luglio-dicembre 2012
ISSN 2239-5962
materiali foucaultiani
peer reviewed
COMITATO SCIENTIFICO
Philippe Artières, Étienne Balibar, Jean-François Bert,
Alain Brossat, Judith Butler, Edgardo Castro, Sandro Chignola, Pierre Dardot,
Arnold I. Davidson, Mitchell Dean, Didier Fassin, Domingo Fernández Agis,
Colin Gordon, Frédéric Gros, David Halperin, Jonathan X. Inda, Bruno Karsenti,
Christian Laval, Olivier Le Cour Grandmaison, Boyan Manchev, Manuel Mauer,
Achille Mbembe, Sandro Mezzadra, Brett Neilson, Peter Nyers, Johanna Oksala,
Aihwa Ong, Michael A. Peters, Mathieu Potte-Bonneville, Jacques Rancière,
Judith Revel, Michel Senellart, Jon Solomon, Vincenzo Sorrentino,
William Walters, Robert J.C. Young
ISSN 2239-5962
SOMMARIO
Interviste
137 Michel Foucault Il potere, i valori morali e l’intellettuale. Un’intervista con Michel Foucault
145 Daniel Defert Volontà di verità e pratica militante in Michel Foucault
Saggi
159 Silvia Chiletti Retenons donc nos larmes. Riletture e polemiche intorno alla conferenza
Che cos’è un autore? di Michel Foucault
179 Caterina Croce Dissidenza e stile d’esistenza. La prospettiva della cura tra Jan Patočka
e Michel Foucault
205 Marco Malandra Michel Foucault e le immagini. Tre contributi per un’archeologia
del figurativo
Un’immagine ci teneva prigionieri
di Laura Cremonesi, Orazio Irrera,
Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli
No, no, non sono dove mi cercate, ma qui da dove vi guardo ridendo.
Michel Foucault
offerti dalla boîte à outils di Foucault, possono far apparire oggetti diversi
da quelli inizialmente considerati.
Vi sono infine usi politici di Foucault, il cui obiettivo non è (o almeno
non è direttamente) implementare un’analisi condotta da una prospettiva
epistemologica, governamentale o etica, ma disegnare all’interno dell’at-
tualità in cui si vive un campo, un contesto, un dominio da problematizza-
re. Anche solo a partire da uno slogan, da uno striscione di protesta, o da
una ricezione parziale dell’opera di Foucault, questi usi apparentemente
“minimalisti”, che spesso intersecano le modalità della performance arti-
stica, segnano le linee incerte di un campo di problematizzazione possi-
bile entro cui, ad esempio, la volontà di non essere governati in questa o
quella maniera, di rifiutare questa o quella oggettivazione, può marcare il
punto d’avvio di una molteplicità di genealogie non tracciate da Foucault,
ma che possono essere intraprese a partire dalle sue analisi e dagli stru-
menti concettuali che egli ha forgiato.
Considerare queste diverse forme di uso di Foucault come l’esito di
un atteggiamento che riconoscerebbe nell’opera foucaultiana una sorta di
Bibbia in grado di insegnare ai propri “fedeli” come resistere o combatte-
re il potere, significherebbe perdere di vista (o ignorare deliberatamente)
una posta in gioco cruciale: l’attuale complessità e problematicità dell’ar-
ticolazione tra la scena politica e la scena della produzione di sapere, che
gli effetti dell’opera di Foucault attraversano sagittalmente. Non coglie-
re questa articolazione significherebbe, in fondo, impedire il prodursi di
quello stupore che, misto a un velo di soddisfazione, anche Foucault ha
provato, per esempio dinanzi al fatto che molti carcerati, a un certo pun-
to, si siano messi a leggere Sorvegliare e punire…
Naturalmente, se talvolta è possibile reperire queste forme di uso tali
e quali le abbiamo sommariamente descritte, più spesso esse appaiono
intrecciate secondo una grande varietà di trame. Nondimeno, quello che
ci sembra importante sottolineare è come molte di esse vengano talvolta
considerate “esterne” e, per questa ragione, gerarchicamente subordinate
a usi per l’appunto più “interni” dell’opera foucaultiana. Il sottinteso, nel-
la maggior parte dei casi implicito, ma non per questo meno operativo, è
che ogni uso “esterno” di Foucault sia viziato da un’ingenuità di fondo o
da un’irrimediabile incongruità che scaturirebbe, necessariamente, dall’u-
tilizzo della sua boîte à outils fuori dal campo di problematizzazione nel
quale essa è stata originariamente approntata. Gli usi “interni”, dal canto
8 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli
Gallimard, Paris 1997; trad. it. di M. Bertani e A. Fontana, “Bisogna difendere la società”,
Feltrinelli, Milano 1998, p. 220.
3
Cfr. A.L. Stoler, Race and the Education of Desire. Foucault’s History of Sexuality and
the Colonial Order of Things, Duke University Press, Durham 1995.
Introduzione 13
Nel testo di Stoler che qui pubblichiamo, scritto diversi anni dopo
Race and the Education of Desire, l’autrice prova a fare un bilancio delle pro-
prie precedenti riflessioni e, nello stesso tempo, a svilupparle ulteriormen-
te, chiedendosi in che misura il razzismo moderno e i discorsi sulla sessua-
lità fossero interdipendenti tra loro, tanto nelle grandi metropoli imperiali,
quanto nelle colonie. In tal senso, il razzismo in atto nelle colonie non
era un fenomeno periferico, una sorta di riflesso rispetto a quello che si
sarebbe sviluppato, in forme e modalità del tutto indipendenti, in Europa;
al contrario, esso faceva parte del medesimo processo di formazione degli
Stati europei e della società borghese. In questa prospettiva, i rapporti tra
razzismo e sessualità, intesi come meccanismi fondamentali di regolazio-
ne miranti a consolidare un ordine di tipo borghese e coloniale, non si
fissavano su gruppi la cui “differenza” risultasse chiaramente visibile. Al
contrario, questo nesso razzismo-sessualità serviva a fare «presa su identità
ambigue – razziali, sessuali e di altro tipo –, su ansie prodotte proprio per-
ché tali artefatte differenze non erano per nulla chiare»4. Perciò, secondo
Stoler, «i razzismi traggono la loro forza strategica non dalla fissità dei
loro essenzialismi, ma dalla malleabilità interna assegnata alle caratteristi-
che cangianti dell’essenza razziale»5.
I discorsi razziali, quindi, anziché delimitare identità stabili, sembrano
piuttosto essere caratterizzati da un’intrinseca mobilità e polivalenza. Essi
risultano “flessibili”, tanto da permettere sia la rottura rispetto a prece-
denti discorsi razziali, sia il recupero di alcuni dei loro elementi. Questo
modo di procedere, attraverso categorie foucaultiane, verso una storia che
tenga conto delle varie forme di colonialismo, permette a Stoler di fornire
un differente ordine di periodizzazioni per quel che concerne la combi-
nazione tra sessualità e razzismo, intesa come base per l’affermazione del
moderno sé borghese. Proprio tali specifiche configurazioni assunte dalla
razza e dalla sessualità nel mondo delle colonie suggeriscono, a loro volta,
di rileggere e ridefinire i modi in cui gli spazi domestici e la dimensione
dell’intimità familiare arrivano a strutturare soggettività borghesi, costi-
tuendo così una piattaforma di problematizzazione e di intervento per il
governo imperiale.
Ma le genealogie dei razzismi che considerano il più ampio panora-
ma della scena coloniale non si riferiscono soltanto all’emergere di for-
me biopolitiche di regolazione tali da garantire un ordine incontrastato e
incontrastabile. La questione della razza e del razzismo è stata una delle
4
Infra, p. 25.
5
Ibidem.
14 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli
poste in gioco più importanti dei movimenti di resistenza che, nella se-
conda metà del ventesimo secolo, hanno scosso e messo fine agli assetti
imperiali instauratisi nei secoli precedenti. L’articolo di Matthieu Renault,
La confessione (anti)coloniale. Razza e verità nelle colonie: Fanon dopo Foucault, si
sofferma su questo tema attraverso un confronto tra Foucault e Frantz
Fanon, condotto a partire da un’analisi delle “politiche razziali di verità”.
Renault mostra che, attraverso Fanon, è possibile individuare come, nel
mondo coloniale, la razza abbia determinato un regime aleturgico parados-
sale, in cui l’ingiunzione a dire il vero e ad assoggettarsi secondo forme
specificamente coloniali (il divenire soggetto, suddito, coloniale) era ac-
compagnata dalla consapevolezza, da parte dei colonizzati, che i tribunali
chiamati a giudicarli erano il luogo di una messa in scena sistematica, dove
la loro menzogna si configurava allora strategicamente e sistematicamente
come un dir-falso.
In conseguenza di ciò, a dispetto dei concreti effetti di potere e di
assoggettamento coloniale prodotti dalle istituzioni, i tribunali e le pra-
tiche giudiziarie della confessione venivano radicalmente rifiutati come
luoghi in cui fosse possibile una qualsivoglia manifestazione del vero, che
avrebbe trovato invece il proprio luogo di sperimentazione e di contro-
assimilazione in tutta una serie di soggettivazioni anticoloniali. Renault
spiega come Fanon analizzi in tal senso gli effetti di soggettivazione della
violenza anticoloniale, presentata non come un’astorica negatività morale,
ma come l’esito storico e politico di relazioni coloniali e razziali di potere
fortemente sbilanciate, che nella violenza – e nelle sue implicazioni razziali
– trovano forme di soggettivazione provvisorie, eticamente inadeguate ma
politicamente necessarie durante i momenti più intensi della lotta antico-
loniale. Renault descrive, così, il ritorno strategico di Fanon al tema della
guerra delle razze, al fine di ritorcere il razzismo contro se stesso.
Nelle situazioni postcoloniali successive ai processi di decolonizzazio-
ne, anche quando gli apparati di Stato non erano più gestiti direttamente
dagli europei – che nondimeno continuavano a esercitare un controllo
politico su di essi, attraverso tutta una serie di condizionamenti interni
ed esterni –, il problema della razza e dei razzismi ha continuato a essere
al centro di una vasta gamma di regolazioni biopolitiche. Foucault, del
resto, ha ben evidenziato come l’insieme delle tecnologie politiche rivolte
al potenziamento della vita siano da mettere in relazione con il potere di
procurare la morte. Per questo, studiosi come Achille Mbembe si sono
soffermati sul funzionamento di meccanismi più specificamente lega-
ti a un’amministrazione postcoloniale della morte, che Mbembe chiama
Introduzione 15
6
A. Mbembe, Necropolitics, in «Public Culture», vol. 15, n. 1 (2003), pp. 11-40; Id., De
la postcolonie. Essai sur l’imagination politique dans l’Afrique contemporaine, Karthala, Paris 2000.
7
M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 222.
16 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli
8
Infra, pp. 96-97.
Introduzione 17
ratività del razzismo psichiatrico era rivolta contro una minaccia genetica
(interna o esterna che fosse) tutto sommato ben riconoscibile, e che aveva
la forma dell’individuo pericoloso, oggi è un’ampia gamma di singoli com-
portamenti a essere considerata anormale o deviante, e a divenire oggetto
della psichiatria. Iliopoulos mostra così come si sia formata una nuova
“rete di vigilanza biomedica”, che si esercita mediante forme più sottili di
razzializzazione a livello delle mutazioni nel sequenziamento del DNA,
mutazioni che possono essere geneticamente manipolate in laboratorio
o modificate farmacologicamente. Infine, tanto la follia quanto la razza
vengono analizzate come elementi di irriducibilità rispetto alle forme di
potere che le prendono di mira: le lotte che si sono sviluppate intorno ad
esse, a livello di ciò che Foucault chiama “politica della verità”, possono
oggi, secondo Iliopoulos, offrire alla psichiatria un’opportunità «per criti-
care il proprio ruolo nel sostegno al razzismo, e per riflettere sulla propria
relazione fondamentale e dimenticata con la follia e la razza, come limiti
della razionalità occidentale»9.
Infine, anche l’articolo di Jonathan Xavier Inda, che si inserisce nel
solco di importanti studi, come quelli di Paul Rabinow e Nikolas Rose10,
mira a ripensare le forme di conoscenza e di intervento dell’attuale biopo-
tere alla luce degli sviluppi delle scienze genetiche e biologiche. Nel suo
For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita, Inda prende in
esame un caso specifico, quello del BiDil, un farmaco contro l’insufficien-
za cardiaca lanciato sul mercato statunitense come prodotto riservato alla
popolazione afro-americana. L’idea implicita in tale operazione, e cioè che
gli afro-americani possiedano un profilo biologico sufficientemente identi-
ficabile, ha suscitato forti preoccupazioni e polemiche, perché è stata vista
come un tentativo di reintrodurre una forma di biologizzazione della razza.
Nel proprio testo, Inda cerca di far emergere le poste in gioco relative a
questo dibattito ricostruendo, sulla scorta delle analisi di Foucault, i modi
in cui la razza è stata storicamente biologizzata, dalle politiche segrega-
zioniste degli Stati Uniti alla costituzione di un sapere sulle variazioni del
genoma umano. Inda affronta così la questione della riconfigurazione del
tema della razza ai giorni nostri, quando le ricerche genetiche cercano di
legittimarsi come tentativo di migliorare la salute e la qualità della vita.
9
Infra, p. 106.
10
Cfr. P. Rabinow, French DNA. Trouble in Purgatory, University of Chicago Press,
Chicago 1999; N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in the
Twenty-First Century, Princeton University Press, Princeton 2007 (trad. it. La politica della
vita. Biomedicina, potere e soggettività nel XXI secolo, Einaudi, Torino 2008); P. Rabinow e
N. Rose, Introduction. Foucault Today, in P. Rabinow e N. Rose (a cura di), The Essential
Foucault, New Press, New York 2003, pp. vii-xxxv.
18 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli
prima come una fonte di ispirazione, poi come una fonte di riflessione e
di critica. Come per tanti altri nel campo degli studi coloniali, la mia ini-
ziale concezione del potere e del sapere venne da lui trasformata. Per due
decenni e in diverse occasioni, ho elaborato e rielaborato la sua insistenza
sulla sessualità come «un punto di passaggio particolarmente denso per
le relazioni di potere»2. Tutti i capitoli precedenti erano rivolti a pensa-
re il potere coloniale e l’organizzazione del sesso attraverso Foucault e il
femminismo: il modo in cui le autorità coloniali hanno scelto di parlare
della “carnalità” e di iterare i suoi pericoli ha contribuito grandemente a
sostanziare le sue affermazioni. Nei miei ultimi lavori, più direttamente
concentrati sui discorsi coloniali che ponevano il sesso come “la verità”
del sé razzializzato, è nuovamente su Foucault che sono tornata.
* Questo capitolo è basato su un testo largamente rivisto relativo a due diversi in-
terventi che risalgono al 1997: il primo pronunciato nel quadro del convegno Gender and
Imperialism, all’University of the Western Cape, Città del Capo (Sudafrica); il secondo alla
conferenza Foucault Goes Troppo, all’Australian National University di Canberra. Entrambi
erano public lectures per un auditorio interdisciplinare, nel quale soltanto alcuni avevano
letto Race and the Education of Desire [cfr. A.L. Stoler, Race and the Education of Desire. Fou-
cault’s History of Sexuality and the Colonial Order of Things, Duke University Press, Durham
1995 (N.d.T.)], libro che i più invece non conoscevano. Parti della sezione centrale attin-
gono direttamente a quest’opera con qualche commento, talvolta con lievi modifiche. In
entrambi i casi, mi era stato chiesto di discutere del libro: la qualità autoreferenziale del
presente capitolo deriva dal fatto che la seconda conferenza era suggerita da e in parte
consacrata ad esso.
1
[Questo testo costituisce il sesto capitolo di Carnal Knowledge and Imperial Power. Race
and the Intimate in Colonial Rule, University of California Press, Berkeley 2002. L’autrice si
riferisce pertanto ai precedenti capitoli di tale volume (N.d.T.)]
2
M. Foucault, Histoire de la sexualité I. La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; trad.
it. di P. Pasquino e G. Procacci, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano
1978, p. 92. [La traduzione inglese cui l’autrice fa riferimento è a cura di R. Hurley ed è
intitolata The History of Sexuality, vol.1. An Introduction, Vintage, New York 1978 (N.d.T.)]
3
Mi occupo di questa relazione tra sentimento e Stato entro un quadro di filosofia
morale nel mio Along the Archival Grain. Epistemic Anxieties and Colonial Common Sense,
Princeton University Press, Princeton 2009.
Una lettura coloniale di Foucault 21
Race and the Education of Desire era basato su alcune semplici domande.
Perché, in un momento in cui l’opera di Foucault aveva avuto un enorme
impatto su tutta una serie di discipline e sulla svolta discorsiva e storica al
loro interno, gli studiosi contemporanei si sono occupati in maniera così
obliqua del più esile – alcuni potrebbero dire del più accessibile – dei suoi
lavori principali, ovvero La volontà di sapere? Più precisamente, perché gli
studi coloniali, all’interno dei quali i temi della sessualità e del potere sono
adesso così importanti per l’agenda intellettuale e politica, hanno avuto
così poco da dire su questo libro? In un ambito in cui la lettura di questo
volume è stata rigorosa e il riferimento a esso conferiva autorità intellet-
tuale, cosa può rendere conto dell’impressionante assenza di un impegno
che fosse allo stesso tempo analiticamente critico e storicamente fondato?
Race and the Education of Desire voleva essere, inizialmente, una lettura
coloniale de La volontà di sapere in grado di mettere in questione sia la de-
Una lettura coloniale di Foucault 23
6
Si veda la recensione di Christian Delacampagne, Foucault, généalogie du biopouvoir, in
«Le Monde des Livres», 21 febbraio 1997, p. 1.
7
Sul periodo lavorativo e politico trascorso da Foucault in Tunisia, si veda D. Macey,
The Lives of Michel Foucault, Pantheon, New York 1993, pp. 183-208.
8
A.L. Stoler, Colonial Aphasia and the Place of Race in France, keynote address alla confe-
renza 1951-2000: Transatlantic Perspectives on “The Colonial Situation”, New York University,
aprile 2001.
24 Ann Laura Stoler
Nei fatti, qual era il suo rapporto con il colonialismo, e che cosa gli
studi coloniali, in un dato momento, hanno immaginato essere un Foucault
“utilizzabile”? Perché Sorvegliare e punire fornisce più spesso un modello di
quanto non facciano le sfumate intuizioni metodologiche de L’archeologia
del sapere? Perché ci sono così tanti lavori recenti sulla “governamentalità”
coloniale, ma ve ne sono così pochi sui complessi modi in cui Foucault com-
prese i movimenti dei saperi assoggettati e le loro “insurrezioni”? E perché,
fino a pochissimo tempo fa, ve ne erano ancora meno sulla razza9?
Tutto ciò non è un preludio alla tesi secondo cui avremmo tutti manca-
to di cogliere il “vero” Foucault. Individuare le tensioni tra le sue lezioni e i
suoi scritti fa solo parte di uno sforzo più generale – quello di domandare
che cosa Foucault offra alla nostra comprensione dei fondamenti borghesi
dei regimi coloniali e, specularmente, in che modo l’attenzione verso la di-
mensione coloniale riconfiguri i parametri foucaultiani e sfidi ciò che viene
considerato come una parte della storiografia europea.
Ci sono due tesi fondamentali di Race and the Education of Desire che qui
sono rilevanti. In primo luogo, la proliferazione discorsiva sulla sessualità
che Foucault registra in Europa, nel diciottesimo e nel diciannovesimo
secolo, non può essere semplicemente registrata nella sola Europa, ma
attraverso un percorso imperiale ben più tortuoso di quello che Foucault
suggerisce. Tale proliferazione era riflessa da uomini e donne la cui af-
fermazione di un sé borghese dipendeva da prodotti imperiali, da perce-
zioni, e da Altri razzializzati che essi generavano. Ho sostenuto che, tra
il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, non si possano individuare in
Europa delle tecnologie legate al sesso senza tracciarne il percorso su una
superficie coloniale. Così, ho approcciato La volontà di sapere attraverso una
molteplicità di passaggi, comparando le sue cronologie e le sue rotture
strategiche con quelle delle colonie. Tuttavia, una cosa altrettanto impor-
tante che ho sostenuto è che una “comparazione” di queste due tecnologie
centrate sul sesso, apparentemente a se stanti – quella delle colonie e quella
della metropoli –, poteva non cogliere in che misura tali tecnologie costi-
tuissero ognuna una parte dell’altra e fossero pertanto strettamente legate.
9
Si noti che, per un po’ di tempo, alcuni dei ragionamenti di Foucault sui saperi
assoggettati sono stati ampiamente disponibili [per il pubblico di lingua inglese (N.d.T.)],
con il titolo Two Lectures, in M. Foucault, Power/Knowledge. Selected Interviews and Other Wri-
tings, 1972-1977, a cura di C. Gordon, Harvester Press, Brighton (Sussex) 1977; e più re-
centemente nel volume a cura di N.B. Dirks, G. Eley e S.B. Ortner, Culture/Power/History.
A Reader in Contemporary Social Theory, Princeton University Press, Princeton 1994. Non vi
è alcuna indicazione, in nessuno dei due volumi, del fatto che queste “due conferenze”
siano le prime due lezioni del corso sulla razza del 1976.
Una lettura coloniale di Foucault 25
10
Si veda il mio Racial Histories and Their Regimes of Truth, in «Political Power and
Social Theory», n. 11 (1997), pp. 183-255.
26 Ann Laura Stoler
11
M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 9.
12
Ivi, pp. 91, 135 e 92.
13
Cfr. A.L. Stoler, Carnal Knowledge and Imperial Power. Gender and Morality in the Making
of Race [ovvero il terzo capitolo di Carnal Knowledge and Imperial Power, cit., pp. 41-78
(N.d.T.)]; A. McClintock, Imperial Leather. Race, Gender, and Sexuality in the Colonial Conquest,
Routledge, New York 1995; R.J.C. Young, Colonial Desire. Hybridity in Theory, Culture and
Race, Routledge, London 1995.
Una lettura coloniale di Foucault 27
siano stati inventati nelle colonie anziché in Europa, come alcuni degli
studi sul colonialismo stanno vibratamente sostenendo. Si tratta piuttosto
di immaginare nuovi modi di sovvertire profondamente le storiografie di
Stato, tracciando gli itinerari transnazionali delle persone e i circuiti della
produzione di sapere attraverso movimenti dotati di un respiro globale.
Proprio a causa di questa assenza così evidente, gli studiosi del colo-
nialismo dovrebbero essere spronati a elaborare le genealogie di Foucault
entro una mappa imperiale più vasta. Tuttavia, l’elemento cruciale de La
volontà di sapere che avrebbe dovuto dire qualcosa al mondo imperiale del
diciannovesimo secolo è stato largamente ignorato. Questo elemento è il
collegamento strategico tra la storia della sessualità e la costruzione del-
la razza. Contrariamente a un’immagine ampiamente acquisita, per cui il
libro di Foucault si concentrerebbe sulla sessualità e sul biopotere, i rife-
rimenti al razzismo vi appaiono virtualmente in ogni capitolo. È sorpren-
dente come solo pochi degli interlocutori di Foucault ne abbiano parlato
o li abbiano notati, visto che le due sezioni finali del libro si occupano
direttamente della “strumentalità” della sessualità in riferimento alla nasci-
ta dei razzismi e della convergenza di entrambi nello Stato biopolitico. Si
potrebbe affermare, come ha fatto Étienne Balibar, che il razzismo è ciò
che il concetto di biopotere si prefigge di spiegare20. Le lezioni del 1976,
unitamente a quella pubblicata su «Temps modernes» nel 1991 con il sot-
totitolo La naissance du racisme (La nascita del razzismo), accreditano ancora
di più la tesi di Balibar, rendendo al contempo più profondo il silenzio.
Questo silenzio può riflettere le costrizioni di un campo politico e in-
tellettuale all’interno del quale Foucault era al tempo collocato, un campo
nel quale il concetto di classe e il tipo di trasformazioni sociali generate
dal capitalismo costituivano ancora il fondamento della teoria critica della
società e della politica. Non era lo stesso per la razza e la teoria razziale.
Le storie del razzismo occupavano un ambito differente: nel mondo della
ricerca americano, esse erano relegate a sottotema della storia della schiavi-
tù; in quello britannico, erano relegate nel campo politicamente anestetiz-
zato e astorico delle “relazioni tra razze” (“race relations”); in quello france-
se, figuravano invece all’interno della storia del genocidio ebraico, mentre
in quello tedesco erano inserite nella storia del particolarismo teutonico
che aveva prodotto una storia degli orrori solo per liberarsi di ciò che è
passato una volta per tutte.
20
É. Balibar, Foucault et Marx. L’enjeu du nominalisme, in Michel Foucault, philosophe.
Rencontre internationale, Paris, 9, 10, 11 janvier 1988, Seuil, Paris 1989; trad. it. Foucault e Marx.
La posta in gioco del nominalismo, in É. Balibar, La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo
Marx, Mimesis, Milano 2001, pp. 157-170.
30 Ann Laura Stoler
21
Si veda il mio Racist Visions for the Twenty-first Century. On the Cultural Politics of the
Radical Right in France, in D. Goldberg e A. Quayson (a cura di), Relocating Postcolonialism,
Blackwell, Oxford 2002.
22
Malgrado la recente ondata di libri sul razzismo e la destra radicale che documen-
tano l’ascesa, la divisione e il crollo del Front National francese, i testi adottati nelle scuole
medie e nei licei evitano categoricamente di menzionare la storia del razzismo in Francia.
23
Analisi più sofisticate possono essere reperite in J.-Y. Camus, Le front National.
Histoire et analyses, O. Laurens, Paris 1997. E, sul Front National come prodotto e parte
integrante della storia e della politica francese, si veda il libro del giornalista H. Huertas,
FN. Made in France, Éditions Autrestemps, Paris 1997.
Una lettura coloniale di Foucault 31
Che sia una coincidenza o meno, bisogna aggiungere che solo recen-
temente queste lezioni di Foucault sono state pubblicate da due importanti
case editrici francesi, Seuil e Gallimard, all’interno di un progetto edito-
riale destinato a includere i corsi da lui tenuti al Collège de France tra il
1970 e il 1984. Sebbene il volume che ha inaugurato questa serie non sia
il suo primo corso, ma quello sulla razza24, l’introduzione a tale volume
non menziona il tema principale del corso: le genealogie della razza e dei
razzismi di Stato25. Foucault resta così decisamente fuori dal campo di at-
tenzione di coloro che in Francia scrivono sulla razza, e ciò malgrado egli
descriva discorsi – quelli di una “guerra delle razze” e di una “difesa della
società” contro se stessa – che sono ritornelli familiari nelle affermazioni
del Front National, secondo cui occorre difendere la nazione e proteggere
una società francese in “guerra civile”.
Ciò nonostante, la tesi foucaultiana, presente nel corso del 1976, se-
condo la quale i razzismi sono alla base del modo in cui il biopotere si è
sviluppato in tutti gli Stati moderni, non fu accolta bene, come non lo è
stata nemmeno vent’anni più tardi, quando il corso ha visto la luce. Una
recensione apparsa su «Le Monde des Livres» nel 1997 fa riferimento a
questo aspetto della tesi di Foucault come a un sorprendente e inquietante
«sursaut» (un balzo che avviene in modo improvviso e quasi involontario),
sottolineando come Foucault sia stato troppo sbrigativo («il va soudain trop
vite») e si sia spinto troppo oltre. Anche i filosofi pare abbiano ignorato
questo corso. I primi articoli di rivista ad esso dedicati (presentati in una
sezione monografica con il titolo Michel Foucault. Dalla guerra delle razze al
biopotere) apparvero solo nel 200026.
Se alcuni elementi di novità presenti in queste lezioni sono stati mal
recepiti, come un prototipo del pensiero di Foucault, altri elementi meto-
dologici sono stati invece acquisiti. In primo luogo, questo corso dovrebbe
imporre una battuta di arresto a coloro che intendono la nozione foucaul-
tiana di potere come qualcosa di sempre capillare e microfisico, piuttosto
che rivolto ai macro-monopoli dello Stato. In questo corso, infatti, l’accen-
24
M. Foucault, « Il faut défendre la société ». Cours au Collège de France. 1975-1976, Seuil/
Gallimard, Paris 1997; trad. it. di M. Bertani e A. Fontana, “Bisogna difendere la società”, Fel-
trinelli, Milano 1998. Nella recensione di Delacampagne (Foucault, généalogie du biopouvoir,
cit.) si nota come sia stata una scelta appropriata quella di far apparire per primo, rispetto
dell’intera serie composta da tredici corsi, quello del 1976, dal momento che esso rappre-
senta un punto di svolta, una “pausa” nel percorso di Foucault.
25
Si veda, a titolo di esempio, Ch. Delacampagne, Foucault, généalogie du biopouvoir,
cit., p. 1.
26
Cfr. Y.Ch. Zarka (a cura di), Michel Foucault. De la guerre des races au biopouvoir, in
«Cités. Philosophie, politique, histoire», n. 2 (2000).
32 Ann Laura Stoler
27
M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 70.
28
[Per comodità espositiva, abbiamo tradotto questo passaggio sul calco della tradu-
zione inglese del primo volume della Storia della sessualità: «the anchorage points for the different
varieties of racism of the nineteenth and twentieth centuries» (M. Foucault, The History of Sexuality,
cit., p. 26). Il passaggio originale («Les racismes du XIXe et du XXe siècle y trouveront certains de
leurs points d’ancrage»; M. Foucault, La volonté de savoir, cit., p. 37) è tradotto nella versione
italiana nel modo seguente: «I razzismi del XIX e del XX secolo vi troveranno alcune
delle loro radici»; M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 28 (N.d.T.)]
