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QUESTIONI DI MOSCHE ED ALTRE BAZZECOLE

Quando andavo a trovare lo zio bruno a Ca degli Oppi sapevo


che avrei trovato: la sua moto Guzzi, rossa come il fuoco, sulla
quale mi fece fare l’unico e terrificante giro in moto della mia
vita, a tutta manetta, forse perchè voleva dimostrare la
potenza della macchina, ma che mi fece passare per il resto dei
miei giorno la voglia di avere una moto; i suoi peperoncini
piccanti Jalapeño che lui metteva sotto aceto e mangiava
tranquillamente nel panino (un solo morso a uno di questi
peperoncini procurò a mio padre una emicrania immediata e
potente che durò vari giorni); il suo sorriso furbo e al tempo
stesso bonario incorniciato da due baffoni alla Peppone,
manifesto palese della sua fede incrollabile nel partito
comunista; e, soprattutto la carta moschicida, quelle striscioline
arancione che pendevano in cucina da uno spago attaccato in
alto e sulle quali erano rimasti incollati i cadaveri delle incaute
mosche che vi si erano appoggiate. Si, mosche ce n’erano in
quantità, e non solo perché in fondo al suo orto ci teneva il
porco, che ogni anno ammazzava per farsi in proprio i salami e
il resto. A mio padre, che gli chiese di avvisarlo quando
uccideva il maiale per poter fare degli schizzi e degli studi,
mandò un giorno un telegramma con queste uniche parole:
“Vieni subito stop l’ammazzo stasera stop”. Fortunatamente
nessun omicidio venne commesso quel giorno nella zona. Non
solo, oltre alla carta moschicida, un giorno vidi uno strano vaso
di vetro con un coperchio con un beccuccio rivoltato verso il
basso. Dentro: un liquido giallastro a base di acqua e zucchero
nel quale galleggiavano innumerevoli mosche ormai defunte,
altre moriture cercavano disperatamente di uscire da quella
trappola sbattendo contro il vetro. Ho rivisto un oggetto
identico solo quarant’anni dopo, nel 2001, a casa del regista
Michael Hoffman (Boise, Idaho, USA): Mike lo tirò fuori quando
si accorse che mangiando all’aperto nel suo giardino, noi
italiani eravamo piuttosto infastiditi dalle numerose vespe che
puntavano senza ritegno ai pezzi di prosciutto e di carne che
avevamo nel piatto. Doveva averlo pagato carissimo a qualche
fiera antiquaria, a giudicare da come lo maneggiava, ma si
rivelò totalmente inefficace con le vespe, alle quali non fregava
niente dell’acqua zuccherata e miravano dritto alla carne. Loro,
gli americani, sembrava che a queste vespe non facessero
nemmeno caso.Ma torniamo alle mosche. Ce n’erano da noi
dappertutto, in città come in campagna e il famoso bar detto
“la moschea” nella zona dei Molini fuori Verona, doveva il suo
nome non tanto a fattori religiosi o architettonici ma ad una
percentuale decisamente sopra la media di presenza di questi
insetti. Ma non solo mosche. Di sera, attorno ad ogni lampione
di città o di provincia girava un nugolo di insetti che erano una
manna per i numerosi pipistrelli in cerca del pasto giornaliero.
Un gioco che facevamo da bambini vicino a questi luoghi era
tirare un piccolo sasso in aria e vedere i pipistrelli che lo
inseguivano per un tratto, prima di rendersi conto che doveva
essere qualcosa di poco appetibile.Quindici anni fa, appena
arrivato nella casa dove abito, quattro di questo simpatici
mammiferi volanti entrarono dalla finestra spalancata nella mia
camera e si misero a girare intorno: una specie di giostra,
immagino.Quando me ne accorsi presi una scopa e l’agitai in
aria. Tre di loro capirono al volo, è proprio l’espressione
pertinente, l’antifona e uscirono subito dalla stessa finestra: il
quarto, evidentemente il tonto della compagnia, continuò a
girare per un quarto d’ora scagazzando, senza riuscire a trovare
l’uscita nonostante i miei incoraggiamenti a colpi di scopa in
aria. Poi finalmente, non so se esausto o disperato, ne ebbe
abbastanza di girare fra quattro muri e imboccò anche lui la via
della salvezza.Oggi, nella stessa zona, non gira più nessun
pipistrello. Anche le rondini sono sparite e non fanno più il nido
sotto la tettoia del garage. Attorno ai lampioni gialli della via
non gira più nessun insetto a qualunque ora della notte si
guardi. Certo, se una rondine mangia in un giorno una quantità
di insetti pari a tre volte il proprio peso corporeo e un
pipistrello, in una notte, forse anche di più, non hanno più
niente da mangiare. Nel frattempo trovo ogni tanto sul
davanzale della stessa finestra delle strane file di api morte,
come se si fossero messe in coda per morire ordinatamente e,
nella terra del mio giardino, se la smuovo, non trovo più
nemmeno un lombrico di quelli che fino a dieci anni fa la
abitavano e si vedevano subito appena si smuoveva una
qualsiasi zolla. Nel frattempo le coltivazioni sono devastate
dalla mosca d’oro e dalle cimici asiatiche, la zanzara tigre
allieta le nostre gite all’aperto e le zecche si attaccano subdole
alle nostre gambe quando andiamo in montagna a camminare.
Dunque: via le mosche, le falene, le api, ecc. via gli animali che
le mangiano come pipistrelli e rondini, ma non solo le rondini.
Fino a dieci anni fa, la mattina, fuori dalla stessa finestra, era
tutto un cinguettio di passeri e altri piccoli uccelli. Poi, uno alla
volta, i nostri vicini hanno tagliato tutti i grandi alberi che li
ospitavano. Oggi, alla mattina, c’è un silenzio assoluto rotto
solo dal rumore delle macchine che passano sulla via e dal
gracchiare di qualche cornacchia (anche i merli stanno
sparendo) che a me ricorda inevitabilmente la famosa
inquadratura di “Uccellaci e uccellini” di Pasolini e questo
surreale silenzio mi sembra visualizzare in continuazione il
sottostante cartello con scritto PROPRIETA’ PRIVATA.
Nel frattempo la coltivazione della vite “alla francese” (cioè con
le viti basse) sta invadendo tutto il territorio coltivabile, spesso
sradicando olivi centenari i quali, chissà come, si sono presi la
famosa malattia in modo inspiegabile (“pecunia non olet” che
in latino maccheronico si potrebbe tradurre: l’olio non ti fa fare i
soldi). Così, quando passa la macchina a raccogliere l’uva,
dentro ci finiscono tutte le coccinelle, i ragni, le mosche, le
cimici, ecc. e l’unica consolazione che ho è che chi berrà quel
vino si berrà anche una discreta percentuale di cimici
fermentate.
Quando, molti anni fa ho letto “La strada” di Cormac McCarthy
mi sembrava una specie di racconto geniale e terribile di
fantascienza. Oggi mi sembra ogni giorno più vicino e reale.

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