L’INSEGNAMENTO DI PLUTARCO
a) Pars construens
La condizione dell’uomo politico greco, alla fine del I sec. d.C., è quella per cui ἀρχόμενος
ἄρχεις («governi e intanto sei governato»), «perché la città è sottoposta ai proconsoli e ai procuratori
di Cesare»,1 che con un solo atto possono deporre e ridurre al nulla gli amministratori locali anche
più altolocati, se il loro operato viene giudicato contrario agli interessi romani. Nei Πολιτικὰ
παραγγέλματα (Consigli politici) Plutarco ricorre a tre esempi molto icastici, tutti raccolti nel cap.
17, per far ben comprendere al giovane destinatario, Menemaco,2 intenzionato ad intraprendere
l’attività politica nella sua Sardi, quali ne debbano essere i limiti ἐν τῷ παρόντι χρόνῳ:
1. Il paragone dell’alveare: l’uomo politico greco deve proporsi ai suoi cittadini come
leader, a immagine del re (ἡγεμών) dell’alveare3 nei confronti dello sciame di api; ma senza
dimenticare di essere a sua volta osservato e giudicato da altri ἡγεμόνες, i Romani, che dunque
potremmo vedere nel ruolo di apicultori, che lasciano sì alle api la libertà di autoregolarsi all’interno
della loro polis (l’arnia), ma che intervengono con autorità ogni volta che ce ne sia la necessità.
2. Il paragone teatrale: l’uomo politico greco dev’essere come un attore, che di suo
aggiunge al copione il proprio πάθος e ἧθος, la propria bravura personale, ma che non può
permettersi di variare né il testo né i metri stabiliti dal regista, e di tanto in tanto tende l’orecchio al
suggeritore (ὑποβολεύς) che lo guida nella recitazione. Non a caso il verbo ὑποβάλλω significa,
oltre a “suggerire”, anche “sottomettere”, ed è questo il senso cifrato che Plutarco con grande tatto fa
filtrare.
1
Plutarchus, Πολιτικὰ παραγγέλματα 17, 813E.
2
Assumiamo che Menemaco, al quale Plutarco dà con tono paterno e analitico, ogni genere di consigli politici, sia
giovane, anche se in realtà in nessun passo dell’opuscolo si dice che egli sia tale. Sulla controversa questione, cf.
BARIGAZZI 2016, pp. 37-64.
3
Per i Greci non una regina, ma un “re” sta a capo dell’alveare.
4
Plutarchus, Πολιτικὰ παραγγέλματα 32, 824E.
5
I Πολιτικὰ παραγγέλματα vengono datati attorno al 100 d.C., o comunque subito dopo la morte di Domiziano. Queste
e molte altre indicazioni cronologiche e biografiche si possono trovare utilmente raccolte nel recentissimo LELLI – PISANI
2017.
Ci si potrebbe legittimamente chiedere, a questo punto, se a un’età di decadenza economica,
sociale, demografica,6 ci si debba rassegnare, per Plutarco, a una politica ugualmente povera e sciatta.
Niente affatto. Le pagine più ricche e fertili dei trattati del filosofo di Cheronea, il più vicino al
cristianesimo tra i pensatori pagani,7 sono quelle in cui egli, presentando la politica come κάλλιστον
ἔργον (“la più bella attività”), mostra con acutissima sensibilità come si debba renderle onore, nel
pieno rispetto sia degli amministrati che della propria dirittura morale.