Una lettura coloniale di Foucault 33
29
M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 50.
34 Ann Laura Stoler
30
M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 74.
31
M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 105.
32
[L’autrice fa riferimento al precedente capitolo (il quinto) di Carnal Knowledge
and Imperial Power, cit.: A Sentimental Education. Children on the Imperial Divide, pp. 112-139
(N.d.T.)]
Una lettura coloniale di Foucault 35
Dalla seconda metà del XIX secolo è successo che la tematica del sangue
sia stata chiamata a vivificare ed a sostenere con tutto uno spessore storico il
tipo di potere politico che si esercita attraverso i dispositivi di sessualità. Il raz-
zismo si forma a questo punto (il razzismo nella sua forma moderna, statale,
biologizzante)33.
Si noti come anche la sintassi sia messa al lavoro per rendere assenti
alcuni attori chiave. Foucault non concede alcuno spazio al fatto che questi
corpi borghesi fossero prodotti entro un insieme di pratiche che non di-
pendevano mai dalla sola volontà di autoaffermazione. Questo «corpo da
curare, da proteggere, da educare, da preservare da tutti i pericoli e da tutti
i contatti» richiedeva degli altri corpi che avrebbero svolto queste mansioni
educative, e avrebbero fornito la tranquillità necessaria per tali pratiche
autoriferite e per tali atti di auto-potenziamento (for such self-absorbed admi-
nisterings and self-bolstering acts). Si trattava di un corpo caratterizzato per il
suo genere (gendered body), e di un corpo dipendente da un intimo insieme di
relazioni sessuali e di assistenza tra uomini francesi e donne vietnamite, tra
donne olandesi e uomini delle Indie. Si trattava quindi di un corpo plasma-
to dalla politica della razza. Donne native che, presso le famiglie europee,
servivano da concubine, domestiche, bambinaie, mogli, minacciavano al
tempo stesso il «valore differenziale» dei corpi di adulti e bambini che era-
no lì per essere protetti e rinvigoriti.
Siamo in presenza di un insieme di tensioni fondamentali: tra una cul-
tura della “bianchezza” (whiteness) che si isola dal mondo nativo e una serie
di disposizioni domestiche e di distinzioni di classe tra europei che produ-
ce una prossimità culturale, rapporti intimi e simpatie che ne rappresenta-
no la trasgressione. La famiglia, come avvertiva Foucault, non era il rifugio
dinanzi alle forme di sessualità che appartenevano a un pericoloso mondo
35
M. Foucault, La volontà di sapere, cit., pp. 109-110, corsivo mio.
38 Ann Laura Stoler
36
U. Mehta, Liberal Strategies of Exclusion, in F. Cooper e A.L. Stoler (a cura di),
Tensions of Empire. Colonial Cultures in a Bourgeois World, University of California Press,
Berkeley 1997, pp. 59-86.
37
D. Sommer, Irresistible Romance. The Foundational Fictions of Latin America, in
H.K. Bhabha (a cura di), Nation and Narration, University of California Press, Berkeley
1990, p. 87.
40 Ann Laura Stoler
38
M. Foucault, La volontà di sapere, cit., pp. 107-108.
39
M. Foucault, Résumé des cours, 1970-1982, Julliard, Paris 1989, p. 78; trad. it. in
M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), a cura di V. Marchetti e
A. Salomoni, Feltrinelli, Milano 2000, p. 291.
Una lettura coloniale di Foucault 41
40
Ivi, p. 290.
42 Ann Laura Stoler
Ulteriori riflessioni
Per alcuni, Race and the Education of Desire si è rivelato più utile di
quanto sperassi, per altri si è invece rivelato scomodo. Studiosi apparte-
nenti a diversi ambiti disciplinari sono stati colpiti o addirittura disturbati
da Foucault. Alcuni hanno condiviso il mio interesse sul perché così po-
che persone abbiano utilizzato le periodizzazioni di Foucault nel mondo
delle colonie, unendosi entusiasticamente a me nel domandarsi perché
ciò non venisse fatto. Diversi altri studiosi del colonialismo si sono uniti
a me nel mettere in discussione l’articolazione tra il biopotere europeo e i
razzismi coloniali, sia negli imperi contigui (contiguous empires) sia in quelli
“d’oltremare”. Pochi altri hanno invece cercato di chiedersi se un linguag-
gio della razza si fosse formato a partire da un linguaggio inerente alla
classe (come suggerisce il discorso razziale del diciannovesimo secolo)
piuttosto che in altro modo.
Ma, stranamente, l’interesse portato su Foucault ha disturbato più di
quanto potessi immaginare. Per quanto molti studi sul colonialismo in In-
ghilterra e negli Stati Uniti avessero fatto ricorso a Foucault, gli storici
olandesi si erano in linea di massima astenuti dal farlo. Per loro il mio libro
non era sull’impero olandese, ma su Foucault. Per gli studiosi foucaultiani
di formazione filosofica era invece sul colonialismo e sulla razza. Nessuno
lo ha recensito. Un critico notava la mia “eccessiva fiducia nelle forme di
analisi empirica”; un altro suggeriva che il libro fosse insufficientemente
impregnato del mondo empirico e nativo. Si è fatto riferimento ad esso
come a un libro facilmente leggibile e pure allo stesso tempo eccessiva-
mente denso (overcongested). Alcuni hanno abbracciato la mia rilettura della
sessualità europea attraverso l’impero; altri l’hanno criticata perché appari-
va “razzialmente deterministica”.
Molti hanno curiosamente suggerito che ero stata troppo generosa
con Foucault. Leggendo il libro come un’etnografia coloniale, alcuni han-
no cominciato a domandarsi se Foucault non potesse essere omesso del
tutto. Più di recente, un collega mi ha chiesto, in modo benevolo, perché
ancora un’altra “donna interessata alla teoria” cercasse di inquadrare il suo
contributo “attraverso un soggetto maschile”. Il disincanto verso Foucault
non è certo nuovo, né mi interessa. Ma chiaramente qualcosa non era stato
afferrato. Io sono piuttosto interessata a chiedermi perché, malgrado un
ampio numero di lettori, quelli che ancora considero come alcuni dei punti
di maggior interesse critico nel mio libro – e ugualmente nei lavori di Fou-
cault – sembrino essere passati inosservati, se non addirittura ignorati.
Una lettura coloniale di Foucault 45
Non da ultimo, tra questi punti d’interesse ve n’è uno che ho già men-
zionato: lo sforzo foucaultiano di ragionare attraverso una specifica gene-
alogia dei discorsi sulla razza. Altrettanto importante è l’enfasi posta nel
corso del 1976 sul razzismo moderno inteso come caratteristica inerente
alle forme statali contemporanee. L’attenzione di Foucault era decisamen-
te rivolta non a qualche generica nozione di razzismo, ma a ciò che egli
chiamava “razzismo di Stato” o “razzismo nella sua forma statale”, ovvero
il razzismo come parte di un apparato di normalizzazione proprio dello
Stato capitalista, fascista e socialista. Tale spostamento di attenzione com-
porta una duplice conseguenza: esso porta a riconsiderare il razzismo non
come uno sviluppo aberrante e patologico dell’autorità dello Stato allora
in crisi, bensì come una fondamentale e “indispensabile” tecnologia di
governo – come un meccanismo operativo del biopotere. Questo suscita
una domanda ulteriore: come ha potuto il razzismo funzionare in questo
modo? E come ha potuto, allo stesso tempo, soddisfare un’ampia gamma
di agende politiche?
Tali questioni sono fondamentali sotto diversi aspetti per la progres-
sione delle lezioni del 1976. Poiché, là dove Foucault cominciò la sua ese-
gesi, non vi era alcuna discussione sul razzismo, come ci si sarebbe potuto
attendere, ma solo un insieme più generale di osservazioni circa la natura
del potere, della conoscenza erudita, delle formazioni discorsive. Come
fece nel progetto metodologico de L’archeologia del sapere, ancora una volta
Foucault confuta – e rifiuta – l’idea secondo cui una formazione discor-
siva può essere identificata in virtù della sua unità e della sua coerenza.
Secondo Foucault, invece, essa deve essere identificata con le «differenti
possibilità che [tale formazione discorsiva] consente di ridare vita a temi
già esistenti, di suscitare delle strategie opposte, di far posto a interessi
inconciliabili, di permettere di giocare partite differenti con un numero
determinato di concetti»42.
Sono le differenti manifestazioni della “mobilità polivalente” che Fou-
cault individua nel suo corso sulla razza. Sostenendo, all’inizio delle sue
due prime lezioni, che i discorsi si compongono sia della conoscenza eru-
dita sia dei saperi assoggettati, egli si sofferma su un punto davvero degno
di nota: i discorsi, soltanto in apparenza unificati, sono invece storicamen-
te stratificati con una serie di contro-discorsi (oppositional discourses) perme-
42
M. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; trad. it. di G. Bogliolo,
L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, p. 51. [La traduzione inglese cui l’autrice
fa riferimento è a cura di A.M. Sheridan Smith, The Archaeology of Knowledge, Pantheon,
New York 1972 (N.d.T.)]
46 Ann Laura Stoler
ati dal ritorno dei saperi assoggettati, i quali possono insorgere accanto
ai discorsi ufficiali. In breve, il discorso sulla razza non è sempre stato
uno strumento dello Stato né è stato sempre mobilitato contro di esso. I
discorsi razziali si sono diffusi su un campo più ampio. Le loro genealogie
dovrebbero individuare i loro «differenti spazi di dissenso» e i loro speci-
fici luoghi di dispersione43.
Le prime due lezioni sono state canonizzate (anzi feticizzate) come la
parte dell’opera di Foucault che interpella più direttamente gli studi storici
sui subalterni. Ma ciò è avvenuto in una maniera molto particolare, ovvero
partendo da una proposizione controintuitiva. I saperi squalificati pos-
sono essere di diversi tipi. Come il campo della frenologia, essi possono
essere valorizzati in un certo momento storico, e più tardi essere messi da
parte, senza che vengano scalfiti i princìpi che ne sono alla base; ovvero,
una convergenza tra fisiologia e gli stati interni che determina la razza.
Tuttavia, i saperi squalificati possono lavorare contro loro stessi ed essere
al servizio della conoscenza erudita. Il discorso sulla razza, per esempio,
accresce la propria forza non perché è un discorso scientificamente vali-
dato, ma proprio per la ragione opposta. Esso è saturo di sentimentalismi
che ne accentuano il richiamo. I saperi squalificati possono fare qualcosa
di diverso: usurpare lo spazio della conoscenza erudita e, attraverso la loro
“insurrezione”, rovesciare il mondo da sotto in su. Così, le prime due le-
zioni consacrate a questa insurrezione introducono un tipo particolare di
storia, una genealogia della razza.
Un secondo importante aspetto merita una maggiore attenzione: Fou-
cault ricorre alla nozione di “mobilità polivalente” per spiegare perché il
discorso razziale raramente consista soltanto nelle sue affiliazioni politiche
o nelle sue rivendicazioni strategiche. Esso può infatti soddisfare un’agen-
da politica reazionaria o viceversa una riformista; può essere mobilitato
contro lo Stato in un certo momento storico ed essere da esso usurpato in
un altro momento. Il riconoscimento di questa qualità può aiutare a descri-
vere la sua plasticità (resilience) e la durevole importanza che ha rivestito nel
tempo. Ho provato a sostenere, in altra sede, che questo stesso fatto – che
i discorsi razziali contengano, rispettino e coesistano con un’ampia gam-
ma di agende politiche – non è una contraddizione, ma una fondamentale
caratteristica storica delle loro genealogie politiche non lineari44.
Questa attenzione analitica verso il modo in cui tali contro-narrazioni
e tali saperi squalificati possono riaffiorare all’interno dei discorsi ufficiali
43
Ivi, p. 202.
44
Si veda il mio Racial Histories and Their Regimes of Truth, cit., nota 5.
Una lettura coloniale di Foucault 47
si lega a una terza tematica. Essa costituisce una critica alla comprensione
foucaultiana della plasticità dei discorsi razziali e della forza delle forma-
zioni discorsive: si tratta della tensione che Foucault individua tra processi
di rottura e processi di recupero. Colpisce quanto il progetto storico e
filosofico di Foucault continui ad essere caratterizzato dall’interesse per la
discontinuità storica, le improvvise fratture, le dispersioni in tempi e spazi
inattesi. Molti studiosi ritengono che questo sia il suo contributo più carat-
terizzante, il vero e proprio marchio di fabbrica dei suoi lavori.
Nondimeno, da queste lezioni si evince che le formazioni discorsive
non sono mai costruite soltanto su una rottura epistemica. I discorsi sulla
razza e su come la razza è diventata oggetto di sapere – ovvero le teorie
popolari ed erudite che definiscono il sapere su di essa – sono da declinare
al plurale e non al singolare; sono inoltre di natura sedimentaria anziché
lineare. È all’interno di queste pieghe sedimentate che possono riemergere
nuovi piani e nuove superfici. Queste possibilità così preservate rendono
conto del perché i discorsi razziali appaiano come nuovi e allo stesso tem-
po come rinnovati. Ma che cosa rende invece conto di quelle specifiche ca-
ratteristiche disponibili per un recupero? Cosa rende certe cose suscettibili
di una ricodificazione? Cosa fa sì che l’attuale discorso dell’estrema destra
europea sulla cittadinanza, sugli stranieri, sull’educazione nazionale appaia
così simile al più ampio discorso che su questi temi riscuote consenso e
non dissimile da quello dei demagoghi della razza di un secolo fa?
Nessuno sosterrebbe che il corso del 1976 offra un’analisi esaustiva
tanto dei discorsi razziali quanto dei razzismi di Stato. D’altra parte, pochi
si sono interrogati su tali sconcertanti questioni riguardanti la formazione
degli Stati moderni, esplorando la possibile reversibilità dei discorsi razziali
e i processi di inversione. Se Foucault insiste su alcune questioni piuttosto
che su altre, sta a noi, vent’anni più tardi45, occuparci di quelle di cui egli
non ha potuto trattare e non ha trattato.
Sta a noi comprendere le condizioni di possibilità che conferiscono
al pensiero razziale la sua continua e rinnovata attualità; sta ancora a noi
esaminare minuziosamente le forme in cui le prospettive basate sulla razza
si proclamano come momenti rilevanti del ventesimo secolo; sta infine
a noi comprendere cosa carichi queste ultime di un richiamo populista e
d’opposizione. L’assunto foucaultiano secondo cui le politiche statali sono
dirette alla “difesa della società” contro se stessa produce agghiaccianti
risonanze con i discorsi di estrema destra attualmente presenti in Europa.
Comprendere in modo più approfondito quel che lega razzismi, biopoliti-
45
[Cfr. supra, nota 15 (N.d.T.)]
48 Ann Laura Stoler
.
A Colonial Reading of Foucault: Bourgeois Bodies and Racial Selves
This paper focuses on the “education of desire” in the making of colonial go-
vernance. In it, I challenge Foucault’s history of the carnal while drawing on his
genealogy of race. In so doing, I both rehearse and move beyond the argument
proposed in Race and the Education of Desire, asking not only how the history of
empire affects a history of European sexuality, but also how its inclusion may
alter our understanding of how racism figures in the making of modern sta-
tes. Most important, this paper points to the methodological insights that Fou-
cault’s histories of racial discourse and biopower afford by underscoring both the
polyvalent mobility of racial discourse and what might be gained by attending
to racial discourses as historical processes of rupture and recuperation. It makes
theoretically explicit a relevant theme: how and why microsites of familial and
intimate space figure so prominently in the macropolitics of imperial rule.
46
[Abbiamo omesso l’ultima riga del testo originale («Il capitolo che segue è uno
sforzo in questa direzione»), che costituisce un raccordo con il successivo capitolo (il
settimo) di Carnal Knowledge and Imperial Power, cit., il cui titolo è Memory-Work in Java.
A Cautionary Tale, pp. 162-204 (N.d.T.)]
La confessione (anti)coloniale.
Razza e verità nelle colonie: Fanon dopo Foucault *
Matthieu Renault
Nella lezione inaugurale del suo corso al Collège de France del 1984, Il
coraggio della verità, Foucault traccia il percorso che lo ha condotto a solle-
vare il problema della parrhesia (il parlar franco), a sostituire alla questio-
ne delle strutture epistemologiche quella delle forme aleturgiche, ovvero
a interrogare non tanto la verità o i discorsi che «si propongono e che
vengono recepiti come discorsi veri», quanto «la produzione della verità»,
«l’atto attraverso il quale la verità si manifesta». Foucault evoca in questo
frangente il passaggio dalle questioni sulle pratiche e sui discorsi di verità
sul soggetto (folle, delinquente, che parla e che lavora), allo studio «del
discorso di verità su se stesso che il soggetto può fare ed è capace di fare»,
da cui deriva l’attenzione portata su tutta una serie di pratiche come «l’aveu,
l’esame di coscienza, la confessione»1. Questo passaggio era già presente in
* [Il titolo originale di questo articolo è L’aveu (anti)colonial. Race et vérité dans les colo-
nies: Fanon après Foucault. Abbiamo deciso di tradurre il termine aveu con “confessione”,
seguendo una scelta che va per la maggiore nelle traduzioni italiane dei testi di Foucault.
Tuttavia, è importante ricordare che in francese aveu e confession non sono sovrapponibili
e che Foucault stesso, già a partire da La volontà di sapere, li distingue. Riportiamo a questo
proposito una nota presente nell’Archivio Foucault 3, curato da Alessandro Pandolfi: «La
confessione (confession) è l’istituzione sacramentale della pastorale cristiana, codificata a
partire dal Concilio Laterano (1215). L’aveu è il cuore della confessione: un rapporto ob-
bligato verso se stessi nei termini di una comunicazione, concernente la verità di sé, rivolta
a un altro. Questo nucleo discorsivo della confessione viene assunto e continuamente tra-
sformato dalle pratiche di potere e dalle forme del sapere della modernità: “L’evoluzione
della parola aveu e della funzione giuridica che ha designato è di per se stessa caratteristica:
dall’aveu (omaggio), garanzia di statuto, d’identità e di valore accordata a qualcuno da un
altro, si è passati all’aveu (confessione), riconoscimento da parte di qualcuno delle proprie
azioni o pensieri […]. La confessione della verità si è iscritta nel seno delle procedure
d’individualizzazione da parte del potere”; M. Foucault, Histoire de la sexualité I. La volonté de
savoir, Gallimard, Paris 1976; trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, La volontà di sapere. Storia
della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 1978, p. 54» (Archivio Foucault 3. Estetica dell’esistenza, etica,
politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 113). Nel presente articolo viene
fatto riferimento, tanto per Foucault quanto per Fanon, solo all’aveu. Quando questa no-
zione compare con confession (intesa come istituzione sacramentale) abbiamo modificato la
traduzione italiana, lasciando il termine in francese per evidenziare la compresenza delle
due nozioni (N.d.T.)]
1
M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège
de France. 1984, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2009, pp. 4-5; trad. it. Il coraggio
della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano
2011, pp. 14-15 (traduzione modificata).
2
M. Foucault, Histoire de la sexualité I, cit., pp. 78-80; trad. it. cit., pp. 54-55.
3
Sugli «spazi di riferimento» del pensiero foucaultiano e sul problema dei suoi limiti
e delle sue frontiere, si veda l’intervista che Foucault ha rilasciato alla rivista «Hérodote»
nel 1976: M. Foucault, Questions à Michel Foucault sur la gèographie, in «Hérodote», n. 1 (1976),
pp. 71-85, ora in Dits et écrits II, 1976-1988, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris
2001, pp. 31-32; trad. it. Domande a Michel Foucault sulla geografia, in M. Foucault, Microfisica
del potere, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, pp. 151-152.
4
M. Foucault, Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice, a cura di F. Brion e B.
Harcourt, Presses Universitaires de Louvain, Louvain-la-Neuve 2012, p. 7 [trad. it. nostra,
come in tutti i successivi passaggi tratti da questo volume (N.d.T.)]. Nella conferenza
inaugurale, Foucault consegna al suo pubblico la seguente definizione di questa «tecnologia
del soggetto» che è la confessione: «La confessione è un atto verbale attraverso il quale
il soggetto, in un’affermazione relativa a ciò che egli è, si lega a questa verità, si pone
in un rapporto di dipendenza nei confronti di un altro e modifica nello stesso tempo il
rapporto che ha con se stesso» (ibidem). Quel che interessa Foucault è «lo strano rapporto»
che lega la confessione alla verità: le differenti «forme di veridizione», le « differenti forme
del dir-vero», i «differenti giochi del vero e del falso» (ivi, p. 9); è la «considerevole crescita
del ruolo della confessione» in Occidente e le sue «mutazioni» a partire dall’Antichità che
Foucault si propone di esporre nelle successive conferenze (ivi, p. 12).
La confessione (anti)coloniale 51
5
Tralasciamo qui un’altra storia, quella del Processo di Mosca (1936-1938), che fu
– con ritardo e a seguito della pubblicazione di L’aveu di Artur London sul Processo di
Praga (A. London, L’aveu. Dans l’engrenage du procès de Prague, Gallimard, Paris 1968) – fon-
te di un’importante letteratura che interrogava non tanto i fatti in sé, ormai riconosciuti
come tali, quanto invece le ragioni per cui gli accusati passavano alle «false» confessioni
(si veda come esempio A. Kriegel, Les grands procès dans les systèmes communistes, Gallimard,
Paris 1972).
6
Cfr. P. Stibbe, Justice pour les Malgaches, Seuil, Paris 1954; J. Tronchon, L’insurrection
malgache de 1947, Karthala, Paris 1986; P. Vidal-Naquet, La torture dans la République,
Éditions Maspéro, Paris 1972, pp. 18-19.
7
Abbiamo tratto questa formula da uno scambio personale con Seloua Luste Boulbina.
52 Matthieu Renault
Per Fanon, la storia della verità nelle colonie è in primo luogo una
non-storia: la situazione coloniale si definisce precisamente come conge-
8
Com’è stato sottolineato da Sandro Mezzadra, la teoria foucaultiana è diventata
quello che Edward W. Said chiama una Travelling Theory: oggetto di appropriazioni entro
spazi geografici e contesti sociopolitici molteplici, oggetto quindi di traduzioni e trasfor-
mazioni (S. Mezzadra, En voyage. Michel Foucault et la critique postcoloniale, in Michel Foucault,
a cura di Ph. Artières, J.-F. Bert, F. Gros e J. Revel, L’Herne, Paris 2011), la cui analisi
sistematica costituirebbe di certo un contributo fondamentale a un’epistemologia politi-
ca della circolazione internazionale delle idee. Questa tradizione di interpretazioni resta
segnata dall’opera di Ann Laura Stoler, Race and the Education of Desire, che testimonia un
doppio registro di questioni sui limiti europei-coloniali del discorso di Foucault (le fron-
tiere del sapere foucaultiano) e sui trasferimenti (transfert)/spostamenti dei suoi concetti
al di là della loro “terra d’origine” (i “viaggi” del discorso foucaultiano). Quello che inte-
ressa di più Stoler – e che da allora non ha cessato di attirare l’attenzione degli interpreti
che si curavano di interrogare il silenzio di Foucault sul colonialismo – è la questione della
nascita della biopolitica, intimamente legata all’emergere di un razzismo di Stato, il quale,
per essere concepito da Foucault come razzismo che si esercitava all’interno dell’Europa,
era nondimeno venuto a svilupparsi, come egli afferma, «in primo luogo con la coloniz-
zazione, vale a dire con il genocidio colonizzatore». E Foucault fa allusione, come Aimé
Césaire prima di lui, ai «numerosi effetti di ritorno» che la colonizzazione ha potuto avere
«sui meccanismi di potere in Occidente» (M. Foucault, « Il faut défendre la société ». Cours au
Collège de France. 1975-1976, Seuil/Gallimard, Paris 1997, pp. 229, 89; trad. it. di M. Bertani
e A. Fontana, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 222, 91. Tuttavia,
sostiene Stoler, «è l’inizio e la fine della storia», poiché Foucault non ha mai più elaborato
tali questioni (A.L. Stoler, Race and the Education of Desire. Foucault’s History of Sexuality
and the Colonial Order of Things, Duke University Press, Durham 1995, p. 75). Sulle rela-
zioni di Foucault con la questione (post)coloniale, si vedano anche M. Foucault, Michel
Foucault et le zen : un séjour dans un temple zen (1978) e L’éthique du souci de soi comme pratique de
la liberté (1984), in Dits et écrits II, cit., pp. 618 e 1529-1530.
La confessione (anti)coloniale 53
9
F. Fanon, Peau noire, masques blancs, Seuil, Paris 1971, p. 120; trad. it. Pelle nera, maschere
bianche. Il nero e l’altro, a cura di M. Sears, Marco Tropea Editore, Milano 1996, p. 130.
10
J.-P. Sartre, La putain respectueuse, in Théâtre complet, Gallimard, Paris 2005, p. 217,
ma si vedano anche pp. 223-224, 230; trad. it. di G. Monicelli, La sgualdrina timorata, in
La sgualdrina timorata, Nekrassov, Mondadori, Milano 1989, pp. 21-61.
11
F. Fanon, Peau noire, masques blancs., cit., p. 230; trad. it. cit., p. 201.
12
R. Wright, 12 Millions Black Voices, Thunder’s Mouth Press, New York 2002, p. 41
[trad. it. nostra (N.d.T.)]. Si veda anche S. de Beauvoir, Le deuxième sexe. I. Les faits et les
mythes, Gallimard, Paris 2007, p. 403; trad. it. di R. Cantini e M. Andreose, Il secondo sesso,
il Saggiatore, Milano 1961.
54 Matthieu Renault
sarà il fondamento della verità del suo autore»13, egli si confronterà, nell’Al-
geria coloniale, con un diniego sistematico da parte degli accusati indigeni,
o ancora, con una ritrattazione (rétractation) – nozione che deve essere intesa
non solo in senso giudiziario, ma anche in senso psicologico/psicanalitico,
in quanto meccanismo di difesa14. Non si dovrebbe allora concordare con
gli psichiatri coloniali e riconoscere la verità di questa proposizione: «Il
Nordafricano è un bugiardo»? Così si dirà pure che «la razza soffre di una
propensione a mentire, a dissimulare volontariamente la verità, oppure
che è incapace di discernere il vero dal falso»15. L’indigeno non saprebbe
apprezzare la verità o perché è incapace di distinguerla (errore), o perché
non smette di dissimularla (menzogna). Ma questa argomentazione, dice
Fanon, «si sbarazza del problema senza risolverlo» – come l’argomentazio-
ne che pretende di render conto della criminalità indigena richiamandosi
a un’enigmatica «impulsività criminale» dell’Arabo. Quello su cui piuttosto
occorre interrogarsi è il vissuto (vécu) dell’atto, «i fatti visti da colui che è
accusato», sostituendo all’approccio nosologico un approccio esistenziale
– approccio che, prima di essere del tutto rigettato da Foucault, sarebbe
comunque stato adottato nella sua prima opera, Malattia mentale e persona-
lità. Questo ci indica già che non è tanto dal punto di vista della postura
teorica, quanto piuttosto da quello dell’attenzione portata alla materialità
delle pratiche, che è possibile stabilire un dialogo tra Fanon e Foucault.
Comprendere il diniego dell’atto presuppone quindi per Fanon di
analizzare «l’orchestrazione della menzogna», rompendo completamente
con la divisione manichea del vero e del falso; «ad ogni modo, il mentitore
stesso è un essere che si pone costantemente la questione della verità»16. Il
fatto è che, in situazione coloniale, dire il vero non ha altro significato per il
colonizzato se non quello di dar prova di fedeltà e di sottomissione a colui
che «lo tiene […] in suo potere». La verità del colonizzatore non può che
apparire sospetta al colonizzato, alla stregua della sua oggettività: «Per il
13
F. Fanon e R. Lacaton, Conduites d’aveu en Afrique du Nord. Congrès de Psychiatrie
et de Neurologie de langue française, LIIIe session, Nice 1955, pp. 657-660, ristampato in
«L’information psychiatrique», vol. 51 (1975), n. 10, pp. 1115-1116 [trad. it. nostra, come
in tutti i successivi passaggi tratti da questo testo (N.d.T.)].
14
A. Freud, Le moi et les mécanismes de défense, PUF, Paris 2001; trad. it. L’io e i meccanismi
di difesa, a cura di L. Zeller Tolentino, Martinelli, Firenze 1967.
15
F. Fanon e R. Lacaton, Conduites d’aveu en Afrique du Nord, cit., p. 1116.
16
Ibidem. Si veda anche J. Lacan, Introduction théorique aux fonctions de la psychanalyse
en criminologie, in Écrits 1, Seuil, Paris 1999, p. 124; trad. it. Introduzione teorica alle funzioni
della psicoanalisi in criminologia, in Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 2002,
pp. 119-144.
La confessione (anti)coloniale 55
17
F. Fanon, Les damnés de la terre, Gallimard, Paris 1991, p. 109; trad. it. I dannati della
terra, a cura di C. Cignetti, Einaudi, Torino 1972, p. 39.
18
F. Fanon, L’an V de la révolution algérienne, La Découverte & Syros, Paris 2001,
pp. 114n. e 49; trad. it. di F. Del Lucchese, Scritti politici. L’anno V della rivoluzione algeri-
na, vol. II, a cura di M. Mellino, DeriveApprodi, Roma 2007, p. 109n. e 63.
19
F. Fanon, Les damnés de la terre, cit., p. 340; trad. it. cit., p. 217.
20
F. Fanon, L’an V de la révolution algérienne, cit., p. 127; trad. it. cit., p. 118.
21
Ivi, p. 130; trad. it. cit., p. 120.
