La pre-eclampsia è un disordine ipertensivo multisistemico della gravidanza
caratterizzato da una pressione sanguigna superiore a 140/90 mmHg nella seconda
metà della gravidanza, da una escrezione urinaria delle proteine superiore ai 300mg/d e da lesioni renali. Affligge tra il 3 e il 5% delle gravidanze ed è una delle principali cause di mortalità materna, specialmente nei paesi in via di sviluppo. Le complicazioni che possono essere associate alla PE sono: eclampsia, ictus emorragico, emolisi, enzimi epatici elevati e piastrine basse (sindrome di HELLP), insufficienza renale ed edema polmonare. È importante sottolineare che l’unica cura conosciuta per la PE è l’espulsione della placenta che spesso porta ad un parto prematuro, esponendo il neonato ai rischi della prematurità così come a rischi aggiuntivi per disturbi metabolici e malattie croniche. Infatti, i bambini nati da donne affette da PE spesso soffrono per la restrizione della crescita uterina e per la nascita pretermine che rende i neonati più suscettibili allo sviluppo di malattie cardiovascolari e a problemi comportamentali durante la crescita. Gli obiettivi della gestione clinica della PE sono, quindi, mirati alla prevenzione delle crisi ipertensive materne e la limitazione ai danni del feto. Questi principi vengono attuati tramite somministrazione di farmaci e controllo e valutazione dello stato fetale. Se il trattamento non riesce a correggere la severa ipertensione materna o se vi è evidenza di stato fetale non rassicurante, si procede al parto. La terapia consiste, fondamentalmente, nel trattamento aggressivo contro l’emergenza ipertensiva (durata di più di 15 min) tramite somministrazione di betabloccanti e vasodilatatori, abbassando la pressione materna del 15-25% (SBP>160 a SBP<150-140; DBP>105 a DBP<90). In caso di convulsioni materne dettate da complicazioni della PE come ad esempio l’eclampsia stessa, si procede, invece, alla somministrazione di solfato di magnesio che ha il duplice effetto di abbassare la pressione sanguigna e di fungere da anticonvulsivante, anche se spesso il suo utilizzo è controindicato a favore di anticonvulsivanti tradizionali. Eventi iniziali della PE risultano essere il rimodellamento vascolare inappropriato e una placenta iperfusa derivati dalla migrazione poco profonda del citotrofoblasto verso le arteriole spiralizzate uterine. La placenta diventa ischemica e rilascia fattori associati alla disfunzione endoteliale vascolare materna, caratterizzata da vasocostrizione e ridotto flusso sanguigno agli organi. Studi dimostrano una relazione tra fattori anti-angiogenici quali sFlt1 o recettori 1 del VEGF e l’ipertensione durante la gravidanza. Infatti, i livelli di questi fattori sono più alti in donne che hanno PE rispetto a donne con normale gravidanza. L’aumento di sFlt1 è dovuto ad uno squilibrio tra le cellule immunitarie TH1 e TH2. Vi è, infatti, uno spostamento verso la risposta TH1 che porta ad un ambiente immunitario cronico simile a quello di individui con malattie autoimmuni. È stato dimostrato che l’aumento dell’indice di massa corporea e le donne affette da diabete sono più sensibili allo sviluppo della PE. Infatti sia il diabete di tipo 1 che quello di tipo 2 sono associati ad un’infiammazione cronica di basso grado che insieme al fatto che le donne con PE tendono ad essere resistenti all’insulina prima della gravidanza potrebbe essere una delle ragioni per cui le donne con diabete sono più sensibili alla PE. In sintesi essendo questi disturbi collegati al tema dell’infiammazione cronica, si può ipotizzare che un insulto infiammatorio patologico sovrapposto allo stato pro- infiammatorio della gravidanza conduca a complicazioni gravi come la PE. I fattori di rischio della PE sono vari e unici per questa condizione: Recidività alla PE. Esiste un rischio di 7 volte maggiore nelle donne che hanno avuto questa malattia in una precedente gravidanza. Gestazioni multiple. Possono portare ad un rischio maggiore dettato da una massa placentare maggiore Fattori di rischio cardiologici: età superiore ai 40, obesità, diabete. La placenta è l’organo centrale nella PE, infatti, vi sono anormalità dello sviluppo placentare che precedono le alterazioni materne alla base della malattia. Durante la normale placentazione, le cellule citotrofoblastiche invadono la parete uterina materna. Dopo l’invasione si localizzano nel muscolo liscio e negli strati endoteliali delle arterie deciduali materne. Ciò serve nell’indurre il rimodellamento dei vasi materni in vasi ad alta capacità e bassa resistenza che procurano l’accesso all’ossigeno materno e ai nutrienti per la placenta e il feto. I citotrofoblasti assumono un fenotipo endoteliale ed esprimono molecole di adesione. Nella PE tutto ciò non accade. L’invasione dei citotrofoblasti è incompleto, sono presenti solo sugli strati superficiali della decidua. Le arterie a spirale non vengono