Un Padre, avendo risolto di mandare i suoi figli nel gran Mondo, stimò doverli affidare alla protezione, e condotta d'un Uomo molto celebre in allora, il quale per buona sorte, era di più il suo migliore Amico. Eccoti dunque del pari, Uom celebre, ed Amico mio carissimo i sei miei figli. Piacciati dunque accoglierli benignamente; ed esser loro Padre, Guida, ed Amico! Wolfgang Amadeus Mozart dedica dei Quartetti a Haydn
Trama
Lodi, una locanda nei pressi della stazione di posta, Idi di marzo dell'anno 1770. Un ragazzo di quattordici anni, salda la mano, pochi i ripensamenti, compone il suo primo quartetto. L'avvio del primo movimento, un adagio in sol maggiore, lascia stupefatti: un incedere di viola e violoncello, lento, piano, austero, ieratico. Sulla partitura finale, il padre - che ha aggiunto abbellimenti, appoggiature, trilli - scrive: «15 di Marzo alle 7. di sera - di Amadeo Wolfgango Mozart». Dal Quartetto di Lodi a quelli Viennesi e ai Prussiani, passando per i celebri sei affidati al maestro Haydn - perché sia loro «Padre, Guida, ed Amico!» -, Sandro Cappelletto disegna con piglio sicuro la traiettoria dei ventitré quartetti per archi che Mozart compose dal marzo 1770 al giugno 1790, proiettandola sullo sfondo della Vienna del secondo Settecento: umori e ultimi fulgori del Secolo dei Lumi che va spegnendosi si alternano così sulla pagina per dar conto delle ispirazioni e dei contrattempi, delle intuizioni e delle vertigini, di una tecnica straordinaria e del rapporto speciale che sempre Mozart sembrò avere con questo genere appena nato - il quartetto, che traccia la propria origine proprio a Haydn e a Luigi Boccherini - eppure già così diffuso. Biografia musicale e lucida analisi critica del genio di Wolfgang Amadeus Mozart, I quartetti è innanzitutto uno strumento fondamentale per accostarsi alla sua musica, insieme rivoluzionaria ed emblematica di un'intera epoca, nel cui suono vive immutato e immortale lo spirito dell'arte. Sandro Cappelletto, scrittore e storico della musica, scrive per il quotidiano La Stampa, dirige Studi Verdiani ed è stato direttore artistico della Filarmonica Romana. È autore di testi per il teatro e il teatro musicale. Fra i volumi pubblicati, Farinelli. La voce perduta (1996), Mozart. La notte delle dissonanze (2006), Da straniero inizio il cammino. Schubert, l'ultimo anno (2014).
Sommario
Prefazione. La religione della felicità di Paolo Arcà à Lodi. 1770. le 15 di marzo alle 7. di sera Quella nuova e speciale maniera Anche Wolfgang sta bene; dalla noia si è giustappunto messo a scrivere un quatro Wolfgang compone come sempre, senza respiro Un padre, avendo risolto di mandare i suoi figli nel gran Mondo... Carissimo Hoffmeister! Cerco rifugio da Lei, e Le chiedo per intanto di assistermi Sabato prossimo ho intenzione di eseguire i miei quartetti a casa mia... Ringraziamenti Cronologia dei quartetti Le fonti Note Indice dei nomi e delle opere
Prefazione
La religione della felicità di Paolo Arcà
Questo libro nasce da un'idea e da una proposta della Società del Quartetto di Milano per un'occasione davvero importante, forse addirittura unica nel capoluogo lombardo: l'esecuzione del ciclo integrale e in ordine cronologico dei ventitré quartetti per archi di Wolfgang Amadeus Mozart, offerti unitariamente per la prima volta nella lunga vita del Quartetto, iniziata il 29 giugno 1864. Quel giorno, in quel primo concerto, figurava già un quartetto di Mozart, quello in sol maggiore K 387 (all'epoca conosciuto ancora come op. 10 n. 1). Da allora, tutti i quartetti di Mozart sono stati, e ben più di una volta, eseguiti al Quartetto, ma mai come ciclo completo. Ora questo avviene nel 2016, protagonista il Quartetto di Cremona, in due stagioni consecutive di questa Società, di cui chi scrive ha la responsabilità delle scelte artistiche. Seguire il percorso dei quartetti per archi lungo tutta la vita di Mozart è una profonda esperienza di godimento e arricchimento artistico. Sono pagine uscite dalla fucina di un musicista perfettamente consapevole dei propri mezzi, essendo ormai ampiamente superata l'immagine romantica di Wolfgang eterno fanciullo che scrive di getto e quasi in stato di incoscienza. Ed è particolarmente emozionante ripercorrerne i diversi momenti creativi: s'inizia con un ragazzo quattordicenne, sospeso in una spensierata età dell'innocenza, che compone i primissimi quartetti (nati in Italia e in particolare a Milano) come esercizio, come primo cimento in un genere che stava allora nascendo, con una musica cristallina nella quale la malinconia scorre simile a una nube passeggera, per arrivare alla breve e così intensa maturità, assediata dalla morte incombente, dove il genio disperato e determinato sa trasfigurare nella musica le difficoltà e i tormenti di una vita penosa, misera, sotto il pungolo della necessità di fuggire i creditori e di provvedere, con imploranti richieste di denaro, ai bisogni di una famiglia con una moglie e due figli piccolissimi. In questo libro denso di passione, Sandro Cappelletto, acuto studioso e scrittore fine che sa suscitare nel lettore molte curiosità e desideri di ascolto, traccia un'analisi completa dei quartetti mozartiani, raccontando la musica con un linguaggio adatto anche a chi non padroneggi termini tecnici. Ma il progetto del libro è più ampio, allargandosi anche alla contestualizzazione di queste opere collocate nel momento storico e nell'ambiente in cui sono nate, e diventando quindi una vivace narrazione della società austriaca della seconda metà del Settecento, descritta nelle abitudini quotidiane e nella sua stratificazione sociale. Il libro ci offre così una testimonianza di come la musica fosse al centro di un periodo irripetibile, che ci appare lontano e affascinante, l'epoca dei Lumi, colta ma leggera ed elegante, con quella «civiltà della conversazione» che metteva al centro l'uomo, e in cui la musica era mimesi della vita. E se la musica è la vita, è proprio il quartetto per archi, questo nuovo genere cameristico, nobilissimo ma egualitario, nato a metà Settecento con lo scopo di soddisfare il diffuso bisogno di Hausmusik, che rappresenta, con le sue quattro linee che si dipanano e s'intrecciano, si scontrano e s'inseguono, la raffigurazione sonora di una conversazione senza parole, la trasfigurazione musicale di quell'esprit de finesse che sempre dovrebbe regolare e presiedere alle relazioni tra le persone. Al centro del libro giganteggia Wolfgang, del quale, attraverso lo scorrere dei ventitré quartetti, si ricostruisce il processo inventivo come evoluzione e arricchimento, come maturazione di una creatività sempre più consapevole nel rappresentare tutta la ricchezza di sentimenti, inflessioni, umori e stati d'animo della umana natura. Si racconta qui anche di un Mozart coraggioso, determinato a respingere la condizione del musicista confinato al rango di domestico, per affermare il suo stato di artista libero: affrancato, padrone di se stesso, dovrà ora vivere solo grazie alla musica, con i concerti come pianista, con nuove opere cedute a un editore o scritte dietro compenso di un committente. Un processo faticoso, nel quale la libertà acquisita è sinonimo a volte di angoscia e povertà, ma sempre di creatività spontanea. L'effetto di queste pagine è produrre nel lettore un acuto desiderio di ascoltare (o riascoltare) questi quartetti, stupefacenti per l'equilibrio dei diversi elementi che Mozart riesce a far convivere e per la generosità delle idee musicali. Sono capolavori che offrono all'ascoltatore possibilità di scoperte sempre nuove, che si modificano secondo le età della vita e lo stato d'animo di chi li frequenta. E sempre ne siamo affascinati con pari intensità, perché Mozart non stanca mai, né mai ha conosciuto oblio. I quartetti, straordinari quanto a ricchezza musicale profusa, vanno dunque a collocarsi nella sfera dei valori assoluti: ci donano bellezza e verità, perché parlano della vita e degli affetti dell'uomo, di gioia, amore, dolore e di molto altro. Massimo Mila ha scritto che nella musica mozartiana dilaga la «religione della felicità», nel senso che la ricerca della felicità è da Mozart sentita come profonda aspirazione dell'uomo, e a tale obiettivo egli contribuisce scrivendo una musica intrisa di un soffuso pudore espressivo, di un sorriso lieve, che trasfigura gli accadimenti sonori e li colloca nell'empireo dell'universalità, rifuggendo da qualsiasi enfasi dimostrativa e affermando, in un'implicita dichiarazione di fiducia nelle sorti dell'umanità, il principio della bontà intimamente connaturata all'animo umano. Non è proprio quello di cui, oggi, abbiamo più che mai bisogno?
