105; si tratterebbe, a quanto sembra di intendere, di una prova ulteriore
della fragilità di una democrazia in disfacimento, in cui pochi potenti potrebbero
farsi beffe dei decreti dell’assemblea. Nel suo secondo contributo, però, Wörrle
ha opportunamente spostato l’attenzione sul complesso delle misure prese a ga-

101
Chr. Habicht, Ist ein «Honoratiorenregime» das Kennzeichen der Stadt im späteren Helleni-
smus?, in Wörrle und Zanker (Hrsgg.), Stadtbild und Bürgerbild im Hellenismus, cit., 87-92, in par-
ticolare 89; cfr. anche 92: «Der Beweis, daß eine neue Klasse von ‘Notabeln’ die demokratischen
Institutionen der Städte obsolet gemacht und die Masse der Bürger nach ihrem Willen gegängelt
habe, scheint mir nicht erbracht». Sulla questione, vd. ora i termini del dibattito raccolti da Gau-
thier, Introduction, cit. (in particolare, sull’intervento di Habicht, 3-4).
102
Con l’adesione, a quanto sembra, di C. Vial, Conclusion générale, in Fröhlich et Müller (éd. par),
Citoyenneté et participation à la basse époque hellénistique, cit., 275-282, in particolare 280.
103
Wörrle, La politique des évergètes, cit., 160, citato più avanti nel testo.
104
I, ll. 48-49, con l’integrazione di Wörrle, Maroneia im Umbrach, cit., 152.
105
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 158, n. 25.
Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea nell’età di Claudio 159

ranzia della stabilità del decreto eterno, riconducendole a «la peur d’une résistan-
ce et la mauvaise conscience des initiateurs», e traendone l’impressione che «la
renonciation à cet élément central de la démocratie traditionelle [la competenza
del demos sulla nomina delle ambascerie] n’était pas incontestée»106. In effetti,
più significative del divieto fatto agli ambasciatori autonominatisi di aggiungere
o togliere altro che il nome dell’imperatore in carica alla copia del decreto eterno
in loro possesso appaiono le disposizioni che proibivano a chiunque di presen-
tare bozze di decreto o candidature all’ambasceria diverse e contrarie rispetto al
decreto eterno107: a Maronea, ci si sforzò di impedire che in futuro potesse essere
approvato un decreto che nominasse un’ambasceria con entolaì diverse da quelle
sancite una volta per tutte, nel momento del ritorno degli ambasciatori che ave-
vano ottenuto da Claudio la restituzione dei privilegi della città, con il consenso
– più o meno spontaneo, più o meno sincero – di tutte le parti costituenti della
polis. Occorre rilevare che il processo che si voleva impedire, quello della pre-
sentazione di una proposta all’assemblea da parte di uno qualsiasi dei cittadini108,
sembra rientrare pienamente nell’alveo della democrazia; che in un singolo caso
specifico, sentito evidentemente come eccezionale, si avverta l’esigenza di vieta-
re le normali procedure democratiche, a garanzia di un provvedimento approvato
nell’assemblea, potrebbe considerarsi un’indicazione della vitalità delle forme
politiche della democrazia a Maronea, ancora nell’età di Claudio, e non della loro
decadenza.
Forse, allora, potrebbe essere opportuno ricordare che Robert, nelle pagine
iniziali del saggio su Teofane di Mitilene, esortava a prendere sul serio la vita
pericolosa delle città greche nell’età tardoellenistica, quando la questione dei rap-
porti con Roma andava assumendo sempre maggior importanza. Raccogliendo
questo invito, a proposito delle preoccupazioni espresse dai redattori del decreto,
e condivise, a quanto pare, dai loro concittadini che lo approvarono, ci si dovreb-
be chiedere se, ed eventualmente per quali vie, la procedura approvata a Maronea
poteva rispondere all’esigenza di difendere la libertà e gli altri privilegi della
polis meglio della prassi tradizionale. I risultati che ci si proponeva di ottenere at-
traverso l’approvazione del decreto eterno sono in primo luogo che un’ambasce-

106
Wörrle, La politique des évergètes, cit., 160.
107
I, ll. 27-29 (cit. già supra, e discusso poco più avanti nel testo); 40-46 (già cit. supra nel testo);
II, 37-39 (nel testo del giuramento pronunciato da tutti).
108
Sulla questione del diritto di iniziativa nell’età tardoellenistica e romana, vd. ora Ph. Gauthier,
Trois exemples méconnus d’intervenants dans des décrets de la basse époque hellénistique, in
Fröhlich et Müller (éd. par), Citoyenneté et participation à la basse époque hellénistique, cit.,
79-93, e soprattutto A. La Rocca, Diritto di iniziativa e potere popolare nelle assemblee cittadine
greche, in F. Amarelli (a cura di), Politica e partecipazione nelle città dell’impero romano, Roma
2005, 93-118, in particolare 99-101 per casi analoghi a quello qui in discussione.
160 John Thornton

ria fosse sempre pronta a recarsi presso gli Augusti, e quindi che in nessun modo
fosse possibile ostacolare quanti erano disposti a combattere l’agone diplomatico
in favore della città (hJ ejpi; tou;" Seb≥a≥s≥tou;" presbhva kata;{ta} pavnta kairo;n
eJtoivmh uJpavrch/, mhdeno;" ejnoc≥l≥h`≥sai trovpou dunamevnou toi`" boulomevnoi"
ajnalabei`n to;n uJpe;r th`" pat≥ãrivÃd≥o≥" ajgw`na109). In effetti, l’approvazione del
provvedimento avrebbe portato all’istituzione immediata di una sorta di albo de-
gli ambasciatori, una lista di cittadini benemeriti impegnatisi ufficialmente ad
intraprendere, in caso di necessità, la difesa dei privilegi della città di fronte al-
l’imperatore; per il futuro, inoltre, si stabiliva una procedura che avrebbe potuto
garantire il costante aggiornamento della lista: a quanto sembra di intendere dalla
formula ejpi; tw`n kata; th;n sunedrhvan ajrcovntwn all’inizio del giuramento degli
ambasciatori110, infatti, l’invito a presentare la propria candidatura non era sog-
getto ad alcun limite cronologico, ma doveva rimanere valido anno dopo anno.
Per chi tenga presenti gli onori riversati, pochi anni prima, sul cittadino di Acrefie
Epaminonda figlio di Epaminonda, per essersi fatto carico della rappresentanza
dei Beoti nell’ambasceria inviata a Roma a salutare l’accesso al trono di Caligo-
la111, l’assunzione solenne dell’impegno all’ambasceria da parte di un gruppo di
cittadini animati da spiriti patriottici non apparirà del tutto priva di significato.
Wörrle stesso, infatti, pur rilevando la formularità del motivo, diffuso nei decreti
in onore degli ambasciatori greci inviati a trattare con le autorità romane a partire
già dal II secolo a.C., ha riconosciuto la reale difficoltà per le poleis di trovare
cittadini pronti ad affrontare i disagi, i pericoli e le spese di un’ambasceria, e ha
ipotizzato che alla fine del frammento I di Maronea si ritrovasse «la tentative de
motiver les candidats possibles avec la promesse de grands honneurs»112.

109
I, ll. 26-29.
110
II, l. 22; per l’interpretazione del brano vd. ancora Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 161,
testo e n. 39.
111
IG VII, 2711.
112
Wörrle, La politique des évergètes, cit., 153-155, in particolare 154, n. 23 (in base all’isolato ka-
torqwsa-- della l. 52, che potrebbe far pensare appunto a un simile contesto). Per un esempio dei
termini in cui poteva essere onorato un ambasciatore, fra i tanti documenti che si potrebbero citare,
cfr. il decreto colofonio per Polemeo, col. II, ll. 16-24 (Robert et Robert, Claros I, cit., 12-13, con
il commento alle pp. 28-29; cfr. anche Lehmann, Polis-Autonomie und römische Herrschaft, cit.,
226-227). Per la realtà del motivo dei disagi, delle spese e dei pericoli affrontati dagli ambasciatori,
vd. J. Linderski, Ambassadors go to Rome, in Ed. Frézouls et A. Jacquemin (éd. par), Les relations
internationales. Actes du Colloque de Strasbourg 15-17 juin 1993, Paris 1995, 453-478; Chr. Ha-
bicht, Zum Gesandtschaftsverkehr griechischer Gemeinden mit römischen Instanzen während der
Kaiserzeit, «Archaiognosia» 11, 2001/2, 11-28, in particolare 11-12, con la significativa citazione
di Plutarco, Mor. 602 C, in cui l’ambasceria a Roma figura fra le più sgradevoli imposizioni della
città ai suoi ceti dirigenti, il cui ricordo dovrebbe far preferire l’esilio; per i pericoli che compor-
tavano le ambascerie cfr. anche Idem, Tod auf der Gesandtschaftsreise, in B. Virgilio (a cura di),
Studi Ellenistici, 13, 2001, 9-17; vd. inoltre Fröhlich, Les magistrats des cités grecques, cit., 89-90.
Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea nell’età di Claudio 161

I cittadini di Maronea, nel tentativo di conservare quella condizione privile-


giata nei rapporti con l’imperium Romanum che tanto era costata ai loro antenati,
avevano espresso anche il timore che qualcuno potesse ostacolare i patrioti dispo-
sti ad affrontare l’agone diplomatico. Sembra legittimo, o piuttosto persino ne-
cessario interrogarsi sulla natura delle minacce che si tentò di sventare attraverso
l’inedita procedura del decreto eterno e le misure eccezionali che ne avrebbero
dovuto garantire stabilità ed efficacia; sostanzialmente, ci si dovrebbe chiedere
chi potesse avere interesse a bloccare l’invio di un’ambasceria all’imperatore in
difesa dei privilegi riconosciuti alla polis. Questa stessa strada sembrerebbe aver
inteso almeno indicare Clinton, che aveva rilevato l’importanza della clausola
«aimed at precluding any legal hindrance to such an embassy» di I, ll. 27-29,
osservando che «an embassy might be considerably delayed, subverted, or even
canceled through legislative maneuvering»113.
Wörrle ha battuto però una via diversa: come se i notabili di Maronea, nell’età
di Claudio, non potessero più condividere i valori ai quali si era ispirata l’azione
di un Teofane di Mitilene in favore della sua patrìs, non sembra aver ritenuto
sincere le preoccupazioni espresse dai redattori del decreto114. Nonostante l’in-
vito a registrarsi come ambasciatori volontari fosse democraticamente aperto a
tutti, a hoi boulomenoi, ad accoglierlo, ha osservato, sarebbero potuti essere solo
i membri dell’élite; «überall und von Anfang haben sich in ihr bekanntlich die
bevorzugten Partner der römischen Politik gefunden»115; questa «classe politica»,
a suo giudizio, si sarebbe prefissa l’obiettivo di sottrarre al demos la competenza
sui rapporti con le autorità imperiali. Quindi, affermando che «peut-être est-ce
dû à la partialité, attendue, des décrets honorifiques qui sont presque seuls à nous

Un esame della politica estera delle città, che in epoca ellenistico-romana si svolgeva attraverso le
ambascerie, in Quaß, Die Honoratiorenschicht, cit., 132-178 - con le osservazioni di Ph. Gauthier,
Bull. Épigr. 1994, 194, 505-508, in partic. 506; un’ampia raccolta di fonti commentate ha fornito F.
Canali De Rossi, Le ambascerie dal mondo greco a Roma in età repubblicana, Roma 1997.
113
Clinton, Maroneia and Rome, cit., 394.
114
La continua vigilanza in difesa dei privilegi delle città è quanto Vial, Conclusion générale, cit.,
278 ha giustamente dedotto dalla presentazione del decreto di Maronea, dando credito alle finalità
asserite dai suoi promotori; cfr. anche la soddisfazione di Pausania VIII 43, 1-2 per la concessione
della libertà a Pallantion in Arcadia da parte di Antonino Pio, con Musti, Città ellenistiche e impe-
rium, cit., 459, e Guerber, Le thème, cit., 127-128 e 132 (con l’osservazione che «les habitants des
cités libres d’Asie Mineure et d’Achaïe [...] n’ont sans doute pas souhaité la romanisation de leurs
institutions»). Su Teofane di Mitilene, oltre a Robert, Théophane de Mytilène à Constantinople,
cit., cfr. anche D. Salzmann, Cn. Pompeius Theophanes. Ein Benennungsvorschlag zu einem Por-
trät in Mytilene, MDAI(R) 92, 1985, 245-260; B.R. Gold, Pompey and Theophanes of Mytilene,
AJPh 106, 1985, 312-327; V.I. Anastasiadis - G.A. Souris, Theophanes of Mytilene: A New Inscrip-
tion Relating to his Early Career, «Chiron» 22, 1992, 377-383; G. Labarre, Théophane et l’octroi
de la liberté à Mytilène: question de méthode, «Tekmeria» 2, 1996, 44-53 (n.v.).
115
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 167; Idem, La politique des évergètes, cit., 156.
162 John Thornton

en témoigner, que ces gens sont toujours des patriotes et jamais des collabora-
teurs»116, Wörrle si è spinto sino a far balenare la possibilità che qualcuno potesse
considerare l’élite filoromana alla stregua di traditori.
Nel caso in esame, tuttavia, a prescindere dal problema della particolare vici-
nanza a Roma dei gruppi dirigenti delle città greche, e delle classi proprietarie
che li esprimevano117, quel che ci si deve chiedere è se sia verosimile che all’in-
terno della cittadinanza, sulla questione della difesa della libertà e dei privilegi
della città, si confrontassero posizioni diverse, e che la frattura del corpo civico
ricalcasse la distinzione fra masse ed élite, conferendo senso così al tentativo
di sottrarre all’assemblea popolare la competenza a decidere su questa materia.
Esistono ragioni concrete per le quali la classe dirigente della città avrebbe potuto
ritenere opportuno, o persino necessario privare l’assemblea del diritto di inter-
venire su questo punto? Quel che ci si deve chiedere è se, in condizioni normali,
in assenza cioè di tensioni sociali dirompenti all’interno della polis, la classe
dirigente (i notabili) potesse aver maturato una posizione diversa da quella del
plethos (la maggioranza dell’assemblea), sulla questione della libertà della città
all’interno dell’imperium Romanum118. Una risposta a questa domanda si può
cercare forse nelle considerazioni di Plutarco sulla posizione delle élites greche
nei confronti delle autorità imperiali.
La risposta che si ricava dai Praecepta gerendae rei publicae, un testo rivol-
to ai ceti dirigenti delle città greche soggette all’imperium Romanum, che può

116
Vd. Wörrle, La politique des évergètes, cit., 158.
117
Non è possibile ovviamente affrontare qui il tema del complesso rapporto fra le classi proprie-
tarie del mondo ellenistico e l’imperium Romanum, per cui si rimanda provvisoriamente alle con-
siderazioni svolte in Thornton, Lo storico il grammatico il bandito, cit., 16-31, con la bibliografia
precedente; per gli ‘amici dei Romani’ che in età tardorepubblicana presero a gestire i rapporti
delle loro città con la potenza egemone, vd. I. Savalli-Lestrade, Des ‘amis’ des rois aux ‘amis’ des
Romains. Amitié et engagement politique dans les cités grecques à l’époque hellénistique (IIIe-Ier s.
av. J.-C.), RPh 72, 1998, 65-86, in particolare 81-86; Thériault, Évergétisme grec et administration
romaine, cit.; e da ultimo M. Kajava, Teopompo di Cnido e Laodicea al Mare, «Arctos» 39, 2005,
79-92, in particolare 79-80.
118
Guerber, Le thème, cit., 124 ha rilevato piuttosto che «si le thème de la liberté des cités grecques
perdure, c’est sans doute parce qu’il a une résonance immédiate parmi les populations de la partie
hellénophone de l’Empire, et en premier lieu dans l’esprit de grandes figures intellectuelles telles
que Plutarque, Dion de Pruse, Philostrate ou Aelius Aristide»; cfr. 137: «La ‘liberté des Grecs’ est
ancore à l’époque du Haut-Empire une question politique vivante, qui touche des penseurs tels que
Plutarque, Dion de Pruse ou Aelius Aristide».
Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea nell’età di Claudio 163

consentire in qualche misura di coglierne i valori119, è una risposta negativa120.


Plutarco mostra di considerare la difesa dell’autonomia delle città compito es-
senziale delle classi dirigenti. Al politico ideale i cui doveri sono delineati nei
Politikà parangelmata, Plutarco raccomandava di evitare di fornire alle autorità
imperiali pretesti per intromettersi negli affari interni delle poleis, riducendone
così inesorabilmente l’autonomia. Così, Plutarco condannava quanti ricorrevano
al governatore per affermarsi all’interno della loro città, rovesciando grazie al
soccorso romano l’esito di un confronto politico da cui erano usciti sconfitti; in
questo modo, lamentava, si finiva per distruggere l’autorità del consiglio, del-
l’assemblea popolare, dei tribunali e di tutte le magistrature cittadine (Plut. Mor.
815 A: ejk touvtou de; kai; boulh; kai; dh`mo" kai; dikasthvria kai; ajrch; pa`sa
th;n ejxousivan ajpovllusi). Per parte sua, Plutarco era convinto che a una vitto-
ria conseguita a prezzo dei dikaia della polis fosse preferibile la sconfitta (Plut.
Mor. 815 B: aujtovn te ma`llon hJtta`sqai boulovmenon ejn toi`" polivtai" h] nika`n
u{brei kai; kataluvsei tw`n oi[koi dikaivwn). Meglio ancora sarebbe stato, se pos-
sibile, mantenere la concordia interna, evitando del tutto il conflitto civile: il buon
politico di Plutarco doveva mediare fra le parti in contrasto, appunto per evitare
che le rivalità interne alle città provocassero l’intervento romano. Il senso degli
appelli alla concordia di Plutarco, ai quali si possono legittimamente affiancare
analoghe posizioni di Dione di Prusa, che invitò i Tarsi a sforzarsi di conservare
quanto avevano ottenuto grazie all’eunoia e alla philia di Roma di∆ eujtaxivan kai;

119
Si potrebbe quasi dire, adottando la terminologia di J.C. Scott, Domination and the Arts of
Resistance. Hidden Transcripts, New Haven and London 1990, che i Precetti politici di Plutarco
riflettano lo hidden transcript delle classi dirigenti delle città greche della prima età imperiale nei
confronti dell’egemonia romana; un tentativo di impiegare l’operetta plutarchea per fare luce sul-
l’atteggiamento degli aristoi licii di fronte alla provincializzazione della regione già in Thornton,
Pistoì symmachoi, cit., 273-286.
120
Sui Politikà parangelmata di Plutarco, oltre alla bibliografia citata in Thornton, Pistoì sym-
machoi, cit., 273-279, e in particolare 273-274, n. 81, vd. da ultimo L. de Blois, Classical and
Contemporary Statesmen in Plutarch’s Praecepta, in L. de Blois - J. Bons - T. Kessels - D.M.
Schenkeveld (eds.), The Statesman in Plutarch’s Works. Proceedings of the Sixth International
Conference of the International Plutarch Society. Nijmegen/Castle Hernen, May 1-5, 2002. Vol. I:
Plutarch’s Statesman and His Aftermath: Political, Philosophical, and Literary Aspects, «Mnemo-
syne» Suppl. 250/I, Leiden-Boston 2004, 57-63; M. Trapp, Statesmanship in a Minor Key?, ibidem,
189-200; B.L. Cook, Plutarch’s “Many Other” Imitable Events: Mor. 814 B and the Statesman’s
Duty, ibidem, 201-210; più in generale, per l’atteggiamento di Plutarco nei confronti del popolo e
delle forme politiche democratiche vd. S. Saïd, Plutarch and the People in the Parallel Lives, in
L. de Blois - J. Bons - T. Kessels - D.M. Schenkeveld (eds.), The Statesman in Plutarch’s Works.
Proceedings of the Sixth International Conference of the International Plutarch Society. Nijme-
gen/Castle Hernen, May 1-5, 2002. Vol. II: The Statesman in Plutarch’s Greek and Roman Lives,
«Mnemosyne» Suppl. 250/II, Leiden-Boston 2005, 7-25; L. Prandi, Singolare e plurale nelle Vite
greche di Plutarco, ibid., 141-156.
164 John Thornton

to; mhdemivan aijtivan didovnai kaq∆ auJtw`n121, è proprio quello di evitare di attirare
l’attenzione e l’intervento romano, per mantenere intatti i privilegi della città122.
A questo fine, le classi dirigenti dovevano essere disposte anche a fare delle con-
cessioni al popolo, a cedere su qualche punto alle rivendicazioni delle masse.
Da Plutarco sembra emergere con chiarezza che le classi dirigenti delle città
greche della prima età imperiale non apprezzavano i valori della libertà e dell’au-
tonomia meno delle masse. In definitiva, così, non è facile intendere perché l’élite
politica di Maronea avrebbe dovuto escogitare la nuova procedura per impedire
all’assemblea di pronunciarsi sulla difesa della libertà della città.
Forse, allora, qualche passo in avanti nell’interpretazione di questo documento
si potrà fare proprio prendendo sul serio i timori dei redattori del decreto, e ri-
prendendo a chiedersi da quale parte potessero provenire attacchi alla condizione
privilegiata di Maronea, negli anni che seguirono l’istituzione della provincia di
Tracia. A questo proposito, Wörrle ha fornito un’indicazione utile, richiamando
le possibili analogie fra l’ambasceria di Maronea che aveva ottenuto dall’impera-
tore Claudio la restituzione della condizione privilegiata della città in tutta la sua
ampiezza e la generosa, incessante attività diplomatica dei colofonii Polemeo e
Menippo, nei decenni successivi all’istituzione della provincia d’Asia. A Roma,
in senato, Polemeo e Menippo dovettero ricorrere più volte contro decisioni prese
dalle autorità provinciali romane, in primo luogo, a quanto pare, in materia giu-
diziaria; talora, poi, contando sui provvedimenti del senato in favore della città,
ottennero soddisfazione direttamente dal governatore di provincia123. In generale,
però, mentre le città libere aspiravano a mantenere la propria competenza sui pro-

121
Dio Chr. XXXIV 25. Sulla seconda orazione ai Tarsii di Dione vd. di recente, oltre alle conside-
razioni di G. Salmeri, La vita politica in Asia Minore sotto l’impero romano nei discorsi di Dione
di Prusa, in B. Virgilio (a cura di), Studi Ellenistici, 12, Pisa-Roma 1999, 211-267, in particolare
238, testo e n. 112; 241-242, n. 126, A. Lewin, Illusioni e disillusioni di una città libera, MedAnt 2,
1999, 557-574; A. Heller, La violence au sein des provinces d’Asie Mineure à l’époque impériale,
à partir de quelques discours de Dion de Pruse, CCG 10, 1999, 235-254; A. Gangloff, Les mythes
dans les principaux discours aux villes de Dion Chrysostome: une approche de la notion d’hellé-
nisme, REG 114, 2001, 456-477.
122
Su Dione, cfr. Guerber, Le thème, cit., 138: «la concorde entre les Grecs est à réaliser de façon
urgente précisément pour éviter l’intervention de Rome dans les affaires internes des cités»; 140
per la convergenza delle opinioni di Plutarco e Dione Crisostomo a proposito dei rapporti di potere
fra Greci e Romani, e la volontà di entrambi «d’utiliser au mieux les espaces de liberté donnés par
le pouvoir romain afin de préserver la spécificité politique grecque»; cfr. 141-142. Per le analogie
su questo punto fra il pensiero di Dione di Prusa e di Plutarco, riconosciute da tempo, cfr. di recente
P. Veyne, L’identité grecque devant Rome et l’empereur, REG 112, 1999, 510-567, in particolare
553; Salmeri, La vita politica in Asia Minore, cit., 238-239.
123
Cfr. il decreto per Polemeo, II, ll. 51-58 (Robert et Robert, Claros I, cit., 13, con il commento
alle pp. 38-40), con Ferrary, Le statut des cités libres, cit., 567; Idem, La création de la province
d’Asie et la présence italienne en Asie Mineure, cit., 140.
Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea nell’età di Claudio 165

cessi, anche quelli in cui risultassero coinvolti dei cittadini romani, il governatore
tentava di avocarli a sé, con grave danno non solo del prestigio della polis, ma
degli interessi stessi dei suoi cittadini. A Colofone, come ha rilevato a più riprese
Jean-Louis Ferrary124, il magistrato romano era intervenuto sistematicamente per
favorire l’attore romano o italico, e obbligare il convenuto greco ad accettare di
essere giudicato davanti ad un’istanza che egli ricusava, o a perdere la cauzione
che gli era stata estorta125. Ferrary ha riconosciuto una minaccia per il privilegio
dell’autonomia giurisdizionale di una città libera nella presenza stessa di Romani
residenti all’interno dei confini della città; anche rinunciando a ricordare le forme
più soft, per così dire, attraverso le quali la presenza di cittadini romani poteva
comportare una diminuzione dei privilegi della città, e della sua autonomia giudi-
ziaria126, è certo che per i cives Romani residenti nelle città libere doveva essere
forte la tentazione di approfittare della presenza di un magistrato romano nei
dintorni per avere la meglio, attraverso l’ingerenza del governatore, nelle con-
tese giudiziarie con i cittadini della polis libera127. Ai Maroniti, l’intromissione
del governatore nelle competenze giudiziarie formalmente riconosciute alla città
sarebbe apparsa, come a suo tempo ai Colofonii, una grave violazione dei dikaia
della polis, tale da richiedere l’immediato invio di un’ambasceria all’imperatore,
che lo supplicasse di intervenire ristabilendo i privilegi conferiti a Maronea in
ricompensa dei suoi merita in populum Romanum.

124
Ferrary, Le statut des cités libres, cit.; Idem, La liberté des cités et ses limites, cit.; cfr. anche
Idem, La création de la province d’Asie et la présence italienne en Asie Mineure, cit., 139-143; cfr.
inoltre Lehmann, Polis-Autonomie und römische Herrschaft, cit., 231-234. Per i rapporti fra Colo-
fone e Roma a partire dagli anni 90 del I secolo a.C. cfr. J.-L. Ferrary et St. Verger, Contribution
à l’histoire du sanctuaire de Claros à la fin du IIe et au Ier siècle av. J.-C.: l’apport des inscriptions
en l’honneur des Romains et des fouilles de 1994-1997, CRAI 1999, 811-850, in particolare 837
ss., e per le iscrizioni da cui si ricostruiscono ancora J.-L. Ferrary, Les inscriptions du sanctuaire de
Claros en l’honneur de Romains, BCH 124, 2000, 331-376.
125
Per l’opportunità di leggere i resoconti sui successi diplomatici di Polemeo e Menippo in rap-
porto alla denuncia della rapacitas proconsulum e delle calumniae litium da parte del Mitridate di
Giustino XXXVIII 7, 8, e alla sukofantiva da cui secondo Diodoro XXXVII 5, 2 il solo Mucio
Scevola avrebbe liberato i provinciali, vd. J. Thornton, Misos Rhomaion o phobos Mithridatou?
Echi storiografici di un dibattito diplomatico, MedAnt 1, 1998, 271-309, in particolare 307-308.
126
Vd. Ferrary, La création de la province d’Asie et la présence italienne en Asie Mineure, cit.,
141-143.
127
Sui possibili contrasti fra i privilegi riconosciuti ai Greci insigniti della cittadinanza romana a
titolo individuale, come Seleuco di Rhosos, che la ottenne da Ottaviano (vd. A. Raggi, The Epi-
graphic Dossier of Seleucus of Rhosus: a Revised Edition, ZPE 147, 2004, 123-138, e ora soprat-
tutto Id., Seleuco di Rhosos. Cittadinanza e privilegi nell’Oriente greco in età tardo-repubblicana,
Studi Ellenistici 18, Pisa 2006; a p. 100 l’ipotesi che Seleuco fosse stato «forse oggetto di alcuni
atteggiamenti ostili in patria», e che a questa situazione debba riportarsi il doc. IV del dossier, ll.
85-93; cfr. anche pp. 163-164; 193), e l’autonomia delle loro città, è tornato Ferrary, Les Grecs des
cités et l’obtention de la ciuitas Romana, cit., in particolare 70.
166 John Thornton

Ammettendo, secondo quanto affermato in I, ll. 27-29, che dietro l’approva-


zione del decreto eterno e delle misure volte a renderlo inattaccabile vi fosse
davvero il tentativo di vanificare preventivamente ogni eventuale ostacolo che
potesse frapporsi all’invio all’imperatore di un’ambasceria in difesa dei privilegi
della città, i possibili autori di queste temute manovre ostruzionistiche vanno
ricercati fra quanti avrebbero avuto interesse a vedere intaccati i philanthropa di
Maronea. In base all’analogia con il caso di Colofone, appare legittimo pensare
al governatore della provincia di Tracia e ai cittadini romani residenti a Maronea,
o comunque gravitanti nell’orbita della città. Anche se non è possibile dire preci-
samente in quali forme, la loro autorità, in un caso concreto, avrebbe potuto im-
porsi; intimorendo i membri dell’assemblea, essi avrebbero forse potuto indurli
a rinunciare all’accanita difesa dei loro privilegi. Può darsi che sia contro simili
rischi che si ritenne necessario approvare il decreto eterno, con tutte le garanzie
che lo proteggevano.
Se così fosse, non vi si dovrebbe leggere la testimonianza di un momento di
trapasso, dalla città ellenistica alla città imperiale, dalla democrazia al regime dei
notabili, ma piuttosto l’attestazione di una continuità, e la prova della vitalità e
della forza creativa delle istituzioni democratiche, ancora nell’età di Claudio128.
Continuità, fino in età imperiale, della difesa dei privilegi delle città, da parte
delle élites – o almeno di una parte significativa di esse – come delle masse. Al
ritorno dell’ambasceria che portava notizia della piena restituzione dei privile-
gi di Maronea, in un clima di legittima esaltazione, potrebbe essere riuscito di
imporre a tutte le componenti della città l’adesione a un programma di difesa a
oltranza della libertà e dei philanthropa guadagnati a caro prezzo dagli antenati.
La dichiarazione del consenso dei cives Romani residenti, nel prescritto del de-
creto, potrebbe essere il capolavoro degli ingegnosi politici di Maronea; e questo
consenso, estorto sfruttando abilmente la circostanza della risposta favorevole
dell’imperatore, potrebbe essere apparso tanto instabile da consigliare di prende-
re provvedimenti perché, in un caso concreto, il suo venir meno non comportasse
ostacoli alla difesa dei privilegi della città.

128
Clinton, Maroneia and Rome, cit., 391 aveva ritenuto di poter dedurre dal lessico del decreto
«that democracy was alive and well in Maroneia at this date».
identità complesse.
uno studio su palmira
Tommaso Gnoli
Università di Bologna

La vicenda di Palmira, di quella che Rostovtzeff chiamò ‘una città-stato semi-


tica’ o ‘aramaica’, continua ad affascinare gli studiosi1. Solo a partire dal 2000
si possono contare ben sei grandi monografie più o meno direttamente incentrate
sulla grande città carovaniera, mi riferisco ai lavori, in ordine cronologico, di Udo
Hartmann, di Jean-Baptiste Yon, di Ted Kaizer, e infine quello di Christiane Del-
place e di Jacqueline Dentzer Feydy, più altre due monografie, quella di Lucinda
Dirven sui Palmireni a Dura Europos e quella di Monika Schuol sulla Charace-
ne2. Ma non basta: a questi lavori si devono aggiungere una grande mostra a Pa-
rigi nel 20013, e altri due volumi espressamente dedicati al commercio orientale
di Roma su lunga distanza4, mentre le monografie di Eliodoro Savino sulle città
di frontiera dell’impero romano, quella di Michael Sommer sul controllo romano
della steppa e le mie rispettivamente dedicate alla recente pubblicazione di un

1
La definizione di Rostovtzeff è espressa in Social and Economic History of the Roman Empire,
Oxford 1933, d’ora in avanti SEHRE (nuova edizione italiana, a cura di A. Marcone da cui sem-
pre si citerà), Firenze 2004. Marcone, nell’Introduzione, a p. xxiii, mette nel giusto rilievo questa
interessante definizione: «difficile capire che cosa Rostovtzeff intenda veramente con ‘città stato
semitica’, un concetto che sembra appartenere a quella tipologia di formule forti, efficaci, che gli
erano care. È lecito immaginare che, se mai avesse avuto l’opportunità di riprendere il discorso,
avrebbe giustificato quest’enunciazione».
2
U. Hartmann, Das palmyrenische Teilreich, Oriens et Occidens 2, Stuttgart 2001; J.-B. Yon, Les
notables de Palmyre, Bibliothèque archéologique et historique 163, Beyrouth 2002; T. Kaizer, The
Religious Life of Palmyra: A Study of the Social Patterns of Worship in the Roman Period, Oriens
et Occidens 4, Stuttgart 2002; C. Delplace - J. Dentzer-Feydy (éd. par), L’ agora de Palmyre; sur la
base des travaux de Henri Seyrig, Raymond Duru et Edmond Frézouls, Ausonius Publications 14
- Bibliothèque archéologique et historique 175, Bordeaux-Beyrouth 2005; L. Dirven, The Palmyre-
nes of Dura-Europos: A Study of Religious Interaction in Roman Syria, Religions in the Graeco-
Roman World 138, Leiden 1999; M. Schuol, Die Charakene. Ein mesopotamisches Königreich in
hellenistisch-partischer Zeit, Oriens et Occidens 1, Stuttgart 2000.
3
J. Charles-Gaffiot, H. Lavagne, J.-M. Hofman, Moi, Zénobie, reine de Palmyre, Milano 2001.
4
G. K. Young, Rome’s eastern trade: international commerce and imperial policy, 31 BC - AD
305, London-New York 2001; I. Gardner - S. N. C. Lieu - K. Parry, From Palmyra to Zayton: Epi-
graphy and Iconography, Silk Road Studies, Turnhout 2005.

Gnoli, Muccioli (eds.), Incontri tra culture, Milano 2007, 167-198


168 Tommaso Gnoli

lotto di papiri documentari provenienti dalla regione del medio corso dell’Eufrate
e allo scambio di termini amministrativi e di corte al di qua e al di là dei confini
dei due grandi imperi preternazionali dell’antichità, hanno interi capitoli dedicati
alla città di Palmira5. Il quadro non potrebbe dirsi completo senza ricordare an-
che importanti lavori dedicati più in generale all’Oriente romano, quali quelli di
Warwick Ball, di Maurice Sartre o di Kevin Butcher6. Negli anni immediatamente
precedenti ebbero luogo tre grandi Convegni, a Oxford e a Damasco, tutti incen-
trati su Palmira, il commercio orientale e la ‘via della seta’7. Contemporaneamen-
te Eleonora Cussini e Delbert R. Hillers pubblicavano, in seno al Comprehensive
Aramaic Lexicon Project, i Palmyrene Aramaic Texts (PAT), una insostituibile,
ancorché incompleta, raccolta delle iscrizioni aramaiche di Palmira8, mentre è
annunciato come imminente il corpus delle iscrizioni greche e latine di Palmira,
del quale sono già apparsi importanti lavori preparatori9.
Ce n’è abbastanza da decidersi a riprendere ancora una volta il tema, e fare il
punto sulla situazione, lasciando da parte analisi troppo specialistiche e finaliz-
zando la ricerca ad alcuni elementi utili per la ricostruzione dell’identità palmire-
na, evitando per quanto possibile in questa sede il tema della religione e degli dèi
di Palmira, tema evidentemente importantissimo parlando di identità, ma che è
stato di recente affrontato ripetutamente, e che comporterebbe un’eccessiva am-
piezza dell’intervento. Pertanto la natura di questo contributo, intenzionalmente
propositivo e selettivo delle tematiche ritenute utili al ristretto tema che mi pro-
pongo, mi dispensa dal render conto del numero veramente impressionante di
articoli che si sono incentrati su Palmira in quest’ultimo decennio, anche se non
di rado si tratta di lavori di importanza veramente straordinaria, così come delle

5
E. Savino, Città di frontiera nell’impero romano. Forme della romanizzazione da Augusto ai Se-
veri, Pragmateiai 1, Bari 1999; M. Sommer, Roms orientalische Steppengrenze. Palmyra – Edessa
– Dura-Europos – Hatra. Eine Kulturgeschichte von Pompeius bis Diocletian, Oriens et Occidens
9, Stuttgart 2005; T. Gnoli, Roma, Edessa e Palmira nel III sec. d.C. Problemi istituzionali. Uno
studio sui Papiri dell’Eufrate, Monografie di Mediterraneo Antico 1, Pisa-Roma 2000; Id., Roman
and Iranian Titles in the Roman Near East (1st-3rd Century A. D.), Sitzungsberichte der Österreichi-
schen Akademie der Wissenschaften, Phil.-hist. Klasse Bd. 765; Veröffentlichungen zur Iranistik
Nr. 43, Wien 2007.
6
W. Ball, Rome in the East: The Transformation of an Empire, London-New York 2000; M. Sartre,
D’Alexandre à Zénobie: histoire du Levant antique, IVe siècle avant J.-C.-IIIe siècle après J.-C,
[Paris] 2001; K. Butcher, Roman Syria and the Near East, Los Angeles 2003.
7
I convegni oxoniensi, organizzati dalla Aram Society, sono stati pubblicati rispettivamente nel
settimo e nell’ottavo volume di «Aram», 1995 e 1996, mentre il convegno di Damasco è confluito
nel vol. 42 dello «Annual of the Department of Antiquities of Jordan», del 1996.
8
D. R. Hillers - E. Cussini, Palmyrene Aramaic texts, Publications of the Comprehensive Aramaic
Lexicon Project, Baltimore 1995.
9
Yon, Les notables de Palmyre, cit.; Delplace - Dentzer-Feydy (éd. par), L’ agora de Palmyre, cit.;
K. Asʿad, C. Delplace, Inscriptions latines de Palmyre, REA 104, 2002, 363-400.
Identità complesse. Uno studio su Palmira 169

numerosissime indagini archeologiche e storico-artistiche che hanno interessato


in questi anni Palmira.

1. La documentazione

Una delle più gravi difficoltà nello studio della civiltà palmirena è da sempre
costituita dalla mancanza di un’affidabile raccolta dell’abbondantissimo mate-
riale epigrafico proveniente dalla città e dal suo territorio. Le uniche raccolte
disponibili fino a poco tempo fa erano costituite dai 12 fascicoli dell’Inventaire
des Inscriptions palmyrèniennes, l’ultimo dei quali apparso nel 1975. L’enorme
dispersione dei pezzi, presenti nei musei e nelle collezioni private di mezzo mon-
do, ha creato problemi enormi alla realizzazione del sospirato, atteso e più volte
annunciato volume delle Inscriptions grecques et latines de la Syrie relativo a
Palmira. Le vicissitudini subite da questa prestigiosa raccolta sono note10: la quasi
completa interruzione delle pubblicazioni per cinquant’anni circa ha lasciato pri-
ve di adeguata copertura ampie regioni del Vicino Oriente romano, in particolare
le regioni più meridionali e quelle più lontane dalla costa. È con sollievo che
quindi si è assistito alla ripresa dell’opera con la pubblicazione dei volumi relativi
alle iscrizioni di Bostra (1982), alla Giordania centrale (1986), alla regione di Pe-
tra (1993). Il 2003 e il 2005 hanno visto la comparsa di grandi lavori preparatori
all’ormai imminente pubblicazione del volume dedicato a Palmira. Nel 1996 era
già uscito, come s’è detto, il corpus dei testi aramaici. La pubblicazione di queste
due grandi opere non è stata solamente una meticolosa collazione di testi editi,
ma, soprattutto l’annunciato volume delle IGLS, ha offerto l’opportunità di attua-
re per la prima volta un approfondito studio tipologico e formale del materiale
epigrafico. Non tutti i risultati della minuziosa indagine di Jean-Baptiste Yon
sono inattesi, ma certamente la monografia sui notabili di Palmira ha conseguito
alcuni importanti risultati. Il primo è la recisa affermazione dell’impossibilità di
ricostruire la storia di Palmira solamente a partire dal materiale epigrafico, nono-
stante la sua grande abbondanza. Si tratta infatti per lo più di testi didascalici, col-
locati in posizione subalterna a monumenti oramai in larga parte perduti. In modo
molto caratteristico il carattere fortemente riassunto e formulare delle iscrizioni
impedisce la ricostruzione di carriere o di precise circostanze nella vita pubblica
della città. Tutto questo con delle eccezioni, naturalmente, ma è da sottolineare
la rarità di riferimenti a magistrature cittadine in rapporto alla quantità dei testi

10
Cfr. H. I. MacAdam, The IGLS series then and now (1905-1989), JRA 3, 1990, 458-464.
170 Tommaso Gnoli

epigrafici, e la totale assenza di cursus honorum, anche nel caso del palmireno
Vorōd, del quale comunemente si ammette l’esistenza di un cursus epigrafico11.
Il carattere fortemente abbreviato, didascalico, plurilingue, rende dunque le
molte iscrizioni dedicate a notabili palmireni provenienti da sotto le mensole del
Grande Colonnato scarsamente utili per la ricostruzione della histoire évenémen-
tielle di Palmira. Un discorso diverso vale invece per un gruppo di epigrafi, meno
numeroso, provenienti dall’agorà della città. In questo caso i testi sono molto
spesso dettagliati e riferiscono le motivazioni degli onori conferiti ai personaggi
onorati. Sono proprio questi testi, e quelli provenienti da alcuni templi cittadini,
che offrono maggiori spunti allo storico12. È dall’agorà che provengono la mag-
gior parte delle cosiddette ‘iscrizioni carovaniere’ rinvenute all’interno della cit-
tà13. È caratteristica saliente delle iscrizioni dell’agorà, più volte rilevata, di avere
il testo aramaico spesso meno esteso di quello greco. Questo ha portato alcuni a
ipotizzare la precedenza del testo greco sull’aramaico14. Questa teoria comporte-
rebbe l’esistenza a Palmira di una élite palmirena grecofona e di una popolazione
aramaica, una sorta di Potsdam di Federico il Grande, un’isola francese nel pieno
della Prussia del XVIII secolo! In realtà il rapporto esistente tra il greco e l’ara-
maico nell’epigrafia palmirena è più complesso della semplice prevalenza di una
lingua sull’altra15. Dopo una minuziosa analisi linguistica dei decreti plurilingui,
Yon giunge alla conclusione che i testi epigrafici bilingui presentano sempre te-
sti abbreviati rispetto alle deliberazioni originali, delle quali risulta impossibile
determinare la lingua di partenza. È possibile che vi fossero due redattori che
approntassero i testi epigrafici, ma è più probabile che si redigessero due versioni
diverse a partire da un canovaccio comune predefinito16.
Il plurilinguismo dell’epigrafia palmirena è un tema classico del dibattito sto-
riografico circa la cultura della città e i rapporti che la legavano, non solo cultu-
ralmente, ma anche politicamente, al mondo romano. Tema classico di discus-
11
In Gnoli, The Interplay of Roman and Iranian Titles, cit., 108-109 ho spiegato perché sia sbaglia-
to considerare, come in genere si fa, una Laufbahnischrift PAT 288.
12
Sulle iscrizioni scoperte nell’agorà cfr. soprattutto Delplace - Dentzer-Feydy (éd. par), L’agora
de Palmyre, cit.; H. Seyrig, Inscriptions grecques de l’agora de Palmyre, «Syria» 22, 1941, 223-
270, resta fondamentale sotto diversi aspetti.
13
M.I. Rostovtzeff, Les inscriptions caravanières de Palmyre, in Mélanges Glotz II, Paris 1932,
793-811; elenchi completi e aggiornati delle iscrizioni carovaniere sono in M. Gawlikowski, Pal-
myra and Its Caravan Trade, AAAS 42 International Colloquium «Palmyra and the Silk Road»,
1996, 139-145 e Schuol, Die Charakene, cit., 41-90.
14
H.J.W. Drijvers, Greek and Aramaic in Palmyrene Inscriptions, in M.J. Geller - J.C. Greenfield
- M. Weitzman (eds.), Studia aramaica: New Sources and New Approaches. Papers Delivered at
the London Conference of the Institute of Jewish Studies University College London 26th-28th June
1991, Journal of Semitic Studies. Supplement 4, Oxford-New York 1995, 31-42.
15
S.P. Brock, Aspects of Translation Technique in Antiquity, GRBS 20, 1979, 69-87.
16
Yon, Les notables de Palmyre, cit., 36.
Identità complesse. Uno studio su Palmira 171

sione è stato in particolare il problema della traduzione nelle due lingue di titoli
e funzioni amministrative, argomento spinoso per quanto riguarda la carriera di
Odenato17 e che già un tempo vide contrapporsi Cantineau a Chabot18, e, più
recentemente, ma in termini sostanzialmente assai simili, David Potter a Simon
Swain19. Queste discussioni, pure estremamente importanti, avevano però il difet-
to di essere condotte su un numero limitato di documenti, pertanto le considera-
zioni sull’habitus epigrafico di Palmira che vi si trovano espresse vanno oramai
riconsiderate alla luce della completa revisione del materiale epigrafico effettuata
da Jean-Baptiste Yon.