invase e non subiscono rimodellamento. Avremo così vasi stretti ad alta resistenza. La mancata invasione è dovuta sicuramente ad una condizione di ipossia. Coerentemente donne ad altitudini maggiori hanno un rischio più elevato di sviluppare la PE. Recentemente proteine antiangiogeniche sono state implicate nella patogenesi di molti sintomi materni della malattia. Nel 1989 Roberts e Taylor hanno avanzato l’ipotesi che la disfunzione endoteliale vascolare materna sia dettata dal rilascio di fattori di circolazione della placenta. Secondo studi questi fattori sono sFlt1 sEng. sFlt1 è un potente inibitore dell’attività del VEGF (induce la formazione dell’endotelio vascolare). In donne con PE è molto elevata la presenza di questo fattore. Nei ratti è stato visto come questo fattore ha indotto ipertensione, proteinuria e lesioni renali, classici sintomi della PE. sEng è un’altra proteina antiangiogenica che può combinarsi con sFlt1 per indurre i gravi caratteri della PE compresa la disfunzione epatica e restrizione della crescita fetale. In donne con PE il fattore sEng è 4 volte superiore rispetto a donne con normali gravidanze. Inoltre, sEng riduce la formazione del tubo endoteliale e aumenta la permeabilità capillare nel polmone, fegato e rene. L’importanza di questi fattori nello sviluppo della malattia fa ben sperare da un punto di vista terapeutico, in quanto la somministrazione di VEGF potrebbe essere usata come trattamento per la PE. Sfortunatamente non tutti i pazienti con PE sono stati registrati con altissimi livelli di questi fattori. La liberazione della placenta guarisce la PE ma le donne colpite sono maggiormente soggette a molti tipi di malattie cardiovascolari e le morti per questo genere di complicazioni sono circa 2 volte maggiori in donne con precedenti di PE. Se combinata con parto pretermine il rischio aumenta da 4 a 8 volte rispetto ad una normale gravidanza. Ciò sembrerebbe dovuto alla presenza dei fattori antiangiogenici che permangono anche dopo l’eliminazione della placenta. Fondamentale per la formazione della placenta è la cooperazione tra cellule NK e i trofoblasti del feto. I trofoblasti si muovono verso la decidua e sostituiscono le cellule endoteliali che rivestono i vasi. Le cellule NK hanno il compito di rimodellare alcuni vasi sanguigni dell’endometrio, che durante il processo si trasformerà in un tessuto mollo, la decidua. Diminuiscono poi durante la seconda metà della gravidanza lasciando il posto a componenti dell’infiammazione. L’interazione tra i 2 è supportata dalla presenza di molecole MHC di classe 1 sui villi dei trofoblasti che sono dei buoni ligandi per i recettori delle cellule NK(KIR). Hiby et al. sostengono che questa interazione sia coinvolta nello sviluppo della PE. Confrontando 200 donne con PE e 201 donne con gravidanze normali è emersa la relazione tra molecole HLA- C dei trofoblasti fetali e KIR sulle cellule NK uterine. Sono stati individuati 2 gruppi per i KIR Gruppo A: KIR inibitori Gruppo B: KIR attivatori La PE è più diffusa nelle donne che sono omozigoti per il gruppo A e quindi l’assenza dei KIR attivatori favorisce la malattia. Anche per le molecole HLA-C si formano 2 gruppi fra cui il C2 risulta essere più forte di C1 legandosi meglio ai KIR. È stato mostrato che la maggior diffusione di PE è dovuta alla combinazione del genotipo AA KIR materno e del genotipo fetale C2. Questa combinazione esprime segnali inibitori per le cellule NK che a loro volta inducono i trofoblasti a smettere di rimodellare i vasi sanguigni materni, aumentando la probabilità di PE. Purtroppo siamo ancora lontani dal poter predire e prevenire la PE. Negli ultimi anni molte risorse sono state impiegate al fine di individuare test di screening di tipo biofisico e biochimico in grado di identificare le donne a maggior rischio di PE, ma nessuno di questi ha dimostrato valore predittivo significativo e pochi sono usati nella pratica clinica; ciò dipende dalle mancate certezze sulle cause della PE. Diversi farmaci e supplementazioni dietetiche sono state oggetto di studio Stile di vita. Né il riposo né l’attività fisica si sono dimostrati utili nel ridurre l’incidenza di PE e non sono quindi raccomandabili Calcio. Non ha dimostrato alcuna evidenza di una riduzione dell’incidenza. Una review più recente ha in realtà mostrato una riduzione significativa dello sviluppo di PE solo nelle donne con basso contenuto di calcio nella dieta. Possiamo quindi soltanto affidarci a controlli regolari durante la gravidanza che tengano conto di particolari aspetti tra cui: Monitoraggio della pressione arteriosa. La comparsa di ipertensione nella 32 settimana di gravidanza è associata a sviluppo di PE nel 50% dei casi Controllo mensile della proteinuria. Visite ambulatoriali. Pazienti con fattori di rischio accertati di PE vanno valutate ogni 3-4 settimane prima di 32 settimane e ogni 2-3 settimane dopo la 32 settimana.