à Lodi. 1770. le 15 di marzo alle 7. di sera
Una data e un luogo precisi, perfino un'ora esatta. Un padre e un figlio, Leopold e Wolfgang Mozart, cinquanta e quattordici anni, il mattino di quel giovedì 15 marzo 1770 lasciano in carrozza a cavalli Milano, dove erano arrivati il 23 gennaio, e dopo un viaggio lungo trentatré chilometri giungono nel tardo pomeriggio a Lodi e prendono alloggio nella locanda della stazione di posta, oggi piazzale 3 agosto. Vi dormono una notte soltanto, la mattina dopo sono di nuovo in movimento, verso Parma. Il loro primo viaggio italiano dura ormai da tre mesi: era mercoledì 13 dicembre 1769 quando i maschi della famiglia, lasciando a casa le due donne, Anna Maria e Maria Anna detta Nannerl, rispettivamente sposa e figlia di Leopold e madre e sorella di Wolfgang, quarantanove e diciotto anni, sono partiti da Salisburgo, dove faranno ritorno soltanto il 28 marzo 1771. Quindici faticosi mesi di studio e di lavoro, di spese e di guadagni, di speranze, di riconoscimenti, di successi, incontri e promesse decisivi per la formazione del giovane artista, ma segnati anche da momenti di profonda stanchezza e di sconforto: «Nient'altro che vestirsi e svestirsi; fare e disfare le valigie e, per giunta, nessuna stanza riscaldata, gelare come un cane, tutto quel che tocco è ghiaccio. E se tu potessi vedere soltanto le porte e le serrature delle stanze! Autentiche prigioni -!» scrive Leopold alla moglie da Mantova l'11 gennaio 1770. Compositore e violinista, didatta stimatissimo, Mozart padre non aveva dubbi né sulle qualità del figlio, né sul luogo migliore dove bisognasse portarlo a studiare, ad ascoltare la musica e a farne pratica esperienza in vista del successo che - lui sperava prestissimo - certamente sarebbe arrivato: l'Italia. Percorrendola da Milano governata dall'Impero asburgico a Napoli borbonica, passando per Torino sabauda, la Serenissima Repubblica di Venezia, Bologna papalina, Firenze degli Asburgo-Lorena, Roma capitale dello Stato della Chiesa. L'Italia politica non esisteva, la sua musica e i suoi teatri sì, ed erano egemoni. E da Milano i Mozart erano partiti dopo aver ricevuto da parte di Carlo Gottardo conte di Firmian, ministro plenipotenziario presso il governo generale della Lombardia austriaca, non solo i nove tomi dell'edizione completa dei testi di Pietro Metastasio («poeta cesareo», cioè al servizio della corte di Vienna, e lì ancora felicemente vivente, autore egemone di libretti per musica su scala europea), ma soprattutto l'incarico ufficiale - riconoscimento eccezionale per un musicista adolescente - per comporre un'opera nuova: Mitridate, re di Ponto, che debutterà al Regio Ducal Teatro il 26 dicembre di quello stesso anno, titolo inaugurale della stagione del più importante teatro lirico della città. Lo rimane fino al 1776, quando un incendio lo distrugge. In due anni, ne viene costruito e inaugurato un altro e più grande, il Nuovo Regio Ducal Teatro. È nata La Scala. Di quell'unica notte trascorsa a Lodi non resterebbe memoria, se proprio quella sera, vincendo la fatica, il ragazzo non avesse deciso di sedersi a un tavolino e di comporre il primo dei suoi ventitré quartetti per archi. À Lodi 1770, scrive Wolfgang di suo pugno, le 15 di Marzo alle 7. di sera - di Amadeo Wolfgango Mozart aggiunge Leopold, sottolineando di propria mano l'orario, come si può leggere nel manoscritto. Un quadernetto di musica lungo 20 centimetri, alto 15, conservato alla Biblioteca Jagellona di Cracovia, dove verso la fine della Seconda guerra mondiale era stato segretamente spedito da Berlino. Quando i bombardamenti degli Alleati sulla capitale del Reich erano ormai iniziati, i responsabili della Biblioteca di Stato Prussiana - che nel 1873 aveva acquistato da un privato i manoscritti dei primi quartetti di Mozart - inviarono i documenti più preziosi nelle biblioteche di diverse città ancora sotto il controllo dei nazisti, come Cracovia. Finita la guerra, i responsabili della Jagellona si guardarono bene dal comunicare che i manoscritti si trovavano lì, nel timore che le autorità sovietiche li pretendessero. Per molti anni, la comunità degli studiosi li considerò perduti. Nel 1989, Wolf-Dieter Seiffert, curatore dell'edizione critica delle opere di Mozart, venne ammesso alla consultazione dell'originale. E il mistero fu risolto. alle 7. di sera: prima di cena. Una tale dettagliata precisione - luogo, anno, mese, giorno, ora - è unica in tutto il catalogo mozartiano.<1 E può significare soltanto una cosa: tutti e due, figlio e padre, erano consapevoli dell'importanza di quel lavoro e soddisfatti del suo esito. Otto anni dopo, nella lettera inviata al padre il 24 marzo 1778 da Parigi, Mozart ricorderà «il Quartetto che ho fatto a Lodi la sera alla locanda»; lo aveva voluto portare con sé anche in quel viaggio, non considerandolo evidentemente soltanto un esercizio di stile, ma un'opera degna, che già parlava di lui. Il 15 di marzo 1770 nascono i primi tre dei quattro movimenti del quartetto. Alle sette di sera, dopo una giornata così faticosa, neppure il più esigente dei genitori avrebbe potuto pretendere dal proprio figlio che si sedesse al tavolino a studiare, a "fare i compiti". L'idea avuta dal ragazzo deve essere stata impellente, non rinviabile, da mettere su carta subito, senza alcuna richiesta, senza alcun destinatario in attesa. Magari gli sarà arrivata repentina in carrozza, durante il viaggio, come a volte capitava; ma in carrozza, tra i continui sballottamenti, era impossibile scrivere musica. In ogni caso, è soltanto per la propria soddisfazione che quella sera a Lodi Mozart inizia a comporre il suo primo quartetto. La mano è sicura, pochi i ripensamenti; gli abbellimenti, le appoggiature, i trilli, le notazioni utili a vivacizzare l'esecuzione sono opera di Leopold. L'avvio del primo movimento, un «Adagio» in sol maggiore, stupisce per l'incedere lento, piano, austero di viola e violoncello. L'attacco rispetta le regole dell'inizio di una sonata da chiesa, ma lo stupore sarà grande quando, quindici anni più tardi, ritroveremo memoria di questa ostinazione nel misterioso avvio del violoncello nell'«Adagio» introduttivo del Quartetto delle Dissonanze K 465. La raccolta mestizia di questo basso ripetuto, quasi ostinato, rimane il tratto dominante dell'«Adagio», screziato da alcuni interventi di primo e secondo violino, come macchie di colore che ravvivano l'omogeneità del ritmo. L'invenzione tematica non è folgorante, il dialogo tra le parti, il gioco di imitazione, le domande e le risposte sono prudentissimi, come i momenti di protagonismo dei singoli, con l'eccezione di rapidi passaggi nel registro acuto dei due violini. Però c'è un clima, un'atmosfera, che, dalle prime battute, cattura l'attenzione, quasi immaga. Manca del tutto lo sviluppo dell'idea, la sua articolazione: il seme resta seme, non diventa pianta. In questa uniformità, che non possiede la potenza dialettica che da lì a pochi anni il classicismo viennese saprà conquistare, l'abilità degli interpreti cercherà di variare, nel peso e nella dinamica di suono, equilibri e accenti, giocando tra piano e forte, tra primo piano e sfondo, con brevi accensioni di una luce più intensa che emerge da un'ombra diffusa. All'inizio dell'«Allegro», ecco il colpo di teatro: quell'accordo forte di tutti e quattro gli strumenti, come una finestra che improvvisa si spalanca e lascia entrare nella stanza aria fresca, capace di arrivare dritta in faccia anche al più distratto degli ascoltatori. È un secondo tempo breve e vivacissimo, che per il suo slancio sinfonico possiamo immaginare suonato da un'intera orchestra, e dove sono la vitalità, la gioia veloce a prevalere, compiuta espressione del dinamismo che rimane uno dei tratti distintivi della musica europea di quegli anni. E come accade in una corsa, in una gara tra amici, c'è chi scappa via per primo, chi insegue, prima di fermarsi ad aspettare gli altri; il cambio di passo è continuo e sempre giocoso, interrotto da brevi spunti di contenuto intreccio polifonico, di stile fugato, come prescrivevano le regole del buon tempo antico e barocco, quasi per ricordarci che gli studi del ragazzo erano solidi. I due temi dell'«Allegro» sono chiaramente diversificati, ma non approfonditi, e il giovane Mozart, dopo i primi due movimenti del suo primo quartetto, ha dimostrato di possedere gravità riflessiva e vivacità ritmica. Stai e vai, pensa e agisci. E danza, lievemente, garbatamente: ecco puntuale, come terzo e penultimo tempo, il «Menuetto» col suo calmo ritmo in 3/4 che, a partire dalla corte di Luigi XIV a Versailles, tanta fortuna ha avuto in quel secolo, perfetta espressione con i suoi movimenti ampi e ripetuti, prevedibili sempre, della ciclicità sorridente di una società immobile, appena solleticata dalla poco più rapida distensione del trio, come l'idea di un'accelerazione, però subito ricondotta al tempo giusto delle battute finali. Sul manoscritto la parola Menueto è scritta da Wolfgang, e del trio esiste una prima versione più breve, di sedici battute anziché di ventiquattro, divisa in due periodi di otto, tutti e due indicati con il segno del da capo. Una pagina - biffata dal padre - più audace nelle altezze prescritte agli strumenti, soprattutto al primo violino, poi imitato dal secondo. La versione infine preferita è meno ardita nella scrittura strumentale e consona alla usuale forma tripartita dell'epoca, con una prima parte (A) cui si contrappone una seconda contrastante (B) e una terza che riprende la prima (A), nella simmetria di otto battute ripetute per tre volte. Quella sera di inizio primavera a Lodi, Wolfgang si ferma qui. Come dimostra il diverso tipo di carta e di inchiostro impiegati, il quarto e ultimo movimento «Rondeau» - e sul manoscritto appare ancora la scrittura di Leopold - viene composto successivamente: forse a Salisburgo nel 1773, oppure a Vienna nell'autunno dello stesso anno, mentre Mozart sta lavorando a una nuova serie di sei quartetti. Fino ad allora, ha lasciato riposare il Lodi, mantenendolo incompleto, segno evidente che non era prevista né una pubblicazione a stampa, né una esecuzione pubblica. E non sappiamo perché proprio in quel periodo decida di completarlo, con un «Allegro», ancora in sol maggiore, come tutti i movimenti precedenti. Con i suoi da capo, con il ritorno del motivetto puntato che appare all'inizio, Mozart rispetta le regole del rondò, o rondeau, come scrivevano i clavicembalisti francesi del Seicento che per primi lo impiegarono. Una forma strumentale, talvolta anche vocale, destinata a enorme successo, che prescriveva di alternare uno spunto iniziale con brevi variazioni in altre tonalità, mantenendo un passo veloce, anche velocissimo. Col rondò si ritorna sempre a casa, non sono previste troppe sorprese e divagazioni, né smarrimenti. E non ce ne sono neppure in questo: «[...] il francesissimo Rondò non farà che esasperare quel già forte ibridismo morfologico e lessicale, che il Quartetto riesce comunque a dissimulare all'ascoltatore non viziato da prevenzione musicologica, in virtù del fascino sorgivo della sua inventiva» (Giovanni Carli Ballóla).<2 Però, l'ostinata idea iniziale dell'«Adagio» è qualcosa di più, lavora in profondità. I modelli di riferimento sono anche italiani e vengono ricondotti soprattutto ai Concertini a 4 istromenti soli che Giovanni Battista Sammartini - conosciuto dai Mozart durante il soggiorno milanese - ha pubblicato tre anni prima. Ma le influenze sono molteplici: la cantabilità operistica, certamente italiana; la vivacità, ancora italiana, della tradizione strumentale settecentesca; una accennata solennità da stile severo austro-tedesco; un lieve gioco galante e brillante, caratteristico degli albori del quartettismo francese. Tutti questi stimoli lavorano nella testa e nel cuore di un ragazzo quattordicenne che, tra opere, sinfonie, concerti, sonate, arie, mottetti, lavori di musica sacra, ha alle spalle 79 composizioni e, quel che più conta, dimostra già idee personali e innovative: «L'opera qui è di Jomelli, è bella, ma decisamente troppo dotta e vecchio stile per il theatro», scrive alla sorella da Napoli il 5 giugno del 1770, criticando Armida abbandonata di Niccolò Jommelli, compositore di riconosciuta autorità. Con il Lodi per la prima volta il ragazzo affronta una creatura musicale giovane, ancora un po' gracile, ma di cui in quegli anni, e simultaneamente in tutta Europa, si poteva intuire l'imminente, folgorante sviluppo. Un professionista della musica quale Wolfgang già era non poteva sottrarsi al fascino nuovo del quartetto per archi.