2. Il ‘sincretismo’ palmireno

Il plurilinguismo di Palmira – accanto alle iscrizioni aramaiche e greche vi è un


numero non piccolo di iscrizioni latine20 – è l’aspetto più appariscente di quello
che a lungo è stato definito il ‘sincretismo’ palmireno.
Colui che può a buon diritto considerarsi il massimo divulgatore dell’idea di
‘sincretismo’ attribuito alla cultura palmirena, e, più in generale, alle culture si-
riane, fu Rostovtzeff:
La Syrie a toujours été un pays de transit, où se sont rencontrées et mêlées les
trois grandes civilisations du Proche-Orient: Babylone et l’Assyrie, Égypte et
Égée. Aussi n’a-t-elle jamais eu la sienne propre. Elle s’est contentée d’une
mosaïque d’emprunts: civilisation de négociants et de courtiers, de maîtres
de caravanes et de navigateurs. Ce mélange éclectique et bizarre, sous ses
multiples aspects, les marchands syriens et phéniciens l’ont transmis ensuite à
l’Occident et au Nord, en ont imprégné les énergies créatrices de l’Europe.21

17
C. Clermont-Ganneau, Odeinat et Vaballat rois de Palmyre, et leur titre romain de corrector,
RBi 29, 1920, 382-419.
18
J.B. Chabot, Un corrector totius orientis dans les inscriptions de Palmyre, CRAI 1930, 312-318;
J. Cantineau, Un restitutor orientis dans les inscriptions de Palmyre, JA 222, 1933, 217-233.
19
D.S. Potter, Palmyra and Rome: Odaenathus’ Titulature and the Use of the Imperium Maius,
ZPE 113, 1996, 271-285; S. Swain, Greek into Palmyrene: Odaenathus as ‘Corrector totius Orien-
tis’?, ZPE 99, 1993, 157-164.
20
Asʿad, Delplace, Inscriptions latines de Palmyre, cit. Importanti considerazioni sull’uso epigra-
fico del latino nel Vicino Oriente romano in F. Millar, Latin in the epigraphy of the Roman Near
East, in H. Solin - O. Salomies - U.-M. Liertz (eds.), Acta colloquii epigraphici latini: Helsingiae
3-6 sept. 1991 habiti, Commentationes humanarum litterarum 104, Helsinki 1995, 403-419.
21
M. I. Rostovtzeff, La Syrie romaine, RH 175, 1935, 1-40, in particolare 3 (= Id., Scripta varia;
Ellenismo e impero romano, a cura di A. Marcone, Munera 3, Bari 1995, 317-350, in partic. 319).
172 Tommaso Gnoli

La recente ricerca antropologica ha contribuito decisamente a rilevare lo scar-


so valore euristico insito nel concetto di ‘sincretismo’22. Il presupposto necessa-
rio per cui si possa parlare di sincretismo è infatti l’esistenza di culture ‘pure’,
cioè non sincretistiche, e statiche, che rendano possibile distinguere, nella Ver-
mischung delle culture sincretistiche, i rispettivi apporti23. L’inesistenza di tali
culture e la conseguente necessità da una parte di inseguire indefinitamente al-
l’indietro il momento originale di un determinato culto, istituzione o quant’altro,
dall’altra il riconoscimento a tutte le culture di un loro ‘sincretismo’, rende questo
concetto sempre meno operativo e utilizzabile da parte della moderna ricerca
storica24.
In questa prospettiva, tornando all’oggetto del nostro lavoro, è evidente quanto
oggi si sia lontani dall’approccio seguito dal grande René Dussaud quando inda-
gò il fenomeno de ‘La pénetration des Arabes in Syrie avant l’Islam’ sulla base,
innanzi tutto, di precise rispondenze etniche e culturali25. Rispetto a difficili e
talvolta imbarazzanti tentativi di categorizzazione etnica26, molto più importanti
si rivelano in realtà le interazioni culturali che, in un processo dinamico, finisco-
no con il produrre una comunità cosciente della propria identità27. Dal momento
che l’aspetto più evidente di questo processo di autodeterminazione di identità
culturali è costituito dal linguaggio, è sulla linguistica che si è decisamente spo-
stata l’attenzione della ricerca in questi ultimi anni. Per gli storici, l’approccio
linguistico sotteso alla seconda parte di The Roman Near East di Fergus Millar è

22
Cfr. da ultimo, nell’ambito della storia antica, D. S. Potter, Hellenistic religion, in A. Erskine
(ed.), A companion to the Hellenistic world, Oxford 2003, 407-430, in part. 419: «The interchange
between Greek and non-Greek traditions of religious thought is by far the most important feature of
the Hellenistic period .... there was no one model that fits all forms of contact, and one word will be
avoided in the description of any of them. This word is ‘syncretism’ ... The forms of this interaction
are so varied as to make the term virtually meaningless».
23
C. Stewart, Relocating Syncretism in Social Science Discourse, in G. Aijmer (ed.), Syncretism
and the Commerce of Symbols, Göteborg 1995, 13-37, 26: «The idea of cultural purity has become
entirley suspect in anthropology, and largely replaced by the view that cultures are porous to exter-
nal influences which may be adopted or resisted».
24
A meno di non predisporre accuratamente i limiti concettuali, come fa Stewart, Ibid., 26: «Cul-
ture is not a coherent structure which is successfully transmitted across generations, but rather the
outcome, at any particular moment, of historical and social processes. ‘Syncretism’ can be used
within this theoretical framework to focus attention precisely on issues of accomodation, contest,
appropriation, indigenization and a host of other dynamic intercultural processes».
25
R. Dussaud, La pénétration des Arabes en Syrie avant l’Islam, Bibliothèque archéologique et
historique 59, Paris 1955.
26
Cfr. infra.
27
È in questa prospettiva che Sommer, Roms orientalische Steppengrenze, cit., 98-138, parla di
«kulturelle Identitäten».
Identità complesse. Uno studio su Palmira 173

stato di enorme stimolo per le successive ricerche, nonostante qualche episodica


incomprensione28.
Tuttavia, nonostante i progressi che lo studio sulla diffusione delle diverse
lingue nel Vicino Oriente ha avuto in questi anni, il rapporto esistente fra le tre
lingue iscritte sui monumenti di Palmira continua a costituire un rebus che gli
studiosi non sono stati in grado di risolvere. La circostanza che il latino scompaia
dalle attestazioni epigrafiche palmirene proprio quando la città divenne colonia
romana, è cosa da scoraggiare quanti abbiano in qualche modo tentato di dare
una rappresentazione completa e persuasiva delle interazioni linguistiche nella
grande città del deserto: «when the city obtained the formal status of a colonia in
the early third century [...] Latin inscriptions, as far as the evidence is concerned,
disappeared completely»29. È quindi naturale che gli studi esplicitamente dedica-
ti alla situazione linguistica di Palmira abbiano teso a semplificare il problema
emarginando il ruolo del latino nelle iscrizioni pubbliche dei primi due secoli
della nostra era30, ma è tuttavia necessario tenere ben presente che questa opera-
zione è, appunto, una semplificazione e, come tale, è solo parzialmente legittima.
Evidentemente illegittime sono, invece, quelle posizioni di studiosi che tendono
a spiegare come strane inconguenze ‘levantine’ le pretese stranezze istituzionali
riscontrabili nella Palmira di Odenato e Zenobia: la presenza da secoli di una
diffusa epigrafia latina nella città deve quantomeno servire a ricordare, se ce ne
fosse bisogno, che i fautori della grande ‘ora di Palmira’ erano ben consapevo-
li della portata delle innovazioni istituzionali di età severiana, e dell’uso politi-
co che di tali innovazioni si poteva fare. L’immagine pittoresca e suggestiva di
Palmira come variopinto luogo di incontro di multicolori mercanti levantini di
provenienze disparate, acculturati quanto basta per mettere insieme uno strano
guazzabuglio culturale fatto di apporti esterni poco o punto integrati, ma non
abbastanza da costituire un’entità politica e sociale autonoma ed organizzata, non
regge ad un’analisi concreta della storia della città carovaniera31.
28
F. Millar, The Roman Near East, 31 B.C.-A.D. 337, Cambridge, Mass 1993: ‘Regions and Com-
munities’, 225-488; incomprensioni: Ball, Rome in the East, cit.
29
Kaizer, The Religious Life, cit., 27.
30
G.R. Cardona, Considerazioni sui documenti plurilingui, in E. Campanile - G.R. Cardona - R.
Lazzeroni (a cura di), Bilinguismo e biculturalismo nel mondo antico: atti del Colloquio interdisci-
plinare tenuto a Pisa il 28 e il 29 settembre 1987, Pisa 1988, 9-15; Swain, Greek into Palmyrene,
cit.; Drijvers, Greek and Aramaic, cit.; J.-C. Balty, Palmyre entre Orient et Occident: Acculturation
et résistances, AAAS 42, International Colloquium «Palmyra and the Silk Road», 1996, 437-441;
Kaizer, The Religious Life, cit., 27-34; D.G.K. Taylor, Bilingualism and diglossia in Late Antique
Syria and Mesopotamia, in J.N. Adams - M. Janse - S. Swain (eds.), Bilingualism in Ancient So-
ciety. Language Contact and the Written Text, Oxford 2002, 298-331; Sommer, Roms orientalische
Steppengrenze, cit., 115-123.
31
Tale tendenza si riscontra soprattutto in M.I. Rostovtzeff, Città carovaniere, Bari 1971 (Oxford
1932); Id. SEHR, in partic. 271-274; Id., La Syrie romaine, cit.
174 Tommaso Gnoli

Più in generale, dai lavori più recenti dedicati a Palmira, quali quelli di Kaizer
e di Sommer, emerge con chiarezza l’insofferenza verso modelli interpretativi
troppo stabili: la religione di Palmira non è né un insieme monolitico e stabile di
credenze32, né una mera somma risultante da un certo numero di apporti esterni,
così come, più in generale, il processo che si era soliti definire di ‘acculturazione’
o di ‘romanizzazione’33, nelle steppe orientali non corrisponde né ad una più o
meno approfondita giustapposizione di schemi culturali importati su altri pre-
esistenti, né allo schema, vincente negli ultimi anni, della cosiddetta ‘creolizza-
zione’34. Ha ragione Sommer35 a rilevare come questo concetto, nato e cresciuto
in ambito linguistico per designare i processi di acculturazione nelle Americhe,
con la conseguente nascita di nuove lingue e di nuove culture, sia troppo lon-
tano dalla realtà del mondo antico per poter essere efficacemente utilizzato per
studiarne i processi di acculturazione. In particolare, risulta estranea al mondo
romano la deportazione di massa di milioni di individui e la loro straniazione for-
zosa, in contesti di mera subordinazione, che ha invece caratterizzato il sistema
delle piantagioni americane, così come marginale, rispetto al modello americano,
appare nell’Oriente romano di età imperiale il modo di produzione schiavistico.
Molto più utile è invece il modello dinamico individuato nell’ambito dei contatti
transculturali propri del mondo creolo, individuante uno ‘spazio terzo’, una zona
di contatto nella quale le differenti culture interagiscono tra loro. Tuttavia lo stu-
dio della realtà coloniale americana applicata al mondo antico – uno studio che
rappresenta, è bene ricordarlo, una riscoperta recente di un filone classico di studi
sull’ésclavage, risalente almeno al Wallon e a Tocqueville36 – non è inutile per
lo studio delle dinamiche culturali in Oriente. Studiando la nascita delle identità
nazionali nell’America meridionale, Benedict Anderson ha rilevato come le éli-
tes europee abbiano avuto un ruolo rivoluzionario nella nascita e nello sviluppo
delle nuove coscienze comunitarie, ma sempre improntate alla conservazione di
privilegi che potevano esser messi a dura prova dalla presenza della madre patria
europea, che tendeva a drenare potere e ricchezza37. Si avrà modo di tornare su
32
Kaizer, The Religious Life, cit.
33
Sulla cultura palmirena come risultato di un grandioso processo di acculturazione e resistenza
Balty, Palmyre entre Orient et Occident, cit. Più in generale cfr. D.J. Mattingly - S.E. Alcock (eds.),
Dialogues in Roman imperialism: power, discourse, and discrepant experience in the Roman Em-
pire, Journal of Roman archaeology. Supplementary series 23, Portsmouth, R.I. 1997.
34
J. Webster, Creolizing the Roman Provinces, AJA 105, 2001, 209-225; R. Chaudenson, Creoli-
zation of Language and Culture, London-New York 2001; O. Enwezor (ed.), Creolité and Creoli-
zation: Documenta 11 Platform3, Kassel 2003.
35
Sommer, Roms orientalische Steppengrenze, cit., 25-28.
36
H.A. Wallon, Histoire de l’ésclavage dans l’antiquité, Paris 1847; A. Tocqueville, De la Démo-
cratie en Amérique, Paris 1835.
37
B.R.O.G. Anderson, Imagined communities: reflections on the origin and spread of nationa-lism,
London-New York 1983 (trad. it. Roma 2000).
Identità complesse. Uno studio su Palmira 175

questo modello.
Studiosi di valore eccelso che hanno, con la loro statura intellettuale, fortemen-
te e lungamente condizionato gli studi palmireni hanno analizzato la cultura della
grande città del deserto per lo più in relazione ad altre realtà storiche e artistiche.
Si può esemplificare questo atteggiamento con la definizione dell’arte palmirena
come ‘arte partica’ data dal grande Rostovtzeff, e con la lunga disputa che è se-
guita a tale definizione38.
La dottrina comunemente diffusa nella moderna storiografia su Palmira può
così riassumersi in maniera molto sintetica e generale: su un substrato indigeno
aramaico, fortemente influenzato da credenze Babilonesi e Cananee, si sareb-
bero sovrapposti culti, credenze e istituzioni portate con sé da tribù arabe che si
andarono progressivamente sedentarizzando a partire dal I secolo a.C. Questo
momento della sedentarizzazione degli Arabi avrebbe comportato una forte di-
scontinuità tra l’antichissima Tadmor aramaica, un punto d’acqua nel deserto, in
pratica poco più che un mero luogo di sosta per le tribù nomadiche dei dintorni,
e la nuova realtà urbana dell’oasi. Non si dovrebbe però parlare di una vera e
propria urbanizzazione dell’oasi se non a partire dalla fine del I secolo a.C.-inizi
I secolo d.C., quando Palmira iniziò rapidamente a dotarsi di tutte le istituzioni
che caratterizzavano le città greche delle provincie Orientali dell’Impero romano,
impero di cui Palmira entrò a far parte, secondo la ricostruzione prevalente, al
più tardi sotto Tiberio. La discontinuità offerta dalla ‘pénétration des Arabes à
Palmyre’ avrebbe riguardato praticamente tutti gli aspetti che caratterizzeranno
la cultura palmirena.
L’apporto degli Arabi avrebbe costituito in brevissimo tempo l’aspetto più ap-
pariscente della specificità palmirena. L’onomastica di uomini e dèi ne è l’esem-
pio più concreto. Come ha potuto scrivere Palmira Piersimoni in un lavoro pre-
paratorio alla sua tesi di PhD su The Palmyrene Prosopography, «the onomastics
of Palmyra seems to show the presence of two linguistic-cultural worlds – the
Aramaic and the Arabian one – that interact with each other; the former may be
defined as of a more archaic type and the latter as more innovative»39. L’arcaismo
dei nomi aramaici sarebbe dimostrato dalla prevalenza di nomi composti, per lo

38
M.I. Rostovtzeff, Dura-Europos and its art, Oxford 1938; Id., Città carovaniere, cit., 150: «Pos-
siamo dire, senza correre gran rischio d’ingannare il lettore, che la scultura di Palmira è il frutto
ellenizzato dell’arte plastica aramea e anatolica». Il concetto è stato a lungo ripreso e utilizzato,
per esempio, in J.B. Ward-Perkins, The Roman West and the Parthian East, PBA 51, 1965, 175-
199; M.A.R. Colledge, Parthian Art, London 1977; M.A.R. Colledge, Parthian cultural elements
at Roman Palmyra, «Mesopotamia» 22, 1987, 19-29, cf. ora soprattutto G. Bongard-Levine - G.
Koshelenko, L’art parthe après M. I. Rostovtzeff: le problème de ses origines, CRAI 2004, 945-
986, ma è ora sottoposto a critiche severe, e forse perfino eccessive, con la negazione tout court del
concetto di ‘arte partica’.
39
P. Piersimoni, Who’s who at Palmyra: an overeview, OLP 25, 1994, 89-98, in particolare 96.
176 Tommaso Gnoli

più da un teoforo e da una forma verbale, mentre la recenziorità di quelli arabi sa-
rebbe ravvisabile nella prevalenza di nomi non composti. Il sopraggiungere degli
Arabi avrebbe anche lasciato tracce cospicue nel sistema religioso della città. A
partire dal classico e oramai molto invecchiato studio di Février40 anche il mondo
religioso palmireno veniva correntemente interpretato come una sovrapposizione
tra un antichissimo strato aramaico – a sua volta non completamente coeso, studi
più o meno recenti hanno cercato di individuare elementi Caldei, Babilonesi, o
addirittura Fenici – e uno strato arabo, più recente, che si è andato a giustappor-
re al primo, conservando però una propria precisa identità41. A una tale identità
dell’elemento arabo sul piano religioso sarebbe corrisposta una simile identità sul
piano sociale. Nella costituzione del suo corpo civico la città di Palmira avrebbe
infatti conservato praticamente intatto il sistema tribale derivato dagli arabi no-
madi. Quando poi l’oasi si è urbanizzata dando luogo alla nascita di una vera e
propria povli~, anche il confuso ordinamento tribale originario si sarebbe norma-
lizzato nell’ordinamento tetrapartito consueto in Oriente42. Ma proprio sul piano
religioso sarebbero rimaste le tracce più evidenti dell’origine araba delle tribù
palmirene. I templi di Bēl e quello ancora inedito di Yarhibol presso la sorgente

40
J.G. Février, La religion des palmyréniens, Paris 1931.
41
Per una impostazione tradizionale, cioè ‘sincretistica’ della religione palmirena, cfr., a mero titolo
d’esempio, M.I. Rostovtzeff, The Caravan-Gods of Palmyra, JRS 22, 1932, 107-116; H. Seyrig,
La religion palmyrénienne d’après un livre récent, «Syria» 16, 1935, 393-402 (= Seyrig, Scripta
varia, cit., 291-300); H. Seyrig, Palmyra and the East, JRS 40, 1950, 1-7 (= Seyrig, Scripta varia,
cit., 249-258); H. Seyrig, Les dieux armés et les Arabes en Syrie, «Syria» 47, 1970, 77-112; J.T.
Milik, Recherches d’épigraphie proche-orientale 1. Dédicaces faites par des dieux (Palmyre, Ha-
tra, Tyr) et des thiases sémitiques à l’époque romaine, Bibliothèque archéologique et historique 92,
Paris 1972; H.J.W. Drijvers, Hatra, Palmyra und Edessa. Die Städte der syrisch-mesopotamischen
Wüste in politischer und religionsgeschichtlicher Beleuchtung, in ANRW II.8, 1977, 799-906; J.
Teixidor, The pantheon of Palmyra, Études préliminaires aux religions orientales dans l’Empire
romain 79, Leiden 1979; J. Teixidor, Cultes tribaux et religion civique à Palmyre, RHR 197, 1980,
277-287; M. Gawlikowski, Les dieux de Palmyre, in ANRW II.18. 4, 1990, 2605-2658. Molto più
avvertita sulle recenti tendenze storiografiche, ma ancora in parte vicina alle posizioni tradizionali,
Dirven, The Palmyrenes of Dura-Europos, cit. Molto innovativi sull’argomento, e degni della mas-
sima attenzione, i numerosi lavori di Ted Kaizer, confluiti poi in Kaizer, The Religious Life, cit.
42
In particolare sul rapporto esistente tra fulhv/pḥd e corpo civico, cfr. D. Schlumberger, Les quatre
tribus de Palmyre, «Syria» 48, 1971, 121-133; Teixidor, Cultes tribaux, cit.; J. Teixidor, Nomadi-
sme et sédentarisation en Palmyrène, in É. Frézouls (éd. par), Sociétés urbaines, sociétés rurale
dans l’Asie Mineure et la Syrie héllenistiques et romaines, Actes du Colloque de Strasbourg, Stra-
sbourg 1987, 49-55; Yon, Les notables de Palmyre, cit., 51-54. Ogni fulhv gravitava attorno ad
un santuario, che svolse un ruolo originario di centro demico; tuttavia non c’è accordo sul numero
di tali santuari né sulla loro localizzazione: ai templi di Bēl, Allāth, Baʿalšamīn, Nabū, si devono
probabilmente aggiungere quelli di Arṣu e degli dei gemelli Aglibōl e Malakbēl, nonché quello di
Atargatis. Sulle difficoltà di localizzazione di questi ultimi edifici cfr. M. Gawlikowski, Le temple
palmyrénien: étude d’épigraphie et de topographie historique, Palmyre 6, Warszawa 1973. Per una
visione nuova, che tende a sfumare il rapporto diretto tribù-tempio a favore di una più articolata
visione diacronica cfr. Kaizer, The Religious Life, cit.
Identità complesse. Uno studio su Palmira 177

Efqa, avrebbero svolto la funzione di culti ‘civici’, poliadi, mentre gli altri templi
sono stati interpretati come santuari tribali, nei quali le varie tribù o clan con-
tinuavano a celebrare i culti delle loro divinità ancestrali. Tale interpretazione
stratificata, se così si può dire, del culto palmireno, è fondata su formulazioni che,
in alcune iscrizioni, fanno riferimento a ‘le quattro tribù della città e i loro san-
tuari’ e alla ‘casa degli dèi dei Palmireni’, in riferimento al tempio di Bēl, nonché
a espressioni in cui un determinato tempio era connesso con ‘i figli di X’, dove
X era un gruppo etnico reso in aramaico col termine pḥd, fulhv. Il massiccio in-
gresso di Arabi a Palmira avrebbe, inoltre, definitivamente segnato i destini della
città. Da quel momento – siamo, è opportuno ricordarlo, a partire dalla metà del
I secolo a.C. – la città inizia a sfruttare la sua posizione strategica a metà strada
tra il medio corso dell’Eufrate e la fascia costiera mediterranea, e, interagendo
strettamente con la vicina, e similmente arabizzata, Emesa, sfrutta intensamente
la via carovaniera che passava dall’oasi, iniziando così la più importante stagione
della sua lunga vita.
Se l’influenza degli Arabi ha in larga misura determinato la storia di Palmira,
non è possibile ovviamente sottovalutare gli altri due grandi punti di riferimento
nel panorama vicino orientale antico. L’impero partico, lo si è visto, avrebbe
influito su Palmira essenzialmente a livello culturale, secondo alcuni, fornendo
all’arte palmirena la ‘frontal convention’43, una piccola parte dell’onomastica,
qualche non numeroso prestito nel lessico aramaico, qualche figura minore del
pantheon palmireno, mentre ben diverso è il ruolo giocato dal mondo greco ro-
mano sulla cultura palmirena. Del plurilinguismo s’è detto. Pur con tutte le va-
rianti locali, certo altamente significative, l’aspetto monumentale di cui la città
si adornò a partire dal volgere dell’èra volgare è certamente greco-romano. Sul
piano istituzionale, poi, la città di Palmira sarebbe diventata una normale città
provinciale, come tutte le altre44.
Quanto ho esposto finora serve semplicemente a chiarire i termini della que-
stione in maniera generale: cambia molto il quadro dettagliato a seconda, per
esempio, del peso che si vuol dare a questa o a quella componente, in questo o
quel campo. Anche all’interno di una stessa scuola storiografica, come quella
francese che fa capo a Henri Seyrig, è facile riscontrare una grande differenza di

43
Fu la ‘frontal convention’ degli affreschi di Dura Europos a indurre M.I. Rostovtzeff, Dura and
the Problem of Parthian Art, YClS 5, 1935, 157-304 a coniare l’espressione di ‘Parthian Art’ per
quel tipo di raffigurazioni, e in genere per l’arte diffusa anche a Palmira. Utile mise au point del
problema in M. Pietrzykowski, The origins of the frontal convention in the arts of the Near East,
«Berytus» 33, 1985, 55-59, del quale però si esiterà ad accettare la conclusione che tali rappresen-
tazioni fossero influenzate dalla sedentarizzazione delle tribù arabe.
44
Posizione questa esplicitata nella maniera più chiara da M. Sartre, Palmyre, cité grecque, AAAS
42, International Colloquium «Palmyra and the Silk Road», 1996, 385-405.
178 Tommaso Gnoli

posizioni, ad esempio, tra Ernest Will e Maurice Sartre, e non è certo possibile
qui ricostruire compiutamente nemmeno alcune di queste posizioni. Quel che si
vuol fare ora è prendere in considerazione alcuni aspetti specifici di questi diffe-
renti apporti, e discuterli sulla base anche delle più recenti ricerche storiche.

3. Palmira e gli Arabi

È impossibile occuparsi del Vicino Oriente senza affrontare una questione


che, allo stato attuale della ricerca, si presenta come tutt’altro che chiarita: la
definizione di ‘arabo’. Perfino un conoscitore raffinato del Vicino Oriente ro-
mano come Maurice Sartre rivela un forte imbarazzo nell’utilizzare il termine:
«La notion d’Arabe est des plus délicates à manipuler, car les auteurs anciens
regroupent sous ce terme unique des populations qui n’ont sans doute que peu
de rapports, d’un point de vue ethnique, mais qui partagent le même genre de
vie, celui des nomades ...»45, salvo poi soffermarsi a lungo su realtà arabe che
non condividono quel genere di vita: i Nabatei e Palmira in primo luogo, ma
anche la dinastia emesena e il principato itureo. Le eccezioni alla definizione
sopra riportata – in linea di massima certo condivisibile – sono tante da renderla
sostanzialmente inefficace. Eppure la presenza araba nella regione è talmente
pervasiva da rendere il problema ineludibile. La situazione non migliora neanche
prendendo come elemento comune alle diverse stirpi arabe una pretesa comuni-
tà linguistica46. L’utilizzo dell’arabo, con tutte le varianti dialettali testimoniate
dall’epigrafia cosiddetta ‘safaitica’ e ‘tamudea’ (e anche queste denominazioni
tradizionali sono state recentemente contestate)47 in luogo dell’aramaico, esclu-
derebbe proprio le due realtà insediate più importanti del Vicino Oriente di età
ellenistica e romana: appunto Palmira e i Nabatei. Si deve pertanto diffidare di
affermazioni meno caute rispetto al sopra citato passo di Sartre, quale quella che
si può leggere in Robert Hoyland: «what linked Arabs together and distinguished
them from other peoples was their language» e «there were also many social and
religious practices and institutions shared by various Arab tribes, but none were

45
Sartre, D’Alexandre à Zénobie, cit., 52, n. 84.
46
Sartre, loc. cit., continua: «On s’en tient ici à une définition fondée d’abord sur l’appartenance
linguistique (Nabatéens), mais il faut bien admettre que nous ignorons quelle langue parlaient les
Ituréens, désignés comme ‘Arabes’ par les sources antiques du seul fait qu’ils se livraient au bri-
gandage».
47
M.C.A. Macdonald, Nomads and the Ḥawrān in the Late Hellenistic and Roman Periods: A
Reassessment of the Epigraphic Evidence, «Syria» 70, 1993, 303-403; M.C.A. Macdonald, Ancient
North Arabian, in R.D. Woodard (ed.), The Cambridge Encyclopedia of the World’s Ancient Lan-
guages, Cambridge 2004, 488-533.
Identità complesse. Uno studio su Palmira 179

so pervasive nor so unifying as the language»48. Tale affermazione si fonda sul-


l’idea, condivisa da una parte della moderna semitistica, ma non comprovabile
dal materiale documentario, che presso i Nabatei, e alcuni sostengono anche a
Palmira, l’uso dell’aramaico fosse una sorta di eterografia. Tale idea è stata effi-
cacemente attaccata da Millar sulla base dei graffiti nabatei redatti in aramaico49,
ma è stata ancora difesa, con solidi argomenti, da Hoyland50, per cui converrà
su questo punto sospendere il giudizio. Certo è che sul tema della definizione di
Arabo nel mondo preislamico si dovrà assumere un atteggiamento di gran lunga
più prudente di quello a suo tempo assunto da Dussaud51.
L’impossibilità di arrivare ad una definizione generalmente valida dell’arabi-
cità di Palmira, recentissimamente ribadita in maniera molto persuasiva da Mi-
chael Macdonald52, mi solleva da un grande peso. Tuttavia può non risultare inu-
tile riportare nella discussione sui caratteri specifici della cultura palmirena una
rappresentazione figurata di impressionante forza espressiva, che converrà però
affrontare partendo un po’ da lontano.

a) Il velo
Il problema dell’atteggiamento da tenere in chiesa durante le funzioni religio-
se, quando la comunità dei fedeli si riunisce, non era di poco conto nella Carta-
gine dei primissimi anni del III secolo. Tertulliano lo avvertiva particolarmente

48
R.G. Hoyland, Arabia and the Arabs: from the Bronze Age to the coming of Islam, London-New
York 2001, 230-231.
49
Millar, Roman Near East, cit., 402: «the idea that the language was not simultaneously spoken
seems perverse and is very difficult to prove»; M.C.A. Macdonald, Some reflections on epigraphy
and ethnicity in the Roman Near East, in G.W. Clarke - D. Harrison (eds.), Identities in the Eastern
Mediterranean in Antiquity, Mediterranean Archaeology, 1998, 177-190.
50
R. G. Hoyland, Language and Identity: The Twin Histories of Arabic and Aramaic (and: Why did
Aramaic Succeed where Greek Failed?), SCI 23, 2004, 183-199.
51
Dussaud, La pénétration des Arabes, cit., 14: «Le terme ‘Arabe’ ne désigne pas à proprement
parler l’habitant de l’Arabie, mais le nomade qui vit sous la tente dans le désert»; la stessa accezio-
ne in I. Ephʿal, The Ancient Arabs: Nomads on the Borders of the Fertile Crescent 9.-5. Centuries
B.C, Leiden-Jerusalem 1982, dove però l’ambito cronologico rende meno vistosa la parzialità della
definizione.
52
M.C.A.Macdonald, “Les Arabes en Syrie” or “La pénétration des Arabes en Syrie”. A question
of perception?, in La Syrie hellénistique, «Topoi» Suppl. 4, Lyon 2003, 303-318, in particolare
317: «Because we have so much more evidence for it than for most of the other ‘Arab’ populations
in Syria, the case of the Nabataeans highlights the difficulties of discovering what was meant by
the term in antiquity, and at present, alas, I cannot with confidence suggest one, or more, criteria
which would fit all the cases. In view of the difficulties of finding such criteria, let alone proving
that they were the correct ones, I would suggest that it is safer to suspend judgement until more
evidence is available and simply accept that there were certain populations in Syria which were
called ‘Arabs’, without making assumptions, or drawing conclusions, from this about their origins,
or their way-of-life»
180 Tommaso Gnoli

quando riguardava le donne, la cui natura intrinsecamente sessuale e corruttrice


era evidente ed ineliminabile fin dalla pubertà53. Del resto, in quanto discendenti
da Eva, non erano forse esse diaboli ianua, ‘porte del demonio’?54 Fortunata-
mente, però, Dio ha fornito il mezzo per limitare l’azione corruttrice della donna,
instillandole il pudore, sentimento ritenuto così importante da meritare un intero
scritto. Tertulliano riteneva talmente connaturato il pudore che una donna che ne
fosse priva non si sarebbe nemmeno potuta definire tale, sarebbe stata tertium
genus ... monstruosum aliquod ‘un terzo sesso ... qualcosa di mostruoso’55. Per
questo motivo le buone fedeli dovevano coprirsi il capo con un velo, quando
entravano in chiesa. Tuttavia non bisognava esagerare, era sufficiente che il velo
coprisse per intero i capelli56, non bisognava indulgere in pratiche ‘eccessive e
barbare’, quale quella di coprirsi completamente il volto57. La ethnica disciplina
qui sotto accusa è quella delle feminae ethnicae Arabiae:
Ci giudicheranno le donne pagane d’Arabia, loro che coprono non solo il capo
ma addirittura tutta la faccia, contente di godere, con l’unico occhio lasciato
libero, della metà della luce, piuttosto che disonorare (prostituere) tutta la
faccia: la donna preferisce vedere che essere vista58.

L’annotazione di Tertulliano è tutt’altro che banale. Se ai nostri occhi la don-


na coperta integralmente dal burka immediatamente richiama alla mente frange
estremistiche del mondo arabo-islamico, rappresentazioni di donne completa-
mente velate dal Vicino Oriente di età romana sono estremamente rare. Tuttavia
ci sono, e sono attestate proprio a Palmira.
La connessione tra le feminae ethnicae Arabiae di Tertulliano e le signore
ritratte in gran numero sulle steli figurate di Palmira è ampiamente presente da
molto tempo nella letteratura erudita. Il parallelo fu già ravvisato da Julius Well-
hausen, nel 188759, e riproposto dal Padre Roland de Vaux nel 193560. La recente
edizione del trattato tertullianeo nelle Sources Chrétiennes contiene scrupolosa

53
P. Brown, Il corpo e la società; Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani,
Torino 1992 (New York 1988), 74-75.
54
Tert., De cultu fem. 1, 1, 2.
55
Tert., De virg. vel., 7, 6.
56
Tert., De virg. vel., 17, 2: Limites et fines eius eo usque porriguntur unde incipit uestis.
57
Tert., De virg. vel. 17, 5: Et ethnicae quidem disciplinae meracior et, ut ita dixerim, barbarior
modestia.
58
Tert., De virg. vel. 17, 4: Iudicabunt uos arabiae feminae ethnicae, quae non caput, sed faciem
quoque ita totam tegunt, ut uno oculo liberato contentae sint dimidiam frui lucem quam totam fa-
ciem prostituere. Mauult femina uidere quam uideri.
59
J. Wellhausen, Reste arabischen Heidentums, Berlin 1887, 196.
60
R. De Vaux, Sur le voile des femmes dans l’Orient ancien, RBi 44, 1935, 397-412.
Identità complesse. Uno studio su Palmira 181

traccia di queste discussioni61. Sorprende, quindi, che questa suggestione sia pro-
gressivamente uscita dalla letteratura più recente su Palmira e la sua religione.
Eppure la connessione suggerita da De Vaux tra le feminae ethnicae Arabiae di
Tertulliano e le matrone palmirene è importante. Egli la riferiva in particolare a
un celebre frammento del rilievo del santuario cosiddetto di Bēl62. Si tratta di un
grande frammento dell’architrave del naos, la parte più antica del tempio, databi-
le quindi attorno al 32 d.C., sulla base della data di fondazione contenuta in PAT
134763. Vi è rappresentata una processione con degli animali (sono ben distingui-
bili un asino e uno o forse due cammelli) e delle donne completamente avvolte
in veli, dei veri e propri burka, che sfilano di fronte a un pubblico che sembra
atteggiarsi a cenni di saluto. In realtà solo il gruppo di uomini gesticola con le
mani, sia il pubblico sia l’unico personaggio maschile del corteo, il cammelliere,
mentre le donne, sia il gruppo che chiude la processione sia le tre raffigurate tra
il pubblico, condividono lo stesso atteggiamento compunto, il capo reclinato, la
mano destra a tener fermo il velo all’altezza del collo. Sopra l’unico cammello
completamente conservato vi è un baldacchino che protegge qualcosa dagli occhi
dei fedeli. Descrivendo per primo il rilievo in oggetto Henri Seyrig paragonò
questo baldacchino alla qobba della Mecca64.
In un recente articolo Lucinda Dirven è tornata sull’interpretazione del pezzo,
contribuendo a una migliore comprensione della scena raffigurata65. Le conside-
razioni della studiosa olandese prendono le mosse dal confronto di questo fram-
mento architettonico con un altro, simile, rinvenuto a Ḥatra, nel tempio di ʿAllāt66.
Il contributo offerto da questo studio è stato importante, ma non del tutto risolu-
tivo, come ha potuto mostrare Kaizer, che si mostra scettico sull’identificazione
della scena proposta da Dirven67. Per parte mia, non credo sia possibile giungere
ad una vera e propria identificazione dell’evento raffigurato, ma penso che vada

61
E. Schulz-Flügel - P. Mattei, Tertullian, Le voile des vierges = De uirginibus uelandis, Sources
chrétiennes, n° 424, Paris 1997, 266.
62
H.J.W. Drijvers, The religion of Palmyra, Iconography of Religions. Section XV: Mesopotamia
and the Near East. Fascicle 15, Leiden 1976, pl. V.
63
PAT 1347: byrḥ tšry šnt 357 | ṣlm’ dnh dy lšmš br tybwl | br škybl dy mn bny kmr’ dy | ḥnk hykl’
dy bl wyrḥbwl | w‘glbwl ’lhy’ bqdšwhy || ywm štt’ bnysn šnt 343 | dy ’qymw lh bnwhy lyqrh. «Nel
mese di Tišri, l’anno 357 (ottobre del 45 d.C.), questa è la statua di Lišamš, figlio di Taibol, figlio
di Šokaibel, dei Bene Komare, che ha dedicato il tempio di Bel e Yarhibol e Aglibol, gli dei, il sesto
giorno di Nisan, l’anno 343 (6 aprile 32 d.C.) che i suoi figli innalzarono per lui in suo onore». Cfr.
Kaizer, The Religious Life, cit., 69.
64
H. Seyrig, Bas reliefs monumentaux du Temple de Bêl à Palmyre, «Syria» 15, 1934, 155-186.
65
L. Dirven, The Arrival of the Goddess Allat in Palmyra, «Mesopotamia» 33, 1998, 297-307.
66
A. Invernizzi, The Investiture of Nemesis-Allat in Hatra, «Mesopotamia» 24, 1989, 129-175.
67
Kaizer, The Religious Life, cit., 202.
182 Tommaso Gnoli

esclusa l’interpretazione data da Seyrig e ripresa e precisata da De Vaux68. Se-


condo tale interpretazione si avrebbe rappresentato nell’architrave l’arrivo del
dio Bēl a Palmira, che farebbe in quel momento il suo ingresso trionfale in città,
portatovi da beduini arabi del deserto. Si tratterebbe della rappresentazione del
momento in cui la casa del dio, precedentemente approntata, avrebbe accolto la
sua divinità principale e la popolazione che la venerava: in pratica sarebbe la
rappresentazione della fondazione stessa della città, che sarebbe passata proprio
allora dal suo precedente stato di mero punto d’acqua e luogo di sosta per i noma-
di del deserto a centro urbano vero e proprio.
Una simile interpretazione si basa principalmente sull’idea sopra riportata di
nomadismo insito nel concetto di arabo69. In questo senso, una città araba non può
essere che una città di recente formazione, caratterizzata da una lunga fase pre o
protourbana70. In appoggio a questa teoria si è a lungo utilizzato anche un passo di
Appiano, sul quale si tornerà tra poco. Nonostante i dubbi più volte espressi circa
questa pretesa tarda urbanizzazione dell’oasi, i recenti saggi di scavo condotti
nella cosiddetta ‘città ellenistica’, cioè l’area urbana a sud del wadi71, e all’inter-
no del recinto del tempio di Bēl72, hanno definitivamente comprovato l’esistenza
della città e di un grande recinto sacro in un periodo ampiamente precedente la
metà del I secolo a.C., anche se si dovrà aspettare la pubblicazione di queste re-
centissime indagini per poter essere più precisi. È a mio avviso preferibile vedere
nelle donne velate del nostro rilievo esponenti femminili della comunità addetta
al culto di Bēl, i kmr’ dy bl, i «preti di Bēl» attestati in tante iscrizioni palmirene73,
dove il termine kmr, sacerdote, può benissimo riferirsi, al plurale, a una comunità
cultuale di fedeli di ambo i sessi. In questo caso nel nostro architrave si dovrebbe
riconoscere la rappresentazione di una scena tratta dalla liturgia del culto di Bēl,
probabilmente una festa annuale.
Pur prescindendo da ogni tentativo di identificazione delle nostre velate spet-
tatrici, non può sfuggire a nessuno che i numerosissimi ritratti femminili pro-
venienti da Palmira mostrano donne sempre e invariabilmente ritratte col capo
coperto da un velo. Non solo, l’atteggiamento della mano destra, che impugna il
lembo destro del velo, ha fatto sorgere un legittimo interrogativo sul significato

68
Op. citt. rispettivamente a n. 65 e 61.
69
Teixidor, Nomadisme et sédentarisation en Palmyrène, cit.
70
Rostovtzeff, SEHR, 127: «Ai tempi della fonte di Strabone, Palmira in realtà non esisteva ancora;
nel tardo I secolo a.C. Palmira costruì un magnifico tempio a Bel».
71
A. Schmidt-Colinet, Nouvelles données sur Palmyre hellénistique, in La Syrie hellénistique, «To-
poi» Suppl. 4, Lyon 2003, 299-302.
72
Kaizer, The Religious Life, cit., 75.
73
PAT 1524 etc.
Identità complesse. Uno studio su Palmira 183

di quel gesto: la donna si sta scoprendo il volto in modo da rendersi riconoscibile,


per poi ricoprirsi? È difficile rispondere a questa domanda.
C’è tuttavia un’altra domanda alla quale si dovrebbe tentare di rispondere:
com’è giunto all’orecchio di Tertulliano quest’uso diffuso tra le «donne d’Ara-
bia»? Tertulliano non mostra eccessiva conoscenza delle usanze etniche degli
Arabi. Per lui l’Arabia è, soprattutto, il luogo da cui provengono gli aromata74.
Nell’opera di Tertulliano si trova ancora un riferimento alla Fenice e uno alla
divinità ‘nazionale’ Dusares75, ma nulla che faccia intendere una qualche precisa
conoscenza degli Arabi da parte del nostro polemista. Mi sembrerebbe quindi
impossibile consentire col Monceaux circa la possibilità che Tertulliano abbia
letto un’opera di Giuba di Mauritania sull’Arabia76. Il fatto che il re Giuba si
trovi in un brano dell’Apologeticum (19, 64 sgg.) tra le autorità dell’antichità del
popolo ebraico, non mi sembra provare assolutamente nulla. Nell’unico brano,
oltre a questo del De virginibus velandis, dove Tertulliano dice qualcosa in più
sull’Arabia, egli cita esplicitamente la sua fonte: si tratta dell’oramai perduto IV
libro delle Storie di Tacito, in un passo estremamente problematico relativo in
realtà alla religione ebraica, dove il riferimento all’Arabia ha un significato me-
ramente eziologico, per spiegare la pretesa esistenza del culto di una testa d’asino
presso gli Ebrei77.
Piuttosto che pensare all’incertissima conoscenza da parte di Tertulliano dello
scritto sull’Arabia di Giuba di Mauritania, è molto più semplice pensare che la
notizia ‘etnologica’ del De virginibus velandis sia derivata all’apologeta da un
contatto, non sappiamo se diretto o mediato, con qualcuno dei numerosi soldati
palmireni schierati tra le forze ausiliarie in Africa settentrionale. Si conosce un
numerus Palmyrenorum sagittariorum in Numidia, attestato per via epigrafica
a El-Kantara, l’antica Ad Calceum Herculis78, ma anche a Timgad e a Lambe-

74
Apologeticum, 42: Tura plane non emimus; si Arabiae queruntur, sciant Sabaei plures et cario-
res suas merces christianis sepeliendis profligari quam deis fumigandis, e ancora De corona, 10:
Arabiae aliquid incendo, sed non eodem ritu nec eodem habitu nec eodem apparatu, quo agitur
apud idola.
75
Dusares in Apologeticum, 24, la Fenice in De resurrectione mortuorum, 13.
76
P. Monceaux, Sur le voile des femmes en Afrique, BSAF 1901, 339-341.
77
Apologeticum 16: Is enim, in quarto historiarum suarum de bello iudaico exorsus ab origine
gentis et tam de ipsa origine quam de nomine et religione gentis quae uoluit argumentatus, Iudaeos
refert Aegypto expeditos siue, ut putauit, exterminatos uastis Arabiae in locis et aquarum egentis-
simis cum siti macerarentur, onagris, qui forte de pastu potum petituri aestimabantur, indicibus
fontis usos, ob eam gratiam consimilis bestiae superficiem consecrasse.
78
La località Ad Calceum Herculis è ben collocata nella mappa 34 del Barrington Atlas, con riferi-
mento a S. Gsell, Atlas archéologique de l’Algérie, Paris 1911, 37.52.
184 Tommaso Gnoli

si79. La cronologia delle iscrizioni si adatta benissimo alla nostra ipotesi, l’ultima
iscrizione datata essendo con precisione collocabile all’anno 527 Seleucide =
215 d.C. Come potè scrivere Eugenia Equini Schneider: «questo gruppo etni-
co era uno dei più compatti nell’osservanza delle proprie tradizioni religiose e
linguistiche .... A seguito dello stanziamento di questo reparto specializzato di
sagittarii ... deve essersi formata a Calceus Herculis .... una comunità civile, la
cui consistenza è sottolineata dalla ricchezza del materiale epigrafico»80. Non
conosciamo l’abbigliamento di Iulia Palmyra, Herennia Hariana, Herenia Rufilla,
così si chiamavano le mogli di questi soldati palmireni, perché, al contrario di
quanto avveniva in patria, qui, nel deserto algerino, le stele contenti gli epitaffi
sono quasi sempre aniconiche, ma è molto probabile che la loro pudicizia, sebbe-
ne forse un po’ eccessiva, sarebbe piaciuta a Tertulliano.

