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La città lacerata di Serge Latouche

Serge Latouche è professore emerito di economia all’Université d’Orsay e uno degli avversari più autorevoli
dell’occidentalizzazione del pianeta. Sostenitore della decrescita conviviale e del localismo, in questo saggio il
filosofo ed economista francese racconta la distruzione delle città in tempo di pace: la speculazione edilizia, il
proliferare dei centri commerciali (che cambiano in peggio lo stile di vita) e delle autostrade, la fine del lavoro
salariato e dello Stato sociale, una classe politica populista e corrotta e persino criminale, la perdita di identità e
l’egoismo secondo Latouche sono sintomi di una crisi più ampia: siamo all’ipermodernità, alla crescita per la
crescita, come falsa prospettiva e obbiettivo unico della vita. Lo spreco non è più sostenibile, perché mina il futuro
dei nostri figli.
La sua ricetta, in otto erre, è semplice: rivalutare, ridefinire, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre,
riutilizzare, riciclare. Insomma, cambiare l’economia e la vita, puntando sulla locale decrescita urbana e
sull’innovazione politica. Secondo Latouche, una ecologia economica che contrasti la speculazione edilizia e gli
sprechi è possibile quando le decisioni fondamentali sono prese localmente dentro un progetto animato dalla
partecipazione e dalla gestione condivisa del bene comune, a partire dal decentramento dei poteri ai quartieri che
invece, a Pavia come a Nantes, sono meri organi consultivi.
Latouche predica la “città lenta”, un modello applicabile dove non si superino i 60.000 abitanti: un luogo aperto e
generoso, autosufficiente dal punto di vista alimentare finanziario ed economico, con legami stretti tra coltivatori
allevatori e consumatori, che dà accoglienza; una vera politica monetaria locale, con flussi di denaro che devono
restare in zona a lungo e reinvestiti; le energie rinnovabili come risorsa per l’autonomia energetica.
Bisogna tornare ai negozi di vicinato, perché gli ipermercati stanno lacerando il tessuto sociale delle nostre città: un
posto di lavoro negli “iper” ne distrugge 5 nei negozi di vicinato. Oggi le merci si spostano su gomma, quasi sempre
senza vantaggi per i consumatori perché in questo modo i costi aumentano così come i danni all’ambiente. Nel corso
di una conferenza, Latouche ha raccontato un episodio emblematico, al tempo stesso amaro e divertente: «Un
camion partito dall’Olanda che stava trasportando pomodori in Spagna a metà viaggio si è scontrato con un camion
partito dalla Spagna che stava trasportando pomodori in Olanda». La regionalizzazione implica meno trasporti e
incentiva lo sviluppo sostenibile: reinserire l’economia nella realtà locale riduce la disoccupazione e lo stress e
rinforza la solidarietà e la partecipazione.
Utopia? No, realtà, come insegnano le molte cittadine europee che hanno deciso di cambiare rotta e mentalità.
Semmai è utopico il contrario: per quanto tempo ancora potremo bruciare risorse non rinnovabili, a danno delle
generazioni a venire?
Di seguito riportiamo l’intervento di Serge Latouche pubblicato sul terzo numero della rivista “Il primo amore”
(G.G.)

