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L’evoluzione della mente e della coscienza dell’uomo alla base

dell’estinzione del Neandertal? Una ipotesi psicologica.

CLAUDIO MAMMINI 

PAROLE CHIAVE: evoluzione, coscienza, mente, linguaggio, psicologia cognitiva, neuropsicologia,


Edelman, Tononi, neanderthaliensis

RIASSUNTO: In questo articolo sarà analizzata l’evoluzione della coscienza e della mente secondo il
modello proposto da Edelman (Nobel per la medicina) e Tononi.
L’analisi dello sviluppo del sistema cognitivo umano è compiuta in accordo con le leggi delle
dinamiche non lineari di Prigogine, le ipotesi evolutive di Maturana e Varela, quelle psicosociali di
Mead ed i più consolidati principi della psicologia cognitiva.
Evidenze paleoantropologiche, neurologiche, sociologiche e psicologiche saranno considerate in
funzione dell’ipotesi centrale secondo cui la coscienza è un processo che si genera solo in
particolari condizioni evolutive per aumento di complessità cognitiva. A tal fine si formula
un'ipotesi sull’estinzione del neandertal basata sulla teoria degli equilibri puntuati (estensione della
teoria Darwiniana): a nostro parere sapiens e neandertal raggiunsero la complessità cognitiva critica
caratterizzata dal punto di speciazione per biforcazione previsto per il loro sistema mente. Il primo
andò incontro ad una riorganizzazione cognitiva di tipo paradigmatico sviluppando la coscienza e la
mente avviandosi verso il ramo alto post biforcazione che contraddistingue l’evoluzione; il secondo
sistema cognitivo collassò, generando una catastrofe assimilabile a quella delle odierne
psicopatologie e decretandone l’estinzione.
Secondo la teoria di Edelman e Tononi durante l’embriogenesi si assisterebbe ad una formazione di
aree cerebrali che si differenzierebbero in gruppi morfologicamente distinti da quelli di altre aree
generando un “repertorio primario”. Dopo la nascita avverrebbe una seconda selezione detta
“selezione esperienziale” dovuta all’ambiente e alle esperienze di vita vissute ed esperite. Questa
seconda selezione introdurrebbe modifiche all’interno dell’architettura cerebrale in maniera
funzionale agli stimoli provenienti dal mondo esterno dando vita ad un “repertorio secondario”.
Secondo questa teoria, ad un certo punto della nostra storia evolutiva, le aree posteriori del cervello
implicate nella percezione si sono collegate alle aree anteriori responsabili della memoria basata sul
valore dando luogo alla coscienza primaria. Un tipo di coscienza non esclusiva dell’uomo, in grado
di produrre una scena mentale, una capacità che aumenta considerevolmente speranza di vita
consistente nell’associare ciò che è percettivamente nuovo (es. un rumore insolito) all’esperienza
passata (ricordo del rumore in altre circostanze di vita) ed al valore (positivo o negativo) che ha
assunto per quell’organismo. Evidenze paleoantropologiche conferiscono questo status di animale
dotato di coscienza primaria all’australopiteco.
Poi è avvenuto lo sviluppo delle abilità concettuali, ovvero della capacità di astrarre un
denominatore comune da più elementi. Una operazione cognitiva basilare per la costruzione degli
utensili. E qui troviamo l’H. habilis, in grado di costruire un’astrazione a partire da un percetto.
Un terzo passo evolutivo è stato quello dello sviluppo di una più intensa vita interattiva sociale che
ha fornito il presupposto necessario alla spinta evolutiva delle aree corticali e sottocorticali deputate
alla categorizzazione fonologica e al ricordo dei suoni linguistici. Solo così possiamo comprendere
la comparsa dello spazio sopralarigeo e la capacità di produrre suoni linguistici coarticolati. Tuttavia

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Psicologo Psicoterapeuta, Università degli Studi di Pisa
per far emergere uno scambio simbolico in una comunità linguistica in evoluzione non sarebbe
bastato avere opportunità evolutive e presupposti interattivi tra cospecifici, era necessario che una
precoce interazione affettiva significativa madre figlio venisse generalizzata agli altri appartenenti
del clan. Dobbiamo poi considerare che i vertebrati superiori possiedono un sistema di valori
neurale a proiezione corticale aspecifica che origina in piccoli gruppi di cellule localizzate a livello
sottocorticale. Questo sistema scarica ogniqualvolta un organismo è implicato in qualcosa di nuovo
o inatteso potenziando o inibendo l’attività di un gran numero di altri neuroni. Un sistema che usato
in chiave relazionale genera il senso di appartenenza. Evidenze paleoantropologiche ci fanno
ritenere che rientrassero in questa fase evolutiva l'ergaster e l’eretcus, forse cospecifico
dell’heidelbergensis, oltre che l’habilis.
A questo punto la spinta evolutiva verso la complessità subita dalla mente portò l’H.
neanderthaliensis e il sapiens al loro appuntamento con la storia. La nostra ipotesi è che il
neanderthalensis ci arrivò senza aver sviluppato un sufficiente repertorio cognitivo di valori a causa
di una mano non completamente idonea, con un apparato fonatorio di versatilità ridotta e con
connessioni tra -aree frontali, temporali e parietali- e -corteccia primaria e secondaria di ciascuna
modalità- mediate dall’area di Broca e Werniche, insufficienti a garantirgli il quel salto di qualità
caratterizzato dall’acquisizione della coscienza di ordine superiore. Ciò introdusse in lui una
catastrofe cognitiva assimilabile a quella delle odierne patologie psichiatriche. Probabilmente iniziò
a non saper usare più al momento giusto quanto acquisito, ad avere capacità di problem solving non
più funzionali al miglior adattamento possibile e, in tutta sostanza, iniziò sistematicamente a fare
scelte sbagliate. La sua mente, capace di associare come prima e dotata dei requisiti corticali
conquistati nel corso dei millenni, dovendo tornare a livelli di efficienza inferiori con strutture
superiori, non poté che funzionare in maniera formalmente completa ma sostanzialmente sbagliata.
Sbagliando progressivamente tutte le proprie scelte di vita il neandertal si estinse.
Altra sorte ebbe il sapiens, arrivato allo stesso appuntamento con tutti i requisiti, morfologici,
tecnologici e sociali, in regola. Stando alla scienza della complessità, la curva evolutiva che
rappresenta il crescere della sua organizzazione cognitiva balzò in un sol attimo verso l’alto con una
nuova pendenza. Un salto che giustifica l’osservazione secondo cui una situazione intermedia tra
mancanza e possesso di autocoscienza sarebbe inconcepibile. In quel momento il sapiens acquisì
una coscienza di ordine superiore (la nostra attuale). Una volta che la coscienza di ordine superiore
emerse insieme al linguaggio, poté essere costruito un Sè a partire dalle relazioni sociali e l’uomo
divenne in grado di acquisire conoscenza e consapevolezza.

KEY WORDS: evolution, consciousness, mind, language, cognitive psychology, neuropsychology,


Edelman, Tononi, neanderthaliensis.

SUMMARY. In this article the evolution of consciousness and mind will be analyzed according to
the model proposed by Edelman (Nobel prize for medicine) and Tononi.
Analysis of the development of the human cognitive system is made following the laws of
Prigogine’s non linear dynamics, Maturana’s and Varela evolutionary hypotheses, Mead’s
psychosocial ones and the most consolidated principles of cognitive psychology.
Palaeoanthropological, neurological, sociological and psychological evidence will be considered as
a function of the central hypothesis according to which consciousness is a process that is produced
only in particular evolutionary conditions through increase in cognitive complexity. With such an
aim, a hypothesis is formulated about the extinction of Neanderthal man based on the theory of
bifurcation (an extension of Darwin’s theory): in our opinion Homo sapiens and Neanderthal man
reached their critical cognitive complexity characterized from the point of speciation through
bifurcation foreseen because of their brain system. The former went towards a cognitive
reorganization of a paradigmatic type developing consciousness and mind on its way to the high
post bifurcation branch that marks evolution, the latter cognitive system collapsed, leading to a
catastrophe assimilable to that of the psychopathologies of today and decreeing his extinction. 2
According to the theory of Edelman and Tononi during embryogenesis one would be present at a
formation of genetically programmed cerebral areas differentiated in groups morphologically
distinct from those of other areas generating a “primary repertory”. After birth there would be a
second selection called “experiential selection” that comes from the environment and experiences of
life lived and tested. This second selection would introduce modifications within the cerebral
architecture in a way functional to stimuli coming from the external world giving life to a
“secondary repertory”. Gradually, the introduction of small modifications because of the increase of
the brain’s complexity and the level of the primary repertory would be at the origin of the
development of the characteristic of the consciousness of superior order of man.
According to this theory, at a certain point in our evolutionary history, the posterior areas of the
brain involved in perception were joined to the anterior areas responsible for memory based on the
value that gives rise to primary consciousness. A kind of consciousness, not exclusive to man, able
to produce a mental scene, an ability that considerably increases the hope of life of an organism
consisting in associating what is perceptively new (e.g. an unusual noise) to past experience (the
memory of the noise in other circumstances of life) and the value (positive or negative) which this
took on for the animal. Palaeoanthropological evidence confers this status on the australopithecine.
Then conceptual abilities developed i.e. the capacity to abstract a common denominator from
several elements. A basic cognitive operation for the construction of tools. And here we find H.
habilis, able to construct an abstraction from a percept.
A third evolutionary step was the development of a more intense socially interactive life that gave
the necessary presupposition to the evolutionary stimulus to the cortical and subcortical areas
assigned to phonological categorization and the memory of linguistic sounds. Only in this way can
be understood the appearance of the upper larynx space and the ability to produce co-articulated
linguistic sounds. However to make a symbolic exchange emerge in a linguistic community in
evolution it would not have been enough to have evolutionary opportunities and interactive
presupposition between co-specifics, but it was necessary for the precocious affective interaction of
mother and child to be generalized among the other members of the community. Then we have to
consider that superior vertebrates possess a neural system of values with non specific cortical
projection that originates in small groups of cells localized at the subcortical level. When the
organism is in a new situation or an unexpected one, the neural system of values discharges,
developing or inhibiting the activity of a large number of other neurons. A system that, used in a
relational key, generates the feeling of belonging to the community. Palaeoanthropological evidence
leads us to maintain that ergaster and erectus come into this evolutionary level, perhaps a co-
specific of heidelbergensis, besides habilis.
At this point the evolutionary stimulus toward the complexity undergone by the mind brought H.
sapiens and Neanderthaliensis to their appoinment with history.
Our hypothesis is that Neanderthaliensis came here without developing a sufficient cognitive
repertory of values because of a not ideally suitable hand, with a phonatory apparatus of reduced
versatility and with connections between – frontal, temporal and parietal areas – and – primary
and secondary cortex of each perceptive modality – indirect from the area of Broca and Werniche,
insufficient to guarantee him that improvement in quality characterized by acquiring consciousness
of a superior order. This introduced into him a cognitive catastrophe assimilable to today’s
psychiatric pathologies. Probably he began to no longer know how to use at the right moment what
he had acquired and to have abilities for problem solving no longer functional for the best
adaptation possible and indeed systematically began making mistaken choices. His mind, able to
associate as before and endowed with the cortical requirements acquired in the course of thousands
of years, having to turn to levels of inferior efficiency with superior structures, could only function
in a formally complete way but one that was essentially mistaken. By progressively making
mistakes in all his choices in life Neanderthal man became extinct.
H. sapiens had a different fate, having arrived for the same appointmet with all the morphological,
technological and social requiements in order. Obeying the science of complexity, the evolutionary 3
curve that represents the rise of his cognitive organization, jumped in a single second towards the
top with a new incline. The gradualist, sequential and adaptive Darwinian process played its
creative, leaping role in the construction of the basic character that separates us from the other
animals. A leap that justifies the observation that a situation midway between lack and possession of
self-consciousness would be inconceivable.
At that moment H. sapiens acquired a consciousness of a superior order (our current one). Once
that consciousness of a superior order emerged together with language, a Self could be made
starting from social relationships and man became able to acquire knowledge and self-awareness.
The springing up of this new plan of cognitive organization produced the successive adaptive
cascade of a technological – artistic – cultural nature, until then without precedent.