b) L’urbanizzazione

Il sostrato arabo non ha lasciato tracce apprezzabili nelle istituzioni palmirene


quali sono ricostruibili a partire dalla documentazione letteraria ed epigrafica, ma
ha influenzato enormemente gli studi su Palmira. Si tratta quasi di un’influenza
subliminale, in molti casi. Come ho già avuto modo di accennare la moderna
dottrina su Palmira ha quasi concordemente ritenuto che la fondazione di una
città nell’oasi di Tadmor sia avvenuta molto tardi, alla fine del I secolo a.C. al
massimo. Il fatto che questa convinzione si sia mantenuta nonostante attestazioni
certe in fonti babilonesi, accadiche, ebraiche di un insediamento nell’oasi fin da
tempi antichissimi non può spiegarsi se non con l’idea che si stia pur sempre par-
lando, appunto, di una città ‘araba’. Tale convinzione, poi, ha paradossalmente
trovato conferma in un brano letterario che, se letto senza pregiudizi, non può che
confermare l’idea opposta. Si tratta di un celebre passo di Appiano in cui viene
descritto un colpo di mano contro Palmira tentato dal triumviro Marco Antonio
nella primavera del 41 a.C. Egli avrebbe inviato contro la città (povli~) del de-
serto un distaccamento di cavalleria per fare bottino. Poiché però i Palmireni co-
nobbero in anticipo le predaci intenzioni di Antonio si ritirarono nel deserto fino

79
E. Equini Schneider, Palmireni a Roma e nell’Africa del nord. Tradizionalismo linguistico e
religioso, in Campanile - Cardona - Lazzeroni (a cura di), Bilinguismo e biculturalismo nel mondo
antico, cit., 61-66; Ead., Palmireni in Africa: Calceus Herculis, in A. Mastino (a cura di), L’afri-
ca romana 5, Sassari 1988, 383-395; Y. Le Bohec, Les unités auxiliaires de l’armée romaine en
Afrique proconsulaire et Numidie sous le Haut Empire, Etudes d’Antiquités africaines, Paris 1989;
Yon, Les notables de Palmyre, cit., 271-272.
80
Equini Schneider, Palmireni a Roma, cit., 64.
Identità complesse. Uno studio su Palmira 185

all’Eufrate portando con sé il necessario (ta; ajnagkaiva) e, schieratisi dall’altra


parte del fiume, si sarebbero apprestati a resistere all’attacco di eventuali assalito-
ri grazie alla loro valentia nell’uso dell’arco. I cavalieri di Antonio, però, avendo
trovato la città vuota e deserta, girarono le spalle e tornarono indietro. I recenti
scavi archeologici hanno fatto definitivamente giustizia della forzatissima inter-
pretazione che era stata data finora dell’episodio. Anziché rilevare, come sarebbe
stato ovvio, che Palmira era fin dal 41 a.C. una realtà urbana d’importanza tale da
suscitare gli appetiti di Antonio e che di abbandoni di città di fronte a un nemico
ritenuto superiore è piena la storia, si è voluto vedere nel brano la conferma che
la popolazione di Palmira era a quell’epoca ancora in una fase protourbana, per-
ché non avrebbe avuto alcun problema ad allontanarsi dalla città. In particolare
l’allontanamento dalla città e il conseguente ‘vuoto’ che i Palmireni avrebbero
lasciato dietro di sé sarebbe ulteriore conferma che i beni dei Palmireni sarebbero
stati quasi esclusivamente beni mobili, come quelli di qualsiasi società pastorale
che si rispetti. È curioso che nessuno abbia tratto le stesse deduzioni dall’abban-
dono di Atene nel 480 davanti all’esercito di Serse.
Ma la notizia di Appiano è stata utilizzata anche dagli archeologi per datare
con precisione le mura della città. Palmira presenta infatti due cinte di mura,
una molto piccola di età dioclezianea che racchiude un’area limitata dell’antico
insediamento, e una molto più vasta, molto mal conservata e di difficilissima da-
tazione81. Il passo di Appiano sarebbe stato preso come il terminus post quem per
la costruzione della prima cinta di mura, perché è evidente che se una minaccia
portata da cavalieri era ritenuta tanto pericolosa da provocare l’abbandono del
sito da parte degli abitanti, evidentemente non esistevano efficaci sistemi difen-
sivi. È merito della recente rilettura del brano attuata da Olivier Hekster e Ted
Kaizer aver evidenziato l’incredibile serie di forzature che una tale lettura del
passo appianeo comportava per la ricostruzione delle fasi più antiche della storia
di Palmira82.
La lettura di Guerre civili V 9 evidenzia quindi la volontà da parte degli storici
di voler adeguare a tutti i costi le fonti letterarie a una situazione immaginata
come probabile, se non certa, data la ‘arabicità’ della popolazione. Un trattamen-
to ancor più ingiusto lo ha subito Plinio il Vecchio quando, in Naturalis Historia
V 88, dichiara che Palmira privata sorte, inter duo imperia summa Romanorum
Parthorumque, et prima in discordia semper utrimque cura. Poiché il passo di
Plinio cozza violentemente contro la ricostruzione della storia di Palmira attuata
da Henri Seyrig, il valore di questa dichiarazione è stato dapprima limitato come

81
D. Van Berchem, Le premier rempart de Palmyre, CRAI 1970, 231-237.
82
O. Hekster - T. Kaizer, Mark Antony and the Raid on Palmyra: Reflections on Appian, Bella
Civilia V, 9, «Latomus» 63, 2004, 70-80.
186 Tommaso Gnoli

un semplice anacronismo83, quindi si è attuato il tentativo di una vera e propria


rimozione84: il brano non sarebbe altro che un topos letterario, probabilmente di
origine ellenistica, relativo non specificamente a Palmira, ma ad un’oasi in ge-
nerale, utilizzato da Plinio a sproposito per descrivere la situazione della città in
età Flavia ....
Questo atteggiamento non ha mancato di produrre risultati curiosi. Macdonald
è recentemente tornato sul problema della ‘pénétration des Arabes en Syrie avant
l’Islam’ sottolineando come il problema sia in massima parte mal posto85. I pio-
nieristici lavori di René Dussaud si basavano sull’idea di successive ondate di po-
polazione che dalla penisola arabica si riversavano periodicamente sulle aree di
antico insediamento. Questa visione si basava sull’idea malthusiana di ricorrenti
esplosioni demografiche nelle regioni desertiche che costringevano gli Arabi a
cercarsi nuove, fertili sedi. Le razzie dei predoni arabi ai danni delle popolazioni
aramaiche sedentarie causate principalmente da insopportabili pressioni demo-
grafiche è diventato patrimonio comune, direi quasi inconscio, della moderna ri-
cerca storica del Vicino Oriente romano. Al punto che, nell’unico studio dedicato
alla demografia palmirena, Dora Polk Crouch poté arrivare, sulla base di calcoli
che recentemente Eliodoro Savino ha potuto mostrare totalmente sballati, alla
stima di una popolazione di Palmira e del suo territorio di circa 1.200.000 per-
sone!86 Ciò che impressiona non è tanto un evidente errore nell’impostazione di
un calcolo, quanto il fatto che una simile abnorme valutazione della potenzialità
demografica della regione di Palmira ha potuto resistere indisturbata nella lettera-
tura moderna per quasi trent’anni, il lavoro della ricercatrice americana figurando
in calce a tutte le bibliografie di quanti nel frattempo si erano dedicati a Palmira.
Non ci troviamo ancora una volta, come nel caso della penisola arabica, di fronte
a un deserto che, inesausto, genera uomini?

c) Il commercio di Palmira
Uno dei meriti principali del libro di Gary K. Young sul commercio orientale
di Roma è quello di aver fatto giustizia del determinismo che sta dietro la con-
vinzione, più volte espressa, che fu il commercio carovaniero a creare la città di
Palmira e che questa sia stata fondata a motivo della sua felice posizione geogra-

83
H. Seyrig, L’incorporation de Palmyre à l’empire romain, «Syria» 13, 1932, 266-277.
84
E. Will, Pline l’ancien et Palmyre: un problème d’histoire ou d’histoire lettéraire?, «Syria» 62,
1985, 263-269 (= Will, De l’Euphrate au Rhin, cit., 525-531).
85
Macdonald, “Les Arabes en Syrie” cit.
86
D.P. Crouch, A note on the population and area of Palmyra, MUB 47, 1972, 241-250, su cui cfr.
Savino, Città di frontiera, cit., 47-93, in partic. 71; a 75 Savino avanza la stima più prudente di
300.000 persone per la città e il territorio insieme. Si deve notare, però, la mancanza di qualsiasi
dato oggettivo per arrivare a un calcolo anche approssimativamente valido.
Identità complesse. Uno studio su Palmira 187

fica, naturale crocevia tra le regioni della costa mediterranea e l’Asia ulteriore87.
In realtà, inquadrata in un’ottica di lunga durata, la fase mercantile della storia di
Palmira è un periodo relativamente breve, certo il più significativo e caratteriz-
zante, ma non l’unico. Il commercio orientale, poi, non ha mai seguito – né prima
né dopo il grande éssort di Palmira – la via dell’oasi, ma anzi è sempre passato
molto lontano. Pertanto, il vecchio adagio che Palmira sia diventata grande per
la sua posizione geografica va abbandonato. Fu la élite palmirena che, a seguito
di una precisa strategia economica, tentò con successo di convogliare nella città
il commercio di lunga distanza. Questa operazione ebbe risultati brillanti perché
poté contare da una parte su condizioni contingenti favorevoli (in particolare la
costituzione della provincia romana di Siria), dall’altra su capitali adeguati inve-
stiti nell’impresa dalla classe dirigente della città. L’emergere della grande po-
tenza economica della città carovaniera fu quindi frutto dell’intraprendenza di un
ceto di proprietari di terre e di greggi, non di un’iniziativa dirigistica dello stato
romano. La connessione che si è a lungo tentata tra la crisi delle vie commerciali
meridionali passanti per lo stato nabateo, con il conseguente successivo sposta-
mento della capitale da Petra a Bostra, non ha, nella prospettiva di Young, nulla
a che vedere con il progredire del commercio palmireno.
L’importanza di questo lavoro è notevole. Senza voler cadere in tentazioni
primitivistiche, sempre in agguato quando si parla di economia nel mondo antico,
l’idea che si trova lucidamente espressa nei lavori di Rostovtzeff, di De Laet e di
lì in Seyrig e altri, che lo stato romano disegnasse a tavolino rotte commerciali
su lunghissime distanze spostando a piacimento i terminali di quel commercio e
i percorsi, favorendo ora il Mar Rosso, ora l’Egitto, ora Palmira ora la Mesopota-
mia settentrionale, sembra francamente eccessiva. In particolare la più volte po-
stulata e mai provata concorrenza tra la via commerciale meridionale che sfociava
a Petra e di lì a Gaza, e quella palmirena, si è dimostrata un inesistente fantasma.
Le due vie hanno coesistito per un periodo di tempo molto ampio, e se alla fine la
via meridionale è entrata in un lungo periodo di crisi, che conoscerà una ripresa
solamente in età tardoantica e medievale, quando sarà terminata l’esperienza pal-
mirena, questo fatto è da spiegare sulla base di precise circostanze locali, non sul
piano della grande politica economica romana.

87
Young, Rome’s eastern trade, cit. Cfr. Rostovtzeff, SEHR, 127: «Il piccolo villaggio di Palmira,
abitato da una tribù aramaica, capì il grande vantaggio della sua posizione, a mezza strada tra l’Eu-
frate e Damasco, in prossimità d’una delle poche sorgenti del deserto».
188 Tommaso Gnoli

4. Palmira tra Roma e Iran

Il problema del rapporto tra Roma e Palmira, della dipendenza o meno della
grande città carovaniera da Roma e dalla provincia di Syria, è tale da non poter
essere compiutamente affrontato in questa sede. Ci si limiterà pertanto a mettere
in evidenza come una delle pietre angolari della costruzione di Seyrig, che com-
proverebbe la piena dipendenza di Palmira da Roma almeno a partire dall’età
tiberiana, possa essere intepretata in modo diametralmente opposto.

a) I cippi palmireni

In un articolo del 1939 Daniel Schlumberger pubblicò una serie di cippi di


confine rinvenuti nelle steppe a occidente di Palmira88. Il più completo di tali
cippi recita come segue:

[Imp. Caesar]
D[i]vi Hadriani f.,
Ḍivi Traiani Parthi-
ci nepos, Divi Nervae
pronepos, T. Aelius Hadria-
[nus A]ntoninus Aug. Pius, pon-
tif. max., tr(i)b. pot. XVI, imp. II, cos. IIII,
p. p., fines regionis Palmyrenae,
constitutos a Cretico Silano
leg. Aug. pr. pr. ex sententia Di-
vi Hadriani patris sui, restitu(i)ṭ
per Pontium Laelianum leg. Aug. pr. p[r.]
mense decembre, Praesente et Rufino co[ss.]

Quando vennero pubblicati, i cippi non potevano avere alcun riscontro nel-
l’epigrafia dell’Oriente romano. Non che mancassero cippi di confine provenienti
dalla Siria o dalla Palestina, anzi. Tutti i cippi noti, però, erano pertinenti alla
grande riforma dei catasti attuata in età tetrarchica, e pertanto erano ad essa fina-
lizzati89, rendendo quanto meno rischioso il confronto con le pietre di Palmira,

88
D. Schlumberger, Bornes frontières de la Palmyrène, «Syria» 20, 1939, 43-73.
89
A. Déléage, La capitation du Bas-Empire, Paris 1945, 152-162. Un nuovo elenco, più completo,
in Millar, The Roman Near East, cit., ‘Appendix A, The Inscriptions of the Tetrarchic Land-Sur-
veyors’, 535-544. Alle iscrizioni lì elencate si aggiungano quelle pubblicate da M. Sartre, Nouvelles
bornes cadastrales du Hauran sous la Tétrarchie, «Ktema» 17, 1992, 111-131.
Identità complesse. Uno studio su Palmira 189

in mancanza di ulteriori paragoni. Tuttavia, oggi si dispone di un’iscrizione che


consente un confronto utile coi cippi palmireni90:

ex auctoritate Imp. Caes.


L. Septimi Severi Pii Per-
tinacis Aug. Arab. Adiab.
pontif. max. trib. pot. III,
imp. VII, cos. II p. p., C. Iul.
Pacatianus proc. Aug. inter
provinciam Osrhoenam et
regnum Abgari fines posuit.
Il testo relativo a Palmira, qui riportato nella sua forma più completa, è una
restitutio, attuata nel 153 da Antonino Pio per mezzo di M. Pontius Laelianus
Larcius Sabinus, legatus Augusti pro praetore della provincia di Syria dal 150
al 15491, dei fines regionis Palmyrenae che erano stati istituiti da Q. Caecilius
Metellus Creticus Silanus, che governò la Siria tra l’11 ca. – e il 17 d.C.92, dietro
deliberazione di Adriano. Il testo osroeno è invece datato al 195 e rappresenta la
delimitazione del confine tra la nuova provincia di Osroene e il regno di Abgar,
attuata dal primo procurator di quella provincia, C. Iulius Pacatianus93, ex aucto-
ritate di Settimio Severo.
Quel che accomuna i due testi, al di là di tutte le differenze nella formulazione
e nel contesto nel quale le delimitazioni furono attuate, è che questi sono gli unici
due esempi di delimitazioni di confine provenienti dal Vicino Oriente romano in
cui non sono nominate espressamente le città o comunque le unità amministrati-
ve delle quali si procedeva a delimitare il territorio. Nel caso dei summenzionati
cippi di età tetrarchica la formulzione standard era livqon diorivzonta o{rou~ th`~
povlew~ — (o th`~ mhtrokwmiva~ —) nel caso di unità amministrative dotate di
aujtopragiva, mentre, nel caso di comunità dipendenti da una curia cittadina, al

90
J. Wagner, Provincia Osrhoenae. New archaeological finds illustrating the military organisation
under the Severan dynasty, in S. Mitchell (ed.), Armies and Frontiers in Roman and Byzantine
Anatolia, Proceedings of a colloquium held at University College, Swansea, in April 1981, BAR.IS
156, London 1983, 103-129, nr. 3, pp. 113-114.
91
E. Dąbrowa, The Governors of Roman Syria from Augustus to Septimius Severus, Antiquitas.
Reihe 1., Abhandlungen zur alten Geschichte, Bonn 1998, 104-106.
92
Dąbrowa, The Governors of Roman Syria, cit., 30-32.
93
R.P. Duncan-Jones, Praefectus Mesopotamiae et Osrhoenae, CPh 64, 1969, 229-233; A. Ma-
gioncalda, Testimonianze sui prefetti di Mesopotamia (da Settimio Severo a Costantino), SDHI
48, 1982, 167-238, in part. 183-188; Ead., I governatori delle province procuratorie: carriere, in
S. Demougin - H. Devijver - M.-T. Raepsaet-Charlier (éd. par), L’ordre équestre. Histoire d’une
aristocratie (IIe siècle av. J.-C. – IIIe siècle ap. J.-C.). Actes du colloque international (Bruxelles-
Leuven, 5-7 octobre 1995), CEFR 257, Rome 1999, 391-462.
190 Tommaso Gnoli

termine o{roi/fines poteva sostituirsi ajgroiv/arva, con evidente riferimento alla


motivazione stessa che aveva portato alla delimitazione territoriale: la determi-
nazione dell’imponibile delle singole comunità. Quale sarebbe stato invece lo
scopo della delimitazione palmirena, se Palmira fosse stata a pieno titolo inte-
grata nella compagine provinciale? E, soprattutto, perché fare riferimento ad una
regio Palmyrena, anziché direttamente alla città di Palmira? È questo il punto
chiave per intendere la delimitazione della città: l’uso dell’espressione regio Pal-
myrena anziché, ad esempio, (civitas) Palmyrenorum. Ha ragione Schlumberger
nell’individuare nell’espressione usata sul cippo un’analogia col termine greco
Palmurhnhv94, che compare più volte nel testo greco della Tariffa. Tuttavia, in
entrambi i casi si è di fronte a testi ufficiali, aventi valore legale, e non abbiamo
attestato in nessun altro caso analogo nel Vicino Oriente romano il riferimento al
‘territorio’ di una città sotto questa forma, ma solamente come cwvra di una certa
città. Seyrig aveva potuto affermare, anche sulla base di questa iscrizione, che
«dont toute la mesure où l’on peut en juger, Palmyre n’était pas plus étrangère à
l’empire que ne l’étaient Antioche ou Apamée»95. Qui si preferisce invece rile-
vare come non si conoscono in Siria una regio Antiochena o una regio Apamena,
ma solamente una regio Palmyrena. La pietra non riguarda la determinazione
dei confini tra due realtà omologhe, sul piano amministrativo. Non è, poniamo,
la determinazione dei confini tra la cwvra di Palmira e quella di Emesa, ma è la
delimitazione di una regio, per la quale non si hanno testimonianze per le altre
città della Siria romana. È significativo che l’altro documento portato a confronto
indichi allo stesso modo la delimitazione di due podestà amministrative diverse e
fra loro, almeno di diritto, autonome: il regno di Abgar e la provincia di Osroene.
Come ho avuto modo di mostrare altrove, solamente lo stretto confronto con la
vicenda di Edessa – con la differenza però che lì, al contrario di quanto avviene
a Palmira, le formulazioni possono essere più esplicite, perchè meglio definito
era il potere politico degli Abgaridi rispetto al multiforme regime aristocratico
palmireno – consente di comprendere a fondo la qualità dei rapporti tra Roma e
Palmira96.

94
Schlumberger, Bornes frontières de la Palmyrène, cit., 62: «un passage de la loi fiscal contient, au
reste, l’équivalent exact de l’expression regio Palmyrena (l. 234-235: [Pal]murhnhv)».
95
H. Seyrig, Le statut de Palmyre, «Syria» 22, 1941, 155-175, in partic. 173.
96
Gnoli, Roma, Edessa e Palmira, cit.
Identità complesse. Uno studio su Palmira 191

b) L’‘argapeto’ Vorōd97

Anche l’analisi dei rapporti tra Palmira e l’Oriente – e in particolare i Parti e


quindi i Sassanidi – offre motivi di riflessione allo storico. In una serie di impor-
tanti articoli Henri Seyrig ha per così dire soppesato i contributi che alla civiltà
palmirena hanno apportato le tre maggiori componenti etnico-statali del Vicino
Oriente, Roma, gli Arabi e i Parti. Io non credo che la strada da seguire sia quella
di tentare di quantificare la miscela dei vari elementi per ricreare la ‘pietanza’
Palmira. Credo sia più utile, almeno in questa fase, individuare le tendenze sto-
riografiche dietro i tentativi di determinare tali apporti.
In seno all’antichistica francese, senz’altro la scuola più significativa ed in-
fluente per quanto riguarda gli studi palmireni, si possono individuare due po-
sizioni distinte ben definite, seppure basate su un presupposto comune. Tutta
la ricostruzione della vicenda palmirena è, per questa che io chiamo la scuola
francese, fortemente condizionata da due articoli in cui il grande antiquario e
storico Henri Seyrig asseriva con forza la ‘normalità’ della situazione di Palmira
all’interno dello stato romano98. Gli studi successivi hanno per lo più sposato sen-
za discussioni il punto di vista di Seyrig, con l’eccezione di alcuni studiosi che ne
hanno meglio precisato alcuni aspetti importanti, con contributi puntuali su snodi
difficili. In particolare Maurice Sartre, il più influente storico vivente che abbia
abbracciato in toto le posizioni di Seyrig, contribuendo anche al loro raffinamen-
to, è autore di un fondamentale, dettagliatissimo e molto ben costruito saggio
su Palmyre, cité grecque, dove insiste sull’assoluta normalità delle istituzioni di
Palmira rispetto a quella delle altre città dell’impero99, posizione che si trova poi
nuovamente espressa, con forza, nella recente monografia sulla Siria romana100.
L’altro grande studioso che più ha contribuito a consolidare il quadro costruito
da Seyrig è stato Ernest Will, che è ritornato sul tema più volte, con contributi
puntuali, meno sistematici e programmatici di quelli di Sartre, ma non per que-
sto meno precisamente orientati. Della rimozione del passo di Plinio dal novero
delle fonti antiche utili per la comprensione della storia di Palmira già si è fatto
cenno. Tale rimozione è in realtà parte di una più ampia riflessione da parte di

97
Tratto dettagliatamente la titolatura di Vorōd con tutte le implicazioni nella mia monografia, The
Interplay of Roman and Iranian Title, cit. a n. 6, e tornerò ancora sull’argomento in un articolo che
apparirà su Res Orientales 18, la cui pubblicazione è prevista per la fine del 2008.
98
Seyrig, L’incorporation de Palmyre, cit.; Seyrig, Le statut de Palmyre, cit.
99
Sartre, Palmyre, cité grecque, cit. Sia Sommer, Roms orientalische Steppengrenze, sia Kaizer,
cfr. infra, Addendum, hanno intitolato parti dei loro lavori ripetendo il titolo di Sartre, seguito da
un punto iterrogativo.
100
Sartre, D’Alexandre à Zénobie, cit.
192 Tommaso Gnoli

Will sui rapporti tra Palmira e l’Oriente partico. In un articolo giovanile su Art
parthe et art grecque, Ernest Will puntigliosamente negava validità alle tesi di
Rostovtzeff, riprese da Girshmann, dell’influenza esercitata sull’arte di Palmira
dall’arte partica101. Pur non negando, alla stregua di Herzfeld102, l’esistenza stessa
di un’arte partica, Will ne riduceva la portata innovativa, fino a farla diventare
una semplice derivazione dall’arte greca. Le argomentazioni espresse al riguardo
sono serie e richiederebbero il parere di uno storico dell’arte. Qui voglio sola-
mente riferire molto brevemente le conclusioni di un altro articolo di Ernest Will,
che tenta di limitare al massimo anche l’importanza di un’altra indubbia testimo-
nianza di influssi Persiani sulle istituzioni di Palmira: la testimonianza epigrafica
relativa all’argapeto Vorōd103.
Iulius Aurelius Septimius Vorōd, o, come è chiamato più spesso, Septimius
Vorōd, è un personaggio molto in vista nell’aristocrazia palmirena attorno agli
anni ‘60 del III secolo. Egli è ricordato in un numero di iscrizioni (ben 9) certa-
mente superiore ai testi che commemorano Odenato104. In una graduatoria delle
attestazioni epigrafiche egli è secondo solamente a Settimio Vaballato. Fu uno
dei più stretti collaboratori di Odenato nella sua prorompente ascesa a partire
dalla metà del secolo, e i suoi legami con la famiglia del corrector totius Orientis,
e in particolare con il di lui figlio Ḥairan/Herodianus, sono ben testimoniati dal
testo pubblicato nel 1963. Si tratta di un’iscrizione dedicata da Vorōd a Ḥairān, il
figlio maggiore di Odenato, che col padre condividerà la sorte. Il nome Vorōd è
di chiara origine iranica, fatto che già contribuisce a rendere piuttosto inconsueta
l’onomastica del personaggio. Ernest Will è, ovviamente, ben consapevole che
l’iranicità di un nome non prova nulla, tuttavia insiste, nella sua analisi, a mettere
in evidenza la rarità delle attestazioni onomastiche di origine iranica a Palmira.
In PAT 286, 287, 289 e 453 il nostro personaggio è qualificato con un titolo
iranico, argapeto, rarissimo a occidente dell’Eufrate, ma tutt’altro che comune
anche a oriente del fiume. L’etimologia del termine è incerta, e tra gli studiosi è
vivace il dibattito tra due diverse opzioni. La prima lo farebbe derivare da harg-,

101
E. Will, Art parthe et art grec, in Études d’archèologie classique, II, Annales de l’Est, Université
de Nancy, mémoire n° 22, Nancy 1959, 125-135 (= Id., De l’Euphrate au Rhin, cit., 783-795).
102
E. Herzfeld, Der Thron des Khosro. Quellenkritische und ikonographische Studien über Gren-
zgebiete der Kunstgeschichte des Morgen- und Abendlandes, «Jahrbuch der preuszischen Kun-
stsammlungen» 41, 1920, 103-147.
103
E. Will, À propos de quelques inscriptions palmyréniennes: le cas de Septimius Vorôd, «Syria»
73, 1996, 109-115.
104
AAAS 13, 1963, 166-167; PAT 283; PAT 284; PAT 285; PAT 286; PAT 287; PAT 288; PAT
289; PAT 453. Credo si debba eliminare dalle iscrizioni che menzionano Vorōd Inv. III 3, per le
ragioni che ho esposto in Gnoli, Roman and Iranian Titles, cit., 82-88. Ma cfr. ancora il lavoro di
Gawlikowsi, infra, in Addendum.
Identità complesse. Uno studio su Palmira 193

arg-, in stretta relazione con il mediopersiano (pahlavi) harg, «imposta, obbli-


go», termine attestato con lo stesso significato nel mediopersiano manicheo e di
lì in arabo, in sogdiano, in aramaico, con varianti. Tutte queste forme derivano
in ultima analisi dall’aramaico di impero *harak. L’altra etimologia del termine
prevederebbe invece una derivazione dal medioiranico arg «fortezza», dal quale
il neopersiano ark «fortezza, cittadella», che sarebbe una derivazione dal latino
arx105. Certo è che delle non numerose attestazioni del secondo significato (deri-
vazione del termine da ark «fortezza») va eliminata l’occorrenza del termine nei
testi mediopersiani manichei. Lì il termine ark non indica una fortezza (diz), ma
è il toponimo di un’oasi del Turkestan cinese106.
Ho mostrato altrove come, nonostante gli iranisti siano oramai concordi nel far
derivare il termine argapet dal m.p. harg «imposta», gli studiosi della Siria ro-
mana abbiano concordemente adottato l’altra etimologia, oramai insostenbile107.
Il termine indicherebbe pertanto in quest’ottica un incarico militare, un «coman-
dante della fortezza, piazzaforte», e sarebbe quindi sovrapponibile al greco stra-
thgov~108. Il maggiore supporto a questa certezza lo avrebbero offerto proprio le
iscrizioni di Palmira, e in particolare il dossier su Vorōd, ma solamente a causa
di un’incredibile svista che si è curiosamente da lungo tempo insinuata nell’epi-
grafia semitica francese, e che è stata definitivamente consacrata dall’autorità di
Will. Secondo lo studioso francese, PAT 285 sarebbe stata posta per Septimius
Vorōd, qualificato come «procurateur ducénaire et stratège», proprio al pari di
PAT 286, 287 e 289, dove lo stesso personaggio ha la qualifica di «procurateur
ducénaire et argapet»: la sovrapponibilità dei titoli stratego e argapeto sarebbe
dunque evidente109.
In PAT 285, però, lo strategos non è il dedicatario dell’iscrizione, Septimius
Vorōd, ma il dedicante, Iulius Aurelius Nebūzabad.

105
G. Widengren, Iranisch-semitische Kulturbegegnung in parthischer Zeit, Arbeitsgemeinschaft
fur Forschung des Landes Nordrhein-Westfalen Geisteswissenschaften 70, Köln-Opladen 1960;
M.-L. Chaumont, Recherches sur les institutions de l’Iran ancien et de l’Armenie II. Le titre et
la fonction d’argapat et de dizpat, JA 1962, 11-22; M.-L. Chaumont, Argbed, EncIr II.4, 1986,
400-401; E. Khurshudian, Die Parthischen und Sasanidischen Verwaltungsinstitutionen nach den
Literarischen und Epigraphischen Quellen 3. Jh. v. Chr.- 7. Jh. n. Chr, Jerwan 1998.
106
D. Durkin-Meisterernst, Dictionary of Manichaean Middle Persian and Parthian, Corpus fon-
tium Manichaeorum. Subsidia. Dictionary of Manichaean Texts vol. III. Texts from Central Asia
and China edited by Nicholas Sims-Williams Part 1, Turnhout 2004, s. v.
107
Gnoli, The Interplay of Roman and Iranian Titles, cit., 95-112.
108
La posizione criticata nel testo è condivisa, per le attestazioni da Dura Europos, anche da F.
Millar, Dura-Europos under Parthian rule, in J. Wiesehöfer (Hrsg.), Das Partherreich und seine
Zeugnisse, Historia Einzelschr. 122, Stuttgart 1998, 473-492. Una completa storia di questa erro-
nea interpretazione del termine iranico in Gnoli, The Interplay of Roman and Iranian Titles, cit.,
95-102.
109
Will, À propos de quelques inscriptions, cit., tabella a p. 115.
194 Tommaso Gnoli

Ecco il testo di PAT 285:


Septiv[mion Oujorwvdhn to;n kravtist]on
ejpivtro[pon Sebastou` d]oukhnavrion
∆Iouvlio~ Aujrhv[lio~ Nebouvz]aba[d]o~ Soav-
dou tou` AiJrh` [strat]hgo;~ [th`~] lamprotav-
th~ kolwneiva~ [t]o;n eJautou` fivlon
teimh`~ e{neken e[tou~ dofV meneiv
∆ApellaivwÊ
spṭmys wṙwd qṙṭsṭ?̻̻s ʾpṭṙpʾ
dwqnṙʾ dy ʾqym lyqṙh
ywlys ʾw<ṙ>lys nbw?̻̻[z]bd bṙ šʿdw ḥyṙʾ
ʾsṭṙ<ṭ>gʾ dy qlnyʾ ṙḥmh
šnt 5.100+60+10+4 byṙḥ kslwl

Questa lettura è resa certa sia nella versione greca del testo (la linea 4 è molto
danneggiata, ma la lettura della desinenza al nominativo, e non all’accusativo,
non è mai stata contestata da nessuno), sia in quella aramaica, dove, se la tra-
slitterazione del termine strategos all’inizio della linea 4 fosse stata da intendere
non come apposizione del dedicante, ma del dedicatario, sarebbe stata preceduta
necessariamente dalla w-, la congiunzione che sarebbe stata necessaria per col-
legare questo titolo agli altri, precedentemente elencati, di vir egregius (qṙṭsṭ?̻̻s
traslitterazione del greco kravtisto~) e procurator ducenarius (ʾpṭṙpʾ dwqnṙʾ,
traslitterazione del greco ejpivtropo~ doukhnavrio~). Come si può vedere, PAT
285, anziché comprovare l’identità tra i titoli di ajrgapevth~ e di strathgov~, è la
conferma della differenza tra le due titolature.
Come si è detto, l’erronea lettura di PAT 285 non è stata una svista di un grande
epigrafista e di uno dei maggiori conoscitori della storia e dell’arte di Palmira,
e della Siria ellenistica e romana in genere, ma ha radici lontane, che affondano
nella pubblicazione del Corpus Inscriptionum Semiticarum di Jean-Baptiste Cha-
bot110, donde è stata ripresa da Ingholt e, in un articolo contemporaneo a questo di
Ernest Will, da Maurice Sartre111.
Si tratta di una lettura che consentiva di rimuovere un altro elemento scomodo
per l’interpretazione della realtà palmirena come una realtà ‘normale’ nel pano-
rama dell’impero di Roma. Come definire infatti normale, in nulla diversa da
Apamea o Antiochia, una città che aveva uno dei suoi più illustri rappresentanti
onorato con un titolo partico e quindi sassanide, che forse compare nella coeva

CIS II 3939.
110

H. Ingholt, Varia Tadmorea, in, Palmyre. Bilan et perspectives. Colloque de Strasbourg (18-20
111

Octobre 1973), Travaux du Centre de recherche sur le Proche-Orient et la Grèce antiques 3, Stra-
sbourg 1976, 101-137, p. 135; Sartre, Palmyre, cité grecque, cit., 393-394.
Identità complesse. Uno studio su Palmira 195

iscrizione di Šābuhr (inutile dire che anche questa identificazione del personaggio
è stata avversata da questi studiosi)112? Il tentativo lucidamente posto in essere da
Will è stato quello di limitare, depotenziare, il valore istituzionale della carica di
Vorōd, rendendo il titolo una sorta di variante esotica del più rassicurante stra-
thgov~. Nella prospettiva di Will il nostro personaggio non sarebbe stato altro che
il rappresentante a Palmira di una non meglio nota comunità persiana, un patrono
di una piccola minoranza, non si sa a quale titolo insediata nella grande città del
deserto113. Peccato che coloro che onorano il nostro personaggio siano i più ‘ro-
mani’, per così dire, tra gli abitanti di Palmira: PAT 286 e 289 sono stati infatti
redatti da personaggi che si definiscono ‘cavalieri’114!
La visione che Seyrig, e quindi dopo di lui, Will e Sartre hanno della storia di
Palmira e delle relazioni della grande città del deserto con i poteri forti di Roma
e Ctesifonte non è l’unica possibile, né, a mio avviso, la più probabile. L’impor-
tante centro demico del deserto, che si era andato costruendo una propria precisa
identità fondata sul commercio a lunga distanza, e che era andato crescendo tra-
mite l’apporto di gruppi etnico-culturali disparati, entrò molto presto nella sfera
di influenza romana nel Vicino Oriente. A seconda delle svariate fluttuazioni
che la politica romana ha avuto in quel settore115, la città di Palmira ha anche
ospitato funzionari romani e perfino truppe romane. La presenza di funzionari
e truppe non deve però portare alla meccanica conclusione dell’inquadramento
di Palmira all’interno della provincia di Siria. Palmira rimase almeno fino al II
secolo avanzato una entità formalmente autonoma, non diversamente dalla Re-
pubblica Federale Tedesca, che, all’indomani della Seconda Guerra mondiale,
occupata dalle truppe degli Alleati, costituì comunque un’entità autonoma dalle
potenze egemoni di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia etc. Allo stesso modo
in cui il ruolo in qualche modo subordinato della Repubblica Federale Tedesca
non ha impedito a quel governo di svolgere una propria incisiva azione nel lungo
confronto con il Patto di Varsavia, così Palmira ha a lungo sostenuto il peso e la
responsabilità del commercio a lunga distanza con l’Oriente, anche nei momenti
di maggiore tensione tra Roma e Ctesifonte.
Che le situazioni in Oriente fossero più complesse e sfumate della secca oppo-
sizione frontale tra le due superpotenze lo dimostra il caso, meglio testimoniato,

112
Ma non da D. Schlumberger, Vorôd l’agoranome, «Syria» 49, 1972, 339-341, che si è mostrato
sempre molto svincolato dalle posizioni, talvolta dogmatiche, di Seyrig.
113
Will, À propos de quelques inscriptions, cit., 114-115.
114
Rispettivamente iJppikov~ (PAT 286) e iJppeu;~ ÔRwmaivwn (PAT 289).
115
T. Gnoli, Dalla hypateia ai phylarchoi. Per una storia istituzionale del limes Arabicus fino a
Giustiniano, in Ravenna da capitale imperiale a capitale esarcale, XVII Congresso Internazionale
di studio sull’Alto Medioevo, Ravenna 6-12 giugno 2004, Spoleto 2005, 495-536.
196 Tommaso Gnoli

di Edessa. Lì la presenza di un esponente della casa regnante chiamato pṣgrybʾ


e sul quale mi sono soffermato altrove116, e di un personaggio definito nwhdrʾ,
altri termini di corte sassanide117, dovrebbero farci riflettere su quanto poco si
conoscano gli effettivi rapporti tra i due grandi imperi nelle regioni di confine, e
dovrebbero sconsigliare di studiare le realtà locali emarginando gli apporti forniti
dal ‘nemico’ persiano.

116
T. Gnoli, Paṣgribā at Ḥatra and Edessa, in A. Panaino, G. Pettinato (eds.), Ideologies ad Inter-
cultural Phenomena. Proceedings of the Third Annual Symposium of the Assyrian and Babylonian
Intellectual Heritage Project Held in Chicago, october 27-31, 2000, MELAMMU Symposia, Mi-
lano 2002, 79-87.
117
I due termini compaiono affiancati in una celebre iscrizione dalla cittadella di Edessa: As 1 se-
condo la numerazione di Healey, Drijvers, The Old Syriac Inscriptions, cit., 45-48. Cfr. ivi anche le
altre occorrenze dell’iranico paṣgribā.
Identità complesse. Uno studio su Palmira 197

ADDENDUM

A ulteriore testimonianza della vivacità degli studi palmireni, tre nuovi articoli parti-
colarmente utili per il discorso che qui si è condotto sono usciti negli ultimissimi tempi,
quando questo contributo era già completato. Michał Gawlikowski, L’apothéose d’Odei-
nat sur une mosaïque récemment découverte à Palmyre, CRAI 2005 [2007], 1293-1303
presenta un mosaico recentemente scoperto dalla spedizione archeologica polacca a Pal-
mira sotto il pavimento di una chiesa. All’interno di un contesto geometrico e simmetri-
co ci sono due riquadri centrali rappresentanti rispettivamente un cavaliere con vestito
palmireno e copricapo ellenistico che uccide con una lancia un’idra, e un arciere palmi-
reno a cavallo che uccide delle tigri. Nel riquadro con l’arciere vi è la scritta in corsivo
palmireno: dydṭs ʿbd // psps dʾhw // wbnhy mr che è tradotta «Diodotos a fait ce sol, lui
et ses fils». A parte il fatto che la traduzione stessa proposta da Gawlikowski è dubbia in
un punto cruciale, l’hapax psps, appare a mio avviso poco convincente la sua proposta di
intendere le due ultime lettere mr come «le reste du mot mrn, ‘Notre Seigneur’, titre porté
à Palmyre par Odeinat et par son fils Hairan/Hérodian». L’interpretazione del mosaico,
come allusivo a un trionfo dei Palmireni sui Persiani, comporterebbe l’identificazione di
questi ultimi con il mostro e con le tigri dei due riquadri. Spiegherò i motivi per cui non
condivido questa interpretazione in un lavoro a parte, dove mi occuperò anche dell’altro
articolo che Gawlikowski ha avuto la cortesia di inviarmi fresco di stampa. In Odeinat
et Hérodien, rois des rois, MUB 60, Mélanges J.-P. Rey-Coquais, 2007, 289-312 egli
propone una rilettura di Inv. III, 3, un’iscrizione che è stata anche al centro di un para-
grafo nella monografia da me appena pubblicata presso l’Accademia delle Scienze di
Vienna. In questo articolo mostrerò perché non recedo dalle divergenti posizioni che lì
ho espresso.
Anche Ted Kaizer ha avuto l’amabilità di inviarmi l’estratto di un articolo appena
uscito di estremo interesse. In “Palmyre, cité grecque”? A question of coinage, «Klio»
89, 2007, 39-60 egli affronta il mio stesso tema da un punto di vista totalmente diverso
e, strano a dirsi, totalmente inedito: la monetazione. In effetti è difficile pensare a docu-
menti più significativi dal punto di vista dell’autoaffermazione identitaria delle immagini
presenti sulle monete. La dispersione del materiale numismatico e la difficoltà di poter
attribuire con sicurezza a Palmira alcune emissioni monetarie hanno reso difficile e pio-
nieristica l’indagine, che però ha prodotto risultati già significativi. L’analisi delle monete
individuate mostra una volta di più la distanza di Palmira dalle altre città greche di Siria:
«from a Graeco-Roman perspective, the unfamiliarity of Palmyra’s coinage stands out», e
mostra anche che il bilinguismo presente nelle iscrizioni lo si ritrova anche sulle monete,
perfino nelle contromarche. Tra le monete contromarcate a Palmira è curioso sottolineare
la presenza di un sesterzio neroniano del 64 raffigurante al rovescio il porto di Ostia, con
198 Tommaso Gnoli

le numerose navi che lo affollano (RIC I2 162, n° 178). Kaizer fa giustamente rilevare la
coincidenza tra il porto di Ostia raffigurato sulla moneta e il termine lmnʾ che si ritrova
sulla Tariffa, traslitterazione del greco limhvn, portus. Io vorrei mettere in evidenza l’ef-
fetto straniante che doveva avere la raffigurazione di navi in mano a gente che, vivendo a
centinaia di chilometri dal mare, in mezzo a una steppa sub-desertica, probabilmente non
aveva mai visto il mare, né avrebbe mai avuto la possibilità di vederlo.
alessandro magno e la repubblica
romana nella riflessione di
giovanni di antiochia
Umberto Roberto
Università di Roma «La Sapienza»

1. La visione cristiana della storia, secondo il modello consolidato dalle Chro-


nographiae di Giulio Africano (composte intorno al 221 d.C.), è articolata in
una sequenza di sincronismi tra la storia degli Ebrei e quella degli altri popoli,
che confluiscono infine nell’evento fondamentale della parousia del Cristo, della
sua predicazione, morte e resurrezione (cfr. Iul. Afr. fr. XXII, [269,22-270,14] e
L Routh). Allo scopo di registrare questi sincronismi in uno sviluppo organico,
che procede sotto la guida della provvidenza divina, la cronachistica cristiana
reimpiega modelli già presenti tanto nella cultura ebraico-orientale, quanto nella
storiografia ellenistico-romana. Lo schema della translatio imperii è uno tra gli
strumenti di interpretazione della storia universale. Si tratta di una teoria di origi-
ni orientali (non giudaico-cristiane), rielaborata poi in Grecia, che spiega la storia
dell’umanità attraverso la successione di imperi universali: nella sua forma cano-
nica quattro più uno, destinato a durare fino alla fine dei tempi. In ambito greco
la sistemazione di questa teoria (in una forma che possiamo già dire tradizionale)
è attestata in età classica in Ctesia di Cnido. Secondo Ctesia la storia è spiegabile
nella successione di dynasteiai: dapprima l’Assiria di Nino e Semiramide, quindi
la Media, poi la Persia. Si tratta, in realtà, di una teoria che proviene da ambienti
culturali asiatici (forse persiani), dal momento che esclude del tutto l’impero dei
Faraoni egizi dalla successione; oppure da una rielaborazione di ambiti culturali
greci1. Nella cultura ellenistico-romana, lo schema della translatio si amplifica:

1
L’idea della translatio imperii non è originale concezione del pensiero storico giudaico-cristiano.
Si tratta, invece, di una visione della storia presente già in Oriente (forse di origine persiana: cfr.
E. Meyer, Ursprung und Anfänge des Christentums, II, Stuttgart-Berlin 1921, 189-199) che passa
successivamente in Grecia: cfr. A. Momigliano, Daniele e la teoria greca della successione degli
imperi, RAL 35, 1980, 157-162 (= Settimo contributo alla storia degli studi classici e del mondo
antico, Roma 1984, 297-304) e Id., The Origins of Universal History, ASNP s. III, 12, 1982, 533-
560 (= Id., Settimo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, cit., 77-103).
Attraverso la Grecia, la teoria giunge a Roma, e appare già attestata in un frammento di Aemilius
Sura, De annis populi Romani, conservato come glossa a Velleio Patercolo I 6, 6. Sura sarebbe da
collocare nel periodo 189-171, dopo la vittoria di Magnesia: cfr. J.W. Swain, The Theory of the
Four Monarchies. Opposition History under the Roman Empire, CPh 35, 1940, 1-21, partic. 3-5 e

Gnoli, Muccioli (eds.), Incontri tra culture, Milano 2007, 199-214


200 Umberto Roberto

vengono inseriti nella sequenza il quarto impero, cioè la Macedonia, a seguito


delle conquiste di Alessandro; e, dopo la vittoria di Pidna (168), Roma, come
quinto e ultimo impero.
Attraverso la storiografia e la cronografia ellenistica, lo schema della transla-
tio giunge infine alla cronachistica cristiana2. Il suo reimpiego in ambito cristiano
si dimostra, tuttavia, piuttosto articolato. In Occidente, prima con Gerolamo poi
con Orosio, la teoria della translatio trova organica sistemazione e diviene una
delle strutture fondamentali della cronachistica latina fino al tardo Rinascimen-
to3. Al contrario, più complessa è la rielaborazione sul versante greco-cristiano. È
possibile che Giulio Africano abbia fatto uso dello schema della translatio nelle
Chronographiae (cfr. fr. XLIX [295,6-15] e X [246,5-8] Routh); ma lo spessore
teorico della riflessione di Africano sfugge, a causa della frammentarietà del-
l’opera. Eusebio, continuatore di Africano, ebbe senza dubbio presente il tema
della translatio imperii, ma, anche in questo caso, la tradizione complessa del
Chronicon non permette di comprendere le linee della sua riflessione. Il proble-
ma è aggravato dal fatto che non ci sono pervenute cronache cristiane greche o
storie universali di IV-V secolo d.C. in versione integrale; e anche i numerosi
frammenti rimasti (ad esempio di Panodoro e Anniano, storici di ambito alessan-
drino; di Andronico, probabilmente di ambito costantinopolitano; o di altri autori
citati come fonti da Giovanni Malala) necessitano ancora di una sistemazione cri-
tica. Dopo Eusebio la prima testimonianza analizzabile del genere cronachistico
in ambito greco-cristiano è la Chronographia di Malala. Scritta nella prima metà
del VI secolo, la Chronographia unisce ad una prospettiva fortemente incentrata
sull’ambito locale di Antiochia, una visione della storia universale che media fra
tradizione ellenistico-romana e tradizione cristiana. Nel suo carattere di storia

11-12. Una datazione più bassa per la diffusione dello schema di translatio a Roma (seconda metà
I sec. a.C.) è proposta da D. Mendels, The Five Empires: a note on a Propagandistic Topos, AJPh
102, 1981, 330-337 (= Id., Identity, Religion and Historiography. Studies in Hellenistic History,
Sheffield 1998, 314-323). Riprendono la questione J.-L. Ferrary, L’«oikoumène», l’Orient et l’Oc-
cident d’Alexandre le Grand à Auguste: histoire et historiographie, in Convegno per Santo Mazza-
rino, Roma, 9-11 maggio 1991, Roma 1998, 97-132, partic. 129-130, e M. Mazza, Roma e i quattro
imperi. Temi della propaganda nella cultura ellenistico-romana, in Omaggio a Dario Sabbatucci,
SMSR 62, 1996, 315-350 (= Id., Il vero e l’immaginato, Roma 1999, 1-42): per entrambi, il dibatti-
to sulla translatio imperii a Roma è da spostare nel clima culturale dell’età di Cesare e di Varrone.
2
Sul ruolo della cronografia ellenistica come mediatrice di schemi e concetti per la storiogra-
fia cristiana, cfr. E. Schwartz, Die Königlisten des Eratosthenes und Kastor mit Excursen über
die Interpolationen bei Africanus und Eusebios, AAWG 40, 2, 1894-1895, 1-96. Più in genera-
le, gli studi di A. Mosshammer, The Chronicle of Eusebius and Greek Chronographic Tradition,
Lewisburg 1979, e W. Adler, Time immemorial: archaic history and its sources in Christian chro-
nography from Julius Africanus to George Syncellus, Washington, DC 1989.
3
Cfr. sul tema: A.D. von den Brincken, Studien zur lateinischen Weltchronistik bis in das Zeitalter
Ottos von Freising, Düsseldorf 1957; W. Goez, Translatio imperii, Tübingen 1958.
Alessandro Magno e la Repubblica romana 201

universale la Chronographia di Malala sembra aver presente lo schema di opere


come la Cronikh; ejpitomhv di Eustazio di Epifania (ancora ambito siriaco, dun-
que), databile alla fine del V secolo e pervenuta solo in frammenti. Dell’opera di
Eustazio sappiamo che era divisa in due parti. La prima parte narrava la storia
dalla creazione alla presa di Troia. La seconda parte, dalla presa di Troia all’as-
sedio di Amida ad opera dei Persiani, durante l’impero di Anastasio (502/503
d.C.). Al di là del carattere simbolico della divisione in due parti (delimitate da
due assedi, che sembrano evocare le origini e la decadenza di Roma), è possibile
dire che tanto Eustazio, quanto poi Malala, non impostassero la loro ricostru-
zione attenendosi rigidamente al solo schema della translatio; al contrario, essi
consideravano, per esempio, come evento fondamentale della storia universale la
presa di Troia: in questo modo intrecciavano al modulo consueto della translatio
imperii una più tradizionale visione ellenocentrica della storia antica4.