Quella nuova e speciale maniera
«La cultura è una struttura di significati trasmessi storicamente, incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche per mezzo delle quali gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita» (Clifford Geertz).<1 In pochi decenni, nella seconda metà del Settecento, il quartetto per archi nasce, si consolida, si afferma e si definisce come una forma musicale significante, simbolica e condivisa: scriverlo e suonarlo diventa «un atteggiamento verso la vita». È un nuovo medium, con caratteristiche proprie che lo distinguono e identificano. Da allora, è riconosciuto come la formazione principe della musica da camera, che oggi appare la più indifesa tra i codici della comunicazione contemporanea, così lontana, nella supremazia e nel clamore della rappresentazione per immagini, dall'astrazione invisibile di questa creatura strumentale, che offre e richiede intimità di ascolto e di fruizione. Mai con più esattezza che nella musica da camera vale la definizione kantiana dell'arte come finalità senza fine.<2 Gli stessi interpreti ne costituiscono "il pubblico ideale", capace di capire e osare, di tendere insieme verso questo nobile fine che, storicamente e artisticamente, è stato possibile raggiungere ben prima che lo spaccato sociologico suggerito da Theodor Adorno con la consueta disinvolta capacità di sintesi diventasse verità. <3 Questa non è una musica per tutte le orecchie, non è pensata per le grandi sale, pretende la dimensione raccolta di una "camera". Chi la fa vivere e chi la ascolta condividono uno spazio piccolo, a misura di sguardo, di contatto, anche fisico. Nulla di spettacolare, niente sfarzi, scarsa soddisfazione mondana, nessuna "immagine" a cui appigliarsi, nessun prodigio da cantante, nessun artificio scenico, nessun effetto pensato per meravigliare. Una scena invisibile. Quattro strumenti, l'astrazione di un racconto realizzato solo con i suoni. A chi ama la musica da camera, tutto il resto appare compromesso, fatuo, "sporcato". Aristocrazia dei musicisti, e del pubblico. Luciano Berio ha dato del quartetto d'archi la definizione esemplare: Penso che non esista un insieme strumentale che sia stato penetrato tanto profondamente dal pensiero musicale quanto il Quartetto d'Archi. È infatti attraverso di esso che il vascello della musica ha gettato lo scandaglio nei mari più profondi. Dopo quasi 250 anni di vita esso continua a non essere riducibile alla somma dei suoi componenti e si presenta a noi, invece, come uno "strumento" la cui dialettica tra individualità ed umanità, fra autonomia e omogeneità, sembra porsi come paradigma di una società ideale.<4 Società ideale, perché ogni individualità non scompare, anzi è necessaria, però trova il proprio senso compiuto soltanto se si pone al servizio di un percorso comune. Democrazia e condivisione, dignità di ogni voce - individualità, autonomia - e necessità di una sintesi - umanità, omogeneità. I valori civili riflettono quelli musicali, e viceversa, in una comunità di esecutori-creatori ridotta rispetto alle dimensioni di un'orchestra sinfonica, di una rappresentazione lirica, e più coesa, più partecipe, dove l'interazione tra i protagonisti diventa essenziale per la riuscita complessiva: «Il primo passo per eseguire correttamente la musica da camera è di imparare a non mettersi in luce, a tirarsi indietro. L'insieme non si realizza con l'autoaffermazione imperiosa delle singole parti, che produrrebbe un barbarico caos, ma riflettendo su se stessi e ponendosi dei limiti» (Theodor Adorno).<5 Omogeneità, resa possibile da quattro strumenti della stessa famiglia, capaci di un'estensione superiore a quella consentita a un quartetto vocale: quattro ottave e mezzo per violino e violoncello, tre e mezzo per la viola, contro le due consentite - salvo prodigiose eccezioni, che il pubblico del Settecento poteva apprezzare soprattutto nella vocalità degli evirati cantori - a una voce umana. Il quartetto percorre una gamma dinamica, dal pianissimo al fortissimo, più flessibile e più percepibile di quanto non sia concesso a ensemble delle altre famiglie strumentali: legni, fiati, ottoni. Possiede «la chiarezza e la limpidezza di una sonorità poco spessa; una sonorità pura e neutra, senza una coloritura accentuata o pittoresca».<6 Ha una grande varietà di timbri e registri, mentre il peso del suono può distribuirsi in modi diversi tra i quattro strumenti. Individualità e autonomia: una comune tinta di fondo, però con molteplici screziature, con differenti densità di spessore. Una trasparenza polifonica unica, una gamma di risorse e di effetti che, per ciascuno degli interpreti, vanno dallo staccato allo spiccato, al portato, al legato, al vibrato, al glissando, al martelé, al détaché, al trillo, alla scordatura, alle corde doppie, dal colpo d'arco breve e immediato all'arcata lunga, lenta, insistita, al divertimento, alla bizzarria o al furore del pizzicato, a una quantità di figurazioni e ornamenti. Una modernità d'espressione dove convergono decisive novità tecnico-costruttive ed esecutive che riguardano il «corpo» degli strumenti, l'impiego dell'arco e l'uso della mano sinistra: centrale, per questi aspetti, la lezione, pratica e teorica, di Giuseppe Tartini, che a partire dal 1727 tiene a Padova una scuola frequentata da violinisti di tutta Europa. Anche la Violinschule di Leopold Mozart, pubblicata nel 1756, renderà esplicito omaggio ai suoi insegnamenti. «La duttilità affatto nuova degli strumenti ad arco li rende dominatori della moderna età degli affetti» (Antonello Farulli):<7 il quartetto per archi emerge anche in virtù di una duttilità che gli consente di raggiungere risultati musicali inediti e superlativi. Tuttavia, il limite delle quattro voci, la loro omogeneità, può diventare un ostacolo invalicabile alla qualità se l'ispirazione non è costante, se il mestiere non è supportato dall'invenzione, se il gusto e la scienza non trovano un punto di incontro. Trii, quintetti, sestetti, con raddoppio delle viole o dei violoncelli: anche organici diversi hanno consentito risultati eccellenti, ma l'insieme formato da due violini, una viola, un violoncello possiede allo stesso tempo più compiutezza e più essenzialità; le quattro parti esercitano anche un fascino arcaico, rinviano alle prime catalogazioni degli elementi creativi, sembrano voler riprodurre la vastità e l'ordine della vita, l'universale confronto e sintesi: «Li musici sogliono il più delle volte porre Quattro parti, nelle quali, dicono contenersi tutta la perfettione dell'harmonia. Et perché si compongono principalmente di cotali parti; però le chiamarono Elementari, alla guisa de' quattro Elementi» (Gioseffo Zarlino).<8 Quattro voci, possibilità di accordi affidati a suoni ora omogenei, ora distinti: «Il quartetto non induce, a differenza del pianoforte, un genere fuso (fusionné) - davvero non è uno strumento a sedici corde - ma un genere che si può fondere (fusionnel), cioè che ha in sé delle possibilità di fusione ma anche di dissociazione» (Bernard Fournier).<9 Una "fusione" che viene raggiunta quanto e più che nel quartetto vocale, composto da soprano (violino I), mezzosoprano (violino II), tenore (viola), basso (violoncello). Ecco la ragione dell'impiego di due violini: il secondo "fa da mezzosoprano" al primo, la tessitura e la timbrica sono in questo modo estese e connesse, distanti e contigue. Il colore d'insieme consente al quartetto di rendere trasparente una scrittura sia omofonica che contrappuntistica, nel gioco di risposte tra identità simili e diverse. Niente contrabbasso, troppo inconfondibile nella sua individualità strumentale, troppo - a quel tempo, almeno - limitato nell'estensione, troppo ingombrante per essere agevolmente portato in una "camera". Nella sua formazione definitiva il quartetto ammette, come voce di basso, solo il violoncello. Da duecentocinquanta anni: con la potenza di un'idea simultanea e condivisa, è nella seconda metà del Settecento che queste quattro voci individuano il proprio percorso creativo. Un'idea europea, espressione della nostra storia culturale e artistica, «paradigma di una società ideale» che può apparire ormai lontana come un'utopia, ma non per questo meno indispensabile, e che venne allora percepita come una nuova aurora da una società che non aveva timore del proprio futuro. Firenze, Milano, Vienna, Amburgo, Berlino, Londra, Parigi, Madrid... Ovunque, nelle corti, nei salons, nelle case e nelle residenze private delle città europee più dinamiche, il quartetto d'archi piace. A Milano nel 1765 si forma quello che è documentato come il primo quartetto d'archi professionale: Filippo Manfredi e Pietro Nardini, violini; Giuseppe Cambini, viola; Luigi Boccherini, violoncello. Il Quartetto Toscano: Manfredi e Boccherini di Lucca, livornesi Nardini e Cambini; compositori e interpreti, secondo un'identità di mestieri e funzioni allora consueta e necessaria alla vita professionale del musicista. Lavoreranno insieme «per un periodo di sei mesi» (erano tutti e quattro toscani: sarà per questo che non sono riusciti a rimanere assieme più a lungo?), come racconterà con qualche confusione lo stesso Cambini, quasi un messaggio inviato ai futuri quartettisti su quanto sia difficile riuscire a formare e più ancora a far durare nel tempo un ensemble dove le vicende artistiche e private e la vita professionale di quattro diverse sensibilità procedono parallele, tra entusiasmi e tensioni, conquiste e delusioni. Nello stesso periodo, Luigi Tomasini è il primo violino di un quartetto formato dai musicisti, spesso diversi da stagione a stagione, dell'orchestra stabile del principe Paolo II Antonio Esterhàzy ad Eisenstadt. A Londra, una città dove nel 1791 si contano undici società di concerti, dal 1788 è attivo un quartetto d'archi professionale, spronato dall'impresario e violinista Johann Peter Salomon, mentre il bolognese Luigi Borghi è il secondo violino del Quartetto Cramer, guidato da Wilhelm Cramer. <10 A Vienna si ha notizia di due esecuzioni pubbliche, nel 1783 e 1784, dei quartetti di Hoffmeister e Pleyel,<11 ma bisognerà attendere il 1794 perché, con il patrocinio del principe Lichnowsky, il violinista Ignaz Schuppanzigh fondi un quartetto stabile, destinato prevalentemente a esecuzioni private, capace di rimanere attivo per un periodo memorabile: nel 1812 è il protagonista di una serie di concerti organizzati per la Gesellschaft der Musikfreunde (Società degli Amici della Musica), il 6 marzo 1825 crea l'op. 127 di Beethoven, avvio del ciclo formidabile dei suoi ultimi quartetti, il 10 febbraio 1826 esegue La morte e la fanciulla di Schubert. Ludwig Finscher suggerisce che questo ritardo nella diffusione del quartetto come concerto pubblico nella città protagonista dell'età classica della musica sia dovuto all'alta qualità di esecuzione da parte dei nobili, che intendevano mantenere privato, intimo, tale distintivo primato: nello specifico della tecnica musicale, amavano rimarcare la propria diversità rispetto ai quartetti di scrittura più semplice, appannaggio della più numerosa borghesia.<12 L'esempio veniva dall'alto: l'imperatore Giuseppe II, violoncellista, pianista e cantante, suonava in quartetto quasi ogni pomeriggio. A Berlino, Federico Guglielmo II, violoncellista amateur, era una calamita che attirava la presenza e stimolava la produzione di alcuni tra i migliori musicisti del tempo, da Boccherini a Haydn, da Mozart a Beethoven. A confronto della scarsità di quelle pubbliche, le esecuzioni private erano frequenti ed eccellenti: «Il signor L'Augier mi offrì inoltre la possibilità di ascoltare la sera seguente alcuni quartetti di Haydn eseguiti nel modo più perfetto e preciso»,<13 scrive lo storico della musica inglese, e instancabile viaggiatore, Charles Burney, che è a Vienna ai primi di settembre del 1772. Il tenore irlandese Michael Kelly ricorda così, non senza Understatement, una serata viennese del 1784 a casa della collega Nancy Storace, soprano che Mozart apprezzava: «Nessuno degli esecutori eccelleva nello strumento che suonava, comunque avevano una certa scienza, che oso dire sarà riconosciuta quando li nominerò: primo violino... Haydn, secondo violino... barone Dittersdorf, violoncello... Vanhal, viola... Mozart... non si può immaginare un più grande, un più straordinario piacere».