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A

Giovanni Romano Bacchin


Theorein

Prefazione di
Enrico Berti

a cura di
Giovanni Castegnaro
Aracne editrice

www.aracneeditrice.it
info@aracneeditrice.it

Copyright © MMXVII
Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale

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via Sotto le mura, 


 Canterano (RM)
() 

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I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,


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I edizione: maggio 


Indice

9 Prefazione

17 Nota editoriale

19 A proposito di metafisica del principio

25 Capitolo I
1.1. Si comincia dopo avere cominciato, 25 – 1.2. L’innegabile è innegabilmente, 27
– 1.3. Negare è escludere un’inclusione indebita, 28 – 1.4. Non v’è limite del sape-
re, 32 – 1.5. [Senza titolo], 33 – 1.6. Il luogo del filosofare è la domanda del luogo
per filosofare, 36 – 1.7. [Senza titolo], 37 – 1.8. Ciò che v’è di originario nell’espe-
rienza, 40 – 1.9. [Senza titolo], 42 – 1.10. La filosofia non ha oggetto e nessun og-
getto si sottrae alla filosofia, 45 – 1.11. La riappropriazione metafisica, 47 – 1.12.
L’esperienza praticabile è conversione fattuale in fatto, 49 – 1.13. Funzione della
parantesi nell’asserzione e l’aporia del dogmatico, 52 – 1.14. L’autorità del dogma-
tico si presenta come critica di ogni autorità, 55 – 1.15. L’ideale dell’autorità è di
essere indiscutibile, 59 – 1.16. Autorità e intelletto si fronteggiano, 62 – 1.17. Ciò
che l’intelletto impone all’autorità è di essere ciò che pretende di essere, 65 – 1.18.
Il luogo della domanda è l’insufficienza di ciò che si presenta a ciò che, presentan-
dosi, non è interamente, 67 – 1.19. L’identità tra inevitabile e necessario è solo co-
struita, 70 – 1.20. Il senso in cui non si può domandare tutto, 72 – 1.21. Ciò da cui
dipendono le valutazioni del domandare, 75 – 1.22. Il senso in cui non si può non
domandare tutto, 78 – 1. 23. Domandare tutto è negare di poter asserire, 81 – 1.24.
[Senza titolo], 84 – 1.25. [Senza titolo], 88 – 1.26. Paradigma del dottrinario in filo-
sofia, 91 – 1.27. Una richiesta che preceda la domanda di verità non può essere vera,
94 – 1.28. Il prefilosofico oltrepassa il sapere di non sapere credendo di superarlo,
96 – 1.29. L’impossibilità di oltrepassare quel ‘limite’ che è la stessa impossibilità
di oltrepassarlo, 98 – 1.30. La costante esistenziale dell’esperienza e gli equivoci
della sua valorazione, 101 – 1.31. La domanda universale investe il linguaggio come
luogo della possibilità dell’errore, 104 – 1.32. Digressione, 106

111 Capitolo II
2.1. La base del filologismo in filosofia, 111 – 2.2. Dell’ingenuità storiografica in fi-
losofia, 114 – 2.3. Le due direzioni dell’ingenuità storiografica, 116 – 2.4. L’equivo-
co storico in filosofia, 119 – 2.5. Equivoco di coscienza storica e conoscenza storica,
122 – 2.6. Le storie della filosofia rendono la filosofia accessibile al senso comune
prefilosofico, 127 – 2.7. L’ideale sistematico del prefilosofico si prolunga nella sto-
riografia, 130 – 2.8. Filosofare nonostante la storia della filosofia, 133 – 2.9. Inattua-
lità teoretica dello storicismo, 136 – 2.10. La nozione dogmatica di storia, 139 –
2.11. Il carattere fideistico della tradizione e il circolo del riconoscimento, 142 –
2.12. Due figure dell’accoglimento della tradizione: integralismo e progressismo,
146 – 2.13. La ragione formale come unica ragione delle due figure, 149 – 2.14.
L’ideale immanente del credere è coincidere con il vivere, 152 – 2.15. La ragione