La distruzione delle città in tempo di pace [1] - con l’esplodere dei vecchi centri storici, la speculazione
immobiliare sfrenata che caccia i ceti inferiori e medi verso le periferie, il proliferare dei centri commerciali,
l’estenzione delle zone residenziali, l’emergere dei gratttacieli, la lacerazione dello spazio dalle autostrade e la
proliferazione dei non-luoghi (stazioni, aeroporti, ipermercati, ecc,) [2] l’asfissia del traffico automobilistico - è uno
dei sintomi di una crisi più ampia generata dalla “super” o “iper” modernità (parola che trovo più giusta di “post”-
modernità).
La modernità con l’industrializzazione dell’Ottocento aveva distrutto la città medioevale e barocca, generando
problemi di ogni sorta e sofferenze enormi di cui testimoniano i romanzi di Dickens o di Zola; tuttavia, un certo
equilibrio si era mantenuto o ricostituito attorno ai grandi viali (basta pensare all’esempio della Parigi di Haussman).
Questo equilibrio tutto relativo traduceva nel tessuto urbano un equilibrio altrettanto relativo tra la società con la sua
moralità tradizionale resiliente (etica del lavoro, senso del dovere, dell’onore e dell’onestà), le istituzioni (esercito,
giustizia, educazione, belle arti, ecc.) e l’economia capitalista con la sua accumulazione illimitata. La rottura di
questo equilibrio è stata compiuta con la cosiddetta “globalizzazione” o “mondializzazione”, che si può datare in
modo simbolico della caduta del muro di Berlino nel 1989. Non è tanto l’estensione degli scambi o della finanza su
scala planetaria che è nuova (quella esiste almeno dal 1492), è invece la mercificazione e la finaziarizzazione del
mondo. Con ciò che i Francesi chiamano le tre “D”, dérèglementation, désintermediation, décloisonnement (niente
regolazione, niente intermediazione, niente barriere), deciso nel 1986 da Ronald Reagan e Margaret Thatcher, si
assiste letteralmente a l’onnimercificazione del mondo. Distruzione della società salariale e dello stato sociale,
dischiusura delle economie e dei mercati e delle transazioni finanziarie. Tutto diventa oggetto di traffico, fino al
corpo umano, al sangue, ai geni. Si passa da una società con mercato ad una società di mercato, da una società con
crescita ad una societa di crescita. Si può definire la società di crescita come una società dominata da una economia
di crescita e che tende a lasciarsene assorbire. La crescita per la crescita diventa così l’obiettivo principale, se non
l’unico, della vita. Il cancro della Crescita (con la "C" maiuscola) non distrugge soltanto la città, ma distrugge anche
il senso dei luoghi lacerando il territorio. Per questa ragione, i tentativi onorevoli degli urbanisti di porre rimedio alla
crisi urbana proponendo schemi ingegnosi - regioni urbane, città giardino, città totale, reti urbane, conurbazioni
(Geddes), Broadacre city (Wright), città compatta, città distesa, ecc., che cercano una nuova articolazione tra città e
campagna, sono condannati allo scacco per mancanza di un’analisi globale del fallimento della società della crescita.
Secondo la profezia di Lewis Mumford, la megapolis si trasforma in tyrannopolis, poi finisce come nekropolis [3].
Solo con l’inserimento dentro il progetto di costruzione di una società di decrescita il tessuto locale e urbano può
essere ricomposto.
Negli anni Sessanta, i professori di economia e i tecnocrati si riempivano la bocca con i circoli virtuosi della
crescita. A questo periodo chiamato dagli economisti francesi «i trent’anni gloriosi» (1945/1975) è seguita un’altra
epoca che gli stessi (o i loro critici) hanno designato come «i trent’anni pietosi» (les «trente piteuses»). In realtà, i
trenta anni “gloriosi”, anch’essi, se facciamo il bilancio dei guasti fatti all’ambiente e all’umanità, sono stati,
«trent’anni disastrosi» («trente désastreuses») come dice il “giardiniere planetario”, Gilles Clément [4]. Alla fine, i
circoli virtuosi si sono rivelati piutosto perversi. Il deregolamento climatico che ci minaccia oggi è il risultato delle
nostre “follie di ieri”.
Invece il cambiamento reale di prospettiva necessario per costruire una società autonoma di decrescita può essere
realizzato attraverso il programma radicale, sistematico, ambizioso delle otto “R”: rivalutare, ridifinire, ristrutturare,
ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi otto obiettivi interdipendenti scatenano un circolo
virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile [5].
Durante i trent’anni gloriosi, non era possibile denunciare i misfatti della crescita e dello sviluppo se non nel Sud,
laddove erano più evidenti: deculturazione, omologazione, pauperizzazione. Se, nel Nord, la pauperizzazione nel
senso economico del termine era contraria a ciò che pareva evidente durante l’epoca consumista, la deculturazione e
la depolicitizzazione avanzavano comunque a grandi passi. Alcuni li analizzavano e denuciavano in modo più o
