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GEOGRAFIA FISICA (BIOGEOGRAFIA)

La geografia fisica studia l’ambente terrestre nelle sue componenti naturali. L’interesse per
l’ambiente naturale è in relazione al rapporto uomo/ambiente e non fine a sé stesso. L’obiettivo è lo
studio dell’ambiente terrestre in quanto:
 Sede di insediamento e di attività umane;
 Fonte di risorse prodotte dai processi naturali della terra (giacimenti minerali, combustibili,
suolo, aria, acqua, piante, animali). Queste risorse sono poi divisibili in:
 risorse non rinnovabili → la rigenerazione necessita di tempi lunghi;
 risorse rinnovabili → rigenerazione in tempi ragionevoli, sia naturalmente che
attraverso l’intervento umano.
Una risorsa rinnovabile può diventare non rinnovabile se utilizzata dall’uomo a una
velocità maggior di quella alla quale può venire naturalmente ripristinata.
 Fonti di rischio.
Tutte queste componenti sono studiate in quanto legate alle dinamiche umane.
Quando si parla di ambiente, si parla di contesto naturale: l’ambiente è ciò che circonda un soggetto,
cioè tutti quei fattori diretti o indiretti (biotici o abiotici) con i quali persone, animali e altri organismi
coesistono e interagiscono. Il concetto di ambiente naturale come ambiente non toccato
dall’intervento umano, cioè il significato che si dà del termine nel linguaggio comune, è applicabile a
pochissimi ambienti.
L’ottica è integrata: l’attenzione è rivolta alla dimensione spaziale dei fenomeni naturali e delle loro
interazioni. Ciò che interessa il geografo fisico sono le reciproche interazioni tra fenomeni nello
spazio terrestre, la loro distribuzione sulla superficie terrestre (dimensione spaziale) e la loro
interazione spaziale. Alla luce di questa prospettiva di lettura integrata, appare utile la ripresa della
teoria generale dei sistemi e, in particolare, la lettura di una delle interpretazioni di questa teoria,
ovvero l’ecosistema. Dagli studiosi, questo concetto è utilizzato per studiare le relazioni tra le diverse
componenti dell’ambiente con riferimento a diverse scale: la Terra nel suo insieme; gli oceani, i
deserti, le foreste pluviali, le praterie; il lago o l’estuario di un fiume, etc.
L’ecosistema è l’insieme delle relazioni che connettono gli elementi biotici (vegetali o animali)
organizzati in una data comunità (biocenosi) entro una data area (biotipo) mediante scambi di
energia e materia. Queste relazioni sono reciproche tra gli organismi di quella data comunità e tra
di essi e il substrato inorganico rappresentato dal loro habitat naturale.
La biosfera è quel sottile involucro del pianeta in cui si manifesta la vita; è presente nella parte più
bassa dell’atmosfera, nelle masse dell’idrosfera (acqua) e negli strati superficiali della litosfera
(crosta terrestre); più si va in profondità, più aumenta il materiale abiotico. Gli elementi biotici sono
gli organismi viventi che si trovano nella biosfera. La biosfera, quindi, si manifesta nelle zone di
contatto (interfacce) tra atmosfera, litosfera e idrosfera: questi tre elementi, di per sé, sono abiotici,
ma in essi si sviluppa quella fascia, quell’involucro del pianeta nel quale è possibile la vita. Al di
sopra e al di sotto di quelle zone di contatto ci sono elementi abiotici, che però restano in contatto
con gli elementi biotici.
L’insieme delle relazioni è rappresentato dagli scambi di energia e dagli scambi di materia:
 Scambi di energia → animano il funzionamento dell’ecosistema e ne permettono la
sussistenza. Si configurano secondo un flusso unidirezionale di input e di output. L’input è
dato dall’energia proveniente dal sole, l’output dall’energia liberata dall’ecosistema, che va
disperdendosi. Tutti gli ecosistemi sono, quindi, sistemi aperti, cioè sistemi che dipendono
dal sole (input) per il loro approvvigionamento energetico. Un elemento essenziale
dell’ecosistema è la conversione di energia solare in materia vivente.
 Scambi di materia → forma ciclica: i diversi elementi e composti chimici, provenienti
dall’energia solare, attraversano ciclicamente tutte le componenti dell’ecosistema secondo i
cicli bio-geo-chimici. La vita dell’uomo dipende da un continuo scambio di materiali con
l’ambiente terrestre: questo scambio costituisce il ciclo di input/output della vita. L’input è
dato dall’acqua, dal cibo, dall’ossigeno indispensabili per il rinnovamento della vita umana;
l’output è dato dalle sostanze prodotte dal processo metabolico ed espulse in forma solida o
liquida. Il trasferimento di energia e materia tra le diverse specie è alla base del
funzionamento dell’ecosistema.