L’evoluzione della coscienza

Che cosa è la coscienza? In un modo o nell’altro tutti noi intuitivamente lo sappiamo: è quello stato
che ritroviamo la mattina al risveglio e che sembra andarsene la sera quando ci addormentiamo; uno
stato di veglia vigile con le sue caratteristiche corporee (so che il corpo è mio), d’identità (so di
avere una identità), di libero arbitrio (so di essere io a causare le mie azioni), spazio-temporale (so
di occupare un luogo nello spazio e nel tempo) attivo finché non passiamo allo stato di sonno.
Edelman e Tononi forniscono una teoria biologica e scientifica della coscienza e della mente
compatibile con la fisica e la teoria evoluzionistica (Gava, 1991, 53). Il loro lavoro si basa sulla
teoria del “darwinismo neurale” o “teoria della selezione dei gruppi neurali” secondo la quale:
a) l’emergenza delle funzioni cerebrali superiori dipende dalla selezione naturale e da altri
meccanismi evolutivi.
b) Principi selettivi affini a quelli dell’evoluzione operano nell’attività di ogni cervello umano ben
prima che esso funzioni nel rispetto della logica.
Si tratta di una concezione che viene definita selezionismo (Edelman, 2000, 20).
Sostanzialmente la teoria parte da tre concetti fondamentali:
1) durante l’embriogenesi si assisterebbe ad una formazione di aree cerebrali costituite da reti
neurali di 50-10000 neuroni che si differenzierebbero in gruppi morfologicamente distinti da quelli
di altre aree generando il “repertorio primario”. Sebbene le aree cerebrali siano pressappoco simili
per estensione e localizzazione in tutti gli uomini (es: l’area di Wernicke e l’area di Broca, deputate
al linguaggio presenti in tutti noi) ciascuna è caratterizzata da dendriti, assoni e connessioni
sinaptiche uniche. Queste aree, secondo i due ricercatori, si formerebbero per fattori genetici e
competizione selettiva tra cellule neuronali. “In tali sistemi esistono di regola molti differenti modi,
non necessariamente identici in senso strutturale, mediante i quali si può manifestare un segnale in
uscita” (Edelman, 2000, 103). Tale proprietà viene definita degenerazione. In altre parole, già
durante l’embriogenesi si assisterebbe alla creazione in ogni area cerebrale di “strade privilegiate”
(degenerate), specifiche di quell’individuo, attraverso cui far passare i segnali da elaborare. La
degenerazione neurale sarebbe la proprietà che consente di “costruire quella strada”.
2) Dopo la nascita avverrebbe una seconda selezione dovuta all’ambiente e alle esperienze che il
neonato inizia a fare. La “selezione esperienziale”. Mentre le strutture anatomiche rimarrebbero
inalterate, le connessioni entro e tra i gruppi neurali inizierebbero a modificarsi in modo
competitivo in funzione degli stimoli provenienti dal mondo esterno. Iniziando a variare forza ed
efficacia sinaptica i circuiti neurali verrebbero selezionati per generare segnali interni e rispondere a
stimoli esterni in maniera funzionale al miglior adattamento possibile per quell’individuo in
quell’ambiente. Questo secondo livello di degenerazione neurale costituirebbe il “repertorio
secondario”.
3) Però tutto ciò non sarebbe mai potuto accadere se ad un certo punto della nostra evoluzione le
aree posteriori del cervello implicate nella percezione non si fossero connesse alle aree anteriori
responsabili della memoria basata sul valore (Edelman, 2000, 121). Per valore i due neuroscienziati
intendono “gli aspetti fenotipici di un organismo selezionati nel corso dell’evoluzione che vincolano 4
gli eventi selettivi somatici” (Edelman, 2000, 105). Essere bipedi ed avere il pollice opponibile
favorisce di fatto certe connessioni sinaptiche a livello cerebrale piuttosto che altre; in più, i
vertebrati superiori possiedono un sistema di valori neurale. Questo sistema di valori a proiezione
corticale aspecifica origina in piccoli gruppi di cellule localizzate nelle appendici sottocorticali
(nuclei noradrenergici, serotoninergici, colinergici, dopaminergici e istaminergici) e scarica
ogniqualvolta un organismo è implicato in qualcosa di nuovo o inatteso. La loro azione consiste nel
modificare (potenziando o inibendo) l’attività di un gran numero di altri neuroni e gruppi neuronali
del cervello. La connessione tra aree posteriori ed anteriori, sarebbe avvenuta per consentire
l’interazione tra stimoli sensoriali, in arrivo dal presente, con i ricordi, categorizzati sulla base del
sistema dei valori, provenienti dalle esperienze passate che quell’organismo ha fatto nella sua vita.
E’ il “presente ricordato”.
Questa idea, il collegamento tra aree cerebrali che permette la sincronizzazione di gruppi neuronali
appartenenti a mappe cerebrali diverse, chiamato rientro, costituisce la chiave di volta che consente
di pensare alla coscienza ed alla mente in assenza di homunculus. Il rientro sarebbe l’elemento che
connette (competitivamente) mappe cerebrali distinte. In altre parole, essendo una mappa,
sostanzialmente, un gruppo di neuroni opportunamente cablato per scaricare assieme, ed il rientro,
la connessione (competitiva) tra mappe i cui gruppi neuronali scaricano in maniera sincrona, il
cervello, ad un certo punto dell’evoluzione, sarebbe venuto a trovarsi dotato di una specie di
capacità autoriflessiva. Attraverso il rientro, “uno schema di connessioni reciproco e
massicciamente in parallelo tra aree cerebrali” (Edelman, 2000, 102), per costruzioni progressive, si
arriverebbe poi ad un mappaggio globale (Edelman, 2000, 114) costituito da rientri tra molteplici
mappe ed una forma di “rientro” più globale, “esterno”, costituito dall’interrelazione tra l’intero
organismo e l’ambiente (Gava, 1991, 55).
Il presente ricordato costituirebbe il prodotto di quello che i due neuroscienziati chiamano
“coscienza primaria”, una sorta di coscienza che si “riscontra in animali dotati di alcune strutture
cerebrali simili alle nostre” (Edelman, 2000, 121).
La ”coscienza di ordine superiore”, stadio evolutivo successivo, “richiede come requisito minimo
una capacità semantica e, nella sua forma più sviluppata, una capacità linguistica” (Edelman, 2000,
121). Benché l’animale abbia un ricordo dell’esperienza passata e lo connetta a quella presente,
mancherebbe sostanzialmente di un concetto di passato e di futuro che include se stesso, come
soggetto, nel tempo. Sarebbe quindi dotato di individualità biologica ma mancherebbe di un vero
senso del sé. “L’animale conosce, ma l’uomo soltanto sa di conoscere” (Eccles, 1978, 112). Per
possedere un Sé occorre essere capaci di porsi ad oggetto della propria attenzione, individuarsi così
come vengono individuati gli oggetti esterni (Guidano, 1988, 24).
Il concetto di passato e futuro ha iniziato ad emergere nell’uomo “solo quando le facoltà semantiche
– le capacità di esprimere i sentimenti e di riferirsi a oggetti ed eventi con mezzi simbolici – hanno
fatto la loro comparsa con l’evoluzione” (Edelman, 2000, 234).
“Una volta che la coscienza di ordine superiore emerge insieme al linguaggio, può essere costruito
un sé a partire dalle relazioni sociali ed affettive” (Edelman, 2000, 238).

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Coscienza, modello Edelman-Tononi
Non se – segnali provenienti dal mondo esterno
Se - sistemi omeostatici inclusa la propriocezione

Tronco cerebrale, ipotalamo, Corteccia primaria e


centri autonomi secondaria in ciascuna
modalità

registrazione neurale di categorizzazione


stati interni percettiva

Correlazione nel setto, Aree di


amigdala, ippocampo etc…. Broca e
Wernicke

Coscienza di Coscienza primaria


ordine superiore

Loop rientrante che


Categorizzazione Memoria speciale, connette la memoria
concettuale categorica e di valore, nelle categorica e di valore
aree frontali, temporali e alla categorizzazione
parietali percettiva