<14 Ma qual è la mappa genetica del quartetto per archi, quali i suoi "genitori"? La questione è diventata così intricata e controversa che la voce «string quartet» nell'ultima edizione, edita nel 2001, del dizionario inglese Grove - l'enciclopedia della musica più diffusa al mondo, quella che misura la temperatura media della conoscenza - inizia così: «No immediate precursor for the string quartet can be identified». Non può essere "identificato" alcun precursore immediato. Neppure le Sonate a quattro per due violini, violetta e violoncello senza cembalo di Alessandro Scarlatti (1715), simili, nella loro alternanza di ripieno e concertino e nonostante la rimarcata assenza del clavicembalo, più a un concerto grosso che al futuro quartetto. Sonata a quattro, concerto e concertino a quattro, sonate en quatuor, symphonie en quatuor, ouverture à quatre, divertimento, notturno, serenata, cassazione, quadro, quartettdivertimento, quattro? Confrontando migliaia di manoscritti e di opere a stampa dell'Europa occidentale, e in particolare in Italia, Austria, Francia, Germania, Inghilterra, Mara Parker conclude che «l'uso corrente della parola "quartetto" era minimo negli anni quaranta e nella decade successiva. Nonostante abbia fatto una modesta apparizione nei sessanta e incrementato la sua presenza nei settanta, il termine divenne di uso corrente attraverso l'Europa negli ottanta».<15 Un flusso diffuso di esperienze, reso possibile anche dal gran viaggiare e incontrarsi, leggersi, ascoltarsi, confrontarsi di compositori e interpreti: la musica è un'arte leggera, non conosce altri confini che quelli stabiliti dal gusto, dalla moda, in alcuni casi dalle censure. Una molteplicità di definizioni, un'evoluzione stilistica che propone la coesistenza di diversi esiti artistici e di differenti modalità di fruizione. Una società musicale pronta all'ascolto, vivacissima, curiosa del nuovo che, col quartetto, sta mettendo a fuoco le altre grandi forme che tuttora costituiscono il cuore del repertorio occidentale e caratterizzano il periodo classico: sonate, concerti, sinfonie. Gli studiosi del tempo percepiscono questa confusione e si preoccupano di definire con chiarezza che cosa caratterizza la "musica da camera", che al proprio interno contiene il "quartetto". Nel 1746 così scrive il compositore e teorico tedesco Meinrad Spiess, sacerdote benedettino: La musica da camera, chiamata anche galanterie-music, prende il nome dalle stanze e dai saloni della nobiltà dove viene abitualmente suonata. Chiunque cerchi il piacere, gli artifici, l'invenzione, il gusto, la tenerezza, li troverà tutti nei cosiddetti concerti grossi, sonate da camera, ecc. ecc., nei quali non si può fare a meno di provare piacere ascoltando il reciproco concerto delle voci alte, mediane e basse, che si imitano l'un l'altra e si disputano per attirare l'attenzione, tutte con nitidezza e con gusto.<16 Lo spazio dove la musica da camera viene suonata e il ridotto afflusso del pubblico condizionano e connotano, insieme, sia gli organici sia le caratteristiche di scrittura. Caratteristiche che, pochi anni prima, erano state notate anche da Johann Mattheson, musicista poliedrico, teorico, personalità tra le più in vista, e amanti della polemica, del proprio tempo: Lo stile nella musica da camera richiede anche molta più diligenza e perfezione che altrove e deve avere piacevoli, chiare parti interne che continuamente, in un modo gradevole, contendono il primato alle voci superiori. Legature, sincopi, arpeggi, alternanza tra tutti e solo, tra adagio e allegro, sono risorse così essenziali e caratteristiche che, per la maggior parte, le si cercherebbe invano nelle chiese o sul palcoscenico, perché lì c'è più fiducia nel predominio delle voci umane e lo stile strumentale è usato solo per migliorare, accompagnare o rinforzare; nella camera invece afferma chiaramente la propria superiorità. In verità, anche se la melodia dovesse qui, in qualche occasione, soffrire un po', ne viene abbellita, ornata, resa effervescente. Questa è la sua caratteristica.<17 Il luogo condiziona lo stile; il pubblico si distingue per una competenza e una disponibilità tali da consentire ai compositori di proporre soluzioni che richiedono una diligenza e una perfezione non altrettanto frequenti nelle grandi sale d'opera o da concerto. Spiess e Mattheson dunque concordano: la musica da camera è destinata ai professionisti e agli amateurs, che in prevalenza appartengono alla nobiltà. Fino a tutto il Settecento, la parola e la pratica vengono identificate più con il riservato luogo dell'esecuzione - stanze e saloni di palazzi - che con un preciso organico strumentale: un solista, pochi strumenti, anche la presenza delle voci, ma soprattutto importa che questa musica sappia differenziarsi dalla liturgica e dalla teatrale, dalla celebrazione religiosa e dall'esibita emotività operistica. Esemplare l'occasione in cui nasce il primo quartetto di Haydn: Il barone Fürnberg aveva una proprietà a Weinzierl, a qualche distanza da Vienna e di tanto in tanto invitava il curato della sua parrocchia, il suo amministratore, Haydn e Albrechtsberger (fratello del famoso contrappuntista, che suonava il violoncello) per fare un po' di musica. Fürnberg domandò a Haydn di scrivere qualcosa che potesse essere suonato da questi quattro uomini. Haydn, che aveva diciotto anni [siamo dunque nel 1750], accettò l'invito e così nacquero i suoi primi quartetti, che ricevettero immediatamente un'accoglienza così favorevole da incoraggiarlo a continuare in questo genere. (Georg August Griesinger)<18 Amicizie, ambienti adatti, voglia di fare musica lì per lì, suonando qualcosa che nasce in quel momento, per quegli interpreti. Un contesto domestico che presto si allarga, cercando però di difendere la propria esclusività: Nel vero senso della parola, la musica da camera è quella musica che è usuale solo nelle corti e alla quale, dal momento che è scritta solo per l'intrattenimento privato dei principi regnanti, nessuno senza uno speciale permesso può accedere come uditore. Ma in diverse corti si tende a designare con questa espressione i cosiddetti concerti di corte, che sono realmente destinati solo alla corte e a quanto vi è connesso, ma dove anche altre persone possono prendere parte come ascoltatori in saloni da concerti isolati dalla corte.<19 Accademie, Collegium Musicum, Musical Club e Tavern, Concert d'Amis, des Associés e i decani di tutti, i Concert Spirituel (fondati a Parigi nel 1725), si sviluppano in molte città europee, accompagnano una crescente prosperità economica e l'emergere delle esigenze culturali e di autorappresentazione del ceto borghese. In questo contesto, mantenendo ancora a lungo la cifra distintiva dell'esecuzione privata piuttosto che pubblica, la musica da camera conosce una straordinaria diffusione, senza che la qualità delle composizioni venga compromessa dalla sempre più ampia platea di interpreti e fruitori. Tra le varie forme che assume, è talmente rapida l'affermazione del quartetto per archi che nel 1793 Heinrich Christoph Koch nel Saggio introduttivo alla composizione lo definiva «attualmente il genere prediletto dalle piccole società di musicisti, e coltivato con molta assiduità dai compositori più moderni».<20 È già la descrizione di un laboratorio musicale. «Piccole società di musicisti»: gli elitari confini sociali della "camera" si sono già dilatati, la diffusione creativa ed esecutiva del nuovo genere, che si impone grazie ai propri argomenti stilistici, formali, sociali, è stata prepotente. Un nuovo medium è nato e la forza della "cosa" confonde gli editori, a lungo incerti sul nome con cui connotarla. Anche gli storici, i sociologi e semiologi della musica del tempo stentano a trovare una definizione uniforme, spendibile per tutti i "quartetti" che si creano, refrattari ad assumere una e una soltanto forma canonica. Del resto, quando si getta «lo scandaglio» non si sa mai prima fino a quale profondità si scenderà. Apparse rispettivamente nel 1782 e nel 1785, l'op. 33 di Haydn e l'Opera X di Mozart (i sei quartetti proprio ad Haydn dedicati) rappresentano tuttora, nella considerazione e nella pratica dei musicisti, il passaggio del quartetto per archi dall'adolescenza all'età adulta. L'ansia classificatoria penalizza certamente la vitalità dei risultati raggiunti da altri compositori coevi, eppure i posteri sono costretti a scegliere, tra le infinite eredità consegnate dalla storia, che cosa salvaguardare e praticare nella loro memoria attiva; "giustificati" in questo caso anche dalla precisa consapevolezza dei loro autori di aver prodotto qualcosa di diverso, nato dopo una lunga riflessione. «Sono di un genere del tutto nuovo e particolare, poiché non ne ho composti da dieci anni», scrive Haydn nella lettera del 3 dicembre 1781 rivolta ai potenziali sottoscrittori degli imminenti quartetti dell'op. 33, che saranno dedicati al granduca russo Pavel Petrovic, da cui il titolo, anche, di Russische Quartette; la precedente op. 20 di Haydn apparteneva al 1772. Nella dedica ad Haydn del 1785 Mozart parlerà dei suoi nuovi quartetti - gli ultimi che aveva scritto, i sei Viennesi (K 168, 169, 170, 171, 172, 173) risalivano al 1773 - come del «frutto di una lunga e laboriosa fatica», figlia della sua necessità interiore, della sua severità di artista, non di una commissione o sollecitazione esterna. Beethoven avrà bisogno di un'interruzione ancora più lunga: termina l'op. 95 nel 1810, inizia a lavorare al successivo quartetto op. 127 nel 1823, per concluderlo l'ottobre dell'anno successivo.<21 Quattro movimenti, ispessimento ed elaborazione del lavoro tematico, primo violino che non gode più dell'esclusivo primato virtuosistico, melodico, espressivo; autonomia delle voci interne; violoncello affrancato dal ruolo di basso d'accompagnamento; intercambiabilità delle funzioni armoniche e melodiche; superamento del "severo" problema di rispettare i criteri dell'imitazione stretta, come in una fuga o in un canone, perché, se il quartetto è una conversazione in musica, allora descrive una condizione «dove un'idea, che gira e cambia, può passare da voce a voce» (Karl Geringer).<22 In una conversazione interessante, ogni voce deve potersi differenziare, senza oscurarsi, senza prevaricare, con libertà. Quella della "conversazione" diventa, già a metà Settecento, l'immagine più ricorrente e più diffusa per definire lo spirito del quartetto per archi. È facile allora comprendere come il primato iniziale della produzione, della diffusione e dell'editoria dei quartetti per archi vada alla città che più praticava e apprezzava questo esprit e l'imagination che esso consente. A Parigi, La Chevardière è, nel 1764, l'editore dei Sei quartetti op. 1 di Haydn, composti probabilmente a partire dal 1757; due anni dopo è la volta delle Six Symphonies ou Quatuors dialogués. Luigi Boccherini pubblica, nel 1767 per l'editore Vénier, i Sei quartetti G 159-164 (e Parigi continuerà a editare i suoi quartetti fino all'op. 26, pubblicata da Artaria a Vienna nel 1781). I Six Quatuors op. 3 di Antoine-Laurent Baudron sono nel 1768 la prima edizione a stampa di quartetti di un autore francese. Nel 1773 esce a Parigi l'op. 1 di Giuseppe Cambini: fino al 1809 i suoi quartetti conosceranno oltre 150 pubblicazioni.<23 Nella capitale francese, nella seconda metà del secolo sono attive nove società pubbliche di concerti, che però non ritengono conveniente programmare nelle loro stagioni quartetti per archi. Nonostante questo divieto di accesso, la produzione è numerosissima: Marc Pincherle, critico, didatta di violino, storico della musica francese, ritiene che «tra 1765 e 1800 solamente a Parigi sono state incise almeno 150 raccolte di quartetti, a gruppi di tre o di sei, e ogni giorno si ritrovano ancora degli inediti».