Ciclo del carbonio → il carbonio è un gas presente nell’atmosfera, in particolare negli strati inferiori
dell’atmosfera, in un composto chiamato CO2 (anidride carbonica o diossido di carbonio). Il carbonio
è uno dei componenti essenziali della materia vivente ed è parte essenziale della vita sulla Terra:
buona parte della massa solida degli organismi vegetali e animali è costituita dal carbonio, in forma
di anidride carbonica. Il carbonio gioca un ruolo importante nella nutrizione di tutte le cellule viventi
ed è essenziale all’interno della catena alimentare. Atmosfera e vegetazione scambiano carbonio:
le piante lo assorbono dall’atmosfera durante la fotosintesi e lo rilasciano durante la respirazione. I
vegetali sono gli unici esseri viventi capaci di trarre vantaggio dall’irradiamento solare, accumulando
energia grazie alla fotosintesi: il pigmento della clorofilla permette di comporre l’energia solare in un
processo in cui consumano anidride carbonica e acqua e producono ossigeno e composti organici
a base di carbonio. I vegetali combinano cioè il diossido di carbonio proveniente dall’atmosfera e
l’acqua al fine di produrre tutte le sostanze indispensabili per la vita. Attraverso la respirazione, parte
del diossido viene restituito all’atmosfera. Nel realizzare il processo di fotosintesi, i vegetali
assorbono una piccolissima parte dell’energia solare che mette in moto il ciclo del carbonio. I vegetali
costituiscono quindi il primo anello della catena alimentare, mentre l’ultimo anello è formato dai
decompositori che separano detriti e decomposizioni, con la funzione importante di separare il
carbonio immagazzinato nei tessuti delle piante e restituirlo all’atmosfera.
Reti alimentari → Le relazioni all’interno della biosfera si strutturano secondo rapporti di scambio
alimentare, dando luogo a reti alimentari. Il termine rete è preferibile a quello di catena perché mette
in gioco in maniera più complessa gli elementi di interazione: ogni individuo può appartenere a più
di una catena alimentare. Il funzionamento di un ecosistema si basa su un flusso di energia tra la
componente abiotica e quella biotica che si realizza attraverso le reti trofiche: in qualsiasi sistema,
pur variando per numero e per specie gli organismi coinvolti, la rete alimentare si struttura sempre
secondo una precisa successione di reti trofiche (di nutrimento). Il carbonio circola attraverso una
catena di organismi viventi, per poi tornare nell’atmosfera grazie agli organismi decompositori. In
ciascuno stadio della catena, il carbonio si combina con vari elementi chimici.
La combinazione di molecole e il trasferimento di energia è alla base del concetto di catena
alimentare: essa ha inizio con l’accumulo e il trasferimento di energia attraverso la fotosintesi nelle
piante e che, dalle piante, è trasferito negli animali attraverso la sintesi metabolica. Una catena
alimentare è l’insieme dei rapporti tra gli organismi di un ecosistema. Ciascun livello della catena
alimentare prende il nome di livello trofico:
1. Produttori (vegetali);
2. Consumatori primari (erbivori);
3. Consumatori secondari (carnivori);
4. Decompositori.
I produttori primari ricevono energia solare, la fissano con la fotosintesi e la passano agli erbivori, i
quali, a loro volta, la passano ai carnivori: l’energia fluisce attraverso i vari componenti della comunità
e si dissipa nei processi metabolici. Solo il continuo flusso di energia proveniente dal sole permette
il funzionamento ininterrotto dell’ecosistema: per questo motivo è un sistema sempre aperto.