meno raffinato, come Ivan Illich, Guy Debord o Pasolini. «Il potere – scrive quest’ultimo nei suoi Scritti corsari
(1975) – è divenuto un potere consumistico, infinitamente più efficace nell’imporre la propria volontà che qualsiasi
altro potere al mondo. La persuasione a seguire una concezione edonistica della vita ridicolizza ogni precedente
sforzo autoritario di persuasione» [6]. L’esplosione urbana, con la “periferizzazione” dei nuovi ceti medi o immigrati
(secondo modello delle villette residenziali, periferie dormitorio popolari, habitat pavillonnaire, grands ensembles) è
centrale in questo processo della corruzione politica dovuta alla crescita. La potente affermazione della grande
distribuzione (super e ipermercato), andando di pari passo con quella dell’automobile e della televisione, aggrediva
silenziosamente l’essere cittadini, creando un altro popolo invisibile e muto, e facilmente manipolato da un potere
mediatico privo di scrupoli legato alle grandi compagnie transnazionali. La globalizzazione, favorendo un processo
di deteritorrializzazione e di delocalizzazione ha provocato lo smantellamento delle reti di protezione sociale e porta
a termine la distruzione della cultura popolare. L’affermarsi di questi processi ha aperto la strada a una classe
politica populista corrotta, persino criminale, di cui in Italia il fenomeno “Berlusconi” costituisce una illustrazione
caricaturale. Ma la berlusconizzazione, con o senza il “Cavaliere”, continua a far danni in tutta l’Europa e non solo.
Il fenomeno delle “maggioranze soddifatte”, secondo la felice intuizione di John Kenneth Galbraith, precipitando i
ceti medi dalla solidarietà all’egoismo individuale, e gli stati occidentali nella contro-rivoluzione neo-liberale che ha
distrutto lo stato previdenziale, al tempo stesso ha permesso questo processo e lo ha mascherato.
È questa la ragione per cui il progetto della decrescita passa necessariamente attraverso una rifondazione del politico
e quindi della polis, la città.
Il progetto della società della decrescita si articola intorno al circolo virtuoso delle otto “R”. Si può dire delle otto
“R” che sono tutte ugualmente importanti. Mi sembra comunque che tre abbiano un ruolo più “strategico” delle
altre: la rivalutazione, perché dà origine a tutti i cambiamenti, la riduzione perché tiene in sé tutti i comandamenti
pratici della decrescita e la rilocalizzazione perché ha a che fare con la vita quotidiana e il lavoro di milioni di
persone [7]. Il problema della città ormai distrutta e tutta da ripensare si inscrive nel contesto più ampio del territorio
lacerato, della perdita dei punti di riferimento e della crisi del locale.
Rilocalizzare significa certo produrre localmente ciò che serve a soddisfare i bisogni della popolazione, partendo da
imprese locali finanziate dal risparmio raccolto localmente. Ogni produzione che si possa svolgere su scala locale
per i bisogni locali, deve essere realizzata localmente. Se le idee non devono conoscere frontiere, i movimenti delle
merci e dei capitali devono essere ridotti all’indispensabile. Internalizzando i costi esterni del trasporto
(infrastrutture, inquinamento, come l’effetto serra e lo sregolamento climatico) si rilocalizzerebbero un gran numero
di attività. E sicuramente il famoso vasetto di yogurt alla fragola non incorporerebbe più 9000 km! [8].
Ma nell’ottica della costruzione di una serena società di decrescita, la rilocalizzazione non può essere solo
economica. Sono la politica, la cultura, il senso della vita che debbono ritrovare il loro ancorarsi territoriale. A ciò
consegue che ogni decisione di natura economica che possa essere presa su scala locale per i bisogni locali deve esse
presa localmente. Un principio fondato sul buon senso e non sulla razionalità economica. «Cosa importa guadagnare
qualche franco su un oggetto, quando poi bisogna contribuire con migliaia di franchi, per spese diverse, alla
sopravvivenza di una frazione della popolazione che non può più, a giusto titolo, partecipare alla produzione
dell’oggetto?». Questo significa che tutte le decisioni economiche, politiche, culturali, che possono essere prese a
livello locale debbono essere prese localmente.
La rilocalizzazione svolge quindi un ruolo centrale nell’utopia concreta e feconda della decrescita, e si articola quasi
subito in un programma politico. La decrescita sembra rinnovare la vecchia formula degli ecologisti: pensare
globalmente, agire localmente. Rilocalizzare l’economia e la vita è una condizione non trascurabile della
sostenibilità. Se l’utopia della decrescita implica un pensiero globale, oggi la si realizza solo partendo dai territori. Il
progetto di decrescita urbana e locale richiede due volani interdipendenti: l’innovazione politica e l’autonomia
economica.
Inventare la democrazia ecologica locale