<24 Altre indagini dilatano le cifre: analizzando solo il tipo del quatuor concertant, Janet M. Levy sostiene che tra 1770 e 1880 almeno duecento compositori ne hanno scritti, solo per il mercato parigino, circa tremilaseicento! Una quantità che racconta della vastità del successo e testimonia l'amplissima disponibilità, nei saloni nobiliari e nei salotti delle case borghesi, alla ricezione: «Parigi era la mecca musicale d'Europa, particolarmente durante il terzo quarto del XVIII secolo. Tra il 1760 e il 1789 Parigi vantava più compositori strumentali, interpreti ed editori di qualsiasi altra città al mondo». <25 Che sia dialogué, concertant, o brillant, che dia più o meno spazio al protagonismo del primo violino, o alla partecipazione di tutte le voci alla creazione e distribuzione della melodia, che comunque prevale sulla densità armonica e sul trattamento fugato, il quatuor è la forma musicale che la civiltà della conversazione assume e di cui riflette regole, codici e limiti: «Per tutti l'obiettivo della conversazione galante era lo stesso: attenuando la cattiveria e l'aggressività, moderando o modulando il desiderio, la lingua diventa depositaria di un vero e proprio esercizio spirituale (nell'intera gamma dei significati che l'aggettivo può assumere)» (Emmanuel Bury).<26 La conversazione, per essere galante, non deve essere pesante, troppo colta e savant, troppo fitta di citazioni; le sue leggi sono state codificate alla voce "conversation" dell'Encyclopédie, apparsa nel 1752: Le leggi della conversazione prescrivono in genere di non soffermarsi troppo a lungo su un argomento, ma di passare leggermente, senza sforzo e con naturalezza, da un argomento all'altro, di parlare delle cose frivole come di quelle serie; di ricordarsi che la conversazione è uno svago e non un assalto di scherma o una partita a scacchi; di saper essere trasandati e ancor più che trasandati, se necessario; di concedere, per così dire, piena libertà al proprio spirito. Cortesia, orecchio che si tende verso il vicino di tavolo, di divano, di salotto, geometrie e pulsioni di sguardi, bisogno di condivisione, di socievolezza, perché, constatava Madame de Staël, «un francese si annoierebbe a essere il solo del suo parere come a essere solo nella sua stanza». Quella che allora viene chiamata "musica moderna" conosce bene quest'arte e questa tecnica, questo garbo: i passaggi, le modulazioni, le spiritose convenienze, i limiti; la conversazione è anche un rifugio fuori dal tempo, sa esprimere - e questo diventerà poi il punto di crisi della cortesia galante - «l'equilibrio delicato tra le nuove aspirazioni individuali dell'uomo del tempo e le esigenze irrinunciabili della rappresentazione sociale [...] Una delle attrattive della conversazione sta nel potersi adattare allo spirito, all'amor proprio e alle idee degli altri per ondulazione, se così si può dire, come avviene nell'accompagnamento musicale».<27 Louis-Gabriel Guillemain pubblica nel 1743 Six Sonates en Quatuors ou Conversations galantes et amusantes entre Flûte traversière, un Violon, une Basse de Viole et la Basse. Carlo Giuseppe Toeschi chiama volentieri pièces dialoguées o il dialogo musicale i suoi quintetti e quartetti per diversi strumenti del 1765 e 1766. L'op. 3 di Haydn viene pubblicata come Six Simphonies ou Quatuors dialoguées. Nel 1760 il compositore e scrittore inglese Charles Avison scrive nella prefazione alle sue Six Sonatas for the Harpsichord with Accompanyments for two Violins and a Violoncello, op. 7: «Questo genere di musica non è pensato tanto per un intrattenimento (Entertainment) pubblico, quanto per un privato Amusement. È piuttosto una conversazione tra amici, dove in pochi sono di un'opinione precisa e propongono i loro reciproci sentimenti solo per dare varietà e ravvivare la loro selezionata compagnia».<28 Intimità, corrispondenza di affetti e intenzioni, di sensibilità, scelta accurata dei compagni con cui condividere quel «privato Amusement» che deve ravvivare, rallegrare, non turbare. L'equilibrio tra le parti, l'ondulazione reciproca e concordante si può però anche spezzare. Come già era accaduto nella maledizione con cui il Cavaliere, un solista che non intende più concertare, fugge da Mirandolina e dalla sua locanda - palcoscenico perfetto per questo teatro da camera - nella Locandiera (1753) di Carlo Goldoni: «Fuggo dagli occhi tuoi: maladico le tue lusinghe, le tue lagrime, le tue finzioni; tu mi hai fatto conoscere qual infausto potere abbia sopra di noi il tuo sesso, e mi hai fatto a costo mio imparare, che per vincerlo non basta, no, disprezzarlo, ma ci conviene fuggirlo». Questo strappo, che isola un individuo, ne rende le pulsioni irriducibili alle convenienze del contesto sociale, la civiltà della conversazione non lo avrebbe previsto, né consentito. Rustego è, ancora con Goldoni, chi le è nemico: «I Rusteghi in lingua veneziana non è lo stesso che i Rustici in linga Toscana. Noi intendiamo in Venezia per uomo Rustego un uomo aspro, zotico, nemico delle civiltà, della cultura, e del conversare». I raffronti degli intellettuali francesi con la musica sono continui, fantasiosi, concordanti anche dal punto di vista formale: nel 1769, Denis Diderot dà a Le Rêve de D'Alembert «la forma di una lunga conversazione, un dialogo a quattro voci in tre tempi».<29 Quattro voci, tre tempi: la misura allora adatta a un quartetto per archi. Nella Lettera XIV della seconda parte della Nouvelle Héloïse (1761), romanzo epistolare - come saranno Les Liaisons dangereuses (1782) di Choderlos de Laclos - tra due amanti lontani, Rousseau aveva espresso i limiti certi e la noia possibile della conversazione galante: Il tono della conversazione è disinvolto e naturale; non è né pesante né frivolo; è colto senza pedanteria, gaio senza tumulto, cortese senza affettazione, galante senza essere insulso, scherzoso senza equivoci. Non sono né delle dissertazioni né degli epigrammi: si ragiona senza argomentare; si scherza senza giochi di parole; si associano con arte lo spirito e la ragione, le massime e le arguzie, la satira spinta, l'accorta adulazione e l'austera morale. Si parla di tutto perché ognuno abbia qualcosa da dire; non si approfondiscono gli argomenti per paura di annoiare, li si propone così, sorvolando, li si sbriga rapidamente; la precisione conduce all'eleganza; ciascuno esprime il suo parere e lo motiva con poche parole; nessuno attacca accalorandosi quello degli altri, né difende a ragion veduta il proprio; si discute per fare chiarezza, ma ci si arresta davanti alla disputa; ognuno impara, ognuno si diverte, tutti se ne vanno contenti, e perfino il saggio può ricavare da questi incontri dei soggetti degni di essere meditati in silenzio. Ma in fondo che cosa pensi che si impari in queste conversazioni così charmantes? A giudicare con giudizio delle cose del mondo? A ben valersi della società? Almeno a conoscere le persone con le quali si vive? Niente di tutto questo, mia Julie. Si impara a perorare con arte la causa della menzogna, a far vacillare a forza di filosofia tutti i principi della virtù, a colorare di sottili sofismi le proprie passioni e i propri pregiudizi, e a dare all'errore un certo aspetto [tour] alla moda, secondo le massime del giorno. La galanteria - dialogué, concertant o brillant - si arresta alla superficie della conoscenza, è nemica dell'interiorità, della verità, mentre «con l'avvento dei lumi, la parola era ora al servizio della verità e non più del solo divertimento [...] La conversazione mondana, con le sue regole e le sue cautele, era diventata un gioco sterile, e la ricerca della verità imponeva il sacrificio delle convenzioni sociali» (Benedetta Craveri).<30 Lo sviluppo della musica da camera, e della sua formazione diventata ormai la più rappresentativa, il quartetto per archi, è esempio paradigmatico di questo nuovo bisogno di libertà: le "convenzioni sociali" cambiano, quelle musicali anche, l'esteriorità della conversazione galante si incrina in frammenti improvvisi, irriducibili, quando emergono le esigenze dell'interiorità individuale. Se la conversazione si evolve verso «una libera assemblea a porte chiuse, dove poter esprimere i propri giudizi», allora i limiti del salon privato diventeranno presto stretti e nascerà l'esigenza di dimensioni e di un pubblico più ampi, da convincere con argomenti più sgargianti, più stentorei, con orazioni, di parole e di suoni, a presa rapida. Finisce il tempo dell'ondulazione, della persuasione, inizia quello dell'induzione a credere, dell'essere convincenti, incalzanti, della suggestione. Dal salotto alla piazza, dall'intimità del quartetto all'esuberanza della sinfonia? Una diversificazione che, all'interno del tragitto che conduce dallo stile galante allo stile classico, accentua l'identità della scrittura quartettistica: il suo consumo privato, domestico, meno esposto al giudizio di un pubblico più vasto, rende possibile più che in altri generi «gettare lo scandaglio nei mari più profondi». Questa consapevolezza viene raggiunta con necessaria lentezza: otto anni separano i Sei divertimenti op. 20 di Haydn, pubblicati da La Chevardière a Parigi nel 1774, dai Sei quartetti dell'op. 33, editi da Artaria, a Vienna, nel 1782 (e da Kummel, a Berlino, lo stesso anno, con un frontespizio dove figurano delle fanciulle, da cui il titolo di Jungfernquartette che lì assume l'opera). Lo spirito di conversazione è diventato qualcosa di più complesso di quanto nel 1812 ricorda e descrive Giuseppe Carpani nelle Haydine (prontissimamente, nel 1814, assimilate e saccheggiate da Stendhal nelle Lettres écrites de Vienne en Autriche sur le célèbre compositeur J. Haydn). Nella biografia del Maestro e venerato amico, il librettista, poeta, autore drammatico, critico e biografo, nato nel comasco, viennese d'adozione, propone anche una riflessione sul bello ideale in musica, identificato con il prevalere, tutto italiano, della melodia: Un amico mio immaginava nell'udire un quartetto d'Haydn d'assistere ad una conversazione di quattro amabili persone, e questa idea mi è sempre piaciuta, perché molto si avvicina al vero. Sembrava a lui di riconoscere nel violino primo un uomo di spirito ed amabile, di mezza età, di bel parlato, che sosteneva la maggior parte del discorso da lui stesso proposto, esaminato. Nel secondo violino riconosceva un amico del primo, il quale cercava per ogni maniera di farlo comparire occupandosi rare volte di se stesso, e intento a sostenere la conversazione, più coll'adesione a quanto udiva dall'altro, che con idee sue proprie. Il Basso era un uomo sodo, dotto e sentenzioso. Questo veniva via via appoggiando con laconiche, ma sicure sentenze il discorso del violino prima, e talvolta da profeta, come uomo sperimentato nella cognizione delle cose, prediceva ciò che avrebbe detto l'oratore principale, e dava forza e norma ai di lui detti. La viola poi gli sembrava una matrona alquanto ciarliera, la quale non aveva per verità cose molto importanti da dire, ma pure voleva intromettersi nel discorso e colla sua grazia condiva la conversazione, e talvolta con delle cicalate dilettose dava tempo agli altri di prender fiato. Nel rimanente più amica del basso che degli altri interlocutori.