4
Su Giovanni Malala oltre a K. Krumbacher, Geschichte der byzantinischen Litteratur, München
1897, 325-334, cfr. H. Hunger, Die hochsprachliche profane Literatur der Byzantiner, I, München
1978, 319-326; e più recentemente E. Jeffreys - B. Croke - R. Scott, Studies in John Malalas,
Sydney 1990, opera articolata in densi saggi, che segue ad una traduzione in lingua inglese della
Chronographia: cfr. E. Jeffreys - M. Jeffreys - R. Scott (eds.), The Chronicle of John Malalas, Mel-
bourne 1986; cfr. pure l’introduzione a Ioannis Malalae Chronographia, rec. I. Thurn, Berlin-New
York 2000, 1*-4*. Sull’importanza della Chronographia come modello storiografico cfr. già E.
Patzig, Die Hypothesis in Dindorfs Ausgabe der Odysseescholien, ByzZ 2, 1893, 413-440, partic.
436-437: lo studioso descrive lo sviluppo di una nuova tendenza storiografica, parallela all’indi-
rizzo classicheggiante, che parte da Giovanni Malala, passa attraverso Pietro Patrizio, e trova suoi
importanti rappresentanti in Giovanni Antiocheno e nel Chronicon Paschale. Sulla questione cfr.
più recentemente B. Croke, Byzantine Chronicle Writing. 1: The Early Development of Byzantine
Chronicles, in Jeffreys - Croke - Scott (eds.), Studies in John Malalas, cit., 27-54, partic. 32-36, che
considera Malala importante in quanto punto di arrivo (a noi noto) di una rielaborazione del mo-
dello eusebiano in ambito greco (cioè dell’ellenismo tardoantico) condotta per oltre due secoli; cfr.
pure M. Whitby, Greek Historical Writing after Procopius: Variety and Vitality, in Av. Cameron
- L.I. Conrad (eds.), The Byzantine and Early Islamic Near East, I, Princeton 1992, 25-80, partic.
59-62. Malala diviene modello di riferimento per molte cronache tra fine VI e VII secolo: Giovanni
di Efeso, Giovanni di Nikiu, Giovanni di Antiochia e il Chronicon Paschale: E.M. Jeffreys, The
Transmission of Malalas’ Chronicle, in Jeffreys - Croke - Scott (eds.), Studies in John Malalas, cit.,
245-268, partic. 252. Per i frammenti di Eustazio di Epifania cfr. L. Dindorf, Historici Graeci Mi-
nores, I, Leipzig 1870, 353-363. In generale su Eustazio si vd. oltre a Croke, Byzantine Chronicle
Writing, cit., 33-35, il lavoro di D. Brodka, Eustathios von Epiphaneia und das Ende des weströ-
mischen Reiches, JÖByz 56, 2006, 59-78. Eustazio epitomò nella sua opera molti autori antichi e
per questo venne sovente utilizzato dagli storici successivi. Ad es., per l’impiego della tradizione
di Flavio Giuseppe cfr. P. Allen, An Early Epitomator of Josephus: Eustathius of Epiphaneia,
ByzZ 81, 1988, 1-11; e per il suo ruolo di intermediario della tradizione di Prisco di Panio cfr. R.C.
Blockley, The Fragmentary Classicising Historians of the Later Roman Empire, I, Liverpool 1981,
114-117. La conoscenza del testo di Eustazio proseguì a lungo nella cultura bizantina: P. Maas,
Eine Handschrift der Weltgeschichte des Eustathios von Epiphaneia, ByzZ 38, 1938, 350, rileva
che nel catalogo della biblioteca del monastero di Patmos (settembre 1200) era ancora ricordata la
presenza di un manoscritto con brani tratti dalla Cronikh; ejpitomhv.
202 Umberto Roberto

Dunque, a giudicare da quanto ci è pervenuto, rispetto ad una rigidità della


struttura e della narrazione tipica per l’Occidente, le cronache di versante greco
in età tardoantica presentano uno schema aperto, in cui diverse linee di interpre-
tazione della storia confluiscono e si intrecciano. Si tratta di un fenomeno che
caratterizza la storiografia tardogreca fino ai primi decenni del VII secolo. In età
bizantina, anche se permane una certa elasticità (si vd., ad es., la tradizione dello
Ps. Simeone-Cedreno o di Giovanni Zonara), è possibile notare una generale ten-
denza all’uniformità tanto nell’impostazione della struttura narrativa e dei temi
selezionati, quanto nella scelta delle fonti; e questo fenomeno riguarda soprattut-
to le sezioni relative alla storia antica (esclusione dalla narrazione della guerra di
Troia e di ogni riferimento alla storia greca ed ellenistica); e alla storia romana
(esclusione quasi totale dei secoli della repubblica; riduzione a pochi aneddoti per
la storia degli imperatori da Cesare a Costantino)5.

2. Lo schema ‘aperto’ e la complessità della tradizione cronachistica cristiana


di V-VI secolo si ripresentano nella ÔIstoriva cronikhv di Giovanni di Antiochia.
L’opera venne realizzata a Costantinopoli nei primi anni del regno di Eraclio (tra
la fine del 610 e gli anni ’20 del VII secolo). Si tratta di una storia universale, da
Adamo al trionfo di Eraclio su Foca, scritta da uno storico di solida paideia, ap-
partenente ad un ambito laico, attivo forse nei ranghi della burocrazia imperiale,
o al servizio di qualche importante esponente dell’aristocrazia costantinopolita-
na. Purtroppo la ÔIstoriva cronikhv non ci è giunta in versione integrale. Esistono
alcune centinaia di frammenti, raccolti in almeno nove tradizioni indirette. La più
importante è quella degli Excerpta Constantiniana (oltre 180 frammenti) realiz-
zati copiando da un manoscritto dell’opera presente a Costantinopoli alla metà
del X secolo6.
5
Sull’evoluzione della cronachistica bizantina, soprattutto a partire dal IX secolo, cfr. in generale
H.G. Beck, Zur byzantinischen ‘Mönchschronik’, in Speculum Historiale. Geschichte im Spiegel
von Geschichtsschreibung und Geschichtsdeutung, München 1965, 188-197; Hunger, Hochspra-
chliche Profane Literatur, I, cit., 257-278; R. Scott, Byzantine Chronicle Writing. 2: The Byzantine
Chronicle after Malalas, in Jeffreys - Croke - Scott (eds.), Studies in John Malalas, cit., 38-54; E.V.
Maltese, La storiografia, in Lo spazio letterario della Grecia antica, II, La ricezione e l’attualizza-
zione del testo, Roma 1995, 355-388, partic. 377-378 e Id., Tra lettori e letture. L’utile e il dilette-
vole, «Humanitas» 58, 2003, 140-164, partic. 143-147. Sulla paideia degli scrittori di cronache, non
diversa generalmente da quella degli storici ‘classicheggianti’ cfr. R. Maisano, Il problema della
forma letteraria nei proemi storiografici bizantini, ByzZ 78, 1985, 329-343, partic. 341-342.
6
Per il testo dei frammenti della ÔIstoriva cronikhv rimando all’edizione critica da me curata Ioan-
nis Antiocheni Fragmenta ex Historia chronica, a cura di Umberto Roberto, Berlin-New York
2005, che aggiorna il testo pubblicato da C. Müller in Fragmenta Historicorum Graecorum, IV,
Parisiis 1851, 535-622 e FHG, V, Parisiis 1870, 27-39. Nei prolegomena alla mia edizione ven-
gono presentati i diversi problemi relativi alle tradizioni del testo e alle fonti di Giovanni. Utile al
riguardo anche P. Sotiroudis, Untersuchungen zum Geschichtswerk des Johannes von Antiocheia,
Thessaloniki 1989.
Alessandro Magno e la Repubblica romana 203

Nella parte iniziale, Giovanni segue come modello la Chronographia di Ma-


lala. L’opera si apre con la creazione di Adamo (come in Giulio Africano, ma
diversamente da Eusebio, che inizia con Abramo); prosegue attraverso due li-
bri di Archaeologia, intrecciando alla storia del popolo ebraico, parafrasata dalla
Bibbia e da un’altra cronaca, una descrizione di tenore evemeristico dei miti greci
e orientali (tratta per lo più da Malala). Queste due linee di ricostruzione della
storia convergono nell’evento centrale della storia del Mediterraneo: la guerra di
Troia, il primo grande confronto tra Greci e barbari. È significativo a tal riguardo
notare un primo importante (pseudo-)sincronismo presente nella ÔIstoriva cro-
nikhv. Giovanni, infatti, ricorda che tra le lettere inviate da Priamo ai re stranieri,
per chiedere soccorso contro i Greci, vi fu pure un messaggio rivolto a Davide,
re di Israele (cfr. fr. 42). Questa breve notizia amplifica l’importanza della guerra
troiana come fatto storico. Nel solco della tradizione, infatti, la portata epocale
della guerra di Troia è, da una parte, nel suo significato simbolico di confronto tra
Greci e barbari – tutti i barbari, nella prospettiva ellenocentrica giovannea, da Da-
vide che rifiuta l’alleanza con Priamo, agli Indiani che invece accettano di inviare
un forte contigente a Troia; dall’altra, attraverso la fuga di Enea e il trasferimento
del Palladio in Italia, ad opera di Diomede, la caduta di Troia è nella struttura
della ÔIstoriva cronikhv l’evento che prepara la fondazione di Roma7.
Attraverso una fortunata scoperta della fine del XIX secolo, siamo venuti a co-
noscenza di un lungo excerptum della ÔIstoriva cronikhv nel Codex Athous 4932
= Iviron 812. In alcuni fogli del manoscritto, di XIV secolo, sono conservati: a)
un frammento di storia ellenistica, contenente notizie anche sulla dinastia di Per-
gamo; b) un lungo frammento indicato nel codice come lovgo" dV tw'n uJpavtwn,
sulle vicende a partire dal disastro di Arausio (105 a.C.) fino alla morte di Silla;
c) l’inizio di un lovgo" eV tw`n uJpavtwn, che si interrompe durante il racconto della
guerra contro Sertorio.
Nella ricostruzione della struttura della ÔIstoriva cronikhv il testo del codice
atonita restituisce importanti dati:
a) in primo luogo, a differenza della tradizione cronachistica cristiana (soprat-
tutto del suo modello di riferimento, Malala), Giovanni di Antiochia mostra gran-
de interesse per la storia repubblicana romana, dal momento che tratta la materia
in almeno cinque lovgoi tw'n uJpavtwn, di notevole estensione, a giudicare dal
lovgo" dV e dai frammenti dagli altri lovgoi.
b) La parte finale del lovgo" gV tratta di storia ellenistica e rimanda ad altre
parti dell’opera (perdute) per un’esposizione della successione dinastica presso

7
Il sincronismo tra il regno di Davide e la guerra di Troia rappresenta un carattere originale del-
l’opera di Giovanni, dal momento che tale sincronismo non mi sembra appartenere alla tradizione
della cronaca cristiana.
204 Umberto Roberto

gli Attalidi. È molto importante notare che la stessa struttura si ripete alla fine
del lovgo" dV. Infatti, dopo aver trattato a lungo delle guerre tra Mario e Silla, e
del conflitto contro Mitridate, Giovanni aggiunge brevi notizie sulle monarchie
ellenistiche.
In conclusione, il codice atonita attesta una struttura ‘bipartita’ dell’esposi-
zione di Giovanni nei libri III-IV dei consoli. Dopo una estesa trattazione della
storia romana, in prospettiva chiaramente ‘occidentale’, segue una serie di notizie
sugli Stati ellenistici e sull’Oriente. È lecito pensare che una tale sumplokhv tra
eventi di Occidente e di Oriente caratterizzasse anche gli altri lovgoi tw'n uJpavtwn.
Ed infatti, a considerare le altre tradizioni a noi pervenute, si nota che tanto gli
autorevoli Excerpta Constantiniana, quanto gli Excerpta Planudea, riportano i
frammenti relativi a questa epoca alternando una serie di brani di storia romana
a gruppi di frammenti di storia ellenistica. Si tratta evidentemente della stessa
struttura ‘bipartita’ presente nei libri III-IV dei consoli.
È interessante notare che questa stessa struttura ‘bipartita’ caratterizza anche la
sezione dei frammenti relativi al periodo dalla fondazione di Roma alla istituzio-
ne del regime repubblicano. Poiché, da una parte, possediamo numerosi excerpta
dedicati alla guerra di Troia e ai nóstoi; e, dall’altra, abbiamo la sicurezza che la
storia repubblicana era articolata in lovgoi tw'n uJpavtwn, è possibile ipotizzare
che, sul modello di Eutropio (il cui Breviarium è da Giovanni utilizzato come
cornice cronologica e narrativa per la storia romana) e della Chronographia di
Malala, pure nella ÔIstoriva cronikhv vi fosse un libro dedicato alla fondazione
di Roma e alla monarchia, fino all’istituzione della repubblica. In effetti, esiste
un cospicuo gruppo di frammenti relativi alla monarchia romana. È pure impor-
tante sottolineare che, tanto nell’ordine degli Excerpta Constantiniana, quanto in
quello degli Excerpta Salmasiana (tratti da un’epitome della ÔIstoriva cronikhv
realizzata tra VII e XII secolo), a questi frammenti di storia romana arcaica se-
guono frammenti sulla monarchia persiana, sull’ascesa della Macedonia a po-
tenza, e sulla fondazione dell’impero universale ad opera di Alessandro Magno.
Dunque, tutte le tradizioni a noi note inducono alla stessa conclusione: Giovanni
di Antiochia dedicò un libro della ÔIstoriva cronikhv alla fondazione di Roma; in
questo libro si ripropone la struttura ‘bipartita’ presente nei libri di storia repub-
blicana: dai frammenti è chiaro che alla narrazione di storia romana da Romolo
fino alla istituzione della repubblica segue il racconto delle gesta di Filippo e di
Alessandro Magno.
Si tratta di un insolito ‘sincronismo’ narrativo tra le origini di Roma (fino alla
cacciata dei Tarquini) e Alessandro, che non è presente in Giulio Africano, non si
trova in Eusebio, non è in Malala. È una costruzione originale di Giovanni Antio-
cheno; e, infatti, si ripresenta nelle tradizioni di epoca bizantina che alla ÔIstoriva
cronikhv attingono come fonte: il cosiddetto Ps. Simeone, anonimo autore della
Alessandro Magno e la Repubblica romana 205

cronaca contenuta nel Parisinus gr. 1712, di X secolo; e Giorgio Cedreno, di XII
secolo8.
Al riguardo, subito un’osservazione di carattere generale. Alla radice del sug-
gestivo sincronismo c’è una precisa interpretazione storica. È chiaro che il sin-
cronismo non è cronologico, ma politico e culturale: non si tratta di un grossolano
errore, poiché Giovanni, autore di una ÔIstoriva cronikhv, conosceva bene la di-
stanza temporale tra le origini di Roma e le gesta di Alessandro Magno. Piutto-
sto, l’accostamento tra questi eventi, storia di Roma da Romolo all’inizio della
repubblica/conquiste di Alessandro Magno, è condotto con piena coscienza del
suo grande significato simbolico.
In primo luogo, sul versante politico. L’interpretazione della storia universale
in Giovanni è fondata sopra una visione politica e, dunque, concretamente laica.
Secondo una prospettiva che evoca la conoscenza della tradizione polibiana, esi-
ste nel giudizio di Giovanni una relazione diretta tra la costituzione politica (cioè
la politeiva) e la potenza di uno Stato. E come già in Polibio, anche in Giovanni
la vicenda di Roma repubblicana (considerata tanto sul piano interno, quanto su
quello dei rapporti internazionali) costituisce il terreno per un’analisi approfondi-
ta di questa dinamica. Ne consegue l’interesse per la vita politica e le istituzioni di
Roma repubblicana, soprattutto per il rapporto tra senato e magistrature; oppure,
per la rappresentazione, nel solco di una tradizione encomiastica, delle capacità e
delle virtù degli uomini scelti per il governo dell’Urbe. Ne consegue ancora che,
a differenza dei suoi predecessori (e della gran parte dei suoi successori di epoca
bizantina), la repubblica romana appare a Giovanni di Antiochia una stagione
fondamentale della storia antica, un modello di perfetta organizzazione politica
e militare degno di essere celebrato nella ricostruzione della storia universale. Si
tratta di un consapevole ed originale allontanamento da parte di Giovanni dallo
schema consolidato della translatio imperii in quanto successione di monarchie:
un sistema repubblicano si impone come quinto impero, dopo la sconfitta della
Macedonia a Pidna; e la svolta monarchica, come vedremo, rappresenta solo una
posteriore degenerazione di un modello politico ottimo9.

8
Sullo Ps. Simeone, oltre a H. Gelzer, Sextus Iulius Africanus, II, Leipzig 1885, 357-384, cfr.
A. Markopoulos, ÔH Cronografiva tou' Yeudosumevwn kai; oiJ phgev" th", Diss. Ioannina 1978 e
Sotiroudis, Untersuchungen, cit., 15-19. Una delle ricerche da intraprendere per migliorare la co-
noscenza della ÔIstoriva cronikhv è lo studio dei rapporti tra la tradizione di Ps. Simeone-Cedreno
e Giovanni.
9
L’interesse di Giovanni per la repubblica romana (che si esprime nei cinque lovgoi tw'n uJpavtwn) è
un carattere fortemente originale della ÔIstoriva cronikhv rispetto alle altre opere del genere crona-
chistico, da Malala a molti autori di cronache bizantine. E tuttavia, anche sul solco della ÔIstoriva
cronikhv (e, soprattutto, dell’interesse a tradizioni storiografiche come quella di Cassio Dione)
esistono altre ‘storie universali’ che riservano alla repubblica romana un’analoga considerazione.
Si vedano, in particolare, Giovanni Zonara nel XII secolo (sul quale cfr. in generale B. Bleckmann,
206 Umberto Roberto

Considerando dunque l’ammirazione di Giovanni per il regime repubblicano,


fondato sull’accordo tra magistrature e senato, è possibile proporre un’interpreta-
zione politica del sincronismo repubblica/Alessandro Magno. Infatti, la repubbli-
ca romana e la monarchia di Alessandro sono presentati come due contrapposti
modelli di governo, come due diversi modi di gestire i rapporti tra a[rconte" e
ajrcovmenoi. Nella rappresentazione di Giovanni, durante i secoli dalla cacciata
dei Tarquini a Cesare, tutta la storia del Mediterraneo si svolge nella dialettica
tra il modello della monarciva orientale che Alessandro eredita dalla Persia (e, in
definitiva, dall’assiro Nino; cfr. fr. 76.1); e una nuova forma politica, la ejleuqe-
riva della repubblica romana, basata sulla divisione dei poteri tra i consoli e il
senato. Queste due diverse concezioni di governo inizialmente convivono, ed en-
trano poi in conflitto nella lotta per l’egemonia mondiale. Questa dialettica viene
rispecchiata, anche a livello di struttura narrativa, dalla bipartizione dei libri di
storia romana fino all’inizio del regime imperiale. E non v’è dubbio che Giovan-
ni, lettore di Dionigi di Alicarnasso e della tradizione polibiana e liviana, intenda
costantemente sottolineare la superiorità del modello repubblicano romano ri-
spetto all’ordinamento monarchico ellenistico. La sua rappresentazione storica,
del resto, conferma questa visione: i principi ellenistici, Perseo, Tigrane, Mitrida-
te, Tolomeo XIII sono vinti dai magistrati della repubblica. Il turbine disastroso
delle guerre civili, a partire dall’epoca di Mario e Silla, e la comparsa di uomini
malvagi e deleteri per la ejleuqeriva dei Romani producono progressivamente
una trasformazione del regime repubblicano e la sua degenerazione in tirannide.
Infatti, a causa dell’arroganza e della sete di potere di Cesare e di Augusto il mo-
dello della ejleuqeriva repubblicana viene distrutto, e anche a Roma subentra una
monarciva di stampo orientale. La sintesi augustea, appunto il mutamento defini-
tivo di regime politico, è da Giovanni giudicato con grande negatività. Di nuovo
si coglie un atteggiamento storiografico che allontana la ÔIstoriva cronikhv dagli
schemi tradizionali della cronachistica cristiana, tanto di versante latino, quanto
di versante greco. Questo vale, ad esempio, per il giudizio intorno ad Augusto.
La fondazione dell’impero rappresenta per Giovanni l’apice della crisi politica
dello Stato romano. Anche a motivo della condanna del carattere e dei costumi
del personaggio, non c’è alcuna traccia, nei frammenti superstiti, di qualsiasi for-

Die Reichskrise des III. Jahrhunderts in der spätantiken und byzantinischen Geschichtsschreibung,
München 1992); e, in una prospettiva più semplificata, Giorgio Sincello (che tuttavia pare attingere
alla perduta Cronikh; iJstoriva di Dexippo). Sull’importanza della storia repubblicana romana in
Giovanni si vd. U. Roberto, L’immagine di Roma repubblicana nella ÔIstoriva cronikhv di Giovan-
ni Antiocheno, in I. Mazzini (a cura di), La cultura dell’età romanobarbarica nella ricerca scien-
tifica degli ultimi 20 anni. Bilancio e Prospettive, «Romanobarbarica» 18, 2002-2004, 351-370.
Considerazioni generali sull’assenza della storia repubblicana romana nelle cronache tardoantiche
(di versante greco) e bizantine in E.M. Jeffreys, The Attitudes of Byzantine Chroniclers Towards
Ancient History, «Byzantion» 49, 1979, 199-238.
Alessandro Magno e la Repubblica romana 207

ma di Augustustheologie; nessuna esaltazione della fondazione dell’impero come


momento propizio e provvidenzialmente stabilito per la parousia di Cristo10. Al
contrario, tutta la storia dell’impero, da Giulio Cesare a Foca, è descritta prenden-
do a misura di valutazione la capacità dei diversi principi di far rivivere lo spirito
della libertà repubblicana. Sulla linea della tradizione storiografica senatoria, in-
fatti, è il rispetto per la libertà del senato e del populus che determina in Giovanni
la distinzione tra imperatori ottimi e despoti11.
Questa prima interpretazione del sincronismo tra l’istituzione della repubbli-
ca romana e Alessandro rimanda dunque alla riflessione sulla natura del potere
presente in tutta la ÔIstoriva cronikhv. Attraverso questo accostamento, Giovanni
presenta i due più potenti modelli politici prodotti dalla cultura ellenistico-roma-
na: da una parte, appunto, la versione occidentalizzata della monarchia di stampo
orientale, introdotta da Alessandro e proseguita nei regni ellenistici; dall’altra, il
regime repubblicano romano, fondato sull’accordo tra senato, popolo e magistra-
ture, e garante della ejleuqeriva degli ajrcovmenoi. All’interno di una rappresenta-
zione di storia universale la contrapposizione tra i due modelli, in chiave politica
e militare, assume un chiaro significato. Giovanni intende mostrare che, nella

10
Sulla mancanza di ogni forma di Augustustheologie in Giovanni Antiocheno si vd. fr. 152 e
frr. 155-157. Sul problema, in generale: E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem,
Leipzig 1935; I. Opelt, Augustustheologie und Augustustypologie, JAC 4, 1961, 44-57. Sull’impor-
tanza del sincronismo Augusto-Cristo nell’opera di Orosio, modello per la successiva cronachistica
occidentale, cfr. F. Paschoud, Roma aeterna, Roma 1967, 280-284, e H.W. Goetz, Die Geschicht-
stheologie des Orosius, Darmstadt 1980.
11
La visione del regime repubblicano come modello politico per rinnovare la basileiva romana si
richiama ad una riflessione di chiaro valore politico sulla storia romana che è già evidente in età
giustinianea. Giovanni Antiocheno è in sintonia con il dibattito di VI secolo intorno a Roma repub-
blicana: si avverte nella sua opera un richiamo al motivo tardoantico della Reverentia antiquitatis
con gli stessi accenti che caratterizzano il pensiero dell’età di Giustiniano. Cfr., ad es., la riflessione
intorno all’uso del passato di Roma repubblicana in alcune Novellae giustinianee, dove il richiamo
all’antichità diviene strumento di legittimazione del programma imperiale di riforme: M. Maas,
Roman History and Christian Ideology in Justinianic Reform Legislation, DOP 40, 1986, 17-31, e
M. Mazza, L’uso del passato: temi della politica in età giustinianea, in E. Acquaro (a cura di), Alle
soglie della classicità. Il Mediterraneo tra tradizione e innovazione, Studi in onore di S. Moscati, I,
Pisa-Roma 1996, 307-329. Di grande importanza è negli stessi anni la riflessione politica e cultura-
le, che parte da spunti antiquari, di Giovanni Lido: cfr. M. Maas, John Lydus and the Roman Past,
London 1991. E i segni di tale riflessione si colgono anche nell’anonimo dialogo Peri; politikh'"
ejpisthvmh" (Menae patricii cum Thoma referendario De scientia politica dialogus, quae exstant in
codice Vaticano palimpsesto, ed. C.M. Mazzucchi, Milano 1982), sul quale cfr. C. M. Mazzucchi,
Per una rilettura del palinsesto vaticano contenente il dialogo ‘sulla scienza politica’ del tempo
di Giustiniano, in G.G. Archi (a cura di), L’imperatore Giustiniano. Storia e mito, Milano 1978,
237-247; G. Fiaccadori, Intorno all’anonimo vaticano Peri; politikh'" ejpisthvmh", PP 34, 1979,
127-147; e, più in generale, M. Mazza, Eternità ed universalità dell’impero romano da Costantino
a Giustiniano [1983], poi in Id., Le maschere del potere. Cultura e politica nella tarda antichità,
Napoli 1986, 211-254.
208 Umberto Roberto

successione di egemonie, l’erede della potenza di Alessandro non è l’impero ro-


mano; è piuttosto la repubblica romana con il suo complesso sistema di bilancia-
mento dei poteri che assicura il supremo valore della libertà dei sudditi. Del resto,
la storia ha mostrato la superiorità della politeiva di Roma repubblicana rispetto
alle monarchie ellenistiche. La malvagità di uomini come Cesare e Augusto ha
prodotto la fine della libertà repubblicana e, attraverso l’abuso di una magistra-
tura d’emergenza come la dittatura (pericolosa perché dotata di un potere iJso-
tuvranno"), Roma è ritornata alla monarchia. Insieme ai lutti e alle sofferenze, è
questa, secondo Giovanni, la conseguenza più disastrosa delle guerre civili: meta;
de; th;n tou' Kravssou sumfora;n oJ politiko;" diedevxato povlemo", ejpavratov"
te kai; pollw'n dakruvwn gegonw;" ai[tio", o{ti dh; pro;" tai'" a[llai" tai'" kat∆
aujto;n sumbebhkuivai" sumforai'" kai; hJ tuvch tou' dhvmou tou' ÔRwmaivwn ejk tou'
hJgemonikou' metevsth pro;" to; uJphvkoon12.
La visione pessimistica della storia da parte di Giovanni di Antiochia trova in
questa transizione politica dell’età di Cesare e Augusto una delle sue più sugge-
stive e profonde spiegazioni. La basileiva romana è vista come istituzione co-
stantemente in bilico tra i due modelli del passato: il dispotismo della monarciva
orientale e la tutela della libertà degli ajrcovmenoi attraverso l’accordo tra basi-
leuv~, senato e magistrati. Uno dei parametri costanti che Giovanni utilizza per
giudicare il governo dei diversi imperatori è appunto la loro sintonia con i valori
politici dell’epoca repubblicana13.

3. Esiste, tuttavia, anche un altro parametro di giudizio che torna costantemen-


te nella riflessione di Giovanni sugli imperatori da Cesare a Foca: optimus impe-
rator è colui che per esperienza e coraggio è in grado di comandare gli eserciti e
difendere in guerra l’impero dalla minaccia barbarica. Si tratta di una visione che
12
Cfr. Io. Ant. fr. 150.1, 2-6: «E dopo il disastro di Crasso seguì la guerra civile, esecrabile e causa
di molte lacrime, perché, oltre alle altre sciagure che vi avvennero, perfino la sorte del popolo ro-
mano passò dalla situazione di dominio alla condizione di sudditanza». La difesa di un modello di
basileia temperata, che passa pure attraverso l’esaltazione del senato e delle magistrature, ricollega
la visione di Giovanni di Antiochia al contemporaneo dibattito sul ruolo del senato nel nuovo regi-
me del basileus Eraclio. Il senato aveva partecipato alla rivolta contro Foca favorendo l’ascesa di
Eraclio; e tuttavia, rispetto alle attese di rinnovamento, proposte anche attraverso l’opera di Gio-
vanni di Antiochia, il nuovo imperatore agì aumentando le sue prerogative e l’esclusività del suo
potere: cfr. recentemente J. Haldon, The Reign of Heraclius. A context for Change?, in G.J. Reinink
- B. Stolte (eds.), The Reign of Heraclius (610-641). Crisis and Confrontation, Leuven-Paris-Du-
dley, Ma 2002, 1-16; per un’aggiornata rassegna critica degli studi sul periodo cfr. pure W. Bran-
des, Heraclius between Restoration and Reform, ibid., 17-40; più in generale sulle trasformazioni
dell’immagine del basileus nell’età tra Giustiniano ed Eraclio: Av. Cameron, Images of Authority:
Elites and Icons in Late Sixth-Century Byzantium, P&P 84, 1979, 3-35.
13
Sul pessimismo giovanneo intorno alla storia romana, soprattutto in riferimento alla svolta mo-
narchica di Cesare e Augusto, cfr. U. Roberto, Giovanni Antiocheno e un’interpretazione etrusca
della storia, «Salesianum» 67, 2005, 319-345.
Alessandro Magno e la Repubblica romana 209

di nuovo allontana la ricostruzione giovannea dallo schema della translatio im-


perii. Roma repubblicana, infatti, è rappresentata come costantemente sottoposta
all’aggressione dei barbari; ma l’instaurazione del regime imperiale non equivale
al consolidamento dell’egemonia sul mondo mediterraneo; al contrario, in una
prospettiva di storia universale, come successione di egemonie, le conseguenze
della perdita della libertà interna si riflettono sulla potenza complessiva di Roma.
Nel pensiero di Giovanni, Augusto non è il fondatore di una pace duratura e sta-
bile nel mondo mediterraneo14.
Questo pessimismo, che dalla vita politica interna di Roma si allarga alla sua
posizione internazionale, consente a mio parere di proporre un’ulteriore interpre-
tazione del sincronismo tra la fondazione della repubblica romana e le imprese
di Alessandro. Dicevo come, anche in questo caso, Giovanni si contrappone allo
schema della translatio imperii e ad una interpretazione provvidenzialistica del-
l’impero romano. Non solo Augusto ha definitivamente tolto la libertà ai Romani;
al momento della sua ascesa Roma non vive in pace, perché molte sono le popo-
lazioni barbariche che turbano la vita delle province di confine; e, soprattutto, la
monarchia partica si rafforza nel suo ruolo di pericoloso antagonista. Da un punto
di vista storiografico (come abbiamo visto) è molto significativo il sincronismo
che nel fr. 150.1, 2-3 descrive la rovina dello Stato romano, poiché gli eventi che
portano alla distruzione della eleutheria repubblicana seguono in diretta connes-
sione al disastro di Crasso a Carrhae: meta; de; th;n tou' Kravssou sumfora;n oJ
politiko;" diedevxato povlemo". Finché Roma ha conservato le sue istituzioni
repubblicane, la sua potenza mondiale si è dimostrata solida e pressoché invin-
cibile; ma con la perdita della libertà, a causa di Cesare e di Augusto, si è inde-
bolita anche la sua posizione nei confronti dei barbari; soprattutto nei confronti
dei Parti. Nella successione delle dynasteiai mondiali, la repubblica romana è il
vero erede di Alessandro: con l’impero di Cesare ed Augusto la potenza romana
si indebolisce, e la degenerazione, oltre a colpire la libertà dei cittadini all’interno
della polis, colpisce anche la loro sicurezza nei rapporti con i barbari15.
14
Una visione che si contrappone al sincronismo tra pace augustea e nascita di Cristo, probabilmen-
te presente in Africano (cfr. fr. X [246,5-8] Routh) e chiaramente affermato già da Ippolito (Comm.
ad Dan. IV 9, 2: ejpi; Aujgouvstou Kaivsaro" gegevnnhtai oJ Kuvrio", ajf∆ ou|per h[kmasen to; tw'n
ÔRwmaivwn basileivon).
15
I frammenti giovannei relativi alla Persia non sono numerosi, purtroppo; ma è evidente la con-
sapevolezza della potenza del regno partico-persiano: oltre ai brani già citati, cfr. pure fr. 4, 33-36,
sulle leggi matrimoniali persiane; fr. 5, su Zoroastro; fr. 8, che ricorda le conquiste di Sesostri e
l’insediamento di 50.000 Sciti (chiamati Parthoi in persiano) nella terra degli Assiri; fr. 13.2 e 3, sul
mito di Perseo e le origini dei Persiani; fr. 51, un frammento di una lista di re achemenidi; fr. 74-75
e 76.1, dove si descrive la deriva dispotica di Alessandro Magno che adotta i costumi persiani; fr.
144, 1-8, sulla potenza dei Parti arsacidi; fr. 159.3, sulla pace tra Tiberio e i Parti; fr. 225, sulla cam-
pagna orientale di Gordiano III; fr. 273, 1 e 2, su Gioviano. Per quanto riguarda lo stravolgimento
dell’idea di translatio imperii, e il rifiuto della tesi di una generale pace nel mondo antico come
210 Umberto Roberto

Sfortunatamente non possediamo la struttura dei libri relativi all’impero. E


tuttavia, è possibile dedurre dai frammenti a noi pervenuti che l’attenzione alla
storia dei Parti prima, dei Sassanidi poi, rappresenti uno dei temi costanti del-
la ricostruzione storica dell’Antiocheno. Si tratta di un interesse che è possibile
verificare in tutta la ÔIstoriva cronikhv: dall’età mitica di Perseo fino alla Tarda
antichità. E soprattutto nei frammenti relativi all’età più tarda, IV-VI secolo, il
mondo persiano appare come potenza complementare all’impero di Roma. Così,
ad es., nel fr. 318, 14-15 Giovanni ricorda i rapporti stretti tra le famiglie regnanti
quando, di fronte alla minaccia di Foca, l’imperatore Maurizio e i suoi figli deci-
sero di fuggire in Persia da Cosroe (secondo una formula di mutuo sostegno tra
dinastie regnanti che ritorna anche in altri momenti della storia tardoromana: cfr.
ad es. Procop. BP I 2, 1-10). E interessanti notizie sulla storia interna dei Sassa-
nidi sono nel fr. 266 che, forse come digressione al resoconto della campagna di
Giuliano, riporta la vicenda del principe Ormisda, esule dalla Persia alla corte di
Licinio e poi di Costantino. E ancora: in un lungo frammento sull’età di Zenone,
la narrazione della guerra tra l’imperatore e l’usurpatore Illo è spezzata dal ricor-
do di un analogo evento in Persia, relativo alla morte di Perozes e alle vicissitu-
dini di Kavadh (fr. 306, 70-78). È lecito pensare che Giovanni abbia introdotto
anche altrove notizie di storia persiana interrompendo il filo della narrazione su
Roma: nella ÔIstoriva cronikhv è infatti chiara la consapevolezza del rango di
potenza imperiale della Persia, della sua struttura complessa e di una simmetria
con lo Stato romano riguardo all’organizzazione politica e militare16.

conseguenza dell’egemonia della Roma augustea, è possibile chiedersi se nella rappresentazione di


Giovanni giochi un ruolo anche la conoscenza della tradizione di Pompeo Trogo, e delle tradizioni
storiografiche che nelle Historiae Philippicae confluiscono, soprattutto in riferimento ai Parti come
antagonisti di Roma al di là dell’Eufrate (cfr., ad es., il celebre giudizio di Trogo in Iustin. XLI 1,
1 e 7: Parthi, penes quos velut divisiones orbis cum Romanis facta nunc Orientis imperium est,
Scytharum exules fuere. … A Romanis quoque trinis bellis per maximos duces florentissimis tem-
poribus lacessiti soli ex omnibus gentibus non pares solum, verum etiam victores fuere. In generale
sulla visione storica di Trogo e la sua rappresentazione del potere partico: S. Mazzarino, Il pensiero
storico classico, II, Roma-Bari 19902, 470-492; Momigliano, The Origins of Universal History,
cit., 90-92; sulle sue fonti di storia della Persia e dei Parti: Th. Liebmann-Frankfort, L’histoire des
Parthes dans le livre XLI de Trogue Pompée: essai d’identification de ses sources, «Latomus» 28,
1969, 894-922.
16
Si tratta di una visione della monarchia dei Sassanidi come aemuli imperii che è presente anche
in altre fonti del periodo tardoantico: cfr. ad es. Ammiano Marcellino XVII 5 e XXIII 6 (sul quale
vd. i saggi in J.W. Drijvers - D. Hunt [eds.], The Late Roman World and its Historian, London-New
York 1999, 193-223); Pan. Lat. II (XII) 22, 4-5 (per l’imperatore Teodosio nell’estate 389); Pietro
Patrizio fr. 13 Müller con la suggestiva immagine: wJsperanei; duvo lampth're" eijs in h{ te ÔRw-
maikh; kai; Persikh; basileiva, poi ripresa da Teofilatto Simocatta IV 11, 2. In generale sul tema
nelle fonti tarde cfr. i saggi presenti nei due convegni tenuti all’Accademia dei Lincei: La Persia
nel Medioevo, Roma 1971; e La Persia e Bisanzio, Roma 2004. Per un’introduzione alla complessa
rappresentazione politica e culturale della Persia sassanide in età tarda cfr. pure U. Roberto, Imma-
Alessandro Magno e la Repubblica romana 211

E tuttavia, non vi sono tracce di apertura al mondo persiano, soprattutto nel


segno di una sua idealizzazione. Tanto i Parti, quanto i Sassanidi sono nemici
pericolosi dell’impero e sono chiaramente indicati come bavrbaroi. Rispetto a
questo giudizio negativo di Giovanni, la celebrazione delle gesta di Alessandro
evoca evidentemente il trionfo del mondo mediterraneo contro la minaccia pro-
veniente dall’Oriente17. Per questa accesa conflittualità tra i due imperi, il sin-
cronismo tra la fondazione della repubblica e Alessandro si amplifica nel suo
valore simbolico. Dopo la guerra di Troia, e prima dell’ascesa di Roma all’ege-
monia sul mondo mediterraneo, questi due eventi storici rappresentano insieme
l’affermazione di un perfetto modello politico e militare. Alessandro Magno è il
simbolo della superiorità militare dell’Occidente sui barbari, in particolare sui
Persiani. E, secondo uno degli aspetti più consueti dell’imitatio Alexandri, il re
macedone rappresenta, per le sue virtù di condottiero e guerriero (ma anche di
diplomatico, fondatore di povlei" e Weltordner), un modello per ogni imperatore
romano nella gestione dei rapporti con il mondo barbarico18. Dal punto di vista

gini del dispotismo: la Persia sassanide nella rappresentazione della cultura ellenistico-romana
da Costantino a Eraclio, in D. Felice (a cura di), Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto
filosofico-politico, Napoli 2001, 33-69.
17
Si tratta del resto di una contrapposizione politica e culturale che trova un richiamo nella sto-
ria antica anche da parte dei Parti e dei Sassanidi. Nello scontro politico, militare e diplomatico
con l’impero romano, la propaganda partica e poi persiana rivendicano infatti una continuità con
l’impero degli Achemenidi, al fine di legittimare il proprio espansionismo verso il Mediterraneo.
Queste strategie di propaganda sono ben chiare agli storici romani di età imperiale e tardoantica:
cfr. oltre a Trog.-Iustin. XLI 1, Tac. Ann. VI 31, 1; Dio LXXX 3; Herodian. VI 2, 2; Amm. Marc.
XVII 5, 5; e attraverso queste fonti si forma con ogni probabilità anche la rappresentazione che
Giovanni offre del rapporto tra i due imperi. È da sottolineare, a mio parere, che l’Antiocheno ap-
pare pure in sintonia con la diffidenza di Agazia, storico della tarda età giustinianea, verso il mondo
persiano: sul tema cfr. P. Lamma, Oriente e occidente nell’opera storica di Agazia, in Id., Oriente
e Occidente nell’alto medioevo, Padova 1968, 90-131, partic. 112-114 e Av. Cameron, Agathias
on the Sassanians, DOP 23-24, 1969-1970, 67-183 (in generale, i rapporti tra il pensiero storico di
Agazia e Giovanni di Antiochia sono da approfondire: a mio parere i due storici mostrano sintonia
di giudizio sotto molteplici aspetti. Recentemente sul pensiero storico di Agazia: D. Brodka, Die
Geschichtsphilosophie in der spätantiken Historiographie. Studien zu Prokopios von Kaisareia,
Agathias von Myrina und Theophylaktos Simokattes, Frankfurt a.M. 2004, partic. 152-192). Sulla
propaganda partico-sassanide rispetto all’Oriente romano cfr. J. Wolski, Les Achéménides et les
Arsacides. Contribution à l’histoire de la formation des traditions iraniennes, «Syria» 43, 1966,
65-89; e, più in generale, G. Gnoli, L’Iran tardoantico e la regalità sassanide, MedAnt 1, 1998,
115-139, partic. 122-126.
18
L’assimilazione dei generali romani vincitori in Oriente ad Alessandro è un motivo di grande
importanza simbolica che si ritrova già nella propaganda di Pompeo: cfr. H. Bellen, Das Weltreich
Alexanders des Grossen als Tropaion im Triumphzug des Cn. Pompeius Magnus (61 v. Chr.), in
Mélanges G. Wirth, Amsterdam 1988, 865-878. Per una introduzione agli sviluppi della imitatio
Alexandri nel pensiero e nella prassi politica romana cfr. A. Heuss, Alexander der Große und die
politische Ideologie des Altertums, A&A 4, 1954, 65-104 (= Id., Gesammelte Schriften, I, Stutt-
gart 1995, 147-186); e G. Wirth, Alexander und Rom, in Alexandre le Grand. Image et réalité,
212 Umberto Roberto

militare, la repubblica romana è il vero erede dell’impero di Alessandro nella


visione universale della translatio imperii. Ma la sua forza militare è, come già
Polibio indicava, sostenuta da una struttura politica interna che garantisce ordine,
equilibrio e libertà dei cittadini. Secondo questa prospettiva l’impero fondato da
Cesare e Augusto non solo rappresenta la fine della libertà politica dei Romani,
ma anche la fine della loro egemonia mondiale. E la progressiva perdita della
libertà a Roma ha come contraccolpo un rafforzamento della minaccia barbarica,
soprattutto di quella dei Parti-Persiani19.
Questa interpretazione del sincronismo Alessandro Magno/repubblica romana
trova a mio parere conferma se proviamo a contestualizzare la rappresentazione
di Giovanni nell’epoca di composizione della ÔIstoriva cronikhv, cioè i primi
anni del regno di Eraclio. Con la tragica fine del regno e della vita di Maurizio di-
venne evidente la crisi dell’istituzione imperiale a Costantinopoli; e questa perce-
zione venne aggravata dalla tirannide feroce di Foca. Seguì dunque la ribellione e
l’ascesa al trono di Eraclio, evento che chiude anche la ÔIstoriva cronikhv. Tanto
per Giovanni, quanto per il suo pubblico costantinopolitano, Eraclio si presentava
come uomo della svolta politica e della riforma dell’istituzione imperiale, dopo
la funesta stagione del tiranno Foca. La ÔIstoriva cronikhv va intesa come un

Entretiens Found. Hardt, Vandoeuvres-Genève 1976, 181-210. Di grande rilievo è il dibattito su


Alessandro come mito e simbolo in età tardoantica: cfr. L. Ruggini, L’Epitoma Rerum Gestarum
Alexandri Magni Liber e il Liber de Morte Testamentoque eius, «Athenaeum» 39, 1961, 285-357;
Ead., Sulla cristianizzazione della cultura pagana: il mito greco e latino di Alessandro dall’età
antonina al Medioevo, «Athenaeum» 43, 1965, 3-39; e più recentemente i saggi in L. Harf-Lancner
- C. Kappler - F. Suard (éd. par), Alexandre le Grand dans les littératures occidentales et proche-
orientales, Paris 1999.
19
Il sincronismo giovanneo si colloca in una prospettiva culturale e storiografica di esaltazione del-
la superiorità dell’Occidente sull’Oriente attraverso sincronismi di forte valenza simbolica. Si tratta
di una prassi per lungo tempo osservabile nella cultura greco-romana. Basti pensare al sincronismo
di epoca classica tra la battaglia di Salamina e quella di Imera nel 480 (per cui cfr. Ph. Gauthier, Le
parallèle Himère-Salamine au Ve et au IVe siècle av. J.C., REA 68, 1966, 5-32). Per l’epoca tarda,
una significativa analogia con il sincronismo giovanneo è rappresentata dalla tradizione diffusa già
nella cronachistica ellenistico-romana (e giunta poi ad August. Civ. XVIII 2 e 27 e Oros. II 2, 10)
che fa simbolicamente coincidere la caduta dell’impero assiro con la fondazione di Roma: cfr. C.
Trieber, Die Idee der vier Weltreiche, «Hermes» 27, 1892, 321-344, partic. 321; più recentemente
vd. pure Ferrary, L’«oikoumène», l’Orient et l’Occident, cit., partic. 124-125, n. 102 e H. Bellen,
Babylon und Rom-Orosius und Augustinus, in P. Kneissl - V. Losemann (Hrsgg.), Imperium Ro-
manum. Festschrift für K. Christ, Stuttgart 1998, 51-60: non si tratta di un sincronismo assoluto,
ma simbolico, nella visione di un passaggio del potere mondiale da Oriente a Occidente. Con forte
sintesi storiografica Giovanni sostituisce la monarchia assira con quella persiana. La stessa rappre-
sentazione di un passaggio del potere mondiale da Oriente verso Occidente è probabilmente anche
un presupposto dell’idea di translatio nelle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo: Mazzarino, Il
pensiero storico classico, cit., II, 485-486. È interessante notare che nella rappresentazione di Gio-
vanni la minaccia barbarica assume forme organizzate, cioè politicamente e militarmente efficaci,
solo in riferimento al mondo persiano. I Germani costituiscono una minaccia, ma la loro sfrenatezza
e la loro divisione interna li rende meno pericolosi dei Persiani.
Alessandro Magno e la Repubblica romana 213

contributo al contemporaneo dibattito politico e culturale sul potere di Eraclio.