La lunga marcia

Sembra assodato che “l’animale” uomo è riuscito a sopravvivere e poi a primeggiare sugli altri non
grazie a particolari armi difensive o di attacco (unghie, denti o corazze) né per una muscolatura
particolarmente possente o veloce ma esclusivamente in virtù del più formidabile degli strumenti di
adattamento, la mente. Dove con questo termine s’intende il substrato immateriale del cervello. Ma
come si è potuta sviluppare a partire da un abbozzo di cellule recettrici, effettrici e di collegamento?
I) Secondo la teoria di Edelman e Tononi un primo passo è avvenuto quando le aree posteriori
del cervello si sono collegate attraverso il rientro con quelle anteriori dando luogo alla coscienza
primaria;
II) poi è avvenuto lo sviluppo delle abilità concettuali, ovvero della capacità di “combinare
differenti categorizzazioni percettive correlate a una scena o a un oggetto e di costruire un
‘universale’ che rifletta l’astrazione di un carattere comune dopo un serie di tali percetti” (Edelman,
2000, 124). Il primo vero prodotto mentale. L’astrazione di tratti comuni, concetti (Edelman, 2000,
121, 123-5, 260-1), dettagli generalizzati da segnali differenti (ad es: tutti gli uomini per quanto
diversi hanno caratteri generali simili - 1 testa, 2 braccia, 2 gambe, 1 tronco), in ottica
epistemologica evolutiva (Campbell, 1974; Guidano, 1988; Lorenz, 1974; Piaget, 1983; Popper,
1975; Popper, 1981), tale processo inizia a dare la possibilità all’uomo (così come a qualsiasi altro
animale) di costruire un proprio processo di conoscenza del mondo “agganciato” al presente;
III) ma per cogliere appieno quest’opportunità è stato necessario un terzo passo evolutivo
costituito dallo sviluppo di una più intensa vita interattiva sociale. La vita sociale costituisce il
presupposto alla spinta evolutiva delle “aree corticali e sottocorticali deputate alla categorizzazione
fonologica e al ricordo dei suoni linguistici” (Edelman, 2000, 236). Il tutto, ovviamente, 6
accompagnato dalla comparsa dello spazio sopralaringeo e dalla capacità di produrre suoni
linguistici coarticolati;
IV) tuttavia per far emergere uno scambio simbolico in una comunità linguistica in evoluzione
non sarebbe bastato avere opportunità evolutive e presupposti interattivi tra cospecifici, un “altro
ingrediente” era necessario. La precoce relazione emozionale madre figlio.
La nostra specie è caratterizzata dal nascere con un sistema nervoso immaturo e dall’avere un lungo
periodo di neotenia. Entro il settimo mese di vita si sviluppa in quasi tutti gli uomini (e in tempi
diversi in quasi tutti gli esseri viventi) una forma di attaccamento al caregiver che, dal punto di vista
strettamente evolutivo, ne determina la sopravvivenza (Hoffer, 1994, 192-207) e, nell’uomo,
“incide” profondamente l’organizzazione cognitiva. Un’ “incisione” che influenzerà quella mente
per tutto il resto della sua vita (Reda, 1986). “Oltre a svolgere un ruolo cruciale nell’aiutare il
bambino a organizzare le sue esperienze, i rapporti di attaccamento influenzano profondamente lo
sviluppo dei suoi circuiti neurali, e hanno effetti diretti sulla maturazione delle attività cerebrali che
mediano processi mentali fondamentali: memoria, narrativa autobiografica, emozioni,
rappresentazioni e stati della mente” (Siegel, 2001, 70). Prima di poter trasformare sconnessi suoni
gutturali in parole si rendeva necessario quindi possedere un più sofisticato sistema di valori
sociale.
Quando ciò avvenne, la componente affettiva associata alla relazione con la madre funse da
prototipo per quella coi cospecifici ed il gruppo dei primati iniziò ad essere dominato dal fattore
emotivo (Kelsen, 1992). In origine fu certamente il fattore emotivo a regnare incontrastato nella vita
mentale e sociale dell’uomo (Wundt, 1910, 60). Tuttavia, sebbene comportamenti di attaccamento-
accudimento possono essere ravvisati in tutte le specie e che nei primati sociali superiori si può
assistere anche a rituali “affettivi” di interazione (es. rituali di pulizia tra scimmie), basta solo
considerare la loro mancanza di versatilità fonatoria per trovarsi di fronte ad un serio stop evolutivo
dell’intero processo di sviluppo di quella mente/cervello in quella specie. Ma l’uomo stava
iniziando a possedere anche organi vocali funzionalmente versatili e una muscolatura fonatoria
sufficientemente atta ad articolare molteplici suoni;
il passo successivo fu imparare ad usare tutto ciò. Nel descrivere la nascita del principio di realtà
nell’uomo Freud scrisse: “con l’aumentare di importanza della realtà esterna aumentò anche quella
degli organi di senso rivolti al mondo esterno e quella della coscienza ad essi collegata. …. Una
‘speciale funzione’ si venne ad istituire con lo scopo di esplorare periodicamente il mondo esterno
in modo che i dati di questo fossero già familiari quando un improrogabile bisogno interno si
venisse a presentare; questa funzione era l’attenzione. … Contemporaneamente si venne forse ad
instaurare un sistema di annotazione, avente il compito di immagazzinare i risultati di tale periodica
attività di coscienza: una parte di quello che noi chiamiamo ricordo” (Musatti, 1959). Questa
“speciale funzione”, che ha come oggetto le percezioni, esegue operazioni su tutte le impressioni
sensoriali, quali che siano (Bion, 1994, 27), e quindi anche su tutte le emozioni che il soggetto
prova, collegando (associando) impressioni sensoriali esterne a quelle interne e viceversa. Creando
di fatto un secondo livello di analisi mentale. Un metalivello adatto alla percezione riflessiva di sé,
all’autopercezione. Così, con la capacità di immagazzinare impressioni sensoriali ed emozioni
l’unità di scambio evolse (da un gesto, un comportamento, un rituale complesso, un suono, un
segno-disegno, una frase primitiva, una parola atomo) e dai gesti si passò alle parole (Taylor,
1985). “Parlare deve essere quindi considerato come la potenzialità di due diverse attività; una delle
quali sarebbe una modalità di comunicazione dei pensieri e l’altra un impiego della muscolatura per
liberare la personalità dai pensieri” (Bion, 1994, 145). Una personalità, probabilmente determinata
in maniera quasi esclusiva (se si assume l’analogia tra cultura primitiva e antica) dal fattore emotivo
(Kelsen, 1992, 17). L’organo fonatorio con la sua enorme varietà di vocalizzi producibili fornì
all’uomo uno strumento più flessibile della “visione del gesto” per comunicare, a patto che ad una
serie di suoni (o ad uno di essi) fosse sempre associato il medesimo oggetto (per questo serviva
memoria ed attenzione).
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Gestualità e comportamenti da una parte e tendenza verso la costanza di riferimento all’oggetto
dall’altra iniziarono ad assicurare a quei vocalizzi una transizione tra menti dotata di senso.
Al posto di: azioni orientate - atti fonatori.
In questo stadio esiste però una sorta di linguaggio che non dobbiamo confondere con quello che il
senso comune intende con tale termine. Se assumiamo che lo sviluppo umano in un certo senso
riepiloghi la filogenesi possiamo paragonare questo stadio a quello del linguaggio olofrastico che
interviene circa nei primi tre anni di vita. Il neonato, sulla base del rapporto di attaccamento alla
madre, la quale tiene un modo di rivolgersi a lui particolare (Fernald, 1984, 104-113) chiamato
motherese (rimarcando spesso e con maggior forza le parole, parlando più lentamente, con
espressioni facciali amplificate etc..), impara a segmentare il flusso linguistico in parole ed a tener
di conto di dove cadono gli accenti. Una volta capace di identificare le parole potrà poi usarne una
alla volta. Ma il loro significato non è ancora acontestuale, simbolico. La parola non ha ancora un
significato univoco, ad es: “latte” può significare: voglio ancora latte, oppure, dov’è il latte? a
seconda della situazione nella quale il bambino si trova. In quella parola è racchiuso l’intero
messaggio il cui significato non è però ancora dotato di una funzione descrittiva (descrivere
adeguatamente una cosa) o argomentativa (utilizzata per controllare l’adeguatezza delle teorie
sviluppate) (Popper, 1975; Popper, 1981). In questo stadio non sono ancora sufficientemente
sviluppate né le strutture fonatorie, la cavità orale è ancora troppo piccola, la lingua occupa molto
spazio e la laringe è ancora in una posizione alta nella gola (quindi è possibile produrre solo una
quantità limitata di suoni) in più la complessità della mente si colloca (tra i 2 ed i 3 anni) tra uno
stadio cognitivo definito sensomotorio, “basato anzitutto sulla percezione e azione”, ed uno
preoperatorio, stadio che viene raggiunto per Piaget con la “consapevolezza che gli oggetti e le
persone hanno un’esistenza permanente” e non cessano di esistere quando escono dal campo visivo
(Darley, 1993, 32). Il linguaggio è quindi in questa fase ancora prevalentemente “analogico” e non
squisitamente “digitale” come quello della comunicazione adulta.
Numerosi esperimenti effettuati su scimmie alle quali veniva insegnato l’ American Singh
Language, ad es. in quelli celebri dei coniugi Gardner e Gardner con Washoe, o il linguaggio
geometrico di una tastiera che rappresentava parole appreso da Sarah (allenata da David Premack
dell'University di California, Santa Barbara) usato anche nella più recente ricerca sul bonobo Kanzy
(Rumbaugh, 2003, 128-143) educato con la madre dall’età di 6 mesi (corrispondente ai 2 anni
umani) dimostrano che anche i primati sarebbero in grado di acquisire limitate, seppur sorprendenti,
capacità linguistiche. Ma non ancora il linguaggio. Come sostiene Dunbar (Dunbar, 1996) non vi
sarebbe negli scimpanzé sufficiente neocorteccia rispetto alla massa cerebrale per raggiungere tale
abilità.
L’attività simbolica vera e propria fiorì forse qualche milione di anni fa quando all’oggetto reale si
sostituì - in maniera completa - (in senso digitale) il suo prodotto linguistico (simbolo). In altre
parole, quando per pensare ad un elefante non vi fu più bisogno di avere un elefante di fronte o di
contestualizzarne col comportamento il significato (come potrebbe avvenire nei bambini di 2-3
anni) perché l’idea di elefante (ossia il suo simbolo) associata alla sua rappresentazione fonetica (le
strutture anatomiche preposte ad emettere suoni dovevano già essere presenti ed efficienti,
ovviamente) era già stata catalogata nel cervello in una rete di sinapsi e, parallelamente, erano già
pronte le vie per rendere tale idea gestibile in una catena associativa.
Tornando allo sviluppo delle capacità umane, dopo la forma di linguaggio olofrastico vi è il
linguaggio telegrafico (2-3 parole unite) che interviene tra i 2 e i 3 anni (Datley, 1993, 339) e solo
successivamente si raggiunge finalmente il linguaggio vero e proprio (così come lo intendiamo con
tale termine).
Quando venne raggiunto il linguaggio vero e proprio, migliaia di anni fa, la “selezione di più ampi
repertori in parti della corteccia: l’area di Wernicke, l’area di Broca e gli anelli sottocorticali
associati” (Edelman, 2000, 237) divenne completamente attiva. Sebbene sia possibile rintracciare
strutture corticali e sottocorticali deputate alla categorizzazione fonologica e al ricordo di suoni
linguistici anche in antecedenti solo ad un certo punto evolutivo divennero funzionalmente collegate 8
alle aree responsabili della formazione dei concetti (Edelman, 2000, 236). Per concetto intendiamo
la capacità di astrarre un universale che rifletta un carattere comune tra vari percetti (Edelman,
2000, 124), prerequisito fondamentale per la creazione del simbolo linguistico.
Con il proliferare della dimensione verbale lo spazio concettuale si ampliò enormemente e con esso
la “speciale funzione che ha come oggetto le percezioni” poté poi avere come oggetto anche il sé e
divenire autoriflessiva. Tornando alle fasi dello sviluppo umano, sappiamo che il bambino acquista
una teoria della mente proprio intorno all’età di 3-4 anni, vale a dire la capacità di attribuire stati
mentali intenzionali (desideri) o epistemici (credenze) a sé e agli altri e di prevedere il
comportamento proprio o altrui sulla base di tali stati interni (Battistelli, 1994). Gli esseri umani
hanno sviluppato questa capacità perché “la vita dei nostri progenitori, membri di una specie
intensamente sociale, collaborativa e competitiva, dipendeva da quanto bene riuscissero
reciprocamente a inferire ciò che era nella mente l’uno dell’altro” (Battacchi, 1995, introduzione). E
questo fu l’evento che sancì l’emergere della coscienza di ordine superiore.
V) Una volta che la coscienza di ordine superiore emerse insieme al linguaggio poté essere
costruito un sé a partire dalle relazioni sociali e affettive (Edelman, 2000, 238). A questo punto vi fu
una specie di rivoluzione paradigmatica (Kuhn, 1978) dove tutto venne reiterpretato alla luce di una
nuova acquisizione: la coscienza di ordine superiore. Una situazione intermedia tra mancanza e
possesso di autocoscienza è inconcepibile (Eccles, 1978, 114). Quello che avvenne fu una specie di
salto quantico senza precedenti (un po’ come se acquisissimo la telepatia … non avrebbe più senso
parlare, … e a chissà quali sconvolgimenti cerebrali e anatomici andremmo incontro).
Quando ciò avvenne, alle capacità di esprimere sentimenti e riferirsi ad oggetti ed eventi con mezzi
simbolici (facoltà semantiche) si unirono versatili abilità linguistiche (facoltà sintattiche) facendo,
di fatto, divenire possibile essere oggetto autoriflessivo della propria conoscenza, avere un sé,
ovvero, essere coscienti della propria coscienza (Edelman, 2000, 234). E con la “coscienza di
ordine superiore” (…la nostra attuale …) si assunse la capacità di svincolarsi dalla schiavitù del
presente ricordato attraverso la “creazione dei concetti di tempo passato e di tempo futuro”
(Edelman, 2000, 235). Sapere che - siamo ciò che siamo - permette di riferirci a ciò che eravamo e
immaginare ciò che saremo. Con la capacità di prevedere fu possibile essere consapevoli
dell’intenzionalità e con essa il comportamento, basato su aspettative positive e negative, divenne
socialmente più complesso.
In sintesi, con questo passo evolutivo, gli ominidi iniziarono a disporre di un nuovo anello
rientrante (Edelman, 2000, 128) in grado di collegare le aree cerebrali posteriori (corteccia primaria
e secondaria) dedite all’analisi dei segnali provenienti dal mondo esterno, il Non-sé, con quelle
anteriori (frontali, temporali e parietali), che presiedono la categorizzazione concettuale basata sul
valore, passando attraverso le aree deputate all’elaborazione linguistica (aree di Broca, Wernicke e
anelli sottocorticali associati). Tale anello di rientro, che fece emergere la coscienza di ordine
superiore, sormontò quello che già caratterizzava la coscienza primaria (Edelman, Tononi, 2000,
234).