<31 Sembra la descrizione di quattro tipi della Commedia dell'Arte più che di quattro individualità strumentali, ma gli stereotipi, soprattutto se ben raccontati, divertono, rassicurano, tendono a confermare opinioni diffuse. Detestato dai violisti per quei riferimenti alla «matrona ciarliera» e alle «cicalate dilettose» che ignorano l'importanza della letteratura violistica contemporanea, da Stamitz a Haydn allo stesso Mozart, il testo di Carpani, destinando al «Basso» un ruolo di sostegno e di appoggio del primo violino, sostenuto anche dalla cordiale presenza del secondo, fotografa la realtà di un quartetto brillante o con il primo violino concertante: una verità musicale che nel 1812 apparteneva ormai al passato remoto. Ben più attenta e informata del quadretto di genere dipinto da Carpani è la descrizione di Jérôme-Joseph de Momigny, compositore e teorico francese, autore della voce "quatuor" per il Dictionnaire des Beaux Arts edito a Parigi nel 1806: I quartetti di Haydn e quelli di Mozart fanno l'ammirazione e la delizia degli intenditori. Quelli di Pleyel, meno profondi, ma pieni di naturel e di grazia, affascinano tutte le anime sensibili e delicate. Non si possono nominare quelli di Boccherini senza ricordare mille sensazioni piacevoli e tutti abbiano suonato ai suoi tempi quelli di Stamitz, di Davaux e quelli di Cambini. Ai nostri giorni si ascoltano volentieri quelli di Kreutzer che hanno delle reali bellezze [...] Un lavoro a quattro parti, di cui due o tre non sono che delle parti di ripieno, non è un vero quartetto, ma semplicemente un lavoro a quattro voci o a quattro strumenti. I compositori ignoranti sono incapaci di scrivere dei veri quartetti. All'inizio dell'Ottocento Momigny ricorda, distingue, storicizza, delinea il percorso che separa il piacere della gradevolezza dalla vera ammirazione. Le diversità sono evidenti, si possono raccontare, il quartetto ha già una propria storia, le tappe del suo percorso sono ben presenti agli osservatori più attenti: Nello stile galante le parti interne si limitavano ad accompagnare, a riempire l'armonia; ora, invece, queste stesse parti hanno vita propria e svolgono nella composizione un ruolo fondamentale, in contrasto con la concezione stilistica sottesa, per esempio, alle arie solistiche con strumenti concertanti [...] Le parti di questi quartetti e di altri lavori cameristici coevi, oltre a essere formate da idee musicali in sé compiute, condividono lo stesso materiale tematico: costituiscono, per così dire, un intreccio omogeneo di linee musicali in rapporto tra loro.<32 Teatro d'opera e musica da camera: due ambiti espressivi, due pubblici, due modalità di scrittura e di ricezione molto diversi. Nelle idee e nel materiale che nell'età classica si organizzano nella forma sonata e nelle sue scansioni interne, rivivono le regole di persuasione della retorica classica, l'organizzazione del discorso in momenti susseguenti e complementari. Inventio, dispositio ed elocutio sono «le tre componenti su cui poggia la creazione artistica musicale e, appunto com'è per la Trinità, devono essere viste non separate ma assolutamente compenetrate una nell'altra, interdipendenti» (Bruno Zanolini).<33 Secondo la suddivisione stabilita da Cicerone e Quintiliano, i cui testi retorici erano noti a molti musicisti, un corretto discorso deve essere così organizzato: exordium, narratio, partitio (o divisio), confirmatio, reprehensio (o confutatio), conclusio. Che cos'è l'invenzione di un tema, cioè dell'idea che sta alla base di una partitura, se non la figura retorica dell'inventio applicata alla musica? La dispositio è l'organizzazione delle parti del discorso, il dialogare, l'intrecciarsi, anche il contraddirsi, delle diverse voci di un'opera musicale; l'elocutio il modo in cui si "dicono" le note: gli accenti, le pause, l'intensità, il timbro del suono. La traduzione strumentale di figure retoriche quali l'interrogatio, la peroratio, l'abruptio (progressione che insiste sulla sensibile dell'accordo senza risoluzione, insistenza di accenti su una linea melodica, brusca fermata che precede la ripresa) offre ulteriori risorse alla musica creando attesa, esitazione, sorpresa. La relazione creativa tra retorica classica e articolazione del pensiero musicale è giudicata essenziale da John Irving, che riprende la teoria dei tropi: Per Quintiliano (Institutio Oratoria, VIII.VI) il tropo più importante era la metafora, nella quale «un oggetto è in verità sostituito dalla cosa che desideriamo descrivere». Applicata ai movimenti con variazioni, ognuna delle variazioni del tema può essere osservata come una metafora di quel tema (un nuovo termine che lo "sostituisce", esercitando una sorta di "commento"), mantenendo strettamente la sua fraseologia originale e, con occasionale eccezione, la sua struttura armonica [...] Per i compositori, come per gli oratori, i luoghi topici (topics) erano "fonti" dalle quali attingere materiale d'uso; per gli ascoltatori, costituivano un punto di riferimento, una sorta di griglia attraverso la quale la musica si disponeva in modelli riconoscibili. I topics potevano essere considerati come un magazzino di utili modelli di musica, da applicare in determinate situazioni. Per i compositori dell'opera barocca, la cui guida principale era la dottrina dell'Affetto, una conoscenza pratica dei topics era essenziale per la rappresentazione di particolari azioni ed emozioni attraverso una musica adeguata (pastorale, festiva, militare e così via). Simili caratteristiche "fonti di ispirazione" erano ben note al giovane Mozart che, come riportato da Daines Barrington nel 1769, poteva improvvisare un'«Aria di furore» a piacere, utilizzando senza dubbio un particolare codice o un gruppo di codici associati, come il tremolo, le triadi minori, lo spostamento di registri, e così via.<34 La coerenza della forma sonata, la dialettica tra i due temi che la connotano, lo sviluppo, cioè l'approfondimento, dell'idea di partenza, l'importanza crescente data al dialogo, anche discordante, tra le parti, rendono possibile prolungare l'estensione e l'articolazione dell'opera: il quartetto assume definitivamente la forma in quattro movimenti. La musica è un'arte che persiste nel tempo e per poter pensare di durare e convincere a lungo ha bisogno di solidi argomenti tematici quanto di scarti improvvisi: «La nuova temperatura emotiva, la dinamica Sturm und Drang con la sua esaltazione dei contrasti, può riservare molte sorprese alle previsioni della struttura generale» (Giorgio Pestelli).<35 Aree tragiche assieme a isole di piacevolezza e di abbandono, dinamismo - sono anni di dinamismo inaudito: lo dirà nel 1786 l'ouverture delle Nozze di Figaro - e contemplazione, invenzione di effetti strumentali e nessun timore di esplorare l'intensità delle passioni come aveva compreso, nel 1752, il compositore, flautista e saggista Joachim Quantz: «L'oratore e il musicista hanno un unico scopo fondamentale, e cioè impadronirsi dei cuori, eccitare o placare le passioni, trasportare gli ascoltatori ora in questo ora in quell'affetto».<36 Espressioni come "esposizione", "sviluppo", "ripresa" - i tre momenti in cui siamo soliti suddividere la forma sonata - sono figlie della musicologia contemporanea, non erano né note né usate dai compositori dell'età che noi ora chiamiamo "classica", non ne connotavano lo stile: Il concetto di stile non corrisponde agli avvenimenti storici, ma risponde a una necessità: fornisce gli strumenti per la loro comprensione. Il fatto che questa necessità sorgesse quasi all'improvviso non fa parte della storia della musica, ma di quella del gusto e della comprensione della musica. Il concetto di stile si può definire solo pragmaticamente, e a volte può essere talmente fluido e impreciso da risultare inutile. (Charles Rosen)<37 Leggere un brano musicale tenendo come orizzonte privilegiato la sua sintassi formale riduce la possibilità di comprenderne la specificità, la varietà delle intenzioni e della loro dispositio. Porta a trascurare l'aspetto della percezione sonora, il senso del suono così come esce dagli strumenti, la preoccupazione prima di un compositore. Così scrive il compositore e teorico Johann Nikolaus Forkel nell'Almanacco musicale per l'anno 1784, pubblicato a Lipsia: Una delle questioni principali nella retorica e nell'estetica musicale è ordinare le idee e la progressione dei sentimenti espressi attraverso di loro, così che queste idee vengano convogliate ai nostri cuori con una certa coerenza, esattamente come le idee in una orazione si rivolgono alla nostra mente e si susseguono una all'altra in accordo ai principi della logica. Se vengono ordinati in modo appropriato, questi elementi sono per il linguaggio dei sentimenti l'equivalente di quelli che nel linguaggio delle idee [...] sono i ben noti elementi ancora usati dai buoni, genuini oratori: e cioè exordium, propositio, refutatio, confirmatio... Forkel molto insiste sulla centralità dell'inventio (Erfindung), che potremmo tradurre come "ispirazione" o, come suggerisce Irving, «materiale tematico principale di un movimento». Leopold Mozart, che un anno prima di dare alle stampe il proprio trattato didattico sul violino aveva chiesto a Johann Jakob Lotter, editore musicale ad Augusta, di fornirgli le opere dello studioso di retorica Johann Christoph Gottsched, insiste sulla necessità di intendere la tecnica in relazione alle esigenze espressive: «Così come si deve fare attenzione che il legato, lo staccato, il forte e il piano siano rapportati all'esigenza dell'espressività del pezzo, allo stesso modo non si deve insistere con un'arcata pesante e stiracchiata, ma bisogna fare riferimento in ogni passaggio agli "affetti" predominanti. Passaggi ariosi e giocosi vanno eseguiti con arcate corte e leggere, velocemente e con spirito; al contrario, nei brani tristi, si impiegherà un'arcata lunga e piena e si dovrà suonare con molta sensibilità».<38 La sensibilità aiuta a esprimere il volto multiforme eppure unitario di un'opera, che sfugge alla sola analisi formale: Il metodo di lavoro del quale oggi ci fidiamo maggiormente è l'analisi. Essa tuttavia sembra rivelarsi tanto meno esauriente, quanto più viene portata a fondo. Questo essenzialmente per due motivi. Chi cerca il carattere musicale, richiede l'elemento particolare di unità dell'opera, come già affermava la teoria del XVIII secolo. Invece l'analisi - come è espresso dal termine - suddivide l'opera nelle sue parti [...] L'analisi si occupa di elementi tecnici e la lingua che noi usiamo è quella specifica della teoria musicale. Di conseguenza, chi si vuole avvicinare al carattere di un'opera musicale attraverso l'analisi deve però indirizzare il suo metodo verso gli stessi elementi che sono alla base dell'unità dell'opera; deve far valere un interesse che superi l'elemento tecnico e renda libera la visione dell'elemento estetico o, come si dice comunemente, dell'"umano". (Wilhelm Siedel)<39 Tutti gli affetti possono essere evocati, non solo quelli «ragionevoli» che nella celebre lettera del 9 novembre 1829 all'amico compositore e letterato Carl Friedrich Zelter - dove definisce il quartetto per archi «una conversazione fra quattro persone ragionevoli» - Goethe raccomandava come i più adatti a un dialogo musicale. Anche gli oscuri, indicibili e inconsci: l'intensità, la mutevolezza e la continuità delle relazioni tra le quattro voci di un quartetto consentono, anzi esigono, profondità di sguardi, di intuizioni. La commedia strumentale ha imparato a parlare come la commedia umana, con un'intensità che precede quella di cui saranno capaci i personaggi delle opere mozartiane, e la sua fascinazione appare più errabonda, di segno più misterioso: la musica è la prima a confrontarsi con l'inconscio. Gusto, scienza, mestiere, tecnica, disponibilità a capire: questo distingue i Kenner, gli intenditori, che uniscono alla specifica competenza professionale una "illuminata" attitudine intellettuale. Esattezza e anima: condizioni necessarie per fare musica assieme, per condividere quella rara esperienza emozionale che consente e genera la musica da camera, la sua libertà, i suoi esperimenti, quella «nuova e speciale maniera» che Haydn annuncia e rivendica nella lettera del 1781 allo scrittore svizzero Johann Caspar Lavater, scritta alla vigilia della pubblicazione dei quartetti dell'op. 33: «Sto pubblicando, a sottoscrizione, al prezzo di 6 ducati, un lavoro che consiste di sei quartetti per 2 violini, viola e violoncello concertante, correttamente copiati e scritti in una nuova e speciale maniera (dal momento che non ne ho composti per dieci anni)». Dopo l'esordio nel 1770 con il Quartetto di Lodi, passeranno quindici anni prima che Mozart si senta pronto ad affrontare l'impegno e il rischio di una pubblicazione dei propri quartetti. Ne trascorrono invece soltanto due prima di vederlo di nuovo cimentarsi con questo genere compositivo. Ancora durante un soggiorno in Italia, ancora concependo la scrittura quartettistica soprattutto come privato esercizio. Nascono i sei Quartetti milanesi, dei quali è giunto il momento di occuparsi.