Per contrastare la periferizzazione urbana e politica generata dalla crescita, la soluzione potrebbe consistere nel
riprendere “l’utopia” dell’“ecomunicipalismo” di Murray Bookchin [9]. «Una comunità ecologica ricorrerebbe alla
municipalizzazione della propria economia, e si unirebbe ad altre municipalità in modo da integrare le proprie
risorse in un sistema federativo su base regionale». «Non è totalmente assurdo, scrive Bookchin, pensare che una
società ecologica possa essere costituita da un municipio di piccoli municipi, ognuno dei quali sarebbe costituito da
un “comune di comuni” più piccoli [...] vivendo in una armonia perfetta con loro ecosistema». La riconquista o la
re-invenzione dei “commons” (il demanio comunale, i beni comuni, lo spazio comunitario) e l’auto-organizzazione
di “bioregioni” costituiscono una illustrazione possibile di questo procedimento. La bioregione o ecoregione può
essere definita come un’entità spaziale coerente che traduce una realtà geografica, sociale e storica. Può essere più o
meno rurale o urbana - distinzione che oggi purtroppo sta per sparire.
La bioregione urbana, costituita da un insieme complesso di sistemi territoriali e locali dotati di una forte capacità di
autosostenibilità, mira a ridurre il consumo di energia e le diseconomie esterne (o esternalità negative, cioè i danni
provocati dall’attività di un soggetto che ne fa pagare i costi alla collettività). Politicamente, una bioregione potrebbe
essere concepita come una città di città, città di municipi, municipio di municipi o forse una città di villaggi, in
breve una rete policentrica o moltipolare [10]. Si può pensare all’esperienza condotta a Milano con il progetto
“Ecopolis città di villaggi” alla fine degli anni ‘80, dove il villaggio era inteso come superamento delle periferie e
della condizione di perifericità.
Per alcuni ci troviamo confrontati ad un “dilemma democratico”, che si può formulare così: «Più un’unità politica è
piccola e quindi direttamente controllabile da parte dei suoi cittadini, maggiori sono i campi su cui non ha sovranità.
La sua capacità di decisione e di azione non si esercita infatti su questioni che travalicano l’ambito territoriale di sua
competenza, che tuttavia subisce l’influenza delle dinamiche extraterritoriali» [11], in particolare nel campo
dell’ecologia.
D’altra parte, tanto più si espande l’ambito territoriale di governo, tanto più calano le opportunità di partecipazione
dei cittadini. C’è qui una constatazione di fatto, ma Paola Bonora suggerisce di non affrontare la questione sul
versante dimensionale, dato che «Non esiste una “misura” ottima, un confine perfetto, per l’esercizio della
sovranità». Conviene allora affrontare il problema partendo dall’identità. La cosa importante è l’esistenza di un
progetto collettivo radicato in un territorio concepito come luogo del vivere insieme e dunque da preservare e curare
per il bene di tutti. La partecipazione è quindi implicita nell’azione diviene «custode e promotrice dello spirito dei
luoghi» [12]. La dimensione scompare dunque come problema topografico o di entità demica, insomma di
misuratori descrittivi astratti, ma si configura come questione sociale di riconoscimento identitario e di capacità di
azione coordinata e solidale. Di un agire collectivo che, in maniera indipendente dalla scala, si muove su obiettivi
condivisi in direzione del bene comune. Considerare un’area metropolitana come una articolazione di quartieri
autonomi che funzionano come dei comuni giustapposti, secondo la proposta di Bookchin, è interessante ma può
aver successo solo se le organizzazioni di quartiere dispongono di un vero potere e non sono soltanto intermediari.
Per questo è importante che esista un progetto collettivo di riappropriazione dello spazio politico locale. Purtroppo,
«i quartieri nella maggior parte dei casi vengono visti al più come organi di ascolto».
Una delle iniziative più originali e promettenti è certamente la “Rete del Nuovo Municipio” che, basandosi su