5
6 Indice

formale presiede nel suo uso ciò che la determina nei suoi contenuti, 155 – 2.16. Se
ogni fede è cosmica, ogni cosmo è creduto, 158 – 2.17. La valenza sperimentale è
già nella protomatematica, come si esemplifica in Galilei, 162 – 2.18. Il carattere
ipotetico di ogni riferimento assertorio all’esperienza, 165 – 2.19. Il rischio erme-
neutico è considerare effettivo ciò che è interpretazione, come si esemplifica in Gali-
lei, 168 – 2.20. Il senso in cui la scienza è alienazione, 172 – 2.21. Ingenuità del ten-
tativo di fondare scienza e filosofia sull’esperienza immediata, 175 – 2.22. Il campo
in cui si discute è ciò che intanto permane indiscusso, 178 – 2.23. Credere di cono-
scere è non sapere di credere, 181 – 2.24. Il rapporto tra intendere e pretendere è
struttura del conoscere, 185 – 2.25. Il rapporto strutturale di compreso e compren-
dente tra universi, 188 – 2.26. Il rapporto di compreso e comprendente è struttura del
contenuto di osservazione, 191 – 2.27. Costanti del progetto d’esperienza e il vettore
di interesse, 195 – 2.28. Il progetto fondamentale e Kant, 198 – 2.29. Il progetto di
filosofare è il modo filosofico di progettare: miraggio del ritorno all’immediato, 201
– 2.30. Controllabilità e statuto dell’individuale, 204 – 2.31. Ambiguità del sapersi
orientare nel mondo, 207 – 2.32. L’intenzione conoscitiva del fenomeno individuale,
211 – 2.33. Progetto del conoscere come adeguazione progressiva, 214 – 2.34. Il co-
noscere rappresentato come rappresentazione, 217 – 2.35. Il presupporre è limite
presupposto all’operare, 220 – 2.36. La scienza ignora di essere una fede, 224 –
2.37. La scienza non può sapere ciò che essa implica, dovendo postulare ciò di cui
abbisogna, 227

231 Capitolo III


3.1. La considerazione pensante, 231 – 3.2. La conoscenza scientifica ipotizza la
realtà che le consente di ipotizzare, 234 – 3.3. Tentativo della distinzione tra ‘visione
naturale’ e ‘visione scientifica’ del mondo, 237 – 3.4. Esame della struttura del ‘pun-
to di vista’ nella configurazione dei sistemi di riferimento, 240 – 3.5. [Senza titolo],
244 – 3.6. [Senza titolo], 247 – 3.7. Dopo l’intermezzo ludico, che cosa si intende
per ‘considerazione logica’, 250 – 3.8. La logica formale è il modo formale di consi-
derare la logica, 253 – 3.9. Il formalismo della logica è il nihilismo della verità, 257
– 3.10. La conciliazione tra storia mondana e filosofare non può avvenire nella storia
mondana, 260 – 3.11. Ciò che si presenta con la divisione pone la richiesta della
connessione, 264 – 3.12. Il pensiero si affida al linguaggio per essere riconosciuto
come indipendente dal linguaggio, 267 – 3.13. Si esemplifica con l’espressione he-
geliana “movimento dell’essenza”, 270 – 3.14. Si insiste con l’esemplificazione he-
geliana, 273 – 3.15. Ancora esemplificazione hegeliana: la “cosa stessa” non può
venire utilizzata, 277 – 3.16. Il senso della cura–custodia, 280 – 3.17. Il senso in cui
il pensare penetra, 283 – 3.18. Il pragmatico è fittiziamente teoretico, 286 – 3.19. La
verità mette in questione ogni discorso intorno alla verità, 290 – 3.20. Il nesso tra
tecnica logica e configurazione funzionale del concetto, 293 – 3.21. La conoscenza
scientifica considera astratto ciò che essa non può considerare, 296 – 3.22. Rischio
dell’equivoco tra mera domanda e domanda pura, 299 – 3.23. L’imporsi della verità
è l’asse delle pseudofilosofie, 302 – 3.24. Volontà di coerenza e volontà di dominio,
306 – 3.25. Coerenza è fedeltà alla logica di un sistema, 309 – 3.26. Sistema ed esi-
stenza, 313 – 3.27. Esistenza e chiarificazione, 317 – 3.28. Esistenza e coscienza,
320 – 3.29. Coscienza e punto di vista, 324 – 3.30. Il punto di vista fondamentale
non è un punto di vista, 327 – 3.31. La nozione comune di esistenza e l’istituzione,
330 – 3.32. Ciò che esiste non è assoluto, 333 – 3.33. Differenza tra teoresi e teoria e
l’impossibilità di scegliere la teoresi, 337 – 3.34. La teoresi, che non è teoria, appare
in una qualche teoria, 340 – 3.35. Poiché l’intero non può essere oggetto, nessun og-
getto è intero, 343 – 3.36. La scienza che escluda la filosofia diventa “filosofia della
Indice 7

natura”, 347 – 3.37. [Senza titolo], 350 – 3.38. [Senza titolo], 353 – 3.39. [Senza ti-
tolo], 357 – 3.40. [Senza titolo], 360 – 3.41. [Senza titolo], 363

