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Cantantes

 et  psallentes  in  cordibus  vestris  Domino:  il  canto  


comunitario  dei  primi  Cristiani.  
1. L’origine del canto cristiano: un po’ di miti da sfatare
Quando Sant’Agostino d’Ippona (Tagaste, 354 – Ippona, 430) parla della sua conversione al
Cristianesimo, una delle prime cose che cita come esperienza unica e particolarmente coinvolgente
è quella del canto comunitario dei Cristiani del IV secolo1: questo episodio induce a chiederci in
quale senso l’esperienza del canto fosse così profonda per i fedeli del tempo. C’è da ricordare che
fino al VI secolo (inizio della riforma erroneamente denominata gregoriana) non sono state
riscontrate scritture musicali nella tradizione occidentale, né tentativi di unificazione o direttive
generali, quindi per l’indagine dobbiamo affidarci esclusivamente a fonti indirette, letterarie o
antropologiche.
È opinione diffusa che il canto cristiano debba trarre le sue origini dalla salmodia ebraica, e che
questo passaggio sia avvenuto senza soluzione di continuità: questo perché in ambedue le tradizioni
musicali si pone al centro del canto la parola e non la musica. Dice infatti San Paolo:
Non ubriacatevi di vino, il quale porta alla sfrenatezza, ma siate ricolmi
dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali,
cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore.2

La visione che dà il canto cristiano di se stesso nei primi secoli è quella di una cultura di rottura
rispetto alla tradizione rituale greca che, per come essa ci è presentata dallo studioso Marcello Piras,
risulta decisamente distante dal pensiero comune: gli studi di Piras3 dettano un approccio che,
benché non sia nella coscienza comune, ormai non è così innovativo, visto che trent’anni or sono
già la Salles4 parlava di un lato oscuro preponderante nella poco alba Grecia, e pochi anni dopo
Carlo Ferdinando Russo le faceva eco con la scoperta sulla melodia del disco di Festos di tracce
strutturali musicali innegabilmente pigmee5 (ma già il filologo francese Antoine Millet negli anni
20 aveva messo in dubbio la grecità dell’esametro6).
Si vede quindi come già nella cultura greca sia possibile riscontrare una forte discrepanza tra la
teoria musicale, nella quale i valori sono di tipo estatico-contemplativo, e la prassi esecutiva, che
invece si lega spesso a momenti in cui la musica segue l’abbandono della coscienza nella trance,
elemento tipico della visione musicale e culturale africana7: delle due anime del mondo greco,
niccianamente apollineo e dionisiaco, la prima è principe nella teoria musicale, succube nella
prassi.
E’ quindi lecito chiedersi se anche nella tradizione musicale cristiana possa essere successo
qualcosa di simile, e benché in questo campo gli studi non riscontrino nella comunità scientifica
italiana l’interesse che meriterebbero, un iniziale successo si è riscontrato quando si è iniziato a

1
«Siamo stati esortati a cantare al Signore un cantico nuovo. L'uomo nuovo conosce il cantico nuovo. Il cantico è un
fatto d'allegrezza e, se consideriamo la cosa con maggior diligenza, è un fatto d'amore, sicché chi sa amare la vita nuova
sa cantare il cantico nuovo. Occorre quindi che ci si precisi quale sia la nuova vita a motivo del cantico nuovo.
Rientrano infatti nell'unico regno tutte queste cose: l'uomo nuovo, il cantico nuovo, il testamento nuovo, per cui l'uomo
nuovo e canta il cantico nuovo e appartiene al Testamento nuovo», AGOSTINO, Sermones, 34, 1.
2
Efesini, 5, 18
3
Di Piras facciamo riferimento a quanto viene detto nella conferenza tenuta a Cellino Attanasio (TE) nell’ambito della
rassegna L’osso che canta il 25 Maggio 2012, in parte visibile in http://www.youtube.com/watch?v=o88T-E5IVaI
(consultato l’ultima volta il 9 Marzo 2013)
4
CATHERINE SALLES, I bassifondi dell'antichità. Prostitute, ladri, schiavi, gladiatori: dietro lo scenario eroico del
mondo classico, Milano, Rizzoli, 1983.
5
CARLO FERDINANDO RUSSO, Il disco di Festo. L'enigma di una scrittura, in Belfagor, Vol. 50, Nº 298, 1995 , pp. 511-
512.
6
ANTOINE MILLET, Les origines indo-europeennes des metres grecs, Parigi, 1923.
7
Per cenni sulla musica africana ci si rifà a JOHN BLACKING, Com’è musicale l’uomo, Milano, Ricordi, 1973.
postdatare la riforma del canto cristiano: laddove la storiografia ci indica San Gregorio – pontefice
tra il 590 e il 604 – quale unificatore delle varie tradizioni musicali cristiane, è oggi universalmente
appurato che la riforma del canto ecclesiastico si sviluppa in un arco di almeno due secoli,
arrivando a interessare, come vedremo, anche l’epoca carolingia. Abbiamo quindi circa ottocento
anni di tradizione musicale della Chiesa Cattolica che rimangono scoperti: come siamo arrivati al
canto gregoriano? Di che genere è il canto di cui parla Agostino? Le sue parole possono essere
considerate attendibili?