esperienze come il bilancio partecipativo, propone un’idea di futuro locale alternativo e buone pratiche di
democrazia.
Si tratta di un’associazione formata da ricercatori, movimenti sociali e numerosi responsabili locali provenienti di
piccoli comuni, ma anche di enti più grandi come la Provincia di Milano e la Regione Toscana, che a livello locale
vogliono risolvere in un modo onesto i problemi generati dalla dismisura della società della crescita. L’originalità
della rete, alla cui ultima riunione a Bari (ottobre 2005) hanno partecipato 500 persone, testimonia di una realtà che
vede una grande partecipazione di chi a partire dalla dimensione locale vuole cercare di risolvere seriamente i
problemi generati dagli eccessi della società della crescita. L’originalità di questa Rete sta nella scelta di una
strategia che si fonda sul territorio, ovvero nella concezione della realtà locale come campo di interazione tra attori
sociali, ambiente fisico e patrimonio territoriale. Come sostiene la Carta, la Rete promuove «un progetto politico che
valorizzi le risorse e le differenze locali promuovendo processi di autonomia cosciente e responsabile, di rifiuto
della eterodirezione del mercato unico» [13]. In altre parole, si tratta di un laboratorio d’analisi critica e di
autogoverno per la difesa dei beni comuni.
Nella stessa direzione va l’esperienza delle "città lente" (slow city). Questo movimento completa quello di Slowfood
al quale aderiscono ormai in tutto il mondo centomila produttori, contadini, artigiani e pescatori che lottano contro
l’omologazione del cibo per ritrovare il gusto e i sapori. La rete mondiale “Slowcities” raccoglie città che limitano
volontariamente la loro crescita demografica ad un massimo di 60.000 abitanti per ritrovare la lentezza (oltre ciò
diventa impossibile parlare di locale e di lentezza). Si ritrova qui le idee di uno dei socialisti utopici più importanti,
William Morris, precursore per molti versi della decrescita [14].
La società della decrescita implica un protezionismo forte contro la concorrenza selvaggia e sleale. Ma questo non
esclude una apertura larga verso “spazi” che adotteranno misure paragonabili. Se, come diceva Michel Torga nel
1954, «l’universale altro non è che il locale senza i muri» si può dedurre che viceversa, il locale altro non è che
l’universale con delle frontiere, dei limiti, delle zone cuscinetto, interpreti e traduttori (e anche guide per i
clandestini). L’identità scelta, più o meno plurale eppure legata ad una visione comune del suo destino è un elemento
essenziale per dare una consistenza all’unità bioregionale [15]. Benché profondamente radicato, questo progetto
locale non è chiuso ed egoistico, ma al contrario presuppone aperture ed idee generose del dare e dell’accogliere
[16].
Singleton nota che chi parla di locale e di comunità, mettendo in dubbio la possibilità o l’opportunità d’un
universalismo politico astratto (ossia, un governo mondiale), «rischia molto di vedersi affibbiare tutti i nomi che la
Modernità ha colpito d’anatema: fascismo, nazionalismo, machismo, paternalismo, elitismo, passatismo... Come far
comprendere che la decrescita non è un ritorno alla relittualità comunitaria (della piccola famiglia nucleare, del
quartiere di alto rango, dell’egoismo regionale), ma a una ritramatura organica del locale (permettere alle persone di
essere maggiormente insieme come lo sono state fino agli anni sessanta grazie, tra l’altro, a scuole di villaggio e a
imprese “familiari”, a negozi all’angolo e a cinema di quartiere, invece di passare la loro vita a fare la spola fra
complessi scolastici, zonizzazioni industriali e grandi superfici di periferia)» [17].
Nella prospettiva qui offerta, il locale non è un microcosmo chiuso ma un nodo in una rete di relazioni trasversali
virtuose e solidali, allo scopo di sperimentare pratiche di rinforzo democratico capaci di resistere al dominio liberista
(per esempio i bilanci participativi).