56 Matthieu Renault
22
F. Fanon, Les damnés de la terre, cit., p. 367; trad. it. cit., p. 238.
23
Le tesi di Fanon a questo riguardo non possono non evocare le analisi di James
Scott. Si veda J.C. Scott, La domination et les arts de la résistance. Fragments du discours subalterne,
Éditions Amsterdam, Paris 2009; trad. it. Il dominio e l’arte della resistenza. I verbali segreti dietro
la storia ufficiale, a cura di R. Ambrosoli, Eleuthera, Milano 2006 [ed. or., Domination and the
Arts of Resistance. Hidden Transcripts, Yale University Press, New Haven 1990].
La confessione (anti)coloniale 57
24
F. Fanon, Racisme et culture, in Pour la révolution africaine. Écrits politiques, La Découverte
& Syros, Paris 2001, p. 48; trad. it. di F. Del Lucchese, Razzismo e cultura, in Scritti politici.
Per la rivoluzione africana, vol. I, a cura di M. Mellino, DeriveApprodi, Roma 2006, p. 54.
25
F. Fanon, L’an V de la révolution algérienne, cit., p. 85; trad. it. cit., p. 89.
58 Matthieu Renault
Il problema della verità deve pure fissare la nostra attenzione […]. Alla men-
zogna della situazione coloniale, il colonizzato risponde con ugual menzogna
[…]. Il vero è ciò che precipita lo smembramento (dislocation) del regime colo-
niale, è ciò che favorisce l’emergere della nazione. Il vero è quel che protegge gli
indigeni e rovina gli stranieri. Nel contesto coloniale non ci sono comportamenti
di verità (conduites de vérité). E il bene è semplicemente quel che a loro fa del male32.
29
[Il riferimento è alla Radio de la voix de l’Algérie combattante (Radio della voce
dell’Algeria combattente), una radio locale mobile, nata il 16 dicembre del 1956 durante
la guerra d’Algeria, la quale giocò un ruolo importante nella “guerra delle onde” contro
“Radio-Alger”, la stazione radio gestita dalle autorità coloniali francesi (N.d.T.)]
30
Ivi, p. 71; trad. it. cit., pp. 78-79.
31
M. Merleau-Ponty, Les aventures de la dialectique, Gallimard, Paris 2000, p. 62; trad. it.
Le avventure della dialettica, in Umanismo e terrore e le avventure della dialettica, a cura di A. Bonomi,
Sugar Editore, Milano 1965, p. 250.
32
F. Fanon, Les damnés de la terre, cit., p. 81; trad. it. cit., p. 16.
60 Matthieu Renault
33
Questo concetto è il frutto di lunghi scambi con Orazio Irrera nel quadro del
seminario che dirigiamo a Parigi, tra l’Université Paris-Est Créteil e la Fondation Maison
des Sciences de l’Homme, intitolato Décolonisation et géopolitique de la connaissance (già La
décolonisation des savoirs), cfr. http://decolonisationsavoirs.wordpress.com/.
34
G. Lukács, Histoire et conscience de classe. Essais de dialectique marxiste, Les Éditions de
Minuit, Paris 1960, p. 15; trad. it. Storia e coscienza di classe, a cura di G. Piana, Mondadori,
Milano 1973, p. lxx.
35
M. Merleau-Ponty, Les aventures de la dialectique, cit., p. 60; trad. it. cit., p. 249.
L’influenza di Le avventure della dialettica su questi ultimi scritti di Fanon richiederebbe
di essere scrupolosamente esaminata, allo stesso titolo, del resto, di quella esercitata da
Umanismo e terrore.
36
A. Kojève, Hegel, Marx et le christianisme, citato da M. Filoni, Le philosophe du dimanche,
La vie et la pensée d’Alexandre Kojève, Gallimard, Paris 2010, p. 252; trad. it. Hegel, Marx e il
Cristianesimo, in J. Hyppolite, A. Kojève, A. Koyré e J. Wahl, Interpretazioni hegeliane, a cura
di R. Salvadori, La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 283-309, in part. pp. 285-286.
37
L. Trotskij, Leur morale et la nôtre, J.-J. Pauvert, Paris 1966, pp. 69-71; trad. it. La loro
morale e la nostra, De Donato, Bari 1967. Sul tema dialettico della falsa coscienza, bisogna
La confessione (anti)coloniale 61
ricordare che esso non è per nulla messo da parte durante il «passaggio alla confessione»
di Fanon. In effetti, in un manoscritto inedito sulle Conduites d’aveu, la condizione di pos-
sibilità della confessione è un «assenso soggettivo verso la sanzione». Ma, se la sanzione
«vuole indirizzarsi a una libertà, a una coscienza», bisogna ancora una volta che questa
«coscienza sia vera»; cfr. F. Fanon e R. Lacaton, Conduites d’aveu en Afrique du Nord. Résumé
de communication à la 53ème session du Congrès des médecins aliénistes et neurologues de langue française,
inédit, Archives Frantz Fanon (IMEC).
38
M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., p. 9.
39
M. Foucault, L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, cit., pp. 1729-1730;
trad. it. L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, cit.., pp. 274-275.
62 Matthieu Renault
Il soggetto della confessione: dal contratto sociale alla guerra delle razze
40
H.K. Bhabha, Interroger l’identité : Frantz Fanon et la prérogative postcoloniale, in Les lieux
de la culture. Une théorie postcoloniale, Payot & Rivages, Paris 2007; trad. it. Interrogare l’identità.
Frantz Fanon e la prerogativa postcoloniale, in I luoghi della cultura, a cura di A. Perri, Meltemi,
Roma 2001, pp. 61-96 [ed. or., The location of culture, Routledge, London/New York 1994].
41
F. Vergès, Dialogue, in A. Read (a cura di), The Fact of Blackness. Frantz Fanon and
Visual Representation, Institute of International Visual Art/Bay Press, London/Seattle
1996, p. 140 [trad. it. nostra (N.d.T.)].
La confessione (anti)coloniale 63
42
M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., pp. 11 e 169.
43
Ivi, p. 150.
44
Ivi, p. 12. Questa introduzione della confessione nelle pratiche giudiziarie, questo
desiderio di produrre una «felice coincidenza tra l’autore del crimine e il soggetto che
doveva risponderne» è stato, aggiunge Foucault, la fonte di una deregolamentazione del
sistema penale, aprendovi una «breccia irreparabile» e provocando «una crisi da cui sem-
bra che non siamo ancora usciti» (ivi, pp. 200-201).
45
Ivi, p. 11.
46
Ivi, p. 211.
47
Su questo argomento si veda R.J.C. Young, Postcolonialism. An Historical Introduction,
Blackwell, Oxford/Malden 2001, p. 276.
64 Matthieu Renault
48
F. Fanon, Rencontre de la société et de la psychiatrie (Notes de cours, Tunis, 1959-1960),
CRIDSSH, realizzato con il concorso dell’ONRS e dell’APW d’Oran, p. 10, corsivi miei.
49
F. Fanon e R. Lacaton, Conduites d’aveu en Afrique du Nord. Résumé de communication, cit.
50
F. Fanon e R. Lacaton, Conduites d’aveu en Afrique du Nord, cit., p. 1116.
51
F. Fanon e R. Lacaton, Conduites d’aveu en Afrique du Nord. Résumé de communication, cit.
52
M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., p. 207.
La confessione (anti)coloniale 65
53
F. Fanon e R. Lacaton, Conduites d’aveu en Afrique du Nord, cit., p. 1116.
54
M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., pp. 6-7.
55
F. Fanon, Les damnés de la terre, cit., p. 92; trad. it. cit., p. 25. Quando Fanon afferma
che il colonizzato «scopre che la sua vita, il suo respiro, i battiti del suo cuore sono gli
stessi che quelli del colono […], che una pelle di colono non vale di più che una pelle di
indigeno» (ivi, p. 76; trad. it. cit., p. 12.), questa uguaglianza non è in nulla un’uguaglianza
in termini di valore o di dignità; non è nient’altro che l’uguaglianza che Hobbes scopriva
in seno allo stato di natura, designandola come equivalente capacità che ciascuno ha di
nuocere agli altri.
56
M. Foucault, « Il faut défendre la société », cit., p. 79; trad. it. cit., p. 82. Il testo conti-
nua: «Ci sono solo rappresentazioni, manifestazioni, segni, espressioni enfatiche, astute,
menzognere» (ibidem). Questi giochi di calcolata rappresentazione sono proprio quello
che permette si sfuggire alla guerra.
66 Matthieu Renault
Foucault, la guerra non è mai decisiva nella costituzione dello Stato, Fanon
dal canto suo afferma che la decolonizzazione passa per una lotta a morte
che dovrà mettere fine, attraverso la violenza, al regno della violenza.
Piuttosto che lo schema antropologico (Hobbes, Locke, Spinoza) se-
condo il quale le relazioni tra Stati sono analoghe alle relazioni tra individui
nello stato di natura, il discorso di Fanon sulla divisione binaria, sulla se-
parazione manichea o ancora sulla scissione interna del mondo coloniale,
mettendo colonizzatore e colonizzato faccia a faccia in un rapporto di an-
tagonismo perpetuo, riattiva per così dire uno schema della guerra delle razze
di cui Foucault aveva rivelato la profonda opposizione/comparazione con
lo schema giuridico-politico di Hobbes. Il discorso di Fanon è un discor-
so strutturato sull’opposizione degli autoctoni e degli stranieri: «il colono
rimane sempre uno straniero […], non assomiglia agli autoctoni»57. È un
discorso che assegna il ruolo di principio ai «bruti fatti fisico-biologici» (vi-
gore fisico, forza, energia, ecc.) così come agli elementi psicologici e morali
(coraggio, paura, disprezzo, ecc.). È infine un discorso che non cessa di
richiamarsi a una rottura profetica58.
Vi è una funzione eminentemente strategica in quel che chiamiamo,
in modo più euristico che descrittivo, il ritorno di Fanon alla guerra delle
razze. Rimettere in gioco l’opposizione binaria delle razze non significa per
Fanon opporre al razzismo coloniale un contro-razzismo, ma sovvertire il
razzismo facendo leva sulle sue stesse origini, su un discorso (razziale) che
non assegna ancora alla razza un senso biologico stabile59, un discorso che
resta estraneo a ogni idea (razzista) di «sdoppiamento di una sola e stessa
razza in una sovra-razza e in una sotto-razza»60. Fanon, che sa che la lotta
delle classi in Europa implica la riproduzione della guerra delle razze nelle
colonie, inverte, come dice Robert J.C. Young, «il movimento iniziale che
aveva fatto Marx stesso trasformando l’analisi razziale della storia francese
[…] in un’analisi di classe»61. Per Fanon, i coloni non formano tanto una
classe quanto una specie dirigente: «ciò che fraziona il mondo è anzitutto
il fatto di appartenere o meno a una data specie, a una data razza»62. De-
57
F. Fanon, Les damnés de la terre, cit., pp. 70-71; trad. it. cit., p. 7.
58
Tuttavia, non è mai lo schema giuridico della cittadinanza in quanto tale che Fa-
non mette in questione, ma soltanto la decadenza dell’uomo-cittadino europeo e il ritor-
no (coloniale) al diritto del più forte. Per Fanon, affermare che la situazione coloniale
è negazione di ogni contratto sociale, significa che la guerra delle razze è il disastro del
politico, in nessun caso la sua verità.
59
M. Foucault, « Il faut défendre la société », cit., p. 57; trad. it. cit., p. 65.
60
Ivi, p. 52; trad. it. cit., p. 58.
61
R.J.C. Young, Postcolonialism, cit., p. 278.
62
F. Fanon, Les damnés de la terre, cit., p. 70; trad. it. cit., p. 7.
La confessione (anti)coloniale 67
scrivere così la lotta per l’esistenza delle «due specie» coloniali, per Fanon,
significa ancora una volta sovvertire le tesi d’ispirazione darwiniana – che
la psichiatria coloniale aveva ereditato – della lotta biologico-razziale per la
vita. E si tratta perciò di rifiutare ogni concezione del corpo sociale come
realtà biologica63. Quello che fa Fanon, è rubare al nemico le sue armi (teori-
che), rivoltare il razzismo contro se stesso.
Rimettere in gioco l’opposizione binaria delle razze significa infine per
Fanon appropriarsi di un discorso che, come il discorso della guerra delle
razze analizzato da Foucault, impedisce ogni posizione che non implichi
necessariamente l’appartenenza dell’enunciatore a uno dei due gruppi in
lotta, e che non possa dunque tenersi se non da una decentrata posizione di
combattimento. Problematizzare l’opposizione delle razze sociali/coloniali
significa dunque contestare il discorso del razzismo, in cui non vi può es-
sere che uno e un solo soggetto (centrato) di enunciazione, la sovra-razza
che parla della sotto-razza. Il gesto di Fanon sortisce precisamente l’effetto
di far (ri)sorgere un protagonista, di (re)introdurre un altro soggetto della
storia che è anche il soggetto di una parola che dice questa (contro)storia64.
Ma ancora una volta, Fanon si basava su fonti del tutto diverse da quelle
di Foucault, in particolare sulla filosofia esistenziale. Come affermava Ja-
spers: «Portare gli uomini verso la libertà, significa spingerli a parlarsi»65.
Questo “dire” è, secondo Fanon, inseparabile da un dirsi e, di conseguen-
za, da un rappresentarsi. Questo potere di rappresentazione – così caro ai teori-
ci postcoloniali da Said a Spivak e la cui tematizzazione rinvia al 18 brumaio
di Marx66 – è per Fanon la condizione di possibilità dell’emergere di una
parola di verità, di un discorso vero del (post)colonizzato su se stesso, di
una confessione postcoloniale.
Matthieu Renault
The London School of Economics and Political Science
matthieu.renault@gmail.com
63
A questo proposito, si veda M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., p. 217.
64
M. Foucault, « Il faut défendre la société », cit., p. 116; trad. it. cit., pp. 116-117.
65
K. Jaspers, Origine et sens de l’histoire, Plon, Paris 1954, p. 195; trad. it. Origine e senso
della storia, a cura di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano 1965.
66
Marx scriveva allora a proposito dei «contadini piccoli proprietari»: «Non pos-
sono rappresentare se stessi; devono essere rappresentati» (K. Marx, Le 18 brumaire de
Louis Bonaparte, Flammarion, Paris 2007, p. 191; trad. it. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte,
Ed. Riuniti, Roma 1964, p. 209).
68 Matthieu Renault
The (Anti)Colonial Confession. Race and Truth in the Colonies: Fanon after Foucault
Introduzione
1
M. Foucault, Vérité, pouvoir et soi, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001,
p. 1596.
2
Sulla “vulnerabilità” e l’“umanitario” come strumenti del migration managment,
cfr. D. Fassin, La raison humanitaire. Histoire morale du temps présent, Gallimard, Paris 2010;
J. Hyndman, Managing Displacement. Refugees and the Politics of Displacement, Routledge,
London 2000; V. Squire, The Exclusionary Politics of Asylum, Routledge, London 2009;
P. Nyers, Rethinking Refugees. Beyond States of Emergency, Routledge, New York 2006.
3
Per una solida analisi della nozione foucaultiana di razzismo biopolitico, si veda
il lavoro di Ann Laura Stoler, e in modo particolare: Toward a Genealogy of Racism. The
1976 Lectures at the Collège de France, in Race and the Education of Desire. Foucault’s History of
Sexuality and the Colonial Order of Things, Duke University Press, Durham 2000, pp. 55-
94, e il capitolo A Colonial Reading of Foucault. Bourgeois Bodies and Racial Selves, in Carnal
Knowledge and Imperial Power. Race and the Intimate in Colonial Rule, University of California
Press, Berkeley 2002, pp. 140-161, tradotto per la prima volta in italiano in questo numero
di «materiali foucaultiani» (supra, pp. 19-48).
4
W.E.B. Du Bois. The Souls of Black Folk, A.C. McClurg & Co., Chicago 1903, ora
disponibile all’indirizzo http://www.bartleby.com/114/.
5
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), a
cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Senellart, Feltrinelli, Milano 2005, p. 23.
6
Ivi, p. 27.
7
M. Foucault, Du gouvernement des vivants. Cours au Collège de France. 1979-1980, a cura
di F. Ewald, A. Fontana e M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2012, p. 78. Riporto qui
alcuni passaggi che chiariscono la posta in gioco nell’uso del concetto di “anarcheologia”:
«Disons que si la grande démarche philosophique consiste à mettre en place un doute méthodique qui
met en suspens toutes les certitudes, la petite démarche latérale et à contre-voie que je vous propose
Protezione dislocata 71
consiste à essayer de faire jouer systématiquement, non pas donc le suspens de toutes les certitudes, mais
la non-nécessité de tout pouvoir quel qu’il soit. […] Il s’agit […] de mettre le non-pouvoir ou la non-
acceptabilité du pouvoir, non pas au terme de l’entreprise, mais au début du travail, sous la forme d’une
mise en question de tous les modes selon lesquels effectivement on accepte le pouvoir» (ivi, pp. 76-77).
8
Utilizzo questo termine non foucaultiano, “razzializzazione”, per indicare che la mia
attenzione si rivolge alle componenti e agli outcome spaziali del processo attraverso il quale
le persone vengono razzializzate. La razzializzaizone può essere definita come «il processo
attraverso il quale qualsiasi diacritico di personalità sociale – inclusi classe, etnia, generazio-
ne, kinship/affinità e posizioni occupate nella gerarchia del potere – viene essenzializzato,
naturalizzato e/o biologizzato. […] La razzializzazione, quindi, indicizza la trasformazione
storica di categorie fluide di differenza a specie fisse di alterità»; P.A. Silverstein, Immigrant
Racialization and the New Savage Slot. Race, Migration, and Immigration in the New Europe, in
«Annual Review of Anthropology», vol, 34 (2005), pp. 363-384, p. 364 (traduzione mia).
9
Il pacchetto di decreti che il governo italiano ha emanato per fronteggiare l’arrivo
di migranti provenienti dai paesi delle rivolte arabe è raccolto sotto il titolo “Emergenza
Nord Africa”. Aggiungo la specificazione “italiana” per sottolineare la fabbricazione no-
strana di un’emergenza a proposito di queste migrazioni.
72 Glenda Garelli
10
Sulla nozione di “deportabilità”, cfr. N. De Genova, Migrant “illegality” and deportability
in everyday life, in «Annual Review of Anthropology», vol. 31 (2002), pp. 419-447 e W. Walters,
Deportation, Expulsion, and the International Police of Aliens, in N. De Genova e N. Peutz (a cura
di), The Deportation Regime, Duke University Press, Durham 2010, pp. 69-100.
11
Cfr. F.A. Sheth, The War on Terror and Ontopolitics. Concerns with Foucault’s Account of
Race, Power Sovereignty, in «Foucault Studies», n. 12 (2011), pp. 51-76.
12
Si tratta delle commissioni incaricate di decidere rispetto alla domanda di asilo.
Nella versione originale (inglese) dell’articolo, uso il termine “auditioning” (presentarsi a
un’audizione) per evocare l’idea di una performance che i migranti sono chiamati a pro-
durre, la performance di una storia che rientri nei parametri giuridici della vulnerabilità.
13
Per un resoconto di come la linea del colore abbia giocato sulla sponda sud del
Mediterraneo, in Libia, si veda il seguente articolo sui migranti black come obiettivo dei
raid delle milizie di Gheddafi e della violenza dei ribelli durante la guerra: http://fortres-
seurope.blogspot.it/2011/05/revolutionaries-and-racists-rebels.html.
74 Glenda Garelli
14
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 47 (corsivo mio).
15
M. Foucault, “Bisogna difendere la società”. Corso al Collège de France (1975-1976), a cura
di F. Ewald, A. Fontana e M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2009, p. 212.
Protezione dislocata 75
16
N. Ettlinger, Governmentality as Epistemology, in «Annals of the Association of
American Geographers», vol. 101 (2011), n. 3, pp. 537-560, p. 541.
17
M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 32.
18
Consiglio dei Ministri, Decreto del presidente del Consiglio dei ministri (DCPM),
5/04/2011.
76 Glenda Garelli
con un’“invasione umana” – tutte espressioni che danno corpo alla razzia-
lizzazione dei migranti come calamità naturale per il paese ricevente. Una cala-
mità contro la quale il paese ricevente deve mobilitare un piano d’attacco,
contro la quale “bisogna difendere la società”. Questo episodio è proba-
bilmente il più vicino all’analisi di Foucault del razzismo come «la ripresa
di questo vecchio, secolare discorso, in termini socio-biologici, a fini es-
senzialmente di conservatorismo sociale e [...] di dominazione coloniale»19.
E infatti, il diacritico di razzializzazione non viene qui “culturalizzato”20
come carattere morale, cittadinanza, o paese di origine; piuttosto, ciò che
lavora in questo caso è la designazione apertamente biologica della vulne-
rabilità come “tsunami umano”.
A partire da questa riflessione sul meccanismo di trascrizione biolo-
gica dei migranti come minaccia ambientale per la popolazione nazionale,
vorrei affrontare ora il tema della vita, attraverso il quale Foucault legge
il razzismo. Il tema della vita, infatti, permette di evidenziare l’originalità
dell’analisi foucaultiana del razzismo come tecnologia del biopotere: dopo
aver presentato il biopotere come quel potere che mira a ottimizzare la
vita della popolazione, Foucault introduce lo spettro del nazismo e di un
biopotere che, diversamente dalla definizione letterale di un potere che fa
vivere e lascia morire, si pone piuttosto come potere che fa morire: «Se è
vero che il suo fine è essenzialmente quello di potenziare la vita, di prolun-
garne la durata, di moltiplicarne le probabilità, di evitarne gli accidenti, di
compensarne i deficit, come è possibile, in tali condizioni, che un potere
politico siffatto uccida […]?»21. La domanda quindi diventa: come può
un mandato di morte procedere da un potere che si costruisce e si fonda
sul benessere della vita? Risposta: attraverso il razzismo. E si tratta di un
razzismo inteso come tecnologia, come operatore, un razzismo che rap-
presenta «il modo in cui, nell’ambito di quella vita che il potere ha preso
in gestione, è stato infine possibile introdurre una separazione, quella tra
ciò che deve vivere e ciò che deve morire»22. In questo quadro, il razzismo
19
M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 61.
20
Étienne Balibar e Immanuel Wallerstein spiegano come il dibattito sulla cultura
produca una depoliticizzazione della razza, una depoliticizzazione della lettura di quei
dispositivi razzializzanti iscritti nella figura del migrante: «We see a general displacement of
the problematic. We now move from the theory of races or the struggle between the races in human
history […] to a theory of race relations within society, which naturalizes not racial belonging but
racist conduct»; É. Balibar e I. Wallerstein, Race, Nation, Class. Ambiguous Identities, Verso,
London 1999, pp. 21-22.
21
M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., pp. 219-220.
22
Ivi, p. 220.
Protezione dislocata 77
25
M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 17.
26
Cfr. ivi, pp. 20-22.
27
J. Revel, Identity, Nature, Life. Three Biopolitical Deconstructions, in «Theory, Cutlure &
Society», vol. 26 (2009), n. 6, pp. 45-55, p 49.
28
J. Revel, Per una “friabilità generale dei suoli”: il divenire politico delle differenze, intervento
al seminario di Uninomade “Composizione di classe e frammentazione nella crisi: per
una lettura materialista di razza e genere”, Napoli, 23-24 giugno 2012. Podcast disponibile
all’indirizzo http://www.uninomade.org/wp/wp-content/uploads/2012/06/judith2.mp3.
29
Nell’edizione inglese, il termine “friabilité” è tradotto con “crumbling”. Seguendo
l’utilizzo di Judith Revel nel suo intervento in italiano, tuttavia, anch’io scelgo questa tra-
duzione letterale, ovvero “friabilità”, per sottolineare che la friabilità è una caratteristica
costitutiva di tutti i terreni anche quando reggono, anche quando sono ben solidi, anche
prima del loro sbriciolarsi (“crumbling”).
Protezione dislocata 79
Osservazioni conclusive
33
«Il s’agit […] d’un tracé de déplacement, c’est-à-dire d’un tracé non pas d’édifice théorique, mais
du déplacement par lequel mes positions théoriques ne cessent de changer»; M. Foucault, Le gouvernement
des vivants, cit., p. 75.
Protezione dislocata 81
34
Si veda, per esempio, la descrizione dei suoi tentativi di comprendere la relazione
tra l’esercizio del potere e la verità come una serie di déplacements: prima dalla nozione
marxista di ideologia alla nozione di potere-sapere, e poi dalla nozione di potere-sapere a
quella di «governo attraverso la verità» (ivi, pp. 12-13).
35
Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit.
36
M. Foucault, Vérité, pouvoir et soi, cit., p. 1596.
82 Glenda Garelli
Glenda Garelli
University of Illinois at Chicago (UIC)
glenda.garelli@gmail.com
.
Protection Displaced: The Racialization and Counter-Conduct of Vulnerability for Libyan
War Refugees in Italy
In this paper I engage with the humanitarian regime, arguing that the dispositive
of “vulnerability” works through a series of racializations. Looking at the pro-
cessing of Libya war migrants as asylum seekers in Italy in the time of the Arab
Uprisings, my analysis traces the “colour lines” along which “vulnerability” is
profiled; points at the displacements that invest the dispositive of “vulnerability”
during processing; and intercepts a “line of friability” for racializing operators.
From the premises of this unstable line, the conclusion stages a counter-conduct
within the government of human mobility.
Alla fine del XVIII secolo, follia e razza costituivano sia il limite che il
fondamento della razionalità occidentale. La follia era il termine escluso
da cui la psichiatria dipendeva per costituirsi come disciplina razionale,
mentre la razza rappresentava un’esteriorità rispetto alla cultura occiden-
tale, intorno alla quale il discorso storico occidentale si era organizzato
come discorso di guerra. L’emergere di questi due concetti come effetti di
potere è un elemento ben noto dell’analisi foucaultiana. Tuttavia, quello
che deve essere evidenziato è che, per Foucault, il potere non è altro che
una serie di relazioni governamentali regolate da forme razionali, ed è solo
nel contesto di queste ultime che l’emergere della follia e della razza come
forme estranee e irrazionali di esperienza può divenire intelligibile. Per
dimostrare tale intelligibilità, è necessaria un’analisi etnologica basata su
conoscenze storiche, analisi che Foucault stesso ha strettamente connesso
con la comprensione delle relazioni di potere.
Foucault studia il potere in termini di pratiche governamentali, ovvero
di modi di regolare la condotta delle persone, pratiche che sono sostenute
da modi specifici di razionalizzazione. «Le pratiche politiche assomigliano
a quelle scientifiche: non è la “ragione in generale” che viene applicata, ma
sempre un tipo molto specifico di razionalità»1.
In Occidente, le forme di razionalità programmano il comportamento
umano, dirigono il processo decisionale e sono legate a una serie di valori e
princìpi che guidano la condotta degli individui. Dietro al sapere, al potere,
alle forme di dominio e persino alle azioni più violente, c’è un certo modo
di razionalità, così come esso si trova dietro ai sistemi, alle istituzioni, alle
pratiche di cui Foucault propone un’analisi storica. Una certa forma di ra-
zionalità, una serie di codici storicamente determinata, un programma che
prescrive quali finalità perseguire, quali regole seguire, e cosa, all’interno
di uno specifico modo di operare dell’istituzione, vale come vero o falso.
1
M. Foucault, Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica, in Biopolitica e
liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica 1975-1984, a cura di O. Marzocca, Medusa, Milano
2001, pp. 108-146, p. 130.
Tutto questo soggiace all’operare dei manicomi, delle prigioni, degli ospe-
dali, delle modalità di comportamento sessuale:
Diciamo insomma che non si tratta di confrontare delle pratiche con l’unità
di misura di una razionalità, per poterle poi in questo modo considerare come
forme più o meno perfette di razionalità; piuttosto, si tratta di vedere in che
modo delle forme di razionalizzazioni si inscrivano all’interno di certe pratiche,
o all’interno di certi sistemi di pratiche, e di vedere quindi quale ruolo esse vi
giochino. Perché è sì vero che non esistono delle “pratiche” al di fuori di un certo
regime di razionalità. Ma […] quel che vorrei fare è analizzare [un tale regime]
secondo i due assi: da una parte la codificazione-prescrizione (in che cosa esso
forma un insieme di regole, di ricette, di mezzi in vista di un fine, ecc.), e dall’altra
di formulazione vera o falsa (in che cosa esso determina un campo di oggetti a
proposito dei quali sia possibile articolare delle proposizioni vere o false)2.
5
M. Foucault, La follia e la società, in Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, a cura
di M. Bertani e P.A. Rovatti, Raffaello Cortina, Milano 2005, pp. 49-57.
6
Cfr. nota 18.
86 John Iliopoulos
questo stesso razzismo psichiatrico non possiede più tale base ideologica:
pur essendo oggi ancora operativo, le sue caratteristiche specifiche sono
determinate dal sistema attuale e globalizzato di biopotere. Foucault evi-
denzia quindi come sia necessario giudicare l’attuale razzismo psichiatrico
alla luce di questo contesto contemporaneo, e non in un senso stretta-
mente totalitario o ideologico. In netto contrasto con il suo passato tota-
litario, l’attuale razzismo psichiatrico non identifica nemici e non esclude
minoranze etniche, ma include individui, cancella differenze e subordina
le singolarità alla nozione astratta di anormalità. È quindi inutile mettere
in questione il razzismo psichiatrico perché esso esclude od opprime. Al
contrario, una critica efficace, oggi, deve prendere in considerazione l’e-
scludersi spontaneo di follia e razza, il loro rifiuto di essere incorporate
all’interno dei meccanismi di biopotere, e il loro riemergere in quanto for-
ze antagoniste, irrazionali, perfino violente.