367 Capitolo IV
4.1. [Senza titolo], 367 – 4.2. [Senza titolo], 370 – 4.3. [Senza titolo], 373 – 4.4. Il
mondo della vita impone l’astrazione, 376 – 4.5. La filosofia non vincola a se stessa
le scienze, 379 – 4.6. [Senza titolo], 382 – 4.7. [Senza titolo], 385 – 4.8. [Senza tito-
lo], 389 – 4.9. [Senza titolo], 391 – 4.10. Ricorso alla formula, 395 – 4.11. La “for-
mula” e l’aporia del metodo ideale, 398 – 4.12. Il metodo di filosofare è filosofare,
ossia domandare, 401 – 4.13. [Senza titolo], 404 – 4.14. Inevitabilità dell’astratto,
406 – 4.15. Necessità e cogenza, 409 – 4.16. Il carattere divino della matematica è
l’essenza matematica di Dio anche se Galilei non lo vuole, 412 – 4.17. [Senza tito-
lo], 415 – 4.18. L’ordine astratto si esemplifica in Wolff, ma esso è la logica interna
della formulazione del principio di non contraddizione, 418 – 4.19. La “proposizio-
ne” è la figura minima del sistema, la forma del quale è l’equazione, 422 – 4.20.
L’ideale del conoscere esclude dal conoscere l’operare, 425 – 4.21. Le condizioni
del conoscere sono riconosciute nella loro indipendenza dal conoscere, nel conosce-
re di cui sono condizioni, 427 – 4.22. La relazione, che è esperienza, non può essere
relazione dell’esperienza con altro da essa, 431 – 4.23. La conoscenza dell’incono-
scibilità dello in sé è conoscenza in sé, 434 – 4.24. L’astratto è inevitabile, ma non
necessario, 437 – 4.25. Per dire con che cosa si comincia, si comincia con la doman-
da intorno a come si comincia, 440 – 4.26. Affermare la totalità è dimostrare che es-
sa non può venire negata e, dunque, non abbisogna di venire affermata, 443 – 4.27.
La condizione apriori è trovata analiticamente, perché è contraddittorio che, nel no-
stro conoscere, tutto derivi dall’esperienza, 447 – 4.28. L’uso è unicamente empirico
ed è riconosciuto trascendentalmente, 450 – 4.29. L’analisi è la presenza operante
del “principio di non contraddizione”, 453 – 4.30. La struttura sintetica del giudizio
è l’infinitezza dell’analisi, 456 – 4.31. Il giudizio è domanda infinita di venire fonda-
to, 459 – 4.32. Tra esperienza e giudizio non sussiste rapporto, perché l’esperienza
non può essere un giudicato, 463 – 4.33. La prima forma di mediazione è l’immedia-
tezza fenomenologica, o medialità, 466 – 4.34. Il contessere infinito del dato non è
dato, 469 – 4.35. Ogni ordinamento di oggetti è teorico, 473 – 4.36. L’oggetto è plu-
ralità di oggetti, 476 – 4.37. Se è astratto l’oggetto, è astratto il suo contesto, 479 –
4.38. L’intuizione astrae dal contessere infinito, 483 – 4.39. Ciò che è dato per primo
è risultato di un processo astrattivo: l’intuizione non è originaria, 486 – 4.40. Diffe-
renza tra teorica dei giudizi e teoresi del giudizio. Impostazione, 489 – 4.41. L’inter-
pretazione empirica dell’oggetto “come tale” quale “oggetto in generale”: trascrizio-
ne generalizzata degli oggetti, 493 – 4.42. La sintesi precede ogni analisi e la condi-
ziona, 496 – 4.43. Il conoscere presenta un duplice livello: quello del suo fungere
che costituisce l’oggetto, quello della consapevolezza di tale fungere, 499 – 4.44. Il
conoscere muove dalla fiducia nello essere in sé del conosciuto, con base esclusiva-
mente pratica, 502 – 4.45. Può venire formulata anche la contraddizione, dunque la
forma proposizionale non è struttura del giudicare, 506 – 4.46. L’analisi come pre-
senza dell’incontraddittorietà formulata come “principio di non contraddizione”, 509
– 4.47. Un giudizio media la posizione di altro giudizio: medialità posizionale o fe-
nomenologica, 512 – 4.48. Di volta in volta un giudizio può valere come analitico o
come sintetico, 515 – 4.49. Si intende di sapere con necessità, 520 – 4.50. Se v’è un
modo empirico di conoscere, v’è un modo non empirico di riconoscerlo, 523 – 4.51.
Kant conosce analiticamente che la conoscenza umana è sintetica, 526 – 4.52. Nes-
sun giudizio matematico è conoscitivo, 530 – 4.53. La ragione dell’aritmetica è un
fatto, perché le risulta possibile ciò che le risulta fattibile, 533 – 4.54. Le categorie
8 Indice