L’evoluzione della coscienza e della mente nell’uomo

Seguendo l’elenco dei 6 passaggi trattati nel paragrafo precedente possiamo riordinare i maggiori
ritrovamenti paleoantropologici in una nuova logica, funzionale all’evoluzione verso uno stato di
coscienza di ordine superiore, secondo il modello proposto da Edelman e Tononi.
I) Faremo iniziare la storia della nostra mente da Lucy (australopiteco afarensis), il reperto più
intatto e meglio conservato fin ora ritrovato (sebbene altri siti abbiano restituito resti riconducibili
ad ominidi molto più antichi) Mallegni, 2004), una femmina alta circa 1metro e 25, con una scatola
cranica tra i 400 e i 450 cc e con una struttura fisica capace di arrampicarsi con facilità, mani e piedi
ad ossa ricurve (adatte per salire sugli alberi), ed andatura bipede (Johanson, 1976, 293-297;
Leakey, 1979, 446-457). Tale andatura e la mano prensile lasciata libera di occuparsi di altro che 9
non sia il traslocare il corpo nello spazio iniziarono a permettere a quei 400-450 cc. di indirizzare la
propria organizzazione neurale nella direzione di certe associazioni piuttosto che altre”. I valori
trattati da Edelman-Tononi.
Tuttavia, è bene ricordare che bisogna arrivare al sapiens per avere un modello di mano dalla
versatilità tale da possedere le nostre piene potenzialità. Si tratterebbe quindi di eventi fenotipici che
vincolano aspetti somatici neuronali, ovvero valori (nel senso di Edelman Tononi), non
riconducibili, se non per difetto, a quelli degli umani odierni.
Lucy nacque sicuramente con un “repertorio primario” costituito da un numero di neuroni inferiori
al nostro, con aree cerebrali simili alle nostre (considerato che in psicologia sperimentale si tende ad
assumere che quello della scimmia è un buon prototipo di cervello umano) e degenerazioni
funzionali alla propria natura di “scimmia evoluta”. Dai resti scoperti vicino a lei, dei corpi di
statura maggiore, probabilmente maschi, e dalle osservazioni sui primati, possiamo
ragionevolmente dedurre che vivesse in piccoli gruppi e che per sopravvivere durante l’infanzia
venisse accudita da un caregiver. Ciò porta a concludere che dovesse esservi una spinta ad un
“repertorio secondario” che privilegiasse quantomeno le funzioni oculomanuali e di conseguenza la
deambulazione bipede. Se assumiamo il parallelismo coi primati come valido possiamo sostenere
che questo ominide possedesse già una “coscienza primaria” forse pari o di poco superiore a quella
delle odierne scimmie. Capace di costruire una scena mentale. Fasci di fibre cortico-corticali
dipartendo verso il talamo creavano un gran numero di connessioni reciproche e, all’interno di
questo, dai nuclei specifici (serotoninergici, adrenergici etc..), che non comunicano direttamente tra
loro, verso la corteccia (Edelman, 2000, 127) si andavano creando connessioni in grado di costruire
una scena mentale.
La capacità degli animali di costruire scene mentali basate sulla propria esperienza aumenta
considerevolmente la loro speranza di vita (Edelman, 2000, 129). In una frazione di secondo ciò che
è percettivamente nuovo (es. rumore insolito) viene associato all’esperienza passata (ricordo del
rumore) ed al valore (positivo o negativo) che ha avuto per quell’organismo creando una scena
mentale.
II) Verso i 2 milioni e 500 mila anni fa compare l’Homo habilis (Johanson et al, 1978, 1-14;
Leakey, 1964, 7-9) il quale, con una scatola cranica tra i 650-775 cc., è considerato il primo
membro del genere Homo. Il motivo di questo “salto di qualità” è che accanto ai suoi resti i
ricercatori trovarono utensili in pietra della categoria choppers e flakers (raschiatoi ad una sola
faccia tagliente e lame), i primi utensili (Mallegni, 2004). Se siamo stati cauti nell’affermare che
l’afarensis potesse possedere abilità concettuali è solo perché non sono mai stati trovati strumenti in
pietra in stretta connessione con resti di Australopiteco, anche se sono stati rinvenuti utensili più
arcaici, quelli della Omo Valley, di Gona (Toth, 1986, 1-96) e di Hadar (Harris, 1983, 3-31), in
Etiopia, datati tra i 2 milioni e 500 mila e i 3 milioni e 100 mila anni fa, che potrebbero indurci
legittimamente a pensarlo, ma sicuramente l’habilis doveva possederne. I suoi strumenti dimostrano
senza ombra di dubbio che riusciva a costruire un’astrazione a partire da un percetto. Quindi
possedeva una memoria concettuale evoluta e sicuramente una “coscienza primaria” con un livello
d’integrazione funzionale superiore ai primati odierni. I primati che conosciamo non sembrano
capaci di fabbricare utensili, li trovano nella giungla sottoforma di rametti, sassi, legni etc.. e li
abbandonano dopo l’uso (Lawich Goodall, 1986). Alcuni di questi l’H. habilis se li preparava con
altri utensili. Usare utensili per scheggiarne altri significa avere una qualche forma di conoscenza
dei propri limiti e quindi una rudimentale proto-autoconsapevolezza di Sé. Una mente un po’ più
“sofisticata” ma con un processo di conoscenza ancora “fermo” al presente ricordato.
III) Il primo antenato dell’uomo, l’ominide vissuto tra i 2 milioni e 1 milione e 800 mila anni fa,
H. habilis, con una coscienza di tipo primario, più evoluta degli odierni primati non umani, iniziava
a sviluppare tutto il repertorio di qualità che questo processo mentale consentiva. Per iniziare,
maggiori abilità sociali.
Se H. habilis produceva utensili doveva possedere in una certa misura un pensiero causale evoluto,
tuttavia, afferma H. Kelsen, “la causalità non è - come sostiene Kant – una ‘nozione innata’. … I 10
popoli primitivi la ignorano. La natura, e quindi i fatti che l’uomo civile concepisce come un
sistema di elementi legati l’uno all’altro secondo il principio di causalità, è interpretata dall’uomo
primitivo secondo uno schema totalmente diverso. Il primitivo interpreta la natura in base alle
norme sociali” (Kelsen, 1992, 13). Se riteniamo l’H. habilis, più primitivo degli odierni primitivi, di
conseguenza possiamo pensare che doveva vivere in piccoli gruppi sociali, forse clan di una o
poche famiglie, dominate dall’istintualità e dall’emotività (Kelsen, 1992, 17-83). Quindi, a questo
punto evolutivo, la sua mente doveva già disporre di un ricco repertorio di connessioni tra aree
percettive posteriori e aree deputate alla categorizzazione valoriale.
L’H. habilis riceve in dote un processo mentale capace di “pianificare e collegare in modo
costruttivo e adattativo contingenze nei termini della sua storia pregressa di comportamenti guidati
dal valore. A differenza dei suoi antenati sarebbe più selettivo nella scelta delle risposte in un
ambiente complesso” (Kelsen, 1992, 129-130). Una mente dominata da categorizzazione valoriale
determinava però una vita sociale caratterizzata “dall’alterno fluttuare del desiderio e della paura”
(Kelsen, 1992, 24).
Così facendo inizia ad interpretare i fatti della natura in chiave sociale cosa che darà origine, dopo
l’avvento della coscienza di ordine superiore, alla superstizione alla mitologia e alle religioni.
A questo livello di pensiero non vi sarebbe distinzione tra individuo e comunità (Kelsen, 1992, 38):
gli oggetti personali vengono collegati all’individuo in quanto “a lui legati perché la sostanza della
sua personalità si è trasferita in essi” (concezione che determinerà poi la radice della magia, del
rituale sacro e magico). Manca autocoscienza ma si sviluppa una sorta di coscienza collettiva basata
sul legame tra membri e sull’imitazione-“comunicazione”. Il primo che costruì interamente da sé un
chopper “comunicò” come fare agli altri così come gli scimpanzé del Gombe National Park usano
fare per i bastoncini utili alla caccia delle termiti. Attraverso apprendimento per imitazione.
L’elemento sociale diveniva primario per lo sviluppo di quell’unico organo capace di far
sopravvivere un organismo con ridotta capacità offensiva e difensiva. Solo se consideriamo
l’elemento sociale primario, e non di derivazione funzionale (evitando di confondere funzione con
causa), si può comprendere la comparsa dello spazio sopralarigeo e la capacità di produrre suoni
linguistici coarticolati. Come esporremo poi, qualsiasi elemento che accresca la propria complessità
si trova a dover fare i conti con biforcazioni evolutive che spingono o verso una reinterpretazione in
chiave evoluta ,…. o verso l’estinzione.
IV) Parallelamente al fatto che il sistema di valori iniziava ad agire in chiave relazionale,
l’accudimento-attaccamento, geneticamente preprogrammato, operava selezionando gruppi neurali
evolutivamente funzionali alla vita sociale oltre che alla sopravvivenza dell’individuo. Qui di
seguito esporremo come la dimensione dell’attaccamento sia stata fondamentale nello sviluppo
delle capacità cognitive dell’uomo sottolineando l’esistenza di un marcato parallelismo a proposito
dei primati non umani (Suomi, 2000, 237-256; Suomi, 1999, 181-197). “L’attaccamento si basa su
meccanismi cerebrali innati che spingono il bambino a cercare la vicinanza dei genitori (o in
generale delle persone che principalmente si prendono cura di lui) e a stabilire una comunicazione
con loro, instaurando dei rapporti che influenzano lo sviluppo e l’organizzazione dei suoi processi
motivazionali, emotivi e mnemonici” (Bowlby, 1972).
La mente può essere anche considerata flusso di informazioni (Poster, 1990) ed in questo senso, in
grado di processare gli input che riceve. Tali input si organizzano in tre forme fondamentali di
rappresentazioni: sensoriali-percettive, concettuali e linguistiche (Poster, 1991; Edelman, 2000)
(così divise perché utilizzano circuiti cerebrali diversi) a partire da dati che riguardano il mondo
esterno e interno. L’integrazione di queste informazioni in un insieme dotato di coerenza costituisce
uno dei compiti fondamentali della mente. Questa tendenza ad aggregare che permette di avere una
visione coerente del mondo si sviluppa nell’infanzia a partire dai rapporti interpersonali, “le
esperienze interpersonali influenzano direttamente le modalità con cui ricostruiamo mentalmente la
realtà” (Siegel, 2001, 3). Questi processi, attivi per tutta la vita, sono determinanti per regolare le
dinamiche neurobiologiche interne tanto che, sul modello animale, è stato dimostrato che bastano
tempi ridotti di deprivazione materna in periodo neonatale per ottenere notevoli effetti disregolativi 11
neuroendocrini che condizionano le successive capacità di reagire ad eventi stressanti (Post, 1997,
907-930; Post, 1998) riducendo, di fatto, la fitness di quell’organismo.
Pattern ripetitivi d’interazione genitore figlio agiscono direttamente sulle modalità dei processi
rappresentazionali di quest’ultimo influenzando lo sviluppo e l’organizzazione dei suoi processi
motivazionali, emotivi e mnemonici (Bowlby, 1972). In questa maniera le esperienze interpersonali
influenzano i processi neurobiologici del cervello del bambino all’interno delle interazioni con la
figura di attaccamento (Siegel, 2001, 79). E’ così che “connessioni umane portano alla creazione di
connessioni neurali” (Siegel, 2001, 88).
Nei neonati “la sovra-produzione di sinapsi è controllata geneticamente, ma il loro mantenimento o
la loro eliminazione dipendono direttamente da fattori di natura ambientale. Chiaramente, ciò
implica che negli individui in cui il sistema limbico è di per sé geneticamente programmato ad una
sotto-produzione di sinapsi, il sovrapporsi di condizioni di sviluppo che inducono un’eccessiva
eliminazione di terminazioni sinaptiche porta allo stabilirsi di un quadro ad alto rischio” (Schore,
1997, 595-631). Per questo motivo neonati o bambini maltrattati, abusati o abbandonati spesso
diventano adulti problematici o psicolabili.
Durante la vita l’individuo svilupperà poi una molteplicità di rapporti interpersonali tutti basati su
quel prototipo d’interazione, tra i quali alcuni importanti. Soprattutto in questi ultimi avrà un peso
maggiore il legame caratterizzato dal “modello operativo interno di attaccamento” che ha sviluppato
durante l’infanzia.
In questo IV cluster rientrano tutti gli ominidi capaci di usare utensili per costruire utensili e in
possesso di una sorta di vita sociale, e di conseguenza di un prototipo d’interazione fornito dalla
relazione di attaccamento-accudimento. Tale prototipo, unito alle acquisite abilità concettuali, può
anche aver fornito la spinta verso una forma rudimentale di protolinguaggio che però, possiamo
ritenere, non andò oltre (se non altro per la conformazione della cavità orale) all’equivalente dei
primi prodotti olofrastici dei neonati umani. Rientrano qui l'ergaster e l’eretcus, genere Homo con
un cervello il 33% più grande (Beals, 1984, 301-330), esemplari che non hanno lasciato traccia di
maggior intelligenza rispetto all’habilis. Le loro abilità manifatturiere nel costruire utensili ed il loro
progresso tecnologico non sembrano migliori di quelle di quest’ultimo, tuttavia vi sono alcune
evidenze che provano che l’erectus, forse cospecifico dell’heidelbergensis, avesse cominciato ad
avere un certo controllo del fuoco (Binford, 1987, 453-475). Si può supporre quindi una forte spinta
evolutiva alla convivialità, alla relazione e allo scambio comunicativo. Per questo possiamo
presumere il possesso di una sorta di protolinguaggio olofrasico. Immaginiamo allora una piccola
tribù che si stringe intorno al fuoco per scaldarsi, seduti tutti in cerchio, ciascuno con l’altro di
fronte, in grado vedere dietro le sue spalle. La miglior condizione possibile per la comunicazione e
la difesa ed al contempo ottimale per la creazione di un forte legame di fiducia reciproca ed
attaccamento. Situazione idonea a far sorgere la comunicazione a partire da olofrasi. L’ideale per
passare da rappresentazioni sensoriali a rappresentazioni categoriche, ….seppur non ancora
squisitamente linguistiche.
L’erectus non sembra però possedere un apparato fonatorio tanto diverso da quello dell’habilis e
nemmeno da quello del suo successore che a lui subentrò qualche decina di migliaia di anni prima
dei 200.000 anni fa, l’Homo sapiens arcaico, il quale non differisce dal precedente nemmeno in
manufatti e tecnologia. L’unica diversità sostanziale sembra risiedere nella conformazione del
cranio, più arrotondato e senza strutture grossolane come i tori frontale e occipitale e con facciale
decisamente avviato ad un volume minore (Mallegni, 2004).
L’evoluzione della mente era ancora assorta in compiti relazionali sociali.