Follia e razza sono emerse come concetti intorno alla fine del XVIII
secolo, all’interno di una specifica forma di razionalità e di un tipo di
governamentalità: quella disciplinare. Nella disciplina, il sovrano dell’età
classica è assente e si fa invece riferimento a una norma e a un modello7.
È la norma ad assegnare gli individui al sistema disciplinare. Per stabilirsi
e definirsi, la norma ha bisogno della distribuzione e della classificazio-
ne; essa deve necessariamente far riferimento a ciò che le sfugge e che
deve esserle reintegrato con la correzione. Dato che i sistemi disciplinari
si basano sul sapere clinico che classifica, gerarchizza e sorveglia, essi si
scontrano con tutto quel che non può essere classificato, che sfugge alla
sorveglianza, che non entra nel sistema di distribuzione: in breve, con
il residuo, l’irriducibile, l’inclassificabile, l’inassimilabile. Il folle, il delin-
quente, il malato e il colonizzato appariranno solo ai limiti, ai margini del
dispositivo disciplinare:
7
Occorre notare che, per Foucault, una razionalità non sostituisce l’altra. La sovranità,
la disciplina e la sicurezza si sovrappongono e l’analisi storica è in grado di mostrare quale
forma prevalga sulle altre in ogni società. Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione.
Corso al Collège de France (1977-1978), a cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Senellart,
Feltrinelli, Milano 2005, pp. 87-88. Come noterò in seguito, la coesistenza di queste forme
di razionalità apparirà più simmetrica ed equilibrata nei regimi totalitari.
Biopotere e razzismo psichiatrico a partire da Michel Foucault 87
Come concetti, follia e razza sono quindi emersi insieme intorno alla
fine del XVIII secolo, in ragione della loro affinità nel designare espe-
rienze che apparivano come “limite” rispetto a uno sfondo di universalità
disciplinare. Si trovavano entrambi ai limiti di un sistema di classificazione,
di un regime di verità che li isolava e studiava in termini scientifici, filo-
sofici e antropologici. Per la prima volta dall’età classica, essi sono quindi
emersi come categorie del vero e come oggetti di percezione.
Esaminiamo dapprima l’emergere della follia. Nella razionalità disci-
plinare della fine del XVIII secolo, c’era un’ampia tassonomia che deline-
ava la norma e tentava di determinare la distinzione tra correzione e pu-
nizione. Si trattava del dilemma diagnostico centrale – e pertinente ancora
oggi – con cui magistrati, medici e criminologi avevano a che fare: “un
individuo che vìola la norma è cattivo o folle? Deve andare in prigione o in
ospedale?” Dato che il criminale poteva ospitare un nucleo di follia e, vice-
versa, il comportamento irrazionale poteva comportare il rischio di crimi-
ne, si chiedeva alla psichiatria di rispondere in forma di sapere diagnostico
dimostrativo e affidabile. La psichiatria era nata come risposta a questo
dilemma, che culminava nel caso più equivoco ed enigmatico: quello del
mostro umano. Il mostro umano era il soggetto in cui la follia si manife-
stava esclusivamente nella forma del crimine. Nel mostro umano, il delirio
dominava l’atto criminale, privando il soggetto della propria responsabilità
e rendendolo adatto alla terapia. Nel mostro, quindi, la legge si trovava di
fronte ai limiti della ragione e la perizia psichiatrica si rendeva necessaria
per determinare la sragione e riferirsi ad essa per definire la responsabilità
giuridica. La mostruosità divenne il punto di riferimento della psichiatria,
il suo oggetto elusivo, una radicale alterità:
8
M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), a cura di
F. Ewald, A. Fontana e M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003, p. 110.
9
M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), a cura di F. Ewald,
A. Fontana, V. Marchetti e A. Salomoni, Feltrinelli, Milano 2000, p. 58.
88 John Iliopoulos
10
Cfr. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”. Corso al Collège de France (1975-1976),
a cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 61-70.
Biopotere e razzismo psichiatrico a partire da Michel Foucault 89
il problema diventerà allora quello di sapere in che modo sia possibile stabi-
lire il punto di giunzione ottimale tra lo scatenamento della barbarie da un lato e
dall’altro l’equilibrio di quella costituzione che si vuole ritrovare. Come mettere
in gioco, insomma, entro una giusta regolazione delle forze, ciò che il barbaro
può recare con sé di violenza, di libertà, ecc.? In altri termini, che cosa occorre
conservare e che cosa bisogna eliminare del barbaro per far funzionare una co-
stituzione giusta13?
11
Ivi, pp. 70-71.
12
Ivi, pp. 165-168.
13
Ivi, pp. 170-171.
90 John Iliopoulos
Il biopotere
14
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 49-69. Cfr. anche M. Foucault,
L’evoluzione della nozione di “individuo pericoloso” nella psichiatria legale del XIX secolo, in Archivio
Foucault 3. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998,
pp. 43-63.
15
Sulla nascita della genetica e sulla genesi della «meta-somatizzazione», cfr. M. Foucault,
Gli anormali, cit., p. 280.
92 John Iliopoulos
Dalla fine del XIX secolo, il razzismo divenne quindi intrinseco alla pra-
tica psichiatrica. Era dunque inevitabile che questo razzismo psichiatrico fos-
se ripreso e usato politicamente dai regimi totalitari e razzisti del XX secolo.
Non è però chiaro il motivo per cui questi regimi avrebbero trasformato
questo razzismo psichiatrico, la cui funzione principale era quella di raggiun-
gere lo stato ideale di una società orientata alla sicurezza, priva di rischio ed
igienica, in una pratica politica intollerante, sanguinaria, violenta e omicida.
16
Ivi, p. 282.
17
M. Foucault, Le jeu de Michel Foucault, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris
2001, pp. 298-329.
18
Foucault chiama la medicina, e la psichiatria in generale, «regina» o «scienza
regina» in diverse occasioni. Cfr., ad esempio, M. Foucault, Gli anormali, cit., pp. 113-114
e M. Foucault, L’estensione sociale della norma, in Follia e psichiatria, cit., p. 130.
19
M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 123.
Biopotere e razzismo psichiatrico a partire da Michel Foucault 93
Che la psichiatria tedesca abbia operato in modo spontaneo all’interno del na-
zismo, non deve risultare sorprendente. Il nuovo razzismo, il neo-razzismo, quello
che è specifico del XX secolo come mezzo di difesa interna di una società contro
i suoi anormali, è nato dalla psichiatria. Il nazismo non ha fatto nient’altro che in-
nestare il nuovo razzismo sul razzismo etnico, che era endemico nel XIX secolo22.
La psichiatria nazista era al tempo stesso lo strumento del biopotere
e la giustificazione scientifica della pulizia etnica. Funzionava come istitu-
zione scientifica sia per il mantenimento dell’igiene pubblica, sia per l’indi-
viduazione del nemico nazionale, che aveva caratteristiche biologiche. Era
grazie alla psichiatria che lo Stato nazista poteva mantenere sia la sua per-
fezione razziale interna che identificare i suoi avversari esterni, cui avrebbe
potuto ufficialmente dichiarare guerra.
Allo stesso modo, nel regime sovietico troviamo un equilibrio di tec-
nologie politiche analogo a quello del regime nazista. C’erano un sistema di
sovranità (il partito), una ferrea disciplina scientifica e il biopotere. Possia-
mo in questo caso osservare un fenomeno simmetrico e opposto: il discor-
so della sovranità si identifica con un discorso profetico e rivoluzionario,
che promette la rivelazione della storia come verità del socialismo. Questo
discorso, tuttavia, non ha promosso la lotta per l’esistenza, ma una griglia di
intelligibilità economica che ha trasformato la guerra delle razze in lotta di
classe. Nello Stato sovietico, biopotere, disciplina e sovranità si incontrava-
no nella lotta di classe. I nemici di classe veri o potenziali erano identificati
come barbari che erano anche anormali, bisognosi di cure e di correzione.
Ciò che il discorso rivoluzionario designava come nemico di classe, nel raz-
zismo di Stato sovietico diventerà una sorta di pericolo biologico. Chi è ora il ne-
mico di classe? Ebbene, è il malato, è il deviante, è il folle. Di conseguenza, l’arma
che un tempo doveva lottare contro il nemico di classe (arma che era quella della
guerra, o eventualmente quella della dialettica e della persuasione) non può più
essere altro, adesso, che una polizia medica che elimina, come un nemico di razza,
il nemico di classe23.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale e, più tardi, con il collasso
dell’Unione Sovietica, le barriere dello statalismo e dell’ideologia di partito
crollarono, permettendo alla psichiatria di funzionare nuovamente in un
contesto liberale, in cui avrebbe potuto tornare a nuova vita ed espandere
globalmente il proprio modello originario di razzismo, quale era stato con-
cepito nel XIX secolo.
Questo modello era libero di svilupparsi e di ottenere un consenso
diffuso e, all’alba del XXI secolo, è divenuto sempre più penetrante e
influente. Se, da un lato, esso condivide alcune caratteristiche di fondo
sia con le sue origini liberali che con la sua versione totalitaria – teorie
biomediche, forme comuni di razionalità – la forma attuale di razzismo
psichiatrico opera in un quadro razionale che presenta differenze lievi,
ma centrali. Nella razionalità occidentale attuale, il biopotere non è solo
riuscito a prevalere su altre forme di tecnologia politica, ma aspira anche
a un’accoglienza globale e a un consenso generale. Esistono ancora forme
di sovranità, alcuni modi di disciplina e sorveglianza sono diffusi e gli
obiettivi liberali sono all’opera, ma è la regola della prestazione, della sicu-
rezza e della prevenzione ad essere particolarmente accentuata.
L’attuale biopotere occidentale non è quindi totalitario, ma totaliz-
zante. Non c’è ideologia di partito, non c’è Stato onnipotente, bensì una
distribuzione di relazioni di potere più diffusa, che ruota intorno alla sicu-
24
Cfr. M. Foucault, Internamento, psichiatria, prigione, in Follia e psichiatria, cit., pp. 195-227.
25
Sulla funzione del marxismo come tribunale della scienza, cfr. D. Trombadori,
Colloqui con Foucault, Castelvecchi, Roma 2005, pp. 39-59. Sull’incarcerazione dei medici negli
ospedali psichiatrici, cfr. S. Bloch e P. Reddaway, Russia’s Political Hospitals, Victor Gollanz,
London 1977. Si veda anche H. Fireside, Soviet Psychoprisons, Norton, New York 1979.
96 John Iliopoulos
Siamo anche molto lontani da un razzismo inteso come una sorta di ope-
razione ideologica attraverso cui gli Stati, o una classe, tenterebbero di volgere
verso un avversario mitico le ostilità che altrimenti sarebbero rivolte verso di loro
o che potrebbero attraversare e perturbare il corpo sociale. Credo che la specifi-
cità del razzismo moderno sia tutt’altra cosa. […] Ciò che costituisce la specificità
del razzismo moderno non è infatti collegato a delle mentalità, a delle ideologie,
a delle menzogne del potere, ma è legato piuttosto alla tecnica del potere, alla
tecnologia del potere27.
29
Cfr. P. Virilio, The Administration of Fear, Semiotext(e), Los Angeles 2012, pp. 15 e 45.
30
Cfr. M. Foucault, L’evoluzione della nozione di “individuo pericoloso” nella psichiatria legale
del XIX secolo, cit.
98 John Iliopoulos
31
M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 283.
32
Cfr. N. Rose, La politica della vita. Biomedicina, potere e soggettività nel XXI secolo,
Einaudi, Torino 2008.
33
Cfr. Kaplan & Sadock’s Comprehensive Textbook of Psychiatry, Lippincott Williams &
Wilkins, Philadelphia 2009, pp. 248 e 333.
34
Cfr. M.H. Nadesan, Governmentality, Biopower and Everyday Life, Routledge, New
York–London 2008, pp. 138-182.
Biopotere e razzismo psichiatrico a partire da Michel Foucault 99
La resistenza
35
È questa forma di resistenza, in atto in queste forme contemporanee di esclusione,
ad interessare Foucault e che analizzeremo nel seguito del presente studio. Come
Foucault nota in un’intervista: «Credo che ci sia il bisogno di una resistenza al fenomeno
dell’integrazione»; M. Foucault, Un sistema finito di fronte a una domanda infinita, in Archivio
Foucault 3, cit., p. 187.
100 John Iliopoulos
zione della legge, e ripristina quindi il problema del mostro umano, quale
psichiatri e criminologi come Esquirol e Lombroso lo avevano tematiz-
zato36. Mentre si aspira ad associare la follia alla rete globale di normaliz-
zazione, priva di elementi legali extra-psichiatrici che potrebbero falsare
un intervento medico obiettivo, la detenzione forzata e indefinita rimane
essenzialmente una pratica medico-legale e amministrativa che riconosce
la follia e la esclude come una pericolosa alterità.
Per questo motivo, la nozione di pericolosità, che Foucault esamina a
lungo nei suoi corsi e in diverse interviste, ha fatto riemergere il problema
dell’alterità al cuore dell’impresa psichiatrica, fondendo i concetti di follia,
morte e crimine nella figura dell’individuo pericoloso, del nemico sociale.
La pericolosità reinserisce l’alienismo al cuore del positivismo psichiatrico,
riproblematizzando la follia come alterità radicale, nella forma della mi-
naccia sociale e della paura collettiva del crimine, più che come una realtà
biologica concreta. Con la nozione di pericolosità, la psichiatria forense
reintroduce suo malgrado la mostruosità all’interno della pratica psichia-
trica come un problema politico urgente:
La barbarie
43
Foucault discute anche dell’emergere delle rivolte politiche nelle carceri – scatenate
dalla morte di George Jackson, importante membro del movimento delle Black Panther –
e delle rivolte nella prigione di Attica; cfr. M. Foucault, The Masked Assassination, in Warfare
in the American Homeland. Policing and Prison in a Penal Democracy, a cura di J. James, Duke
University Press, Durham 2007, pp. 140-160 e A proposito della prigione di Attica, in Archivio
Foucault 2, cit., pp. 269-280. Foucault mette anche in luce gli elementi di guerra delle razze
all’interno del movimento dei lavoratori, in cui le minoranze etniche costituiscono un
sottoproletariato irriducibile alle analisi economiche astratte; cfr. M. Foucault, Rituals of
Exclusion, in Foucault Live. Interviews, 1966-1984, Semiotext(e), Los Angeles 1989, pp. 68-73,
p. 72. Sulle questioni politiche sollevate dalle minoranze etniche nel sistema globalizzato
della salute mentale negli Stati Uniti, cfr. R. Castel et al., The Psychiatric Society, Columbia
University Press, New York 1982.
44
Per «prese tattiche», Foucault intende le occasioni politiche e tattiche in cui teorie,
ideologie e atteggiamenti diversi entrano in opposizione. Cfr. M. Foucault, Sicurezza,
territorio, popolazione, cit., p. 164 nota.
45
Cfr. L. Roland e L. Maurice, Aliens and Alienists. Ethnic Minorities and Psychiatry,
Routledge, New York–London 1997.
Biopotere e razzismo psichiatrico a partire da Michel Foucault 103
Conclusione
49
J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina, Milano 2002.
50
M. Foucault, Gli anormali, cit., pp. 139-140.
Biopotere e razzismo psichiatrico a partire da Michel Foucault 105
51
M. Foucault, Il soggetto e il potere, cit., p. 293.
52
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 14.
53
Felix Guattari e Gilles Deleuze considerano razza e follia come categorie ontologiche.
Individuano la razza in ogni delirio e per loro razza e follia sono entrambe minoranze che
comunicano attraverso «passaggi inconsci». Cfr. F. Guattari, Molecular Revolution in Brazil,
Semiotext(e), Los Angeles 2008, p. 107 e G. Deleuze, Due regimi di folli, in Due regimi di folli
e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, a cura di D. Broca e P.A. Rovatti, Einaudi, Torino
2010, pp. 3-7. Foucault le considera invece come esperienze ai confini dell’epistemologia.
106 John Iliopoulos
sia quelli scientifici per criticare il proprio ruolo nel sostegno al razzismo,
e per riflettere sulla propria relazione fondamentale e dimenticata con la
follia e la razza, come limiti della razionalità occidentale.
John Iliopoulos
University College London
johnelliot73@hotmail.com
.
Foucault, Biopower and Psychiatric Racism
A metà giugno del 2005, il Cardiovascular and Renal Drugs Advisory Committee
della Food and Drugs Administration (FDA) statunitense tenne un meeting,
che durò una giornata intera, per discutere una nuova applicazione della
prescrizione di un farmaco per curare l’insufficienza cardiaca negli afroa-
mericani. Conosciuto come BiDil®, questo farmaco ha rappresentato un
caso piuttosto unico1. A differenza dei farmaci standard, che si rivolgono
alla popolazione in generale, il BiDil è stato proposto per un gruppo raz-
ziale specifico: solo i neri (blacks only). Oltre ai membri del Comitato, al
meeting erano presenti dei consulenti della FDA, dei rappresentanti di Ni-
troMed (il produttore del BiDil) e alcuni altri ospiti, dagli scienziati e ricer-
catori in medicina ai malati di cuore e ai portavoce di varie organizzazioni
afroamericane, politiche, professionali e per i diritti civili delle minoranze.
Significativamente, diversi partecipanti hanno preso la parola nel cor-
so della discussione. Una di loro era Debra Lee, una donna afroamericana
di quarantotto anni con problemi cardiaci che era al meeting per sostenere
il BiDil. «Nel 1999», ha asserito, «ho avuto un arresto cardiaco. Il mio cuo-
re si è bloccato. Mi è stato inserito uno stent. All’inizio del 2003 ho notato
Il BiDil è una combinazione a dose fissa di due farmaci generici, l’idralazina clo-
1
ridrato e l’isosorbide dinitrato. Entrambi i farmaci generici sono vasodilatatori, che rilas-
sano la muscolatura liscia dei vasi sanguigni causandone la dilatazione. Il risultato finale
è che il sangue riesce a scorrere più facilmente nelle vene e nelle arterie, e che quindi il
cuore non deve sforzarsi. Il BiDil era stato sviluppato come terapia contro l’insufficienza
cardiaca congestizia, una malattia cronica e progressiva in cui il muscolo del cuore gra-
dualmente perde la capacità di pompare sangue a sufficienza per rispondere ai bisogni del
metabolismo. Questa malattia colpisce circa cinque milioni di americani, con una stima
che va dai quattrocentomila ai settecentomila nuovi casi ogni anno. Cfr. Heart Failure
Society of America, Quick Facts & Questions About Heart Failure, consultabile all’indirizzo
http://www.hfsa.org/heart_failure_facts.asp. Sul numero complessivo, la percentuale di
donne e uomini è circa la stessa, la maggioranza è over-65 e intorno ai settecentocin-
quantamila sono afroamericani. Cfr. W. Rosamond et alii, Heart Disease and Stroke Statistics.
2007. Update, Report from the American Heart Association Statistics Committee and
Stroke Statistics Subcommittee, 2007, Circulation 115, e69–e171; NitroMed, Heart Failure
Backgrounder, NitroMed, Lexington.
2
D. Lee, Testimony, in U.S. Food and Drug Administration, Cardiovascular and Renal
Drugs Advisory Committee, Center for Drug Evaluation and Research, U.S. Department of
Health and Human Services, Washington 2005, vol. 2, pp. 218-221, p. 218.
3
Ivi, p. 219.
4
Ivi, pp. 219-220.
5
U.S. Food and Drug Administration, Cardiovascular and Renal Drugs Advisory
Committee, cit., vol. 2.
For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 109
6
D.M. Christensen, Testimony, in U.S. Food and Drug Administration, Cardiovascular
and Renal Drugs Advisory Committee, cit., vol. 2, pp. 203-210, p. 204.
7
Ivi, p. 209.
8
S. Keita, Testimony, in U.S. Food and Drug Administration, Cardiovascular and Renal
Drugs Advisory Committee, cit., vol. 2, pp. 221-224, p. 222.
110 Jonathan Xavier Inda
9
Ibidem.
10
Ivi, pp. 222-223.
11
S.E. Nissen, Report from the Cardiovascular and Renal Drugs Advisory Committee, U.S.
Food and Drug Administration, Gaithersburg, July 15-16, 2005, Circulation 112, pp. 2043-
2046, p. 2046. Il voto con il quale il BiDil venne approvato fu di nove a zero, con due
persone che raccomandarono l’approvazione del BiDil per la popolazione in generale.
12
U.S. Food and Drug Administration, FDA Approves BiDil Heart Failure Drug
for Black Patients, 2005, consultabile all’indirizzo http://www.fda.gov/NewsEvents/
Newsroom/PressAnnouncements/2005/ucm108445.htm.
13
M. Meadows, FDA Approves Heart Drug for Black Patients, in «FDA Consumer
Magazine», vol. 39 (2005), n. 5, pp. 8-9.
For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 111
14
A. Ong, Mutations in Citizenship, in «Theory, Culture & Society», vol. 23 (2006),
nn. 2-3, pp. 499-505; N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in
the Twenty-First Century, Princeton University Press, Princeton 2007.
15
N. Risch et alii, Categories of Humans in Biomedical Research: Genes, Race, and Disease,
in «Genome Biology», vol. 3 (2002), n. 7, pp. 1-12.
16
Il BiDil, tecnicamente, non è un farmaco fondato su base genetica, dal momento
che i meccanismi genetici che sottendono il suo funzionamento non sono conosciuti.
Tuttavia, la creazione del farmaco fu resa possibile dall’idea che la razza conta quando ci
si chiede come i farmaci funzionino sul corpo.
112 Jonathan Xavier Inda
17
S.S.-J. Lee et alii, The Meaning of “Race” in the New Genomics. Implications for Health
Disparities Research, in «Yale Journal of Health Policy, Law, and Ethics», vol. 1 (2001), n. 1,
pp. 33-75; J.H. Fujimura et alii, Introduction. Race, Genetics, and Disease: Questions of Evidence,
Matters of Consequence, in «Social Studies of Science», vol. 38 (2008), n. 5, pp. 643-656;
I. Whitmarsh e D.S. Jones (a cura di), What’s the Use of Race? Modern Governance and the
Biology of Difference, MIT Press, Cambridge 2010.
18
D. Fullwiley, The Molecularization of Race. Institutionalizing Human Difference in
Pharmacogenetics Practice, in «Sciences as Culture», vol. 16 (2007), n. 1, pp. 1-30.
19
Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 1978;
M. Foucault, “Bisogna difendere la società”. Corso al Collège de France (1975-1976), a cura di
F. Ewald, A. Fontana e M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 206-227; M. Foucault,
Governmentality, in The Essential Works of Foucault, 1954-1984. Vol. 3: Power, a cura di
J.D. Faubion, New Press, New York 2000, pp. 201-222.
For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 113
Foucault e il biopotere
Nel capitolo finale de La volontà di sapere, Foucault osserva che, per
lungo tempo, una delle prerogative basilari del potere sovrano è consistita
nel diritto di decidere sulla vita e sulla morte. Ad esempio, se un nemico
20
J. Biehl, Will to Live. AIDS Therapies and the Politics of Survival, Princeton University
Press, Princeton 2007.
21
L. Weir, Pregnancy, Risk, and Biopolitics. On the Threshold of the Living Subject, Routledge,
New York 2006.
22
P. Redfield, Doctors, Borders, and Life in Crisis, in «Cultural Anthropology», vol. 20
(2005), n. 3, pp. 328-361.
23
D. Fassin, The Biopolitics of Otherness. Undocumented Foreigners and Racial Discrimination
in French Public Debate, in «Anthropology Today», vol. 17 (2001), n. 1, pp. 3-7.
24
A.L. Stoler, Race and the Education of Desire. Foucault’s History of Sexuality and the
Colonial Order of Things, Duke University Press, Durham 1995.
25
G. Agamben, Homo Sacer. Sovereign Power and Bare Life, Stanford University Press,
Stanford 1998.
26
P. Rabinow, French DNA. Trouble in Purgatory, University of Chicago Press, Chicago
1999; N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-First
Century, cit.
27
A. Petryna, Life Exposed. Biological Citizens After Chernobyl, Princeton University
Press, Princeton 2002; A. Ong, Mutations in Citizenship, cit.
28
J. Reid, Life Struggles. War, Discipline, and Biopolitics in the Thought of Michel Foucault,
in «Social Text», vol. 42 (2006), n. 1, pp. 127-152.
114 Jonathan Xavier Inda
32
M. Foucault, Governmentality, cit., p. 219.
33
M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 123.
34
M. Foucault, Governmentality, cit., p. 219.
35
M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 120.
116 Jonathan Xavier Inda
36
Ivi, p. 121.
37
Ibidem.
38
M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 220.
39
Ibidem.
For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 117
Il biopotere oggi
Una delle revisioni più influenti del concetto di “biopotere” si trova
in Paul Rabinow e Nikolas Rose44 che, sia nei loro lavori individuali sia
40
M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 122.
41
Ivi, p. 125.
42
Ivi, p. 127.
43
Ibidem.
44
P. Rabinow, French Enlightenment. Truth and Life, in «Economy and Society», vol.
27 (1996), nn. 2-3, pp. 193-201; P. Rabinow, French DNA, cit.; P. Rabinow, Artificiality
and Enlightenment. From Sociobiology to Biosociality, in J.X. Inda (a cura di), Anthropologies of
118 Jonathan Xavier Inda
Modernity. Foucault, Governmentality, and Life Politics, Wiley-Blackwell, Malden 2005, pp. 181-
193; N. Rose, The Politics of Life Itself, in «Theory, Culture & Society», vol. 18 (2001),
n. 6, pp. 1-30; N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in the
Twenty-First Century, cit.; P. Rabinow e N. Rose, Introduction. Foucault Today, in P. Rabinow
e N. Rose (a cura di), The Essential Foucault, New Press, New York 2003, pp. vii-xxxv;
P. Rabinow e N. Rose, Biopower Today, in «Biosocieties», vol. 1 (2006), n. 2, pp. 195-217.
45
P. Rabinow e N. Rose, Biopower Today, cit., p. 211.
46
P. Rabinow e N. Rose, Introduction. Foucault Today, cit., p. xxx.
47
N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-First
Century, cit., p. 3.
For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 119
tolinea Rose, hanno oggi un’influenza importante nella gestione della vita,
ci sono imprese private (aziende farmaceutiche transnazionali e l’industria
biotecnologica, per esempio), agenzie regolative quasi autonome (come
le commissioni bioetiche) e organizzazioni professionali. La devolution
dei poteri dello Stato ha significato anche che, adesso, agli individui viene
chiesto di farsi carico in prima persona della responsabilità fondamentale
nella gestione della loro stessa sicurezza e di quella delle loro famiglie.
Ci si aspetta che gli individui adottino una disposizione imprenditoriale
nei confronti della vita e che assicurino se stessi (usando i meccanismi di
mercato) contro la cattiva salute, le perdite accidentali, la disoccupazione,
e contro qualunque altra cosa che potrebbe potenzialmente minacciare la
loro soddisfazione. Questa enfasi sulla responsabilità individuale, suggeri-
sce Rose, è particolarmente evidente nel campo della salute, «dove ai pa-
zienti viene sempre più richiesto di diventare consumatori attivi e respon-
sabili di servizi medici e di prodotti che vanno dai farmaci alle tecnologie
riproduttive e ai test genetici»48.
La seconda osservazione centrale nella concezione di biopotere di
Rabinow e Rose è che, come risultato degli sviluppi nelle scienze della
vita, c’è stato un cambiamento fondamentale nella capacità della società di
progettare e costruire la vitalità umana (human vitality). Tale cambiamento
è essenzialmente un cambiamento di scala, che comporta un movimen-
to da una conoscenza molare a una conoscenza molecolare della vita. Il
termine molare si riferisce al corpo considerato dal punto di vista degli
ormoni, del sangue, del tessuto, degli organi, degli arti e così via. È su
scala molare che la medicina clinica del XIX e del XX secolo ha cercato
di conoscere il corpo e di agire su di esso. Il corpo molare, secondo Rose,
era quello «rivelato allo sguardo del medico nelle dissezioni post mortem, vi-
sualizzato negli atlanti anatomici, accessibile nel corso della vita attraverso
un certo numero di strumenti, a partire dallo stetoscopio, che incrementa
lo sguardo clinico e gli permette di scrutare negli organi e nei sistemi del
corpo vivente»49. Sebbene, oggi, il livello molare rivesta ancora un ruolo
importante nella biomedicina, Rabinow e Rose suggeriscono che esso sia
stato integrato, se non soppiantato, da una visione molecolare dell’esisten-
za biologica. Rose afferma:
48
Ivi, p. 4.
49
Ivi, pp. 11-12.
120 Jonathan Xavier Inda
50
Ivi, p. 12.
51
P. Rabinow e N. Rose, Introduction. Foucault Today, cit., p. xxxi.
52
P. Rabinow e N. Rose, Biopower Today, cit., p. 203.
For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 121
Dove possiamo situare la politica della vita del BiDil e dei farmaci
razzializzati? Come ho osservato, la questione attuale relativa alla razzializ-
zazione dei farmaci è parzialmente collegata ai modi in cui la razza è stata
storicamente biologizzata. Cercherò quindi di descrivere questa storia e di
discutere come la razza sia stata riconfigurata, oggi, a causa degli sviluppi
nelle bioscienze. Sulla base di tale sfondo, tratterò poi della politica della
vita del BiDil.
53
N. Stepan, The Idea of Race in Science. Great Britain 1800-1960, Archon Books,
Hamden 1982; M. Omi e H. Winant, Racial Formation in the United States. From the 1960s
to the 1990s, Routledge, New York 19942; J.P. Jackson e N.M. Weidman, Race, Racism, and
Science. Social Impact and Interaction, Rutgers University Press, New Brunswick 2006.