Le raccomandazioni didattiche e parenetiche di etica e di prassi politica rivolte da Plutarco
a Menemaco hanno tutta l’autorevolezza che discende dalla lunga e fruttuosa esperienza dell’autore
in campo amministrativo, sia nei rapporti con l’alta aristocrazia romana sia soprattutto nella sua
Cheronea, dove svolse numerosi incarichi, sia umili, come quello di telearco (assessore alla pulizia
delle strade e delle acque reflue) sia di prestigio, come quello di arconte eponimo e di beotarca (alto
magistrato della Lega beotica). Inoltre pochi anni prima (95 d.C.) della stesura dei Consigli politici
era stato nominato sacerdote laico del Santuario di Apollo a Delfi, coerentemente con la profonda e
sentita religiosità che sempre lo contraddistinse. Plutarco, insomma, non è un mero teorico della
politica, ma un uomo che, come Machiavelli, ha molto «insudato nelle cose», diventando «pieno di
esperienza per essere stato a studio dell’arte dello Stato»8 non per trarre dalla politica potere o
vantaggi personali, ma esclusivamente in spirito di servizio per la comunità greca cui egli – cittadino
romano – sentiva comunque di appartenere prioritariamente.
Sarebbe lungo e poco produttivo, per quanto edificante, passare in rassegna le
numerosissime raccomandazioni di Plutarco a Menemaco: basterà dire che, in completa antitesi,
questa volta, a ciò che con aspra crudezza intellettuale avrebbe spiegato, quattordici secoli dopo, il
Segretario fiorentino, il saggio di Cheronea mostra in tutte le sue pagine9 la possibilità, anzi la
necessità di una perfetta integrazione di morale e politica, tanto da dire, a mo’ di sentenza, che il
τέλος (“fine”) dell’attività dell’uomo politico è τὸ καλὸν αὐτὸ καὶ μηδὲν ἄλλο (“il bene di per sé e
nient’altro”).10
Questo καλὸν viene declinato in tutte le forme e variazioni possibili: nel rapporto con gli
amministrati, con i collaboratori, con i colleghi, con gli amici ma anche con gli avversari; nella
concezione, discussione ed esecuzione dei progetti; nell’osservazione del popolo e nella valutazione
delle sue richieste; nella verifica dell’attuabilità dei programmi in attento equilibrio tra politica interna
e politica estera; infine nella quotidiana analisi di se stessi, una sorta di esame di coscienza che
consenta all’uomo politico di tenere sempre la barra del timone al centro, sulla via maestra della
φρόνησις (“saggezza”, “avvedutezza”), che per Plutarco è la virtù politica per eccellenza, così come
per Aristotele era la virtù etica per eccellenza.
Come ben si capisce, Plutarco è un moderato che aborrisce qualunque forma non dico di
estremismo o di ribellismo, ma anche di rivoluzione, di vivace e rumorosa opposizione, di violenza
fisica o verbale; e che prova un sincero disgusto per tutta una serie di comportamenti o modi di essere
a cui purtroppo la prassi politica tardonovecentesca e attuale ci ha tristemente abituato: la menzogna,
l’insulto, la volgarità, la corruzione, la brama di potere, l’odio, l’inefficienza, l’impreparazione, il
narcisismo. La sua ideologia mite, ragionevole e costruttiva potrebbe essere paragonata, con un
6
«[…] τῆς κοινῆς ὀλιγανδρίας, ἣν αἱ πρότεραι στάσεις καὶ οἱ πόλεμοι περὶ πᾶσαν ὁμοῦ τι τὴν οἰκουμένην
ἀπειργάσαντο, πλεῖστον μέρος ἡ Ἑλλὰς μετέσχηκε, καὶ μόλις ἂν νῦν ὅλη παράσχοι τρισχιλίους ὁπλίτας, ὅσους ἡ
Μεγαρέων μία πόλις ἐξέπεμψεν εἰς Πλαταιάς» («Lo spopolamento generale, causato si può dire contemporaneamente
in tutto il mondo abitato dai conflitti del passato e dalle guerre, ha raggiunto il suo massimo livello in Grecia, che a stento
ora potrebbe tutta quanta fornire tremila opliti, quanti la sola città di Megara aveva inviato a Platea»): Plutarchus, De
defectu oraculorum 8, 414A.
7
Cf. LA MATINA 1998, p. 85 ss.
8
N. Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori del X dicembre 1513.