trovate dall’analitica sono usate dalla stessa analitica, 536 – 4.55. L’esperienza è
condizione del darsi delle sue condizioni, 539 – 4.56. “Cosa” ha significato operati-
vo, 542 – 4.57. Il tempo è essenzialmente prassi, 545 – 4.58. Spazio e tempo pro-
vengono dalla sintesi dell’intelletto, ma operano nella sensibilità, 549 – 4.59. L’og-
gettivazione dell’esperienza è matematizzazione, di cui il trascendente è negazione,
552 – 4.60. Il trascendentale è, ma non appare, 555 – 4.61. La sintesi è negazione di
se stessa come negarsi reciproco dei suoi termini, 559 – 4.62. Tempo e durata, 562 –
4.63. La presenza fungente dell’apriori è analiticamente reperibile nel dato e non lo
eccede, 565 – 4.64. La differenza tra conoscere e sapere è conosciuta e saputa, 569 –
4.65. Conoscere non è sapere e l’oggetto è matematico perché è oggetto, 572 – 4.66.
Esemplificazione con Kant di ambiguità fra matematica e conoscenza, 575 – 4.67. Il
conoscere della matematica, essendo matematico come conoscere, non è conoscere,
579 – 4.68. La volontà di potenza è l’impotenza dell’io nei confronti delle sue rap-
presentazioni, 583 – 4.69. L’io si riferisce a se stesso come dato all’io, 587 – 4.70.
[Senza titolo], 590 – 4.71. [Senza titolo], 593 – 4.72. [Senza titolo], 596 – 4.73.
[Senza titolo], 599 – 4.74. Non vi può essere una ragione pura, 602 – 4.75. [Senza ti-
tolo], 605 – 4.76. [Senza titolo], 608 – 4.77. Teoresi e finitezza della ragione, 612 –
4.78. [Senza titolo], 615 – 4.79. Il senso teoretico dell’inconoscibilità dello “in sé” è
quello dell’inoggettivabilità del vero, 618 – 4.80. [Senza titolo], 621 – 4.81. La ra-
gione è strumentale per se stessa, 624
Prefazione

ENRICO BERTI*

Normalmente la prefazione a un libro, se scritta da una persona diver-


sa dall’autore, serve a illustrare il contenuto del libro. Il lettore non si
attenda questo dalla presente prefazione, non solo perché il libro in
questione contiene cinque anni di corsi universitari per un totale di più
di 600 pagine, ma anche perché mi è molto difficile, se non impossibi-
le, riassumere il contenuto di un libro del mio grande amico Romano
Bacchin, per la profondità del suo pensiero, per la complessità della
sua esposizione, e per il carattere di vero e proprio “filosofare in atto”
che i suoi scritti presentano. Non credo che ciò dipenda solo dalla mia
età ormai molto avanzata, perché anche 20 anni fa, quando scrissi la
prefazione al suo volume Haploustaton (Firenze, Arnaud, 1995), dissi
più o meno la stessa cosa. Chi vuole conoscere il pensiero di Bacchin,
legga i suoi libri, compreso questo, postumo, della cui cura dobbiamo
essere grati al prof. Giovanni Castegnaro, che ce l’ha messo a disposi-
zione.
Vorrei quindi usare l’occasione che mi è data da questa prefazione
per tentare di spiegare, almeno a grandissime linee, chi era Giovanni
Romano Bacchin, che considero uno dei più grandi pensatori italiani
del Novecento, ma che purtroppo pochissimi conoscono, perché non
fece una grande carriera accademica, non frequentò congressi o perio-
dici, non pubblicò con case editrici dalla grande distribuzione. Credo
di essere tra i pochi che possono fare questo, almeno in parte, perché
l’ho conosciuto prima di tanti suoi allievi, amici e ammiratori, ed ho
trascorso vicino a lui il periodo decisivo della sua, e della mia, forma-
zione filosofica. Mi scuso se, in questo modo, dovrò parlare anche di
me, cadendo nel vizio insopportabile di chi, dovendo parlare degli a-
mici defunti, finisce col parlare soprattutto di se stesso. Ma questo è
ciò che possono fare i vecchi: ricordo, si parva licet comparare ma-
gnis, che Gadamer nell’ultimo periodo della sua vita (che durò fino a
102 anni), faceva soprattutto questo.
*
Università degli Studi di Padova.