Ritrovare l’autonomia locale

Urbana o rurale, la bioregione deve raggiungere la sua autonomia economica. Il programma della rilocalizzazione
implica prima la ricerca dell’autosufficienza alimentare, e poi l’autonomia economica e finanziaria. Bisognerebbe
mantenere e sviluppare le attività di base in ogni regione: agricoltura e orticultura, di preferenza organica, nel
rispetto delle stagioni. Willem Hoogendick si è interrogato su una interessante inchiesta olandese (l’Olanda
costituisce un caso limite). Secondo i calcoli dell’istituto di economia rurale olandese (LEI) fatti nel 1980,
l’autosufficienza agricola era allora una scelta sostenibile per i Paesi Bassi, malgrado una densità di popolazione tra
le più alte del mondo. Più recentemente, lo stesso istituto ha calcolato - i ricercatori stessi ne sono rimasti sorpresi -
che i 16 milioni di abitanti potrebbero da subito consumare cibo proveniente di una agricoltura biologica domestica.
Si dovrebbe solo ridurre il consumo di carne e aumentare quello dei prodotti stagionali. Si tratterebbe di una
agricoltura estensiva all’aria aperta con aziende agricole miste (allevamento, prodotti vegetali e uso del letame), e
anche di una orticultura estensiva con attività di conservazione, essicamento dei prodotti e rispettive trasformazioni.
Poi, i nostri rifiuti, compresi alla fine i nostri escrementi, dovranno ritornare alla terra come fertilizzanti e concimi.
Sottoscrivendo i “Panieri di prodotti freschi” (“paniers fraicheur”) con singoli contadini e aiutandoli nella raccolta
(come già si pratica un po’ ovunque nel mondo con le AMAP, i Gas, ecc. ) possiamo stabilire legami più stretti tra
coltivatori/allevatori e consumatori dei loro prodotti. E questi alimenti sarrano più freschi e più sani. La loro
impronta ecologica sarà infinitamente più leggera (meno frigorifero, meno stoccaggio, meno trasporti) [18]». I GAS
(gruppi di acquisto solidale) e gli AMAP (associations pour le maintien de l’agriculture paysanne) vanno in questa
direzione. Un passo ulteriore consiste nell’organizzarsi in reti per garantirsi reciproca complementarità ed estendere
la loro assise (esperienza di Brioude). Questa autonomia comunque non significa ancora un’autarchia completa. Si
potrà stimolare il commercio con le regioni che avranno fatto la stessa scelta e “lasciar stare” (abbandonare) il
produttivismo: scambi equilibrati che rispettano l’indipendenza delle regioni, significano commercio dei surplus
regionali mutuali senza sovraccaricare gli uomini e gli ecosistemi (scambiare burro contro ulivi e così via).
Si ricercherà anche l’autonomia energetica locale: le energie rinnovabili sono adatte alle società decentralizzate,
senza grandi concentrazioni umane. Questa dispersione ha il vantaggio che ogni regione del mondo possiede un
potenziale naturale per sviluppare una o più filiere di energia rinnovabile [19]. Si incoraggerà il commercio locale:
un posto di lavoro precario creato nella grande distribuzione distrugge cinque posti fissi nei negozi di vicinato [20].
Secondo l’Istituto Nazionale francese di statistica e di studi economici (l’INSEE), la nascita delle “grandi superfici”
(grandes surfaces=centri commerciali) alla fine degli anni Sessanta ha eliminato il 17% dei panifici (17.800), l’84 %
dei negozi alimentari (73.800), il 43% delle ferramenta (4.300). Si tratta di una parte importante della sostanza
stessa della vita locale che scompare e del tessuto sociale che si disfa [21]. Dato che oggi, in Francia, le cinque
centrali d’acquisto della grande distribuzione coprono il 90% del commercio al minuto, c’è molto lavoro da fare...
In fine, bisogna pensare di inventare una vera politica monetaria locale. Per mantenere il potere d’acquisto degli
abitanti, i flussi monetari dovrebbero rimanere il più possibile nella zona, mentre le decisioni economiche devono
essere prese il più possibile a livello regionale. Secondo un esperto (uno degli inventori dell’Euro): «Incoraggiare lo
sviluppo locale o regionale e conservare allo stesso tempo il monopolio della moneta nazionale è come provare a
disintossicare un alcolizzato con il gin» [22]. Il ruolo delle monete locali, sociali o complementari è di mettere in
relazione i bisogni insoddisfatti con risorse che altrimenti rimarrebbero inutilizzate. Le microesperienze sono
numerose, dagli assegni dei sistemi di scambi locali, le monete fondanti, i creditos argentini, fino ai buoni d’acquisto
specifici (trasporto, pranzi, fureai kippu in Giappone, “coupon de relation fraternelle”, per la cura degli anziani, ecc).
Tuttavia, il riappropriarsi sistematico della creazione e dell’uso locale del denaro non è mai ancora stato tentato. La
scala ideale per tale esperienza sarebbe senza dubbio ancora la bioregione. Bisogna pensare a immaginare delle
monete “bioregionali”.
In sintesi, la regionalizzazione significa: meno trasporti, catene di produzione più trasparenti, incentivi per produrre
e consumare in modo sostenibile, minore dipendenza dai flussi di capitali e dalle multinazionali e alla fine una
maggior sicurezza in tutti i sensi del termine.
Regionalizzare e ricontestualizzare l’economia nella società locale preserverà l’ambiente che è in ultima analisi la
base di tutta l’economia;