In questo senso, in sintonia con un dibattito già aperto in epoca giustinianea,
l’opera di Giovanni si presta efficacemente a descrivere il regime repubblicano
romano (cioè, la sua eleutheria fondata su equilibrio di poteri tra magistrati e se-
nato) come modello di buon governo e stimolo al rinnovamento della basileiva
dopo gli abusi di Foca. Allo stesso tempo, in simmetria con il suo modello poli-
tico, Giovanni offre l’immagine di Alessandro come modello militare nella lotta
contro la Persia, e in generale nella gestione dei rapporti con i barbari. Soprat-
tutto con l’auspicio che l’imperatore Eraclio, comandante supremo dei Romani,
guidasse personalmente la guerra contro i Persiani e gli altri barbari, emulando
appunto Alessandro20.
In entrambi i casi si tratta della celebrazione di miti del passato che, attraverso
la narrazione storica, Giovanni rievoca in un momento di svolta della storia me-
diterranea. Come già in epoca giustinianea, la storia antica diviene in Giovanni

20
La partecipazione personale del principe alle campagne contro i barbari è una delle virtù im-
periali più largamente celebrate e condivise nella rappresentazione tardoantica della basileia: cfr.
J. Straub, Herrscherideal in der Spätantike, Stuttgart 1939, 25-32, e più in generale sul valore
della Victoria Augusti: J.R. Fears, The Theology of Victory at Rome: Approaches and Problems,
in ANRW II.17, 2, Berlin-New York 1981, 736-826, partic. 808-824; e F. Heim, La théologie de la
Victoire. De Constantin à Théodose, Paris 1992. Soprattutto in ambito siriaco e orientale, l’accosta-
mento tra Eraclio e Alessandro si ritrova in un fecondo filone di letteratura apocalittica, interessata
a narrare le sorti dell’impero romano come impero universale protetto dalla provvidenza. È impor-
tante considerare come, proprio in ambito siriaco, si diffonde una tradizione che fa di Alessandro il
primo basileus greco che agisce sotto la guida del Dio cristiano, realizzando l’annientamento della
monarchia persiana. Chiara è l’allusione ad una affinità tra Alessandro ed Eraclio nella lotta contro
la Persia. Sulla questione cfr., ad es., le diverse versioni della cosiddetta ‘Leggenda siriaca di Ales-
sandro’, composta in ambito siriaco (Edessa o Amida) intorno al 628: E.A.W. Budge, The History
of Alexander the Great. Being the Syriac version, edited from five manuscripts, of the Pseudo-
Callisthenes, Amsterdam 1976 (repr. Cambridge 1889); G.J. Reinink, Das syrische Alexanderlied.
Die drei Rezensionen, CSCO 455, Scrip. Syr. 196, Louvain 1983, 11-12; e per un approfondimento
della composizione e della circolazione della leggenda cfr. G.J. Reinink, Die Entstehung der syri-
schen Alexanderlegende als politisch-religiöse propagandaschrift für Herakleios’ Kirchenpolitik,
in C. Laga - J.A. Munitiz - L. van Rompay (eds.), After Chalcedon: Studies in Theology and Church
History Offered to Professor Albert van Roey for his Seventieth Birthday, Leuven 1985, 263-281;
e nel più generale contesto delle grandi trasformazioni di VII secolo cfr. Av. Cameron, Byzantium
and the Past in the Seventh Century: the Search for Redefinition, in J. Fontaine - J.N. Hillgarth, The
Seventh Century: Change and Continuity, London 1992 (= Ead., Changing Cultures in Early By-
zantium, Aldershot 1996, V), 250-276, partic. 258-259. Per la cosiddetta Apocalisse dello Ps. Me-
todio, un testo più tardo (fine settimo secolo) sempre di ambito siriaco, che riprende la leggenda di
Alessandro e la rielabora, cfr. G.J. Reinink, Die syrische Apokalypse des Pseudo-Methodius, CSCO
540, 541, Scrip. Syr. 220, 221, Louvain 1993; e Id., Alexandre et le dernier empereur du monde: les
développements du concept de la royauté chrétienne dans les sources syriaques du septième siècle,
in Harf-Lancner - Kappler - Suard (éd. par), Alexandre le Grand, cit., 149-159. Più recentemente
cfr. ancora G.J. Reinink, Heraclius, the new Alexander. Apocalyptic prophecies during the Reign of
Heraclius, in Reinink - Stolte (eds.), The Reign of Heraclius (610-641), cit., 81-94.
214 Umberto Roberto

strumento di discussione politica, anche attraverso l’impiego di insoliti (pseudo-)


sincronismi dal forte valore simbolico. Per restituire libertà e pace agli ajrcovmenoi
(con questo termine Giovanni preferisce indicare i cittadini dell’impero, rispetto
ai popoli ad esso sottomessi, uJphvkooi) si esorta il nuovo governo di Eraclio a
volgere lo sguardo al passato e ad emulare la gloria militare di Alessandro, e la
grandezza politica del suo vero erede nella successione dell’egemonia mondiale,
la repubblica romana21.

21
Con una suggestiva immagine Momigliano, The Origins of Universal History, cit., 91, osserva in
riferimento all’attività di Diodoro, Pompeo Trogo, Nicolao Damasceno e Timagene: «These four
provincials tried to offer some resistance to a view of world history which was an implicit, and even
explicit, glorification of Rome». Per quanto riguarda il periodo imperiale, Giovanni di Antiochia mi
sembra sulla stessa linea: la sua ÔIstoriva cronikhv è una forma di protesta storiografica contro la
monarciva romana; e tuttavia la sua protesta non nasce da alcuna rivendicazione di carattere partico-
laristico o di odio antiromano; piuttosto dalla volontà politica di mostrare che la monarchia inaugu-
rata da Cesare e Augusto rappresenta una degenerazione rispetto al periodo della libera repubblica,
tanto sul piano della libertà degli ajrcovmenoi, quanto su quello della potenza militare.
migrazione di idiomi nel
tardoantico cristiano.
una esemplificazione
Alba Maria Orselli
Università di Bologna

L’ambizione analogica iscritta nella formulazione wittkoweriana del titolo del-


la presente comunicazione1 ne ammanta il più sommesso e limitato intento: che è
quello di proporre qualche riflessione sulle dinamiche di codici di comunicazio-
ne, nell’arco di IV-VI secolo, fra cristianesimo e paganesimo. L’adozione di que-
st’ultimo termine, che non dispiacque al Momigliano né al Dodds2, a preferenza
della più attuale e sofisticata definizione di ‘ellenismo’ nell’estensione che le ha
dato Gl. W. Bowersock3, è in linea con la più consolidata tradizione degli studi
cristianistici; anche della più recente letteratura critica, e non solo di quella nobil-
mente manualistica, sul tema della ricerca e formazione dell’ identità cristiana4.

1
Il rinvio necessario è a R. Wittkower, Allegoria e migrazione dei simboli, intr. G. Romano, trad.
it. Torino 1987.
2
Cfr., nell’ordine di edizione originaria, Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo, a cura di A.
Momigliano, 1963, trad. it., Torino 1968; E.R. Dodds, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia:
aspetti dell’esperienza religiosa da Marc’Aurelio a Costantino, 1965, trad. it., da ultimo Scandicci
1997.
3
Gl. W. Bowersock, con riferimento in particolare a L'ellenismo nel mondo tardoantico, 1990, trad.
it., Roma-Bari 1992.
4
A mero titolo esemplificativo: cfr. G. Filoramo, Alla ricerca di una identità cristiana, in G. Filora-
mo - D. Menozzi, Storia del Cristianesimo, L’Antichità, Roma-Bari 1997, 153-271; G.G. Stroumsa,
La formazione dell’identità cristiana, ed. it. a cura di P. Capelli, intr. G. Filoramo, Brescia 1999, e
di Stroumsa anche il più recente La fine del sacrificio. Le mutazioni religiose della tarda antichità,
2005, ed. it. con intr. di G. Filoramo, Torino 2006 (un libro ricchissimo di spunti di discussione sui
temi, tra gli altri, del rapporto oralità/scrittura, dei processi di costruzione della memoria culturale,
delle lingue sacre, dello statuto pagano e cristiano della religione civica); gli atti dell’incontro di
studi La costruzione dell’identità cristiana tra Oriente e Occidente (I-VII secolo), Bertinoro 16-18
ottobre 2003, «Annali di storia dell’esegesi» 21, 2004, La pluralità delle identità cristiane antiche;
la miscellanea curata da A. Saggioro, Diritto romano e identità cristiana. Definizioni storico-reli-
giose e confronti interdisciplinari, Roma 2005. Alcuni meccanismi e processi mentali fondamenta-
li, così teologici come etici, già in E. Prinzivalli, Incontro e scontro fra “classico” e “cristiano” nei
primi tre secoli: aspetti e problemi, «Salesianum» 56, 1994, 546-556; attento all’uso dei linguaggi
culturali come segno e salvaguardia di livelli di educazione e cultura il denso saggio di R. MacMul-
len, Cultural and political Changes in the 4th and 5th Centuries, «Historia» 52. 2003, 465-495.

Gnoli, Muccioli (eds.), Incontri tra culture, Milano 2007, 215-223


216 Alba Maria Orselli

Le considerazioni che seguiranno si collocano tra quelli che mi appaiono due


punti cardinali acquisiti dalla riflessione teorica su questi temi. Il primo è il po-
stulato preliminare di semiotici e storici della lingua, che «annunciare il Vangelo
e propagare la fede cristiana implicava un atto di comunicazione intenso, di cui
l’intercomprensione era il fondamento essenziale» (intercomprensione essendo
«il termine che designa la comprensione linguistica reciproca tra due o più uomini
o gruppi umani»), «e che ci fu una correlazione stretta tra la coscienza linguistica
dei parlanti letterati (dotati di cultura letteraria), e il grado di intercomprensione
tra questi e i loro ascoltatori o interlocutori illetterati»5. Il secondo è l’approdo
storico-culturale (anche sotto il profilo cronologico) di Gl. W. Bowersock: «è
molto importante ricordare qui che il cristianesimo ebbe un influsso fortissimo
sul paganesimo, che nel mondo tardoantico raggiunse un livello pari, a mio avvi-
so, a quello avuto dal paganesimo sul cristianesimo, sul quale più spesso è stata
richiamata l’attenzione»6. Considerazione tanto più significativa ove si osservi
che conclude la pagina dell’analisi del Bowersock dedicata ai rituali del Koreion
di Alessandria come evocati nel Panarion di Epifanio, con la loro misteriosofica
capacità analogica in rapporto al cristianesimo, una capacità che non è sfuggita
a quel finissimo lettore di idiomi tardoantichi che è E. Livrea7; e che gli sviluppi
ulteriori ne sono offerti dal Bowersock nelle intriganti pagine de La storia inven-
tata. Immaginazione e sogno da Nerone a Giuliano8 - a mio avviso, in termini
particolarmente convincenti nel secondo capitolo, Altri popoli altri luoghi9 e nel
quinto, Risurrezione10. Del resto, tra i temi percorsi dal Bowersock, vi è quello
proposto anche da chi qui scrive, della afferenza ad un profilo culturale costruito
secondo stilemi cristiani delle biografie (agiografie?) degli ultimi “filosofi”, un
Proclo, un Isidoro11, con capovolgimento dell’antico orientamento ad appiattire il
bios atanasiano di Antonio su quello filostrateo di Apollonio di Tiana12.
5
Le citazioni letterali rinviano alle pp. 35 s. e ibid. n. 105 di M. Banniard, Viva voce. Communica-
tion écrite et communication orale du IVe au IXe siècle en Occident latin, Collection Etudes Augu-
stiniennes, s. Moyen Age et Temps Modernes 25, Paris 1992, trad.it. delle frasi citate Orselli.
6
La citazione è da Bowersock, L’ellenismo, cit., 48.
7
Cfr. Nonno di Panopoli, Parafrasi del Vangelo di s. Giovanni, Canto B, Introduzione, testo critico,
traduzione e commento di E. Livrea, sul punto specifico nella Introduzione a p. 91.
8
1994, trad. it. Roma 2000, con lucida introduzione di M. Mazza.
9
Bowersock, La storia inventata, cit., 31-53.
10
Ibid., 95-114.
11
Cfr. la presentazione del dibattito storiografico sul tema in A.M. Orselli, Di alcuni modi e tramiti
della comunicazione col sacro, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda Antichità e alto
Medioevo, XLV Settimana CISAM, 1997, Spoleto 1998, 903-951, in partic. 942. L’attenzione del
Bowersock, L’ellenismo, cit., 60 s., è piuttosto agli esiti biografico-agiografici di ambito siriaco.
12
R. Reitzenstein, Das Athanasius Werk über das Leben des Antonius. Ein philologischer Beitrag
zur Geschichte des Mönchtums, Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften,
Philos.- Hist. Klasse 5, Heidelberg 1914.
Migrazione di idiomi nel tardoantico cristiano 217

Definito il carattere fondante e imprescindibile di tali due termini, mi limiterò


in questa sede a poche esemplificazioni, o suggestioni di lettura.
I. L’esploratissimo campo dei linguaggi dell’ideologia politica tardoantica, al
confine tra dimensione non cristiana e configurazione cristiana della regalità,
‘teologia politica’ come sottolineato nel libro recentissimo di Agamben13, non
cessa, pur dopo grandi analisi generali come quella dello Dvornik14, e analisi più
specifiche per campi semantici (la philanthropia del Downey)15 o per singole
auctoritates (il Temistio del Dagron)16, di offrire una inesausta ricchezza di spun-
ti. Assumo a testo cristiano di riferimento un passo dal prologo della Philótheos
Historía di Teodoreto di Cirro, al cuore della preoccupazione di Teodoreto di
fissare nello scritto la memoria del bivo~ filosofiva~ didavskalo~ degli uomini
santi: i quali, tw`n pavlai gegenhmevnwn aJgivwn th;n a[kran filosofivan zhlov-
sante~, ouj calkw`Û kai; gravmmasin th;n ejkeivnwn ejnekovlayan mnhvmhn, ajlla;
pa`san aujtw`n th;n ajreth;n ejkmaxavmenoi, oi|ovn tina~ eijkovna~ aujtw`n ejmyuvcou~
kai; sthvla~ sfa`~ aujtou;~ pepoihvkasi17. Che è non solo rinvio ad sensus alla
grande formula, di applicazione necessaria alla regalità, del novmo~ e[myuco~;
ma riuso esplicito dell’espressione e[myuco~ eijkwvn, che il funzionario pubblico,
avendo assunto l’impronta, il carakthvr, della regalità giusta, deve realizzare in
sé secondo il Temistio di Oratio VIII (dell’anno 368)18. Del resto, la letteratura
cristiana antica, in particolare già Eusebio nelle opere teologiche, aveva riferito
al Verbo l’attributo di immagine animata, e[myuco~ eijkwvn del Padre, facendo
perno, secondo una linea teologica in via di consolidamento, sulla grande parola
paolina di Colossesi I, 1519. Paolina è del resto, o almeno considerata tale nella

13
G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo,
Vicenza 2007, 13 ss. Funzionali al nostro tema in particolare, mi sembrano le pp. 125-160 (La
macchina provvidenziale) e pp. 187-218 (Il potere e la gloria).
14
Fr. Dvornik Early Christian and Byzantine political Philosophy. Origins and Background, Wash-
ington, D.C., Dumbarton Oaks 1966.
15
G. Downey, Philanthropia in Religion and Statecraft in the fourth Century after Christ, «Histo-
ria», 4, 1955, 199-208; per una temperie cronologicamente più avanzata e culturalmente specifica,
cfr. T.E. Gregory, The Ekloga of Leo III. and the Concept of “Philanthropia”, «Byzantinà» 7, 1975,
267-287. Mi è anche caro citare uno degli ultimi contributi, centrato sulla cultura neotestamentaria,
di M. Adinolfi, Filanqrwpiva. Un confronto dei testi della grecità extrabiblica e biblica con Tt 3,
4-7, in L. Padovese (a cura di), Atti del IX Simposio Paolino. Paolo tra Tarso e Antiochia. Archeo-
logia/Storia/Religione, Turchia: la Chiesa e la sua storia XX, Roma 2006, 45-53.
16
G. Dagron, L’empire romain d’Orient au IVème siècle et les traditions politiques de l’Hellenisme.
Le témoignage de Thémistios, T&M 3, 1968, 1-242.
17
Thdt. Phil. Hist., Prol. 3-4, ed. P. Canivet, A. Leroy-Molinghen, Histoire des moines de Syrie, I,
SChr 234, Paris 1977, 128-130.
18
A 117d-118b, edd. H. Schenkl, G. Downey, Lipsiae 1965, 176 s.
19
Su tutta questa tematica, con citazione e commento delle fonti tardoantiche, cfr. Chr. Schönborn,
L'icône du Christ. Fondements théologiques, Fribourg 1976, 25-81, 87-105.
218 Alba Maria Orselli

tradizione, anche l’altra parola (di Ebrei I, 3) che appartiene ugualmente al lin-
guaggio dell’ideologia politica, carakthvr, con definizione del Verbo in quanto
carakthvr della sussistenza, uJpovstasi~, del Padre20.
Sono dell’avviso che proprio la coscienza della irresolubilità del nesso tra re-
galità cristiana e dimensione cristica dia ragione anche di pur criptici rimandi al
lessico dei rituali e cerimoniali della sovranità, evidenziati dal Livrea nel com-
mento alla Parafrasi del Vangelo di Giovanni di Nonno di Panopoli: che forse
vogliono sottolineare come gli elementi dello scenario che si costruisce in fun-
zione della presenza teandrica, agenti umani e oggetti stessi dell’episodio delle
Nozze di Cana, si compongano a configurare una sorta di complesso ma unico
diadema21.

II. Resterei però ancora un momento ai testi di Teodoreto di Cirro, un autore


presso il quale ricorre con costanza, per i grandi asceti della Philótheos Historía,
il sintagma qei`o~ ajnhvr consegnatoci dalla tradizione biografico-filosofica tar-
doclassica così ben ripercorsa da L. Bieler22 e più recentemente da G. Fowden23
– seppure, in Teodoreto, in alternanza con il corrispondente qeou` a[nqrwpo~, più
raramente anche tou` qeou` a[nqrwpo~, che non ne è il perfetto corrispondente
perché la carica numinosa vi risulta depotenziata, e che già segna il processo di
traslazione al vir Dei della tradizione agiografica latina. Ma nei testi storiografici
di Teodoreto, nella Storia ecclesiastica vera e propria oltre che nella Philótheos
Historía, l’epiteto qei`o~ ajnhvr si incontra applicato senz’altro ai vescovi in quan-
to tali, vescovi certo di santa vita, e però solo alcuni provenienti dalle file del
monachesimo: da Macario di Gerusalemme a Melezio di Antiochia, da Atanasio
di Alessandria ad Ambrogio di Milano e Basilio di Cesarea, da Flaviano di Co-
stantinopoli a Marcello di Apamea ad Acacio di Berea, a Teodoto di Antiochia,
al grande Giovanni Crisostomo ancora di Costantinopoli, ad Aftonio di Zeugma,
a Diodoro di Tarso24. “Banale” epiteto di onore, imprestito della formularità can-
celleresca? Non solo, credo: perché i vescovi, siano o meno anche monaci, sono
da Teodoreto, nell’ambito di un processo dialettico che investe ugualmente, sep-

20
Sul significato culturale di questi idiomi scritturistico-teologici cfr. anche Orselli, Di alcuni modi
e tramiti, cit., 910-914.
21
Nonno di Panopoli, Parafrasi, cit.: cfr. il commento di E. Livrea a 7, l. 34, pp. 205 s.
22
L. Bieler, Theios aner. Das Bild des göttlichen Menschen in Spätantike und Frühchristentum, 2
voll., Wien 1935-1936, ora Darmstadt 1967.
23
G. Fowden, The Pagan Holy Man in Late Antique Society, JHS 102, 1982, 33-59.
24
Cfr. Thdt. Hist. eccl., I, 18, 4; III, 4, 2 e 14,10; IV, 7, 5 e 19, (3-)4; V, 8, 2; 27, 1, 3 e 4; 40, 1, edd.
L. Parmentier, G.-Chr. Hansen, in GCS N. F. 5, Berlin 1990, III ed., pp. 64, 179, 192, 219, 243, 287,
328, 329, 347. Inoltre Id., Phil. Hist. II, 16; III, 11; V, 18; VIII, 7, ed. Canivet, Leroy-Molinghen,
cit., pp. 230, 266, 340, 388.
Migrazione di idiomi nel tardoantico cristiano 219

pur con diversa visibilità, cristianità d’Oriente e d’Occidente, assimilati ai grandi


asceti, i nuovi e veri ‘filosofi’, e in quanto tali accreditati, nuovi ‘profeti’25, della
capacità della diretta comunicazione col sacro – essi, i vescovi, per la loro qualità
istituzionale, secondo la definizione che Rufino ne aveva attribuito a Costantino
con eco evidente di Ps 81, 6 (Vos etenim nobis a Deo dati estis dii), ingiudicabili
dagli uomini26. Purché, ed è ancora Teodoreto, però il Teodoreto della Graeca-
rum affectionum curatio, siano tra quanti abbiano conservata ajkevrato~ la qei`a
eijkwvn del momento genesiaco27.

III. La cultura religiosa ellenistica sembra consegnare alla cultura religiosa se-
gnata dal cristianesimo il patrimonio centrato nel segno dello a[ntron o dello
sphvlaion, luogo sacro e del sacro, simbolo del cosmo secondo gli insegnamenti
dei filosofi da Pitagora a Platone ai loro epigoni di II secolo d.C. Un patrimonio
idiomatico riassunto e risignificato nel III secolo dal Porfirio del de Antro Nym-
pharum28. A partire dal tratto, riferito a Itaca, del XIII libro dell’Odissea (vv.
102-112), la storia della tradizione di a[ntra e sphvlaia consacrati dagli uomini
più antichi al cosmo e alle sue porte – una memoria pervenuta anche al Libanio
dell’Oratio XXX29 – si dispiega in ogni cultura religiosa, dagli insediamenti rupe-
stri dei culti della classicità alla sensibilità esotica, e perciò misteriosamente an-
tica, del culto di Mitra30. Seducente, per il cristianista che lavora sul tardoantico,
l’esito finale del testo porfiriano:
25
Mi limito qui ad alludere a questo ulteriore grande snodo ideologico non meno che idiomatico.
Sono dell’opinione che la linea dell’ellenofono Teodoreto, tra l’altro testimone e partecipe di una
complessa, anche tormentata, stagione di vita cristiana e di esercizio dell’attività episcopale all’in-
terno di questa, segni una tappa non trascurabile del processo evolutivo che, in Occidente, condurrà
Gregorio Magno ad una articolata definizione della profezia come esplicitazione connotante del
ministero episcopale - su questo Orselli, Di alcuni modi e tramiti cit., 932 s., e, con sviluppo di
questa linea, Cr. Ricci, La profezia in Gregorio Magno, «Augustinianum» 43, 2003, 125-200, spe-
cialmente 169-197.
26
Cfr. la discussione che ne ho presentato in A.M. Orselli, Suggestioni petrine nelle proposte agio-
logiche di Teodoreto di Cirro, in L. Padovese (a cura di), Atti del VI simposio di Tarso su san Paolo
apostolo, Turchia: la Chiesa e la sua storia XIV, Roma 1999, 263-271, in partic. 269-271. Ancora
sulla ideologia e la pratica episcopale in Teodoreto, A.M. Orselli, Teodoreto di Cirro, testimone
dell’impero romano d’Oriente, in L. Padovese (a cura di), Atti del X Simposio Paolino. Paolo tra
Tarso e Antiochia. Archeologia/Storia/Religione, Turchia: la Chiesa e la sua storia XXI, Roma
2007, 167-180.
27
Thdt, Graecarum affectionum curatio, II, 76, ed. P. Canivet (Théodoret de Cyr, Thérapeutique
des maladies helléniques), SChr 57, Paris 1958, 159.
28
Qui letto nell’edizione: Porfirio, L’antro delle Ninfe, a cura di L. Simonini, Milano 1986.
29
Libanius, Oratio XXX, 4, rec. R. Förster, Libanii opera, III, Lipsiae 1906, 89.
30
Porph. de Antro, 20 ed. Simonini, cit., 64, con il commento a nn. 73-75 a pp. 186-189, e la
conclusione a p. 189: «l’antro appare un ricettacolo archetipico di forze magiche cosmiche, luogo
di culto e di iniziazione, matrice cosmogonica e antropogonica». Lasciando da parte gli altri culti
iniziatico-misterici ricordati nel testo porfiriano, mi limito a dare tre indicazioni bibliografiche re-
220 Alba Maria Orselli

Giunti a questo a[ntron, dice Omero, bisogna deporre ogni possesso esterno,
denudarsi e assumere l’aspetto di un mendico dal corpo avvizzito, gettare ogni
cosa superflua, staccarsi dalle sensazioni, e allora deliberare con Atena seduto
con lei ai piedi dell’olivo, su come eliminare tutte le passioni che traviano la
propria anima … la divinità (degli dei del mare e della materia) si deve prima
placare con sacrifici e faticose peregrinazioni e sofferenze di mendico, ora
lottando con le passioni, ora avvalendosi di magie e astuzie, e trasformandosi
completamente di fronte a esse per poter, nudo, senza stracci, distruggerle
tutte. E neppure così egli si libererà delle sofferenze, ma solo quando sarà del
tutto uscito dal mare e tra anime che ignorano a tal punto le opere del mare e
della materia da ritenere … che il remo sia un vaglio31.

Il riferimento alla necessità, preliminare all’esperienza del divino, del più duro ti-
rocinio ascetico, di remotissima formazione e generale diffusione antropologico-
religiosa, introduce infatti alla sua ricollocazione propriamente cristiana, e non
solo sul piano generale ma in una tipologia di siti data. Questa può conservare
l’alternanza a[ntron/sphvlaion, come in Teodoreto di Cirro e nel Cirillo di Sci-
topoli delle Vitae di Eutimio e di Saba; o iscriversi di preferenza nel riferimento
allo sphvlaion in Giovanni Mosco, tradotto con spelunca/specus per tanti monaci
del Tardoantico e del primo Medioevo latino (così per Benedetto e per Ellero di
Galeata)32. L’importanza di quella ricollocazione cristiana sta nel suo farsi anche
a partire dall’eredità dell’ellenismo, però all’incontro di questa, a una cerniera fe-
condamente problematica, con la parola scritturistica che discende dalla memoria
dei profeti dell’Israele perseguitato, di III Reg. 19, 9 e II Macc. 6,11 e 10,16 se-
condo la LXX, sino alla rievocazione dei giusti fedeli del capitolo XI della Lettera
agli Ebrei. Qui i versetti 35 sgg., in particolare 37-38, rievocavano le sofferenze
patite dai palestinesi dell’età ellenistica e delle guerre maccabaiche, che dovette-
ro disperdersi ejn ejrhmivai~ kai; o[resin kai; sphlaivoi~ kai; tai`~ ojpai`~ th`~ gh`~.
Assunti dal III secolo, già con Origene, in ambito cristiano a epigrafe delle sof-

lative al culto di Mitra, in considerazione delle possibili tangenze con le pratiche cultuali cristiane
(cfr. Tertulliano). I rinvii sono al saggio di R. Turcan, Le sacrifice mithriaque: Innovations de sens
et de modalités, in O. Reverdin, J. Rudhardt, J.-P. Vernant (éd. par), Le sacrifice dans l’antiquité,
Entretiens sur l’antiquité classique XXVII, 1980, Vandoeuvres-Genève 1981, 341-375; a C. O.
Tommasi Moreschini, Un rituale pagano per l’immortalità: la “liturgia di Mithra” tra vecchie e
nuove interpretazioni, in Pagani e cristiani alla ricerca della salvezza (secoli I-III), XXXIV Incon-
tro di Studiosi dell’Antichità Cristiana, Roma, 5-7 maggio 2005, Studia ephemeridis Augustinia-
num 96, Roma 2006, 837-847; e alla rassegna di M. Facella, Su Mitra e il mitraismo, «Athenaeum»
94, 2006, 281-288.
31
Porph. de Antro, 34-35, trad. Simonini, cit., 80-84.
32
Cfr. una campionatura abbastanza articolata delle fonti ellenofone e latinofone, con riferimento
alla ideologia e alla simbolica monastica che regge i testi, in A.M. Orselli, Lo spazio dei santi, in
Uomo e spazio nell’alto Medioevo, L Settimana Cisam, 2002, Spoleto 2003, 855-890, in partic.
885-889.
Migrazione di idiomi nel tardoantico cristiano 221

ferenze dei profeti, quei versetti divennero la ‘parola’ distintiva e programmatica


dell’antico monachesimo cristiano, che dei profeti, anche dei profeti, raccoglieva
l’eredità e perpetuava la testimonianza33.

IV. Ci siamo via via avvicinati, quasi percorrendo un ideale cerchio di mura, al
patrimonio idiomatico della santità – e mi sembra che nessuna analogia potrebbe
essere più pertinente, se è vero che le mura urbiche hanno, nella sapienza giuri-
dica romana, un luogo privilegiato e un lessico specifico nell’ambito delle res
divini iuris, da Gaio a Giustiniano: sono infatti, esse e le porte, res sanctae34.
Credo di non dover ricordare qui che il tema del vocabolario, in particolare il vo-
cabolario latino, della santità fu posto e sviluppato per la prima volta nel 1927 da
Hippolyte Delehaye, al di fuori di ogni dichiarazione o sottigliezza semiotica, ma
con esemplare acribia, rimasta a reggere assai bene il confronto con le teorizza-
zioni e le analisi successive, anche le più recenti35. La parola latina, e i suoi esiti,
si iscrivono in un ricco sistema giuridico e simbolico la cui salda costruzione,
come proposto nel titolo, è mirata a superare le inevitabili ambiguità intrinseche
al tema storico stesso del culto (l’autore era del resto un Bollandista), ed enfatiz-
zate nella temperie storiografica specifica; ambiguità anche però connesse con
quella che, a partire dal Marrou poi con il van Uytfanghe, ora indichiamo come
struttura di accoglienza, e dunque vettore, del culto cristiano dei santi: cioé il
culto dei morti36. La seconda metà del secolo XX avrebbe visto un sostanziale
cambio di orientamento degli studi agiografici, e non solo nella direzione del rin-
novamento del metodo di lettura delle fonti proprie, nonché della rivalutazione di
queste ultime, ma quanto all’oggetto stesso centrale della ricerca, il santo e il suo

33
Faccio il punto sullo stato storiografico di questo tema specifico, con rinvii ai miei propri contri-
buti, nella n. 49 di A.M.Orselli, Dialettiche di idiomi agiografici nelle tradizioni di santa Tecla, in
corso di stampa negli Atti del Convegno Giustina e le altre, Padova 2004.
34
Nel contesto di una produzione a carattere giuridico e religionistico di ricchissimo spessore, se-
gnalo, con attenzione specifica ai processi di cristianizzazione della città, le pagine di A.M. Orselli,
Imagines urbium alla fine del tardoantico, in Fr. Bocchi, R. Smurra (a cura di), Imago urbis. L’im-
magine della città nella storia d’Italia, Atti del convegno internazionale (Bologna 5-7 settembre
2001), Roma 2003, 233-250, in partic. 239-244.
35
H. Delehaye, Sanctus. Essai sur le culte des saints dans l’Antiquité, Subsidia Hagiographica
17, Bruxelles 1927. A p. 2, ma specialmente a 4 ss., il Delehaye segnalava, insistendo sulla loro
funzione di connotato di perfezione morale, gli usi non cristiani dei termini sanctus, sanctissimus
di frequente pur se non esclusiva applicazione agli imperatori; ciò che potrebbe suggerirne un qual-
che specifico apporto all’estensione cristiana, nell’ordine delle categorie teologico-politiche. Cfr.
anche, più di recente, le probe analisi di E. Zocca, Dai “santi” al “santo”. Un percorso storico-
linguistico intorno all’idea di santità (Africa romana secoli II-V), Roma 2004.
36
M. van Uytfanghe, L’origine, l’essor et les fonctions du culte des saints: quelques repères pour
un débat rouvert, «Cassiodorus» 2, 1996, 143-196.
222 Alba Maria Orselli

culto: indagati nelle loro funzionalità in rapporto alle società di tempi e orizzonti
spaziali diversi, e nella costruzione storica dei linguaggi messi in essere per co-
municarne i fondamenti e le intenzioni.
Perseguire i codici lessicali del cosmo della santità e dei santi ha condotto a
evidenziarne la possibile ratio di fondo, che a me appare essere l’assunzione del
postulato ‘ordine verticale dell’invisibile’ ad archetipo e principio di legittimazio-
ne, ma anche punto di ritorno di ogni ordinata realtà terrena. Ciò che si fa secondo
il principio analogico-simbolico dell’ordine di questo mondo come immagine, e
non meno paradigma, dell’ordine soprannaturale37: realizzato e reso comprensi-
bile, nel tardoantico e soprattutto nel tardoantico latinofono dei secc. IV-VI, con
la adozione degli idiomi dei rapporti tra gli uomini, nel loro dispiegarsi in senso
orizzontale come in senso verticale. È questo il significato della «proiezione ce-
leste dell’intero lessico delle relazioni economiche» di cui scriveva, nel 1994,
A. Giardina, invitando «a riflettere sull’incontro e la circolarità dei linguaggi»38.
Nello specifico del culto dei santi «la metaforizzazione economica del lessico
della salvezza» si incardina nella memoria del sangue dei martiri, e nella certezza
della presenza dei martiri stessi, e poi degli altri santi, tra noi in quelle che nella
cultura latina chiamiamo reliquiae – anche, e molto spesso, pignora o addirittura
patrocinia39. Ma pignus, e munus, e donum, e patrocinium sono termini che apro-
no su un altro fondamentale sistema semantico, e perciò ideologico, quello della
città e dei valori urbici, valori tra i quali la tradizione dell’evergetismo occupa un
ruolo non preteribile. La città è ugualmente il luogo dell’esercizio legittimo del
potere, nel segno del vincolo sociale teorizzato e definito da Aristotele a Isidoro

37
Assumo l’espressione citata alla lettera dal saggio di L. Canetti, Discorsi e pratiche del sacro,
in S. Carocci (a cura di), Storia d’Europa e del Mediterraneo. Dal Medioevo all’età della globa-
lizzazione, IV. Il Medioevo (secc. V-XV), IX, Strutture, Preminenze, Lessici comuni, Roma 2007,
535-580, in partic. 548, seppure non in piena corrispondenza di prospettiva ideologica. Fondamen-
tale sembra a me infatti, per il tardoantico ma forse non solo, nella costruzione dei rapporti tra
le due sfere, del visibile e dell’invisibile, l’incombere del principio e sistema dell’immagine, poi
anche come espresso e mediato dai testi pseudoareopagitici. In questo stesso ambito di pensiero mi
sembra del resto rientrare un’altra pagina del lavoro del Canetti, cfr. 551 s.; cfr. altresì il capitolo
dedicato all’angelologia di Agamben, Il regno e la gloria cit., 161-185.
38
A. Giardina, Il tramonto dei valori ciceroniani (ponos ed emporia tra paganesimo e cristianesi-
mo), in S. Roda (a cura di), La parte migliore del genere umano. Aristocrazie, potere e ideologie
nell’Occidente tardoantico. Antologia di storia tardoantica, Torino 1994, 41-163, in partic. 160 e
163. A 162 Giardina insiste sulla «trasmigrazione di valori dalla terra al cielo», una formula sulla
quale non concordo in tutto, cfr. quanto detto supra a n. 37. Cfr. anche il più recente contributo
di D. Caner, Towards a Miraculous Economy: Christian Gifts and Material “Blessings” in Late
Antiquity, JECS 14, 2006, 329-337, specialmente attento a una ricca serie di fonti proveniente dalla
pars Orientis.
39
Il tema è stato acutamente indagato da L. Canetti, Frammenti di eternità. Corpi e reliquie tra
Antichità e Medioevo, Roma 2002, soprattutto a 105-138, con uso di una importante bibliografia
che corre da Herz (1958) a Bogaert (1973) a Todeschini (1995).
Migrazione di idiomi nel tardoantico cristiano 223

di Siviglia, dai minima quotidiani alla grande pratica curiale40. In questo universo
semico il santo cristiano, a partire dalla seconda metà del IV secolo, trova una
delle sue collocazioni fondamentali. Riconosciuto civis sacer della urbs/civitas
nella quale ha versato il suo sangue martiriale e/o riposano le sue spoglie, e che
pertanto riconosce alla città, in quelle vestigia di sangue e ad ogni modo nella
presenza di quel corpo che è ‘frammento di eternità’ (Canetti), il deposito di un
pignus, di una arrha, può esserne assunto a patronus: così risemantizzandosi
in senso cristiano - promotori nella maggior parte dei casi i vescovi latinofoni,
custodi e tramiti del patrimonio pubblicistico tradizionale - l’antico e civilissimo
universo del patrocinium41. La gerarchia dei santi, nuovi cittadini a pieno titolo
della patria celeste, e dunque legittimi mediatori presso l’Altissimo, viene in que-
sto modo inequivocabilmente divaricata dalle tradizionali gerarchie delle divinità
personali, familiari o cittadine - tanto più di queste ultime, delle divinità poliadi,
degli dei poliou`coi segnacolo di quella cultura della città il cui superamento nel-
l’universalismo del più antico cristianesimo aveva addirittura condotto a tacciare
i cristiani di misanqrwpiva, odium humani generis. Con ulteriore esplicitazione
del ‘paradosso’ cristiano, si fonda una nuova ‘religione civica’42; grazie alla cir-
colazione dei codici idiomatici, i termini del rapporto tra la dimensione terrena
e il suo archetipo celeste non restano astratti, ma sono calati nelle strutture più
significative e condivise degli uomini.
Ancora un esempio di pseudomorfosi.

40
Si deve una volta di più all’intelligenza interpretativa del Bowersock di avere colto il rapporto,
non solo di ambientazione ma propriamente costitutivo, che lega martirio e città, cfr. Gl. W. Bower-
sock, Martyrdom and Rome, Cambridge 1995.
Tutti i temi connessi con il segno-città e con i processi di passaggio dalla città pagana alla città cri-
stiana sono in questi ultimi anni oggetto di rinnovate e fondamentali riflessioni critiche. Mi limito
in questa sede a segnalare il seminario Città pagana - Città cristiana. Tradizioni di fondazione,
Roma 2-3 luglio 2007, organizzato nell’ambito del progetto di ricerca dell’Università di Roma “La
Sapienza” Cristianesimo e mondo mediterraneo: pluralità, convivenze e conflitti religiosi tra città
e periferie (I-VIII secolo), al quale sono stata chiamata a partecipare; nell’intervento presentato
in quella sede, e ora in corso di stampa, ho dato conto nella mia ottica di cristianista di alcuni dei
contributi che reputo più significativi.
41
Mi permetto di fare riferimento ai miei numerosi interventi sul tema, a partire dalla monografia
L’idea e il culto del santo patrono cittadino nella letteratura latina cristiana, Bologna 1965, ri-
stampato in A. M. Orselli, L’immaginario religioso della città medievale, Ravenna 1985, 3-182.
42
Limitanti mi appaiono i termini della presentazione in Stroumsa, La fine del sacrificio cit., 88-
115, Dalla religione civica a quella comunitaria: l’antica religione civica è di necessità comunitaria
per la sua stessa natura pubblica e pubblicistica. Sono del resto ignorati in Stroumsa i processi dei
quali si discute in questo testo.
epilegomena

Mario Mazza
Università di Roma «La Sapienza»

1 – Debbo alla affettuosa sollecitudine degli amici Gnoli, Muccioli e Panaino


l’invito a tirare le fila di queste due splendide giornate di lavoro. Ringrazio vi-
vamente e mi metto all’opera, anche se, come ho avuto modo qualche volta di
dichiarare, per la verità non amo la formula ed il genere ‘Conclusioni’. E per
almeno due ragioni: sia perché in alcuni questo compito diventa quasi una sorta
di tribunale dal quale dispensare più o meno calcolati giudizi – sia, e, soprattutto,
perché penso sia più importante, in un convegno di studi, parlare dei problemi
generali che esso affronta, delle prospettive metodologiche con le quali opera,
delle aperture, dei nuovi problemi che esso propone.
Ovviamente non farò tutto questo – o, almeno, lo farò solo in parte. Considera-
te questo mio intervento un discorso alla buona, tra amici, una Tischrede, e perciò
perdonatemi se sarò poco formale, se non abbonderò in complimenti, se trascure-
rò qualche relazione. Nel fatto, oltre ai risultati di tutti gli stimolanti interventi, di
questo convegno vorrei soprattutto segnalare i due temi generali: l’ampiezza del
quadro storico-geografico, in primo luogo l’Oriente ellenistico e romano (anche
se la mia preferenza andrebbe, piuttosto che alla e disgiuntiva, al trattino unifi-
cante ‘ellenistico-romano’) e, secondariamente, la prospettiva metodologica, la
particolare attenzione ai processi di interazione culturale – prospettiva peraltro
in funzione del campo di studi prescelto. Com’è chiaro, i due temi generali sono
strettamente connessi, l’uno condizionante l’altro. Comincerò tuttavia, per ragio-
ni di chiarezza espositiva, a trattare del secondo tema discutendo delle relazioni
che ad esso in particolare fanno riferimento.