9
10 Prefazione

Giovanni Romano Bacchin nacque, come riportano le poche infor-


mazioni biografiche disponibili, a Belluno il 27 dicembre 1929 (gior-
no che il calendario cattolico dedica alla memoria di san Giovanni E-
vangelista, ragione per cui, forse, fu chiamato anche Giovanni). Fre-
quentò il liceo a Padova, da laico, ma dopo il liceo ebbe la vocazione a
farsi prete, per cui dedicò i quattro anni dopo la maturità allo studio
della teologia, prima di iscriversi all’università. La sua fu, dunque, una
vocazione adulta, espressione di una fede che egli non rinnegò più,
nemmeno quando, deciso a sposare la donna di cui si era innamorato,
Cesira Crocesi, chiese e ottenne dalla Chiesa la riduzione allo stato
laicale, di modo che poté sposarsi col matrimonio sacramentale. Ma fu
ordinato prete secondo una formula alquanto rara, concessagli dall’ar-
civescovo di Spoleto, il futuro cardinale Poletti, vicario papale di Ro-
ma, cioè non in servitium dioceseos, bensì ad nutum sui, cioè per sua
personale edificazione. Ciò gli consentì di dedicarsi per tutta la vita al-
lo studio e all’insegnamento della filosofia.
Bacchin si iscrisse al corso di laurea in filosofia dell’Università di
Padova nel 1957, cioè nell’anno in cui io, più giovane di lui, avevo
portato a termine con la laurea il medesimo corso, quindi non fummo
compagni di studi universitari. La personalità filosofica allora più in
vista nell’università di Padova era Marino Gentile, formatosi allo stu-
dio di Aristotele nella Scuola Normale di Pisa, divenuto sostenitore
della “metafisica classica”, da lui rielaborata in forma del tutto origi-
nale. Bacchin, che si era immediatamente distinto tra gli studenti, im-
ponendosi all’ammirazione di docenti e colleghi, fu invitato da Marino
Gentile a preparare la tesi di laurea sotto la sua direzione, il che av-
venne, per cui egli conseguì la laurea in filosofia nel 1961 con una te-
si, diretta da Marino Gentile, su “La funzione proposizionale” in Rus-
sell, credo, e nella filosofia analitica contemporanea.
All’epoca, essendomi laureato anch’io con tesi diretta da Marino
Gentile (su Aristotele), ero diventato suo assistente, e nella mia stessa
posizione si trovava anche Franco Chiereghin, di due anni più giovane
di me, laureatosi anche lui con tesi diretta da Marino Gentile (su He-
gel). Fu Franco a farmi conoscere “don Romano” e insieme formam-
mo un “triangolo” (termine usato in seguito da Marino Gentile) che
non si stancava mai di discutere di filosofia, avendo tutti e tre come
base comune il pensiero dello stesso maestro. Ricordo estati memora-
bili in montagna, a Falcade, nei primi anni Sessanta, in cui, attraverso
interminabili discussioni, si formò il nostro pensiero filosofico.
Prefazione 11

Bacchin era indubbiamente il più creativo e il più originale dei tre,


essendo io preso dallo studio di Aristotele e Chiereghin dallo studio di
Hegel. Egli rielaborò il pensiero di Marino Gentile con due mosse de-
cisive. Gentile allora sosteneva che il problema metafisico si pone al-
l’inizio dello stesso filosofare, quando si ha il coraggio di mettere in
questione l’esperienza nella sua totalità, mediante “un domandare tut-
to che è tutto domandare”. Questo atto di problematizzazione dell’in-
tera esperienza era chiamato dallo stesso Gentile “problematicità pu-
ra” e costituiva il punto di partenza di un percorso che, in seguito,
continuava lungo le vie praticate dagli altri sostenitori della “metafisi-
ca classica”, ad esempio Umberto Padovani (che aveva preceduto
Gentile nella cattedra di Filosofia teoretica a Padova), ma anche Gu-
stavo Bontadini, allora professore alla Cattolica di Milano. Si trattava,
cioè, di far reagire l’esperienza col principio di non contraddizione,
determinando la necessità di trascendere l’esperienza stessa col porre
un principio che fosse puro atto. Era la via già indicata da Aristotele,
ma “essenzializzata e storicizzata”, come diceva Padovani. Tutto que-
sto era stato esposto da Marino Gentile in Come si pone il problema
metafisico (Padova, Liviana, 1955).
Bacchin fece due osservazioni fondamentali. 1) La problematicità
pura è “improblematizzabile”, perché ogni tentativo di problematiz-
zarla, cioè di metterla in discussione, è un atto di problematicità, e
dunque non fa che riproporla. Era questo un argomento simile a quello
usato da Descartes a proposito del dubbio: il dubbio è indubitabile,
perché ogni tentativo di dubitarne non fa che riproporlo. Esso dunque
mostrava che la problematicità pura era il punto di partenza innegabi-
le, inconfutabile, incontrovertibile, della filosofia, che rispetto al dub-
bio cartesiano aveva il vantaggio di non essere un atto soggettivo, in-
terno, privato, ma di essere l’espressione dell’intera esperienza, la
quale non si presentava più come un oggetto esterno rispetto al sog-
getto, secondo il dualismo tipico dell’intera filosofia moderna, ma fa-
ceva tutt’uno col soggetto, era insieme soggetto esperiente, oggetto
esperito e atto dell’esperire. Guadagno, quest’ultimo, dell’idealismo di
Hegel, prima, e di Giovanni Gentile, poi. 2) La problematicità pura —
seconda osservazione di Bacchin — non è solo il punto di partenza
della filosofia, cioè la semplice posizione del problema metafisico, cui
debba seguire una soluzione diversa secondo, ad esempio, il percorso
indicato da Padovani. Essa è già di per sé l’intero discorso metafisico,
perché manifesta l’insufficienza dell’esperienza a spiegare sé stessa e
12 Prefazione