Adattamento autopoietico e teoria dei sistemi non lineari

“Il cervello di un essere umano adulto pesa in media 1350 grammi e contiene circa 100 miliardi di
cellule nervose, o neuroni. Il mantello corrugato più esterno del nostro cervello e di più recente
evoluzione – la corteccia cerebrale – contiene circa 30 miliardi di neuroni e un milione di miliardi 12
di connessioni, o sinapsi. Se contassimo una sinapsi al secondo, finiremmo il nostro conteggio tra
32 milioni di anni. Se considerassimo poi il numero di possibili circuiti neurali, avremmo a che fare
con cifre iperastronomiche: un 10 seguito da almeno un milione di zeri. Nell’universo conosciuto
esiste un numero di particelle pari a 10 seguito da una coda di 79 zeri” (Edelman, 2000, 46).
Dobbiamo anche considerare che i sistemi biologici non sono sistemi isolati e allora la loro
complessità diventa veramente iperbolica. In fisica si considera isolato un sistema che non può
scambiare energia o materia con l’ambiente conservando sempre e inequivocabilmente la propria
configurazione esterna. Ma i sistemi biologici sono aperti, sono in divenire, assimilano sostanze
nutrienti, trasformano energia e informazione in un “dialogo” continuo con l’ambiente. Sono
sistemi non isolati che si sviluppano nella direzione di un sempre maggior grado di complessità
(Cramer, 1975, 56). O meglio, i sistemi umani sono autopoietici (Maturana, 1988; Maturana, 1987),
ovvero, termodinamicamente aperti ma organizzativamente chiusi. L’apertura si riferisce agli
scambi con l’ambiente esterno; la chiusura alla ciclicità dell’ordine che definisce l’organizzazione
di un sistema, ovvero all’insieme di reazioni costitutive dell’identità di un sistema.
L’organizzazione di un sistema è data da quelle relazioni fra le sue componenti che devono restare
invarianti affinché si mantenga l’identità del sistema. Altrimenti il sistema stesso muore oppure
diventa qualcos’altro (Maturana, 1987, 17).
Il modo attraverso cui questa organizzazione si manifesta nel mondo è detto struttura (Maturana,
1987, 17). Mentre l’organizzazione non deve variare per mantenere quel sistema in quella classe, la
struttura subisce continui cambiamenti per garantirne l’invarianza (Maturana, 1987, 18).
Per fare un esempio: nel serbatoio per distribuzione dell’acqua del bagno di casa (Maturana, 1987,
62), l’organizzazione del sistema ne fissa il livello per mezzo di comandi di accesso/svuotamento
che agiscono su meccanismi di plastica e metallo (galleggiante e valvola di flusso), la struttura.
L’organizzazione rimane tale anche se la struttura cambia e viene fatta d’oro e legno pregiato.
Queste considerazioni, fatte da Maturana e Varela, finiscono per ridefinire il concetto stesso di
adattamento; cercheremo brevemente di illustrare come.
Quale che sia l’indagine che si appronta sul vivente, la logica alla base di ogni ragionamento si
espleta nell’assioma secondo cui: è l’ambiente causa prima dei cambiamenti di un sistema; per
conseguenza “l’adattamento è definito come una risposta del sistema alle esigenze dell’ambiente”
(Maturana, 1987, 18). Maturana e Varela invece realizzano “un vero e proprio capovolgimento di
prospettiva, e ciò che diviene primario nella definizione della nozione di adattamento è la
conservazione dell’autonomia del sistema, cioè la conservazione della chiusura dei cicli vitali che
definiscono la sua organizzazione” (Maturana, 1987, 18).
Se noi consideriamo il nostro sistema nervoso, vi sono circa 100 milioni di recettori sensitivi e circa
10 mila miliardi di sinapsi, ciò significa che siamo 100.000 volte più ricettivi ai cambiamenti interni
piuttosto che a quelli esterni (Foerster, 1978, 226). Ciò denuncia quanto sia “conservativo”,
tendente al’invarianza, al mantenimento dell’organizzazione interna, il nostro sistema. Questo vuol
dire che ogni cambiamento della dinamica interna del sistema è un evento quasi esclusivamente
autorerferenziale. E’ il sistema – tramite la sua determinazione interna – che seleziona fra gli stimoli
provenienti dall’ambiente quelli significativi e quelli non significativi e che determina quali
significati attribuire loro (attraverso i valori) e il senso e la direzione dei cambiamenti strutturali, in
vista della conservazione dell’identità del sistema stesso: vale a dire della sopravvivenza in quanto
tale, in quanto definito cioè da una chiusura in un’organizzazione particolare (Maturana, 1987, 18).
Ovviamente ambiente e unità si comportano come reciproche sorgenti di perturbazioni che
innescano reciproci cambiamenti di stato, ovvero: sono in accoppiamento strutturale (Maturana,
1987, 96). Tuttavia la selezione degli stimoli in ingresso deriva dal dominio cognitivo di un sistema
autonomo, tale è la mente, definito come: “l’insieme delle reazioni in cui il sistema può entrare
senza perdita della sua identità, cioè della chiusura della sua organizzazione” (Maturana, 1987, 18).
Questo implica che, quando l’organizzazione è perturbata al punto che (…ossia: arriva ad un grado
di complessità tale che…) le relazioni tra le sue componenti non sono più funzionali al
mantenimento dell’identità del sistema medesimo, si dipartono due scelte (biforcazione) entrambe 13
caratterizzate dallo scomparire come unità di una certa classe (Maturana, 1987, 95), ovvero: il
sistema muore o diventa qualcos’altro.
“I sistemi complessi si evolvono secondo uno schema ad albero, dove i punti di biforcazione
corrispondono ad alternative del tutto equivalenti; cosicché è impossibile prevedere quale direzione
il sistema prenderà. Le condizioni di partenza, rigorosamente deterministiche, non consentono
alcuna previsione riguardo ai punti di biforcazione degli alberi genealogici, neppure quando tutti i
parametri siano noti: in tal modo quelle stesse condizioni divengono indeterministiche. Tali punti di
discrimine sono chiamati dai matematici appunto biforcazioni o ‘punti di folgorazione’ analoghi al
fulmine” (Cramer, 1975, 154). Modelli matematici e fisici dello studio del caos deterministico che
analizzano le leggi dei sistemi complessi, ovvero la scienza che si occupa dell’interazione di un
numero di particelle elevato (Prigogine, 1981, 112), sostengono che un sistema che si trovi prima o
dopo un punto di biforcazione “obbedisce alle leggi deterministiche mentre in prossimità dei punti
di biforcazione hanno una parte essenziale le fluttuazioni che determinano il ‘ramo’ sul quale il
sistema proseguirà il suo corso” (Cramer, 1975, 156-157).
Secondo I. Prigogine (Prigogine, 1981, 127) esistono trasformazioni reversibili, che appartengono
alla scienza classica e irreversibili, oggetto di studio della scienza moderna. Quando la scienza
moderna osserva un sistema, quale ad es. un sistema chimico, nota che evolve verso uno stato
attrattore di equilibrio chimico (Prigogine, 1981, 138); così come nota che, se vi fossero condizioni
che impedissero tale evoluzione, il sistema farebbe del suo meglio per dirigersi verso uno stato “di
minima entropia” (Prigogine, 1981, 144) il più vicino possibile all’equilibrio.
Ma che succede quando il sistema diviene sempre più complesso e caotico; quando è spinto sempre
più decisamente lontano dall’equilibrio? I. Prigogine, che denomina dissipative (lontane
dall’equilibrio) tali strutture, afferma che oltre un certo punto, per valori elevati, il sistema diventa
instabile e fluttua. Tali fluttuazioni ”possono amplificarsi fino ad invadere l’intero sistema,
spingendolo ad evolversi verso un nuovo regime che può essere qualitativamente assai diverso dagli
stati stazionari corrispondenti al minimo di produzione di entropia” (Prigogine, 1981, 145).
Transizioni di fase che appaiono al matematico o al fisico quasi esclusivamente dettate dalla non
linearità e dall’imprevedibilità. Se ad es. volessimo magnetizzare un pezzo di metallo,
giungeremmo ad un punto di biforcazione, o transizione di fase, in cui esso “deve” prendere una
decisione: “il magnete può essere orientato in uno dei due modi possibili. Esso è libero di scegliere.
Ma ogni minima parte del metallo dovrà compiere la stessa scelta” (Gleick, 1987, 160).
Se immaginiamo di allontanarci sempre più dall’equilibrio di un sistema, poniamo, come fece May,
(Gleick, 1987, 73) al computer, aumentando la crescita demografica di un’immaginaria popolazione
di pesci, giungeremmo ad una soglia oltre la quale tutto il sistema effettua una scelta. May si
accorse che aumentando il parametro crescita demografica la popolazione tendeva a crescere
disegnando una curva che incrementava da sinistra verso destra fino ad arrivare ad un punto di
biforcazione. D’improvviso l’immaginaria popolazione di pesci iniziava ad oscillare tra due stati,
uno di densità demografica nettamente superiore al punto di biforcazione, l’altra nettamente
inferiore. Si aprivano così due possibilità potenzialmente equivalenti corrispondenti ai due stati che
il sistema avrebbe potuto prendere – evolversi o involversi.