- apre a ciascuno un accesso più democratico all’economia,


- riduce la disoccupazione,
- rafforza la partecipazione (e dunque l’integrazione) e anche la solidarietà,
- fortifica la salute dei cittadini grazie alla crescita della sobrietà e alla diminuzione dello stress [23].

Per concludere: iniziative locali e urbani decrescenti

In attesa dei cambiamenti necessari della governance mondiale e della salita al potere di governi nazionali intonati
all’obiezione di crescita, numerosi sono gli attori locali che hanno implicitamente o esplicitamente imboccato la
strada dell’utopia feconda della decrescita.
Se il progetto locale comporta evidenti limiti, non si deve sottovalutare le possibilità di fare dei passi avanti nella
politica a questo livello. L’esperienza del comune di Mouans Sartoux sotto l’impulso del suo sindaco André Aschieri
è interessante: riapertura controcorrente della stazione e del collegamento ferroviario, moltiplicazione delle aziende
statali autonome per i beni comuni (acqua, trasporti, ma anche pompe funebri), creazione di piste ciclabili, di spazi
verdi, mantenimento dei contadini locali e di piccoli negozi, rifiuto della speculazione immobiliare e
dell’installazione dei supermercati. Tutto questo ha permesso di evitare una periferizzazione della città, considerata
inevitabile trent’anni fa, e ha ridato senso al vivere localmente. L’organizzazione di un festival annuale del libro che
coinvolge tutta la popolazione e la cui risonanza aumenta è un simbolo forte di questo rinnovamento.
È importante fare conoscere le iniziative di ogni tipo e coordinarle. Collettività locali, dalla Carolina Nord a Châlon-
sur-Saône, prendono l’iniziativa prima dello stato e mettono a punto piani di lotta contro il cambiamento climatico.
La riduzione di consumo di energia può ispirarsi all’esempio di BedZED (Beddington Zero Energy Development).
Alcune regioni decidono di rifiutare gli OGM (L’Alta Austria, la Toscana, e addirittura la Polonia). Le ordinazioni
delle collettività locali e degli stabilimenti pubblici (scuole, ospedali, ecc.) rappresentano una parte significativa
delle ordinazioni publiche (12 % del Pil in Francia). Questo rappresenta una leva per diffondere la conversione
ecologica nell’insieme dell’economia; basta imporre ai beneficiari buone pratiche ambientali attraverso il capitolato
d’oneri d’appalto [24]. I municipi possono, per gli stabilimenti di loro pertinenza, prevedere rifornimenti che
favoriscano imprese e negozi locali (Chambéry), imporre prodotti provenienti dell’agricoltura biologica per le
mense e i ristoranti pubblici (Lorient, Pamiers), rifiutare l’uso dei pesticidi a vantaggio di tecniche meccaniche o
termiche per la diserbatura (Rennes, Grenoble, Mulhouse), scegliere il compost piuttosto che i concimi chimici [25].
La promozione dei trasporti pubblici si sviluppa in alcune regioni francesi: il consiglio regionale della regione
Rhône-Alpes, per esempio, ha approntato 400 treni in più dal 1997, rinnovato 115 stazioni e il 60 % del materiale. Il
risultato è una crescita annuale della frequentazione dal 5 al 6 % [26].
«Fin da ora – conclude Yves Cochet – dobbiamo svolgere un ruolo attivo nella vita comunale participando alle
elezioni, assistendo alle riunioni del Consiglio, diventando membri di associazioni che promuovono pratiche e
culture della sobrietà; più zone pedonali e piste ciclabili invece di strade per il passagio di automobili; più negozi di
vicinato invece dei grandi centri commerciali; più piccoli edifici invece di grandi palazzi; meno spostamenti, più
servizi in prossimità, meno circonvallazioni, meno zonizzazione urbana ecc. [27]. Bisogna sostituire il WTO (OMC)
con l’OML (Organizzazione mondiale per la Localizzazione) con lo slogan: proteggere il locale globalmente [28]».