2. Musica e canto dall’ebraismo al Nuovo Testamento e durante i primi secoli di


cristianità
Riprendendo la riflessione paolina, notiamo che l’elemento della parola sta al centro del canto nel
Nuovo Testamento: attraverso di essa si realizza il contatto uomo-Dio, ed è eco in mezzo agli
uomini della proposta divina8. Questa visione suggerisce una struttura che metta al centro la parola
e nella quale la musica sia un mero mezzo di trasmissione, il che combacia alla perfezione con la
cantilazione, tipica tradizione di lettura cantata della parola di Dio nelle sinagoghe, in cui la
melodia del canto viene concepita come amplificazione – e non come ornamento – della Parola. Si
tratta di un canto monodico, dal ritmo fluido e rapido che si ben adegua all’andamento della prosa
dei versetti veterotestamentari, in cui l’ornamento, laddove è presente, corrisponde a un segno di
interpunzione.
Parallelamente a questo genere, si riscontra nella musica da sinagoga ebraica anche la salmodia,
nella quale il coro dei fedeli viene guidato da un solista, e risponde in maniera alternata con
frammenti di testi poetici – i salmi, appunto.
L’immagine del solista che in sinagoga legge in questo modo i versetti biblici richiama alla mente
di noi occidentali la lettura cantata delle lettere apostoliche durante le celebrazioni cattoliche, e
quella di tipo responsoriale corrisponde alla recitazione cantata dei salmi durante le stesse
celebrazioni, ma questa associazione così automatica può generare dei dubbi: infatti, se andiamo a
spulciare nelle Sacre Scritture troviamo manifestazioni di musica religiosa molto più originali per il
nostro pensiero:
Davide era cinto di un efod di lino e danzava a tutta forza davanti al Signore9.
Davide e tutto Israele facevano festa davanti a Dio, a tutta forza, cantando e
sonando cetre, salteri, timpani, cembali e trombe10.
Lodino il suo nome con danze, salmeggino a lui con il tamburello e la cetra11.
All'orlo inferiore del manto, tutto intorno, farai delle melagrane di colore
violaceo, porporino e scarlatto; in mezzo a esse, tutt'intorno, porrai dei
sonagli d'oro12.

Si tratta di situazioni ben diverse da quello che ci potremmo immaginare: il ballo sfrenato di Davide
è sicuramente quello che colpisce di più, ma anche i sonagli al bordo del manto di Aronne meritano
un’accurata riflessione. Ambedue la situazioni portano a una visione sicuramente meno candida e
meditativa di quella che avremmo potuto pensare: se a ciò uniamo la forte preponderanza di
strumenti di tipo percussivo per la lode a Javeh possiamo ben allineare anche la musica ebraica
all’interno di quella tradizione che parte dall’Africa centrale e arriva senza soluzione di continuità
nel cuore dell’Europa tramite l’esperienza della Grecia Antica.
La Danza del Pitone Sacro (o Domba) delle tribù pigmee dell’Africa centrale, oggi tramandata dalla
tribù Venda, ha elementi in comune con molta storia della musica occidentale: una base ritmica ben
definita sulla quale si innestano tutte le parti in maniera ripetitiva, con una sovrapposizione sfalzata
di 3 + 2 che richiama meccanismi sensoriali arcani, ma soprattutto una struttura di tipo strofico e
iterativo nella quale la musica assume un forte significato sociale.

8
Romani, 8.
9
2Sam.6,14.
10
1Cr.13,8.
11
Sal.149,3.
12
Es.28,33.
In effetti nella Sacra Scrittura il significato sociale della musica è ben evidente: quando Mosè porta
gli israeliti fuori dall’Egitto avviene che
Maria, la profetessa, sorella d'Aronne, prese in mano il timpano e tutte le
donne uscirono dietro a lei, con timpani e danze. E Maria rispondeva:
«Cantate al Signore, perché è sommamente glorioso: ha precipitato in mare
cavallo e cavaliere».13