122 Jonathan Xavier Inda
54
Z. Bauman, Modernity and the Holocaust, Cornell University Press, Ithaca 1989;
R.N. Proctor, The Destruction of “Lives Not Worth Living”, in J. Terry e J. Urla, Deviant
Bodies. Critical Perspectives on Difference in Science and Popular Culture, Indiana University Press,
Bloomington 1995, pp. 170-196.
55
Z. Bauman, Modernity and the Holocaust, cit.
56
R.N. Proctor, The Destruction of “Lives Not Worth Living”, cit.
For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 123
64
T. Duster, The Molecular Reinscription of Race. Unanticipated Issues in Biotechnology and
Forensic Science, in «Patterns of Prejudice», vol. 40 (2006), nn. 4-5, pp. 427-441.
65
S.S.-J. Lee, Biobanks of a “Racial Kind”. Mining for Difference in the New Genetics, in
«Patterns of Prejudice», vol. 40 (2006), nn. 4-5, pp. 443-460; I. Whitmarsh e D.S. Jones (a
cura di), What’s the Use of Race?, cit.
66
J.H. Fujimura et alii, Introduction. Race, Genetics, and Disease, cit.; I. Whitmarsh e
D.S. Jones (a cura di), What’s the Use of Race?, cit.
67
S.S.-J. Lee, Biobanks of a “Racial Kind”, cit.
68
J.H. Fujimura et alii, Introduction. Race, Genetics, and Disease, cit.
69
T. Duster, The Molecular Reinscription of Race, cit.; D. Fullwiley, The Molecularization
of Race, cit.
126 Jonathan Xavier Inda
Quella che potrebbe essere definita una politica vitale molecolare della
razza, allora, consiste nel massimizzare la qualità della vita individuale e col-
lettiva in tutta la sua differenza. Nella configurazione odierna del sapere e
del potere, la vita razziale non è vista come un destino, come una sorte bio-
logica specifica cui gli individui sono consegnati, ma come potenzialmente
malleabile e aperta a vari tipi di trasformazioni e interventi positivi.
70
N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-First
Century, cit., p. 167.
71
N. Rose e C. Novas, Biological Citizenship, in A. Ong e S.J. Collier (a cura di), Global
Assemblages. Technology, Politics, and Ethics as Anthropological Problems, Blackwell Publishing,
Malden 2005, pp. 439-463.
For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 127
72
Per una discussione che collega il BiDil e la cittadinanza biologica ai discorsi
neoliberali, cfr. D. Roberts, Race and the New Biocitizen, in I. Whitmarsh e D.S. Jones (a cura
di), What’s the Use of Race?, cit. pp. 259-276.
73
Nel dicembre del 2011, la Arbor Pharmaceuticals ha acquistato da NitroMed i
diritti di commercializzazione del BiDil. La promozione del BiDil sembra tuttavia essere
la stessa. Mi sono concentrato su NitroMed perché questa azienda è stata il maggior
promotore del farmaco.
128 Jonathan Xavier Inda
medical officer di NitroMed tra il 2006 e il 2007, una delle ragioni principali
per cui l’azienda ha focalizzato i propri sforzi di sviluppo del farmaco sugli
afroamericani consisteva nelle disparità in fatto di salute. Egli nota che «i
neri tendono ad avere forme di insufficienza cardiaca più gravi, e hanno
una probabilità di morire a causa di questa condizione doppia rispetto ai
bianchi. Nonostante questo, nessun farmaco contro l’insufficienza car-
diaca era mai stato studiato su una popolazione afroamericana»74. In que-
sto contesto, il BiDil viene presentato come una medicina della speranza.
Come afferma Manuel Worcel, un altro chief medical officer di NitroMed
(1997-2006), «il BiDil darà nuova speranza ai pazienti di colore che soffro-
no di insufficienza cardiaca e che sono schiacciati dal peso sproporzionato
di questa malattia»75. Le fondamenta di questa speranza sono i risultati
dell’A-HeFT, che NitroMed ha pubblicizzato attraverso molteplici piatta-
forme: il BiDil è un farmaco in grado di salvare e rafforzare la vita. Nel suo
sito internet (ora discontinuo) Heart.Health.Heritage, ad esempio, l’azienda
promuoveva il BiDil come il «primo trattamento riservato nello specifico
agli afroamericani che soffrono di insufficienza cardiaca»76. Più importante
ancora, NitroMed metteva in luce che questo trattamento si era dimostra-
to molto efficace:
Nel corso di una vasta ricerca clinica, denominata African American Heart Fai-
lure Trial (A-HeFT), un gruppo di afroamericani affetti da insufficienza cardiaca
ha assunto il BiDil insieme alle proprie medicine usuali. Rispetto a un gruppo
simile di pazienti – che invece ha assunto soltanto le medicine usuali – il 39%
in meno dei pazienti che avevano assunto il BiDil è stato ospedalizzato per in-
sufficienza cardiaca. E il 43% in meno è morto nel corso dello studio. I pazienti
del gruppo che ha assunto il BiDil hanno anche manifestato un miglioramento
significativo nel loro funzionamento quotidiano77.
78
G.A. Puckrein, Testimony, in U.S. Food and Drug Administration, Cardiovascular and
Renal Drugs Advisory Committee, cit., vol. 2, pp. 210-214, pp. 211-212.
79
D.M. Christensen, Testimony, cit., pp. 203-204.
130 Jonathan Xavier Inda
80
L.N. Perez, Testimony, in U.S. Food and Drug Administration, Cardiovascular and
Renal Drugs Advisory Committee, cit., vol. 2, pp. 255-259, pp. 258-259.
81
Cfr. anche D. Roberts, Fatal Invention. How Science, Politics, and Big Business Re-create
Race in the Twenty-First Century, New Press, New York 2011.
82
M. Root, The Use of Race in Medicine as a Proxy for Genetic Differences, in «Philosophy
of Science», vol. 70 (2003), n. 5, pp. 1173-1183; S. Epstein, Inclusion. The Politics of Difference
in Medical Research, University of Chicago Press, Chicago 2007.
83
M. Root, The Use of Race in Medicine as a Proxy for Genetic Differences, cit., p. 1178.
84
A.R. Sehgal, Overlap Between Whites and Blacks in Response to Antihypertensive Drugs,
in «Hypertension. Journal of the American Heart Association», vol. 43 (2004), n. 3,
pp. 566-572.
85
S. Epstein, Inclusion, cit., p. 220.
For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 131
86
R.A. Kittles e K.M. Weiss, Race, Ancestry, and Genes. Implications for Defining Disease Risk,
in «Annual Review of Genomics and Human Genetics», n. 4 (2003), pp. 33-67, pp. 37-38.
87
S.S.-J. Lee et alii, The Meaning of “Race” in the New Genomics, cit.
132 Jonathan Xavier Inda
Nella misura in cui vi sono reali disparità in fatto di salute correlate a gruppi
razziali, un’enfasi eccessiva sulla genetica come spiegazione delle disparità può
portare a una cattiva distribuzione delle risorse intellettuali e materiali. Ad esem-
pio, l’ipertensione (una delle cause principali dell’insufficienza cardiaca) è causata
da un ampio spettro di fattori, alcuni sociali e ambientali, altri genetici. Vi sono
disparità nell’incidenza dell’ipertensione tra neri e bianchi. Il tentativo di ridurre
tali disparità razziali a una funzione di variazione genetica alimenta una logica
che vorrebbe concentrare le risorse necessarie a porre rimedio alle disparità su
interventi farmacologici che lavorano a livello molecolare, anziché rivolgersi a
questioni più ampie come la dieta, il comportamento, il razzismo, le disuguaglian-
ze economiche, che giocano tutte un ruolo significativo nell’ipertensione88.
88
J. Kahn, Getting the Numbers Right. Statistical Mischief and Racial Profiling in Heart Failure
Research, in «Perspectives in Biology and Medicine», vol. 46 (2003), n. 4, pp. 473-483, p. 479.
89
K. Wailoo, Dying in the City of Blues. Sickle Cell Anemia and the Politics of Race and
Health, University of North Carolina Press, Chapel Hill 2001.
90
S. Hoffman, “Racially-Tailored” Medicine Unraveled, Case Research Paper Series in
Legal Studies, Working Paper 05-32, Case Western University School of Law, Cleveland
2005, p. 22.
For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 133
91
N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-First
Century, cit.
92
Secondo Jonathan Kahn (How a Drug Becomes “Ethnic”. Law, Commerce, and the
Production of Racial Categories in Medicine, in «Yale Journal of Health Policy, Law, and
Ethics», vol. 4 (2004), n. 1, pp. 1-46), Jay Cohn, il creatore del BiDil, e gli altri ricercatori
del V-HeFT, selezionarono i dati sulla base della razza sin dall’inizio. Tuttavia, non
considerarono inizialmente la razza tra i fattori rilevanti per l’efficacia del BiDil come
cura per l’insufficienza cardiaca. Nel suo discorso dinanzi al Cardiovascular and Renal Drug
Advisory Committee della FDA, nel febbraio del 1997, Cohn affermò: «La maggior parte dei
pazienti [dei V-HeFT I e II] erano caucasici (circa il 70% in entrambi gli esperimenti). Ma
c’era un numero piuttosto considerevole anche di afroamericani. Non lavoreremo in questa
direzione, ma siamo in possesso di molti dati che ci permettono di comparare le risposte
dei caucasici e degli afroamericani [al farmaco]»; U.S. Food and Drug Administration,
Eightieth Meeting of the Cardiovascular and Renal Drugs Advisory Committee, Center for Drug
Evaluation and Research, U.S. Department of Health and Human Services, Washington
1997, pp. 20-21. La razza divenne un fattore significativo solo dopo che l’advisory committee
della FDA raccomandò di non approvare il BiDil.
134 Jonathan Xavier Inda
politico propizio: la ri-analisi dei dati del BiDil avvenne infatti nel contesto
di un crescente desiderio politico di affrontare i problemi legati alle dispa-
rità razziali e di genere nella politica della salute93. Da un certo punto di
vista, dunque, la rinascita del BiDil come farmaco razziale ha avuto meno
a che fare con la volontà di salvare vite afroamericane che con il profitto
economico che sarebbe derivato dal salvataggio del farmaco stesso.
Conclusioni
93
J. Kahn, How a Drug Becomes “Ethnic”, cit.
94
J.X. Inda, Materializing Hope. Racial Pharmaceuticals, Suffering Bodies, and Biological
Citizenship, in M.J. Casper e P. Currah (a cura di), Corpus. An Interdisciplinary Reader on Bodies
and Knowledge, Palgrave Macmillan, New York 2011, pp. 61-80.
95
J. Kahn, From Disparity to Difference. How Race-Specific Medicines May Undermine Policies
to Address Inequalities in Health Care, in «Southern California Interdisciplinary Law Journal»,
n. 15 (2005), pp. 105-129.
For Blacks Only. Farmaci, genetica e politica razziale della vita 135
.
For Blacks Only: Pharmaceuticals, Genetics, and the Racial Politics of Life
This essay examines the contemporary politics of race and pharmaceuticals, with
a focus on BiDil, a heart failure medication approved by the Food and Drug Ad-
ministration solely for blacks. Drawing on Michel Foucault’s work on biopower,
the essay suggests that pharmaceuticals such as BiDil are implicated in what
could be called a racial politics of life. This is a politics that takes as its object
the biological vitality of the racial body. The essay pays attention both to the life-
affirming aspects of this racial politics of life and to its exclusionary underside.
.
Michael Bess: Un attimo fa stava dicendo di essere un moralista…
Michel Foucault: In un certo senso, sono un moralista nella misura in cui cre-
do che uno dei compiti, uno dei significati dell’esistenza umana – l’origine
della libertà umana – sia di non accettare mai niente come definitivo, in-
toccabile, ovvio o immobile. Non dovremmo permettere a nessun aspetto
della realtà di divenire una legge definitiva e disumana.
Dobbiamo sollevarci contro tutte le forme di potere – e non solo
contro il potere nel senso stretto del termine, che si riferisce al potere di un
governo o di un particolare gruppo sociale su un altro: queste sono solo
alcune istanze specifiche di potere.
Potere è tutto ciò che tende a rendere immobili e intoccabili quelle
cose che ci sono presentate come reali, vere e buone.
Michael Bess: Ciò nonostante, abbiamo bisogno di fissare le cose, anche se
in modo provvisorio…
1
Di queste conferenze è ora disponibile la traduzione italiana: M. Foucault, Sull’origine
dell’ermeneutica del sé. Due conferenze al Dartmouth College, a cura di mf / materiali foucaultiani,
Cronopio, Napoli 2012.
Michel Foucault: Certo, certo. Questo non significa che si debba vivere in
una discontinuità indefinita. Quello che voglio dire, è che dobbiamo con-
siderare tutti i punti di fissità, d’immobilizzazione, come elementi in una
tattica, in una strategia – come parte di uno sforzo teso a riportare le cose
alla loro originaria mobilità, alla loro apertura al cambiamento.
Poco fa le stavo parlando dei tre elementi della mia morale, che sono:
1) il rifiuto di accettare come auto-evidenti le cose che ci sono proposte;
2) la necessità di analizzare e conoscere, perché non possiamo realizzare
nulla senza riflessione e comprensione – dunque, il principio della curio-
sità; e 3) il principio dell’innovazione: individuare nella nostra riflessione
quelle cose che non sono mai state concepite o immaginate. Quindi: rifiu-
to, curiosità, innovazione.
Michael Bess: Mi sembra che il concetto filosofico moderno del sogget-
to implichi tutti e tre questi princìpi. Intendo dire che la differenza tra il
soggetto e l’oggetto sta precisamente nel fatto che il soggetto è capace di
rifiuto e d’innovazione. Il suo lavoro costituisce dunque un attacco alla
tendenza a congelare questa nozione di soggetto?
Michel Foucault: Ciò che intendevo chiarire è l’ambito di valori in cui situo
il mio lavoro. Lei mi ha chiesto, poco fa, se non fossi un nichilista che
ha rifiutato la moralità. A questo rispondo: no! In realtà, mi stava anche
domandando: “Perché fa il lavoro che fa?”
Questi sono i valori che propongo. Ritengo che la teoria moderna del
soggetto, la filosofia moderna del soggetto, possa ben accordare al sogget-
to una capacità d’innovazione, etc., ma che, di fatto, la filosofia moderna
lo faccia solo a un livello teorico. In realtà, non è in grado di tradurre nella
pratica questi diversi valori che sto cercando di elaborare nel mio lavoro.
Michael Bess: Il potere può essere qualcosa di aperto e fluido, oppure è in-
trinsecamente repressivo?
Michel Foucault: Il potere non dovrebbe essere concepito come un sistema
oppressivo che grava sugli individui dall’alto, colpendoli con divieti di ogni
genere. Il potere è un insieme di relazioni. Che cosa significa esercitare
potere? Non vuol dire prendere questo registratore e gettarlo a terra. Ho la
capacità di farlo – materialmente, fisicamente, sportivamente. Ma se lo fa-
cessi, non starei esercitando potere. Tuttavia, se prendessi questo registra-
tore e lo gettassi a terra per irritarla, o per impedirle di ripetere quel che ho
detto, o per fare pressione su di lei e indurla a un certo comportamento, o
per intimidirla – beh, ciò che avrei fatto, plasmando il suo comportamento
tramite determinati mezzi, questo sarebbe potere.
Il potere, i valori morali e l’intellettuale 139
Il che significa che il potere è una relazione tra due persone, una rela-
zione che non è dello stesso ordine della comunicazione (anche se lei fosse
obbligato a farmi da strumento di comunicazione). Non è come dirle: “Il
tempo è bello”, oppure “Sono nato questo o quest’altro giorno”.
Bene. Io esercito il potere su di lei: influenzo il suo comportamento,
o tento di farlo. Provo a guidare il suo comportamento, a condurre il suo
comportamento. Il mezzo più semplice per farlo è, chiaramente, quello di
prenderla per mano e forzarla ad andare in un certo luogo. Questo è il caso
limite, il grado zero del potere; ed è proprio in questo momento che il po-
tere cessa di essere potere per divenire mera forza fisica. D’altro canto, se
sfrutto la mia età, la mia posizione sociale, la conoscenza che posso avere
di questa o quell’altra cosa, per farla comportare in un modo particolare
– quindi, senza forzarla affatto e lasciandola completamente libera – ecco
che allora inizio ad esercitare potere. È chiaro che il potere non dovrebbe
essere definito come un atto costrittivo di violenza che reprime gli indi-
vidui, forzandoli a fare qualcosa o impedendo loro di fare qualcos’altro.
C’è potere quando c’è una relazione tra due soggetti liberi e questa relazi-
one è sbilanciata, così che uno può agire sull’altro e l’altro ne è influenzato,
o acconsente ad esserne influenzato.
Il potere, quindi, non è sempre repressivo. Può assumere varie forme
ed è possibile che ci siano relazioni aperte di potere.
Michael Bess: Relazioni di uguaglianza?
Michel Foucault: Mai di uguaglianza, perché la relazione di potere è una
disuguaglianza. Ma ci possono essere sistemi di potere reversibili. Con-
sideriamo, ad esempio, quel che accade in una relazione erotica. Non parlo
di una relazione amorosa, ma di una semplice relazione erotica. Sappiamo
bene che si tratta di un gioco di potere, in cui la forza fisica non è neces-
sariamente l’elemento più importante. Ciascuno agisce sul comportamen-
to dell’altro in un certo modo, plasmandolo e determinandolo. Uno dei
due può usare questa situazione in un certo modo, e poi mettere in atto
l’esatto contrario vis-à-vis dell’altro. Ecco, questa non è altro che una forma
puramente locale di potere reversibile.
Le relazioni di potere non sono di per sé forme di repressione. Ma
accade che, nella società, nella maggior parte delle società, vengono create
delle organizzazioni per congelare le relazioni di potere, mantenerle in
uno stato di asimmetria, così che un certo numero di persone ne traggano
vantaggio socialmente, economicamente, politicamente, istituzionalmen-
te, etc. Questo congela totalmente la situazione. È quel che chiamiamo
potere nel senso stretto del termine: un tipo specifico di relazione di po-
140 Michel Foucault
può non rilevare] che, invece, i sistemi che riguardano l’esercizio del potere
sono stati relativamente trascurati. Non si è prestata abbastanza attenzione
a questo complesso insieme di connessioni.
Michael Bess: La sua posizione sfugge continuamente alla teorizzazione. È
qualcosa che deve essere rifatto sempre di nuovo.
Michel Foucault: Se vuole, si tratta di una pratica teorica. Non è una teoria,
quanto piuttosto un modo di teorizzare la pratica. […] Talvolta, poiché la
mia posizione non è stata resa in modo sufficientemente chiaro, la gente
pensa che io sia una specie di anarchico radicale che nutre un’avversione
assoluta per il potere. No! Quello che sto cercando di fare è di affrontare
questo fenomeno estremamente importante e intricato presente nella no-
stra società, ovvero l’esercizio del potere, con il più riflessivo, e direi pure
il più prudente degli atteggiamenti: essere prudente nella mia analisi, nei
postulati morali e teorici che uso; cerco di capire quali siano le poste in gio-
co. Ma interrogare le relazioni di potere nel modo più scrupoloso e attento
possibile, badando a tutti gli ambiti dell’esercizio del potere, non equivale a
costruire una mitologia del potere come la bestia dell’Apocalisse.
Michael Bess: Ci sono delle tematiche positive nella sua concezione di ciò
che è buono? In pratica, quali sono gli elementi morali sui quali lei basa le
sue azioni nei confronti degli altri?
Michel Foucault: Gliel’ho già detto: rifiuto, curiosità, innovazione.
Michael Bess: Ma non sono tutti piuttosto negativi nel loro contenuto?
Michel Foucault: La sola etica che si può avere, riguardo all’esercizio del
potere, è la libertà degli altri. Io non dico agli altri: “Fai l’amore in questo
modo, fai dei figli, vai a lavorare”.
Michael Bess: Devo ammettere che sono un po’ smarrito, non mi oriento
più nel suo mondo – forse perché è troppo aperto.
Michel Foucault: Senta, senta… quanto è difficile! Non sono un profeta; non
sono un organizzatore; non voglio dire alla gente che cosa dovrebbe fare.
Non dirò loro: “Questo per te è un bene, questo per te è un male!”
Provo ad analizzare una situazione reale nelle sue varie complessità,
con lo scopo di permettere rifiuto, curiosità e innovazione.
Michael Bess: E rispetto alla sua vita personale, è diverso…
144 Michel Foucault
.
Power, Moral Values, and the Intellectual
In this interview, Michel Foucault discusses several crucial topics of his work: his
conception of power, his idea of the task of the intellectual, and the essential
elements of his “ethics”.
Questa intervista è stata realizzata il 9 novembre 2011 da Orazio Irrera e Daniele Lo-
renzini. Ci sia permesso ringraziare Daniel Defert per la sua gentilezza e disponibilità.
.
mf: Durante il corso al Collège de France del 1979-80, che sarà presto pub-
blicato, Foucault inaugura uno studio “aleturgico” della soggettività, una
storia dei “regimi di verità” che proseguirà poi fino al termine della propria
vita. Ci sembra che parlare di “regimi di verità” per sottolineare la necessi-
tà di smascherare la pretesa di ogni “verità” di essere assoluta, e quindi di
non dipendere da una forza esteriore per far valere la propria legge, sia in
fondo un modo di riprendere e sviluppare un’intuizione che Foucault ave-
va già espresso ne L’ordine del discorso: il discorso vero, aveva detto, non può
riconoscere la “volontà di verità” che lo attraversa, poiché questa volontà
è sempre “mascherata” dalla verità stessa che vuole. Un’intuizione il cui
valore non è soltanto epistemologico, ma anche etico e politico – come la
riflessione foucaultiana degli anni settanta e ottanta rende evidente.
Signor Defert, potrebbe dirci se secondo lei è corretto stabilire una
sorta di “continuità” tra questa problematica della “volontà di verità” (che
Foucault sviluppa anche nel suo primo corso al Collège de France1, di
cui lei lo scorso anno ha curato l’edizione), e la storia dei regimi di verità
abbozzata da Foucault negli ultimi corsi al Collège de France? Più preci-
samente, qual è, a suo avviso, l’importanza concettuale e strategica della
nozione di “volontà di verità”, in Foucault?
Daniel Defert: In realtà, mi pare abbiate sollevato tre problemi diversi che,
in un certo senso, sono indipendenti l’uno dall’altro. C’è il problema del-
la verità, poi quello della volontà di verità, e infine c’è il problema della
continuità con i regimi di verità. Mi sembra si tratti di tre problematiche,
o di tre temi, differenti, che certamente sono collegati in Foucault, ma
che si presentano come degli approfondimenti di una posta in gioco che,
Cfr. M. Foucault, Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de France. 1970-1971,
1
credo, è costante in tutta la sua opera. Nel senso che, sin dall’inizio – nel
suo primo grande libro – Foucault si pone il problema della produzione
di verità sulla follia. E questo è stato comunque un tema ricorrente, che
Foucault ha ripreso più volte nel corso del proprio lavoro. L’ospedale, il
manicomio divenuto ospedale psichiatrico, ha preteso di essere un luogo
di produzione di verità; ma alla fine non si è mai arrivati a una verità sulla
follia, ci sono sempre stati degli effetti di verità e delle decisioni, e così, sin
dall’inizio, Foucault sostiene che il sapere sulla follia è una forma di po-
tere, una normalizzazione, la riduzione al silenzio… Dunque, in un certo
senso, a partire da simile posta in gioco, Foucault pone questo problema
della verità, e della verità vera e della verità menzogna – sin dall’inizio. Si
può dire che non sia del tutto esplicitato, ma naturalmente è già su uno
sfondo nietzscheano che Foucault pone il problema della verità, immedia-
tamente, e della verità vera e della verità menzogna: la Storia della follia è
proprio questo. Poi c’è il corso del 1970-71, che è un corso di filosofia, e in
un certo senso è l’instaurazione di Foucault nel suo statuto di filosofo. In
precedenza, Foucault aveva avuto una cattedra di psicologia e di filosofia,
ma aveva insegnato soprattutto la psicologia, mentre al Collège de France
ha una cattedra di filosofia. E quindi tiene un corso di filosofia, che è un
corso molto teorico, piuttosto complesso, nel quale non oppone tra loro
due epoche, com’era sua abitudine fare nei testi precedenti (nei quali ana-
lizzava differenze di epoca, differenze di periodo, di periodizzazione); qui,
nel corso del 1970-71, Foucault contrappone invece due paradigmi di co-
noscenza – il paradigma aristotelico e il paradigma nietzscheano – e pone
il problema della volontà di verità, che è un concetto abbastanza difficile.
mf: E in che modo l’introduzione di questo concetto cambia, trasforma la
posta in gioco dell’analisi?
Daniel Defert: Foucault aveva già utilizzato, come termine, l’espressione
“volontà di verità”, credo nella Storia della follia, o nella Nascita della clinica,
insomma c’è un luogo in cui la nozione era già apparsa2. Foucault si era
di nuovo immerso nella lettura di Nietzsche – si era ricollegato molto alla
lettura di Nietzsche a partire dal 1967-68 – e la volontà di verità, dice, ecco
ciò che mi interessa: in effetti non è la volontà di potenza che mi interessa,
ma la volontà di sapere. In fondo, tra volontà di verità e volontà di sape-
re c’è come uno slittamento continuo, e Foucault è in difficoltà dinanzi
a tale nozione, perché in un certo senso si chiede: com’è possibile fare
2
Cfr. M. Foucault, Philosophie et vérité (1965), in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard,
Paris 2001, p. 480.
Volontà di verità e pratica militante in Michel Foucault 147
3
Apparsa sul numero 22 della rivista «Agenda de la pensée contemporaine»
(gennaio 2012).
148 Daniel Defert
tre volte: ogni volta aggiunge un accento, una precisazione… Ogni volta
che spiega qualcosa oralmente lo si comprende bene, ma per iscritto (e per
l’edizione del corso del 1970-71 era possibile basarsi solo su documenti
scritti) resta spesso in sospeso. Ora, giustappunto, quasi sempre ci sono
entrambe le vie: c’è la via genealogica della nostra concezione abituale
della verità, e poi c’è la via genealogico-critica della verità come menzo-
gna. Invece la nozione di “regime di verità” oggettiverà senza volontà,
senza questo residuo di soggettività e di metafisica; e questo mostra anche
che, nel percorso di Foucault, si assiste a un cammino costante più che a
una svolta, a una problematizzazione approfondita di un certo numero
di punti nodali. Non si tratta quindi né di una vera continuità, né di una
vera discontinuità, quanto piuttosto di un approfondimento costante delle
medesime poste in gioco; direi perfino che tutti i suoi libri sono dei “teatri
di verità”. In Nascita della clinica, Foucault stesso dice che l’ospedale è un
teatro di verità, ma questo vale per l’ospedale psichiatrico, per la prigio-
ne, per la medicalizzazione della sessualità – tutti questi teatri di verità
moltiplicano i regimi di verità e desacralizzano totalmente l’epistemologia,
che considera teatro di verità soltanto la ricerca scientifica e la verità degli
eruditi, mentre Foucault ha costantemente studiato delle verità nella loro
complessità e nella loro eterogeneità. Si capisce, dunque, perché una posta
in gioco importante per lui fosse quella di non conservare la distinzione
scienza/ideologia, cara ad Althusser, ma non pertinente per Foucault, che
già in Philosophie et psychologie definiva la psicologia non come una scienza,
ma come una forma culturale4.
mf: Ci è perfettamente chiaro in che senso lei sostenga che questa nozione
di “regimi di verità” esclude la problematica del soggetto. Tuttavia, nei
corsi e nella riflessione del Foucault degli anni ottanta, si trova comunque
un’attenzione straordinaria al rapporto che certi regimi di verità intratten-
gono con certe pratiche di soggettivazione…
Daniel Defert: Sì, ma non si tratta affatto del soggetto fondatore, bensì del
soggetto costituito dai regimi di verità. Il tema del “ritorno del soggetto”
in Foucault è una stupidaggine, non si tratta per nulla del ritorno del sog-
getto! Si tratta dell’introduzione di una soggettività del tutto diversa dalla
soggettività trascendentale. È questa la svolta. Ciò non ha dunque niente a
che fare [con il soggetto fondatore], e solo dei lettori davvero superficiali
hanno potuto dire “ah, ritorna alla soggettività” – ma questa soggettivi-
tà non ha affatto lo stesso statuto. Foucault non ritrova la soggettività
4
Cfr. M. Foucault, Philosophie et psychologie (1965), in Dits et écrits I, cit., p. 466.
Volontà di verità e pratica militante in Michel Foucault 149
5
Ph. Artières e J.-F. Bert, Un succès philosophique. L’Histoire de la folie à l’âge classique
de Michel Foucault, PUC, Caen 2011.
150 Daniel Defert
Daniel Defert: Sì, fin dall’inizio – era al completo! Dovete sapere che l’“aura”
di Foucault è stata riconosciuta molto presto: alla sua discussione di tesi,
alla quale ho assistito nel 1961, c’era una gran folla, l’anfiteatro Louis Liard
era pieno. La reputazione intellettuale di Foucault era quindi già forte. E
poi anche a Vincennes c’era folla… Al Collège de France, Foucault ha
avuto immediatamente un pubblico che non era quello per il quale si era
preparato, e allora a partire dal secondo anno si è adattato meglio a questo
pubblico e a un progetto preciso: il ruolo del diritto nella costruzione della
verità. Si vede bene che il suo primo corso è esitante, e insieme pieno di
sottointesi: Foucault suppone che tutti quanti conoscano gli argomenti
di cui parla, non sempre è preciso, c’è comunque molta complicità, mol-
to “siamo tra noi”… In seguito, nei corsi successivi, sarà più didattico.