La catena trofica trasferisce energia sotto forma di materiale organico (biomassa). La piramide
dell’energia si basa sul flusso di energia che si ha in corrispondenza dei vari passaggi da un livello
trofico a quello successivo: ad ogni livello una certa quantità di energia viene dissipata, dispersa, in
forma di calore, attraverso il metabolismo, la respirazione; altra energia viene invece dissipata
perché rimane imprigionata nelle parti dell’organismo. L’assunzione della biomassa da parte di altri
organismi comporta una dispersione di energia: per ogni passaggio della catena, circa l’80-90% di
energia potenziale viene dissipata. Di conseguenza, catene alimentari cosiddette lunghe, cioè
costituite da numerosi livelli trofici, dovranno avere alla base una copiosa produzione primaria, cioè
di vegetali, proprio perché ad ogni passaggio viene dissipata la maggior parte dell’energia. L’energia
dispersa ad ogni passaggio non può essere riciclata. Gli esseri viventi di ciascun livello utilizzano
l’energia per mantenere le proprie funzioni vitali, e poi una parte di quella energia viene dissipata e
non è più utilizzabile dagli altri organismi. Poiché gli organismi dei diversi livelli trofici disperdono
energia, via via che si procede all’interno della catena alimentare, aumenta il rapporto di conversione
alimentare, cioè la quantità di cibo necessaria per produrre una caloria. È la ragione per cui
popolazioni numerose possono sussistere solo ai livelli trofici più bassi: esse hanno un meccanismo
per cui, nutrendosi dal livello trofico immediatamente sottostante, dissipano una minor quantità di
energia, e dunque la quantità di cibo per produrre una caloria è infinitamente minore di quelli che
occupano i livelli trofici più alti. Se un bovino mangia 12 quintali di frumento, quel bovino aumenta di
1 quintale di peso; 1 quintale di bovino, se mangiato dall’uomo, produrrebbe l’aumento dell’uomo di
10kg. Paradossalmente, se l’uomo avesse mangiato direttamente quei 12 quintali di frumento, senza
passare tramite il bovino, avrebbe avuto un incremento di 100kg di peso, poiché avremmo saltato
un passaggio della catena trofica. Questo è il motivo per cui la frutta costa meno della carne e la
carne meno del pesce: cambia la lunghezza della catena alimentare e, dunque, la perdita
dell’energia originaria. A parità di superficie agraria sfruttata, sarà possibile produrre una maggior
quantità di calorie di origine vegetale rispetto a quella ottenibile da prodotti animali: un campo di
grano, se mangiato direttamente dall’uomo, produce più calorie di quello stesso campo di grano il
cui frumento è stato mangiato da un animale che poi l’uomo ha mangiato. In termini di calorie che
vanno a vantaggio dell’uomo, quella stessa identica superficie agraria ha prodotto un numero di
calorie inferiore se nel passaggio si è introdotto un livello trofico.
I fattori di differenziazione degli ecosistemi → lo schema di funzionamento degli ecosistemi ha
valore generale, a qualsiasi scala, ma essi assumono configurazioni diverse a seconda delle aree
della superficie terrestre. Questa differenziazione spaziale è riconducibile all’azione di diversi fattori
di varietà ambientale, che sono rilevabili a scale spaziali differenti.
Scala globale → a questa scala sono rilevanti le influenze relative ai caratteri zonali del clima. Il
clima è l’insieme delle condizioni atmosferiche della superficie terrestre, valutabili attraverso
l’applicazione di parametri correlati tra loro e reciprocamente influenti (temperatura, precipitazioni,
pressione, umidità). Il clima è diverso dal tempo atmosferico, concetti che nel linguaggio comune
spesso sono accomunati: per tempo atmosferico si intende una momentanea combinazione locale
di vari elementi metereologici; il clima invece è l’abituale successione del tempo atmosferico proprio
di una località o regione, in cui sono inclusi anche gli eventi eccezionali. Il clima è misurato attraverso
il calcolo annuo, o su un periodo maggiore, di tali parametri: per questo motivo le oscillazioni del
tempo atmosferico non contano sul calcolo delle variabili climatiche.
L’analisi di temperatura e precipitazioni evidenzia la presenza di regolarità e ricorrenze sia nella loro
distribuzione temporale che in quella spaziale: le differenze sono riconducibili ad una serie di fattori,
in primo luogo agli effetti della latitudine.
Temperatura dell’aria → la temperatura dell’aria è connessa, in primo luogo, all’assorbimento
dell’energia solare da parte della superficie terrestre e alla sua capacità di emettere nuovamente
calore: il sole manda energia sulla superficie terrestre e la terra la espelle riscaldando l’aria. La
latitudine incide sulla temperatura dell’aria perché determina l’angolo di incidenza dei raggi solari
sulla superficie terrestre: in base ad essa, varia l’assorbimento di energia solare da parte della
superficie terrestre e la conseguente emissione di calore. All’equatore (0°) i raggi del sole cadono
perpendicolari sulla terra: in questo punto, la dispersione di energia, determinata dall’angolo di
incidenza dei raggi solari sulla superficie terrestre, è minore e tutta l’energia viene convogliata
nell’aria, quindi le temperature sono maggiori. Ai poli (90°) si verifica l’opposto poiché viene
intercettata meno luce, quindi meno energia solare, dalla superficie terrestre: la dispersione
dell’energia è maggiore e la temperatura dell’aria minore. La latitudine, quindi, determina in primo
luogo un diverso riscaldamento dell’aria.