2 – «L’errore dei Greci» – o almeno uno dei loro grandi errori –, ha osservato
Arnaldo Momigliano1, è stato quello di essere rimasti «orgogliosamente mono-
glotti» e di non aver mai fatto il minimo sforzo per comprendere ed assorbire le

1
A. Momigliano, The Fault of the Greeks, «Daedalus» 104, 1975, 9-20, trad. it. L’errore dei Greci,
in Appendice a Saggezza straniera. L’ellenismo e le altre culture, Torino 1980 (trad. it. di Alien
Wisdom. The limits of Hellenization, Cambridge 1975), 157-174.

Gnoli, Muccioli (eds.), Incontri tra culture, Milano 2007, 225-261


226 Mario Mazza

culture degli altri popoli, neppure quelle degli Ebrei e dei Romani, con i quali
furono per tanto tempo strettamente in contatto. Pur essendo «... unici nell’anti-
chità nella loro capacità di descrivere con precisione i costumi degli stranieri»,
nel sapere indagare «le istituzioni, le credenze religiose, le abitudini quotidiane,
la dieta perfino», nell’aver insomma inventato l’etnografia, i Greci, spiegava Mo-
migliano, sarebbero rimasti sostanzialmente estranei agli ‘altri’; il loro sarebbe
stato «... in fondo uno sguardo freddo, gettato su civiltà straniere dall’alto della
propria sicurezza»2.
Giudizio francamente eccessivo – che lo stesso Momigliano, con le sue ricer-
che, ha concorso a ridimensionare. Ma che tuttavia tocca uno dei più singolari
paradossi della cultura greca classica: l’aver essa formato suoi concetti fondativi
come quelli di ijsonomiva e della stessa polis, tanta parte della sua mitologia, delle
sue credenze religiose, nel rapporto con il mondo ‘orientale’ della Ionia arcaica,
nel contesto di quella koinhv microasiatica così acutamente illustrata da Santo
Mazzarino nel suo Fra Oriente ed Occidente3 – e tuttavia rifiutarsi al confronto
con la «Saggezza straniera», per dirla con Momigliano4. Alla chiusura contribuì
indubbiamente il sorgere del ‘nazionalismo’ greco, dopo la vicenda delle guerre
persiane; non senza buone ragioni il grande storico italiano Gaetano De Sanctis,
maestro appunto di Momigliano, ha sostenuto, in un celebre saggio, che la storia
greca sarebbe veramente cominciata proprio con le guerre persiane, e solo con
queste si sarebbe formata «la coscienza nazionale greca»5.
Coscienza [nazionale] significa anche rivendicazione di identità: i due con-
cetti sono strettamente connessi. L’autoctonia come mito di identità sta alla base

2
Momigliano, L’errore dei Greci, cit., 162, 167-168.
3
S. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente. Ricerche di storia greca arcaica, Firenze 1947 – riedito,
con bella Introduzione del compianto Filippo Càssola (pp. VII-XX), da Rizzoli, Milano 1989. Può
essere utile ricordare il lavoro di due più recenti insigni studiosi, che hanno ripercorso, pur nella
loro autonomia, la strada tracciata da Mazzarino; mi riferisco a Walter Burkert, con la sua mono-
grafia Die orientalisierende Epoche in der griechischen Religion und Literatur, SHAW 1984, 1,
trad. inglese rivista e ampliata The Orientalizing Revolution. Near Eastern Influence on Greek
Culture in the Early Archaic Age, Cambridge (Mass.)-London 1992, si vd. inoltre, di Burkert,
Structure and History in Greek Mythology and Ritual, Sather Classical Lectures 47, Berkeley-Los
Angeles-London 1979, ed il saggio Oriental and Greek Mythology: The Meeting of Parallels, in
J. Bremmer (ed.), Interpretations of Greek Mythology, London-Sydney 1987, 10-38. Del grande
lavoro di Martin L. West mi limito a ricordare, oltre ai due importanti saggi Near Eastern Material
in Hellenistic and Roman Literature, HSCP 73, 1969, 113-134, e The Rise of Greek Epic, JHS 108,
1988, 151-172, Early Greek Philosophy and the Orient, Oxford 1971, The Orphic Poems, Oxford
1983 e The Hesiodic Catalogue of Women. Its Nature, Structure and Origins, Oxford 1985.
4
Si vd. le pagine conclusive di Alien Wisdom, cit., 149-150.
5
G. De Sanctis, Essenza e caratteri della storia greca, «Nuova Antologia» 1930, poi riedito in
Problemi di Storia Antica, Bari 1932, 5-27, ora in Scritti Minori, novamente editi da A. Ferrabino
e S. Accame, IV, 1920-1930, Roma 1976, 419-435, partic. 421-425.
Epilegomena 227

dell’acuto contributo di Cinzia Bearzot6. Con vasta dottrina e precisa consapevo-


lezza metodologica la Bearzot delinea il processo con il quale il mito identitario
dell’autoctonia, originariamente creato ed usato per «sottolineare originalità e au-
tonomia culturale e per negare il valore degli interscambi culturali», nel contesto
nuovo del mondo ellenistico, viene in parte «superato, ma in parte anche adattato
a nuove prospettive e coniugato con una valorizzazione degli apporti culturali
esterni»7. Il mito identitario dell’autoctonia, se trova la sua massima articolazione
ed utilizzazione in Atene, non è di essa esclusivo; la Bearzot ne descrive la pre-
senza, e l’utilizzazione, presso Arcadi, Tebani, Egineti. Esso, connesso con l’an-
tichità di un e[qno~, con il radicamento in un territorio, con la ajmixiva con elementi
estranei, con l’invenzione di specifiche tecniche e pratiche culturali, giuoca un
ruolo fondamentale nella rivendicazione della propria identità etnico-culturale,
venendo volta a volta impiegato, pur insistendo su aspetti diversi, per affermare
la superiorità di un popolo rispetto ad un altro, per ribadire la propria identità
politica e culturale nei confronti di altre realtà etnico-culturali, non solo esterne,
ma «anche interne al mondo ellenico, verso le quali viene percepita e sottolineata,
a diversi livelli, un’estraneità che rifiuta ogni prospettiva di integrazione»8. In
definitiva, ribadisce giustamente la Bearzot, il mito dell’autoctonia è un mito di
identità, di esclusione pertanto e non di integrazione: la testimonianza di Isocrate,
«teorico del rifiuto della mescolanza», risulta sotto questo aspetto assolutamente
determinante.
L’età ellenistica impone il confronto con le culture ‘altre’. Il mito dell’autocto-
nia, nel perdere la sua attualità, assume nuove, più significative, connotazioni.
L’India di Megastene, quale appare dalla ricostruzione dei suoi ∆Indikav, è sotto
questo profilo assai istruttiva. Lo storico ellenistico applica alle vicende dell’In-
dia categorie tradizionali, come quelle dell’autoctonia – ma le sue esigenze pro-
pagandistiche lo inducono «ad affrontare in modo inedito il rapporto tra autocto-

6
C. Bearzot, Autoctonia, rifiuto della mescolanza, civilizzazione: da Isocrate a Megastene, in que-
sto volume 7-28.
7
Ead., ibid., 7. Sul tema dell’autoctonia, tra la ormai vasta letteratura, ricordo E. Montanari, Il mito
dell’autoctonia. Linee di una dinamica mitico-politica ateniese, Roma 1981; N. Loraux, Né de la
terre. Politique et autochtonie à Athènes, Paris 1996; M. Detienne, The Art of Founding Autoch-
thony: Thebes, Athenes, and Old-Stock French, «Arion» 9, 2001, 46-55. Sul rapporto tra identità,
autoctonia e religione mi permetto di rimandare al mio contributo Identità e religioni: considera-
zioni introduttive, in P. Anello, G. Martorana, R. Sammartano (a cura di), Ethne e religioni nella
Sicilia antica. Atti del Convegno (Palermo, 6-7 dicembre 2000), Supplementi a «Kokalos» 18,
Roma 2006, 1-22, partic. 3 ss. Per l’epoca ellenistica, importante il contributo di H.-J. Gehrke, Bür-
gerliches Selbstverständnis und Polisidentität im Hellenismus, in K.-J. Hölkeskamp, J. Rüsen, E.
Stein-Hölkeskamp, u. H.Th. Grütter (hrsgg.), Sinn (in) der Antike. Orientierungssysteme, Leitbilder
und Wertkonzepte im Altertum, Mainz am Rhein 2003, 225-254.
8
Bearzot, Autoctonia, rifiuto della mescolanza, civilizzazione, cit., 19.
228 Mario Mazza

nia e sviluppo culturale»9. Diversamente da quanto apparirà in epoche più tarde,


per Megastene l’India non è ancora sorgente di civiltà per altri popoli; sul piano
culturale essa è presentata come una ‘colonia’ che ha accolto gli insegnamenti
dei due grandi eroi ‘civilizzatori’ del mondo greco, Dioniso ed Eracle. Dall’opera
di questi due grandi eroi-simbolo della cultura greca discende l’autoctonia, ma
anche l’isolamento culturale, dell’India.
L’India dunque, pur nella sua (relativa) autoctonia, sul piano culturale ‘colonia’
della Grecia, per Megastene. Non sono tuttavia pienamente convinto che questa
originale applicazione del concetto di autoctonia si comprenda bene «... nella
prospettiva tradizionale ... che considera gli Indiká di Megastene come un’opera
espressamente concepita in riferimento a problemi e finalità dell’impero seleu-
cidico, per fornire un modello ideale di stato e di società che potesse contribui-
re alla riflessione sull’edificazione di una realtà statale complessa ed articolata,
completamente nuova per i Greci»10 – che è la tesi intelligentemente proposta da
Andrea Zambrini11. Io ovviamente non escludo le finalità politiche dell’opera;
ma ritengo che la prospettiva di una compatibilità tra autoctonia e civilizzazione,
più che servire alla sopravvivenza del tema dell’autoctonia, appunto «... nella
misura in cui non esclude più la possibilità di scambi culturali e di reciproche
interazioni», costituisca una delle non poche correzioni che l’etnografia greca, la
ancor troppo misconosciuta etnografia, ha saputo apportare, nel confronto con le
culture altre, ai propri ‘errori’.
Alquanto entusiasticamente ho scritto in altra sede, con il conforto di Pierre
Briant, che l’Ellenismo deve considerarsi un grandioso fenomeno di accultura-
zione, di interazione tra le culture del mondo mediterraneo e del Vicino Oriente12
– fino alla Tarda Antichità, come ha persuasivamente ribadito Glen Bowersock13.

9
Ead., ibid., 24.
10
Ead., ibid., 27.
11
A. Zambrini, Idealizzazione di una terra. Etnografia e propaganda negli Indiká di Megastene,
in Modes de contacts et processus de transformation dans les sociétès antiques. Actes du Colloque
de Cortone, 24-30 mai 1981, Pisa-Roma 1983, 1105-1118; di Zambrini si vd. ancora Gli Indika di
Megastene, I, ASNP s. III, 12, 1982, 71-149; II, ASNP s. III, 15, 1985, 781-853; A proposito degli
Indika di Arriano, ASNP s. III, 17, 1987, 139-154. Per più recenti lavori su Megastene, oltre A.B.
Bosworth, The Historical Setting of Megasthenes Indica, CPh 91, 1996, 113-127 e K. Karttunen,
India and the Hellenistic World, Studia Orientalia 83, Helsinki 1997, 70 ss. si vd. G. Besso Mus-
sino, Il miraggio indiano tra Oriente e Occidente: prospettive su Megastene, in M. Sordi (a cura
di), Studi sull’Europa antica, Milano 2000, 111-125; A. B. Bosworth, Arrian, Megasthenes and the
Making of Myth, in J. A. López Ferez (ed.), Mitos en la literatura griega helénistica e imperial,
Madrid 2003, 299-320.
12
M. Mazza, Grandezza e miseria del mondo ellenistico: modeste considerazioni su un grande
capitolo (SEHHW Ch. VIII), MedAnt 7, 2004, 29-60 (partic. p. 47).
13
G.W. Bowersock, Hellenism in Late Antiquity, Ann Arbor 1990, trad. it. L’ellenismo nel mondo
tardoantico, Roma-Bari 1992.
Epilegomena 229

Documenti come il decreto di Amyzon di Filippo III Arrideo, edito da Jeanne


e Louis Robert14, l’iscrizione di Anu-uballit, governatore di Uruk, del 244 a.C.
(YOS 152)15, o la iscrizione di Sophytos recentemente pubblicata da Bernard-
Pinault-Rougemont in JS 200416 testimoniano eloquentemente in tal senso. Ov-
viamente bisogna distinguere tra periodi, situazioni, ambienti sociali e culturali
diversi. Sarebbe assurdo pensare a processi uniformi. Appunto un caso particola-
re affronta la puntuale relazione di Franca Landucci Gattinoni: le testimonianze
relative alla presenza di Seleuco in Babilonia17. Il confronto tra «fonti letterarie
di matrice ellenica e fonti documentarie babilonesi» induce la studiosa alla con-
vinzione che tale presenza abbia potuto «costituire un paradigma fondamentale
anche per i periodi successivi»18.
Sarebbe inopportuno, in questa sede, ripercorrere in tutte le sue scansioni l’ar-
ticolata indagine della Landucci Gattinoni: l’analisi dell’ingresso di Alessandro
in Babilonia, il significato del rito del «sostituto regale»; l’interpretazione del-
l’oracolo dei Caldei in Diodoro XIX 55, 6-9. Ma una sua considerazione è molto
importante, per quel che concerne l’interrelazione tra Seleuco e Babilonia: alla
prospettiva delle fonti classiche, che dilatano «la Grecità in tutto il territorio un
tempo dominato dai Persiani», risultano assolutamente estranee le fonti docu-
mentarie babilonesi, produzione «... ‘tutta di origine templare’ e sostanzialmente
concentrata sulla propria realtà più immediata» (Del Monte)19. Questa autore-
ferenzialità delle fonti documentarie babilonesi è dalla studiosa ravvisata nella

14
J. et L. Robert, Fouilles d’Amyzon en Carie. I. Exploration, histoire, monnaies et inscriptions,
Paris 1983, 97-118 (per la datazione, p. 98). Sul documento, acuta analisi di P. Briant, Les Iraniens
d’Asie Mineure après la chute de l’empire achemenide (à propos de l’inscription d’Amyzon), DHA
11, 1985, 167-195; si vd. anche l’altro importante contributo di Briant, Colonizzazione ellenistica e
popolazioni del Vicino Oriente: dinamiche sociali e politiche di acculturazione, in S. Settis (a cura
di), I Greci. Storia Cultura Arte Società, 2: Una storia greca. III: Trasformazioni, Torino 1998,
309-333.
15
Y(ale)O(riental)S(eries) 152 – testo edito da T. Clay in YOS 1, pp. 81-84 – e nuovamente da A.
Falkenstein, Topographie von Uruk, I Teil: Uruk zur Seleukidenzeit. Ausgrabungen der Deutschen
Forschungsgemeinschaft in Uruk/Warka 3, Leipzig 1941, 4-5; cfr. anche L.M. Doty, Nikarchos
and Kephalon, in E. Leichty, M. De Jong Ellis e P. Gerardi (eds.), A Scientific Humanist. Studies
in Memory of A. Sachs, Occasional Publications of the S.N. Kramer Fund 9, Philadelphia 1988,
95-118.
16
P. Bernard, G.-J. Pinault, G. Rougemont, Deux nouvelles inscriptions grecques de l’Asie cent-
rale - A - Épigramme funéraire de Sophytos; - B - Dédicace d’Heliodotos à Hestia, pour le salut
d’Euthydème et de Démètrios, JS 2004, 227-356.
17
F. Landucci Gattinoni, Babilonia e i Diadochi di Alessandro: staticità asiatica e dinamismo
macedone, in questo volume, 29-54.
18
Ead., ibid., 40.
19
G.F. Del Monte, Da «barbari» a «re di Babilonia»: i Greci in Mesopotamia, in S. Settis (a cura
di), I Greci. Storia Cultura Arte Società, 3: I Greci oltre la Grecia, Torino 2001, 137-166 (la cit.
a p. 137).
230 Mario Mazza

Cronaca dei Diadochi – della quale la Landucci Gattinoni offre un’attenta analisi
per gli anni 311-308 – e nel c.d. Diario astronomico – 309. Anche per questa
documentazione sono ribadite le precedenti considerazioni: «Mentre le fonti clas-
siche ... interpretano le azioni compiute dai Diadochi a Babilonia dal punto di
vista dei conquistatori macedoni ... le fonti documentarie babilonesi leggono (e
giudicano) le gesta dei Diadochi unicamente in rapporto ai cambiamenti che esse
introducevano nelle condizioni di vita degli abitanti del territorio, disinteressan-
dosi totalmente delle questioni internazionali, che mettevano in connessione il
destino di Babilonia con il resto dell’impero»20.
Sono giudizi molto netti, che vanno indubbiamente sfumati e non indistin-
tamente applicati. La Landucci Gattinoni è la prima a rendersene conto: la sua
interpretazione di un testo come la famosa Profezia dinastica è a questo propo-
sito molto misurata e sostanzialmente condivisibile. In questo importante testo i
rapporti di interazione culturale si rivelano operanti. Come per la Kuhrt e per la
Sherwin-White, anche per la Landucci Gattinoni la Profezia dinastica rappresen-
terebbe «... una testimonianza importante ed esplicita del rapporto di collabora-
zione instauratosi tra Seleuco e il clero babilonese, nel cui ambiente questo testo
sarebbe stato elaborato, proprio per mostrare al nuovo dinasta i desiderata della
società epicoria ...»21. Interazioni culturali ancor più evidenti in un testo come il
Cilindro di Borsippa, «... il primo documento babilonese nel quale un sovrano
di origine macedone appare perfettamente inserito nella realtà indigena»22. Di
questo documento, nel quale Antioco I, oltre a presentare la sua persona rega-
le, espone i suoi interventi a favore dei templi del dio Borsippa – ed anche per
l’Esagila di Babilonia – Biagio Virgilio ha dato la più corretta interpretazione
quando ha fatto rilevare che l’intervento del monarca seleucide è coscientemente
regolato in modo tutto conforme «... alla ideologia reale ed ai formulari religiosi
di antichissima data»23.
I processi di interazione culturale non sono processi unidirezionali, e statici
– sono processi dinamici, che si svolgono nei due sensi, costituiscono ‘a two-way
traffic’. I conquistatori macedoni hanno tratto parecchio, sul piano culturale, re-
ligioso, della vita quotidiana, dall’Oriente conquistato. Non si tratta di riprendere
la vecchia formula Ex Oriente lux –il nostro compito è invece spiegare questi
processi, individuare queste acquisizioni. Senza astrazioni, e prevenzioni. Devo
sinceramente confessare che, pur grandemente apprezzando la competenza filolo-

20
Landucci Gattinoni, Babilonia e i Diadochi di Alessandro, cit., 48.
21
Ead., ibid., 51.
22
Ead., ibid., 53-54.
23
B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora. Il re e la regalità ellenistica, Studi Ellenistici 11, Pisa
2003², 74.
Epilegomena 231

gico-storica, l’erudizione che caratterizza la relazione della collega, non mi sento


tuttavia di condividere la sua conclusione che «... in Oriente, già durante il regno
del figlio di Seleuco, nella generazione degli Epigoni, il dinamismo macedone
dei Diadochi si era ormai integrato e cristallizzato ‘all’interno di una ideologia
babilonese immutabilmente esclusiva, autoreferente e totalizzante’, in un quadro
di staticità sociale tesa soltanto a perpetuare la sua stessa esistenza»24.

3 – Processi di interazione culturale, dunque. Il bel contributo di Lucia Criscuo-


lo25 tocca uno dei punti caldi di quell’«academic battlefield» (D. Rathbone)26 che
è la moderna discussione sull’economia dell’Egitto ellenistico – e più in gene-
rale, sull’economia antica, all’interno della quale il dibattito sull’economia la-
gide, da Rostovtzeff alla Préaux, a Rathbone, a Manning, ha tenuto sempre un
ruolo preminente27. Perpetuare il dogma – che tale non può altro ritenersi – di
una principiale impermeabilità ed immutabilità dell’assetto socioeconomico, dai
Faraoni alla conquista romana – o cogliere ed intendere la qualità e quantità delle
trasformazioni attraversate dall’economia egiziana dal III al I secolo a.C. in con-
seguenza della conquista macedone e del suo ingresso, con la dinastia lagide, nel
concerto delle potenze ellenistiche? La Criscuolo, ça va sans dire, da seria stu-
diosa sceglie la seconda posizione. Il suo intento dichiarato è «... di verificare se e

24
Landucci Gattinoni, Babilonia e i Diadochi di Alessandro, cit., 54.
25
L. Criscuolo, Gli egiziani e la cultura economica greca: qualche documento riconsiderato, in
questo volume, 55-69.
26
D.W. Rathbone, The Ancient Economy and Graeco-Roman Egypt, in L. Criscuolo e G. Geraci (a
cura di), Egitto e storia antica dall’Ellenismo all’età araba. Bilancio di un confronto. Atti del Col-
loquio Intern., Bologna, 31 agosto - 2 settembre 1987, Bologna 1989, 159-176 (la cit. a p. 159).
27
Recenti interventi su questo tema: M. Mazza, Introduzione a M.I. Rostovtzeff, Per la storia
economica e sociale del mondo ellenistico-romano. Saggi scelti, a cura di T. Gnoli e J. Thornton,
Catania 2002², VII-LXXXIX, partic. XXVI-XLVIII; J.K. Davies, Hellenistic Economies in the
Post-Finley Era, in Z.H. Archibald - J.K. Davies - V. Gabrielsen - G.J. Oliver (eds.), Hellenistic
Economies, London-New York 2001, 11-62, partic. 39-45; After Rostovtzeff, MedAnt 7, 2004, 15-
20; J. Manning, The Relationship of Evidence to Models in the Ptolemaic Economy (332 B.C.-30
B.C.), in J.G. Manning - I. Morris (eds.), The Ancient Economy, Evidence and Models, Stanford
2005, 163-186; i saggi di Sitta von Reden, Money and Coinage in Ptolemaic Egypt. Some Prelimi-
nary Remarks, in B. Kramer - W. Luppe - H. Maehler - G. Poethke (hrsgg.), Akten des 21. intern.
Papyrologenkongresses, Berlin 13-19/8/1995, APF Beih. 3, Stuttgart-Leipzig 1997, 1003-1008;
The Politics of Monetization in Third-Century B.C. Egypt, in A. Meadows - K. Shipton (eds.),
Money and Its Uses in Greek World, Oxford 2001, 65-76; Money in the Ancient Economy: A Sur-
vey of Recent Research, «Klio» 84, 2002, 141-174; E. Manning, Land and Power in Ptolemaic
Egypt: The Structure of Land Tenure, 332-30 B.C., Cambridge 2003 (ed il precedente contributo
The Land-tenure Regime in Ptolemaic Upper Egypt, in A. Bowman & E. Rogan [eds.], Agriculture
in Egypt: from Pharaonic to Modern Times, PBA 96, Oxford 1999, 83-105). Vanno sempre tenuti
presenti i saggi ristampati nei capitoli 13-16 di J. Bingen, Hellenistic Egypt: Monarchy, Society,
Economy, Culture, Ed. with an Introduction by R.S. Bagnall, Berkeley 2007, 157-228.
232 Mario Mazza

in che misura la cultura economica greca abbia influenzato e modificato l’assetto


di alcune delle relazioni economiche nella parte egiziana del regno tolemaico,
ovvero ne sia stata trasformata» – giustamente assumendo «la diffusione della
moneta come strumento di scambi, insieme alla predominanza della produzione
granaria» ad elemento-cardine per la definizione della presenza greca in Egit-
to28. Proprio su questo punto gli studiosi hanno aspramente dibattuto, cercandone
di misurare la portata e le conseguenze; ma le posizioni scettiche, specie per il
periodo tolemaico e per il mondo indigeno, hanno prevalso, non solo lasciando
insoluto il problema, ma anche con ciò ponendo «i presupposti di una più difficile
comprensione anche di fenomeni successivi».
Coerentemente la Criscuolo attacca alla base un caposaldo della tesi della per-
sistenza, nell’economia tolemaica, non solo di una mentalità, ma di effettivi isti-
tuti economici dell’Egitto pre-greco, cioè l’uso ‘monetale’ del grano ed in genere
dei prodotti agricoli29. Com’è noto, tale uso è ipotizzato nell’interpretazione di
conti di versamenti in grano – e di prodotti agricoli a questo equiparati – ed in do-
cumenti di contabilità privata: donde la conseguente ipotesi che quindi il grano,
e prodotti analoghi, svolgessero una funzione monetaria, fungessero cioè da va-
luta. Deduzione/ipotesi largamente diffusa, ma illecita – e sul piano economico,
fondamentalmente sbagliata. L’analisi senza pregiudizi di documenti-base come
P.Lond. VII 1994 e 199530 non risulta confortare i fautori del primitivismo econo-
mico applicato all’economia lagide: come con decisione conclude la Criscuolo,
«... Ciò che sicuramente si può escludere, dato il contesto e proprio perché si trat-
ta di documenti provenienti dall’amministrazione della dorea di Apollonios (per
antonomasia greca), è che l’equivalenza tra il grano e le altre sementi avesse una
28
Criscuolo, Gli egiziani e la cultura economica greca, cit., 56, 60.
29
Ead., ibid., 60-61. Per una caratterizzazione dell’economia egiziana come economia in natura,
contrapposta ad un’economia caratterizzata dallo scambio monetario, si vd. ad es. A.E. Samuel, The
Money Economy and the Ptolemaic Peasantry, BASP 21, 1984, 187-206; J. Rowlandson, Money
Use among the Peasantry of Ptolemaic and Roman Egypt, in Meadows - Shipton (eds.), Money and
Its Uses, cit. supra (n. 27), 145-155. Una particolare posizione quella della compianta Alessandra
Gara, Limiti strutturali dell’economia monetaria nell’Egitto tardo-tolemaico, in B. Virgilio (a cura
di), Studi Ellenistici 1, Pisa 1984, 107-134; Il significato economico della politica monetaria nel-
l’Egitto ellenistico, in Stato Economia Lavoro nel Vicino Oriente antico, Milano 1988, 128-137;
A. Gara - D. Foraboschi, Sulla differenza tra i tassi d’interesse in natura e in moneta nell’Egitto
greco-romano, in R.S. Bagnall - G.M. Browne - A.E. Hanson - L. Koenen (eds.), Proceedings of the
Sixteenth International Congress of Papyrology, New York 24-31 July 1980, Chico 1981, 335-343;
A. Gara - D. Foraboschi, L’economia dei crediti in natura (Egitto), «Athenaeum» 60, 1982, 69-83;
D. Foraboschi, Civiltà della moneta e politica monetaria nell’Ellenismo, in B. Virgilio (a cura di),
Studi Ellenistici 4, Pisa 1994, 173-186; The Hellenistic Economy: Indirect Intervention by the Sta-
te, in E. Lo Cascio - D.W. Rathbone (eds.), Production and Public Powers in Classical Antiquity,
Cambridge 2000, 37-43; Stratagemmi finanziari e teorie economiche, MedAnt 7, 2004, 557-568.
30
F.G. Kenyon - H.I. Bell - T.C. Skeat, Greek Papyri in the British Museum, VII, London 1974,
101-130 (con la puntuale introduzione dello Skeat, 97-101).
Epilegomena 233

funzione monetale e rappresentasse quindi un segno della persistenza di un’eco-


nomia naturale di origine faraonica»31.
Alle stesse conclusioni la Criscuolo perviene dalla considerazione di P.Cairo
Zen. V 59825 (del 24 maggio 252 a.C.) – documento che, correttamente conte-
stualizzato, non mostra alcuna evidenza di un valore monetale del grano –, di
P.Tebt. III 832 (fine II d.C.) e di SB XVI 1267532. Documenti che mostrano come,
senz’alcun dubbio, tutto il meccanismo economico regolante la produzione agri-
cola fosse basato su una cultura monetaria e non su un’utilizzazione del grano in
sostituzione di specie monetaria: una eventuale ‘tesaurizzazione’ del grano, o di
altri prodotti, era chiaramente fatta per scopi di mercato. In SB XVI 12675, conto
di una serie di spese sostenute dal carpentiere Petermouthis, la valutazione totale
viene espressa in moneta enea. Il grano, come altri generi, non appare costituire
circolante. È peraltro noto che, già a partire dal III secolo a.C. le retribuzioni di
lavoro si disponevano sul doppio registro sia del salario in denaro sia, ad integra-
zione, di un corrispettivo in natura a volte calcolato, come si vede dal sopra citato
P.Cairo Zen. V 59825, proprio in denaro.
Il problema è certamente complesso e non sembra presentare soluzioni univo-
che. Comunque, i documenti addotti dalla Criscuolo non mostrano confortare la
tesi ‘continuistica’, che l’Egitto tolemaico abbia mantenuto un sistema economi-
co autoreferenziale, impermeabile ai sistemi esterni, fondato prevalentemente,
se non esclusivamente sull’economia naturale. Certo, ci saranno anche state si-
tuazioni locali, connesse con la gestione del settore agricolo dell’economia. Ma
la moneta, la circolazione monetaria, aveva il suo spazio, non secondario, e cer-
tamente non irrilevante. L’idea dell’economia ‘chiusa’ tolemaica si mostra am-
piamente superata. L’Egitto, la monarchia lagide, faceva parte del sistema degli
stati ellenistici. Per dirlo con la Criscuolo: «La ‘monetarizzazione’ e soprattutto
l’inserimento in un mercato mediterraneo più ampio e vivace, rispetto a quello
conosciuto nel passato faraonico o persiano, non solo introdussero il parametro
monetale nella misurazione e nella valutazione della produzione agricola, ma
trasformarono i comportamenti e le mentalità encorii, non di rado con risultati
sorprendenti per la stessa amministrazione greca che forse, con il tempo, mostrò
di non saper far fronte a sua volta a possibili espedienti o artifici con la stessa
elasticità»33.
31
Criscuolo, Gli egiziani e la cultura economica greca, cit., 63.
32
P.Cairo Zen. V 59825: Zenon Papyri, Catalogue général des antiquités égyptiennes du Musée du
Caire, V, ed. from Edgar’s notes posthumously by O. Guerand and P. Jouguet, Publ. Soc. Found 5,
Le Cairo 1940, 22-24; P.Tebt. III 832: B.P. Grenfell - A.S. Hunt and others, The Tebtunis Papyri
III, London 1938, 13-18; SB XVI 12675: H.-A. Rupprecht, Sammelbuch griechischen Urkunden
aus Aegypten, XVI, Berlin-Strassburg, 1985, 287-288 (vd. anche J.G. Keenan - M. Toumazou,
Ptolemaic Account (P.Tebt. 131), ZPE 41, 1981, 263-269 per una accettabile edizione).
33
Criscuolo, Gli egiziani e la cultura economica greca, cit., 69.
234 Mario Mazza

4 – Iranismo ed Ellenismo sono le polarità entro le quali Antonio Panaino giu-


stamente si muove per interpretare, nelle iscrizioni di Antioco I di Commagene,
nozioni fondamentali dell’ideologia regale ellenistica come tuvch e carakthvr34.
Io dubito di possedere tutte le competenze necessarie per valutare, nelle sue com-
plesse articolazioni ed implicazioni, l’importante contributo di Panaino; non esi-
terò tuttavia a dire ciò che all’esperienza dello studioso di storia greca e romana
appare particolarmente rilevante. In primo luogo l’argomento – che determina
il metodo. Molto sensatamente, Panaino rifugge da concetti come sincretismo,
emprunts culturali o religiosi; a lui,
il caso della Commagene di Antioco I – cito testualmente – offre il destro per
meglio comprendere alcune delle complesse dinamiche sia di interazione ma
anche di differenziazione culturale determinatesi nell’incontro, non sempre
ostile, tra un mondo iranico occidentale ed ellenismo orientale .... Infatti, la
Commagene palesa l’esito di un duplice fenomeno, quello dell’ellenizzazione
dell’elemento autoctono, anche iranico, ma, di converso, l’iranizzazione, al-
meno parziale, dell’elemento ellenistico. Le iscrizioni di Antioco I ed i culti in
esse attestati ... costituiscono una fonte di continuo interesse e ci impongono
una sorta di sfida concettuale ininterrotta35.

Ci si perdoni la lunga citazione. Almeno a mia impressione, Panaino affronta


e supera vittoriosamente questa sfida. Non ritengo sia il caso, ovviamente, di
riesporre in tutte le sue articolazioni la sua complessa relazione; mi fermerò su al-
cuni punti particolarmente significativi. Ad es., discutendo dell’iscrizione BEc36
lo studioso giustamente insiste su una formulazione di Antioco, nella quale il
sovrano di Commagene dichiara di aver innalzato non solo le immagini degli dei,
ma anche «... la rappresentazione della mia [i.e. di Antioco] propria forma rice-
vendo le benevolenti mani destre degli dei (... ajgavlmasi daimonivoi~ carakth`ra
morfh`~ ejmh`~ decovmenon qew`n eujmenei`~ dexia;~ parevsthsa)»37. Carakthvr,
carakthrivzw sono termini importanti, che hanno una lunga storia nella costru-
zione dell’ideologia regale38, in età tardoantica utilizzati da Eusebio di Cesarea
nel Triakontaeterikos, da Giuliano, da Menandro «Protettore» in una famosa let-

34
A. Panaino, Tuvch e carakthvr del sovrano tra Iranismo ed Ellenismo nelle iscrizioni di Antioco
I di Commagene, in questo volume, 117-131.
35
Id., ibid., 120.
36
Recente ricostruzione del testo, con nuovi apporti, in C. Crowther - M. Facella, New Evidence for
the Ruler Cult of Antiochus of Commagene from Zeugma, in G. Heedemann - E. Winter (hrsgg.),
Neue Forschungen zur Religionsgeschichte Kleinasiens, Asia Minor Studien 49, Bonn 2003, 45-53.
37
BEc 19-21; vd. Crowther - Facella, New Evidence…, cit. supra (n. preced.), 46-47.
38
Si vd. il mio saggio Filosofia religiosa ed imperium in Giuliano, in M. Mazza, Le maschere del
potere. Cultura e politica nella Tarda Antichità, Napoli 1986, 95-148, partic. 134 ss.; vd. anche Eter-
nità ed universalità dell’impero romano: da Costantino a Giuliano, ibid., 211-254, partic. 224 ss.
Epilegomena 235

tera inviata da Cosroe I a Giustiniano, per la firma della c.d. «Pace dei 50 anni»
nel 56239 – Cosroe si autodefinisce qei`o~, «divino», di essere o}~ ejk qew`n carak-
thrivzetai, «colui che è fatto a immagine degli dei». Il riferimento al carakthvr
del sovrano in BEc 19-21, confrontato con N 60-61, in cui è definito suvnqronon
carakth`ra morfh`~ ejmh`~, e l’esplicita menzione della sua ‘forma’ affiancata a
quella della divinità, per Panaino giustamente concorrono «... ad illuminare o, co-
munque, a meglio circostanziare alcune delle premesse su cui, in epoca sasanide,
si sarebbe sviluppata l’ideologia regale del sovrano come essere dalla figura simi-
le a quella degli dei, ovvero divinamente determinata a guisa di icona umana pa-
ragonabile alla superiore sfera degli esseri celesti»40. Figura simile a quella degli
dei, icona umana – ma non propriamente «dio». Non va trascurato il fatto che alla
giustapposizione di un’immagine del sovrano a quella degli dei va anche connes-
sa la menzione della Tuvch in BEc l. 18 (Tuvch~ ejmh`~)41: il richiamo all’assistenza
degli dei, e l’esigenza di enfatizzare (e forse giustificare) la presenza della propria
immagine insieme a quella degli dei, implicitamente suggerirebbero, osserva Pa-
naino, che anche Antioco I «... non pensasse di essere un ‘dio’ esattamente alla
stregua di Zeus Oromasdes e degli altri precedentemente citati»42.
Siamo indubbiamente indotti a riflettere, dalla relazione di Panaino, sull’in-
tricato mélange greco-iranico della Commagene43: su Mitridate Eupatore che,
festeggiando nell’81 a.C. la vittoria sui Romani, sacrifica a Zeus Stratios seguen-
do il rituale dei re persiani a Pasargadae44; sulle divinità che a Nemrud Dagh
indossano la tiara persiana; su Zeus-Oromasdes e Apollo-Mithra che impugnano
il baresman, il fascio di rami necessario al rituale mazdaico45; sulla dexiosis di

39
Eus. Triak. 4, 2 (203, 6-9 Heikel); Iulian. or. 10, 336 a (2, 2, 70 Lacombrade); Menander in R.C.
Blockley, The History of Menander the Guardsman, Introductory Essay, Text, Translation, and
Historiographical Notes, Liverpool 1985, 62-63.
40
Panaino, Tuvch e carakthvr del sovrano, cit., 122.
41
Sul concetto di Tuvch personale del sovrano, connesso con quello di daivmwn, mi limito a ricordare
il contributo di G. Sfameni Gasparro, Daimôn and tychê in the Hellenistic religious experience, in
P. Bilde - T. Engberg-Pedersen - L. Hannestad - J. Zahle (eds.), Conventional Values of the Helle-
nistic Greeks, Aarhus 1997, 67-109.
42
Panaino, Tuvch e carakthvr del sovrano, cit., 123.
43
Sulla Commagene, oltre R.D. Sullivan, The Dynasty of Commagene, ANRW II.8, Berlin-New
York 1977, 732-798 (sulla storia dinastica), si vd. più recentemente M. Facella, La dinastia degli
Orontidi nella Commagene ellenistico-romana, Studi Ellenistici 17, Roma 2005.
44
App. Mithr. 65-66; sul passo, oltre a M. Boyce - Fr. Grenet, A History of Zoroastrianism, III: Zo-
roastrianism under Macedonian and Roman Rule (with a Contribution by R. Beck), Leiden 1981,
293-294, si vd. più recentemente A. Mastrocinque, Studi sulle guerre mitridatiche, «Historia» Ein-
zelschr. 124, Stuttgart 1999, 105-106.
45
Mary Boyce, in Boyce - Grenet, A History of Zoroastrianism, III, cit. supra (n. preced.). 331.
236 Mario Mazza

Antioco con le divinità46; su crovno~ a[peiro~ (nel nomos della grande iscrizione:
A 83) e su crovno~ aijwvnio~ che sembra rimandare al concetto di Zurvan akarana,
il tempo senza limite della cosmologia zoroastriana47; sull’ascesa della yuch`~
fuvs in a[fqarton («della natura incorruttibile dell’anima») di Mitridate Kalli-
nikos, padre di Antioco, «alla casa eterna dei beati», in A 34; sul concetto di «vita
buona» (bivon ajgaqovn : A 243), per coloro che manterranno il culto di Antioco,
che sembra richiamare il godimento dello stato di šiyati, di «gioia, quiete» du-
rante la vita e la beatitudine del «giusto» – dell’artǝvan – dopo la morte (come
in un’iscrizione persiana di Serse, in Persepoli)48; sul concetto di eujsevbeia, di
grande rilievo nelle iscrizioni della Commagene, le cui connotazioni religiose e
speculative, soprattutto in contesto iranico, appaiono estremamente significative
sul piano del dualismo etico mazdaico49; sulla concezione della Tuvch di Antioco
I e sul complesso rapporto con il Xvarǝnah iranico, e così via50.
Come prima si diceva, i processi di interazione culturale comportano ‘a two-
way traffic’. La regalità commagenica ne è un lampante esempio: il suo senso
può appunto intendersi solo nell’articolato complesso di categorie e di concetti
reciprocamente intersecantesi ed influenzantesi, nel vero e proprio fenomeno di
interculturalità religiosa e spirituale da Panaino così brillantemente analizzata nel
suo intervento.
In un ampio e importante contributo Tommaso Gnoli affronta decisamente
aspetti controversi dell’identità di Palmira, la mitica ‘isola’ nel deserto, la città
che vasto undique ambitu harenis includit agros51. Identità complessa, già dal
titolo chiarisce Gnoli, alla cui formazione, su un fondo aramaico, concorrono
ugualmente, seppur in modi e forme diversi, Arabi, Greci e Romani, Parti e Per-
siani. Gnoli non manca di rilevare il plurilinguismo di Palmira52 – iscrizioni ara-

46
Si vd. l’intervento di G. Petzl, Antiochos I. von Kommagene im Handschlag mit den Göttern. Der
Beitrag der neuen Reliefstele von Zeugma zum Verständnis der Dexioseis, in G. Heedemann - E.
Winter (hrsgg.), Neue Forschungen, cit. supra (n. 36), 81-84.
47
Sulla discussione tra Ph. Gignoux e Gh. Gnoli intorno alla più o meno arcaicità della dottrina
si vd. A. Panaino, Cronologia e storia religiosa nell’Iran zoroastriano, in E. Gabba (a cura di),
Presentazione e scrittura della storia: Storiografia, epigrafi, monumenti. Atti del Convegno di
Pontignano (aprile 1996), Biblioteca di Athenaeum 42, Como 1999, 127-143.
48
XPh 47-48, 54-56.
49
Eujsevbeia, che traduce nelle iscrizioni bilingui di Aśoka il termine dhamma (scr. dharma), per
il quale invece gli zoroastriani utilizzarono l’aramaico qsyt’, come suppone Panaino, per rendere il
concetto di aša, «la verità e l’ordine cosmico»: cfr. A. Panaino, Rite, parole et penseé dans l’Avesta
ancien et recent, SÖAW, Phil.-hist. Klasse, B. 716, Wien 2004, 76-95.
50
Sul concetto, sia sufficiente rimandare alla puntuale sintesi presentata da Gh. Gnoli, Farr(ah),
Enc. Iran. IX, New York 1999, 312-319.
51
T. Gnoli, Identità complesse. Uno studio su Palmira, in questo volume, 167-198.
52
Gnoli, Identità complesse, cit., 170 ss. Si vd. inoltre K. As’ad - C. Delplace, Inscriptions latines
de Palmyre, REA 104, 2002, 363-400; H.J.W. Drijvers, Greek and Aramaic in Palmyrene Inscrip-
Epilegomena 237

maiche e greche si accompagnano ad un buon numero di iscrizioni latine –, ma


esso non costituisce che l’aspetto più appariscente di quello che, anche dal pur
grandissimo Rostovtzeff, è stato a lungo definito il «sincretismo» palmireno53.
Contrapponendosi non solo allo storico russo ma anche ad altri insigni studiosi
come René Dussaud, James-G. Février, Franz Cumont, Gnoli svolge molto giu-
stamente una dura critica al concetto di sincretismo, denunciandone lo scarso,
o nullo valore euristico, osservando che «... il presupposto necessario per cui si
possa parlare di sincretismo è infatti l’esistenza di culture ‘pure’, cioè non sin-
cretistiche, e statiche, che rendano possibile distinguere, nella Vermischung delle
culture sincretistiche, i rispettivi apporti»54. In realtà, non esistono culture ‘pure’,
come apprendiamo dagli antropologi, che a tutte riconoscono un qualche grado di
‘sincretismo’; questo fatto, e la connessa difficoltà di rintracciare, inseguendolo
indefinitivamente all’indietro, il momento ‘originario’, fondativo, di un determi-
nato culto, istituzione, o quant’altro, inficia l’operatività di tale concetto, renden-
dolo sostanzialmente inutilizzabile alla moderna ricerca storica55. Gnoli sceglie
un altro percorso teorico: al posto di «difficili e talvolta imbarazzanti» saggi di
categorizzazione etnica, egli si pone a rintracciare le interazioni culturali prodot-
te, in un processo dinamico, da una comunità che costruisce la propria identità.
In questo processo di autodeterminazione dell’identità culturale è il linguaggio
a costituire il segnale più evidente; non a caso sui fenomeni linguistici si è con-
centrato, in questi ultimi anni, l’interesse della ricerca – a questo proposito Gnoli

tions, in M.J. Geller - J.C. Greenfield - M. Weitzman (eds.), Studia Aramaica: New Sources and
New Approaches. Papers delivered at the London Conference of the Institute of Jewish Studies,
University College London 26th-28th June 1991, JSS Suppl. 4, Oxford-New York 1995, 31-42; F.
Millar, Latin in the epigraphy of the Roman Near East, in H. Solin - O. Salomies - U.-M. Liertz,
Acta Colloqui epigraphici latini: Helsingiae 3-6 sept. 1991 habiti (Commentationes Humanarum
Litterarum 104), 1995, 403-419, ora in F. Millar, Rome, the Greek World and the East, vol. 3: The
Greek World, the Jews, and the East, ed. by H.M. Cotton and G.M. Rogers, Chapel Hill 2006,
223-242.
53
M.I. Rostovtzeff, La Syrie romaine, RH 175, 1935, 1-40.
54
Gnoli, Identità complesse, cit., 172.
55
Gnoli utilizza le decise critiche al concetto di sincretismo di C. Stewart, Relocating Syncretism in
Social Science Discourse, in G. Aijmer (ed.), Syncretism and the Commerce of Symbols, Göteborg
1995, 13-37. Si vd. anche le mie considerazioni in Le religioni dell’impero romano. Premesse
a una considerazione storica della religiosità ellenistico-romana, in Storia, Letteratura e Arte a
Roma nel secondo secolo dopo Cristo. Atti del Convegno, Mantova 8-9-10 ottobre 1992, Firenze
1995, 109-138 – e per un rifiuto, nella pratica concreta della ricostruzione storica, la Parte Prima:
Identità etniche e culture locali sulla frontiera dell’Eufrate (II-IV sec. d.C.). Uno studio sui contatti
culturali, del mio Cultura guerra e diplomazia nella Tarda Antichità. Tre studi, Catania 2005, 11-
115.
238 Mario Mazza

giustamente insiste sulla circostanza, piuttosto singolare, che il latino scompaia


dalle attestazioni epigrafiche proprio quando la città diviene colonia romana56.
Città difficile da decifrare, dunque; e non regge più l’immagine ‘levantina’ di
Palmira, né possono spiegarsi come strane incongruenze appunto ‘levantine’ le
pretese stranezze istituzionali rilevate da qualche studioso57. Né serve lo schema
della ‘creolizzazione’ recentemente impiegato per altri contesti regionali da vari
studiosi58; risulta casomai più funzionale il modello che, nel quadro dei contatti
transculturali specifici del mondo creolo, individua la zona di contatto, lo ‘spazio
terzo’, nel quale le differenti culture interagiscono tra di loro. In tale prospettiva
va considerato il grande problema della storia palmirena, sul quale si è impegnata
tanta parte della moderna storiografia su Palmira: quello della sua ‘arabizzazio-
ne’59. Gnoli è molto reciso su questo punto, anche contro le posizioni di insigni
studiosi: per riprendere la sua formulazione: «Se l’influenza degli Arabi ha in
larga misura determinato la storia di Palmira, non è possibile ovviamente sotto-
valutare gli altri due grandi punti di riferimento nel panorama vicino orientale
antico», l’impero partico, e, con un ruolo ben diverso, il mondo greco-romano60.
Sarò molto rapido nell’esporre i tre punti sui quali Gnoli si sofferma per in-
dicare la natura del rapporto tra Palmira e gli Arabi. Sul primo punto, sul velo61,