Fig. 1 (curva di May)

14
evoluzione
N.ro
esemplari biforcazione

estinzione

tempo

I. Prigogine dimostra che la scelta di quale ramo prenderà l’intero sistema dipende dalla sua storia
(Prigogine, 1981, 160). Se, aumentando il parametro crescita demografica, per una qualche ragione
la popolazione generale non tendesse ad aumentare (supponiamo per elevata natimortalità ittica)
l’intero sistema giungerebbe al punto di biforcazione incontrando la biforcazione nella parabola
discendente (fig. 2 ramo C) e allora si dirigerebbe verso l’estinzione. Se invece la popolazione per
una qualche ragione aumentasse più del parametro che regola la crescita demografica nei pesci la
curva di salita demografica della popolazione ittica incontrerebbe quella superiore associata alla
biforcazione ed aumenterebbe ancor di più con un balzo di livello caratterizzato dalla maggior
pendenza della curva (es: pesci che sviluppano le ali e colonizzano la terraferma, fig. 2 ramo D). Si
delineano quindi 3 ipotesi. Una incerta che dipende, come dice Prigogine, da “un problema di
probabilità di eventi molto simile al problema del gioco dei dadi” (Prigogine, 1981, 163), il caso
delle due possibilità (fig. 1) potenzialmente equivalenti trovate da May. E le altre due che
dipendono dalla storia del sistema stesso (fig. 2 ramo D e ramo C post biforcazione).

Fig. 2

15
evoluzione D
N.ro
esemplari
Storia 2

C
Storia 1
estinzione

tempo

“Siamo abituati a ragionare in termini newtoniani: come la traiettoria del sasso e il punto in cui
andrà a cadere sono fissati una volta per tutte da velocità e direzione iniziali, così i nostri pensieri
sembrano seguire una sorta di binario obbligato … I processi newtoniani si svolgono con continuità
e sono riproducibili in qualunque momento e in ogni luogo” (Cramer, 1994, 153-154). Ragionare in
termini newtoniani va bene per sistemi semplici ma la nostra mente è l’organo più complesso che si
conosca, e nei sistemi complessi occorre usare tutt’altra logica.
A nostro parere occorre rapportarsi al tema dell’evoluzione della coscienza e della mente nell’uomo
mantenendo una dimensione darwiniana estesa ” (Bocchi e Ceruti, 1985, 232) che coniughi il
gradualismo del programma adattazionista (formulazione classica del darwinismo ristretto) a
momenti di riorganizzazione complessiva di tipo saltazionale in grado di giustificare l’osservazione
secondo cui una situazione intermedia tra mancanza e possesso di autocoscienza sarebbe
inconcepibile (Eccles, 1978, 114). Tale teoria, detta degli equilibri puntuati, “afferma che le specie
esistenti abitualmente non incorrono in cambiamenti fenotipici sostanziali per un periodo di tempo
che può comprendere milioni di anni (stasi), e che gran parte del cambiamento evolutivo è invece
concentrata negli eventi, istantanei dal punto di vista geologico, della speciazione per biforcazione”
(Bocchi e Ceruti, 1985, 234-235). Ovvero, durante i momenti di stasi interverrebbero trasformazioni
fenotipiche graduali (le parti in elevazione o discesa delle curve) mentre nei punti di biforcazione
interverrebbe il cambiamento evolutivo. Per dirla con Maturana e Varela: in quei punti il sistema
muore o diventa qualcos’altro.
Se consideriamo la coscienza e la mente-cervello caratterizzati da un universo di complessità (e
quindi soggetti alle leggi della complessità), in divenire sempre più complesso per l’incremento
d’informazione che trasporta, possiamo pensare che nel Pleistocene superiore la spinta evolutiva
delle aree cerebrali fosse arrivata al massimo grado di sviluppo per quel sistema organizzativamente
chiuso e per quel “processo che connette”. L’ominide era arrivato al suo più grande, e per ora unico,
appuntamento con la storia. Al suo punto di biforcazione.

En archè en ho logos. “in principio c’era la parola” (Vangelo sec. Giovanni: 1,1)

16
V) Pur considerando che sono stati ritrovati reperti in estremo oriente (H. erectus della Cina, il
cosiddetto Pithecanthropus di Dubois) a Giava, ed un homunculus in Indonesia, isola di Flores
(l’H. floresiensis) (Brown, 2004, 1055-1061; Morwood, 2004, 1087-1091; Wong , 2005, 40-49),
con caratteri di erectus molto recente e non più alto di 1 metro e 20 (per alcuni un Homo sapiens
affetto da microcefalia, Martin 2006), focalizzeremo la nostra attenzione sull’Europa occidentale.
L’H. neanderthalensis, l'eponimo, che ha dato il nome alla specie, è stato trovato nella valle del
fiume Neander presso Dusseldorf. Tale specie si manifestò nella sua forma classica o occidentale in
Europa circa 200 mila anni fa e nel Medio Oriente e circa 130.000 anni fa (e da qui si spinse fino
all’Usbekistan) (Mallegni, 2004). Aveva un cranio dalla capacità leggermente più grande della
nostra attuale ed un corpo basso e tozzo (Stringer, 1984, 53-83) predisposto per sopravivere alle
basse temperature, tali erano generalmente in quel periodo e in quei luoghi (Lewin, 1987, 1509-
1510). La sua comparsa è in concomitanza con le due ultime glaciazioni (il Riss ed il Würm). Si
copriva il corpo con pelli per sopportare meglio il freddo, costruiva utensili, raramente monili per
ornamento (Mellars, 1989, 349-385; Chase, 1987, 263-296) e seppelliva i propri morti, in posizione
spesso rattratta (Gargett, 1989a, 157-190; Gargett, 1989b, 326-330; Tattersal, 2004). Tutto ciò
suggerisce il possesso di capacità simboliche (Marshack, 1989) in grado di farci intuire una sorta di
coscienza primitiva e rudimentale protoconsapevolezza di sé che, se considerate in aggiunta a
quanto fin ora filogeneticamente acquisito, secondo concezione gradualista, potrebbero far pensare
ad una sorta di linguaggio situato (nel parallelismo infantile umano) tra l’olofrasico e il telegrafico
(forse più tendente a quest’ultimo).
Sosteniamo che era a questo livello sulla base di tre evidenze paleoantropologiche ed una
considerazione. Le tre evidenze paleoantropologiche sono:
- una struttura corporea (soprattutto nella fattispecie della la mano) differente, seppur di poco, alla
nostra (Mallegni, 2004), e quindi non ancora in grado di sviluppare il nostro vasto e articolato
repertorio di valori neuronali nel senso di Edelman Tononi;
- un organo fonatorio con un segmento vocale più simile a quello delle scimmie che a quello
dell’uomo (Trinkaus, 1983, 165-200; Trinkaus, 1986, 193-218), quindi meno versatile e di
conseguenza, probabilmente, incapace di virtuosismi fonetici o della fluenza necessaria per il
linguaggio propriamente detto (Lieberman, 1984; Lieberman, 1985, 657-668; Crelin, 1987;
Laitman, 1985, 281-286);
- infine la forma del cranio, con la caratteristica fronte sfuggente (Mallegni, 2004), che lascia
presumere una ridotta espansione neocorticale frontale.
La considerazione è la seguente:
- il proto-rito di sepoltura unito alla dimensione relazionale sociale, che sicuramente doveva
possedere, denuncia una certa consapevolezza del valore della vita umana; questo dimostra il
raggiungimento di un livello simbolico capace di gestire concetti dotati di un non basso livello di
astrazione. Tale alta capacità concettuale sembra indicare una forte pressione nella direzione di
nuove acquisizioni cognitive.
L'ultimo ritrovamento osseo relativo all’H. neanderthalensis data 28.000 anni fa ed è rappresentato
dalla mandibola spagnola di Zaffarraia, mentre il sapiens che già si era evoluto giungendo
dall'Africa tra i 200 e i 150 mila anni fa (e da lì invase Europa Asia e Medio Oriente) restò l’unica
specie umana. Non dopo però un periodo di convivenza con il neanderthalensis.
Sappiamo che probabilmente il sapiens era di statura più alta, più longilineo e con una capacità
cranica simile alla nostra. In Asia comunque non comparve prima dei 100.000 anni fa (Stringer,
1988a, 1263-1268; Stringer, 1988b, 773-774; Stringer, 1984, 53-83; Stringer, 1988, 565-566; Cann,
1987, 31-36; Lewin, 1987a, 1061-1063; Lewin, 1987b, 1292-1295; Lewin, 1987c, 1061-1063;
Lewin, 1987d, 24-26; Lewin, 1988a, 1598-2000; Lewin, 1988b, 1756-1759) ed in Europa verso i
40.000 anni fa. In Medio Oriente si stima che le due specie coesistettero per circa 65.000 anni (tra i
100.000 e i 35.000 anni fa) mentre in Europa per 22.000 anni (Binford, 1982, 177-181). Vi sono
reperti che indicano che i sapiens europei avevano maturato una tecnologia nettamente più evoluta e
raffinata dei Neandertaliani. Lavoravano scaglie di selce da cui ottenevano lame lunghe e sottili 17
molto affilate, tagliavano, trapanavano, incidevano, decoravano ossa, avorio e corna di animali,
dipingevano, cucivano pelli con aghi e filo ed usavano propulsori in legno per lanciare aste e
giavellotti muniti di punta (Mellars, 1989, 349-385; Chase, 1987, 370; Brooks, 1989, 197). Ad un
certo punto la terra venne dominata incontrastatamente dal sapiens, nostro progenitore. Come si
estinse la specie neanderthalensis?
Se non si può pensare ad una guerra di sterminio di massa (come accadde per gli Ebrei durante la
seconda guerra mondiale) perpetrata dal sapiens contro il neanderthalensis, tesi in accordo con le
teorie secondo cui le predazioni, preludio alla guerra, nascono solo nelle società segmentate con
grande disponibilità di risorse (Flannery, 2003, 11801-11805) su una terra completamente vergine,
rigogliosa e popolata da poche migliaia di ominidi il cui scopo, ed unico problema di vita,
consisteva quasi esclusivamente nell’approvvigionarsi di cibo, cosa lo fece estinguere?
Dalla teoria di Edelman e Tononi sappiamo che deve esserci stato un momento storico che ha
caratterizzato il passaggio da una coscienza di tipo primario ad una di ordine superiore
caratterizzata dall’acquisizione del linguaggio. Dai modelli matematici e fisici della complessità
possiamo dedurre che una struttura dissipativa che diviene sempre più complessa giunge ad un
appuntamento con la storia, giunge ad una biforcazione, ed un sistema autopoietico ha due scelte: o
muore o diventa qualcos’altro cambiando la propria organizzazione interna. Sappiamo da Prigogine
che la scelta del ramo dipende da come si è evoluto il sistema stesso, dalla sua storia. Sappiamo
inoltre, dalle ricerche archeologiche e paleontologiche, che ad un certo punto, tra i 30.000 e i 27.000
anni fa, successero due cose in un “attimo di tempo geologico” ” (Harris, 1989, 78), sparì il
neanderthalensis ed in coincidenza il sapiens esplose in un fervore tecnologico-artistico-culturale
fino ad allora senza precedenti. Come se avesse innescato una marcia in più.
Se consideriamo, così come fece W.James, la coscienza come un processo definito in termini di
interazioni neurali, caratterizzato dalla forza di un insieme di interazioni neurali (Edelman, 2000,
173), che emerge nella sua modalità di ordine superiore in concomitanza coi cambiamenti neurali
delle aree deputate al linguaggio (Edelman, 2000, 233-241), possiamo avanzare l’ipotesi che circa
30000 anni fa (Harris, 1989, 78) l’uomo giunse al suo appuntamento con la storia.
La nostra ipotesi è che il neanderthalensis ci arrivò senza aver sviluppato un sufficiente repertorio
cognitivo di valori a causa di una struttura corporea (es. la mano) non completamente idonea, con
un apparato fonatorio di versatilità ridotta e con connessioni tra -aree frontali, temporali e parietali-
e -corteccia primaria e secondaria di ciascuna modalità- mediate dall’area di Broca e Werniche
insufficienti a garantirgli il quel salto di qualità caratterizzato dall’acquisizione della coscienza di
ordine superiore.
All’appuntamento con la storia il suo “sistema cognitivo complesso” s’incamminò verso il ramo
basso post biforcazione. Probabilmente iniziò a non saper usare più al momento giusto quanto
acquisito, ad avere capacità di problem solving non più funzionali al miglior adattamento possibile
e, in tutta sostanza, iniziò sistematicamente a fare scelte sbagliate. La sua mente, capace di associare
come prima e dotata dei requisiti corticali conquistati nel corso dei millenni, dovendo tornare a
livelli di efficienza inferiori con strutture superiori, non poté che funzionare in maniera formalmente
completa ma sostanzialmente sbagliata. Sbagliando progressivamente tutte le proprie scelte di vita il
neandertal si estinse. Un po’ come se noi decidessimo di fare scelte irrazionali, come una guerra
nucleare. Il neandertal, in possesso di un corpo più specializzato del sapiens, quindi, in linea di
principio, con maggiori chance di sopravvivenza, subì una catastrofe cognitiva assimilabile ad una
odierna psicopatologia.
Altra sorte ebbe il sapiens, arrivato allo stesso appuntamento con tutti i requisiti, morfologici,
tecnologici e sociali, in regola. Stando alla scienza della complessità, la curva evolutiva che
rappresenta il crescere della sua organizzazione cognitiva balzò in un sol attimo verso l’alto con una
nuova pendenza. Una specie di salto quantico che giustifica quell’ “istante geologico” (Harris, 1989,
78) e l’osservazione secondo cui una situazione intermedia tra mancanza e possesso di
autocoscienza sarebbe inconcepibile (Eccles, 1978, 114). Una marcia in più. La complessità della
18
mente divenne ancor più complessa ed il dominio cognitivo di quel sistema diventò qualcos’altro.
Quello che oggi conosciamo.
Una volta che la coscienza di ordine superiore emerse insieme al linguaggio, potè essere costruito
un Sè a partire dalle relazioni sociali (Edelman, 2000, 238). Con la coscienza di ordine superiore ed
il Sè, l’uomo divenne in grado di acquisire conoscenza e consapevolezza.