Anche Wolfgang sta bene; dalla noia si è giustappunto messo a scrivere un quatro
Questa volta non una locanda, ma un convento, quello dei padri domenicani a Bolzano, sede oggi del conservatorio Claudio Monteverdi. È mercoledì 28 ottobre 1772 e nel pomeriggio di un giorno di «pioggia tremenda» Wolfgang inizia a scrivere il suo secondo quartetto per archi. «Dalla noia», scrive Leopold: immagine meravigliosa, come una favola, quella di un adolescente che durante un autunnale pomeriggio di pioggia, per non annoiarsi più, per combinare qualcosa di bello e nuovo, prende carta, matita e gomma e inizia a scrivere un quartetto per archi, un «quatro». Padre e figlio sono partiti - ancora da soli, nonostante il disappunto della moglie - da Salisburgo quattro giorni prima, seguendo il consueto itinerario: Innsbruck, Bressanone, Bolzano. La mattina dopo, con sveglia alle 5, proseguono verso Trento, Rovereto, Ala, Verona, Brescia, per arrivare nella mattinata del 4 novembre a Milano, la meta del loro terzo e ultimo viaggio italiano: il 26 dicembre, e ancora una volta come titolo inaugurale della nuova stagione del Regio Ducal Teatro, dunque con grande rilievo, e di fronte a un teatro esaurito già un'ora prima dell'alzata di sipario, nascerà Lucio Silla, dramma per musica in tre atti, su libretto di Giovanni De Gamerra. Il futuro autore di una versione italiana del Flauto magico è soccorso in questa occasione dalle modifiche apportate al testo da Pietro Metastasio. Lucio Silla è il terzo e più significativo lavoro che Mozart compone per Milano: dopo il Mitridate, re di Ponto del 1770, su libretto di Vittorio Amedeo Cigna-Santi, era seguita, il 17 ottobre del 1771, e sempre al Regio Ducale, Ascanio in Alba, «festa teatrale in due atti» su libretto di Giuseppe Parini rappresentata in occasione dei festeggiamenti per le nozze dell'arciduca Ferdinando, figlio di Maria Teresa e nuovo governatore generale della Lombardia, con Maria Beatrice Ricciarda d'Este, figlia del duca di Modena. Il giorno prima, e sempre come omaggio ai regali sposini, aveva debuttato Il Ruggiero di Johann Adolf Hasse, compositore affermato e tra i più influenti. Tre viaggi, tre anni, tre nuove opere, tutte nel teatro principale: non esiste un altro simile caso di investimento di fiducia da parte di una città e del suo governo nei confronti di un musicista adolescente. Milano è stata generosa con Mozart. E Ferdinando avrebbe voluto esserlo ancora di più, assumendo Wolfgang al proprio servizio e trasformando il rapporto professionale da episodico in più stabile. Ma il diciassettenne arciduca viene dissuaso dalla madre Maria Teresa, arciduchessa regnante d'Austria, che, in un severo dispaccio scritto in un ruvido francese da Vienna il 12 dicembre 1771, lo sconsiglia: Vous me demandez de prendre a votre service le jeune salzburger. Je ne sais comme quoi, ne croyant pas que vous avez besoing d'un compositeur ou des gens inutiles. Si cela pourtant vous ferois plaisir, je ne veux vous l'empêcher. Ce que je dis est pour ne pas vous charger des gens inutiles et jamais de titres a ces sorts de gens comme a votre service. Cela avilit le service quand ces gens courent le monde comme des gueux. Il a outre cela une grande famille. Poveri Mozart, trattati da mendicanti (gueux), da accattoni in cerca di una sistemazione a corte per tutta la famiglia. Che fosse poi così grande è proprio un'esagerazione. Ma in quella breve lettera c'è qualcosa di offensivo non solo verso le jeune salzburger, ma nei riguardi dell'intera categoria professionale dei compositeurs e, per esteso, degli artisti, considerati des gens inutiles, dei quali servirsi (à votre service) quando occorre, però senza vincoli. Leopold sperava in quel progetto, come risulta dalla lettera alla moglie dell'8 dicembre 1771: «La cosa non è priva di senso, per quel che posso dirti ora». Ma non gli era estranea una certa speciale capacità di immaginare e temere complotti ai suoi danni e dunque di attirarsi antipatie. Il 21 settembre del 1768 aveva osato consegnare all'imperatore Giuseppe II, primogenito di Maria Teresa, un memoriale - Species facti - contro le trame che a suo dire avevano impedito la rappresentazione a Vienna della Finta semplice, opera buffa di Wolfgang su libretto di Carlo Goldoni. A corte avranno certamente giudicato quello scritto come il gesto ardito di un piantagrane che era meglio tenere a distanza, e nel 1771 non lo avevano dimenticato. In una lettera del marzo di quell'anno, il compositore Johann Adolph Hasse, tedesco e cosmopolita, a lungo e con gran riguardo attivo in Italia, scrive da Milano all'abate veneziano Giammaria Ortes: «Il giovane Mozart è certamente un prodigio per la sua età e io l'ho infinitamente caro. Il padre, invece, per quanto ho visto è sempre scontento di tutto e di tutti, e la cosa è deplorata anche qui a Milano. Idolatra suo figlio, forse troppo, e fa qualsiasi cosa per rovinarlo. Ma io ho una così buona opinione dell'innato buonsenso di quel giovane da sperare che, malgrado le adulazioni del padre, diventi un valentuomo».<1 Leopold, che molte concordanti testimonianze definiscono «uomo di spirito, fino, di mondo, valido musico», era stato l'autore nel 1756 di una Violinschule, un metodo per l'insegnamento del violino destinato a una meritata fortuna didattica e dedicato all'arcivescovo di Salisburgo Siegmund Christof von Schrattenbach, Illustrissimo ed Eminentissimo Principe del Sacro Romano Impero e Signore del Land, che lo aveva assunto nel 1743 come violinista di corte. In questa occasione milanese, il padre avrà forse sottovalutato la buona memoria della burocrazia asburgica, ma era difficile prevedere un'opposizione così netta da parte di Maria Teresa, che conosceva Wolfgang da quando aveva sei anni, avendolo ricevuto nella residenza imperiale di Schönbrunn il 13 ottobre 1762, in un'udienza privata durata tre ore, dalle 15 alle 18. Passare un divertente pomeriggio ad ascoltare un bambino prodigio mentre suona è però cosa diversa dall'assumere alle proprie dipendenze un giovane professionista, incalzato dall'onnipresente e, a quel che sembra, petulante padre, in cerca di lavoro a Vienna per il figlio e anche per se stesso. In quegli anni, se volevi un Mozart, dovevi prenderne due. L'arciduca Ferdinando ubbidisce alla madre, Wolfgang non avrà l'incarico. I rapporti con la corte milanese, nel rispetto di accordi già presi, si concludono con il Lucio Silla, terza e ultima sua opera di teatro musicale ad avere la prima rappresentazione in Italia. Milano sarà comunque la città dove nel 1816, quando cadono i venticinque anni dalla scomparsa, viene pubblicata la prima biografia di Mozart in lingua italiana. Ne è autore Pietro Lichtenthal, che così conclude i suoi Cenni biografici: Ecco in breve l'essenziale della storia d'un uomo, ch'era l'oracolo de' suoi tempi, ed il quale sarà oggetto di venerazione di tutte le età. Scrissi queste poche righe solamente per la gloria di un maestro inarrivabile, e ciò in questa illustre metropoli, la quale coltiva la musica de' celebri maestri tedeschi, più di qualunque altra città d'Italia, e che tien in gran pregio il nome di Mozart.<2 Quanto sarebbe mutata la biografia mozartiana, se quel progetto di lavoro dipendente a Milano si fosse concretizzato? Ottenere un incarico e uno stipendio fissi a quindici anni, avrebbe fatto cambiare idea a Wolfgang sul rapporto - che vivrà presto come conflittuale - tra un aristocratico datore di lavoro e un artista dipendente, avrebbe impedito il sorgere del suo bisogno di svincolarsi dalle costrizioni del servizio prestato per una corte, per un mecenate privato, che, invece, era stato e continuava a essere il solo orizzonte concepito come possibile da suo padre? Al sociologo Norbert Elias dobbiamo una radiografia cruda e credibile della condizione professionale, della funzione sociale di un musicista di allora e della reazione di Mozart a tale stato: La posizione del musicista in tale società era in sostanza quella di un artigiano a servizio o di un impiegato. Non era granché diversa da quella di un intagliatore, di un pittore, un cuoco o un gioielliere che, secondo gli ordini di nobili donne e di signori, dovevano confezionare oggetti di gusto, eleganti o, a seconda dei casi, sorprendenti per la loro elevazione e per il loro intrattenimento, per migliorare cioè la qualità della loro vita. Mozart sapeva senza dubbio che la sua arte, per come la concepiva, si sarebbe inaridita se avesse dovuto produrre musica unicamente per il piacere di persone sgradite, anzi odiate, e a loro comando, indipendentemente dalla propria opinione, dalla propria sintonia con quanto gli veniva ordinato. Malgrado la giovane età, percepiva chiaramente che le sue energie di compositore sarebbero state sprecate se si fossero dovute limitare ai compiti imposti nella ristrettezza della corte di Salisburgo (...) Per parte sua l'arcivescovo sapeva senza dubbio che il giovane Mozart aveva un insolito talento e che l'avere tra i suoi servitori un uomo simile avrebbe accresciuto la fama della sua corte [...] Certamente Mozart poteva tener testa alle forze congiunte del suo signore e padrone e del padre solo perché la consapevolezza del valore della propria creazione artistica, e quindi del proprio valore come persona, gli infondeva coraggio.