In secondo luogo, c’è una cosa davvero curiosa da notare: nella Situation,
affermo che a mio avviso il libro di Deleuze Differenza e ripetizione ha gio-
cato un ruolo considerevole – Differenza e ripetizione che è comunque un
libro difficile, uno dei grandi libri di Deleuze, e rappresenta un momen-
to cruciale per lui (c’è un’inversione nel metodo di Deleuze, che fino a
quel momento era stato uno storico della filosofia, straordinario ed estre-
mamente meticoloso, mentre in Differenza e ripetizione fa subire una sorta
di torsione alla maniera di fare storia della filosofia). Foucault, nel corso
del 1970-71, e Deleuze, in Differenza e ripetizione, discutono esattamente lo
stesso brano di Aristotele. Deleuze ne dà subito una lettura nietzscheana,
mostrando che questo testo di Aristotele è un testo interamente morale,
e non fornisce un commento “interno” ad Aristotele – è completamente
nietzscheano. Foucault, al contrario, fa un commento del tutto “interno”
ad Aristotele, assume la postura dello storico della filosofia e mostra come
da una prospettiva interna all’opera di Aristotele si comprenda perfetta-
mente tutto ciò che dice – in pratica, ricostruisce per noi la metafisica di
Aristotele a partire da queste quattro righe della Metafisica6. Il “chiasmo”
rispetto a Deleuze è davvero sorprendente. Quindi, da un lato, Deleuze
fa una specie di collage di storia della filosofia (è Foucault che utilizza il
termine “collage”), mentre Foucault, al contrario, gioca allo storico della
filosofia, quasi à la Guéroult, ricostruendo un meticoloso commento del
testo, e tutto ciò per giungere alla conclusione che il saggio è comunque il
più grande mentitore, è colui – il saggio e il filosofo – che si suppone parli
da un luogo fuori dalla storia. Ma com’è possibile parlare da un luogo fuori
dalla storia quando si vede il reale processo di costituzione di ogni discorso
di verità, tutto lo sfondo di pratiche, di lotte sociali e di dominazione che
6
Cfr. M. Foucault, Leçons sur la volonté de savoir, cit., pp. 7-14.
Volontà di verità e pratica militante in Michel Foucault 151
gli sta dietro? Foucault si costituisce dunque come filosofo e, allo stesso
tempo, distrugge la valorizzazione accademica tradizionale del filosofo.
E il corso successivo, che avete citato, è molto curioso, perché Foucault
in pratica non vi fa che della storia: maneggia un sacco di testi di storici
del Medioevo, ma di storici spesso molto marginali, mentre nel corso del
1970-71, il primo corso, utilizza soltanto gli storici up to date – tutto ciò che
costituisce il corpus legittimo, accademico, il corpus rispettabile e affidabi-
le degli storici che sono sempre presi in considerazione, che costituiscono
un punto di riferimento per gli studi ellenistici. Nel corso del 1971-72,
invece, a proposito del Medioevo, Foucault considera un campo molto più
vasto: ci sono comunque i grandi storici del Medioevo, c’è Georges Duby
– naturalmente si serve molto di Duby – ma ho controllato tutte le fonti
che utilizza e non hanno più nulla a che vedere con le fonti recenti utiliz-
zate nel corso del 1970-71. Foucault si pone un problema del tutto nuovo:
seguire la costituzione di un apparato repressivo di Stato durante il Medio-
evo. Tema althusseriano, è evidente. Foucault cerca, accanto all’apparato
di giustizia e all’apparato fiscale, il modo in cui si è costituito un apparato
la cui funzione era puramente la repressione. Non ho mai visto nessuno
fare la storia della nascita dell’istanza repressiva all’interno dell’apparato
di Stato. È questo il secondo corso. Tutto ciò non ha dunque più nulla a
che fare con il corso del 1970-71, e qui davvero ci avviciniamo a Sorvegliare
e punire – c’è una rottura totale, una rottura in rapporto alle fonti storiche
di Foucault e, contemporaneamente, una rottura in rapporto al progetto
iniziale di istituirsi come filosofo. E quindi, per riassumere, in occasione di
questo primo corso al Collège de France, credo che Foucault non cono-
scesse il proprio pubblico e che progressivamente lo abbia saggiato, lo ab-
bia messo alla prova; d’altronde, mi pare che alla fine si sentisse molto più
libero… Ma utilizza un materiale da storico! È molto strano il suo corso,
perché è estremamente filosofico ma al contempo si presenta come storia;
è un corso nel quale ci sono dei filosofi messi in primo piano, Aristotele e
Nietzsche, e ce ne sono anche altri: Deleuze, Heidegger, Althusser, Der-
rida, la psicanalisi considerata come filosofia da Deleuze che è messa in
questione. Ci sono un sacco di sottoconversazioni, come direbbe Nathalie
Sarraute, che non sono esplicitate. Ma ci sono sempre delle sottoconversa-
zioni, in tutti i libri di Foucault, che è qualcuno che cancella la polemica e
che tuttavia è sempre immerso nella discussione, nella contestazione.
mf: Secondo lei, questa “rottura” tra il primo e il secondo corso può essere
spiegata anche pensando alla costituzione, in quegli anni, del G.I.P.?
152 Daniel Defert
Daniel Defert: Nel corso del 1970-71 non lo si avverte… C’è il tono, che è
in tutto e per tutto sessantottino, però se non si è vissuto tutto questo, non
so se lo si riesca a percepire.
mf: C’è comunque un atteggiamento genealogico che è sempre presente in
Foucault, che parte sempre dall’attualità, dai problemi politici del presente…
Daniel Defert: Sì, ma questi problemi non sono così esplicitati, bisognereb-
be fare davvero una doppia lettura, o un doppio ascolto, per capirlo: oggi
tutto questo potrebbe tranquillamente rimanere nascosto.
mf: Potrebbe far emergere per noi qualche traccia di questa esperienza?
Daniel Defert: Beh, potremmo dire che nel corso del 1970-71 Foucault è
nietzscheo-marxista. Incredibilmente! È quel che era da giovane: allora
credeva che Nietzsche e Marx fossero un po’ l’uomo nuovo… Ora, nel
1970-71, è vero che analizza comunque tutti questi conflitti di dominazio-
ne come rapporti di classe: vediamo i contadini, gli aristocratici, gli opliti,
insomma l’infrastruttura – modi di produzione e rapporti di produzio-
ne cari ad Althusser. Tutto questo è molto presente. Nella Situation ho
detto che, in fin dei conti, queste condizioni sociali sono molto vicine a
quelle che evoca Marx, anche se i concetti di classe e tutto il resto non
si trovano in Nietzsche. Ma Frédéric Gros usa chiaramente l’espressione
“nietzscheo-marxismo” per questo corso, e credo che vada bene, perché
c’è in effetti una presenza reale dei rapporti di produzione – non soltanto
i modi di produzione, ma i rapporti di produzione sono molto espliciti.
E non si tratta solo di rapporti di pura dominazione: ci sono analisi di
tipo economico, e poi analisi che non sono affatto economiste [économistes],
come in particolare quella della moneta. Questa analisi del simulacro e non
del segno, che non è proprio nuova (Foucault la trae da Édouard Will, che
l’aveva ripresa a sua volta da Bernhard Laum), è davvero interessante e
mi sembra un elemento molto importante di questo corso. Foucault dice:
non c’è una storia universale della moneta, questa è solo una delle origini
della moneta, ce ne possono essere state altre, forse ce ne sono altre che
sono avvenute effettivamente nel puro ambito dello scambio; ma qui si
tratta di un partage politico, di un atto politico di redistribuzione, e Fou-
cault fa un’analisi politica [politicienne] e non economista dell’origine della
moneta. È comunque un momento esemplare della posta in gioco del
corso: fare un’analisi politica e non economista. Questo, appunto, fa molto
Sessantotto: ci si riconosceva in questo, si vibrava a un’analisi come questa.
Volontà di verità e pratica militante in Michel Foucault 153
cioè lo scontro tra individui e potere di Stato che si sta costituendo, il puro
scontro. È Nietzsche che, dopo i Sofisti e Aristotele, è tornato su questo e
possiamo dire che, a partire dal 1970 fino a Sorvegliare e punire, gli apparati
giudiziari saranno, per Foucault, luoghi di produzione di sapere.
mf: Lei ha appena evocato l’esperienza di Foucault nel Partito Comuni-
sta Francese. Nell’intervista del 1978 con Duccio Trombadori, Foucault
parla proprio di questa esperienza, tracciando un quadro della militanza
nei termini di una dissoluzione dell’io, di una conversione, dell’ascetismo
e dell’autoflagellazione. Tuttavia, nell’ultimo corso al Collège de France,
quello del 1984, Foucault parla della militanza rivoluzionaria come di una
delle piste più interessanti da percorrere, nel caso in cui ci si voglia impe-
gnare a lavorare sul cinismo “trans-storico” – nei tre aspetti della socie-
tà segreta, dell’organizzazione istituita (come, ad esempio, il partito o il
sindacato) e della testimonianza attraverso la vita. Nondimeno, Foucault
sembra considerare anche la possibilità di sovrapposizioni, se non di una
iscrizione della testimonianza della verità tramite la vita nelle forme di
organizzazione di un movimento o di un partito, ivi compresa quella del
gauchismo. Come legge, lei, i rapporti tra queste due modalità di riferirsi alla
militanza? In che modo ritiene che l’esperienza personale di Foucault si
situi rispetto a queste due idee diverse di militanza?
Daniel Defert: Nell’ultimo corso ci sono in effetti alcune cose che mi sem-
brano piuttosto interessanti a proposito della “vita altra”, e appunto della
rivoluzione, della vita rivoluzionaria… C’è una cosa che Foucault ha ben
messo in luce: la costituzione della militanza come un modello sociale
concepito nel XIX secolo. Il militante rivoluzionario è qualcosa che si è
costruito, che è esistito praticamente in tutti i paesi, che si trova in Russia
come negli Stati Uniti, ed è una delle forme dell’ascetismo, una delle forme
del dire il vero e, per un certo verso, uno dei problemi complicati, sui quali
non saprei pronunciarmi, dei rapporti che Foucault stabilisce tra la storia
e la verità. Perché c’è, allo stesso tempo, una storicizzazione completa dei
regimi di verità, e poi ci sono delle figure che attraversano il tempo – qual
è il loro statuto? Ero rimasto colpito dal fatto che Foucault avesse detto:
la storia della verità non è forse la storia di un’esclusione, dell’esclusione
della déraison rispetto alla ragione? C’è questa storia di una follia precedente
al partage, che riaffiorerebbe in Artaud, in Van Gogh, e poi infine si avreb-
be una sorta di riaffiorare della sofistica in Brisset, in Roussel… E poi,
nel corso del 1984, di nuovo, questo personaggio del rivoluzionario che è
capace di dire il vero e di proporre una vita altra, e che è anche un riaffio-
Volontà di verità e pratica militante in Michel Foucault 155
rare del cinico. Allora, si tratta solo di modelli di vita, di “idealtipi”, come
direbbe Weber, costruiti per comparare, o c’è una reale trans-storicità?
Spesso le cose sono un po’ ambigue. Forse per Foucault non lo erano, ma
su questo punto non è sufficientemente esplicito e ci si può chiedere se ci
sono delle specie di figure trans-storiche che riaffiorano, delle forme, delle
stilizzazioni dell’esistenza al tempo stesso politiche ed etiche, e non sem-
plicemente estetiche. Un’analisi più attenta permetterebbe forse di capire
se si tratta di idealtipi, di puri modelli di una metodologia comparativa o
di tutt’altro, di una percezione trans-storica di percorsi etici e politici il cui
numero è finito.
mf: L’esperienza personale della militanza di Foucault, quel che racconta
a Duccio Trombadori a proposito del PCF, ha potuto influenzare la sua
maniera di considerare la militanza?
Daniel Defert: Non sono sicuro che sia nel PCF che Foucault ha avuto l’e-
sperienza militante più intensa, né la più evocatrice del cinismo antico (il
cinismo stalinista è davvero tutt’altra cosa)…
mf: Di certo la più negativa!
Daniel Defert: Sì, perché sapete come funziona l’appartenenza a un partito:
si va alle riunioni, si distribuiscono volantini… Beh, Foucault scriveva an-
che articoli, che venivano spesso tagliati. Era certo un’esperienza militante,
perché era data come tale e Foucault la prendeva come tale; era comunque
una rottura molto forte rispetto al suo ambiente di origine, provinciale e
borghese. So che io, quasi vent’anni dopo, mi sono posto la domanda: en-
tro nel Partito oppure no? Grazie a Dio, il rapporto del PCF con la guerra
d’Algeria, con l’indipendenza dell’Algeria, mi ha evitato di entrarci! Nel
1960-61, entrare nel Partito era ancora di per sé una rottura, anche se una
volta dentro la pratica consisteva nel vendere l’Humanité, nel distribuire
volantini, nell’andare alle riunioni… Sicuramente nella Gauche prolétarienne
e nel G.I.P. abbiamo avuto una pratica molto più militante, e proprio all’in-
terno di questa pratica militante che avevamo nel G.I.P. Foucault era estre-
mamente attento a non dare spazio alcuno all’autocritica. Non sopporta-
va questa abitudine religiosa e comunista dell’autocritica! Al contrario, se
qualcosa aveva successo bisognava festeggiare! Cioè: “Abbiamo fatto una
buona manifestazione, ha avuto un buon impatto, si festeggia, ci si festeg-
gia”. Foucault era favorevole alla celebrazione tanto quanto vietava tutto
quel che assomigliava a un’autocritica – e quindi le sedute di confessione,
156 Daniel Defert
9
Il termine “garçons” ha un senso elogiativo nell’ambiente penitenziario, dei duri – si
diceva “loubards” [nota di Daniel Defert].
Volontà di verità e pratica militante in Michel Foucault 157
.
Will to Truth and Militant Practice in Michel Foucault
In this interview, Daniel Defert discusses the first series of Michel Foucault’s
lectures at the Collège de France, Leçons sur la volonté de savoir, and describes the
militant activity of Foucault in the G.I.P. (Groupe d’information sur les prisons).
1
J. Banville, Noi scrittori uccisi da Foucault, in «La Repubblica», 23 giugno 2009, pp. 42-43.
Per una panoramica generale sulle teorie dell’autore nella critica letteraria contemporanea
e sull’influenza del pensiero francese all’interno di essa si vedano J.V. Harari (a cura di),
Textual Strategies. Perspectives in Post-Structuralist Criticism, Cornell University Press, Ithaca
1979 e A. Brunn, L’auteur, Flammarion, Paris 2001.
2
Tra questi: H. Sluga, Foucault, the Author and the Discourse, in «Inquiry. An
Interdisciplinary Journal of Philosophy», vol. 28 (1985), pp. 403-415; P. Lamarque, The
Death of the Author. An Analytical Autopsy, in «British Journal of Aesthetics», vol. 30
(1990), pp. 319-331; S. Burke, The Death and the Return of the Author. Criticism and Subjectivity
in Barthes, Foucault and Derrida, Edinburgh University Press, Edinburgh 1998; D.W. Foster,
In the name of the Author, in «New Literary History», vol. 33 (2002), n. 2, pp. 375-396;
A. Wilson, Foucault on the “Question of the Author”. A critical Exegesis, in «The Modern
Language Review», vol. 99 (2004), n. 2, pp. 339-363.
3
M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur ?, in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris
2001, pp. 817-849; trad. it. Che cos’è un autore?, in M. Foucault, Scritti letterari, a cura di
C. Milanese, Feltrinelli, Milano 2004 (1971), pp. 1-22. Per ragioni di completezza, nel
seguito dell’articolo utilizzerò anche la versione originale francese, in quanto comprende
anche le variazioni introdotte nella conferenza pronunciata da Foucault l’anno successivo
a Buffalo, così come il dibattito successivo alla conferenza stessa. Per quanto riguarda
l’edizione inglese, essa contiene invece già incorporata la variante di Buffalo, ma non riporta
il dibattito. Cfr. M. Foucault, What is an Author?, in J.V. Harari (a cura di), Textual Strategies.
Perspectives in Post-Structuralist Criticism, Cornell University Press, Ithaca 1979, pp. 141-160.
4
S. Beckett, Krapp’s Last Tape and Embers, Fabers, London 1959; trad. it. L’ultimo
nastro di Krapp, in Teatro completo, Einaudi/Gallimard, Torino 1994, pp. 179-191.
5
R. Barthes, La mort de l’auteur, in Le bruissement de la langue, Seuil, Paris 1984, p. 61;
trad. it. La morte dell’autore, in Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988.
Retenons donc nos larmes 161
7
M. Foucault, Che cos’è un autore?, cit., p. 9.
8
Ivi, p. 2.
Retenons donc nos larmes 163
che hanno segnato dei mutamenti nella nozione d’autore: l’autore come
individuo emerge, ad esempio, nel momento in cui si instaura un regime
di proprietà per i testi, nel momento cioè in cui diventa necessario un
referente giuridico cui la legge possa fare appello in caso di violazione di
certe norme; contrariamente ai benefici che l’autore potrà in seguito trarre
dalla propria produzione, nel momento della sua apparizione tale categoria
è indissociabile dai rischi che essa comporta9. Oltre a questo aspetto, Fou-
cault fa presente che lo statuto dell’autore varia storicamente a seconda
delle tipologie discorsive: basti infatti considerare che, prima del XVIII
secolo, il nome dell’autore era considerato come fondamentale per la cir-
colazione dei discorsi scientifici in quanto garante del valore di verità dei
propri contenuti, laddove, al contrario, i testi letterari circolavano perlopiù
anonimamente. Dopo questa soglia temporale e sino più o meno all’epoca
contemporanea, la situazione, spiega Foucault, si è pressoché ribaltata: il
valore di un’opera letteraria ha cominciato a legarsi in maniera sempre
più salda alla fama già consolidata del nome di colui che l’ha prodotta,
mentre l’affermazione di una scoperta, una teoria o un’opera scientifica,
viene giudicata valida e innovativa attraverso criteri che prescindono dalle
caratteristiche individuali di chi l’ha portata a termine10.
Un altro aspetto problematico della funzione-autore, continua Foucault,
riguarda quei casi in cui al nome di un autore non si associa semplicemente
la produzione dei testi da lui scritti ma anche una teoria, una tradizione o
un’intera disciplina. Foucault si riferisce qui a quelli che lui stesso definisce
fondatori (o instauratori) di discorsività, autori – quali ad esempio Freud e Marx,
ma anche Omero, Aristotele, Ippocrate, Cuvier o Saussure – che si trova-
no in una posizione “transdiscorsiva”, a cavallo cioè tra forme discorsive
differenti. La loro opera inaugura infatti un campo aperto di nuove possi-
bilità discorsive, un campo indefinito di differenze, più che di analogie, di
sviluppi successivi di un discorso non riducibili semplicemente al concetto
di “influenza” teorica o intellettuale o di derivazione scientifica, al punto
che l’opera dei cosiddetti fondatori si rivela come un termine di confronto
costante per chi si colloca all’interno del campo da essi inaugurato. Anche
in questo caso la figura del fondatore di discorsività, spiega Foucault, non
coincide semplicemente con l’origine di un discorso: tale fondatore rappre-
senta piuttosto un nodo all’interno di una pratica discorsiva, la quale, a un
9
Cfr. M. Woodmansee e P. Jaszi, The construction of authorship. Textual appropriation in
law and literature, Duke University Press, Durham–London 1994.
10
Cfr. M. Foucault, Che cos’è un autore?, cit., pp. 14-19. Cfr. anche F. Grossmann,
L’auteur scientifique. Des rhétoriques aux épistémologies, in «Revue d’anthropologie des
connaissances», vol. 4 (2010), n. 3, pp. 410-426.
164 Silvia Chiletti
11
In questa prospettiva, la nozione di fondatore di discorsività è particolarmente feconda
per la storia delle scienze umane; si veda ad esempio la riflessione che Foucault svolge intorno
alla figura di Cuvier in La situation de Cuvier dans l’histoire de la biologie, in Dits et écrits I, cit.,
pp. 898-934. Per uno studio più recente che affronta tale questione metodologica in modo
interessante, si veda anche J. Carroy e N. Richard, La découverte et ses récits en sciences humaines :
Champollion, Freud et les autres, L’Harmattan, Paris 1998.
12
Cfr. M. Foucault, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Gallimard,
Paris 1966; trad. it Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1998
(1967), p. 324.
13
M. Foucault, Che cos’è un autore, cit., p. 3.
14
È questo il titolo dell’articolo di Foucault consacrato all’opera di Blanchot,
comparso sulla rivista «Critique» nel 1966. Cfr. La pensée du dehors, in Dits et écrits I,
cit., pp. 546-567. Foucault tratta del tema della morte in relazione alla scrittura in
un’intervista del 1968, incentrata proprio sulla pratica dello scrivere. Cfr. M. Foucault,
Le beau danger. Entretien avec Claude Bonnefoy, Editions EHESS, Paris 2012, pp. 36 e ss. Sul
rapporto tra Foucault e Blanchot si veda J.F. Favreau, Vertige de l’écriture. Michel Foucault
et la littérature (1954-1970), ENS Éditions, Paris 2012, pp. 201-251.
Retenons donc nos larmes 165
L’énonciation dans son entier est un processus vide, qui fonctionne parfaitement sans qu’il
soit nécessaire de le remplir par la personne des interlocuteurs : linguistiquement, l’auteur n’est
jamais rien de plus que celui qui écrit, tout comme je n’est autre que celui qui dit je : le langage
connait un «sujet», non une «personne»18.
17
Per un’analisi più approfondita del testo di Barthes, cfr. A. Brunn, L’auteur,
Flammarion, Paris 2001, pp. 152-157.
18
R. Barthes, La mort de l’auteur, cit., p. 63.
19
Ivi, p. 65.
Retenons donc nos larmes 167
20
Nell’intervista con Claude Bonnefoy, Foucault riprende proprio la distinzione di
Barthes tra écrivain e scripteur (o écrivant), per collocare se stesso all’interno della seconda
categoria. Cfr. M. Foucault, Le beau danger, cit., pp. 59-60.
21
«Les linguistes, je le sais bien, ont découvert que le langage, c’était très important parce qu’il
obéissait à des lois, mais ils ont surtout insisté sur la structure de la langue, c’est-à-dire sur la structure du
discours possible. Mais ce sur quoi je m’interroge, c’est sur le mode d’apparition et de fonctionnement du
discours réel, sur les choses qui ont été effectivement dites»; M. Foucault, Le beau danger, cit., pp. 34-35.
168 Silvia Chiletti
22
M. Foucault, Che cos’è un autore?, cit., p. 6.
23
In questo senso, la storia della nozione di autore riflette la concezione generale
della storia (e dell’archeologia) secondo Foucault. Si vedano M. Foucault, Nietzsche, la
généalogie, l’histoire, in Dits et écrits I, cit., pp. 1004-1024 e M. Potte-Bonneville, Michel Foucault,
l’inquiétude de l’histoire, PUF, Paris 2004.
Retenons donc nos larmes 169
L’ordine dell’autore
Sino ad ora abbiamo provato a fare ulteriore luce sul testo della con-
ferenza foucaultiana Qu’est-ce qu’un auteur ?, così come sul contesto da cui
prende le mosse, ivi incluso l’articolo La mort de l’auteur di Roland Barthes,
da cui ciononostante Foucault si discosta in maniera piuttosto netta sia nei
propositi che nei contenuti. Proveremo ora a sviluppare la nostra rifles-
sione entrando nel vivo delle diverse critiche suscitate dal testo, in parti-
24
M. Foucault, Che cos’è un autore?, cit., p. 3.
170 Silvia Chiletti
colare concentrandoci sulla domanda «Che importa chi parla?», che apre e
chiude la conferenza, costituendo dunque uno dei principali leitmotiv della
riflessione foucaultiana.
Il gesto sotteso dalla domanda che Foucault riprende da Beckett si
dichiara sin da subito provocatorio, lasciando supporre che la questione
dell’autore non sia neutrale dal punto di vista di una politica del sapere,
ovvero del ruolo e dell’autorità degli scrittori così come dello statuto della
pratica dello scrivere all’interno della società contemporanea. Foucault
stesso, sin dalle prime battute della conferenza, sembra infatti spostare
i termini della discussione da un mero approccio teorico verso un am-
bito pratico, nel momento in cui puntualizza che proprio l’indifferenza
nei confronti di colui che sta parlando costituisce il principio etico, forse
il più fondamentale, della scrittura contemporanea25. È proprio questo
passaggio cruciale ad aver suscitato la reazione sdegnata di molti critici,
tra cui lo stesso John Banville, che interpretano tali parole come l’affer-
mazione dell’autonomia e della separazione totale dello scrittore rispetto
alla propria produzione, con la conseguente negazione dell’autorità e del-
la responsabilità dell’autore sui propri scritti. Foucault promuoverebbe,
secondo questi lettori, un’etica dell’indifferenza nei confronti dell’autore,
con tutte le conseguenze e i connotati morali e politici che il termine “in-
differenza” comporta.
Una delle critiche più severe connotate in questo senso viene mossa
da Seàn Burke, critico letterario britannico, nella sua fortunata opera The
Death and the Return of the Author. Criticism and Subjectivity in Barthes, Foucault
and Derrida, pubblicata per la prima volta nel 1992. Le accuse di Burke si
rivolgono specialmente alla categoria foucaultiana di fondatore di discorsività,
quale esempio lampante della fallacia del tentativo di Foucault di elimi-
nare la rilevanza della figura autoriale: essa mostrerebbe, infatti, come il
progetto foucaultiano secondo cui l’anonimato del discorso occuperebbe
un posto primario rispetto alla singolarità dell’individuo autore sia desti-
nato allo scacco, se posto di fronte a questi «grandi nomi» cui Foucault
stesso allude. Inoltre, l’avere indicato proprio due figure chiave del sapere
contemporaneo quali Freud e Marx, come esempio della categoria fou-
caultiana dei fondatori di discorsività, mostrerebbe come, per una sorta di
cavallo di Troia, la singolarità dell’autore riemerga in maniera ancor più
vigorosa all’insaputa del lettore, sotto la forma dell’ideologia mascherata
dall’apparente anonimato del discorso. La critica di Burke considera la ri-
flessione foucaultiana come una visione metafisica che riarticola i termini
25
Ibidem.
Retenons donc nos larmes 171
26
S. Burke, The Death and Return of the Author, cit., pp. 78-89.
27
Cfr. A. Wilson, Porter versus Foucault on the “Birth of the Clinic”, in R. Bivins e
J. Pickstone (a cura di), Medicine, Madness and Social History. Essays in Honour of Roy Porter,
Palgrave Macmillan, London 2007, pp. 25-35.
28
Si veda anche la critica di Burke in The Death and Return of the Author, cit., pp. 89 e ss.
29
A. Wilson, Foucault on the “Question of the Author”, cit., p. 350.
172 Silvia Chiletti
30
Ivi, pp. 358-360. La stessa critica viene mossa anche da Banville: «Per Foucault,
come per molti altri fanatici delle paludi accademiche di circa una generazione fa, la
risposta alla domanda di Beckett non è tanto un chi bensì un cosa» (Noi scrittori uccisi da
Foucault, cit., p. 42).
31
In questo senso opera anche la lettura di Judith Revel, che individua una linea
di continuità tra gli scritti foucaultiani degli anni Sessanta sulla letteratura e le riflessioni
portate avanti negli anni Settanta intorno al binomio sapere/potere. Cfr. J. Revel, Foucault,
le parole e i poteri, Manifestolibri, Roma 1996.
Retenons donc nos larmes 173
L’auteur rend possible une limitation de la prolifération cancérisante, dangéreuse des si-
gnifications dans le monde où l’on est économe non seulement de ses ressources et richesses, mais
de ses propres discours et de leurs significations. L’auteur est le principe d’économie dans la
prolifération du sens33.
32
M. Foucault, Che cos’è un autore?, cit., p. 3.
33
M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur ?, cit., p. 839.
34
«Si studiano gli enunciati nel limite che li separa da ciò che non viene detto,
nell’istanza che li fa nascere ad esclusione di tutti gli altri» (M. Foucault, L’archéologie du
savoir, Gallimard, Paris 1969; trad. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, p. 160). Da
notare che, nell’opera qui in questione, Foucault individua come principio di rarefazione
discorsiva proprio la modalità enunciativa espressa attraverso la soggettività, ovvero la
domanda, che riecheggia le questioni nietzscheane poste nella Genealogia della morale, sul
174 Silvia Chiletti
Chi parla?: «Chi – si chiede Foucault –, nell’insieme di tutti gli individui che parlano, è
autorizzato a tenere questo tipo di linguaggio? Chi ne è titolare? Chi riceve da esso la sua
singolarità, il suo prestigio, e chi da esso a sua volta riceve in cambio se non la sua garanzia,
per lo meno la sua presunzione di verità?» (M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., p. 68).
Per quanto riguarda la domanda nietzscheana, si veda altresì M. Foucault, Nietzsche, Freud,
Marx, in Dits et écrits I, cit., pp. 592-607, in particolare pp. 601-602.
35
M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971; trad. it. L’ordine del discorso,
Einaudi, Torino 1972, p. 14.
36
M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur ?, cit., p. 839.
37
M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., p. 25.
38
M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., p. 4.