La catastrofe cognitiva del Neanderthalensis

La nostra tesi in riguardo all’evoluzione della coscienza e della mente, sviluppata in accordo con la
teoria non lineare dei fenomeni complessi e quella evolutiva degli equilibri puntuati (Bocchi, 1985,
227-245), permette di avanzare una ipotesi sull’estinzione del H. neanderthalensis.
Se immaginiamo una terra popolata da poche migliaia di ominidi in parte sapiens e in parte
neandertal con una disponibilità di risorse considerabile, in proporzione, quasi illimitata (sebbene in
periodo di glaciazione), il secondo dei quali di natura tozza e robusta (quindi più adatto del primo),
con un corpo di molto superiore a quello del più robusto giocatore di football americano di oggi ed
escludiamo il tema della guerra fratricida (per tesi precedentemente sostenuta) non rimane altro che
considerare l’estinzione di quest’ultimo di derivazione cognitiva.
Se il sapiens sopravvisse (e su questo non ci sono dubbi) sapeva come e dove approvvigionarsi. Se
consideriamo che entrambe le specie di cacciatori raccoglitori coesistettero per molto tempo
vagando sullo stesso territorio, è impensabile non ipotizzare un incontro tra le due. Recenti ricerche
infatti non solo proverebbero che Il neanderthalensis stava sviluppando metodi avanzati di
fabbricazione di utensili in pietra etc.., facendo pensare ad una contaminazione culturale coi
sapiens, ma anche che stessero addirittura passando ad una anatomia corporea più gracile facendo
ipotizzare addirittura una possibile ibridazione, per correttezza non ancora provata dall’esame del
DNA, tra le due specie (Ahern, 2002, 419-432). Il fatto è che probabilmente il neanderthalensis
nelle ultime fasi della sua storia biologica stava apprendendo dai sapiens alcune tecniche loro
proprie e cioè stava assumendo informazioni relative ad una miglior sopravivenza. Perché non
apprese dal sapiens che poche manifestazioni culturali tipo il chatelperroniano che imita la più
antica industria, l’aurigniaziano (Mallegni, 2004), legata ad Homo sapiens?
Perché il neanderthalensis si avviò all’estinzione?
La nostra ipotesi è che il sistema cognitivo di neanderthaensis, sotto pressione ambientale e ad un
passo dallo sviluppare un livello di coscienza di tipo superiore collassò impedendogli di utilizzare i
propri apprendimenti in maniera funzionale alla propria sopravvivenza, e quindi anche di scegliere
traiettorie idonee a perpetrarsi nel tempo. L’estinzione a nostro parere avvenne come causa
secondaria d’incapacità strategico-cognitivo-funzionale.
La nostra ipotesi è che tale collasso si presentò nei termini di una rottura di simmetria, come
previsto dal matematico Renè Thom (Thom, 1980), in corrispondenza di un punto di biforcazione.
“Enunciando la sua teoria R. Thom ne discute applicazioni molto eterogenee, come l’embriogenesi,
la divisione cellulare, il sogno, il gioco, l’origine del linguaggio umano, la struttura della società
umana e altro ancora” (Cramer, 1975, 168). Col termine catastrofe Renè Thom intese un punto di
discontinuità fondamentale, di salto, di diramazione in una traiettoria la più semplice delle quali è
detta biforcazione. Nel nostro contesto si tratterebbe di una catastrofe “a piega” descritta in un
piano bidimensionale come una curva che ascende fino ad un punto in cui si biforca in due possibili
traiettorie.

Fig. 3

19
evoluzione D
N.ro
esemplari
Sapiens

C
Neandertal
estinzione

tempo

La mente del neanderthalensis, dotata dei requisiti corticali conquistati nel corso dei millenni,
“involvendosi”, per mantenere stabile la propria organizzazione interna e al contempo garantire un
accoppiamento strutturale col contesto esterno, non poté che funzionare in maniera formalmente
completa ma sostanzialmente sbagliata. E’ sbagliando progressivamente tutte le proprie scelte
adattative che il neandertal si avviò verso la fine.
Detta in poche parole, la nostra ipotesi è che la causa principale della sua estinzione risedette
nell’interno della sua testa.
Chi studia i sistemi complessi applicando teorie non lineari rinuncia a spiegazioni causali
Newtoniane. Per esempio: in riguardo alle inversioni di magnetismo terrestre che si sono succedute
nella storia del nostro pianeta, mentre i teorici deterministici cercano spiegazioni fuori dal sistema
proponendo cause esterne come l’urto di meteoriti o quanto di altro, quelli dei sistemi non lineari
sostengono l’ipotesi che la geodinamo, nell’infuocato ventre fluido della terra, contenendo in sé i
germi del caos (Gleick, 1987, 32), raggiunga da sola la complessità critica che porta al punto
d’inversione. Una realtà, a ben pensarci, più viva e dinamica, in grado di rendere maggior merito
alla giovane età del nostro pianeta.
Tornando al neandertal, per avere un’idea intuitiva del fenomeno possiamo prendere in
considerazione ciò che, forse, più gli si avvicina. Un qualcosa di simile sembra infatti accadere in
relazione alla catastrofe cognitiva che avviene nella mente degli schizofrenici, alcuni dei quali
capaci di opere artistiche altamente creative o di una funzionalità residuale di tipo marginale che
permette loro, nei casi meno gravi, di svolgere lavori semplici o creare piccoli oggetti artigianali o
meravigliosi prodotti pittorici ma, al contempo, del tutto inabili a scegliere giuste strategie per la
loro stessa sopravvivenza (Pompili, 2004a, 463-473; Pompili, 2004b, 297-318; Blumensohn, 2002,
481-483; Guieu, 1994, 253-255); per lo più poco sensibili o totalmente insensibili al freddo, al
caldo, al dolore (Nader, 2004, 88-97; Tordjman, 1999, 122-134; Bettelheim, 1976) e per questo con
possibilità di realizzare gravi comportamenti auto lesivi. Pensiamo anche agli autistici, sovente
dotati di capacità addirittura superiori ai “normali” (Fitzgerald, 2004) ma non in grado di bastare a
se stessi nella vita. Tutti soggetti che, se non guidati nelle loro scelte, assistiti nel compito relativo
alla loro stessa esistenza, non sopravvivrebbero.
Questa nostra ipotesi, applicata al neandertal, sarebbe compatibile con un processo di progressiva
ma inarrestabile estinzione trattandosi di esemplari che, sebbene mantenessero un accoppiamento 20
strutturale al loro ambiente, sistematicamente “sbagliavano” gran parte o tutte le scelte che
effettuavano per vivere. In sintesi: la progenie si estinse per le errate strategie di sopravvivenza
della genia. Anche qui non è difficile un parallelismo. Oggi noi tutti siamo consapevoli delle enormi
quantità di veleni che immettiamo nell’atmosfera, nei mari e nella terra del nostro pianeta ed al
contempo sappiamo benissimo dei danni alla salute che questo nostro modo di vivere comporta, che
ha comportato alla generazione che ci ha preceduto (basti pensare ai problemi derivati dall’abuso
del DDT dal dopoguerra a quando fu vietato) e che comporterà a quella futura. Ciò nonostante, con
tutta “l’intelligenza” che siamo soliti attribuirci, continuiamo così. Sostanzialmente perpetriamo
catene di errori su errori incapaci di far altro nonostante il sapere di dover far altro, pena la nostra
stessa estinzione, forse, nella speranza che qualcuno o qualcosa ad un certo punto cambi in meglio,
come per magia, tutto il nostro ecosistema e modo di vivere. Sicuramente procedendo così
arriveremo ad un punto di biforcazione in cui dovremo “decidere” o di reinterpretare
completamente come viviamo, dando un senso diverso, qualitativamente migliore in termini di
efficacia ed efficienza, a tutto il modo che abbiamo di essere nel mondo, avviandoci così verso il
ramo alto oltre la biforcazione oppure, incapaci di inventare qualcosa di nuovo che permetta quel
“salto di qualità” che garantisce il completo sviluppo di tutti gli elementi in gioco, ci avvieremo
verso il ramo basso.
In relazione al neandertal la nostra tesi potrebbe essere provata se si fosse in grado di ricostruire
con sufficiente correttezza i suoi comportamenti che dovrebbero risultare riconducibili ad almeno
uno dei seguenti principi: contro-adattativi (es. scegliere traiettorie evolutive sconvenienti) come in
varie psicosi o nei disturbi dissociativi; ripetitivi nonostante il variare delle condizioni contestuali
(es. iterare lo stesso comportamento anche se non fornisce più risultati) come nei disturbi
compulsivi o nei ritardi mentali; insensati (non logici) come nelle demenze, nelle psicosi o nei
disturbi d’ansia tipo attacchi di panico; rigidi (non plastici, incapaci di tradurre apprendimenti in
forme utili alla sopravvivenza) come nelle depressioni o nei disturbi di apprendimento; autolesivi
(automutilazioni o scelte suicide) come in varie psicosi o nelle condizioni border line; di
alimentazione (errate strategie alimentari) come nei disordini alimentari psicogeni. Naturalmente
occorre precisare che i riferimenti su riportati valgono solo a titolo di esempio trattandosi, i disturbi
psicopatologici, di fenomeni storicamente e culturalmente correlabili nel senso che sono
probabilmente sempre esistiti ma in forme ed accezioni diverse da quelle attualmente censite.
In sintesi, il possente nendertal, in un certo senso, si ammalò cognitivamente.
Non è irrealistico effettuare ancora un parallelismo con le nostre attuali condizioni psichiche di
uomini moderni. Dati recenti ci consegnano un impressionante aumento di psicopatologie che sotto
il profilo cognitivo sono sostanzialmente catastrofi. Un soggetto con tali patologie ha difficoltà
adattative (lavorare, amare, effettuare scelte etc..) più o meno gravi, per questo si cura. “Negli Stati
Uniti, nel decennio tra il 1985 e il 1994 il numero di visite generali in cui è stato prescritto un
farmaco psicotropo è passato da 33 a 46 milioni. Negli ultimi anni, farmaci ansiolitici/ipnotici, sino
a quel momento i più prescritti, sono stati sorpassati dagli antidepressivi, che sono raddoppiati,
superando i 20 milioni negli ultimi 5 anni, mentre l’uso di stimolanti e ricostituenti è aumentato del
500 % nello stesso periodo” (Canali, 2005, 74). L’ipotesi del mismatch evolutivo sostiene che ciò
sia dovuto al fatto che i nostri schemi di reazione, evoluti lentamente dall’ambiente ancestrale della
savana, inizino ad essere inadatti agli odierni ritmi e contesti in cui viviamo, e, in un certo senso,
collassino (Canali, 2005, 74).