9
Non solo nei Πολιτικὰ παραγγέλματα ma in tutte le sue operette politiche contenute nei Moralia: «Maxime cum
principibus philosopho esse disserendum; Ad principem ineruditum; An seni respublica gerenda sit; De unius in republica
dominatione, populari statu et paucorum imperio».
10
Plutarchus, Πολιτικὰ παραγγέλματα 2, 799A.
anacronismo violentissimo ma credo utile, a quella di pensatori e politici di area democratica cristiana
degli anni Cinquanta e Sessanta come Giorgio La Pira e don Luigi Sturzo:
«Non si dica quella solita frase poco seria: la politica è una cosa “brutta”! No:
l'impegno politico - cioè l'impegno diretto alla costruzione cristianamente ispirata della
società in tutti i suoi ordinamenti a cominciare dall'economico - è un impegno di
umanità e di santità: è un impegno che deve potere convogliare verso di sé gli sforzi
di una vita tutta tessuta di preghiera, di meditazione, di prudenza, di fortezza, di
giustizia e di carità».11
Alle virtù cardinali e alle virtù teologali – di cui la più grande e socialmente orientata è la
“carità”– citate da La Pira, corrisponde tutto un ventaglio di virtù plutarchiane non certo in odore di
paganesimo, ma improntate alla più profonda paideia greca, poi fatta propria dal Cristianesimo: la
coppia trainante è quella di ἀλήθεια e ἀρετή (“verità e virtù”), sulle cui ali deve procedere l’attività
politica; le fanno corona la δικαιοσύνη (“giustizia”) e, con parola tutta greca e di per sé intraducibile,
la καλοκἀγαθία (“perfetta dirittura morale”), la πίστις (“lealtà”, affidabilità”, “fiducia”) e la εὔνοια
(“benevolenza”), per non parlare della καταφάνεια (“trasparenza”: Mikhail Gorbaciov non inventò
nulla di nuovo quando nel 1985 lanciando la parola-slogan glasnost preparò lo smantellamento della
vecchia Unione Sovietica). Non sappiamo se ebbero incidenza su Plutarco –o meglio, se ne ebbe mai
notizia– le predicazioni e gli scritti di S. Paolo, i cui viaggi in Grecia si datano nei primi anni
Cinquanta, quando il Cheronese era un bambino di neppure dieci anni; e se Plutarco lesse e conobbe
gli scritti morali di Seneca: quel che è certo è che hanno forte incidenza su di lui il pensiero platonico,
l’humanitas di Panezio,12 per il quale il compito primario della πολιτεία è quello di educare i cittadini
alla moralità, e soprattutto Aristotele, particolarmente quello dell’Etica Nicomachea, dove lo Stagirita
enuncia la funzione “architettonica”, fondativa, della politica, in quanto si propone di far ottenere la
felicità (εὐδαιμονία) alla collettività: un fine simile ma nel contempo più alto di quello che si propone
l’etica, la quale mira al raggiungimento della felicità per il singolo.13
È evidente che Plutarco è il consigliere politico ideale per un giovane posato, avveduto, con
un forte senso della gerarchia, in tempi non di contestazione ma di pacato e prudente allineamento
alla tradizione e alla Realpolitik, in cui vadano riscoperti i valori più alti della politica come servizio
alla collettività entro i limiti del possibile, non esplorate le terrae incognitae dell’impossibile,
nell’illusione di una rifondazione della società.
Anche per questi motivi, sentendomi personalmente propenso, nel tempo di passaggio in cui
stiamo vivendo, in Italia e in Europa, a dare una lettura più innovativa e più critica delle pagine
plutarchee, scritte – è bene tenerlo presente - in tempo di occupazione romana della Grecia da un
intellettuale innamorato del suo Paese e della sua cultura, che ebbe forse la sola sfortuna di non essere
vissuto ai tempi di Pericle, credo opportuno dare a questo mio contributo, giunti a questo punto del
discorso, una svolta, per così dire, più aggressiva, percorrendo sentieri di filosofia politica
contemporanea. Vedremo così come possa configurarsi effettivamente, sotto il bisturi di un’analisi
poco irenistica ma attenta allo studio dei meccanismi del potere, il volto spigoloso del Plutarco
politico una volta sollevata la maschera benevola del Plutarco morale.
b) Pars destruens
Al cuore dei consigli politici dati da Plutarco a un giovane c’è l’esortazione a mantenere la
propria attività all’interno di un piano cartesiano le cui coordinate corrispondono a una potentissima
11
LA PIRA 1945.