56
Gnoli, Identità complesse, cit., 173; cfr. T. Kaizer, The Religious Life of Palmyra: A Study in the
Social Patterns of Worship in the Roman Period, Oriens et Occidens 4, Stuttgart 2002, 27 ss. Sulla
situazione linguistica di Palmira, oltre i lavori citt. supra (n. 52), si vd. D.G.K. Taylor, Bilingualism
and diglossia in Late Antique Syria and Mesopotamia, in J.N. Adams - M. Janse - S. Swain (eds.),
Bilingualism in Ancient Society. Language Contact and the Written Text, Oxford 2002, 298-331;
M. Sommer, Roms orientalische Steppengrenze. Palmyra - Edessa - Dura Europos - Hatra. Eine
Kulturgeschichte von Pompeius bis Diocletian (Oriens et Occidens 9), Stuttgart 2005, 115-123
– entrambi con tendenza ad emarginare il ruolo del latino nella vita pubblica di Palmira nei primi
due secoli d.C.
57
Immagine ‘levantina’ di Palmira: M.I. Rostovtzeff, Città carovaniere, Bari 1971 (ediz. ampliata e
trad. dell’originale inglese Oxford 1932), 93-152 – con le osservazioni di C. Bonnet, Il commercio
carovaniero da Cumont a Rostovtzeff, e di A. Marcone, Palmira e l’idea di città carovaniera, Me-
dAnt 6, 2003, rispettiv. 625-639; 641-659. Singolarità istituzionali: H. Seyrig, Antiquités syriennes
9: L’incorporation de Palmyre à l’empire romain, «Syria» 13, 1932, 266-277 (ora in Id., Antiquités
syriennes, I, Paris 1934, 44-55); Id., Antiquités syriennes 36: Le statut de Palmyre, «Syria» 22,
1941, 155-171 (= Antiquités syriennes, III, Paris 1946, 142-162).
58
J. Webster, Creolizing the Roman Provinces, AJA 105, 2001, 209-225; cfr. in generale R. Chau-
denson, Creolization of Language and Culture, London-New York 2001.
59
Come ad es. nei classici lavori di R. Dussaud, La pénétration des Arabes en Syrie avant l’Islam,
Paris 1955, o di J.-G. Février, Essai sur l’histoire politique et économique de Palmyre, Paris 1931
(e La réligion des palmyréniens, Paris 1931); si vd. però quanto ho scritto in Identità etniche e
culture locali sulla frontiera dell’Eufrate, cit. supra (n. 55), 40 ss. Cfr. anche M.C.A. MacDonald,
“Les Arabes en Syrie” or “La pénétration des Arabes en Syrie”. A question of perception?, in La
Syrie hellénistique, «Topoi» Suppl. 4, Lyon 2003, 303-318.
60
Gnoli, Identità complesse, cit., 177.
61
Tert. virg. vel. 18; si vd. R. De Vaux, Sur le voile des femmes dans l’Orient ancien, RB 44, 1935,
Epilegomena 239

dirò soltanto che, delle varie e fantasiose interpretazioni, egli sembra accostarsi a
quella che ritiene di vedere, nelle donne velate del rilievo del santuario c.d. di Bēl,
degli esponenti femminili della comunità addetta al culto della divinità, i kmr’ dy
Bel, testimoniati in molte iscrizioni palmirene nelle quali il termine kmr’, sacer-
dote, appare riferirsi, al plurale, ad una comunità di fedeli dei due sessi62 – come
fonte della notizia in Tertulliano, egli ragionevolmente ipotizza qualcuno dei sol-
dati palmireni presenti tra le formazioni ausiliarie dell’Africa settentrionale, ad
es. del numerus Palmyrenorum sagittariorum di stanza in Numidia a El-Kantara
(Ad Calceum Herculis), a Timgad e a Lambesi63. Anche sul secondo punto, sul-
l’urbanizzazione di Palmira, sarò brevissimo. Se il sostrato arabo non ha lasciato
tracce sostanzialmente significative sulle istituzioni palmirene – in base almeno
alla attuale documentazione letteraria ed epigrafica – ha tuttavia fortemente con-
dizionato gli studi sulla città. La convinzione di una sua fondamentale ‘arabicità’
ha indotto la gran parte degli studiosi a ritardarne la costituzione come città alla
fine del I secolo a.C.64. Al contrario, fa osservare Gnoli, il famoso passo di App.
B.C. V 9 evidenzia che Palmira era, fin dal 41 a.C., una povli~, una realtà urbana
tale da suscitare gli appetiti predatori del triumviro Antonio65.
Sul commercio palmireno, cioè sul terzo punto, Gnoli presenta osservazioni
acute ed interessanti. In concordanza con tesi esposte da Gary K. Young nel-
l’importante libro sul commercio orientale di Roma66, egli giustamente rifiuta il
determinismo implicito nella convinzione che Palmira sia stata sostanzialmente
una creazione del commercio carovaniero e la sua fondazione una conseguenza
della felice posizione geografica, del rappresentare un naturale crocevia tra le

397-415; cfr. anche la discussione del passo in E. Schulz-Flügel - P. Mattei, Tertullien, Le voile des
vierges. SChr 424, Paris 1997, 266.
62
Gnoli, Identità complesse, cit., 182-183, confrontando con P(almyrene)A(ramaic)T(exts) 1524
etc.
63
Gnoli, Identità complesse, cit., 183-184, in riferimento a E. Equini-Schneider, Palmireni a Roma
e nell’Africa del Nord. Tradizionalismo linguistico e religioso, in E. Campanile - G.R. Cardona
- R. Lazzeroni (a cura di), Bilinguismo e biculturalismo nel mondo antico. Atti del Colloquio inter-
disciplinare tenuto a Pisa, 28-29 sett. 1987, Pisa 1988, 61-66; Ead., Palmireni in Africa: Calceus
Herculis, in A. Mastino (a cura di), L’Africa romana, 5, Sassari 1988, 383-395; Y. Le Bohec, Les
unités auxiliaires de l’armée romaine en Afrique proconsulaire et Numidie sous le Haut Empire,
Études d’Antiquités Africaines, Paris 1989, 116 ss. e passim; J.-B. Yon, Les notables de Palmyre
Inst. Franç. d’Arch. du Proche-Orient, BAH 163, Beyrouth 2002, 271-272.
64
Cfr. ad es. H. Seyrig, Antiquités syriennes 9: L’incorporation de Palmyre à l’empire romain,
cit. supra (n. 57), 44 ss.; Id., Antiquités syriennes 36: Le statut de Palmyre, cit. supra (n. 57), 142
ss.; Id., Palmyra and the East, JRS 40, 1950, 1-7 (= Id., Scripta Varia. Mélanges d’archéologie et
d’histoire, Inst. Franç. d’Arch. du Proche-Orient, BAH 125, Paris 1985, 249-255).
65
Gnoli, Identità complesse, cit., 184-185; cfr. O. Hekster - T. Kaizer, Mark Antony and the Raid
on Palmyra: Reflections on Appian, Bella civilia V, 9, «Latomus» 63, 2004, 70-80.
66
G.K. Young, Rome’s Eastern Trade. International Commerce and Imperial Policy, 31 B.C. -
A.D. 315, London-New York 2001.
240 Mario Mazza

regioni della costa mediterranea e l’Asia ulteriore. Gnoli rovescia la tradizionale


impostazione: non quindi la posizione geografica, il dato naturale, a creare la
funzione economica, ma il dato umano, l’élite socioeconomica e politica palmi-
rena che, sulla base di una precisa strategia economica, si adoperò con successo a
convogliare nella città il commercio di lunga distanza. E, nonostante certe lettu-
re ‘economicistiche’ della c.d. ‘Tariffa fiscale’67, non sarebbe stata un’iniziativa
dirigistica dello stato romano, bensì l’intraprendenza di un ceto di proprietari
agrari e di greggi a porre le basi per l’emergere della grande potenza della città
‘carovaniera’.
Nel suo ricchissimo intervento Gnoli prova anche a ridefinire, ovviamente su
qualche punto, il complesso rapporto della città carovaniera con Roma – e con
l’Oriente partico e sassanide. Ad esempio, egli mostra, riesaminando dei cippi
palmireni68, come una delle «pietre angolari» della ricostruzione di Henri Seyrig,
secondo questo studioso attestante la piena dipendenza di Palmira da Roma a par-
tire almeno dall’età severiana, possa ridiscutersi ed interpretarsi in modo comple-
tamente diverso. Il riesame di questi cippi sembra piuttosto indicare una partico-
lare situazione di Palmira nel quadro dell’impero, definendo una specifica regio
Palmyrena, una Palmurhnhv. Ad analoghe valutazioni – ed alla considerazione
di una sostanziale influenza iranica – sembra anche portare la riconsiderazione
del titolo iranico argapeto (argapet, ajrgapevth~) – titolo «rarissimo a occidente
dell’Eufrate, ma tutt’altro che comune anche a oriente del fiume», precisa Gnoli69
– con il quale in più iscrizioni (PAT 286, 287, 289 e 453) viene indicato un pre-
stigioso esponente del notabilato palmireno della metà del III secolo, Iulius Au-
relius Septimius Vorōd70. Dall’analisi di PAT 285, ed eliminando una clamorosa
svista di Ernst Will71, Gnoli dimostra che il titolo non costituisce una «variante

67
Si vd., ad es., I.S. Schiffmann, Palʾmirskii Poshlinnyi Tarif [La tariffa fiscale di Palmira], Mo-
skau 1980; J. Teixidor, Le tarif de Palmyre, I. Un commentaire de la versione palmyrenienne,
«Aula Orientalis» 1, 1983, 235-252; Id., Un port romain du desert. Palmyre et son commerce
d’Auguste à Caracalla, in Semitica. Cahiers publ. par l’Institut d’Études Sémitiques, 34, Paris
1984. Eccellente commentario epigrafico del testo greco da parte di J.F. Matthews, The Tax Law of
Palmyra. Evidence for Economic History in a City of the Roman East, JRS 74, 1984, 154-180.
68
D. Schlumberger, Bornes frontières de la Palmyrène, «Syria» 20, 1939, 43-73.
69
Gnoli, Identità complesse, cit., 192. Su questo termine si vd. l’esaustivo studio dello stesso Gnoli
in The Interplay of Roman and Iranian Titles in the Roman East (1st-3rd Century A.D.), SÖAW
Philos.-hist. Klasse, B. 765, Wien 2007, 95-113.
70
PIR S 350; PLRE I, 981; cfr. anche U. Hartmann, Das palmyrenische Teilreich. Oriens et Oc-
cidens 2, Stuttgart 2001, 203-211 – e precedentemente, E. Will, À propos de quelques inscriptions
palmyréniennes: le cas de Septimius Vorôd, «Syria» 73, 1996, 109-115; D. Schlumberger, Vorôd
l’agoranome, «Syria» 49, 1972, 339-341.
71
E. Will, À propos de quelques inscriptions palmyréniennes, cit. supra (n. preced.), 115, che
ritiene PAT 285 posta per Septimius Vorōd, qualificato come «procuratore ducenario e stratego»,
come in PAT 286, 287, 289, dove Vorōd è qualificato «procuratore ducenario e argapeto»: donde
Epilegomena 241

esotica» del più comune, e rassicurante, strathgov~, e che Septimius Vorōd non
sarebbe il rappresentante, a Palmira, di una non altrimenti nota comunità persiana,
il patrono di una piccola minoranza. Nei fatti Vorōd è un kravtisto~ ejpivtropo~
doukhnavrio~, un cavaliere romano illustre rappresentante del notabilato, onorato
da cavalieri romani (cfr. PAT 286 e 289). Però con un titolo partico e dopo sassa-
nide (che forse si ritrova nella coeva iscrizione di Šāpuhr), e che induce a riflet-
tere sull’influenza dell’elemento iranico nella società, e nella cultura, palmirena.
Le riflessioni di Gnoli su questo fatto sono penetranti – e condivisibili. Non si
può dubitare che Palmira sia entrata abbastanza precocemente entro la sfera di
influenza romana nel Vicino Oriente. Tuttavia, la presenza di truppe, di funziona-
ri, non deve portare alla «meccanica conclusione dell’inquadramento di Palmira
all’interno della provincia di Siria»72. Almeno fino all’avanzato II secolo Palmira
sarebbe rimasta «una entità formalmente autonoma».
5 – L’attuale antichistica, nei settori più dinamici, sta ridisegnando una sua map-
pa73. La ricerca sull’Oriente ellenistico e romano – ellenistico-romano, si potreb-
be anche, e forse più appropriatamente dire, con formulazione cara agli studiosi
della generazione di Rostovtzeff – risulta indubbiamente uno dei settori in mo-
vimento – ed in espansione. Studiosi come Pierre Briant, Fergus Millar, Maurice
Sartre, Glen Bowersock (e Peter Brown, da una particolare posizione), per non
ricordarne che alcuni, stanno proponendo con i loro lavori un quadro generale
interpretativo sul quale appaiono proficuamente inserirsi le ricerche particolari74.
la assunta sovrapponibilità dei titoli stratego ed argapeto. Equiparazione lampante, solo che, come
dimostra Gnoli, in PAT 285 lo strategos non è il dedicatario dell’iscrizione, cioè Septimius Vorōd,
bensì il dedicante, Iulius Aurelius Nebūzabad!
72
Gnoli, Identità complesse, cit., 195. Sulla fluttuazione della politica romana sul confine orientale,
si vd. il contributo dello stesso Gnoli, Dalla hypateia ai phylarchoi. Per una storia istituzionale del
limes Arabicus fino a Giustiniano, in Ravenna da capitale imperiale a capitale esarcale. XVII Con-
gresso Intern. di Studio sull’Alto Medioevo, Ravenna 6-12 giugno 2004, Spoleto 2005, 495-536.
73
Si vd. le importanti considerazioni poste da Fergus Millar a conclusione della raccolta in tre
volumi dei suoi saggi: Author’s Epilogue: Re-drawing the Map?, in F.M., Rome, the Greek World
and the East: III, The Greek World, the Jews, and the East, ed. by H.M. Cotton and G.M. Rogers,
Chapel Hill 2006, 487-509.
74
Mi limito a ricordare, dei loro lavori: P. Briant, Histoire de l’empire perse de Cyrus à Alexandre,
Paris 1996; Millar, oltre i tre volumi di saggi sopra ricordati, The Roman Near East, 31 B.C.-A.D.
337, Cambridge (Mass.)-London 1993; M. Sartre, L’Orient romain. Provinces et sociétés provin-
ciales en Méditerranée orientale d’Auguste aux Sévères (31 avant J.-C.-235 après J.-C.), Paris
1991; D’Alexandre à Zenobe: l’histoire du Levant antique, IVe siècle avant J.-C.-IIIe siécle après
J.-C., Paris 2001; G.W. Bowersock, Augustus and the Greek World, Oxford 1965; Greek Sophists
in the Roman Empire, Oxford 1969; Roman Arabia, Cambridge (Mass.)-London 1983; Hellenism
in Late Antiquity, Ann Arbor 1990; P. Brown, The World of Late Antiquity. From Marcus Aurelius
to Muhammad, London 1971; Religion and Society in the Age of Saint Augustine, London 1972;
The Making of Late Antiquity, Cambridge (Mass.)-London 1978; Society and the Holy in Late An-
tiquity, Berkeley-Los Angeles 1982; The Body and Society. Men, Women and Sexual Renunciation
in Early Christianity, New York 1988, per non ricordarne che alcune.
242 Mario Mazza

Anche la storiografia italiana, con studiosi giovani e meno giovani, sta muo-
vendosi in questa direzione, abbandonando un certo classicismo e nazionalismo,
incongrua eredità di un passato fortunatamente ormai superato. Non ho certo bi-
sogno, in questa sede, di insistere sull’importanza della ricerca sulla storia del-
l’Oriente ellenistico-romano: importanza sia sul piano metodologico, come luogo
principe dei processi di interazione culturale che appaiono soprattutto caratteriz-
zare il mondo greco-romano, sia sul piano pratico, perché la ricchezza dei suoi
siti archeologici ci dona sempre nuovo materiale documentario. Vi pregherei di
non considerare soltanto un capriccioso paradosso la mia affermazione che, stu-
diando il mondo dell’Oriente ellenistico-romano, riusciamo ad intendere assai
meglio la storia sia greca (classica) che quella di Roma (repubblicana ed anche
imperiale).
Paul Valéry ebbe a definire gli avvenimenti «écume de l’histoire». Non senza
buone ragioni, di fronte alla loro assolutizzazione in una storia puramente évé-
nementielle. Tuttavia gli avvenimenti si sono verificati, hanno una loro realtà e
vanno chiariti – da nuovi documenti, soprattutto. Gli interventi di Biagio Virgilio
e di John Thornton si fondano appunto su nuova, recente, documentazione e chia-
riscono momenti importanti della concreta storia dell’Asia Minore – delle città
d’Asia Minore. Il bel contributo di Virgilio75 riguarda due decreti di Metropolis di
Ionia, in onore del cittadino evergete Apollonio, editi nel 2003 da Helmut Engel-
mann76: il primo decreto (del 144-143 a.C.), elenca i meriti di Apollonio, amba-
sciatore all’estero e in patria «presso i re e gli altri» e benefattore della sua città;
il secondo decreto, più tardo (del 132 o 130 a.C.), reso per la morte in battaglia
di Apollonio, riespone i suoi meriti, ricorda la sua attività politica in favore della
patria, e decreta l’elevazione di una statua di bronzo in suo onore (sovvenzionata
«spontaneamente» dai figli, perciò elogiati nel decreto) ed accorda il permesso
di erigere un heroon di Apollonio davanti alla porta della città. Recuperate le
spoglie di Apollonio, la città potrà celebrare degni funerali, non appena i legati
romani abbiano vinto Aristonico e ristabilito la pace e l’ordine.

75
B. Virgilio, Sui decreti di Metropolis in onore di Apollonio, in questo volume, 71-86.
76
B. Dreyer - H. Engelmann (hrsgg.), IK 63: Die Inschriften von Metropolis, Teil I: Die Dekrete
für Apollonios: Städtische Politik unter den Attaliden und im Konflikt zwischen Aristonikos und
Rom, Bonn 2003. Interventi seguiti alla pubblicazione dei nuovi documenti: C.P. Jones, Events
surrounding the Bequest of Pergamon to Rome and the Revolt of Aristonicos. New Inscriptions
from Metropolis, JRA 17, 2004, 469-485; Ph. Gauthier, BÉ 2004, nrr. 280-282; B. Virgilio, Sulle
città dell’Asia Minore occidentale nel II secolo a.C., in B. Virgilio (a cura di), Studi Ellenistici
16, Pisa 2005, 531-564, partic. 560-563; C. Eilers, JRS 95, 2005, 253-254; B. Dreyer, Rom und
die griechischen Polisstaaten an der westkleinasiatischen Küste in der zweiten Hälfte des zweiten
Jahrhunderts v. Chr. Hegemoniale Herrschaft und lokale Eliten im Zeitalter der Gracchen, in A.
Coškun (hrsg.), Roms auswärtige Freunde in der späten Republik und im frühen Prinzipat, Göt-
tingen 2005, 55-74 (sul secondo decreto).
Epilegomena 243

Anche se nel primo decreto non mancano motivi di interesse – ad es. sulla po-
litica fiscale degli Attalidi e sull’azione di Apollonio, per la quale «egli preservò
la liberalità stabilita per le tasse (di∆ h|~ ejthvrhsen th;n uJpokeimevnhn ejn toi`~
tevlesin filanqrwpivan)»77, philanthropia chiaramente stabilita dagli Attalidi
– è il secondo decreto a particolarmente suscitare l’interesse degli studiosi. Esso
ricorda la morte di Attalo III Filometore nel 133 a.C. ed il sollecito schierarsi dei
Metropolitani con Roma contro Aristonico78 – come opportunamente ricorda Vir-
gilio, «nel dossier epigrafico sulla guerra, il decreto ... contiene ora il riferimento
più esplicito e più dettagliato»79. La conservazione della ejleuqeriva: il decreto è
assolutamente esplicito su questo punto e ad essa è diretta l’azione di Apollonio,
il suo porsi alla guida dei neaniskoi, il suo coraggioso impegno nelle azioni guer-
resche, ed infine la morte in battaglia «… esortando i (suoi) commilitoni, come si
conveniva a lui e alla nostra città, e giudicando essere bello, dopo essersi battuto
per la patria, per i cittadini e per la libertà restituita, avere come sudario la gloria
e l’onore che gli persisteranno ...»80.
Nel suo intervento Virgilio non si prefigge tuttavia la ricostruzione della si-
tuazione storica in cui è impegnato Apollonio, la repressione cioè della rivolta
di Aristonico81. Il suo obiettivo è squisitamente epigrafico. Oltre ad un’assai uti-
le traduzione, completa, dei due decreti, egli in particolare propone delle acute
integrazioni per le ll. 29-31 e 34 del primo decreto. Integrazioni che mi sembra-
no assolutamente accettabili – anche se, oltre a non ritenermi specificamente un
epigrafista, non mi sembra opportuno ripresentare e discutere particolareggiata-
mente le analitiche motivazioni di Virgilio. Se sono in dubbio su e/[ujcavristo~
w\n] aujtw`i di l. 29, mi sembra corretta l’integrazione dia; / [panto;~ kaqistavnai
∆Ap]ollwvnion ktl. di l. 30 – e da respingere, con Virgilio, la restituzione del
nesso ejpisthvmh kai; promhqiva suggerito per il decreto degli Otorkondeis (II-
I secolo a.C.)82, leggendo invece [… t]imh`~ kai; promhqiva~ ajxiou`nte~, come
nel decreto di Apollonio. Sicura anche l’integrazione di l. 31 [aujtou` para; tw`n
povlewn eujfhmivan ajpodidou;~ o{p]w~ sulla base delle ll. 9-10 dello stesso decreto

77
L. 23; sul punto cfr. soprattutto Jones, Events surrounding the Bequest of Pergamon to Rome, cit.
supra (n. preced.), 476-477.
78
Si vd. recentemente l’intervento di P. Brun, Les cités grecques et la guerre: l’exemple d’Aristo-
nicos, in J.-C. Couvenhes - H.-L. Fernoux (sous la direction de), Les cités grecques et la guerre
en Asie Mineure à l’époque hellénistique, Actes de la journée d’études de Lyon, 10 octobre 2003,
Tours 2004, 21-54, partic. 44-52.
79
Virgilio, Sui decreti di Metropolis in onore di Apollonio, cit., 73.
80
Ll. 31-33, nella traduzione di Virgilio.
81
Oltre l’intervento di Jones, cit. supra (n. 76), si vd. recentemente F. Coarelli, Aristonico, in B.
Virgilio (a cura di), Studi Ellenistici 16, Pisa 2005, 211-241, con la preced. bibliografia.
82
Edita da Ed. Hula - E. Szanto, Bericht über eine Reise in Karien, SAAW 132, 2, Wien 1894, 13,
nr. 3 – e poi da W. Blümel, I. Mylasa I 113, l. 7.
244 Mario Mazza

– come anche, sulla base dello stesso criterio di corrispondenza interna (con le
ll. 46-47 del decreto più recente), l’integrazione della l. 33 /[kalw`n kai; ajgaqw`n
ajndrw`n ai{resin ejqevlwsi]n≥ aJmilla`sqai pro;~ ajreth;n ktl.83. Anche probabile,
molto probabile, l’integrazione di l. 34: e[conte~ / [ajreth`~ e{neken kai; eujnoiva~
th`~ eij~ aujto;n th;n tou` Dhvm]o≥u eujcaristivan, per la sua frequenza nei decreti
onorari ellenistici (su altre minori ipotesi di integrazione non mi pare il caso di
pronunciarmi).
Il frammentario decreto di Maronea, recentemente edito (nel 2003) da Ke-
vin Clinton84, suggerisce a John Thornton un densissimo, stimolante, discorso
su nomos, eleutheria e democrazia in una città ‘greca’ dell’impero romano85.
Decreto eccezionale. Eccezionale fin dal prescritto, con la dichiarazione, finora
senza paralleli, del consenso sia dei membri della boulé, sia dei sacerdoti, dei
magistrati, dei cives Romani residenti nella città – ed infine di tutti i cittadini. Ma
soprattutto eccezionale per il contenuto, per la proposta, eccellentemente analiz-
zata da Thornton, del decreto ‘blindato’, equiparato alle leggi e valido in eterno
(aijwvnio~) con il quale, nel caso di un attentato alla libertà ed ai philanthropa
della città, era deputato il compito dell’ambasceria presso l’imperatore ai citta-
dini benemeriti dichiaratisi disponibili mediante una procedura di ejpaggeliva,
nella forma di un giuramento – testo riportato alla fine del decreto, seguito da un
giuramento collettivo, uJpo; pavntwn86.
Nel suo intervento Thornton soprattutto discute, dissentendone, la pur impor-
tante ed acuta interpretazione del decreto presentata da Michael Wörrle87. La tesi
di Wörrle è di carattere generale: secondo l’insigne epigrafista il decreto di Ma-
ronea costituirebbe un momento della transizione dalla polis ellenistica alla polis
imperiale – come suona il titolo del suo contributo – esprimendo una concezio-

83
In parallelismo con quanto si legge alle linee 46-47: o{pw~ kai; oiJ loipoi; eijdovte~ th;n tou` Dhv-
mou ai{resin h}n e[cei pro;~ tou;~ ka/lou;~ kai; ajgaqou;~ tw`n ajndrw`n trevpwntai kai; aujtoi; pro;~
ajreth;n ktl.
84
K. Clinton, Maroneia and Rome: Two Decrees of Maroneia from Samothrace, «Chiron» 33,
2003, 379-417; Id., Two Decrees of Maroneia from Samothrace: Further Thoughts, «Chiron» 34,
2004, 145-148. I due decreti sono di seguito indicati come I e II.
85
J. Thornton, Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea nell’età di Claudio, in questo volume,
139-166.
86
II, ll. 31-40. Su questi due giuramenti cfr. Clinton, Maroneia and Rome, cit. supra (n. 84), 402-
404 – e sul giuramento uJpo; pavntwn, Further Thoughts, cit. supra (n. 84), 147-148 – e Wörrle, nei
due contributi citt. infra, alla nota seguente, rispettiv. 164-166 e 152.
87
M. Wörrle, Maroneia im Umbruch. Von der hellenistischen zur kaiserzeitlichen Polis, «Chiron»
34, 2004, 149-167; Id., La politique des évergètes et la non-participation des citoyen. Le cas de
Maronée sous l’Empereur Claude, in P. Fröhlich et Chr. Müller (éd. par), Citoyenneté et partici-
pation à la basse époque hellénistique. Actes de la table ronde des 22 et 23 mai 2004, Paris, BNF
organisée par le groupe de recherche dirigé par Philippe Gauthier de l’UMR 8585 (Centre Gustave
Glotz), Genève 2005, 145-161.
Epilegomena 245

ne della città non più «als traditionell egalitäre und exklusive Politengemeinde,
sondern als hierarchisch strukturiertes Ensemble von Einwohnern»: non a caso
il plh`qo~ dei cittadini è posto non solo dopo l’élite dei buleuti, ma anche dopo i
cives Romani residenti88. Nella sostanza il decreto segnalerebbe la trasformazione
della boulé in un ordo, dalle modalità di reclutamento simili a quelle del senato
romano. Più recisamente, in un altro intervento, per Wörrle a Maronea la boulé
si sarebbe trasformata in ordo, secondo delle «lois offertes», riorganizzandosi
«selon les idées romaines»89.
Si configurerebbe dunque un diretto intervento di Roma sulle istituzioni citta-
dine. Thornton tuttavia osserva che interventi di tal genere, nell’Oriente di lingua
greca, tranne che per la Bitinia e Ponto riorganizzati da Pompeo, sono documen-
tati solamente «… al termine di fasi di estrema confusione, o di vera e propria
crisi»90: dopo la seconda macedonica in Tessaglia; forse a Rodi, dopo la terza
macedonica; dopo Azio, nelle città della parte antoniana; forse a Cizico, sotto
Tiberio, con la definitiva revoca della libertà; in Licia, in età claudiana, per Pa-
tara91. Al contrario, crisi di tal genere non sono attestate a Maronea; piuttosto gli
ambasciatori possono elencare, per i philanthropa concessi alla città, tutta una
serie di dogmata senatorii e di apokrimata imperiali. Tra questi philanthropa,
nota ancora Thornton, doveva figurare anche l’autonomia, elemento costitutivo
del privilegio della libertà; quel che i Maroniti chiedevano alle autorità roma-
ne erano non leggi ‘octroyées’, bensì la concessione di continuare a fruire delle
proprie leggi. Nel decreto, il riferimento ai nomoi si accompagna sempre alla
eleutheria ed ai privilegi della città; e confrontando con altri documenti come la
epistula 15 di Afrodisia (dell’imperatore Adriano)92 o la epistula dei divi fratres

88
Wörrle, Maroneia im Umbruch, cit., 156-157; Id., La politique des évergètes, cit., 147 (in cui
rimanda a I. Assos 26, ll. 10-11 per una ripartizione gerarchica della popolazione analoga a quella
di Maronea).
89
Wörrle, La politique des évergètes, cit., 147-148. Sul processo di trasformazione delle boulai
democratiche in età tardoellenistica e romana, oltre al lavoro generale di F. Quass, Die Honoratio-
renschicht in den Städten des griechischen Ostens. Untersuchungen zur politischen und sozialen
Entwicklung in hellenistischer und römischer Zeit, Stuttgart 1993, partic. 382-394, sia sufficiente
rimandare agli interventi di P. Hamon, À propos de l’institution du Conseil dans les cités grecques
de l’époque hellénistique, REG 114, 2001, XVI-XXI; Id., Le conseil et la participation des ci-
toyens: les mutations de la basse époque hellénistique, in Fröhlich et Müller (éd. par), Citoyenneté
et participation à la basse époque hellénistique, cit. supra (n. 87), 121-144.
90
Thornton, Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea, cit., 145.
91
Id., ibid., 145-147, con la relativa documentazione nelle ricchissime note 37-43.
92
J. Reynolds, Aphrodisias and Rome. Documents from the Excavation of the Theatre at Aphrodi-
sias conducted by Professor Kenan T. Erim, together with some related Texts, JRS Monographs 1,
1982, doc. 15, 115-116 (comm. 116-118).
246 Mario Mazza

Marco Aurelio e Lucio Vero alla città di Coronea93, si ha l’impressione, rileva


ancora Thornton, «… che le autorità centrali traducessero in termini di autonomia
i riferimenti ai nomoi delle città libere»94; per queste infatti sembra ingiustificato
pensare ad un’imposizione dall’esterno di leggi ‘costituzionali’, l’autonomia ri-
sultando «elemento irrinunciabile» della loro condizione libera. Al contrario, la
situazione di non libertà è determinata dall’obbligo di sottostare, con il tributo e
l’occupazione militare, a leggi imposte dall’esterno; risulta comprensibile che,
nella concessione della libertà, fosse anche esplicitamente indicato il diritto di
autonomia, suis legibus uti – autonomia, immunità, assenza di occupazione mili-
tare sono i tre elementi nei quali appare scomporsi la condizione di libertà, già nei
documenti ellenistici analizzati da J.-L. Ferrary per i precedenti ellenistici della
proclamazione della libertà ai Greci, nel 196 a.C.95.
Più complesso, e meno trasparente, il rapporto tra democrazia e libertà, nello
yhvfisma aijwvnion nomoqethqevn di Maronea. Per Wörrle, che ha un giudizio as-
sai duro sulla procedura straordinaria in esso proposta, questo «décret novateur»,
con la sua approvazione, consentirebbe di cogliere il momento in cui il popolo
appare emarginato dalla vita politica, per lasciare il posto al regime dei notabili96.
Donde l’importanza del documento per la storia sociale ed istituzionale della po-
lis in età postclassica: contro i dubbi ad es. di un Christian Habicht97 esso costitui-
rebbe una prova concreta per la tesi della formazione, nelle città tardoellenistiche
e romane, di un Honoratiorenschicht, e di un Honoratioregime, dell’emergenza
di un regime di notabili nel quale, per usare la formulazione di Habicht, «… die
Vermögenden und die Gebildeten … ‘überschatteten’ die demokratischen Insti-
tutionen wie Volkversammlung, Rat und Gerichte»98 – in certo modo provando

93
J.H. Oliver, Greek Constitutions of Early Roman Emperors from Inscriptions and Papyri, MAPhS
178, Philadelphia 1989, docs. 117-118, 263-264 (transl. a. comm. 272-273).
94
Thornton, Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea, cit., 148.
95
J.-L. Ferrary, Philellénisme et impérialisme. Aspects idéologiques de la conquête romaine du
monde hellénistique, de la seconde guerre de Macedoine à la guerre contre Mithridate, BEFAR
271, Rome 1988, 83 ss.
96
Wörrle, La politique des évergètes, cit., 160, con il rimando alle considerazioni di L. Robert,
Théophane de Mytilène à Costantinople, CRAI 1969, 42-64, partic. 42-44 (cfr. anche, dello stesso,
Recherches épigraphiques VII. Décret de la Conféderation Lycienne à Corinthe, REA 62, 1960,
324-342, partic. 325-326 = Opera Minora Selecta II, Amsterdam 1969, 840-858, partic. 841-842);
sulla stessa linea G. Thériault, Évérgetisme grec et administration romaine: la famille cnidienne de
Gaios Ioulios Théopompos, «Phoenix» 57, 2003, 232-256, e Ph. Gauthier, Introduction, in Fröhlich
et Müller (éd. par), Citoyenneté et participation à la basse époque hellénistique, cit., 1-2 – e Les
cités hellénistiques: épigraphie et histoire, cit., 91 ss.
97
Chr. Habicht, Ist ein «Honoratiorenregime» das Kennzeichen der Stadt im späteren Helleni-
smus?, in M. Wörrle u. P. Zanker (hrsgg.), Stadtbild und Bürgerbild im Hellenismus, Kolloquium
München, 24. bis 26. Juni 1993, München 1995, 87-92.
98
Id., ibid., 89.
Epilegomena 247

l’emarginazione dell’assemblea popolare, esso rappresenterebbe l’anello di con-


giunzione fra la polis ellenistica e la città imperiale99.
Thornton sceglie un’altra linea interpretativa, per il decreto. Nella prospettiva
di Wörrle, egli rileva, sembra ridursi a mero pretesto il problema della difesa dei
privilegi della città, mentre è posta in primo piano la questione dell’attacco al
ruolo politico dell’assemblea – e della sistemazione giuridica dei processi sociali
svoltasi nella transizione dal tardo ellenismo all’età romana. La ‘blindatura’ del
decreto, nell’interpretazione di Wörrle, avrebbe avuto sostanzialmente lo scopo
di impedire una reazione del demos all’attacco ai poteri dell’assemblea, e non
quello apertamente dichiarato di opporsi, rapidamente e efficacemente, ad ogni
eventuale deminutio dei philanthropa cittadini, e di bloccare ogni manovra ostru-
zionistica al tentativo di difenderne le prerogative. Per Thornton invece, dal mo-
mento che l’approvazione dell’aijwvnion yhvfisma era primariamente volta alla
sicura ed immediata disponibilità di un’ambasceria – di un gruppo di ambasciato-
ri – a recarsi presso gli Augusti e, correlativamente, alla assoluta impossibilità di
ostacolarne la missione, la domanda da farsi è piuttosto «… se, ed eventualmente
per quali vie, la procedura approvata a Maronea poteva rispondere all’esigenza
di difendere la libertà e gli altri privilegi della polis meglio della prassi tradizio-
nale»100. Bisogna dunque interrogarsi sulla natura delle minacce che portarono
alla ‘blindatura’ dello yhvfisma aijwvnion, con provvedimenti eccezionali intesi
a garantirne stabilità ed efficacia – chiedersi, nella sostanza, chi poteva avere
l’interesse a bloccare eventuali ambascerie all’imperatore in difesa dei privilegi
cittadini101. Questione che si può porre anche in altri termini: cioè «... se, in con-
dizioni normali, in assenza cioè di tensioni sociali dirompenti all’interno della
polis, la classe dirigente (i notabili) potesse aver maturato una posizione diversa
da quella del plethos (la maggioranza dell’assemblea), sulla questione della liber-
tà della città all’interno dell’imperium Romanum»102.
Se sul punto specifico del decreto non risultano di molto aiuto le considerazio-
ni che nei Politika; paraggevlmata Plutarco svolge sull’atteggiamento dei ceti
dirigenti delle città greche nei confronti delle autorità romane103, sembra invece

99
Wörrle, La politique des évergètes, cit., 160-161; cfr. il consenso di C. Vial, Conclusion générale,
in Fröhlich et Müller (éd. par), Citoyenneté et participation à la basse époque hellénistique, cit.,
275-282, partic. 280.
100
Thornton, Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea, cit., 159.
101
Id., ibid., 161.
102
Id., ibid., 162.
103
Sui Politikà parangelmata ha acute osservazioni J. Thornton, Pistoì symmachoi. Versioni locali
e versione imperiale della provincializzazione della Licia, MedAnt 7, 2004, 247-286, partic. 273
ss.; ultimam. L. De Blois, Classical and Contemporary Statesmen in Plutarch’s Praecepta, in L.
De Blois, J. Bons, T. Kessels & D.M. Schenkeveld (eds.), The Statesman in Plutarch’s Works. Pro-
248 Mario Mazza

più proficuo a Thornton, accettando per buone le ansie degli estensori del decre-
to, chiedersi piuttosto da quale parte potessero venire le insidie alla condizione
privilegiata di Maronea, negli anni successivi all’istituzione della provincia di
Tracia. Una possibile, plausibile, risposta è, per Thornton, che i possibili autori
delle manovre ostruzionistiche debbano ricercarsi fra coloro che in qualche modo
avessero interesse, o traessero vantaggi, da una riduzione, o eliminazione, dei
philanthropa di Maronea104. Confrontando con il caso di Colofone, in cui l’autori-
tà romana era sistematicamente intervenuta per favorire l’attore romano o italico,
mentre il convenuto greco era obbligato al giudizio davanti ad un’istanza da lui
ricusata, o altrimenti perdere la cauzione richiestagli105, a Thornton appare legitti-
mo pensare al governatore di Tracia o a cittadini romani residenti in Maronea, o
comunque gravitanti sul territorio della città106 – anche se è difficile precisare in
quali forme tale autorità sarebbe potuta esplicarsi. Il decreto ‘eterno’, con tutte le
garanzie a ‘blindarlo’, è possibile sia stato approvato contro le temute iniziative
di quelle autorità.
In tale interpretazione il decreto di Maronea non dovrebbe essere letto come la
testimonianza di una fase di transizione dalla città ellenistica alla città imperiale,
dalla democrazia ‘politica’ al regime dei notabili; esso piuttosto testimonierebbe,
ancora nell’età di Claudio, la continuità, la vitalità e la forza creativa delle istitu-
zioni democratiche della città: «capolavoro degli ingegnosi politici di Maronea»,
lo stesso consenso, nel prescritto del decreto, dei cives Romani residenti, «con-
senso, estorto – nelle parole di Thornton – sfruttando abilmente la circostanza

ceedings of the Sixth Intern. Conference of the Intern. Plutarch Society, Nijmegen/Castle Hernen,
May 1-5, 2002, vol. I: Plutarch Statesman and His Aftermath: Political, Philosophical and Literary
Aspects, «Mnemosyne» Suppl. 250/I, Leiden-Boston 2004, 57-63; M. Trapp, Statesmanship in a
Minor Key?, ibid., 189-200; B.L. Cook, Plutarch’s “Many Other” Imitable Events: Mor 814 B and
the Statesman Duty, ibid., 201-210. Nel vol. II degli stessi Proceedings si vd. i contributi, più in
generale volti ad analizzare l’atteggiamento di Plutarco sulle forme politiche democratiche e sul
comportamento del popolo, di S. Sāid, Plutarch and the People in the Parallel Lives, e di L. Prandi,
Singolare e plurale nelle Vite greche di Plutarco, vol. II: The Statesman in Plutarch’s Greek and
Roman Lives, «Mnemosyne» Suppl. 250/II, Leiden-Boston 2005, rispettiv. 7-25, 141-156.
104
Thornton, Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea, cit., 166.
105
Per l’attività diplomatica dei colofonii Polemeo e Menippo, per le loro vicende con le autorità
provinciali romane, oltre i lavori di J.-L. Ferrary, Le statut des cités libres dans l’Empire romain
à la lumière des inscriptions de Claros, CRAI, 1991, 557-577; La liberté des cités et ses limites à
l’époque républicaine, MedAnt 2, 1999, 69-84; La création de la province d’Asie et la présence
italienne en Asie Mineure, in Chr. Müller et Cl. Hasenohr (éd. par), Les Italiens dans le monde grec.
IIe siècle av. J.-C. - Ier siècle apr. J.-C. Circulation, Activités, Intégration. Actes de la table ronde,
École Normale Supérieure, Paris 14-16 mai 1998, BCH Suppl. 41, 2002, 133-146, cfr. J. Thornton,
Misos Rhomaion o phobos Mithridatou? Echi storiografici di un dibattito diplomatico, MedAnt 1,
1998, 271-309, partic. 307-308; L. Boffo, La ‘libertà’ delle città greche sotto i Romani (in epoca
repubblicana), «Dike» 6, 2003, 227-249 – con la bibliogr. cit. in questi contributi.
106
Thornton, Nomoi, eleutheria e democrazia a Maronea, cit., 166.
Epilegomena 249

della risposta favorevole dell’imperatore, potrebbe essere apparso tanto instabile


da consigliare di prendere provvedimenti perché, in un caso concreto, il suo venir
meno non comportasse ostacoli alla difesa dei privilegi della città»107.