quindi è già di per sé la richiesta, la domanda, ma una domanda in-


sopprimibile e ineludibile (grazie alla sua “improblematizzabilità”) di
un principio trascendente, cioè dell’intera metafisica.
Io ricordo soprattutto queste due osservazioni, ma dietro ad esse
c’era un formidabile lavoro di approfondimento e ripensamento del
pensiero di Marino Gentile, al quale contribuivamo in piccola parte
anche Chiereghin ed io, rilevando la coincidenza tra esperienza e prin-
cipio di non contraddizione e la struttura confutatoria, “elenctica”,
cioè dialettica, del discorso metafisico. Per cui un giorno lo stesso
Bacchin ebbe a dire, senza voler peccare di ingratitudine verso il co-
mune maestro, ma per segnalare il ripensamento originale che aveva-
mo compiuto del suo insegnamento, “in fondo, Marino Gentile
l’abbiamo inventato noi!”.
Il risultato di questo lavoro di Bacchin, immane come mole di pen-
siero, di studi, di riflessioni, di discussioni, trovò espressione, grazie
alla vena oratoria del suo artefice, in una bordata di cinque volumi,
pubblicati tutti in una volta, cioè nello stesso anno 1963, da un’oscura
casa editrice romana, trovata non so come dallo stesso Bacchin: Jandi
Sapi. Consentitemi di ricordarne solo i titoli: 1) Su le implicazioni teo-
retiche della struttura formale (sintesi, credo, della tesi di laurea); 2)
Originarietà e mediazione nel discorso metafisico (esposizione delle
due osservazioni di cui sopra); 3) Su l’autentico nel filosofare; 4) L’o-
riginario come implesso esperienza–discorso (titolo che parla da sé);
5) Il concetto di meditazione e la teoresi del fondamento (su Descartes
e Husserl). Pochissimi lessero questi volumi, del tutto irreperibili,
all’infuori di pochi amici, a cui l’autore ne fece omaggio, e della Com-
missione giudicatrice dell’esame di libera docenza, a cui egli li mandò
nel 1965, conseguendo in tal modo la libera docenza universitaria in
Filosofia teoretica.
Munito della libera docenza Bacchin si sentiva, ed era, pronto per
insegnare filosofia in una università, perciò, senza attendere improba-
bili incarichi, decise di fondare lui stesso, insieme ad un professore di
liceo di Assisi, Giovanni Drago, una libera università in Assisi, con
un’unica facoltà, magistero, nella quale poter insegnare filosofia. As-
sisi dista solo 20 chilometri da Perugia, dove c’era già una università
statale, retta da Giuseppe Ermini, personaggio estremamente influente
(era stato anche ministro della pubblica istruzione), con una facoltà di
Lettere e filosofia, dotata di ottimi docenti (in successione Armando
Plebe, Pietro Prini, Armando Rigobello), tutti molto noti. Perciò il mi-
Prefazione 13

nistero negò il riconoscimento legale ai titoli rilasciati dalla libera uni-


versità di Assisi, la quale fu costretta a chiudere.
Nel frattempo io avevo avuto la ventura di vincere il concorso uni-
versitario alla cattedra di filosofia antica, bandito dall’università di
Bari nel 1963, e di essere chiamato contemporaneamente dall’univer-
sità di Macerata (per iniziativa di Michele Federico Sciacca, presiden-
te del Comitato tecnico della nuova Facoltà di Lettere e filosofia) e
dall’università di Perugia (su proposta di Armando Rigobello, che era
stato mio professore di filosofia al liceo). Come unico ordinario di di-
scipline filosofiche, assunsi nella Facoltà di Lettere e filosofia la dire-
zione dell’Istituto di Filosofia e in tale veste proposi e ottenni dalla
Facoltà di affidare un incarico di disciplina filosofica a Romano Bac-
chin. In tal modo, nel 1966, questi divenne professore di Filosofia del-
la storia (la Filosofia teoretica era tenuta da Edoardo Mirri, la Filoso-
fia morale da Armando Rigobello e la Storia della filosofia da me)
nell’università di Perugia, incarico che tenne fino al 1981.
Il successo che Bacchin ebbe tra gli studenti fu enorme: tutti resta-
vano affascinati dal suo modo di parlare e, soprattutto, dal suo modo
di pensare e di far pensare. Gli studenti avevano la sensazione di stare
facendo filosofia tutti insieme, e di fare una grande filosofia, una filo-
sofia che si misurava continuamente con Platone, Aristotele, Kant,
Hegel, Marx, Husserl, Gentile, Heidegger, la filosofia analitica. Alle
sue lezioni accorrevano anche anziani, preti, professionisti, pensionati,
tutti conquistati dal suo insegnamento. Anche per me la venuta di Bac-
chin a Perugia fu una fortuna, perché potemmo continuare il fruttuoso
dialogo filosofico che avevamo intrapreso a Padova, approfondendo
ulteriormente i temi fondamentali della metafisica classica, soprattutto
la confutazione di Severino, che nel frattempo aveva pubblicato il fa-
moso articolo Ritornare a Parmenide, sul quale intervenimmo sia
Bacchin che io. Ricordo che nel 1967 Marino Gentile promosse un
seminario a Padova, invitando Severino e chiamando da Perugia me e
Bacchin. A Padova ritrovammo Franco Chiereghin e tutti e tre insieme
riuscimmo ad imporre all’attenzione generale la nostra proposta filo-
sofica, che entusiasmò Marino Gentile (il quale ci definì il “triango-
lo”) e lasciò in silenzio Severino, abituato ad essere lui al centro del-
l’attenzione. Un segno della stima di Marino Gentile per Bacchin fu la
recensione che egli fece ai cinque volumi di Bacchin sopra citati nella
rivista “Le parole e le idee” del 1965, esempio raro di recensione fatta
dal maestro all’allievo (di solito accade il contrario), con parole di elo-
14 Prefazione