12
Cf. GRILLI 1974, pp. 73 ss.
13
Cf. SASSI 2012, p. 2.
coppia di concetti: κρίσις καὶ λόγος14 (“giudizio e ragione”), di chiara origine platonico-aristotelica
e qui declinati strettamente in chiave etico-politica.
Non potrebbe esserci differenza più grande fra certa moderna αἴσθησις (“sensibilità”)
soggettivistica e relativistica, permissiva e inclusiva, e il ruolo definitorio, esclusivo, dei due
guardiani della morale e dell’agire politico chiamati κρίσις καὶ λόγος.
Conformemente al più autentico pensiero classico, il λόγος, che è ragione, svolge un ruolo
fondativo-veritativo nelle scelte e nelle decisioni degli uomini, inducendoli a giudicare ogni cosa e
ad espellere dal proprio raggio ciò che esso accusa e condanna. Guide in questa ricerca della ἀλήθεια
(“verità”) sono la ψυχή (“anima”) e il λόγος, non certo l’indeterminatezza della φύσις (“indole
naturale”).
Dal canto suo, la κρίσις è innanzitutto “giudizio”, che porta a distinguere mediante il λόγος
il bene dal male, ciò che utile da ciò che è dannoso, chi compie il bene da chi compie il male, con un
effetto separatorio e, di nuovo, esclusivo.
Fatta questa premessa, va detto che Plutarco stempera con la sua naturale bonomia il
rigorismo implicito in κρίσις καὶ λόγος, addolcendo i suoi precetti con una gran quantità di esempi
storici e letterari, di similitudini e di paragoni tratti dalla vita corrente, di sentenze proverbiali e di
motti desunti dalla sapienza degli antichi; ma ciò non toglie che nel corso della sua esposizione tenga
ben dritta la barra del timone lungo la rotta segnata innanzitutto da Aristotele nell’Etica nicomachea,
nell’Etica eudemia e nella Politica, mostrando come per realizzare una buona politica sia
indispensabile tradurre nella πράξις (“azione”) la φρόνησις, che è intelligenza e saggezza concreta,
flessibile, capace di interpretare i bisogni della storia; e come la buona politica non possa essere mai
scissa da una precondizione di base, il possesso congiunto di ἀρετή (virtù etica) e di τέχνη
(conoscenza concreta, non solo astratta o speculativa), senza l’una o l’altra delle quali l’attività di
governo diventa manchevole e dannosa per la comunità.
Rispetto ad Aristotele e, tanto più, al Platone della Repubblica, Plutarco nei Πολιτικὰ
παραγγέλματα abbandona completamente gli spazi astratti delle teorizzazioni e delle riflessioni
stricto sensu filosofiche, per offrire non dirò uno speculum principis, ma per così dire uno speculum
τοῦ πολιτικοῦ ἀνδρός molto concreto: un vero manuale di istruzioni per l’uso, in cui con pacatezza
talora amabilmente ironica ma allo stesso tempo con autorevole serietà il Cheronese procede con
costante tecnica diacritica e antitetica a sceverare il grano dal loglio, indicando al destinatario le scelte
corrette da compiere in ogni settore della τέχνη πολιτική.
Ma “correttezza” in che senso, e perché? E al servizio di chi dobbiamo pensare che stiano i
due “cani da guardia” κρίσις καὶ λόγος?
Ci possono dare una risposta molto interessante i concetti di biopolitica e di biopotere,
elaborati da Michel Foucault nel 197615 e in seguito approfonditi e ripensati, a partire dalla fine degli
anni ’90 sino ad oggi, dagli studiosi della cosiddetta Italian Theory, Agamben, Negri ed Esposito.16
Richiamo brevemente lo status quaestionis.