6 – Il topos della translatio imperii, di uno schema interpretativo della storia


universale alternativo a quello dominante nella storiografia romana dell’età au-
gustea, costituisce lo sfondo comune agli interventi di Federicomaria Muccioli e
di Umberto Roberto108. Si tratta di contributi importanti, che meriterebbero una
discussione forse più approfondita di quella che io possa svolgere in queste mie
considerazioni conclusive. Discutendo la notissima invettiva liviana in IX 18, 6
contro i levissimi ex Graecis, che esaltano le gesta di Alessandro a danno della
grandezza di Roma e che contra nomen Romanum plaudono perfino alla gloria dei
Parti, Muccioli non si impantana nelle secche di una abusata Quellenforschung
(Metrodoro di Scepsi? Memnone di Eraclea? Timagene di Alessandria?)109. Con
più moderna consapevolezza metodologica, egli ritiene più vantaggioso «… ve-
rificare se l’affermazione liviana sia indirizzata contro un’esaltazione estempo-
ranea dei Parti ad opera di uno o più autori greci, oppure se davvero si assista da
parte greca ad una rappresentazione dell’altro, ovvero i Parti, con piena consa-
pevolezza in senso etnografico e conseguentemente storiografico, una rappre-
sentazione che può avere offerto materia per un diverso utilizzo o una rilettura
del tema dell’ajrchv romana e della pretesa di controllare l’intera ecumene, in

107
Id., ibid., 166.
108
F. Muccioli, La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I secolo a.C. e la polemica di Livio
contro i levissimi ex Graecis, in questo volume, 87-115. Per il contributo di U. Roberto, vd. infra,
255 ss.
109
L’excursus liviano in IX 17-19. Della vastissima letteratura mi limito a ricordare, tra i più recen-
ti, il saggio di Ruth Morello, Livy’s Alexander Digression (9.17-19): Counterfactuals and Apolo-
getics, JRS 92, 2002, 62-85 e la monografia di B. Tisé, Imperialismo romano e imitatio Alexandri:
due studi di storia politica, Lecce 2002. Per i possibili obiettivi della critica, soprattutto a Metro-
doro ha pensato S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II 1, Bari 1966, 540-542 (n. 485, ma
non escludendo Timagene e Memnone); su questo storico si vd. J.-M. Alonso-Núñez, Un historien
antiromain: Métrodore de Scepsis, DHA 10, 1984, 253-258; P. Pédech, Deux Grecs face à Rome au
Ier siècle av. J.-C.: Métrodore de Scepsis et Théophane de Mytilene, REA 93, 1991, 65-71 (l’artic.
tutto 65-78). Per Memnone di Eraclea propende A. Braccesi, L’ultimo Alessandro (dagli antichi ai
moderni), Padova 1986, 20 ss. – buona trattazione sullo storico di Eraclea in F. Santangelo, Mem-
none di Eraclea e il dominio romano in Asia Minore, in L. Criscuolo - G. Geraci - C. Salvaterra (a
cura di), Simblos. Scritti di storia antica 4, Bologna 2004, 247-261. Per Timagene si è pronunciato,
in anni ormai lontani, Piero Treves, Il mito di Alessandro e la Roma di Augusto, Milano-Napoli
1953, 58 ss.; cfr. però anche M. Sordi, Timagene di Alessandria: uno storico ellenocentrico e
filobarbaro, ANRW II.30.1, Berlin-New York 1982, 775-797, partic. 777-778 e 796-797 – più
recentem., M. Mahé-Simon, L’enjeu historiographique de l’excursus sur Alexandre (IX, 16, 11-19,
17), in D. Briquel - J.P. Thuillier (éd. par), Le censeur et les Samnites. Sur Tite-Live, livre IX, Paris
2001, 37-63, partic. 42 ss.
250 Mario Mazza

relazione al concetto di translatio imperii nonché a quello dell’imitatio Alexandri


in ambito romano»110.
Muccioli sceglie il secondo percorso. Non posso, e non debbo, qui ripercorrere
il complesso discorso dello studioso; voglio solo indicarne i punti significativi.
Muccioli giustamente insiste sul significato delle guerre di Mitridate I e di Fraa-
te II contro i fratelli seleucidi Demetrio II e Antioco VII111. È con esse che la
monarchia degli Arsacidi, il mondo partico, si apre veramente allo sguardo dei
Greci, non solo sul piano politico-militare, ma anche su quello più strettamente
storiografico ed etnografico. Posidonio dedica ai Parti un excursus nel V libro
delle sue Storie, trattando dei Seleucidi e di Demetrio II112; lo stesso avrebbe fatto
Strabone, come Posidonio continuatore di Polibio, nel VI libro degli ÔIstorika;
uJpomnhvmata, per lo stesso periodo113. In relazione alle stesse vicende, anche altri
autori di storie universali come Nicolao Damasceno o Pompeo Trogo mostrano
vivo interesse per i Parti. È appunto a partire da questo momento che, secondo
Muccioli, si scorge un deciso cambiamento di prospettiva nelle fonti, pressoché
esclusivamente greche, tra II e I secolo a.C.: oltre Polibio, Apollodoro di Arte-
mita, Posidonio e Diodoro e Alessandro Poliistore, che trasmettono fonti prece-
denti114.
Autore di una monografia in almeno quattro libri sui Parti (Parqikav) Apol-
lodoro è indubbiamente uno dei protagonisti della nuova prospettiva115. Egli è
certamente una fonte essenziale, la principale (?) dell’XI libro dei Geographika
straboniani (e forse delle notizie sui Parti nel XVI)116. Scrittore filopartico o ad-
110
Muccioli, La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I secolo a.C., cit., 89.
111
Per un quadro sintetico di queste vicende si vd. la precisa trattazione di Chr. Habicht, The Se-
leucids and their Rivals, CAH² VIII, Rome and the Mediterranean to 133 B.C., Cambridge 1989,
324-387, partic. 369 ss. Si vd. anche C. Lerouge-Cohen, Les guerres parthiques de Demetrios II
et Antiochos VII dans les sources gréco-romaines, de Posidonios à Trogue-Justin, JS 2005, 217-
252.
112
Athen. IV 152f-153a (= FGrHist 87 F 5 = fr. 57 Edelstein-Kidd = fr. 114 Theiler).
113
Strabo IX 9, 3 (= FGrHist 91 F 1; FGrHist 782 F 3); sull’opera straboniana si vd. D. Ambaglio,
Gli Historikà Hypomnemata di Strabone. Introduzione, traduzione italiana e commento dei fram-
menti, MIL 39, 1990, 377-424.
114
Muccioli, La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I secolo a.C., cit., 92.
115
Sullo storico, oltre J.-M. Alonso-Núñez, Un historien entre deux cultures: Apollodore d’Arte-
mite, in M. Mactoux - E. Geny (éd. par), Mélanges Pierre Lévêque, II: Anthropologie et societé,
Paris 1989, 1-6, si vd. le acute notazioni di J.-L. Ferrary, L’«oikoumène», l’Orient et l’Occident
d’Alexandre le Grand à Auguste: histoire et historiographie, in Convegno per Santo Mazzarino,
Roma 9-11 maggio 1991, Roma 1998, 97-133, partic. 109 ss.
116
Cfr. Strabo I 2, 1 e II 5, 12 (= FGrHist 779 F 3a); XI 6, 3-4; F. Altheim - R. Stiehl, Geschichte
Mittelasiens im Altertum, Berlin 1970, 359 ss.; Alonso-Núñez, Un historien entre deux cultures,
cit. supra (n. preced.), 2 ss. Sul libro XI dei Geographika si vd. i contributi raccolti in G. Traina (a
cura di, con la collaborazione di AA. Di Siena e B. Tisé), Studi sull’XI libro dei Geographika di
Strabone, Galatina 2001.
Epilegomena 251

dirittura storico ufficiale degli Arsacidi117? Solo sforzata ipotesi, che non trova
riscontro nei frammenti sicuramente ascrivibili ad Apollodoro. Ha certamente
utilizzato materiale partico, forse anche di carattere ufficiale, trovandosi Artemita
nella Mesopotamia controllata dai Parti. Ma non più di tanto, secondo Muccioli,
per il quale, prudentemente, si può solo «… affermare che Apollodoro, da un
osservatorio certamente privilegiato come Artemita, abbia voluto proporre a un
pubblico greco una realtà orientale (partica, ma anche, battriana e indo-greca) tra-
scurata o per lo meno non approfondita dalla storiografia anteriore, in particolare
Polibio, ormai propensa a scrivere una storia dell’Ellenismo in chiave romano-
centrica»118. Attenzione che non comporta, osserva ancora giustamente Muccioli,
una necessaria ostilità ai Romani, della quale non si trova traccia significativa nei
frammenti pervenutici; peraltro, si poteva facilmente esser considerato misorwv-
maio~ in ambienti greci troppo decisamente filoromani.
Apollodoro era in ogni caso un uomo di cultura greca che scriveva sui Parti.
Ma c’era anche di più: filosofi come Archedemo capace di fondare una scuola
stoica in Babilonia – e re ellenistici, come lo sfortunato Demetrio II che, prigio-
niero per lungo tempo dei Parti, sposa la principessa arsacide Rodogune e adotta
modi e costumi partici119. In realtà la documentazione, specie epigrafica, sugge-
risce rapporti più intensi e significativi di quelli invece denunciati dalla barriera
ideologica delle fonti letterarie: pace Rostovtzeff, e con lui molti altri studiosi,
non dobbiamo pensare ad una, sia pur relativa, impermeabilità delle due cultu-
re, la greca e l’iranica. Al contrario, dobbiamo considerare i rapporti di osmosi
tra le due culture, i processi di interazione culturale che vi si producevano120. In
vario grado ed in varie forme i Parti erano attratti dal mondo greco – ma anche
i Greci erano attratti dalla ‘saggezza straniera’ dei magušaya mesopotamici, dei
brāhmāna indiani, dei Caldai`oi astrologi ed indovini. Concordo con Wiesehöfer
quando ridimensiona la tesi di un vero e proprio tentativo, da parte arsacide, di
integrazione ed equiparazione alle altre monarchie ellenistiche – e con il suo

117
Per Josef Wolski «offizieller Verfasser der Geschichte über die frühe Phase der Arsakiden-Staa-
tes»: così in Schöpften Strabon und Justinus aus der gleichen Quelle bei der Darstellung der frühen
Geschichte Parthiens, «Latomus» 62, 2003, 373-380, partic. 375 – e Alonso-Núñez, Un historien
entre deux cultures, cit., 4.
118
Muccioli, La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I secolo a.C., cit., 96.
119
Cfr. Iustin. XXXIX 1, 3-4 – e V. Messina, More gentis Parthicae. Ritratti barbati di Demetrio
II sulle impronte di sigillo da Seleucia al Tigri, «Parthica» 5, 2003, 21-36, che si differenzia dallo
scetticismo di P.F. Mittag, Beim Barte des Demetrios. Überlegungen zur parthischen Gefangen-
schaft Demetrios’ II, «Klio» 84, 2002, 373-399 (la decisione di Demetrio II di farsi crescere la
barba non sarebbe stata dettata dall’esigenza di adottare la moda partica, ma dalla precisa volontà
di collegarsi a Zeus).
120
Si vd. le considerazioni svolte supra, 227 ss. – e quelle di Tommaso Gnoli, Identità complesse,
in questo volume, passim e 188 ss.
252 Mario Mazza

concetto di bipolarità ‘imperfetta’, per la prevalenza, nel regno partico, dell’ele-


mento iranico rispetto a quello greco-macedone121. Tuttavia, importanti iscrizioni
a Delo mostrano la ricerca degli Arsacidi di una visibilità presso il mondo greco
– e, come giustamente ci ricorda Muccioli, la lettera di Artabano II alla città di
Susa indica la dimestichezza della cancelleria reale con la koinhv ellenistica, con
«aperture anche alla moda atticistica»122.
Nel naufragio della storiografia antica, anche quella dei Parqikav di Apollodo-
ro è una grave perdita. È però un grosso merito di Muccioli aver tratto lo storico
di Artemita fuori dalla tutto sommato oziosa questione di un suo antiromanesimo
~ filopartismo ed averne restituita la fisionomia di serio storico. Muccioli ci in-
duce a considerare come «Apollodoro inquadrasse l’espansione del regno partico
nel quadro delle dinamiche ‘geopolitiche’ asiatiche»123: Apollodoro, nell’esaltare
l’ajrethv della Battriana, celebrava anche le conquiste di Menandro e di Demetrio,
figlio di Eutidemo re di Battriana, capaci di assoggettare più e[qnh che Alessandro
Magno. Di non minore significato la testimonianza apollodorea sull’origine dei
Parti e sulla creazione in Partia di una formazione statale autonoma dall’impero
seleucidico – ma è necessario, per questo punto, rimandare all’analitica, appro-
fondita discussione di Muccioli124.
Se comprensibili ragioni di spazio mi impediscono di discutere articolatamen-
te le acute ed interessanti considerazioni di Muccioli sulla molto dibattuta rap-
presentazione posidoniana dei Parti, mi sembra invece opportuno soffermarmi
sulla originale trattazione che egli ci offre di un frammento di Alessandro Po-
liistore intorno alla successione dei regna orientali (Alex. Pol. FGrHist 273 FF
81a, 81b)125. Frammento noto per fonti bizantine, attraverso Agazia e Sincello – e
forse in Agazia mediato da una Mittelquelle, da un «handbook of chronology»
identificabile con la Cronikh; iJstoriva di Esichio di Mileto126. Comunque sia,

121
Formulato in vari lavori, tra i quali soprattutto ricordo J.W., “King of Kings” and “Philhel-
lên”: Kingship in Arsacid Iran, in P. Bilde - T. Engberg-Pedersen - L. Hannestad - J. Zahle (eds.),
Aspects of Hellenistic Kingship, Aarhus 1996, 55-66, partic. 60 sgg.; Id., “Denn Orodes war der
griechischen Sprache und Literatur nicht unkundig...”. Parther, Griechen und griechische Kultur,
in R. Dittmann (hrsg.), Variatio Delectat: Iran und der Westen. Gedenkschrift für Peter Calmeyer,
Münster 2000, 703-721.
122
C. Bradford Welles, Royal Correspondence in the Hellenistic Period. A Study in Greek Epi-
graphy, New Haven 1934, rist. anast. Roma 1966, nr. 75, 299-300 (comm. 301-306), su cui recen-
tem. R. Merkelbach, Der Brief des Artabanos an die Stadt Susa (= Seleukeia am Eulaios), EA 34,
2002, 173-177.
123
Muccioli, La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I secolo a.C., cit., 98.
124
Id., ibid., 98-102.
125
Agath. II 25, 3-10 Keydell = Sync. 439 ll. 23 sgg. Mosshammer.
126
Ipotesi della Averil Cameron, Agathias on the Sassanians, DOP 23-24, 1969-1970, 67-103,
partic. 107.
Epilegomena 253

con grande probabilità il frammento proverrebbe dai Caldaikav, da una di quelle


monografie ‘regionali’ secondo Jacoby volte a presentare al pubblico romano un
quadro delle genti e delle culture, soprattutto orientali, con le quali Roma entrava
in contatto dopo la conquista, e il riordinamento pompeiano dell’Oriente medi-
terraneo127.
Il passo di Alessandro Poliistore ~ Agazia ripresenta lo schema della translatio
imperii, secondo una successione Assiri – Medi – Persiani – Parti128. Con grandi
confusioni cronologiche e con significative varianti rispetto alla vulgata: la serie
è tutta orientale ed appare evidente l’importanza e la predominanza dei Parti in
Oriente. Prospettiva incline ad uno ‘strabismo’ orientale, questa di Alessandro
Poliistore, o sua parziale ricezione da parte di Agazia (ma anche di Esichio di Mi-
leto) nel quadro della storiografia bizantina e dei suoi interessi129? Molto oppor-
tunamente Muccioli ci ricorda che anche la pressoché coeva storiografia armena,
e particolarmente Mosè di Khorene, mostra interesse per i Parti e per la dinastia
arsacide, anche in ordine alla sua ‘dimensione asiatica’130. L’ipotesi, acuta ed a
mio parere accettabile, di Muccioli è che Alessandro Poliistore, nei Caldaikav o
in altre sue opere, proponesse uno schema bipartito (Oriente ~ Occidente) della

127
F. Jacoby, FGrHist IIIa, Kommentar, Leiden 1934, 250 ss. – e G. Zecchini, Linee di egittografia
antica, in Criscuolo - Geraci (a cura di), Egitto e storia antica dall’Ellenismo all’età araba, cit.
supra (n. 26), 703-713, partic. 709 ss. Su Alessandro Poliistore, sia sufficiente il rimando all’esau-
stivo studio di L. Troiani, Sull’opera di Cornelio Alessandro soprannominato Polistore, in Id., Due
studi di storiografia e religioni antiche, Como 1988, 7-39.
128
Sulla translatio imperii mi permetto di rimandare al mio saggio, Roma e i quattro imperi. Temi
della propaganda nella cultura ellenistico-romana, in Il vero e l’immaginato. Profezia, narrativa e
storiografia nel mondo romano, Roma 1999, 1-42, con la preced. letteratura sul tema. Più recente-
mente, specie per gli imperi orientali, J. Wiesehöfer, The Medes and the Idea of the Succession of
Empires in Antiquity, in G.B. Lanfranchi - M. Roaf - R. Rollinger (eds.), Continuity of Empire (?).
Assyria, Media, Persia, Padova 2003, 391-396; F. Muccioli, Aspetti della translatio imperii in Dio-
doro: le dinastie degli Antigonidi e dei Seleucidi, in C. Bearzot - F. Landucci (a cura di), Diodoro e
l’altra Grecia. Macedonia, Occidente, Ellenismo nella Biblioteca Storica, Milano 2005, 183-222;
L. Cotta Ramosino, Mamilio Sura o Emilio Sura? Alcune considerazioni sulla teoria della succes-
sione degli imperi nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, «Latomus» 64, 2005, 945-958.
129
Muccioli, La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I secolo a.C., cit., 111-112. Sugli in-
teressi della storiografia bizantina nei confronti della storia ‘antica’, si vd. recentemente D. Roques,
L’historiographie protobyzantine (IVe-VIIe siècles) et les fragments des historiens grecs de Rome,
«Ktema» 29, 2004, 231-252; D. Brodka, Die Geschichtsphilosophie in der spätantiken Historiogr-
aphie. Studien zu Prokopios von Kaisareia, Agathias von Myrina und Theophylaktos Simokattes,
Frankfurt a.M. 2004, 152-192 – e il contributo di U. Roberto, in questo stesso volume, 199-214.
130
Mos. Chor. P.H. II 2 (con la concezione del mondo divisa in tre parti: Europa, Asia e Libye, ed ai
Parti spetta l’Asia). Su Mosé di Chorene si vd. i lavori di Giusto Traina, Materiali per un commento
a Movses Corenac‘i, Patmut‘ Iwn Hayoc‘, I, «Muséon» 108, 1995, 279-333; Id., Materiali per un
commento a Movses Corenac‘i, Patmut‘ Iwn Hayoc‘, II, «Muséon» 111, 1998, 95-138 – in corso
di stampa l’importante contributo The Arsacid Past in the Earliest Armenian Historiography, in
Iranian Identities in the Course of History, Convegno della Società Iranologica Europea, ISIAO,
Roma 21-24 sett. 2005.
254 Mario Mazza

translatio, di cui Agazia, nel suo capitolo, utilizzava solamente la parte orienta-
le131.
L’idea dell’Orientis imperium, di un impero partico alternativo e concorren-
ziale a quello di Roma, si riscontra chiaramente nella cultura storica dell’età im-
periale. C’è in Strabone, c’è nella formula di Giustino (Pompeo Trogo): Parthi,
penes quos velut divisione orbis cum Romanis facta nunc Orientis imperium est132.
Trogo, nella sua ‘relativizzazione’ della storia universale operata con l’adozione
dello schema della translatio imperii133, riconosceva l’importanza dei Parti, che
con Roma dividono il dominio del mondo, dopo averla tre volte vinta. Io non
credo che alla base di Strabone e di Trogo ci sia un’identica fonte (Apollodoro di
Artemita o Alessandro Poliistore), consapevole o che intuiva l’ormai incipiente
divisione del mondo in due ‘sfere d’influenza’; ma pare anche a me che il passo
di Agazia ~ Alessandro colga pienamente le due principali tappe della creazione
ed espansione dello Stato partico, prima con il ‘fondatore’ Arsace e poi con il
glorificato Mitridate I, il cui regno, come in Diodoro ~ Posidonio, assurge a di-
scrimine per la creazione di un grande impero partico. Con Muccioli, mi sembra
giusto affermare che nei Caldaikav Alessandro Poliistore proponeva uno schema
della translatio tutto ‘orientale’, dal regno assiro fino all’impero partico, comple-
tamente deviante dalla prospettiva romana134.
Ha in fondo poca importanza determinare il bersaglio di Livio (se Alessandro,
o Metrodoro o il Timagene del Peri; basilevwn, per il quale alla fine Muccioli
sembra propendere). Quel che per Muccioli conta, e mi sembra una corretta po-
sizione, è tener presente che, chiunque si celasse sotto l’epiteto liviano di levissi-
mi, trovava nella tradizione storiografica, già a partire da Posidonio se non dallo
stesso Apollodoro, una rappresentazione almeno parzialmente positiva del regno
partico e dei suoi re135. Rappresentazione che poteva ben essere strumentalmente
utilizzata in funzione antiromana, anche nella formula della translatio imperii
– concetto peraltro autorevolmente impiegato anche dagli autori Greci filoroma-
ni, da Polibio a Dionigi di Alicarnasso, ad Appiano136.
Lo schema interpretativo della translatio imperii, attraverso la storiografia e
la cronografia ellenistica, perviene alla storiografia cristiana con immediata, or-
ganica, sistemazione in Girolamo e Orosio, con più complessa rielaborazione sul

131
Muccioli, La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I secolo a.C., cit., 112.
132
Iust. XLI 1, 1 ~ XLIII 1, 1.
133
Mazza, Roma e i quattro imperi, cit. supra (n. 128), 18 ss. – con la discussione della precedente
letteratura.
134
Muccioli, La rappresentazione dei Parti nelle fonti tra II e I secolo a.C., cit., 114.
135
Id., ibid., 115.
136
Mazza, Roma e i quattro imperi, cit., 36 ss.
Epilegomena 255

versante greco-cristiano: nel suo acuto intervento, Umberto Roberto ne analizza


la presenza, in età giustinianeo-eracliana, in Giovanni d’Antiochia, con l’idealiz-
zazione, in funzione antiassolutista, del mondo repubblicano137.
Rielaborazione più complessa, si diceva, nella cronachistica greco-cristiana.
Se ancora poco sappiamo dire dello schema quale si presentava nelle Chrono-
graphiae di Giulio Africano – ma il gruppo di lavoro guidato da Martin Wallraff
a Basilea, ed in cui lavora anche Roberto, insieme all’altra italiana Laura Mecel-
la, potrà chiarirci molte cose138 – o nel Chronicon di Eusebio di Cesarea, qualcosa
di più si ricava dalla Chronographia di Malala (metà VI sec.) e dal suo modello,
la Cronikh; ejpitomhv di Eustathios di Epifania (fine V sec.)139. Di questa, i fram-
menti pervenutici mostrano una divisione in due parti, la prima narrante la storia
dalla creazione del mondo alla presa di Troia, la seconda da tale evento all’asse-
dio di Amida da parte persiana (502/503)140. Divisione fondamentalmente sim-
bolica; quel che possiamo intravedere è che tanto Eustazio quanto Malala nella
loro ricostruzione non si attenevano rigidamente al solo schema della translatio:
quando proponevano come evento fondamentale della storia universale la presa
di Troia, al modulo della translatio nei fatti collegavano una più tradizionale
concezione ellenocentrica della vicenda del mondo antico141.

137
U. Roberto, Alessandro Magno e la repubblica romana nella riflessione di Giovanni di Antio-
chia, in questo volume, 199-214. Le citazioni dei frammenti di Giovanni antiocheno sono tratte da
Ioannis Antiocheni Fragmenta ex Historia chronica, Introduzione, edizione critica e traduzione a
cura di Umberto Roberto, TU 154, Berlin-New York 2005.
138
È di questi giorni (autunno 2007) l’edizione curata da Wallraff con la collaborazione di Roberto,
dei frammenti delle Chronographiae dell’Africano: Iulius Africanus, Chronographiae. The Extant
Fragments, edited by Martin Wallraff with Umberto Roberto and, for the Oriental Sources, Karl
Pinggéra, transl. by William Adler, Berlin-New York 2007. Su Giulio Africano si vd. ultimamen-
te U. Roberto, Iulius Africanus und die Tradition der hellenistischen Universalgeschichte, in M.
Wallraff (hrsg.), Iulius Africanus und die christliche Weltchronistik, Berlin - New York 2006, 3-16;
Die Einheit der Menschheit und die Chronographiae von Iulius Africanus, «Electrum» 13, 2007,
15-28.
139
Su Malala, oltre la traduzione in inglese della Chronographia (E. Jeffreys - M. Jeffreys - R.
Scott [eds.], The Chronicle of John Malalas, Melbourne 1986) e Ioannis Malalae Chronographia,
rec. I. Thurn, Berlin-New York 2000 (Introd. 1*-4*), si vd. gli importanti contributi raccolti in E.
Jeffreys - B. Croke - R. Scott, Studies in John Malalas, Sydney 1990. Su Eustazio di Epiphaneia (i
frammenti ancora in L. Dindorf, Historici Graeci Minores, I, Leipzig 1870, 353-363) si vd. l’esau-
stivo saggio di B. Croke, Byzantine Chronicle Writing. 1: The Early Development of Byzantine
Chronicles, in Jeffreys - Croke - Scott (eds.), Studies in John Malalas, cit. supra, 27-54, partic. 33
sgg. – e D. Brodka, Eustathios von Epiphaneia und das Ende des weströmischen Reiches, JÖByz
56, 2006, 59-78.
140
Eust. Epiph., HGM, I, 354 Dindorf - e Croke, Byzantine Chronicle Writing, cit., 33.
141
Roberto, Alessandro Magno e la repubblica romana nella riflessione di Giovanni di Antiochia,
cit. supra (n. 137), 201.
256 Mario Mazza

Schema ‘aperto’ e complessità di tradizione storiografica si ripropongono nel-


la ÔIstoriva cronikhv di Giovanni antiocheno142. Roberto presenta considerazioni
assai importanti per la valutazione di aspetti rilevanti dell’opera – specialmente
sulla interpretazione giovannea della storia della repubblica romana, e per l’ideo-
logia antiassolutista che appare connotare tale interpretazione. Anche per questo
contributo di Roberto sarebbe fuor di luogo un’analisi particolareggiata; nel di-
chiarare di condividerne pienamente le conclusioni, mi sforzerò tuttavia di pre-
sentarne, e discuterne, le tesi di fondo.
Roberto chiarisce che la ÔIstoriva cronikhv era organizzata su una struttura ‘bi-
partita’: in almeno tre (III-V) dei cinque lovgoi tw`n uJpavtwn attestati dalla tradi-
zione, alla narrazione delle vicende romane si alternavano notizie sulle monarchie
ellenistiche e sull’Oriente143. Essa conteneva certamente un libro specificamente
dedicato alla fondazione di Roma, nel quale era proposta la struttura ‘bipartita’
riscontrabile nei lovgoi tw`n uJpavtwn: i frammenti chiariscono che alla rappre-
sentazione della storia di Roma, da Romolo alla instaurazione della repubblica,
seguivano le vicende di Filippo di Macedonia e di Alessandro Magno. Insolito
sincronismo, non riscontrabile né in Giulio Africano, né in Eusebio, né in Malala,
ma originale costruzione di Giovanni, che si ripropone in autori che attingono alla
ÔIst. cron. come il c.d. Ps. Simeone (X sec.) e Giorgio Cedreno (XII sec.)144. A
ragione Roberto insiste sul significato di questo sincronismo, «non cronologico,
ma politico e culturale»; non grossolano errore cronologico, ma accostamento
condotto con piena consapevolezza del suo grande significato simbolico145.
Sul piano politico, in primo luogo. In Giovanni, ribadisce acutamente Roberto,
l’interpretazione della storia universale si fonda «sopra una visione politica e,
dunque, concretamente laica»146. Sulla linea della tradizione polibiana, Giovanni

142
Id., ibid., 202. Sullo ‘schema aperto’ e sulla complessità della tradizione storiografica bizan-
tina dei secoli V-VI si vd., oltre Croke, Byzantine Chronicle Writing. 1: The Early Development
of Byzantine Chronicles, cit. supra (n. 139), 27 ss., e M. Whitby, Greek Historical Writing after
Procopius: Variety and Vitality, in Av. Cameron - L.I. Conrad (eds.), The Byzantine and Early
Islamic Near East, I, Princeton 1992, 25-80; Brodka, Die Geschichtsphilosophie in der spätantiken
Historiographie, cit. supra (n. 129).
143
Roberto, Alessandro Magno e la repubblica romana nella riflessione di Giovanni di Antiochia,
cit., 203-204, sulla base del lungo excerptum della ÔIst. cron. contenuto nel Codex Athous 4932
(= Iviron 812) del XIV secolo.
144
Sui quali, oltre la classica opera di Heinrich Gelzer, Sextus Iulius Africanus, II, Leipzig 1885,
357-484, si vd. P. Sotiroudis, Untersuchungen zum Geschichtswerk des Johannes von Antiocheia,
Thessaloniki 1989, 15 ss.
145
Roberto, Alessandro Magno e la repubblica romana nella riflessione di Giovanni di Antiochia,
cit., 205.
146
Id., ibid., 205. Sul laicismo e sul pessimismo giovanneo intorno alla storia romana cfr. U. Ro-
berto, Giovanni Antiocheno e un’interpretazione etrusca della storia, «Salesianum» 67, 2005, 319-
345.
Epilegomena 257

pone un diretto rapporto tra la politeiva, la costituzione politica, e la potenza


di uno Stato. Da qui il suo interesse per le istituzioni e la vita politica di Roma
repubblicana, per le capacità e le virtù degli uomini che l’hanno resa grande. Non
l’impero, non il principato augusteo, ma la repubblica romana appare allo storico
antiocheno il momento fondamentale della storia universale – la repubblica come
modello di perfetta organizzazione politica e militare147. Consapevolmente ed
originalmente discostandosi dallo schema tràdito della translatio come succes-
sione di monarchie, Giovanni pone il sistema repubblicano come quinto impero;
il Principato, la ajkribh;~ monarciva instaurata da Augusto, rappresenta invece la
posteriore degenerazione del ‘buon’ sistema repubblicano148.
Così, nella penetrante interpretazione di Roberto, la apparentemente compila-
toria ed opaca – o tale giudicata dalla maggioranza degli studiosi – ÔIst. cron.
di Giovanni trova la sua interna logica e il suo significato storico: dalla instaura-
zione della repubblica a Cesare, la storia del mondo mediterraneo «... si svolge
nella dialettica tra il modello della monarciva orientale che Alessandro eredita
dalla Persia ... e una nuova forma politica, la ejleuqeriva della repubblica ro-
mana, basata sulla divisione dei poteri tra i consoli e il senato»149. Due diverse
concezioni di governo che inizialmente convivono, ma che poi confliggono per
l’egemonia mondiale – dialettica rappresentata fino all’inizio dell’età imperiale
dalla struttura ‘bipartita’ dei lovgoi tw`n uJpavtwn. Con la vittoria del modello re-
pubblicano: i sovrani ellenistici, i Perseo, Tigrane, Mitridate, etc. sono sconfitti
dai magistrati repubblicani. Solo le guerre civili e l’emergere di uomini malvagi
e assetati di potere determinano la trasformazione del regime repubblicano, che
degenera in tirannide. Con la loro arroganza e brama di potere Cesare ed Augusto
distruggono il modello della ejleuqeriva repubblicana ed instaurano a Roma una
monarciva di tipo orientale. Il giudizio sul regime augusteo è assolutamente nega-
tivo: nella fondazione dell’impero culmina la crisi politica dello Stato romano150.

147
Questa valutazione della storia repubblicana in Giovanni è presentata più articolatamente da U.
Roberto in L’immagine di Roma repubblicana nella ÔIstoriva cronikhv di Giovanni Antiocheno, in
I. Mazzini (a cura di), La cultura dell’età romanobarbarica nella ricerca scientifica degli ultimi 20
anni. Bilancio e prospettive, «Romanobarbarica» 18, 2002-2004, 351-370. (Per la considerazione
della storia repubblicana in Zonara, nel XII secolo, si vd. in generale B. Bleckmann, Die Reichs-
krise des III. Jahrhunderts in der spätantiken und byzantinischen Geschichtsschreibung, München
1992; per la, relativa, assenza della storia repubblicana nelle Cronache tardoantiche, greche e bizan-
tine, E.M. Jeffreys, The Attitudes of Byzantine Chroniclers towards Ancient History, «Byzantion»
49, 1979, 199-238.
148
Roberto, L’immagine di Roma repubblicana nella ÔIstoriva cronikhv/ di Giovanni Antiocheno,
cit. supra (alla n. preced.), 351 ss., 369-370.
149
Roberto, Alessandro Magno e la repubblica romana nella riflessione di Giovanni di Antiochia,
cit., 206.
150
Id., ibid., 206.
258 Mario Mazza

E, diversamente dalla cronachistica cristiana, sia latina che greca, non c’è esal-
tazione dell’impero come momento provvidenzialmente stabilito per la parousia
del Cristo, per qualche forma di Augustustheologie151: nella Historia chronica è il
mantenimento della eleutheria, il rispetto per le prerogative politiche del senato e
del populus Romanus a statuire la distinzione tra buoni imperatori e tiranni152.
Con molta finezza, Roberto evidenzia la riflessione sulla natura del potere che
percorre tutta la Historia chronica. Con quel sincronismo, egli osserva, Giovanni
«... presenta i due più potenti modelli politici prodotti dalla cultura ellenistico-
romana: da una parte, appunto, la versione occidentalizzata della monarchia di
stampo orientale, introdotta da Alessandro e proseguita nei regni ellenistici; dal-
l’altra, il regime repubblicano romano, fondato sull’accordo tra senato, popolo e
magistrature, e garante della ejleuqeriva degli ajrcovmenoi»153. È questo modello
politico, nella successione delle ‘egemonie’, il vero erede della potenza di Ales-
sandro, non l’impero romano, creato dalla brama di potere di un Cesare o di un
Augusto attraverso l’abuso della dittatura, magistratura pericolosa per il suo po-
tere ijsotuvranno~154. Appunto nell’interpretazione della transizione politica del-
l’età di Cesare e di Augusto si esprime con profondità e suggestività il pessimi-
smo storico dell’Antiocheno. Il regime imperiale romano, la basileiva romana,
è intesa come «istituzione costantemente in bilico tra i due modelli del passato»
(Roberto): il dispotismo delle monarchie orientali ed il regime che tutela la libertà

151
Sul comportamento e sui costumi di Augusto si vd. i frgg. 152 e 155-158 (269 e 273-277 Ro-
berto) che mostrano l’assoluta mancanza di una qualsiasi forma di Augustustheologie, nel senso
almeno in cui è stata indicata nel celebre saggio di Erik Peterson, Der Monotheismus als politisches
Problem, Leipzig 1935; più specificamente si vd. I. Opelt, Augustustheologie und Augustustypolo-
gie, JbAC 4, 1961, 44-57.
152
Roberto, Alessandro Magno e la repubblica romana nella riflessione di Giovanni di Antiochia,
cit., 207. Per il dibattito dell’età giustinianea intorno a Roma repubblicana, sulla concezione del
regime repubblicano come modello politico nei confronti della basileiva tardoantica, sull’uso del
passato in alcune Novellae giustinianee in funzione di una legittimazione del programma imperiale
di riforme, oltre M. Maas, John Lydus and the Roman Past. Antiquarianism and Politics in the Age
of Justinian, London-New York 1992 (e Id., Roman History and Christian Ideology in Justinianic
Reform Legislation, DOP 40, 1986, 17-31), si vd. anche M. Mazza, L’uso del passato: temi della
politica in età giustinianea, in E. Acquaro (a cura di), Alle soglie della classicità. Il Mediterraneo
tra tradizione e innovazione. Studi in onore di S. Moscati, I, Pisa-Roma 1996, 307-329 (e più in ge-
nerale, Eternità ed universalità dell’impero romano: da Costantino a Giuliano, in Le maschere del
potere. Cultura e politica nella Tarda Antichità, Napoli 1986, 211-254). Ultimamente: C. Pazder-
nik, Justinianic Ideology and the Power of the Past, in M. Maas (ed.), The Cambridge Companion
to the Age of Justinian, Cambridge-New York-Port Melbourne 2005, 185-212.
153
Roberto, Alessandro Magno e la repubblica romana nella riflessione di Giovanni di Antiochia,
cit., 207.
154
Io. Antioch. frg. 80.1, 11-12 (150 Roberto): «... uJperevcwn me;n th`~ tw`n uJpavtwn ajrch`~, toi`~ de;
basileu`s i prosferevstato~: ajnupeuvqunovn te ga;r tw`n o{lwn ei\ce to; kravto~ kai; ijsotuvran-
non ejn tw`Û kaqesthkovti crovnwÛ th;n ejxousivan».
Epilegomena 259

dei governati per l’accordo tra basileuv~, senato e magistrati. È su questo accor-
do, sulla sintonia con i valori politici dell’età repubblicana che Giovanni giudica
il governo dei vari imperatori, il discrimine tra optimi e pessumi principes155.
L’imperatore, oltre che governante, è anche un soldato: optimus imperator è
colui che sa comandare gli eventi, vincere in battaglia e difendere i confini del-
l’impero dalla minaccia barbarica. Roma repubblicana era costantemente attac-
cata da potenze nemiche, ma, per la natura della sua politeiva, riusciva sempre a
superarle. Non è così con il regime imperiale: Augusto non è il fondatore di una
pace stabile e duratura per Roma156. Augusto ha tolto la libertà ai Romani; ma
Roma non ha la tranquillità dell’egemonia, perché ci sono le gentes externae ai
confini – e soprattutto l’impero partico si presenta come un pericoloso antagoni-
sta per Roma157. Il pessimismo storiografico di Giovanni fa proporre a Roberto
un’ulteriore interpretazione del sincronismo fondazione della repubblica romana
~ imprese di Alessandro. Nel fr. 150.1, 2-3, la guerra civile che porta alla distru-
zione della libertà romana è posta in diretta connessione con il disastro di Crasso
a Carrhae: meta; de; th;n tou` Kravssou sumfora;n oJ politiko;~ diedevxato pov-
lemo~158. Cesare ed Augusto hanno distrutto la eleutheria di Roma, ma ne hanno
anche indebolita la posizione nei confronti dei barbari, soprattutto nei confronti
dei Parti. Emerge così un altro dei temi costanti della Historia chronica: l’atten-
zione alla storia prima dei Parti, poi dei Sassanidi159. Soprattutto nei frammenti
relativi alla Tarda Antichità, al IV-VI secolo, l’impero sassanide appare come
potenza antagonista a quella di Roma; ed è proprio per questa accesa conflittua-
lità tra le due potenze egemoni che, osserva ancora Roberto, il sincronismo tra
la fondazione della repubblica e l’impero di Alessandro «si amplifica nel suo
valore simbolico»160. Alessandro il Grande è il simbolo della superiorità militare
dell’Occidente sui barbari, sui Persiani; e, per la sua forza militare, la repubblica
romana appare il vero erede di Alessandro, nella visione universale della transla-

155
Il tema è da Roberto più ampiamente argomentato in Giovanni Antiocheno e un’interpretazione
etrusca della storia, cit. supra (n. 146).
156
Cfr. supra, n. 151, per l’assenza in Giovanni di qualsiasi forma di Augustustheologie: come
giustamente osserva Roberto, il rifiuto di presentare Augusto come il fondatore di una pace univer-
sale e duratura nel mondo mediterraneo si contrappone al celebre sincronismo tra pace augustea e
nascita di Cristo, probabilmente presente già in Giulio Africano, affermato chiaramente da Ippolito,
Dan. IV 9, 2 (Alessandro Magno e la repubblica romana nella riflessione di Giovanni di Antiochia,
cit., 209, n. 14) – e poi sviluppato da Eusebio nella Praeparatio evangelica.
157
Cfr. Io. Antioch. frgg. 144, 1-8; 150.1, 2-6; 159.3; 225 (sulla campagna orientale di Gordiano
III); 273.1-2, su Gioviano (218; 254; 282; 406; 456-460 Roberto).
158
Io. Antioch. frg. 150.1, 2-3 (254 Roberto).
159
Roberto, Alessandro Magno e la repubblica romana nella riflessione di Giovanni di Antiochia,
cit., 210 ss.
160
Id., ibid., 211.
260 Mario Mazza

tio imperii. Ma la sua potenza militare dipendeva da una struttura politica interna,
da una politeiva che garantiva eleutheria ai cittadini. La fine della libertà politi-
ca, con Cesare ed Augusto, comportò anche la fine dell’egemonia militare – ed il
rafforzamento della potenza prima dei Parti, poi dei Sassanidi.
Roberto ha il grosso merito di ‘contestualizzare’ – mi si passi il brutto termine
– queste sue acute analisi nei primi anni del regno di Eraclio, cioè con l’epoca
della composizione della Historia chronica161. Essa va infatti intesa, in sintonia
con un dibattito apertosi già in età giustinianea162, come un tentativo di presentare
efficacemente il regime repubblicano romano, con la eleutheria basata sull’equi-
librio di poteri tra senato e magistrature, quale modello di buon governo e di
impulso al rinnovamento del regime monarchico dopo gli eccessi del regno di
Foca163. Nel contempo, viene presentata l’immagine di Alessandro come modello
militare per la lotta contro la Persia – e più in generale contro i barbari. Eraclio,
novello Alessandro, sarebbe stato stimolato a porsi personalmente alla guida del-
la lotta contro i Persiani e gli altri barbari.
Come in altri autori dell’epoca quale Giovanni Lido164, anche nella Historia
chronica Giovanni d’Antiochia si volge ad un uso ‘politico’ del passato, del-
la storia antica. Ad esso dovrebbe volgere lo sguardo il nuovo buon basileuv~
Eraclio, per restituire libertà e pace ai governati (ajrcovmenoi e non uJphvkooi, sud-
diti, come Giovanni preferisce indicare i cittadini dell’impero), emulando «... la
gloria militare di Alessandro, e la grandezza politica del suo vero erede nella suc-
cessione dell’egemonia mondiale, la repubblica romana»165.

161
Per la datazione della Historia chronica si vd. Roberto, Introduzione a Ioannis Antiocheni Frag-
menta, cit., XI sgg. Sul regno di Eraclio, oltre i saggi raccolti in G.J. Reinink - B. Stolte (eds.), The
Reign of Heraclius (610-641). Crisis and Confrontation, Leuven-Paris-Dudley 2002 (in partic. i
saggi di J. Haldon, The Reign of Heraclius. A Context for Change?, 1-6, e di W. Brandes, Heraclius
between Restoration and Reform, 17-40), si vd. la monografia di W.E. Kaegi, Heraclius. Emperor
of Byzantium, Cambridge 2003.
162
Oltre i lavori citt. supra, n. 152, si vd. i contributi raccolti in M. Maas (ed.), The Cambridge
Companion to the Age of Justinian, cit., in partic. Pazdernik, Justinianic Ideology and the Power of
the Past, cit., 185-212, C. Rapp, Literary Culture under Justinian, 376-397, e C. Wildberg, Philo-
sophy in the Age of Justinian, 316-340. Si vd. anche A. Kaldellis, Procopius of Caesarea. Tyranny,
History, and Philosophy at the End of Antiquity, Philadelphia 2004.
163
Roberto, Alessandro Magno e la repubblica romana nella riflessione di Giovanni di Antiochia,
cit., 213.
164
Sul quale resta sempre importante, oltre il lavoro di Maas, John Lydus and the Roman Past,
cit. supra (n. 152), la densa monografia di J. Caimi, Burocrazia e diritto nel De Magistratibus di
Giovanni Lido, Milano 1984.
165
Roberto, Alessandro Magno e la repubblica romana nella riflessione di Giovanni di Antiochia,
cit., 214.
Epilegomena 261

7 – Per finire. Non ritengo di essere troppo indulgente verso gli organizzatori ed
i relatori di questo Convegno, di studio veramente, affermando che esso concorre
effettivamente a ridisegnare quella mappa dell’antichistica cui sopra accennavo.
L’Oriente ellenistico e romano è indubbiamente un territorio (storiografico) mol-
to vasto e, culturalmente, molto accidentato. Da Louis Robert a Fergus Millar,
per ricordare solo due insigni esponenti di un più numeroso e variegato drappello
di studiosi, la ricerca ha progressivamente, e giustamente, dissolto la mitologia
del classicismo, della Grecità e della Romanità astratte ipostasi di una più viva e
ricca realtà storica, della loro pretesa superiorità culturale; e vi ha sostituito, con
una prospettiva più storicamente fondata, lo studio della concretezza dei processi
di interazione culturale, degli «Incontri – ma anche scontri – tra culture», come
suona appunto l’intitolatura del Convegno. L’archeologia, l’epigrafia, la papiro-
logia aiutano molto in questa direzione, come hanno mostrato i contributi della
Criscuolo, di Virgilio, di Thornton, di Panaino, di Gnoli; ma anche le fonti lette-
rarie, quando vengono riesaminate sotto una nuova ottica – come nei contributi
della Bearzot, della Landucci Gattinoni, di Muccioli, di Roberto. Questa è una
basilikh; oJdov~ della attuale ricerca antichistica. Bisogna equamente dare atto
ai due intelligenti e solerti organizzatori, a Tommaso Gnoli e a Federicomaria
Muccioli, di averci indicato il giusto sentiero.

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