In questo passo è più che evidente una costruzione di tipo antifonale, mentre altrove abbiamo una
costruzione responsoriale: quello che ci interessa comunque è l’insieme di canto e ballo di evidente
origine centroafricana, che permane ed è primario nella cultura ebraica. La struttura del canto nelle
documentazioni di origine biblica risulta essere molto meno rigida di quanto riportato dalla musica
scritta, che inizia a prender campo attorno al V secolo. Come sappiamo, spesso il passaggio da
tradizione orale a scritta corrisponde in realtà a una volontà di innovazione e riscrittura del passato,
e in tal caso probabilmente dalla tradizione scritta è stata riportata solo una parte selezionata della
musica orale.
La direzione di questa selezione è quella della musica orientale, ove con l’aggettivo si intendono i
vari generi musicali che si riscontrano attorno alla Chiesa di Bisanzio a partire dal IV secolo, di
struttura e finalità molto diverse da quelli originarie dell’Africa centrale ai quali abbiamo associato
la tradizione musicale ebraica. Tale concezione arriva in Europa tramite le composizioni in lingua
siriana, che trovano immediatamente eco nella poesia liturgica greca, e ha come punti cardine
l’assenza di strumenti, che potrebbero distrarre il fedele dalla parola, e un andamento molto lento e
senza riferimenti ritmici, che permette un uso tutto particolare, nasale, della voce.
Già da queste poche idee si capisce quanto ampia sia la rottura con la tradizione precedente: da un
atteggiamento in cui la musica sacra punta a creare un contatto uomo-Dio tramite un movimento
fisico progressivamente più furioso verso uno stato vicino alla trance, si passa a un approccio di
contemplazione estatica, in cui la lode alla divinità assume connotazioni diametralmente opposte.
Anche il ruolo della musica nella società viene stravolto, in quanto prende sempre più campo il
ruolo del compositore, separato totalmente dal resto del popolo che partecipa come contemplatore,
non più da protagonista: basti pensare alla figura di San Romano il Melode (490 – 556) che viene
venerato, sia dai Cristiani che dagli Ortodossi, come compositore di Contacii – inni di lode
dall’andamento strofico – che secondo la tradizione scrisse l’Inno di Natale dopo l’apparizione
della Madonna che gli dette da mangiare un rotolo con sopra la Sacra Scrittura. Tali tipi di
composizione seguono la struttura ricorrente di alternanza tra un solista che presenta il testo in
forma recitativa e il popolo che risponde nel ritornello. Viene quindi meno tutto l’apparato di
creatività popolare che portava alla concezione della musica come incremento dell’esperienza
individuale nelle tribù dell’Africa centrale, come testimoniato da Blacking; questo ideale viene
soppiantato da quello del compositore-asceta, cui l’arte viene comunicata direttamente da Dio.
Questa panoramica sulla musica bizantina ci è servita per suggerire come l’affermazione di affinità
e continuità diretta tra il canto ebraico e quello dei primi cristiani, comune nei manuali di storia
della musica, sia da prendere con un serio beneficio del dubbio: abbiamo visto che a Bisanzio si
forma un tipo nuovo di canto, che non trae radici nella cultura centro-africana ma viene dal lontano
Oriente.

3. Musica nella tradizione religiosa occidentale dall’imnodia ambrosiana a Gregorio


Magno
La vicenda si articola maggiormente se ci spostiamo in Occidente nello stesso periodo, dove
l’esperienza del canto religioso sente forte il dovere di emanciparsi totalmente dai culti pagani, che
in maggior parte riflettono arcane concezioni di società di tipo matriarcale: la loro folta presenza è
testimoniata dall’importanza che assumono in Italia, in modo palpabile nella nostra Toscana, i
processi di cristianizzazione di culti evidentemente precristiani come quelli dedicati alla Regina di
Maggio, che già l’antropologo James Frazer a fine Ottocento ebbe ad associare con altre