Foucault ha mostrato come tra XVIII e XIX secolo ci sia stata una svolta nel rapporto tra
potere e sottoposti: mentre l’Ancien Régime esercitava un’azione predatoria e sanzionatoria sui
sudditi, imponendo con la spada e con le pene il suo diritto sovrano di far morire o di lasciar vivere,
i poteri statali moderni mirano invece a controllare la vita delle popolazioni favorendo il
miglioramento delle loro condizioni e il loro benessere in cambio dell’obbedienza a un sistema di
norme utili alla sicurezza e al profitto dello Stato, che le mostra come necessarie e inevitabili. Questo
sistema di controllo diretto della politica sul bios è la biopolitica. Essa si avvale di interventi e di
tecnologie (che possono riguardare ogni aspetto della vita individuale, dalla nascita alla morte, sotto
il profilo sanitario, alimentare, ricreativo, psicologico, culturale) che vanno sotto il nome di
“biopotere”. L’autorità investe risorse, in forme ora paternalistiche ora burocratiche, per garantire alle
14
Plutarco, Πολιτικὰ παραγγέλματα 2, 798C.
15
FOUCAULT1976.
16
Cf. soprattutto AGAMBEN 1995; NEGRI 2000; ESPOSITO 2004.
masse salute, forza, competenze, svaghi, longevità, non naturalmente per loro amore ma per poter
esercitare su di esse uno sfruttamento scientificamente pianificato.
Agamben dal canto suo ha mostrato,17 anche se approfondendo l’analisi della sola Politica
di Aristotele, come la biopolitica in Occidente non nasca certo nel Settecento, ma affondi le sue radici
nel pensiero greco antico e nella prassi romana.
Ha osservato innanzitutto come all’interno del campo semantico “vita” ci sia una netta
differenza fra ζωή e βίος. Mentre con ζωή (in antitesi a θάνατος, “morte”) si indica l’esistenza
biologica pura e semplice, la stessa che accomuna uomini e animali, con βίος s’intende la vita
complessa e qualificata, aristotelicamente declinabile in tre forme fondamentali, quella dedita al
piacere, alla contemplazione e, appunto, alla politica. Per Agamben, fin dal principio della riflessione
politica in Occidente il potere sovrano si è manifestato come biopolitico, in quanto s’è arrogato il
diritto di disporre pienamente tanto della ζωή (quella degli schiavi, dei bambini, delle donne, degli
stranieri) quanto del βίος, sfruttando la ζωή degli inferiori senza possibilità di redenzione e viceversa
curando e accudendo quella di chi è degno di aspirare a entrare in un βίος politicamente regolato. Il
potere biopolitico infatti ha sempre agito creando una “norma” che va seguita se si vuole rientrare nei
parametri di chi ha diritto al benessere, fornendo tecniche che permettano di corrispondervi e
stabilendo inviolabili criteri di inclusione ed esclusione.
Di fronte al potere anche il βίος è una realtà precaria, sempre pronta ad essere derubricata a
“nuda vita” nel momento in cui il singolo si ponga al di fuori dello spazio entro il quale è riconosciuta
la sua legittimità, diventando così homo sacer. Nella giurisprudenza romana, l’homo sacer è il reietto
che ob maleficium viene privato dei diritti civili, isolato dalla comunità, ritenuto indegno persino di
essere sacrificato, esposto all’uccisione da parte di chiunque senza che il fatto abbia alcuna
conseguenza penale, in quanto la sua vita è stata ridotta al puro stato di oggetto biologico.
La biopolitica esercita dunque il suo controllo sulle popolazioni intese come collettività di
individui biologici, manifestando foucaultianamente un “potere pastorale” che tutela il gregge come
somma di singoli individui, non esitando a estromettere la “pecora infetta” che con il suo
comportamento antipolitico possa contaminare il gruppo minacciando l’integrità del potere
dominante.