Retenons donc nos larmes 175
C’est une manière de m’adresser plus directement au lecteur – spiega Foucault – le seul
personnage ici qui m’intéresse : puisque tu ne sais pas qui je suis, tu n’auras pas la tentation de
chercher les raisons pour lesquelles je dis ce que tu lis ; laisse toi aller à te dire tout simplement :
c’est vrai, c’est faux. Ça me plaît, ça ne me plaît pas. Un point, c’est tout39.
Nella stessa intervista, Foucault propone poi come una sorta di gioco
la possibilità che «pendant un an, on éditerait des livres sans nom d’auteur», possi-
bilità cui allude nuovamente in un’altra intervista del 1984, in cui esprime
l’augurio di vedere istituita una legge sulla stampa che sancisca «la prohi-
bition d’utiliser deux fois le nom de l’auteur, avec en plus le droit à l’anonymat et au
pseudonyme, pour que chaque livre soit lu pour lui-même»40.
È dunque alla luce della concezione della scrittura come assogget-
tamento che possiamo meglio capire cosa intenda Foucault a proposito
dell’indifferenza nei confronti dell’autore: essa rappresenterebbe un gesto
di liberazione dalle leggi costrittive della parola normativa, dalle condi-
zioni di enunciazione proprie della nostra episteme, nell’ottica di una libera
circolazione dei significati dei testi, delle modalità di comprensione, inter-
pretazione e azione. La pratica dell’anonimato, o anche dello pseudonimo,
che Foucault cita e utilizza in diversi momenti del suo prendere la parola,
non costituisce quindi un rifiuto a identificarsi con il proprio testo, bensì il
rifiuto di identificare la propria opera al nome già noto dell’autore “Michel
Foucault”, con tutte le conseguenze – anche di risonanza mediatica e so-
ciale – che ne derivano, al fine di una trasmissione diretta delle idee e delle
parole, che arriverebbero al lettore senza il filtro di potere rappresentato
dall’individualità di chi scrive. In tal modo, inoltre, Foucault mette esplici-
tamente in discussione la pratica stessa della scrittura, mostrando come le
caratteristiche di autonomia e trasgressività che le sono riconosciute non
siano altro che il prodotto di una contingenza storica e delle trasformazio-
ni delle regole discorsive. Proprio questo aspetto, molto probabilmente,
può risultare particolarmente inviso agli scrittori, in quanto fa traballare la
figura dell’autore nella sua posizione stabilita nel presente del sistema del
sapere, nel suo ruolo garantito, riconosciuto e giustificato rispetto al resto
della società intellettuale e non41.
39
M. Foucault, Le philosophe masqué, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris
2001, pp. 923-929, p. 925.
40
M. Foucault, Une esthétique de l’existence, in Dits et écrits II, cit., p. 1554.
41
Foucault affronta più direttamente questo argomento rispetto alla letteratura in
un’intervista svoltasi a Tokyo nel 1970. Cfr. M. Foucault, Folie, littérature et société, in Dits et
écrits I, cit., pp. 975 e ss.
176 Silvia Chiletti
42
Cfr. J. Oksala, From the Death of the Author to the Freedom of Language. Foucault on
Literature, in «Acta Philosophica Fennica», n. 79 (2006), pp. 191-201, pp. 198-199.
43
I lavori che si ispirano alla concezione foucaultiana dell’autore sono moltissimi
e attraversano diversi campi disciplinari. Ne cito dunque solo alcuni a titolo di esempio:
J. Caughie, Theories of Authorship, Routledge, London 1981; M. Biriotti e N. Miller, What
is an Author?, Manchester University Press, Manchester 1993; C. Benedetti, L’ombra lunga
dell’autore. Indagine su una figura cancellata, Feltrinelli, Milano 1999; N. Jacques-Lefèvre e
F. Regard (a cura di), Une histoire de la « fonction-auteur » est-elle possible?, Publications de
l’Université de Saint-Étienne, Saint-Étienne 2001.
Retenons donc nos larmes 177
Silvia Chiletti
Centre Alexandre Koyré - Histoire des sciences et des techniques, Paris
s.chiletti@gmail.com
44
M. Foucault, Le beau danger, cit., p. 28.
45
Su questo aspetto si veda l’introduzione di Philippe Artières, Faire l’expérience de la
parole, in M. Foucault, Le beau danger, cit., pp. 7-22.
178 Silvia Chiletti
.
Retenons donc nos larmes. Re-readings and Polemics around Michel Foucault’s Lecture
What is an Author?
The paper focuses on the critical reception of Michel Foucault’s lecture What is
an Author? by academics and writers, especially in the Anglo-Saxon world. Spe-
cifically, it focuses on Samuel Beckett’s phrase “What does it matter who is spe-
aking?”, quoted by Foucault at the beginning and at the end of his 1969 lecture.
The paper shows what separates the Foucauldian concept of “author” from Ro-
land Barthes’ theory of the death of the author, and thus identifies two distinct
but not unconnected perspectives under which the lecture can be read. Firstly,
the point of view of the Foucauldian archaeology, a concept that Foucault de-
veloped during the same years, distancing himself from structuralism. Secondly,
the reflections on writing (écriture) as a practice, a theme constantly present until
Foucault’s last works. The confusion of these two readings, even if they are not
unconnected, could be at the origin of the contentious reactions.
1
«Il est toujours possible de penser malgré les pressions et les censures des Pouvoirs en place. Il y faut
[…] ce soin de l’âme dont Patočka a si bien parlé à propos de Platon, et qui est tout autre chose qu’un
égoïste souci de soi»; M. Richir, Préface, in J. Patočka, Qu’est-ce que la phénoménologie ?, Millon,
Grenoble 1988, p. 14.
2
«Though not mentioning Foucault by name, Marc Richir’s Preface to a collection of essays by
Patočka makes some evident hidden remarks against Foucault»; A. Szakolczai, Thinking Beyond
the East-West Divide. Foucault, Patočka, and the Care of the Self, in «Social Research», vol. 61
(1994), n. 2, p. 318.
3
R. Bodei, Introduzione, in M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli,
Roma 1996, p. XI. Nel corso di un’intervista con Duccio Trombadori, quando questi
gli chiede perché riconduca l’esistenzialismo sartriano alle filosofie tradizionali, Foucault
risponde: «Anche in una filosofia come quella di Sartre era in fondo il “soggetto” che
restituiva un senso al mondo. Questo punto non veniva messo in discussione. Era il sog-
getto ad attribuire i significati»; D. Trombadori, Colloqui con Michel Foucault, Castelvecchi,
Roma 1999, p. 46. Nella conferenza Soggettività e verità, tenuta al Dartmouth College nel
novembre del 1980, Foucault spiega che il suo tentativo di superare la filosofia del sog-
getto di stampo fenomenologico va ricondotto alla ricerca genealogica: «Ho provato ad
esplorare un’altra pista [rispetto a quella dello strutturalismo]: ho provato a uscire dalla
filosofia del soggetto tramite una genealogia di tale soggetto, studiando la costituzione
del soggetto attraverso la storia che ci ha portato fino al concetto moderno del sé. […]
In breve, lo scopo del mio progetto è di costruire una genealogia del soggetto; il metodo
è un’archeologia del sapere, e il dominio preciso dell’analisi è ciò che definirei “tecnolo-
gie” – vale a dire, l’articolazione di certe tecniche e di certi tipi di discorso sul soggetto»;
M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé, Cronopio, Napoli 2012, pp. 35-37.
Dissidenza e stile d’esistenza 181
4
Cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège
de France. 1984, trad. it. di M. Galzigna, Il coraggio della verità, Feltrinelli, Milano 2011, p. 130.
5
Cfr. M. Foucault, L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, in Dits et écrits II,
1976-1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 1527-1548.
6
Frédéric Gros suggerisce di chiamare “tentazione dicotomica” la tendenza pre-
sente negli ultimi scritti di Foucault ad attraversare il pensiero occidentale ricorrendo
alla struttura della biforcazione: soprattutto nei corsi al Collège de France degli anni ’80,
egli individua una serie di snodi attorno ai quali costruisce dei giochi di opposizione tra
due diverse opzioni teoriche, tra due diverse matrici spirituali, tra due diversi modelli di
soggettivazione e così via. Cfr. F. Gros, Platon et les cyniques chez Foucault, in L. Bernini (a
cura di), Michel Foucault, gli antichi e i moderni. Parrhesìa, Aufklärung, ontologia dell’attualità,
ETS, Pisa 2011, p. 65.
182 Caterina Croce
Cura e dissenso
7
Come scrive Simona Forti nel suo ultimo libro, «la nozione di anima di Patočka
non ripropone affatto un dualismo metafisico, ma si fa piuttosto occasione per un ripen-
samento del soggetto etico dentro il quadro di una teoria fenomenologica che ha rotto il
legame con il trascendentalismo husserliano e che viene definita dal suo stesso autore una
“fenomenologia asoggettiva”»; S. Forti, I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, Feltrinelli,
Milano 2012, p. 333.
8
Patočka, nel suo scritto sul Platonismo negativo, intende liberare l’Idea platonica da
qualsiasi contenuto rappresentativo facendone un’eccedenza, un’ulteriorità, che dà a
vedere i limiti del contingente. Egli arriva a definire l’idea come «forza di disobiettivazione
e di de-realizzazione da cui prendono origine tutte le nostre capacità di lotta contro la
“realtà pura e semplice” che tenderebbe a imporsi a noi come legge assoluta, irrevocabile
e insormontabile»; J. Patočka, Le platonisme négatif, in Liberté et sacrifice. Écrits politiques,
Millon, Grenoble 1990, p. 89.
9
Cfr. S. Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza, Roma–Bari 2000, p. 122.
10
Cfr. C. Taylor, The Malaise of Modernity, trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Il disagio della
modernità, Laterza, Roma–Bari 1999, in particolare il capitolo Lo slittamento nel soggettivismo,
pp. 65-81.
11
Cfr. M. Potte-Bonneville, Éthique, in Id. e P. Artières, D’après Foucault. Gestes, luttes,
programmes, Les Prairies Ordinaires, Paris 2007, pp. 280-310.
Dissidenza e stile d’esistenza 183
L’espace des comportements individuels devient le lieu d’un affrontement et d’un déséqui-
libre, irréductible à l’opposition entre soumission à un pouvoir extérieur et libre détermination
de soi par soi, entre hétéronomie politique et autonomie morale12.
12
Ivi, p. 297.
13
D. Trombadori, Colloqui con Foucault, cit., p. 67.
14
M. Foucault, La torture, c’est la raison, in Dits et écrits II, cit., pp. 390-398.
184 Caterina Croce
des fenêtres grandes ouvertes sur l’exigence de penser la complexité. Face aux litanies
d’un marxisme en bout de course, érigé en dogme académique, mais aussi face aux trop grandes
facilités liées à l’emploi passe-partout de la notion de « totalitarisme », en vogue dans les années
1980 parmi les opposants et dissidents de l’Est ainsi que dans la soviétologie occidentale15.
La dissidenza, per come ha trovato espressione nei paesi dell’Est, non indica
solo una forma di contestazione a un potere politico, ma anche il rifiuto di una
società in cui l’autorità politica […] svolge anche il compito di condurre gli in-
dividui nella vita quotidiana attraverso un gioco di obbedienza generalizzata che
assume la forma del terrore18.
15
A. Brossat, Présentation, in Id. (a cura di), Michel Foucault, les jeux de la vérité et du
pouvoir, Presses universitaires de Nancy, Nancy 1994, p. 10.
16
L’espressione “sollevazione” si rifà al testo del 1979 Inutile de se soulever ? (trad. it.
Sollevarsi è inutile?, in M. Foucault, Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 132-136)
che Foucault scrive in seguito alla rivoluzione iraniana.
17
Facendo riferimento all’esperienza di Charta 77, Foucault annovera Patočka, insieme
a Jiří Hájek e Václav Havel, tra le figure attorno alle quali si è organizzata la dissidenza
cecoslovacca. Cfr. M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-
1978, trad. it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano 2005, p. 332.
18
Ivi, p. 150.
Dissidenza e stile d’esistenza 185
24
Si deve probabilmente a Fink la rilettura in chiave esistenziale dell’epoché hus-
serliana proposta da Patočka. Fink identifica infatti nello stupore la situazione emotiva
fondamentale: esso viene descritto come lo spaesamento espropriante che sospende l’at-
teggiamento naturale nei confronti del mondo e pone di fronte alla natura enigmatica
delle cose. Cfr. E. Fink, Studien zur Phänomenologie 1930-1939, trad. it. di N. Zippel, Studi di
fenomenologia 1930-1939, Lithos, Roma 2010.
25
Come ricorda Guido Davide Neri, per quanto il termine non compaia mai esplici-
tamente, anche nel pensiero di Heidegger possiamo trovare qualcosa di analogo all’epoché.
Il passaggio dall’atteggiamento naturale della quotidianità media all’atteggiamento auten-
tico, tuttavia, non avviene in virtù della decisione liberamente assunta da parte del filoso-
fo, ma si produce come conseguenza di un evento che sopraggiunge, o di una situazione
in cui ci troviamo a cadere, al di fuori della nostra volontà: si tratta, evidentemente, della
disposizione emotiva dell’angoscia.
26
J. Patočka, Le platonisme négatif, cit., pp. 87-88.
27
Ibidem.
28
J. Patočka, Kacířské eseje o filofii dějin, trad. it. di D. Stimilli, Saggi eretici sulla filosofia
della storia, a cura di M. Carbone, Einaudi, Torino 2008, p. 151.
Dissidenza e stile d’esistenza 187
storia, dove l’inizio della storia viene fatto coincidere con lo sconvolgi-
mento del senso dato e la scoperta scioccante della problematicità.
In generale, il richiamo alla non-evidenza della realtà rimanda al gesto
di colui che mette in dubbio la perentorietà del dato, la necessità dell’im-
mediato, l’inevitabilità dell’istituito33. In questo senso, l’appello patočkiano
converge con quella tensione a mettere in discussione “i limiti del necessa-
rio” di cui Foucault parlerà nello scritto sui Lumi34. Se la questione di Kant
riguardava limiti della conoscenza, scrive Foucault, oggi sarebbe più utile
interrogarsi sull’apparente cogenza di ogni positività35, così da dar vita a
un’ontologia critica di noi stessi in cui l’analisi storica dei limiti che ci sono
posti è insieme «prova del loro superamento possibile»36.
Potremmo dire che l’appello alla non-evidenza della realtà procede in
direzione di un’ontologia critica di noi stessi, laddove incoraggia un rap-
porto con l’attualità che è insieme di identificazione e di distanziazione, di
sollecitudine e di insofferenza, di adesione e di dissenso.
Patočka ripone negli uomini spirituali una fiducia dimessa e crepu-
scolare, che ha perso i toni enfatici con cui Husserl, nella Crisi delle scienze
europee, definiva i veri filosofi come “funzionari dell’umanità”. Cionondi-
meno, egli ritiene che gli uomini spirituali, pro-vocando la comunità alla
non-evidenza della realtà, svolgano un’irrinunciabile funzione politica.
Patočka crede infatti che, nella nostra contemporaneità, la non-evidenza
della realtà – e cioè la problematicità della vita e l’enigmaticità del senso –
33
A questo proposito, Karel Novotný scrive che per Patočka «è sempre uno slancio
per raggiungere i limiti di ciò che può essere dato, pensato, creato, ad animare il rinnova-
mento della vita e darle senso»; K. Novotný, Storicità e alterità, in D. Jervolino (a cura di),
L’eredità filosofica di Jan Patočka, cit., p. 128.
34
Cfr. M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, cit., pp. 217-232.
35
A partire da Le parole e le cose e dall’Archeologia del sapere, Foucault utilizza il termine
“positività” per alludere all’a priori storico che costituisce le condizioni di emergenza di un
certo campo epistemologico. Quando la prospettiva archeologica s’incontra con quella ge-
nealogica, l’attenzione di Foucault si concentra sulle positività come nesso sapere-potere,
indagando i fattori multipli e le relazioni differenziate che hanno prodotto certi effetti di
conoscenza e l’instaurarsi di certi meccanismi coercitivi. Nello scritto Illuminismo e critica as-
sistiamo alla loro riformulazione in chiave critica: «Queste positività non sono degli insiemi
autoevidenti […]. Quel che per l’appunto occorre far emergere per comprendere ciò che le
ha rese accettabili, è il fatto che queste positività non si giustificano di per sé, non costitui-
scono un a priori, non sono contenute in alcuna anteriorità. Individuare le condizioni di ac-
cettabilità di un sistema e seguire le linee di rottura che caratterizzano il suo emergere: ecco
due operazioni complementari»; M. Foucault, Qu’est-ce que la critique ? Critique et Aufklärung,
trad. it. a cura di P. Napoli, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, p. 56.
36
M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, cit., p. 231.
Dissidenza e stile d’esistenza 189
37
Come scrive Valérie Löwit, Patočka ci mostra che «nella nostra pace regna la
guerra, nel senso in cui la paura, la paura della morte, il rifiuto di rischiare la propria
vita opponendosi alla logica terrorista e totalitaria fa vivere in una pace falsa»; V. Löwit,
L’Europa e le origini del totalitarismo in Arendt e Patočka, in D. Jervolino (a cura di), L’eredità
filosofica di Jan Patočka, cit., p. 141.
38
J. Patočka, Saggi eretici di filosofia della storia, Einaudi, Torino 2008, p. 144.
39
Cfr. J. Patočka, L’homme spirituel et l’intellectuel, cit., p. 256.
190 Caterina Croce
Ciò che non rientra nei registri contabili delle forze del Giorno è quella
coscienza della duplicità che a Patočka sta a cuore sin dai suoi studi sulla
filosofia antica. La duplicità data dall’irresolubile compresenza di bene e
male, di luci e ombre, di chiarezza e mistero che già i miti antichi avevano
saputo cogliere, e che nell’ironia socratica ha trovato un’insuperata forma
di espressione40. L’ironia socratica, per Patočka, non è un artificio letterario
ma l’esercizio retorico, etico e politico di far convivere le due dimensioni: il
dato e l’ignoto, le certezze e il mistero, il bisogno ingenuo di risposte e l’ir-
resolubilità aporetica della domanda. Con l’ironia ogni cosa mostra un dop-
pio fondo, un lato nascosto su cui vale la pena riflettere. Socrate è dunque
maestro nel mostrare i due livelli su cui è possibile condurre la vita: il livello
rassicurante o ordinario del senso comune e il livello obliquo e perturbante
del dubbio su cui si azzarda la sua ricerca. Mosso il primo passo su questo
secondo livello, Socrate scopre la problematicità del reale. L’ironia socratica
è allora il sorriso che gli adulti rivolgono ai bambini: «Noi sappiamo che
ciò che il bambino prende tanto sul serio non è ancora la vera serietà, noi
conosciamo i cambiamenti del senso che ai bambini sono ancora ignoti».
L’ironia di Socrate «è l’ironia di un adulto più adulto degli adulti»41.
Il problema è che l’ironia non può essere compresa da un mondo che
ha dimenticato le sue ombre, i suoi doppi fondi, il suo senso evenemenzia-
le e le sue manifestazioni paradossali. Dove non c’è coscienza della dupli-
cità – dove non ci sono doppi sensi – non c’è ironia. E allora, scalzato dalla
compostezza algida dell’ideologia del Giorno, lo scherzo non fa ridere.
Il riso e la responsabilità
40
In Platone e l’Europa, Patočka sostiene che già i miti antichi – il mito biblico dell’al-
bero della conoscenza, l’epopea di Gilgamesh, la tragedia di Edipo – esprimevano la
coscienza di questa dualità fondamentale: essi sapevano render conto in modo magistrale
del lato oscuro di ogni motivo diurno. Nel mito si agitano una storia, che racconta della
nostra vita diurna condotta nei pressi del bene, e una contro-storia, che ci parla di un mon-
do notturno, indecifrabile, malvagio. La coscienza mitica insegna che anche nella fami-
liarità del radicamento può fare irruzione l’estraneo, ossia ciò che Patočka, prendendo in
prestito un’espressione tedesca, definisce das Unheimliche. Cfr. J. Patočka, Platone e l’Europa,
Vita e pensiero, Milano 1997, p. 77.
41
Ivi, p. 405.
Dissidenza e stile d’esistenza 191
compreso, che non genera il riso, che trascina nel grottesco. Ludvík, il pro-
tagonista del romanzo, s’invaghisce di una ragazza particolarmente ligia
agli impegni che il Partito comunista impone alla gioventù cèca. Quando
Ludvík è sul punto di conquistarla, la ragazza parte per un campo estivo di
educazione al comunismo. Contrariato dalla sua lontananza e dalle lettere
entusiastiche con cui lei celebra le attività di partito, Ludvík decide di farle
uno scherzo. Pur essendo un convinto sostenitore del regime, le invia una
cartolina nella quale ridicolizza la lealtà al Partito, dichiara la sua ammira-
zione per Trotsky e, con enfasi volutamente ironica, afferma che “l’ottimi-
smo è l’oppio dei popoli e lo spirito sano puzza d’imbecillità”. La cartolina
finisce nelle mani del responsabile locale della gioventù comunista. Scatta
un’inchiesta e il giovane Ludvík non riesce a discolparsi: la commissione
che lo giudica non comprende le ragioni dello scherzo. L’umorismo, di-
chiara la commissione, non è un pensiero costruttivo, ma soltanto una
forma di scetticismo distruttivo nei confronti dei saldi principi morali e
politici del Partito. È così che lo scherzo si trasforma in un incubo lungo
una vita: il giovane è espulso dal Partito e dall’Università, perde gli amici
e viene mandato a prestare servizio militare in un battaglione di traditori
della Patria. Nel corso degli anni, i suoi tentativi di vendicarsi contro le of-
fese subite, attraverso nuovi e meschini scherzi, si riveleranno vani ed egli
si sentirà pervaso da un senso del ridicolo crudele e schiacciante. Come
scrive Patočka, assistiamo progressivamente alla «trasformazione in uno
scherzo che non sono più io a fare, ma che le cose fanno a me, dandomi
così l’aspetto mostruoso di colui che vuole vendicarsi mostruosamente e
al quale si mostrano la vanità e l’inutilità della vendetta […]: in tutto ciò sta
l’incapacità di catarsi dell’eroe»42.
Il romanzo di Kundera ci parla dunque di un mondo che ha estenuato
il senso della duplicità sotto il peso monolitico dell’ideologia. E, più in ge-
nerale, di un mondo che ha annientato l’esultanza catartica del riso perché
ha dimenticato l’abisso tragico. Se il senso del comico sgorga dalla coesi-
stenza tragica dei contrasti, nel mondo del razionalismo apollineo non c’è
spazio per lo scherzo, non c’è catarsi per l’eroe.
Ne L’arte del romanzo, Kundera scrive: «Non c’è pace possibile fra il
romanziere e l’agelasta. Non avendo mai udito la risata di Dio, gli agelasti
sono convinti che la verità è evidente»43. Ecco che torna il tema dell’evi-
42
J. Patočka, Vakulík a Kundera, frammento conservato presso gli Archiv Jana Patočky
di Praga, trad. it. di C. Rocca, Vakulík e Kundera, in M. Carbone et alii, L’Europa dopo
l’Europa, l’individuazione anziché l’individuo, Mimesis, Milano 2009, p. 81.
43
M. Kundera, L’art du roman, trad. it. di E. Marchi e A. Ravano, L’arte del romanzo,
Adelphi, Milano 2005, p. 220.
192 Caterina Croce
denza, la fede cieca in una verità lucida e senza resti. Compito dell’uomo
spirituale, per Patočka, è proprio quello di mettere gli uomini dinnanzi alla
non-evidenza della realtà. Un compito non solo estetico – far sorgere il
romanzo e con esso il mondo della vita che la nostra ragione tecnica ha
obliato44 – ma anche politico: la non-evidenza è coscienza della duplicità
che è a sua volta appello alla responsabilità. Perché? Perché Patočka è
convinto che la responsabilità sia quel movimento che addomestica, sen-
za mai poterla sedare, la lotta tra i contrari: tra il dominio del razionale e
lo sfogo orgiastico, tra la linea armonica dell’autocontrollo e la riscossa
sensuale degli istinti. Nella sua genealogia della storia europea come storia
della responsabilità, Patočka spiega che il demonico – la sfera dionisiaca
delle pulsioni – va messo in rapporto alla responsabilità senza pretendere,
tuttavia, di liquidarlo e abolirlo. Un rapporto, dunque, non di rimozione,
ma di reciproca tensione. Un rapporto che potremmo leggere servendoci
della categoria patočkiana di polemos: una contesa “sapiente e veggente”
che al tempo stesso separa e congiunge.
La responsabilità tratteggiata da Patočka è dunque una responsabilità
polemica che apre al rischio e all’imprevedibile. La responsabilità è airesis45:
scelta, preferenza, decisione sullo sfondo di un indecidibile.
44
Mi sembra significativo segnalare il fatto che sia in Patočka sia in Kundera si
trovi espressa la tesi secondo cui il romanzo europeo ha rappresentato la vera forma di
esplorazione del mondo della vita: se la filosofia, nella sua tensione positivista e obietti-
vizzante, ha disertato la prospetticità finita e contingente del mondo, è stato il romanzo
a riconoscere in essa una nuova forma di saggezza. Com’è noto, questa tesi apre L’arte
del romanzo di Kundera. Meno noto è il fatto che anche Patočka elabori una simile ri-
flessione nel testo Il problema dello scrittore. È lecito pensare, ma i rapporti tra i due autori
meriterebbero di essere meglio indagati, che il giovane Kundera, prima di lasciare la
Cecoslovacchia, abbia partecipato alle lezioni di Patočka. Cfr. J. Patočka, Il senso dell’oggi in
Cecoslovacchia, Lampugnani Nigri, Milano 1970.
45
L’eterogeneità che intravediamo qui tra l’esercizio della responsabilità e la sua
tematizzazione teorica, ovvero dottrinale, non è anche ciò che vota la responsabilità
all’eresia? All’airesis come scelta, elezione, preferenza, inclinazione, partito preso, cioè
decisione? Cfr. J. Derrida, Donner la mort, trad. it. di L. Berta, Donare la morte, Jaca Book,
Milano 2003, p. 63.
Dissidenza e stile d’esistenza 193
46
Il ragionamento di Bělohradský mi sembra convincente solo se cerchiamo di ca-
pire quale valore assuma il tema dell’impersonale nel quadro della riflessione patočkiana.
La mia impressione, infatti, è che la critica di Patočka non sia rivolta al piano dell’imper-
sonale quale trama della vita che eccede e precede le individuazioni identitarie, quanto
alla spersonalizzazione che favorisce il livellamento e l’omologazione del sentire comune.
Un pensiero dell’impersonale, inteso come sforzo di pensare oltre e malgrado il lessico
soggettivista che ancora influenza la nostra pratica di pensiero, non è assente in Patočka,
basti pensare al suo sforzo di costruire una fenomenologia asoggettiva che stabilisca la
priorità dell’orizzonte del mondo e della struttura anonima dell’apparire rispetto ai diritti
del soggetto trascendentale. L’obiettivo polemico di Patočka, a mio avviso, non è tanto
l’impersonale inteso come piano che attraversa, fende e ricontratta le determinazioni
identitarie, alimentando un processo di individuazione che spinge la persona fuori i suoi
confini escludenti; quanto piuttosto l’ideologia che agisce come macro-soggettività, come
una macro-persona che mette al bando le differenze e appiattisce l’alter sotto la legge
uniformante dell’ipse. Cfr. V. Bělohradský, Il mondo della vita: un problema politico. L’eredità
europea nel dissenso e in Charta 77, Jaca Book, Milano 1981.
47
«Un’ideologia è letteralmente quello che il suo nome sta a indicare: è la logica di
un’idea. La sua materia è la storia, a cui l’“idea” è applicata; il risultato di tale applicazione
non è un complesso di affermazioni su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di un processo
che muta di continuo. L’ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la
stessa “legge” dell’esposizione logica della sua “idea”. Essa pretende di conoscere i misteri
dell’intero processo storico – i segreti del passato, l’intrico del presente, le incertezze del
futuro – in virtù della logica inerente alla sua “idea”»; H. Arendt, The Origins of Totalitarianism,
trad. it. di A. Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004, p. 642.
194 Caterina Croce
l’esempio di Socrate e ciò che Patočka identifica come uno dei portati più
preziosi della cura dell’anima. Sempre in questo scritto, Patočka afferma
che l’idea dell’uomo è l’idea della libertà. In tal senso, potremmo dire che
la vita nell’idea è il modo in cui ciascuno incarna l’idea di libertà e in essa si
fa sé. Diversamente dal “falso collettivismo”48 dell’ideologia, che guarda al
singolo come a un ingranaggio dell’azione collettiva, la vita nell’idea pensa
alla vita comunitaria come a quell’orizzonte in cui i diversi modi di divenire
la propria libertà si incontrano e si alimentano, determinando i termini del
reciproco riconoscimento.
È questo il senso della riscoperta patočkiana della cura dell’anima e
il punto in cui le riflessioni di Patočka entrano in risonanza con le ri-
cerche foucaultiane sulla cura di sé. Secondo Patočka, infatti, aver cura
della propria anima significa aver cura del movimento dell’esistenza che
ci espone al mondo e ci costituisce come singolarità solo nel perpetuo
scambio che intratteniamo con esso. La cura dell’anima non è la cura di
un soggetto chiuso su stesso o di una qualche reliquia metafisica capace di
farci accedere a una salvezza ultraterrena, ma di un co-movimento in cui
ciascuno, oserei dire, diviene per l’altro occasione di confrontarsi con la
non-evidenza della realtà.
48
Patočka parla del “faux collectivisme” che «regarde l’individu comme un simple organe de
l’action collective»; J. Patočka, L’idéologie et la vie dans l’idée, in Liberté et sacrifice, cit., p. 44.