gio quali egli non ebbe più per nessuno dei suoi allievi. In essa Gentile
riconobbe il contributo portato da Bacchin al suo pensiero con il rilie-
vo dell’improblematizzabilità della problematicità e con la riduzione
dell’intero discorso metafisico a quest’ultima, e riconobbe anche altri
nostri contributi, quali il carattere dialettico, ossia confutatorio, del di-
scorso metafisico.
Ricordo anche un memorabile seminario interdisciplinare, con va-
rie sedute, tenuto a Perugia in collaborazione da tre docenti, Bacchin,
Mirri e il sottoscritto, al quale accorsero tutti gli studenti, disertando
altri corsi e suscitando qualche invidia tra gli altri colleghi. Correva
l’anno 1968, nel quale scoppiò anche in Italia la contestazione studen-
tesca, e l’idea di seminari interdisciplinari, con la partecipazione con-
temporanea di più docenti, i quali dovevano confrontarsi e mettersi in
discussione davanti agli studenti, era nuova, ed era in linea con le nuo-
ve richieste studentesche, perciò piacque molto. Venne poi il 1970, se-
condo centenario della nascita di Hegel, per cui ci cimentammo tutti
con la filosofia hegeliana, in particolare col famoso problema del “co-
minciamento” della filosofia. Bacchin aveva scritto su tale problema
un volume, L’immediato e la sua negazione (Perugia, La Grafica,
1967), in cui illustrava il passaggio, in Hegel, dall’essere immediato al
nulla, cioè alla sua negazione, mostrando l’impossibilità dello stesso
immediato. Nell’intento di recensire questo volume scrissi anch’io un
articolo sull’argomento, La fondazione dialettica del divenire in Hegel
e nella filosofia odierna, “Theorein” (rivista diretta allora da Nunzio
Incardona), 6, 1969–1972, pp. 168–179, nel quale mi identificavo to-
talmente con l’interpretazione bacchiniana di Hegel.
Nel 1971 mi trasferii a Padova, chiamato alla cattedra di Storia del-
la filosofia, diventando in tal modo collega del mio maestro, Marino
Gentile che teneva la cattedra di Filosofia teoretica. Lasciai così Peru-
gia e per qualche anno interruppi i contatti con Romano Bacchin. Ahi-
mè, mal ce ne incolse, perché nel 1975 fu bandito un concorso a una
cattedra di Filosofia teoretica, Marino Gentile fu eletto nella Commis-
sione giudicatrice con l’intenzione precisa di “portare in cattedra”
Bacchin, il quale strameritava questo riconoscimento, perché nel frat-
tempo aveva pubblicato altri volumi, tutti ottimi, tra cui Metafisica
originaria, Perugia, Centro Studi Fermi, 1970; Saggi di Ermeneutica
filosofica, Perugia, CLEUP, 1969–70; Anypotheton. Saggio di filoso-
fia teoretica, Roma, Bulzoni (finalmente una casa editrice di portata
nazionale), 1975. Ma lo sciagurato, che pensava solo alla filosofia e i-
Prefazione 15