Differenze stagionali nel periodo di insolazione → le differenze sono più marcate all’aumentare della
latitudine a causa dell’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre rispetto al piano dell’ellittica. Il
gradiente termico decresce andando dall’equatore verso i poli e l’escursione termica aumenta,
dunque questa differenza è più marcata al crescere della latitudine: la differenza tra le stagioni è
sempre più marcata man mano che dall’equatore si va verso i poli. I contrasti termici sono tuttavia
attenuati dall’azione di filtro delle radiazioni in entrata e di riequilibrio termico, attraverso l’effetto
serra, da parte dell’atmosfera, l’involucro composto da sostanze gassose che circonda la terra e
che resta a contatto con la superficie terrestre grazie all’attrazione gravitazionale, la quale rende
l’involucro più denso alla base e più rarefatto man mano che si sale di quota. Essa è composta da
strati gassosi di differente densità: la troposfera (strato sottile che contiene ossigeno, biossido di
carbonio e vapore acqueo, gli elementi indispensabili per gli esseri viventi); la tropopausa (strato di
altezza variabile a seconda delle stagioni), stratosfera (diviso in più livelli, non influenza direttamente
la vita):
 Filtro → La radiazione solare in arrivo in parte è assorbita dalle nubi, in parte è assorbita
dall’atmosfera e dalla terra e poi viene restituita: questo è il meccanismo attraverso il quale
viene riscaldata l’aria.
 Effetto serra → dovuto alla presenza di anidride carbonica, vapore acqueo e pulviscolo nella
troposfera, che producono un effetto particolare: le radiazioni ad onde corte entrano ed
escono dall’atmosfera, ma quelle ad onde lunghe entrano e rimangono intrappolate nei gas
serra. Questo effetto è in parte naturale e in parte accresciuto dalle emissioni antropiche in
quantità eccessiva.
Ultima azione svolta dall’atmosfera è la circolazione delle masse d’aria nella bassa troposfera: ad
attenuare gli scarti termici e barici (temperatura e pressione) tra le diverse latitudini nella superficie
terrestre a scala globale interviene la circolazione dei venti nella bassa troposfera. Se la terra fosse
immobile si potrebbe pensare che, essendo le temperature medie minime ai poli e massime
all’equatore, e di conseguenza la pressione atmosferica massima ai poli e minima all’equatore, l’aria
fredda, più pesante, arrivasse all’equatore e che, scaldandosi, tornasse nuovamente verso i poli. In
realtà, in ogni emisfero la circolazione dell’aria si svolge attraverso una serie di circuiti intermedi
formatisi in conseguenza della rotazione terrestre. Il modello di Hadley-Ferrel individua una serie di
tre circuiti per emisfero, a ciascuno dei quali corrisponde una fascia di venti mondiali suddivisi su tre
zone latitudinali:
1. Cella polare → venti polari orientali, che agiscono ai poli (tra 60° e 90°)
2. Cella di Ferrel → venti occidentali delle medie altitudini (tra 30° e 60°)
3. Cella di Hadley → alisei della zona tropicale (tra 0° e 30°).
La rotazione terrestre imprime deviazione verso destra nell’emisfero nord e una verso sinistra
nell’emisfero sud. Si creano così due aree, alle quali è connesso anche un regime di precipitazioni:
1. Fasce anticicloniche o linee di divergenza dell’aria (30° N/S e poli) → alta pressione
atmosferica, aria discendente e clima arido, basse precipitazioni;
2. Fasce cicloniche o linee di convergenza dell’aria (equatore e 60° N/S) → bassa pressione
atmosferica con aria ascendente e clima umido, alte precipitazioni.
La temperatura è connessa alla pressione perché agisce sulla densità della miscela dei gas di cui
l’atmosfera è composta: secondo un rapporto di proporzionalità inversa, dove c’è alta temperatura
c’è bassa pressione e viceversa. Temperatura, pressione e umidità sono a loro volta connesse nel
meccanismo che genera le precipitazioni: un rapido raffreddamento di aria calda e umida in
movimento ascendente, quando raggiunge il punto di rugiada, condensa in minute goccioline che
formano le nubi. Nello scontro delle nubi si formano gocce più grandi che precipitano per la gravità.
Si hanno più frequenti e abbondanti precipitazioni nelle zone cicloniche, dove si hanno costanti
movimenti ascensionali di masse d’aria. L’andamento dei venti, deviati verso destra nell’emisfero
settentrionale e verso sinistra nell’emisfero meridionale, influenzano, attraverso il rapporto tra massa
d’aria e precipitazioni, la costituzione delle diverse zone climatiche.