13
Es.15,20-21.
manifestazioni incredibilmente simili in tutta Europa 14. Oltretutto, una delle prerogative della
Chiesa d’Occidente nei suoi primi secoli di vita sarà la lotta alle eresie, per cui molti tipi di
iniziative che escono dal regolare binario della Chiesa Cattolica sono malvisti dalla Chiesa Madre di
Roma; è comunque testimoniata una forte presenza di canto popolare di tipo religioso, che spesso
potrebbe essersi presentato come cristianizzazione di stili musicali pagani preesistenti.
Nascono così le tradizioni gallicana, mozarabica, aquileiese e beneventano-cassinese, delle quali
però non rimangono testimonianze attendibili: la tradizione gallicana, forse di origine siriana, era
quella di un canto fortemente ieratico, non accompagnato da strumenti e fatto di melismi
interminabili; il canto mozarabico – che a dispetto del nome si era già estinto al tempo dell’arrivo
degli arabi in Spagna – ha in sé elementi di forte drammatizzazione e un linguaggio musicale simile
all’ambrosiano; il canto di Aquileia, probabilmente il più antico (II sec.) potrebbe avere una forte
componente modale; il canto beneventano-cassinese, fortemente ripetitivo. Molte di queste
tradizioni verranno considerate potenzialmente sovversive e spazzate via dalla milizia carolingia,
con l’intento di uniformare l’Europa al rito Apostolico Romano.
L’unica tradizione di canto cristiano dei primi secoli che ha un seguito è quella dell’innodia
ambrosiana: alla figura di Sant’Ambrogio (Treviri, 339 – Milano, 397), personalità molto
importante per la cristianità, riconosciuto come Dottore della Chiesa, si attribuiscono i primi inni
religiosi di stampo occidentale, con caratteristiche totalmente diverse dalla tradizione bizantina.
Anche qui all’origine abbiamo un’edificante racconto: si narra che i primi inni siano stati composti
da Ambrogio la notte di Pasqua del 386, quando per opporsi all’imperatrice Giustina, che vuole
conquistare la Basilica Porziana per imporre la fede ariana – di origine, quindi, orientale – il
Vescovo di Milano si sarebbe chiuso in quella basilica con i fedeli e per tutta la notte avrebbe fatto
cantare loro inni affinché non fossero oppressi dal sonno.
Questo racconto dovrebbe alludere, a mio parere, a un canto che ha ben poco della componente
estatica e contemplativa che caratterizzava la tradizione orientale: gli Inni – 18 tramandati, dei quali
4 sono sicuramente originali – presentano un ritmo ben definito fatto di quartine di dimetri giambici
(∪ – ∪ – | ∪ – ∪ – ) la cui insistenza richiama non tanto la tradizione dell’innodia orientale, ma
quella di origine africana, giunta a Roma tramite la mediazione della Grecia antica. A questo
proposito in un passo delle Confessioni, Sant’Agostino – che come vedremo è personalmente molto
vicino al canto ambrosiano – suggerisce che
s'incominciò a cantare inni e salmi secondo l'uso delle regioni orientali, per
evitare che il popolo deperisse nella noia e nella mestizia15

Cosa significa secondo l’uso delle regioni orientali? Dalla storiografia musicale questo passo è
stato letto come la dichiarazione dell’affinità tra il canto ambrosiano delle origini e l’innodia di
Bisanzio, in un’ideale continuità di rottura con la tradizione preesistente, ma visto l’importanza che
ha nell’innodia ambrosiana il ritmo, elemento che non ha alcun riscontro di interesse nel canto
liturgico bizantino, questa lettura risulta ben poco credibile: più probabile invece che con religioni
orientali Agostino non intendesse quelle ad Oriente rispetto a Milano o all’Europa, ma alla sua
patria natìa, Ippona in Algeria, e in tal caso l’affinità dovrebbe trovarsi con l’Etiopia, l’Egitto e la
Numidia. A rafforzare tale ipotesi potremmo ricordare che prima del V secolo a Bisanzio non si può
parlare di un canto strofico regolare, struttura che era invece presente da secoli nelle tradizioni
centroafricane e nordafricane.
Ma Agostino non limita la sua importanza a questa affermazione: le Confessioni sono piene di
osservazioni interessanti e, per il tempo, rivoluzionarie, a proposito del valore estetico della musica.
La sua esperienza con il canto non può prescindere dal momento in cui questi ascolta la madre
cantare nella Chiesa di Milano, quindi il suo giudizio sul canto liturgico sarà sempre oscillante: da
un lato ne vede il rischio di distrazione, nel caso il canto sia troppo elaborato, dall’altro sa che
condannando il canto in Chiesa condannerebbe direttamente anche la madre.

14
JAMES FRAZER, The golden Bough a study of comparative religion, prima edizione Londra, MacMillan, 1890.
15
AGOSTINO, Confessioni, IX,7,15.
Da ciò la riflessione che cerca di conciliare le due posizioni: commentando il Salmo 99, Agostino
giunge perfino a dire che il fedele gode, cantando, proprio di quelle parole divine che in altro modo
non saprebbe spiegare. La musica e il canto per Agostino sono una forma di partecipazione a quelle
parole non transeunti che Dio pronuncia, a quel Verbum che è la Rivelazione e che dunque non è
soggetto al passare del tempo. La parola quindi è sempre al centro della musica, ma il passo è
fondamentale: attraverso la musica la parola non è amplificata, ma addirittura può giungere a
orecchie che altrimenti non la comprenderebbero: siamo giunti, da un punto di vista dell’estetica
musicale, a un punto talmente alto che non sarà raggiunto per secoli.

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