[1] Secondo l’espressione di Jean-Claude Michea, L’enseignement de l’ignorance et ses conditions modernes,
Micro-Climats, 1999.

[2] Cfr. Marc Augé e Marco Revelli.

[3] Thierry Paquot, Terre urbaine. Cinq défis pour le devenir urbain de la planète, La découverte, Paris 2006 e
Utopies et utopistes. Repères, La découverte, Paris 2007.

[4] Gilles Clément et Louisa Jones, Une écologie humaniste, Aubanel, 2006.

[5] Si potrebbe allungare la lista delle “R” con: radicalizzare, riconvertire, ridefinire, ridimensionare, rimodellare,
riabilitare, reinventare, rallentare, restituire, rendere, riscattare, rimborsare, rinunciare, ripensare, rieducare ecc., ma
tutte queste “R” sono più o meno incluse nelle prime otto.

[6] Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, 1975.


[7] «Quattro tematiche possono strutturare lo spazio in divenire delle società di sobrietà, sottolinea Yves Cochet:
l’autosufficienza locale e regionale, il decentramento geografico dei poteri, la rilocalizzazione economica e il
protezionismo, la pianificazione concertata e il razionamento» (Yves Cochet, Pétrole apocalyse, Fayard, Paris 2005,
p. 208).

[8] Secondo la tesi di Stéphanie Böge pubblicata nel 1993 dal Wuppertal Institut, un vasetto di yogurt alla fragola di
125 grammi venduto a Stoccarda nel 1992, ha percorso 9115 km, se si sommano il percorso del latte, quello delle
fragole coltivate in Polonia, quello dell’alluminio per l’etichetta, la distanza dalla distribuzione, ecc. (“Silence”, n°
167, juillet 1993).

[9] Murray Bookchin, Pour un municipalisme libertaire, Atelier de création libertaire, Lyon, 2003.

[10] Alberto Magnaghi, Dalla città metropolitana alla (bio)regione urbana, in Anna Marson (a cura di), Il progetto di
territorio nella città metropolitana, Alinea, Firenze 2006, pp. 69-112.

[11] R.A. Dahl, I dilemmi della democrazia pluralista, Milano, Il Saggiatore 1988; Paola Bonora, op. cit., p. 113.

[12] Ivi, p. 114.

[13] Cfr. Carta del Nuovo Municipio in www.nuovomunicipo.org.

[14] News of nowhere/Nouvelles de nulle part.

[15] Se la lingua è, come dice Martin Heidegger la “casa dell’essere”, «la babelizzazione, come dice Thierry Paquot,
permette non soltanto la diversità delle culture, ma anche modi di essere e di pensare». Essa partecipa di ciò che
definisce una ecologia delle lingue (Thierry Paquot, Terre urbaine, cit., p.181).

[16] P. Bonora, op. cit., p. 118.

[17] Singleton, “Entropia”, n.1, op. cit, p. 52.

[18] Willem Hoogendick, Let’s regionalise the economy - and cure ourselves of a host of ills !

[19] Y. Cochet, op. cit., p. 140

[20] Christian Jacquiau, Les coulisses du commerce équitable, Mille et une nuits, 2006.

[21] Cfr. Nicolas Ridoux, La décroissance pour tous, Parangon, Lyon 2006, p. 11.

[22] Bernard Lietaer, Des monnaies pour les communautés et les régions biogéographiques : un outil décisif pour la
redynamisation régionale au XXIème siècle, in Jérôme Blanc, Exclusion et liens financiers, Monnaies sociales,
Rapport 2005/2006, Economica, p. 76.

[23] Willem Hoogendick, op.cit.

[24] Pascal Canfin, L’économie verte expliquée à ceux qui n’y croient pas, Les petits matins, Paris 2006, p. 72.

[25] Hulot, op. cit., p. 170.

[26] Nicolas Ridoux, La décroissance pour tous, cit., p. 86.

[27] Cochet, op. cit., p. 200.

[28] Secondo il suggerimento di Yves Cochet, op. cit., p. 224.

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