gnorava le più elementari norme di partecipazione ai concorsi, presen-


tò la sua domanda non per il concorso di Filosofia teoretica, che a-
vrebbe sicuramente vinto, bensì per il concorso di Filosofia della sto-
ria, perché questa era la disciplina di cui era incaricato a Perugia e che
egli credeva fosse l’unica a cui, per tale ragione, poteva concorrere.
Per questo motivo Bacchin non vinse la cattedra di professore ordina-
rio, che poi chiamarono di “prima fascia”. Se io fossi rimasto a Peru-
gia, gli avrei insegnato quest’unica cosa, come ci si presenta ai con-
corsi universitari.
Nel 1981 Marino Gentile, avendo raggiunto i 75 anni tra ruolo e
“fuori ruolo”, andò in pensione e liberò l’insegnamento di Filosofia
teoretica a Padova. Mi trovai di nuovo ad essere direttore dell’Istituto
di Filosofia e a dover proporre alla Facoltà il relativo docente. Qual-
cuno tra i colleghi fece il nome di Massimo Cacciari, per il quale ave-
vo e ho la massima stima (recentemente l’ho proposto io per l’elezio-
ne all’Accademia dei Lincei), ma mi sembrava più giusto che l’inse-
gnamento di Marino Gentile fosse continuato da un suo allievo, perciò
telefonai a Bacchin, questi presentò la sua domanda e la Facoltà gli af-
fidò l’insegnamento di Filosofia teoretica. Anche a Padova il successo
di Bacchin fu enorme, così come enorme fu la sua operosità filosofica.
Pubblicò infatti Teoresi metafisica, Padova, Nuova Vita, 1984; fondò
una collana di “Saggi filosofici” per la Unipress, dove, oltre a scritti di
suoi allievi, pubblicò postumo il suo volume La struttura teorematica
del problema metafisico (1996); infine uscì postumo anche il sopra ci-
tato Haploustaton, con la mia prefazione.
Dell’ultimo periodo di riflessioni di Bacchin non saprei dire molto,
sia perché le nostre strade si svilupparono parallelamente, essendo en-
trambi impegnati in insegnamenti e ricerche, sia perché il suo pensiero
divenne per me sempre più complesso e difficile da seguire. Ad un
certo punto ebbi l’impressione che Bacchin si fosse allontanato dal-
l’insegnamento di Marino Gentile, e quindi dalla metafisica classica,
per avvicinarsi all’attualismo dell’altro Gentile, cioè Giovanni, ma
non sono sicuro di avere capito bene. Contemporaneamente aveva pre-
so una sua direzione originale anche il pensiero di Franco Chiereghin,
per cui il “triangolo” degli anni Sessanta non si riprodusse nella Pado-
va degli anni Ottanta e Novanta, e io rimasi, forse, il più fedele al pen-
siero del comune maestro, ma anche il meno originale. Restarono tut-
tavia intensi i rapporti di amicizia personale, tant’è vero che, dopo la
morte improvvisa di Bacchin, molti dei suoi laureandi vennero da me
16 Prefazione

per completare le tesi di laurea che avevano iniziato sotto la sua guida.
Una dei suoi ultimi allievi, Daniela Carugno, si rivolse a me per pub-
blicare il suo libro su Kant, Il metodo della riflessione nella “Critica
della ragion pura”, Napoli, La Città del Sole, 2006, del quale corressi
con grande fatica le bozze.
La morte di Bacchin, avvenuta all’improvviso il 10 gennaio 1995
sulla spiaggia di Rimini, dove egli si trovava da solo, colse tutti di
sorpresa, come un fulmine a ciel sereno. Non risultava che egli fosse
malato, aveva insegnato fino a pochi giorni prima di Natale, aveva ac-
canto a sé una borsa con dentro il manoscritto di Haploustaton, non
ancora terminato, quindi aveva fatto filosofia sino al momento di mo-
rire. Il rettore dell’università di Padova, Gilberto Muraro, che lo aveva
conosciuto e apprezzato, volle che gli fosse tributata la cerimonia del-
l’“alzabara” nel cortile antico del Palazzo del Bo’, onore normalmente
riservato solo ai professori ordinari, mentre Bacchin era morto da pro-
fessore associato. Al suo funerale religioso, al quale potei assistere, vi-
di studenti piangere come non avevo mai visto al funerale di un pro-
fessore. Per molti giorni i suoi allievi ricoprirono i muri del Liviano,
sede della Facoltà, con manifesti recanti la sua fotografia ed espres-
sioni di dolore per la sua morte.
Due anni dopo l’Istituto di Filosofia dell’Università di Padova, di-
retto da Franco Biasutti, pubblicò una raccolta di scritti di Bacchin col
titolo Classicità e originarietà della metafisica. Scritti scelti, Milano,
FrancoAngeli, 1997. Nel 2004 la casa editrice Il Poligrafo, di Padova,
si rivolse a me per chiedermi di programmare la pubblicazione di al-
cune opere di Bacchin. Proposi una lista di sei volumi, diversi da quel-
li ripubblicati da FrancoAngeli, cioè: L’immediato e la sua negazione
(1967), La struttura teorematica del problema metafisico (1970), Me-
tafisica originaria (1970), Anypotheton (1975), Teoresi metafisica
(1984), Haploustaton (1995). Ma poi non se ne fece più nulla. È per-
ciò con grande piacere che saluto ora la pubblicazione di questo vo-
lume, di cui ignoravo l’esistenza e del quale dobbiamo essere grati a
colei che fu la sposa di Romano Bacchin, Cesira Crocesi Bacchin, e al
prof. Giovanni Castegnaro, che di Bacchin fu devoto allievo.

Padova, gennaio 2017

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