Plutarco nei suoi Πολιτικὰ παραγγέλματα rivela la sua natura di istruttore biopolitico,
rivolto a un “politico-pastore” interno al mondo greco, a sua volta subalterno all’immenso potere di
controllo dell’Impero romano.
Questa identità emerge con particolare chiarezza nei tre paragoni fra società umana e alveare
contenuti nell’opuscolo.
Nel capitolo 17 (già citato) Plutarco raccomanda al giovane πολιτικός ἀνήρ provinciale di
governare “come ἡγεμών tra le api”, con spirito di servizio e senso di responsabilità, applicando la
sua ratio conoscitiva (διάνοια) alla gestione dei δημόσια (“affari pubblici”); e con modestia e senso
della misura (μετριάζοντα), consapevole di avere sempre sulla sua testa gli stivaletti (κάλτιοι, calcei)
dei senatori romani e che su di lui incombe “la scure che tronca la testa”, nel caso che vengano infranti
i μέτρα e gli ὅρη (“i giusti limiti”).
Il carattere “pastorale” del governo emerge con particolare evidenza al cap. 28, in cui
Plutarco esorta l’uomo politico a non disprezzare, anzi a ricercare, le manifestazioni di favore
popolare, esattamente come –afferma– è “utile e piacevole” suscitare negli animali domestici affetto
nei nostri confronti: i cacciatori si rallegrano delle feste che fanno loro i cani; gli allevatori di cavalli
sono lieti della confidenza con cui le loro bestie li avvicinano; quanto alle api, si vorrebbe che
anch’esse accogliessero festosamente chi le alleva e le accudisce (τρέφειν καὶ θεραπεύειν) invece
di pungerlo rabbiosamente: ben a ragione gli uomini le puniscono con il fumo.
Fondamentale è infine l’ultimo capitolo dei Consigli politici, il 32. Qui l’autore definisce
esplicitamente il popolo dei governati come “sciame razionale e politico”, cui il “re dell’alveare”,
ovvero il governante-pastore, dovrà garantire un benessere inquadrato entro le coordinate della
17
AGAMBEN 1995.
docilità (εὐπείθεια) e della facile governabilità: nella prospettiva irenistica plutarchea, ὁμόνοια e
φιλία (“concordia e amicizia”) devono essere i due pilastri dell’armonia sociale, garanzia di tutta una
serie di beni collettivi: la pace (εἰρένη), la libertà (ἐλευθερία), la prosperità economica (εὐετηρία) e
l’abbondanza di uomini forti e valorosi (εὐανδρία). Lo Stato-arnia – ovvero il governo locale
controllato da lontano dall’autorità romana – dovrà essere il più simile possibile a quell’alveare ideale
poco prima descritto, in equilibrio virtuoso fra autonomia e collaborazione con l’apicultore, ovvero
il padrone romano.
Il governante greco locale, nel contesto storico-sociale della fine del I sec. d.C., si fa
mediatore biopolitico di secondo grado fra i dominatori e la collettività provinciale, ricorrendo a
tecniche morbide di biopotere consistenti soprattutto in operazioni di παιδεία e θεραπεία politica:
non a caso sono frequenti nei Consigli politici le similitudini e le metafore riferite alla medicina. Il
buon governante deve curare tutti i mali sociali applicando una πολιτικὴ ἰατρεία (“medicina
politica”, cap. 19) attentamente autoregolata dall’interno, cercando di evitare il più possibile i temuti
interventi esterni del potere biopolitico di primo grado, quello romano, che interverrebbe con azioni
brutali e violente, come distruzioni, uccisioni, esili, rimozioni immediate del personale non più utile:
la “punizione del fumo”, nella metafora dell’apicultore.