Lo schema delle fasce climatiche latitudinali a scala globale subisce delle modificazioni su scala
continentale perché entrano in gioco fattori che sono attivi solo su questa scala. Il clima rimane
l’elemento ambientale rispetto al quale si riscontrano le variazioni più significative, con effetti indotti
anche su altre componenti ambientali, sulla base di fenomeni divisibili in due categorie:
1. Marittimità → minore escursione termica: l’acqua assorbe e cede calore più lentamente. Le
condizioni di marittimità influenzano sulle fasce climatiche perché una maggiore umidità
presente, attraverso l’evaporazione, favorisce precipitazioni più elevate.
2. Continentalità → maggiore escursione termica: la terra assorbe e cede calore più
rapidamente. Poiché il livello di umidità è basso, le precipitazioni sono meno frequenti.
Questo meccanismo agisce in entrambi i livelli, in forme stagionali (monsoni) e giornaliere (brezze
di mare/di terra), ad una scala più localizzata.
Scala sub-continentale → a questa scala sono significativi gli effetti di fattori che agiscono in modo
circoscritto, attinenti alla morfologia e composizione superficiale della litosfera: il rilievo e il suolo.
Il rilievo agisce sul microclima locale e sulla vegetazione attraverso due fattori:
 Altitudine → il gradiente termico verticale varia (0,5°C ogni 100m), l’atmosfera diventa più
rarefatta, diminuisce la sua azione di filtro diminuisce e, quindi, aumenta l’escursione termica.
 Versanti → divisione tra versante esposto al sole (versante solatio) e versante in ombra: in
rapporto all’inclinazione, varia la quantità di insolazione ricevuta e, di conseguenza, la
temperatura. Inoltre, la disposizione del suolo può influire sulle precipitazioni, favorendo una
differenza di micro-clima: può emergere una differenziazione climatica e botanica, ad
esempio, tra due versanti di una valle. Il versante solatio è quello sud, ed ha un micro-clima
diverso rispetto al versante in ombra.
Il rilievo (altezza delle montagne) agisce sulle condizioni micro-climatiche attraverso l’altitudine
(gradiente termico verticale) e i versanti (variazione dell’insolazione in rapporto alla loro inclinazione
ed esposizione al sole): da questi due elementi derivano fasce botanico-climatiche diverse.
Il suolo è la formazione dinamica superficiale che deriva dal processo di pedogenesi. La pedogenesi
è il risultato della combinazione e dell’interferenza di processi che hanno due dinamiche differenti:
 Dinamiche inorganiche → alterazione fisica e chimica della roccia madre, che è sottoposta
continuamente all’azione degli agenti erosivi (sbalzi termici, effetti delle precipitazioni, venti).
Questi alterano fisicamente la roccia madre e la disgregano in particelle che hanno diverse
dimensioni, via via sempre più minute.
 Processi di natura organica → attività biologica di organismi che colonizzano la roccia madre
e la decompongono.
Il suolo è una struttura ripartita in tre orizzonti:
 Humico (superficiale) → costituito da materia organica non ancora in decomposizione. Esso
è soggetto all’impoverimento ad opera dell’acqua che, scendendo verso il basso, provoca un
impoverimento dei suoi componenti chimici;
 Illuviale (intermedio);
 Di alterazione → strato in cui agiscono le dinamiche organiche e inorganiche.
Lo spessore del suolo dipende dall’interazione con l’idrosfera (interazione acqua/suolo) e dall’attività
morfogenetica. Su scala locale, il suolo può costituire un ulteriore elemento di differenziazione
ambientale: nelle zone di maggior pendenza, ad esempio, la forte attività erosiva limita lo sviluppo
pedogenetico e, quindi, la possibilità di creazione di un suolo così tripartito. La divisione delle fasce
botanico-climatiche altitudinali può essere ulteriormente alterata e variata dai diversi tipi di suolo.
A scala sub-continentale agiscono, dunque, il rilievo (altitudine e versante) e il suolo, che ha diverse
organizzazioni e il cui spessore dipende dall’interferenza tra attività organiche e inorganiche.
Il mosaico ambientale → l’azione combinata dei fattori di varietà ambientale individuati alle diverse
scale e l’influenza che essi hanno sulla biocenosi danno luogo ad un variegato mosaico ambientale.
La geografia fisica riconosce, all’interno di questa varietà, forme di ordinamento spaziale individuate
attraverso operazioni di classificazione tipologica, cioè l’individuazione, in primo luogo, di diverse
combinazioni di relazioni tra clima, suolo e vegetazione, quelle componenti che determinano un
certo tipo di paesaggio naturale; in secondo luogo attraverso la regionalizzazione, l’individuazione
di unità spaziali determinate da un certo tipo di ambiente. La complessità e la varietà delle
combinazioni osservabili tra i vari elementi dell’ecosistema e la molteplicità dei fattori che lo
influenzano possono dare diversi risultati a seconda dei criteri utilizzati. Il manuale propone due
grandi modalità.