Conclusioni

Abbiamo sostenuto l’ipotesi secondo cui la differenza fondamentale tra il sistema cognitivo del
neanderthalensis e quello del sapiens fosse costituta dalla mancanza di un anello di rientro di ordine
superiore a quello che costituiva la coscienza primaria (secondo quanto teorizzato da Edelman e
Tononi) capace di connettere le aree corticali deputate alla memoria con quelle percettive passando
attraverso quelle preposte al linguaggio di Werniche e Broca. Riteniamo che il neandertal non 21
raggiunse una coscienza di ordine superiore mediata dal linguaggio (non si considera tale il
protolinguaggio olofrastico o telegrafico) perché la complessità del suo sistema cognitivo subì una
catastrofe che determinò una involuzione verso il ramo basso post biforcazione conducendolo
all’estinzione.
Il neandertal non raggiunse il possesso della mente.
George. H Mead suppose che il processo interattivo soggetto-società introducesse sostanzialmente
nell’uomo una dialettica, un matching, tra tre ambiti interni, l’Io, il Sè ed il Me. Secondo questa
ipotesi: l’Io sarebbe la risposta dell’organismo agli atteggiamenti degli altri ed il Me l’insieme
organizzato di atteggiamenti degli altri che un individuo assume. Ora, una volta che l’individuo
assume in sé gli atteggiamenti degli altri sorgerebbe in lui un gruppo organizzato di risposte
chiamato Sé (Mead, 1966, 189).
La cosa, sostanzialmente, funzionerebbe in questo modo: se consideriamo come un animale entra in
rapporto con un suo simile, ad es. un cane, ci accorgiamo che ciascun suo atto diventa uno stimolo
per la risposta dell’altro. Così, ogni atto del cane 1 fornisce lo stimolo al cane 2 per una risposta che
a sua volta diventa uno stimolo per il cane 1 e così via sino al termine della “conversazione” tra
gesti dei due. Intendendo col termine gesto: ciò che in fase successiva diviene simbolo, ma che
all’origine è parte di un atto sociale che serve da stimolo per le altre forme implicate nel medesimo
(Mead, 1966, 69). Il cane 1 non dice a se stesso: se 2 farà così allora io farò in questa maniera …
ciò che si verifica è un’azione sulla base della reazione dell’altro senza alcun tipo di mediazione;
meditazione senza un “momento di riflessione”, senza “razionalità”.
Così non avviene nell’uomo dotato di coscienza di ordine superiore.
Nell’uomo “la stessa procedura che è responsabile della genesi e dell’esistenza della mente o della
coscienza – cioè l’assunzione, da parte di un individuo, dell’atteggiamento altrui verso di sé o verso
il proprio comportamento – coinvolge contemporaneamente anche la genesi e l’esistenza di simboli
significativi, o di gesti significativi” (Mead, 1966, 74). Diciamo che gli animali non pensano; essi
non si mettono al posto degli altri dicendo - costui si comporterà così allora io farò in questo modo.
Non riescono ad effettuare il processo di assunzione del ruolo altrui nella tendenza ad agire come
agisce l’altra persona. L’uomo invece partecipa allo stesso processo che viene realizzato nell’altra
persona e controlla la propria azione in rapporto a questa sua partecipazione (Mead, 1966, 96).
Sostanzialmente, tra il gesto del soggetto umano 1 e la risposta del soggetto umano 2 Mead
rintraccia il significato che avverrebbe “nei termini di simbolizzazione al livello evoluzionistico
umano” (Mead, 1966, 98). Quando un gesto viene così interpretato dall’uomo diventa simbolo
significativo in grado di produrre una risposta aggiustativa e non semplicemente reattiva.
L’interpretazione dei gesti non è fondamentalmente un processo della mente o implicante la
partecipazione esclusiva della mente: “esso è un processo esterno, palese, fisico o fisiologico che si
attua compiutamente nel campo dell’esperienza sociale. Il significato può essere descritto, spiegato
o definito in termini di simboli o di linguaggio nella sua fase più elevata e complessa di sviluppo (la
fase che esso raggiunge nell’esperienza umana), ma il linguaggio in sé non fa altro che enucleare
dal processo sociale una situazione che esiste già in esso logicamente o in modo esplicito. Il
simbolo di linguaggio è semplicemente un gesto significativo e cosciente” (Mead, 1966, 101).
Ricapitolando: un gesto produce un significato. Un significato produce una reazione negli animali
ed una “identificazione” col produttore negli umani che diventano in grado di modulare un
comportamento di risposta.
Quando, durante la filogenesi, ad un certo punto dell’evoluzione, comparve la capacità di articolare
coscientemente suoni dotati di senso (ovvero gesti significativi al pari dell’azione di alzare una
mano e serrare il pugno per indicare una probabile lotta, ma con maggior grado di astrazione,
versatilità e precisione), l’uomo iniziò ad avere la possibilità di riferirsi a qualcosa che già risiedeva
nella sua esperienza a prescindere dall’uso del linguaggio stesso. Col linguaggio l’uomo divenne in
grado di organizzare il contenuto della sua esperienza in quanto possessore di uno strumento
destinato a questo scopo (Mead, 1966, 44).
Il gesto vocale diventò simbolico solo nel sapiens. 22
“Un simbolo non è altro che uno stimolo a cui è data una risposta in anticipo. … il pugno è
l’antecedente storico della parola, ma se la parola ha il significato di offesa, la reazione è implicata
dalla parola, è qualcosa che inerisce allo stimolo stesso. Questa è tutto quello che è compreso nel
significato di simbolo” (Mead, 1966, 194).
Quando noi analizziamo un simbolo linguistico cerchiamo di capire quale è nella mente
dell’individuo parlante l’intento che presiede all’uso di quella specifica parola o frase usata perché
abbiamo una teoria della mente; “quindi cerchiamo di sapere se esso provoca la medesima
intenzione nella mente degli altri” (Mead, 1966, 45).
L’applicazione del gesto vocale, se è eminentemente simbolico e quindi univocamente interpretabile
(per questo motivo non consideriamo il linguaggio olofrastico o telegrafico come tale), in luogo di
un qualsiasi altro tipo di gesto permette una interpretazione assai più precisa delle intenzioni
dell’interlocutore. E’ in quel momento che “nasce” la mente, la coscienza di ordine superiore e la
società così come la intendiamo noi.
La mente “è la capacità di indicare a noi stessi la risposta (e gli oggetti in essa impliciti) che il
nostro gesto indica agli altri e di controllare la risposta stessa in questi termini. … La mente resta
sociale; anche nei più intimi recessi il pensiero di una persona procede per mezzo dell’assunzione,
da parte di tale persona, dei ruoli altrui e del controllo del proprio comportamento sulla base di
questa assunzione di ruoli” (Mead, 1966, 20). Questa teoria di Mead, riferita alla particolarità
riflessiva, propria del significato dell’esperienza sociale, tipica di tutti gli organismi sociali, che
permette all’uomo, una volta acquisito il linguaggio, di svincolarsi dal rapporto che lo lega alla pura
reazione allo stimolo, viene oggi ad essere accreditata anche dalle scoperte neurologiche di G.
Rizzolatti e V. Gallese (Rizzolatti, 2001, 661-70; Ferrari, 2003, 1703-1714; Koheler, 2002, 846-
848).
Nel momento in cui il sapiens acquisì una coscienza di ordine superiore, quel vincolo affettivo
basato sull’attaccamento che continuava a legarlo ai suoi simili, Mead afferma che “la
consapevolezza o la coscienza non è necessaria ai fini della presenza del significato nel processo
dell’esperienza sociale” (Mead, 1966, 99), diventò il terreno di applicazione del linguaggio in
funzione del “mettersi nei panni dell’altro”. Un tema che si colloca al livello del rapporto tra due
domini, l’uomo e la società.
Un rapporto che non contempla “alcuna dicotomia o separazione tra individuo e società. Essi sono
l’uno il richiamo dell’altro e la società come l’individuo sono associazioni della società e
dell’individuo. La vicenda dell’individuo e della società è una vicenda comunque interna: non si dà
distinzione che non sia infine unità” (Toscano, 1998, 152).
La comparsa, in termini evoluzionistici, della mente o dell’intelligenza avvenne quando l’intero
processo sociale di esperienza e di comportamento venne trasferito all’interno dell’esperienza di
ognuno dei singoli individui in esso implicati, e quando l’aggiustamento dell’individuo a tale
processo venne modificato e raffinato dalla consapevolezza (Mead, 1966, 151). Dalla coscienza di
ordine superiore.
Un fenomeno che deve essere stato potenzialmente “esplosivo” e dirompente per un sistema
cognitivo.
Acquisire quasi contemporaneamente coscienza di ordine superiore, mente, linguaggio e società
(alla maniera di come la intendiamo riferendoci alla nostra). Una specie di metamorfosi bruco-
farfalla.
Per averne una idea proviamo ad immaginare come cambierebbe il nostro modo di vivere e di
essere se acquisissimo di colpo la telepatia. Ognuno potrebbe leggere nella mente dell’altro.
Parlerebbe con la propria mente all’altro senza usare nulla di più del suo stesso pensiero. Ma anche
potrebbe ascoltarne i pensieri senza farsene accorgere. La privacy, nel senso più intimo del termine,
sparirebbe completamente così come i mentitori (le menzogne verrebbero lette ed evidenziate quasi
alla maniera descritta da Collodi .. un duro colpo per i politici..) facendo nascere di fatto un nuovo
senso di coscienza collettiva. Pena la disgregazione sociale o l’autodistruzione psichica.
23
Cambierebbe totalmente la società per non parlare dei chissà quali mutamenti a carico della mente-
cervello e del corpo (pensiamo al fatto che non sarebbe più necessario parlare).
Comunque, è evidente che nel momento in cui l’uomo acquisì una mente, iniziò ad applicarne, nel
bene e nel male, tutte le potenzialità in essa racchiuse scoprendo la paura, l’angoscia e la
consapevolezza della morte (Dobzhansky, 1967).

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