49
J. Patočka, Sókratés. Přednášky z antické filosofie, trad. it. di M. Cajthaml, Socrate.
Lezioni di filosofia antica, Bompiani, Milano 2003.
Dissidenza e stile d’esistenza 195
J. Patočka, Fenomenologia del corpo proprio, in Che cos’è la fenomenologia?, Centro Studi
51
tanto per le riflessioni che Patočka dedica alla filosofia della storia, quanto
per le sue ricerche di stampo fenomenologico52.
Patočka è alla ricerca di un movimento senza sostrato che dia conto
della natura estatica dell’esistenza. Egli muove dalla concezione aristotelica
del movimento e ne radicalizza gli esiti53, salvaguardando l’idea secondo cui
l’anima è il principio dell’auto-movimento. In quanto dotata di autokunesis,
la psyché è l’istanza che presiede all’esteriorizzazione del sé come relazione
dinamica al mondo: «L’io […] è lui stesso già da sempre movimento. Forse
il movimento originario non è il cambiamento di luogo delle cose, ma piut-
tosto questo sforzo dinamico che porta l’esistenza fuori da se stessa, che fa
che essa sia già sempre fuori di sé, che sia superata in direzione delle cose»54.
Se seguiamo Patočka nel suo tentativo di pensare un movimento privo di
ousia preliminare, arriviamo a concepire la soggettività come un evento, un
accadimento, un prodotto di un movimento mai definitivamente compiuto:
di un’atelés energeia il cui processo di attualizzazione resta sempre irrisolto55.
Patočka, dunque, nel tentativo di mettere in luce la potenza ontologica
e fenomenologica del movimento, sembra affermare il primato del pro-
cesso sul prodotto, della kunesis sull’ousia, dell’individuazione sull’indivi-
52
Come suggerisce Paul Ricœur, si può considerare l’opera patočkiana come un’el-
lisse fra due punti focali, rappresentati dalla fenomenologia del mondo naturale da una parte, e
dalla questione del senso della storia dall’altra. Questi due temi, scrive Ricœur, per quanto
apparentemente privi di legame, sono in un rapporto di intima reciprocità, che merita di
essere indagato alla luce della nozione di movimento inteso come quel dinamismo sempre
in bilico tra potenza ed atto, tra possibilità virtuale e azione compiuta, che caratterizza
sia il rapporto corporeo dell’uomo con il mondo che il suo rapporto esistenziale con la
storia. Cfr. P. Ricœur, Dalla filosofia del mondo naturale alla filosofia della storia, in D. Jervolino
(a cura di), L’eredità filosofica di Jan Patočka, cit.
53
Secondo Patočka, «in Aristotele vi è qualcosa, nel movimento, che si mantiene,
che resta immutato, dal momento che il cambiamento è definito in rapporto a una co-
stante – è la stessa foglia che appassisce, lo stesso vestito che si tinge, ecc. Se […] al posto
di possibilità che sarebbero la proprietà, l’avere di una qualche cosa identica che in esse si
realizza, noi supponiamo piuttosto che questa cosa sia la sua [del movimento] possibilità,
che non vi è in esso nulla prima delle possibilità e soggiacente ad esse, che esso vive inte-
gralmente attraverso la maniera in cui esso è nelle sue possibilità – noi avremo una radi-
calizzazione del concetto aristotelico di movimento»; J. Patočka, Papiers Phénménologiques,
Millon, Grenoble 1995, p. 107.
54
Ivi, p. 72. In Che cos’è la fenomenologia?, Patočka scrive: «Senza movimento non vi
sarebbe nessuna esteriorizzazione del sé. Senza movimento nessun’opera, né poiesis né
praxis»; J. Patočka, Che cos’è la fenomenologia?, cit., p. 125.
55
«[L]’être en tant que fin est indissolublement lié au mouvement en tant qu’acte imparfait –
atelés energeia»; J. Patočka, Le monde naturel et le mouvement de l’existence humaine, Kluwer
Academic Publishers, Dordrecht 1988, p. 131.
Dissidenza e stile d’esistenza 197
Il sé e la soggettivazione
56
A questo proposito, sarà interessante indagare il modo in cui Patočka rielabora le
riflessioni platoniche sulla tripartizione dell’anima. Il filosofo pone infatti l’accento sull’e-
lemento dello thymos come vera forza motrice dell’anima. In epoca platonica, lo thymos è
ancora lontano dal divenire un ingrediente dell’anima personale: esso indica ogni aspetto
energico ed e-motivamente connotato dell’azione umana, è forza cosmopoietica transin-
dividuale che infonde forza, energia, movimento.
57
In diverse occasioni, Patočka descrive il soggetto nei termini di dynamis, di energeia,
di forza veggente e agente. Questa concezione dinamica e per certi versi “polemica” della
soggettività avvicina Patočka agli studi foucaultiani sul principio dell’enkrateia che orienta
il processo di costituzione del soggetto greco. La nozione di enkrateia non rimanda solo
alla sophrosune (alla temperanza), ma implica una tensione conflittuale assente nella virtù
della moderazione. Colui che è enkrates, infatti, non ha messo a tacere i propri desideri:
semplicemente ne conquista il controllo, intrattenendo una lotta perenne con se stesso.
L’enkrateia non è dunque una condizione di pacificazione raggiunta una volta per tutte,
ma un equilibrio dinamico che è possibile conservare a patto di un perpetuo confronto
tra forze. Cfr. M. Foucault, L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 68-82.
198 Caterina Croce
Poco a poco mi sono reso conto che in tutte le società esiste un altro tipo
di tecniche: quelle che permettono agli individui di effettuare, autonomamente,
alcune operazioni sui loro corpi, le loro anime, i loro pensieri, le loro condotte, e
questo in modo da produrre una trasformazione di noi stessi […]; chiamo queste
tecniche le tecniche del sé58.
hanno piegato la forza, che tuttavia non cessa di essere forza. L’hanno
rapportata a sé. Lungi dall’ignorare l’interiorità, l’individualità, la soggettività,
hanno inventato il soggetto, ma come una derivata, come il prodotto di una
“soggettivazione”. Hanno scoperto l’“esistenza estetica”, cioè il ripiegamento, il
rapporto a sé, la regola facoltativa dell’uomo libero. […] L’idea fondamentale di
Foucault è una dimensione della soggettività che deriva dal potere e dal sapere,
ma non ne dipende59.
58
M. Foucault, Sessualità e solitudine, in Archivio Foucault 3, cit., p. 157.
59
G. Deleuze, Foucault, Cronopio, Napoli 2002, pp. 134-135. L’idea di una soggetti-
vità che deriva dal potere e dal sapere ma non ne dipende sembra rimandare alla defini-
zione che Foucault propone della critica come «l’arte di non essere governati in questo
modo e a questo prezzo»; M. Foucault, Illuminismo e critica, cit., p. 38.
60
Quando, negli ultimi anni della sua vita, fu chiesto a Foucault come mai avesse
cambiato rotta rispetto ai suoi precedenti studi sul potere per un ritorno al soggetto,
egli rispose che la questione del soggetto era sempre stata al centro delle sue ricerche.
Cfr. M. Foucault, Il soggetto e il potere, in H.L. Dreyfus e P. Rabinow, Michel Foucault. Beyond
Structuralism and Hermeneutics, trad. it. di D. Belati, M. Bertani, F. Gori e I. Levrini, La ricerca
di Michel Foucault, La casa Usher, Firenze 2010, pp. 208-226.
Dissidenza e stile d’esistenza 199
Ritorniamo, allora, alla frase di Kundera secondo cui non c’è pace
possibile fra il romanziere e l’agelasta, poiché «non avendo mai udito la
risata di Dio, gli agelasti sono convinti che la verità è evidente»64. Kunde-
ra scrive questa frase rammentandosi del proverbio ebraico secondo cui
“L’uomo pensa, Dio ride”. Dio ride, spiega Kundera, perché vede l’uomo
affannarsi per una verità che gli sfugge. La saggezza del romanzo sboccia
da questa consapevolezza: la verità ci sfugge, il consenso unanime è un
miraggio, la traiettoria luminosa delle cause è una falsa pista. A Kundera
piace pensare che, un giorno, François Rabelais abbia udito la risata di Dio
e che dall’eco di quella risata abbia dato vita al romanzo europeo. È pro-
prio Rabelais, infatti, a far riemergere dall’oblio la parola agélaste, colui che
non ride, che non ha sense of humor.
Georges Minois, nel suo libro Storia del riso e della derisione, spiega per
quali ragioni certe correnti del pensiero antico si dichiarassero agelaste e
diffidassero del riso: «Colui che ride si dissocia dall’oggetto del suo riso,
prende le distanze dall’ordine del mondo invece di integrar visi»65. Il riso
avrebbe dunque il potere della distanza: esso apre un varco, un margine
di dubbio, una linea di fuga. Colui che ride fa un passo indietro rispetto
all’ordine del mondo: «Il politico, il magistrato, la guardia, l’innamorato
non riescono a ridere dei valori che difendono»66. Potremmo dire, allora,
che l’uomo spirituale è colui che non smette di credere nel potere libera-
torio del riso: richiamarsi alla non-evidenza della realtà significa prendere
le distanze dall’ordine del mondo e percepire la propria estraneità rispetto
ai luoghi comuni.
Rabelais, ci racconta Kundera, aveva paura degli agelasti, giacché essi
sono convinti che «tutti gli uomini debbano pensare la stessa cosa e che
63
M. Foucault, Michel Foucault, une interview: sexe, pouvoir et la politique de l’identité, in Dits
et écrits II, cit., p. 1555.
64
M. Kundera, L’arte del romanzo, cit., p. 220.
65
G. Minois, Histoire du rire et de la dérision, trad. it. di M. Carbone, Storia del riso e della
derisione, Edizioni Dedalo, Bari 2004, p. 72.
66
Ibidem.
Dissidenza e stile d’esistenza 201
loro stessi siano esattamente ciò che pensano di essere»67. È per contesta-
re questa certezza monolitica che Patočka si appella alla cura dell’anima:
essa è la spinta dinamica che reintroduce una distanza, che immette una
differenza, che illumina una prospettiva inattesa. Credo che vada com-
preso in questi termini il valore etico che Patočka accorda al concetto
platonico di chorismos: tratteggiato come ininterrotta tensione oltre il dato
e oltre il presente, il chorismos patočkiano annuncia la possibilità dell’uomo
di percorrere un margine critico rispetto al regime della semplice presen-
za. L’esperienza della separazione non segna solo la capacità di indietreg-
giamento del soggetto rispetto all’oggetto, ma anche del singolo rispetto
alle proprie pratiche di vita: è un’esperienza di libertà che consiste nella
capacità di distanziarsi da ciò che si fa, da ciò che si pensa e da ciò che si
dice per conquistare nuove prospettive. Ecco, allora, perché non credo che
sia fuorviante riconoscere in Patočka un interesse per l’orizzonte del bios
come piano della vita da sperimentare, qualificare, reinventare.
In questo senso, sebbene nel suo ultimo corso al Collège de France
Foucault prenda le distanze da Patočka, rintracciando nel filosofo cèco
un interesse per la nozione di cura dell’anima estraneo alla sua personale
indagine – rivolta piuttosto all’epimeleia heautou (cura di sé) come messa
alla prova, problematizzazione e stilizzazione del bios – credo che proprio
l’attenzione rivolta al sé come piega della carne del mondo renda prossime
le ricerche di Patočka e di Foucault. Quando Patočka connette la prospet-
tiva della cura alla natura estatica e relazionale dell’esistenza, non pensa
all’anima soggettivamente connotata, ma alla continua conquista di uno
spazio liminare dove ricostruire, sempre di nuovo, «il fronte silenzioso»
di coloro «che si compenetrano solo nel comune sconvolgimento della
quotidianità»68. Il nesso che la riflessione foucaultiana istituisce con l’oriz-
zonte del bios sembra invece alludere al movimento della vita che, presa
nel duplice processo di assoggettamento e soggettivazione, inventa nuove
forme di (r)esistenza e sfugge alla legge di predicabilità dualistica che se-
para la persona dalla non persona, la vita degna di essere vissuta dalla vita
sacrificabile, il malato dal sano di mente, l’uomo dall’animale.
La cura di sé tratteggiata da Foucault potrebbe essere intesa come
cura di quell’eccedenza della vita che si crea un varco nei dispositivi di
potere ed escogita stili singolari di resistenza e spazi comuni di libertà. Le
souci de soi inteso come creazione di “modi di vita” segna anche l’apertura
67
M. Kundera, L’arte del romanzo, cit., p. 220.
68
J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, cit., p. 153.
202 Caterina Croce
69
M. Foucault, De l’amitié comme mode de vie, in Dits et écrits II, cit., p. 984.
70
M. Foucault, L’expérience morale et sociale des Polonais ne peut plus être effacée, cit., p. 1168.
Dissidenza e stile d’esistenza 203
Cura dell’anima, cura del sé, cura del bios. Le scelte di vita sono il pun-
to di contatto tra l’etica e la politica: dare forma alla propria vita, uno stile
alla propria esistenza significa costruirsi come singolarità in divenire, in un
rapporto produttivo con gli avvenimenti71.
Mi avvio, allora, alla conclusione citando le parole di un allievo di
Patočka, Tomáš Halík che, in un’intervista rilasciata in occasione del tren-
tesimo anniversario di Charta 77, ricorda che il filosofo, poco prima di
morire, in un pomeriggio di pioggia gli disse: “Sa, la gente che pensa deve
pur incontrarsi”. Se riconduciamo questa frase al suo contesto – il perio-
do di maggior pressione del regime sovietico su Charta 77, a pochi giorni
dagli interrogatori che portarono Patočka alla morte – essa dà conto della
valenza etica e politica che Patočka riconosceva al pensiero e alla pratica
filosofica. La gente che pensa, la gente che non si lascia incantare dagli
slogan accattivanti del Giorno e non si lascia intimidire dalle offese del
potere, deve potersi incontrare: deve poter pensare insieme. Il pensiero,
laddove sia condiviso e partecipato, rappresenta una minaccia per il potere:
un’eccedenza che crea uno scarto imprevisto, una linea di fuga possibile.
Così, la condivisione di un medesimo spazio di discussione diventa
occasione per farsi e riconoscersi comunità. Credo che, se si dovessero
portare degli esempi concreti al principio filosofico della solidarietà de-
gli scampati evocato da Patočka – esempi capaci di dare espressione a
questo ideale nel tempo ordinario della storia e non nella frattura sismica
dell’evento – si potrebbero citare proprio i seminari clandestini, le riunioni
private, le collaborazioni sotterranee che Patočka non rinunciò mai a or-
ganizzare e alimentare.
Lo stesso progetto di Charta 77 sembra nascere dalla volontà di in-
contrarsi, malgrado posizioni e credi differenti, per ricominciare a pensare
insieme. Il manifesto di Charta 77 potrebbe essere preso a modello di quel-
le comunità spontanee e senza patria che nascono dal senso di reciproca
responsabilità: dalla messa in comune di una medesima preoccupazione.
E se ricordiamo che la nozione di cura reca in sé l’idea di preoccupazione,
potremmo dire che la cura – in quanto turbamento, inquietudine, appren-
71
Che il tentativo di dare forma alla propria vita e uno stile alla propria esistenza
possa passare dal gesto di “prendere la parola”, è quanto Foucault sembra suggerire
affrontando il tema della parrhesia, soprattutto nella declinazione che tale nozione ha as-
sunto nell’ambito del cinismo. Per un confronto tra Patočka e Foucault a partire dal mo-
vimento della verità (Patočka) e dalle pratiche parrhesiastiche di veridizione (Foucault),
mi permetto di rimandare al mio scritto Filosofia e politica in Jan Patočka: un’alleanza nel segno
di Pólemos, in «Leussein. Rivista di studi umanistici», vol. 5 (2012), n. 1.
204 Caterina Croce
Caterina Croce
Università degli Studi dell’Insubria/Université Jean Moulin Lyon 3
croce.caterina@gmail.com
.
Dissidence and Style of Existence. The Perspective of Care between Jan Patočka and Michel
Foucault
In The Courage of Truth, Foucault refers to the research on the care of the soul led
by the Czech phenomenologist Jan Patočka. Foucault marks a difference between
his work, focused on the theme of the bios, and Patočka’s, focused on the theme
of the psyché. Nevertheless, it can be argued that the concepts of bios and psyché,
albeit different from an ontological point of view, both involve the need for a dis-
objectifying (Patočka) and a dis-enslaving (Foucault) movement that, freeing life
from the seizure of power and knowledge, discovers and invents the dimension
of the common. In fact, within Patočka’s a-subjective phenomenology, the psyché
does not coincide with the individual soul, but with the ek-static movement of
existence. The outlook of care (of the self, the soul, the bios), never disjointed
from the critical ethos of dissent and distance, outlines the ethical vectors along
which it is possible to rediscover a sense of common action.
Keywords: Care of the self, Care of the soul, A-subjective phenomenology, Critical
ontology, Dissidence.
Michel Foucault e le immagini.
Tre contributi per un’archeologia del figurativo
Marco Malandra
Siete entrati. Eccovi accerchiati da dieci quadri, che circondano una stanza
di cui tutte le finestre sono state accuratamente richiuse. In prigione, anche voi,
come i cani che vedete alzarsi e incespicare contro le grate4?
La serie dei quadri, piuttosto che raccontare quel che è successo, trasmette
una forza la cui storia può essere raccontata come la scia della sua fuga e della sua
libertà. La pittura ha almeno questo in comune con il discorso: quando trasmette
una forza che crea della storia, essa è politica6.
6
Ibidem (traduzione mia).
7
Ivi, p. 1270 (traduzione mia).
8
La verticalità «domina, sorge, minaccia, schiaccia; enorme piramide di edifici, al
di sopra e al di sotto; ordini abbaiati dall’alto e dal basso; divieto di coricarti il giorno, di
alzarti la notte; in piedi davanti ai guardiani, sull’attenti davanti al direttore; crollato sotto
i colpi nelle segrete sotterranee, o legato al letto di contenzione per non aver voluto ac-
cucciarti davanti ai secondini; e, finalmente, l’impiccagione leggera, sola uscita per fuggire
alla prigionia in lungo e in largo, sola maniera di morire in piedi»; ibidem (traduzione mia).
208 Marco Malandra
9
Ivi, p. 1269 (traduzione mia).
Michel Foucault e le immagini 209
10
Ivi, p. 1270 (traduzione mia).
11
In un passo di Sorvegliare e punire, Foucault afferma che «la nostra società non è
quella dello spettacolo, ma della sorveglianza; sotto la superficie delle immagini, si inve-
stono i corpi in profondità; dietro la grande astrazione dello scambio, si persegue l’ad-
destramento minuzioso e concreto delle forze utili; i circuiti della comunicazione sono i
supporti di un cumulo e di una centralizzazione del potere; la bella totalità dell’individuo
non è amputata, repressa, alterata dal nostro ordine sociale, ma l’individuo vi è accura-
tamente fabbricato, secondo tutta una tattica di forze e di corpi. Noi siamo assai meno
greci di quanto non crediamo. Noi non siamo né sulle gradinate né sulla scena, ma in una
macchina panoptica, investiti dai suoi effetti di potere che noi stessi ritrasmettiamo perché
ne siamo un ingranaggio». M. Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975; trad. it. di
A. Tarchetti, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976, p. 236 (corsivo mio).
12
M. Foucault, La force de fuir, cit., pp. 1272-1273 (traduzione mia).
210 Marco Malandra
13
Gérard Fromanger è un artista francese, nato il 6 settembre 1939 a Jouars-
Pontchartrain. Attualmente vive e lavora tra Siena e Parigi. L’ultima grande retrospettiva
dedicata a Fromanger è stata allestita nel 2005 in Francia, Belgio, Lussemburgo e Svizzera.
14
M. Foucault, La peinture photogénique, in Le désir est partout. Fromanger, Galerie Jeanne
Bucher, Paris 1975, pp. 1-11; ora in Dits et écrits I, cit., pp. 1575-1583.
15
Cfr. G. Shapiro, Archaeologies of Vision. Foucault and Nietzsche on Seeing and Saying,
The University of Chicago Press, Chicago–London 2003.
Michel Foucault e le immagini 211
16
Foucault inizia il proprio articolo citando due frasi di Ingres: «Ingres: “Consideran-
do che la fotografia si riassume in una serie di operazioni manuali…”. […] Ingres ancora:
“La fotografia è molto bella, ma non bisogna dirlo”». M. Foucault, La peinture photogénique,
cit., p. 1575 (traduzione mia, corsivo mio).
17
Ivi, p. 1576 (traduzione mia).
18
Ivi, p. 1578 (traduzione mia).
Michel Foucault e le immagini 213
19
Ibidem (traduzione mia).
20
Ibidem (traduzione mia).
214 Marco Malandra
21
Ivi, p. 1581 (traduzione mia).
22
Ivi, p. 1582.
23
M. Foucault, La pensée, l’émotion, in D. Michals, Photographies de 1958 à 1982, Musée
d’Art moderne de la ville de Paris, Paris 1982, pp. III-VII; ora in Dits et écrits II, 1976-1988,
Gallimard, Paris 2001, pp. 1062-1069. Duane Michals è un fotografo statunitense, nato
nel 1932 a McKessport (Pennsylvania).
216 Marco Malandra
«Le persone credono alla realtà delle fotografie ma non alla realtà dei dipinti.
Questo è un grande vantaggio per i fotografi. Il problema è che anche i fotografi
credono alla realtà delle fotografie»24.
Afferrare il reale, cogliere sul fatto, catturare il movimento, far vedere, per
Duane Michals, è la trappola della fotografia: un falso dovere, un desiderio malde-
stro, un’illusione su se stessa. «I libri di fotografia hanno spesso dei titoli come:
“L’occhio del fotografo”, o “Lo sguardo di Machin-Chose”, o “Far vedere”, come
se i fotografi non avessero che occhi, e nulla nella testa»25.
24
Ivi, p. 1063 (traduzione mia).
25
Ivi, p. 1065 (traduzione mia, corsivo mio).
26
Ibidem.
Michel Foucault e le immagini 217
ni»29 con i quali l’artista crea una forte tensione tra il titolo dell’opera, o al-
tre iscrizioni che sovente vi inserisce, e quanto è effettivamente percepibile
nella fotografia, come nel caso di This Photograph Is My Proof: la fotografia
rappresenta una giovane donna che abbraccia un uomo di schiena, appog-
giando teneramente la propria testa su una scapola del compagno. Tutto
lascia presagire che si tratti di un placido ritratto di una coppia felice se non
che, nella parte inferiore della fotografia, è riportata a mano una scritta che
recita: «Questa fotografia è la mia prova. Lei c’era quel pomeriggio, quan-
do le cose andavano ancora bene tra noi, e lei mi abbracciava, ed eravamo
così felici. È successo, mi ha amato. Controlla, guarda tu stesso!»30. Lo
spettatore è quindi indotto a riguardare la scena, scovando nell’espressio-
ne enigmatica della donna i presagi di quello che succederà in futuro alla
coppia e stravolgendo, di conseguenza, l’interpretazione iniziale dell’opera.
Ciò su cui si sofferma Foucault, tuttavia, non riguarda l’ermeneutica del
significato suggerito da queste parole; il gesto artistico di Michals è de-
cisivo nella misura in cui problematizza quel che appare nella fotografia,
in quanto le parole a margine sono state poste proprio per disorientare,
evitando di lasciar intendere in maniera esplicita il legame con il soggetto
rappresentato. Gli spettatori sono di conseguenza coinvolti in questo in-
deciso rimando tra testo e immagini che li costringe a svolgere un’attività
costruttiva che, come già visto in Rebeyrolle e Fromanger, li fa interrogare
sullo statuto delle immagini, intese non come qualcosa di fisso da subire
acriticamente, ma piuttosto come qualcosa di effimero esposto all’invisi-
bile brezza del mutamento. Riassumendo, si può affermare che, secondo
Foucault, anche l’arte di Michals è in grado di esercitare un potere che apre
una breccia politica tale da coinvolgere lo spettatore-fruitore delle imma-
gini: in particolare, nel mondo contemporaneo dove sempre più energie
sono consacrate alla scientifica documentazione fotografica e le immagini
sono codificate secondo dettami convenzionali, l’opera di Michals ricorda
agli individui la necessità di un’arte che sappia costruire immagini disorien-
tanti e problematiche, talvolta persino abitate da ombre e fantasmi.
Ora, dopo aver delineato i caratteri dell’opera di Michals che mag-
giormente hanno attirato la curiosità foucaultiana, possiamo rivolgere l’at-
29
«Duane Michals ha incontrato Magritte e l’ha adorato. Si trovano nella sua opera
molti procedimenti “magrittiani” – cioè esattamente opposti a quelli di Bacon: consisto-
no, in effetti, nel lucidare, nel rifinire una forma fino al suo più alto punto di realizzazione,
poi nello svuotarla di tutta la realtà e nel sottrarla dal suo campo di visibilità familiare
tramite degli effetti di contesto». Ivi, p. 1066 (traduzione mia).
30
Cfr. G. Shapiro, Archaeologies of Vision, cit., p. 381 (traduzione mia).
Michel Foucault e le immagini 219
tenzione sugli spunti che il saggio sul fotografo statunitense offre come
possibili legami tra la produzione dell’artista e le ultime speculazioni del
filosofo francese, in particolare per ciò che riguarda la nozione di “este-
tica dell’esistenza”. Come preliminare punto d’indagine in tale direzione,
è utile porre in risalto il fatto che Foucault lasci trasparire nell’articolo
su Michals una sorta di attrazione per il carattere sperimentale della sua
arte: le sue fotografie lo attirano come esperimenti ed esperienze fatte
dall’autore ma che, senza che se ne capisca chiaramente il motivo, scivolano
verso lo spettatore suscitando in lui un’eterogenea gamma sensoriale di
piaceri, inquietudini, sensazioni che sono già state vissute o che si pre-
sume possano esserlo in futuro, lasciando di conseguenza lo spettatore
nella condizione liminare in cui non sa se quelle sensazioni sono propria-
mente sue o se le deve all’esperienza e alla capacità artistica di Duane
Michals31. Del resto, il fotografo stesso è consapevole di questa peculiarità
della propria produzione artistica, e definisce se stesso come il «proprio
regalo allo spettatore»32, in grado cioè di donare coscientemente, tramite
la propria arte, qualcosa di sé agli altri. Si può cogliere, nell’interesse di
Foucault per questa particolarità dell’artista di essere uno sperimentatore,
un legame con quanto il filosofo francese stava approfondendo in quegli
stessi anni riguardo alla nozione di “estetica dell’esistenza”. Come noto,
una buona parte degli sforzi intellettuali dell’ultimo Foucault si sono con-
centrati sulle possibilità degli individui di costituirsi come interpreti liberi
della propria soggettività. Infatti, sebbene il tema della storia dei differenti
modi di soggettivazione degli esseri umani sia stato da sempre il sostrato
ultimo della ricerca foucaultiana – come dichiarato da Foucault stesso nel
saggio posto a conclusione della monografia di Dreyfus e Rabinow33 –, nei
corsi al Collège de France dei primi anni Ottanta l’attenzione di Foucault
si concentra soprattutto su come i singoli possano rifiutare una determi-
31
«[Le foto di Duane Michals] mi attirano come esperienze. Esperienze fatte solo da
lui; ma che, non saprei dire come mai, scivolano verso di me – e, penso, verso chiunque
le guardi –, suscitando piaceri, inquietudini, maniere di vedere, sensazioni che ho già
avuto o che sento di dover provare un giorno, e di cui mi domando sempre se sue o mie,
sapendo comunque che le devo a Duane Michals». M. Foucault, La pensée, l’émotion, cit., p.
1063 (traduzione mia, corsivo mio).
32
A tal proposito, Foucault cita una frase in cui Michals afferma: «Je suis mon cadeau
pour vous» (ibidem).
33
Cfr. H.L. Dreyfus e P. Rabinow, Michel Foucault. Beyond Structuralism and Hermeneutics,
The University of Chicago Press, Chicago, 1983; trad. it. di M. Bertani, La ricerca di Michel
Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989; nuova edizione La casa Usher, Firenze 2010,
pp. 279-287, qui p. 279.
220 Marco Malandra
34
M. Foucault, L’herméneutique du sujet, in Annuaire du Collège de France, 82° année,
Histoire des systèmes de pensée, année 1981-1982, Paris 1982, pp. 395-406; ora in Dits et écrits II,
cit., pp. 1172-1184, qui p. 1176; trad. it. di A. Pandolfi e A. Serra, L’ermeneutica del soggetto,
in M. Foucault, I corsi al Collège de France. I Resumés, Feltrinelli, Milano 1999, p. 110.
35
Cfr. M. Foucault, Entretien avec Michel Foucault, in Dits et écrits II, cit., pp. 860-914.
Michel Foucault e le immagini 221
Marco Malandra
Università degli Studi di Milano
mallaxiv@gmail.com
.
Michel Foucault and Images. Three contributions to an Archaeology of Figurative
In this article I examine the role that images play in Foucault’s works of the 70s
and 80s, thus showing that such a theme does not come to an end in the 60s. I
analyse in particular three essays devoted to the artists Paul Rebeyrolle, Gérard
Fromanger and Duane Michals, and I find in them several lines of continuity
with Foucault’s analyses of power relations and the corresponding possibilities to
resist (Rebeyrolle, Fromanger), and with the concepts of “care of the self ” and
of “aesthetic of existence” (Michals).
36
M. Foucault, What is Enlightenment?, in Dits et écrits II, cit., p. 1397; trad. it. di
S. Loriga, Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3. Estetica dell’esistenza, etica, politica,
Feltrinelli, Milano 1998, p. 232.