Indice di Patterson → individuazione di fasce di produttività vegetale. Patterson ha elaborato un
indice di produttività potenziale delle piante in una data superficie a partire da dati climatici. Egli ha
suddiviso la superficie terrestre in sei fasce, ciascuna delle quali corrisponde a una maggiore o
minore produttività potenziale delle piante. Gli elementi che Patterson prende in considerazione
sono: temperatura media del mese più caldo (Tm); precipitazioni annuali (P), durata del periodo di
sviluppo vegetativo (G), quantitativo di radiazioni solari (S), escursione annua delle temperature
medie del mese più freddo e di quello più caldo (Tr). Questo insieme di dati essenzialmente climatico
dà, come risultato, sei zone convenzionali:
 Fascia a (indice maggiore di 50) → zona equatoriale, la produttività potenziale è elevata;
 Fascia B (valori tra 10 e 50) → zona tropicale;
 Fascia C (valori tra 10 e 3) → zone più densamente popolate;
 Fascia D (valori da 3 a 1) → zone a climi freddi e temperati
 Fascia E (valori tra 1 e 0,2), zone intorno ai deserti
 Fascia F (valori al di sotto di 0,2) → zone fredde ed asciutte.
La produttività delle piante aumenta con l’aumento della durata della stagione di crescita, la
temperatura media del mese più caldo, le precipitazioni annuali, la quantità d’irradiazione solare.
Suddivisione in biomi → la maggior parte dei moderni sistemi di classificazione e regionalizzazione
usati in geografia fisica si fonda sulla considerazione integrata di fattori climatici e botanici perché,
essendo questi fattori strettamente connessi, costituiscono elementi naturali fondamentali dal punto
di vista dello sfruttamento e del controllo antropico degli ecosistemi. Proprio su basi botaniche e
climatiche vengono identificati nove grandi tipi di biomi, individuati a partire da tre grandi categorie:
1. biomi di foresta → foreste equatoriali, foreste periferiche delle medie latitudini, foreste boreali;
2. biomi intermedi → savana, mediterraneo, praterie delle medie latitudini;
3. biomi sterili → deserti, tundra e zone polari.
Rispetto alla regionalizzazione basata sull’indice di Patterson, questo tipo di classificazione prende
in esame la copertura vegetale e le condizioni climatiche del bioma, suddividendo il globo in differenti
regioni che in parte sono sovrapponibili, seguendo l’indice di Patterson, ma non completamente.
I biomi sono le principali zone ambientali della terra, caratterizzate da condizioni climatiche e di
copertura vegetali che tendono a essere omogenee al loro interno. Questo schema ha una validità
di ordine generale a scala globale, ma presenta alcuni problemi quando, cambiando la scala di
osservazione, si osserva a scala locale:
 Delimitazione a livello locale → non esistono nette separazioni tra un bioma e l’altro: i confini
tra biomi non sono lineari; esistono piuttosto fasce di transizione individuabili tra un bioma e
l’altro (ecotoni). Ad esempio, tra tundra e foresta boreale, c’è quella fascia di transizione
conosciuta come taiga.
 Aree di discontinuità interna → variazioni, enclave all’interno dei vari tipi di bioma,
determinate da fattori di discontinuità ambientale localizzate: all’interno della savana ad
esempio, lungo i corsi d’acqua, possono esserci delle foreste di galleria.
 Instabilità ambientale nel corso del tempo a causa di dinamiche naturali o di origine antropica.
BIOMI DI FORESTA
Foresta equatoriale o pluviale → all’incirca corrisponde alla fascia con il maggior indice di
produttività nella classificazione di Patterson. Si colloca principalmente in Africa (bacino del Congo
e Madagascar), in America meridionale (bacino Amazzonico), in India, Asia e parte dell’Australia. Le
foreste pluviali sono caratterizzate da precipitazioni molto abbondanti (tra 2000 e 4000mm di
piovosità annui), hanno una temperatura media costante (tra 25°C e 35°C) con un’escursione
termica annua che si mantiene entro i 2/3°C e un alto tasso di umidità.
L’insieme di tutti questi fattori favorisce lo sviluppo di una vegetazione rigogliosa: quelle dominanti
sono latifoglie alte (50-80m sul livello del suolo). Il sottobosco è invece molto scarso poiché la luce
fa difficoltà ad entrare: sul suolo vi sono prevalentemente piante, felci e giovani alberi in grado di
vivere in condizioni di semi-oscurità. È molto alta l’evapotraspirazione: il suolo è spesso povero di
nutrienti perché essi sono dilavati dalle piogge torrenziali, mentre la rapida decomposizione della
materia organica da parte dei batteri impedisce la formazione di humus. Soprattutto nel XX secolo,
questo bioma ha subito pesanti interventi antropici di deforestazione.