In questo quadro, il dissenso è equiparato alla malattia: governare secondo κρίσις καὶ λόγος
si risolve quindi, in forme squisitamente biopolitiche, nella cura di autentiche malattie psicosomatiche
quali l’ἀγνωμοσύνη (“mancanza di discernimento”), normalizzata a σοφρωσύνη (“saggezza”,
“senso di responsabilità”). La drammatica alternativa è quella dell’intervento chirurgico, della
rimozione della parte infetta: “eliminare ciò che è contrario a natura”, ἐξιστάναι τὸ παρὰ φύσιν. Non
siamo alla teorizzazione dei “campi di rieducazione” dei grandi totalitarismi novecenteschi, ma ne
avvertiamo le premesse ideologiche.
È evidente, in conclusione, che Plutarco nei Πολιτικὰ παραγγέλματα si rivolge con
estremo pragmatismo a un’élite giovanile cui insegna gli eterni precetti di un’arte politica prudente,
scaltra, ingegnosa, che sotto il manto splendido di un’etica incorruttibile nasconde il dramma
dell’impotenza di una Grecia che, allora come oggi 18, soffre per la propria debolezza politica (τῶν
πραγμάτων ἀσθένενεια) e cerca i modi, per lo meno, di salvare la dignità della sua classe dirigente.
18
Obiettivamente, la Grecia odierna è una Nazione commissariata dai grandi creditori internazionali, obbligata dalla
cosiddetta Trojka (Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale) a seguire politiche
ultraliberalistiche di rigore, di pressione fiscale, di riduzione estrema della spesa pubblica e di privatizzazioni in nome di
dottrine finanziarie di marca teutonica che contrastano profondamente con la storia e con lo spirito di questo antico Paese
balcanico del sud del Mediterraneo. Conseguenze di questa sorta di letto di Procuste inflitto ai Greci sono state la forte
emigrazione giovanile, il calo demografico, la disoccupazione endemica, l’impoverimento di massa, la riduzione
dell’accesso alle cure mediche, l’aumentata mortalità, il calo drammatico della coscienza dell’eredità culturale ricevuta
dal passato: lo studio del greco antico è un lusso eccessivo quando si tratta di dover lottare giorno per giorno contro la
povertà e la fame. Forse sarà un paragone eccessivamente ardito quello fra la Provincia romana di Acaia e lo “Stato
povero” della Hellenikè Dimokratìa sotto il regime dell’Unione Europea. Fatto sta che anche oggi piccoli “Plutarchi”
crescono all’ombra del Partenone (penso a Petros D. Kapsaskis, fondatore e presidente dell’“Istituto Ellenico per la
Diplomazia Culturale”), nel tentativo di tenere a galla, nel naufragio generale, almeno l’identità culturale ellenica e il
prestigio della sua eredità nel consesso internazionale.
Bibliografia
AGAMBEN 1995
Giorgio AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, 1995.
BARIGAZZI 2016
Adelmo BARIGAZZI, Note critiche ed esegetiche agli scritti politici di Plutarco, Prometheus.
Rivista di studi classici III (sett. 2016).
ESPOSITO 2004
Roberto ESPOSITO, Bios. Biopolitica e filosofia, 2004.
FOUCAULT 1976
Michelle FOUCAULT, La volonté de savoir, Gallimard, 1976.
GRILLI 1974
Alberto GRILLI, Cicerone tra Antioco e Panezio, Ciceroniana NS 2, (1974).
LA MATINA 1998
Marcello LA MATINA, Plutarco negli autori cristiani greci, in Italo GALLO (ed.) L’eredità
culturale di Plutarco dall’antichità al Rinascimento. Atti del convegno plutarcheo Milano-
Gargnano 28-30/5/1997, Napoli, D’Auria 1998.
LA PIRA 1945
Giorgio LA PIRA, La nostra vocazione sociale, AVE, Napoli 1945.
NEGRI 2000
AntonioNEGRI, Empire, Harvard University Press, Cambridge Massachusetts 2000.
SASSI 2012
Maria Michela SASSI, Felicità e virtù nell'Etica Nicomachea, http://www. gral. unipi.
it/uploads/sassi2012. pdf. (2012)