Foresta decidua → medie latitudini (tra 40° e 50°N), si trova principalmente negli Stati Uniti, Europa,
e Asia. La temperatura media (circa 10°C) risente di una temperatura invernale con forte escursione
termica. Questo bioma varia il suo aspetto al mutare delle quattro stagioni. Vi sono essenzialmente
alberi decidui che perdono le foglie durante la stagione fredda: foreste di caducifoglie (querce, faggi),
ma anche di conifere, all’aumentare delle altitudini dei rilievi. I suoli sono fertili e vi si è sviluppata
una forte attività agricola.
Taiga o foresta boreale → immediatamente a nord rispetto alla foresta decidua (tra 50° e 65°N).
Gli inverni sono molto freddi e nevosi, le estati molto brevi, fredde e umide: per questo motivo, la
stagione produttiva non supera i 100 giorni annui. La piovosità varia tra i 200 e i 600mm di pioggia
annui, i suoli hanno una fertilità limitata.
BIOMI INTERMEDI
Savana → distribuita essenzialmente in Africa, in Sud America centrale, in Australia settentrionale.
La savana è il bioma con la massima biodiversità al suo interno: occupa il 7% della superficie terreste
ma vi è compresa il 50% della biocenosi della Terra, animale e vegetale. La temperatura media è
attorno ai 20°C e ha un’elevata produttività vegetale. Sono riconoscibili essenzialmente due stagioni:
un inverno secco e un’estate umida. È caratterizzata da una prateria con graminacee e radi alberi
(acacie, baobab, eucalipti). Le precipitazioni variano dai 1000 ai 1500mm annui.
Bioma mediterraneo → distribuito essenzialmente attorno al bacino del Mediterraneo ma anche in
parte dell’Australia meridionale. È caratterizzato da estati secche e inverni piovosi, influenzati dal
fattore della marittimità. È caratterizzato dalla prateria arbustiva composta da graminacee, arbusti e
radi alberi (pino mediterraneo, leccio, alloro, ulivo).
Prateria → zone temperate delle medie latitudini: essenzialmente le praterie americane e le pampas
argentine. Il clima è caratterizzato da estati asciutte e inverni freddi e la continentalità del bioma
favorisce la formazione di steppe, cioè praterie aride. Il periodo vegetativo è limitato alla primavera
e la piovosità è relativamente limitata (250-800mm annui).
BIOMI STERILI
Deserti → per la maggior parte nel Nord Africa, sono presenti anche in Cina, Mongolia, Australia,
Stati Uniti, Messico e Sud America. Sono quelle aree di alta pressione semipermanente alle latitudini
tropicali dove l’aria, nel suo movimento discendente, si riscalda, si disperde e non provoca piovosità.
Sono regioni molto aride, che ricevono quantitativi d’acqua inferiori ai 250mm annui e caratterizzate
da forti sbalzi di temperatura, con un’elevata escursione termica tra giorno e notte. L’elevato sbalzo
di temperatura frantuma le rocce e trasporta i detriti più fini. Ci sono due differenti tipologie di deserti:
rocciosi e pietrosi (reg) e sabbiosi (erg) con le dune. I suoli sono caratterizzati da una forte erosione
eolica che frantuma continuamente la roccia madre e genera questa tipologia di ambiente. La
vegetazione è quasi assente: l’unica possibile è quella in grado di immagazzinare acqua nei tessuti
e trattenerla. Sono ancora individuabili deserti caldi (Africa, Arabia e Australia) e deserti freddi.
Tundra o prateria artica → tra i 55 e i 75°N. La una temperatura media è di -18°C e quella del mese
più caldo non supera 0°C; le precipitazioni scarse (100mm annui) sono concentrate essenzialmente
in estate. Nella parte più a nord ci sono sei mesi di notte: la fotosintesi squilibrata dà come risultato
una mancanza di specie arboree. La vegetazione è caratterizzata da muschi, licheni, funghi e betulle
nane. La tundra è il bioma delle regioni sub-polari: il limite settentrionale è costituito dai ghiacci
polari, quello meridionale dalle prime foreste della taiga.
È importante ricordare la distribuzione dei biomi, la loro suddivisione e i criteri che stanno a monte
di questa suddivisione: se all’esame capita una domanda, attenzione a non fare solo un “elenco
telefonico”, ma integrarlo con la parte teorica.
Questa schematizzazione spaziale, come abbiamo visto, non esclude delle variabilità in quanto la
delimitazione tra due biomi non è segnata da un confine netto, perché ci sono delle aree di
discontinuità interne ad un bioma e perché ci sono dei fattori di instabilità ambientale nel tempo
dovuta a dinamiche naturale e a dinamiche antropiche. L’aspetto relativo alle dinamiche antropiche
è diventato sempre più importante per le discipline che studiano l’ambiente da varie inclinazioni.
Mutamento climatico → il mutamento ambientale, in particolare il mutamento climatico, è il risultato
di processi complessi che interferiscono tra di loro e che sono riconducibili alla dinamicità degli
ecosistemi; dinamicità che investe tanto le singole componenti dell’ecosistema, quanto le relazioni
strutturali tra le componenti e che è il risultato di processi complessi, che si sviluppano su scale
temporali diverse e con andamenti che possono essere regolari (ciclici) o irregolari.
Scale temporali → aspetto fondamentale: il mutamento ambientale osservato su scala temporale
è suddivisibile in:
 breve durata → oscillazioni stagionali. Questi mutamenti sono prevedibili, osservabili, di
breve durata, riconducibili a cicli astronomici.
 Media durata → fenomeni decennali o secolari, che non sempre sono direttamente
osservabili nella loro interezza e che non sempre sono prevedibili. Ad esempio, la formazione
degli ecosistemi ha una media durata che non sempre è interamente osservabile.
 Lunga durata → variazioni che si collocano in orizzonti cronologici molto estesi, su tempi
geologici (migliaia di anni) e che, per questo, non sono interamente osservabili. Essi possono
anche avere un andamento ciclico (glaciazioni), ma tale ciclicità non ha ragioni evidenti di
ricorrenza e prevedibilità e solo raramente si sviluppa con una periodicità fissa e secondo
ritmi prevedibili (ciclo di erosione, evoluzione della specie).
La sovrapposizione di queste differenti scale temporali e l’interferenza dei diversi processi che può
risultarne può essere esemplificata attraverso una più specifica analisi del mutamento climatico.
Il mutamento climatico è oggetto di una tradizione di studi consolidata sia in ambito naturalistico che
in ambito storico: in ambito naturalistico lo studio è sulla lunga durata, in ambito storico sulla media
durata. Sulla breve durata è possibile invece riconoscere oscillazioni regolari e cicliche di pressione
e temperatura e, estendendo all’indietro nel tempo il campo di osservazione, possono emergere
oscillazioni cicliche prive di una periodicità fissa.
Ambito naturalistico → sulla base delle ricerche paleo-climatologiche possiamo riconoscere un
periodo quaternario (2,5M di anni fa) periodo freddo soprattutto nella fase più antica. Questo periodo
si può suddividere al suo interno:
 Pleistocene (2,5M-11,700 anni fa) → caratterizzato da cinque glaciazioni (raffreddamento
breve e intenso), intervallate da fasi interglaciali. In questo periodo, complessivamente, le
temperature si ritiene fossero al di sotto delle medie delle temperature attuali di 4-5°C. Con
le glaciazioni ci fu una grande espansione delle masse glaciali e un conseguente
abbassamento del livello dei mari. I biomi si compressero a ridosso dell’equatore.
 Olocene (11.700 anni fa) → inizia con la fine della quinta glaciazione e corrisponde a una
fase di riscaldamento, in cui la temperatura aumenta all’incirca sulle medie attuali. Le masse
glaciali si ritirano, i livelli dei mari si innalzano e i biomi si espandono verso i poli.
Questo periodo dura fino a 6000/4000 anni fa, quando inizia la fase di raffreddamento recente: al
momento, rispetto alle ere precedenti, ci troviamo in una fase di raffreddamento.
Studio storico → permette di riconoscere oscillazioni minori della durata di qualche secolo, facendo
uso di fonti differenti da quelle della scienza geografica. Possiamo riconoscere:
 Optimum medievale (800-1200 d.C) → fase di condizioni climatiche ideali;
 Piccola età glaciale (1590-1850).
Dal 1850 ad oggi siamo in una fase di relativo riscaldamento, se consideriamo una scala temporale
breve; collocato però all’interno della successione delle ere geologiche, tale riscaldamento si colloca
comunque in una fase di raffreddamento.
Queste fasi sono state riconosciute a partire da dati che solo per l’epoca molto recente sono di tipo
strumentale (le prime rilevazioni di temperatura sono state fatte a metà 1700): in precedenza sono
stati utilizzati diari, cronache, diari di viaggio e testimonianze iconografiche, confrontate con le fonti
vicarianti (bandi di vendemmia per l’uva in Europa; feste per la fioritura del ciliegio in Giappone).
Queste informazioni vanno però valutate attentamente, perché su di esse possono intervenire fattori
di tipo economico, come vendemmie anticipate o ritardate indipendentemente dal fattore climatico.

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