<3 Quella sera dell'ottobre 1772 a Bolzano, quando Mozart inizia a scrivere il suo secondo quartetto, sono trascorsi due anni e mezzo dalla nascita del Quartetto di Lodi. È stato soprattutto un periodo di viaggi: il primo soggiorno in Italia, iniziato il 13 dicembre 1769, si era concluso il 28 marzo 1771; il secondo era durato dal 13 agosto al 15 dicembre 1771, l'ultimo andrà dal 24 ottobre 1772 al 13 marzo 1773. Tra un viaggio e il successivo, Wolfgang rimane a Salisburgo, dove il 9 agosto 1772 viene nominato maestro di concerto presso la corte del principe arcivescovo, con attribuzione di un salario, il suo primo salario. I viaggi in Italia non sono i primi e non saranno gli ultimi. Ecco una sintesi degli spostamenti programmati dal padre, con tutta la famiglia, prima del primo tour italiano, che Leopold e Wolfgang affronteranno da soli. Sono periodi così lunghi e organizzati da assumere l'aspetto di un investimento strategico sui figli da parte di Leopold, che doveva ogni volta chiedere la licenza, le ferie o, per intervalli più lunghi, una vera e propria aspettativa alla corte di Salisburgo, dove aveva iniziato a lavorare nel 1740, a ventun anni, prima come violinista, poi come compositore della cappella musicale e della corte, infine, dal 1763, come vice maestro di cappella: - dal 18 settembre 1762 al 5 gennaio 1763: primo viaggio a Vienna; - dal 9 giugno 1763 al 29 novembre 1766: viaggio a Monaco, Augusta, Stoccarda, Mannheim, Magonza, Francoforte, Bruxelles, Parigi (dal 18 novembre 1763 al 10 aprile 1764), Londra (dal 23 aprile 1764 al 10 agosto 1765), poi il ritorno nel continente: L'Aia, Amsterdam, Parigi, Lione, la Svizzera; - dall'11 settembre 1767 al 5 gennaio 1769: secondo viaggio a Vienna, con spostamenti a Brno e Olomouc, in Moravia. Nella gran parte delle città visitate, da solo o con la sorella, nelle corti, nei palazzi, nelle chiese, in concerti pubblici, Mozart suona e ha successo. Le lettere che Leopold invia agli amici di Salisburgo raccontano dell'ammirazione riscossa dal figlio, mentre il lavoro di promozione del piccolo è costante. Questo il comunicato stampa preparato da Leopold per dare l'annuncio del quarto concerto tenuto dai figli a Francoforte, il 30 agosto 1763, quando Wolfgang non ha nemmeno sette anni: Prenderanno parte al concerto la fanciulla che è nel suo dodicesimo anno e il bambino che non ne ha ancora sette. Tutti e due suoneranno concerti sul clavicembalo e sul fortepiano; [...] inoltre il bambino eseguirà un concerto sul violino, accompagnerà le sinfonie al fortepiano, la tastiera del pianoforte verrà coperta con un panno e al di sopra di questo il bambino saprà suonare perfettamente né più né meno come s'egli avesse i tasti dinnanzi agli occhi e saprà riconoscere a distanza, senza il minimo errore, tutti i suoni che si vorranno produrre, soli o accordi, su qualunque strumento si voglia. Infine improvviserà liberamente (per qualsiasi durata di tempo e in tutte le tonalità che gli verranno proposte, anche le più difficili) non solo sul fortepiano, ma anche sull'organo, dimostrando come sia in grado di comprendere il modo in cui si suona l'organo, che è del tutto differente dal modo di suonare il fortepiano. La pubblicazione delle prime opere si alterna a concerti, esibizioni virtuosistiche quasi clownesche come quella descritta, che oggi non sarebbe tollerata, procurando senz'altro a carico del padre l'apertura di un fascicolo d'inchiesta per sfruttamento del lavoro minorile. Impressiona l'inciso per qualsiasi durata di tempo, che non prevede, da parte di Wolfgang, cedimenti, stanchezza, men che meno un rifiuto. Sono stati i viaggi ad avere portato Wolfgang, già nell'infanzia e nell'adolescenza di una vita destinata a essere così breve e bruciante, ad assimilare stili e abitudini diversi e contemporanei. Vienna, Londra (dove frequenta Johann Christian Bach, il figlio più giovane di Johann Sebastian) e Parigi, l'Olanda, il Belgio, la Germania, l'Italia. Conoscenze, ascolti, confronti, influssi che sedimenteranno in lui in una sintesi consapevole, omogenea e multiforme, capace sia di corrispondere alle richieste di un mercato della musica tumultuoso e in espansione, sia di elaborare progressivamente una propria autonomia espressiva, raggiungendo l'individualità della creazione all'interno della koinè linguistica europea. Suonare, comporre, guadagnare, imparare, assimilare, restituire, distinguersi. Sin da bambino, grazie alla terapia d'urto decisa dal padre, Mozart è stato un musicista informato ed è ricorrente, nelle sue lettere, l'insistenza sulla necessità e sull'utilità, per un uomo di talento, di viaggiare, avendo così la possibilità di conoscere, frequentare, misurarsi, crescere: «[...] un uomo di mediocre talento rimane sempre mediocre, che viaggi o no - ma un uomo di talento superiore (ciò che io non posso, senza empietà, negare di essere) peggiora - rimanendo sempre nel medesimo luogo» (lettera al padre da Parigi, 11 settembre 1778). Il Quartetto in re maggiore K 155 è il primo d'una serie di sei composti in Italia durante o intorno alla preparazione del Lucio Silla. Essi rispecchiano in modo suggestivo la piccola crisi romantica dell'adolescenza attraversata da Mozart nel suo terzo viaggio italiano, coincidendo le fasi del suo personale sviluppo biologico con l'ondata preromantica dello Sturm und Drang: tra poco (1774) la pubblicazione dei Dolori del giovane Werther e della Leonora di Bürger [ballata di grande successo del poeta sassone Gottfried Augustus Bürger scritta nel 1773 e pubblicata l'anno successivo] scuoteranno l'Europa colta, e la musica è sensibilissima a questo climaterio sentimentale. È il periodo in cui Haydn decora le sue Sinfonie di titoli come Trauersymphonie [Sinfonia tragica], Abschiedsymphonie [Sinfonia degli addii], ecc. Dice giustamente Abert che il progresso rilevabile in questi sei quartetti italiani di Mozart sta assai meno nella forma che nell'espressione. Si comincia a manifestare una faccia nuova, o solo sporadicamente balenata, del giovane artista: «[...] la cupa passionalità, talvolta esasperata fino al pessimismo». L'intensificazione espressiva è particolarmente sensibile nei tempi centrali, di cui quattro sono in tono minore. La frequenza dei segni d'espressione, particolarmente dei sùbiti contrasti di piano e di forte, si fa quasi ossessiva. La cantabilità italiana pervade tutte le parti strumentali, avviando ad una scrittura realmente quartettistica senza bisogno di far ricorso agli artifici d'un rigido contrappunto scolastico. (Massimo Mila). È con i Quartetti K 155-160, tutti composti alla fine del 1772 [in realtà anche all'inizio del 1773] durante il viaggio a Milano, o a Milano stessa, che si verifica lo spostamento definitivo verso la musica da camera. Se i tre Divertimenti [K 136, 137 e 138, per due violini, viola, violoncello, composti a Salisburgo nei primi mesi del 1772] devono essere considerati musica da camera, dobbiamo davvero dire che, in soli sei mesi, Mozart fece passi da gigante come compositore di quartetti. (Alfred Einstein) Mila e Einstein<4 sono concordi nell'attribuire un significato già adulto alla prima serie di quartetti scritti da Mozart durante l'ultimo viaggio italiano. Forse, nelle intenzioni dell'autore, l'idea di creare una vera e propria serie è venuta scrivendoli, non già all'inizio. Lo dimostrano gli autografi, conservati a Berlino nel dipartimento di Musica della Staatsbibliothek; di proprio pugno Mozart li chiama ognuno Quartetto e li numera da I a VI, senza precisare la data di composizione, ignaro del gran fiorire di diverse ipotesi che questa sua trascuratezza provocherà. La carta sulla quale li ha scritti - tutti tranne il primo - è fabbricata e acquistata a Milano, e Mozart la userà anche per altri lavori, come il mottetto Exultate, jubílate ideato, sempre a Milano, nel gennaio 1773. La differente-carta usata per il K 155 va a sostegno della tesi che quello composto a Bolzano sia a tutti gli effetti il primo in ordine di tempo di questa serie. Progressi, dunque; più nell'espressione che nella forma, certamente nel carattere e nel modo di trattare l'indipendenza e le relazioni tra le parti. Non sappiamo quanto Leopold abbia insistito, in questa occasione e nella successiva dei Quartetti K 168-173, scritti a Vienna pochi mesi dopo, perché Wolfgang raggiungesse, ogni volta, il numero di sei, rispettando una consolidata consuetudine editoriale. Forse in occasione di una possibile pubblicazione, che comunque non avvenne: né il padre (che ancora interviene sui manoscritti con qualche correzione) né il figlio ritengono quelle due serie degne di apparire sul mercato della musica stampata, dove presto avrebbero fatto irruzione i sei quartetti dell'op. 20 di Haydn. Tuttavia, un inciso di una lunga lettera di sei anni successiva, inviata il 23 febbraio 1778 da Leopold al figlio che si trovava a Mannheim - «poi si potrà stampare qualcosa per sottoscrizione, il ché è un poco più redditizio che comporre 6 quartetti per un cavaliere italiano, ricevendone qualche ducato, o addirittura una tabacchiera da 3 ducati» - lascia il dubbio che i Milanesi siano nati nella speranza, forse realizzata, di venderli a qualche nobile committente milanese, senza tuttavia pensare alla pubblicazione. Mila ricorda insieme i turbamenti dell'adolescenza e il sorgere dello Sturm und Drang, il cui principale carattere di novità, rispetto ai codici, sia strumentali che vocali, richiesti dagli affetti barocchi - dolore, nostalgia, desiderio, furore... - e alla loro oggettività, sta nella possibilità, anzi nella necessità di esprimere liberamente la propria personalità di artista, anche la più segreta o inconscia. La novità specifica dello Sturm und Drang, in poesia come in musica, sta nell'esprimere se stessi. Negli anni Settanta la teoria degli affetti viene così a dissolversi per opera di un nuovo principio. E dal momento che la musica è considerata espressione della personalità del suo creatore, ora si comincia ad ascoltarla anche in questo senso. Mediante la sintesi, dal mutare dei motivi scaturisce l'unità del tema. Il contenuto del tema però non è più inteso a partire dall'oggettività degli affetti, ma come espressione di una personalità.<5 Questa originalità emerge nell'op. 20 di Haydn, composta nel 1772 e pubblicata a Parigi nel 1774, i Quartetti del Sole, così chiamati dall'immagine che apparirà nel frontespizio dell'edizione Hummel del 1779. Immagine appropriata, perché questi quartetti rappresentano un nuovo genere che sorge; la singolarità di ognuno dei sei, l'alternanza di stile severo con episodi fugati, di momenti lirici oppure umoristici, la disinvoltura nell'avventurarsi verso tonalità lontane da quella iniziale, il lavoro di approfondimento e sviluppo dell'idea di partenza, il carattere intensamente espressivo che alterna, con apparente spontanea naturalezza, passaggi brillanti ad altri di più intensa introspezione ne fanno una sorta di dichiarazione degli intenti e delle possibilità del genere. A questa libertà, a questi esiti, i contemporanei quartetti mozartiani non giungono. E tuttavia, quale piglio, quale brillante spavalderia nell'esordio del Quartetto in re maggiore K 155, in quell'accordo forte e condiviso dalle quattro voci. Come tutti i sei milanesi è organizzato in tre movimenti, seguendo in questo l'indicazione dei contemporanei compositori italiani, in particolare di Luigi Boccherini, che nel 1772 aveva già pubblicato quattro serie di quartetti, mentre l'op. 20 di Haydn prevede sempre quattro movimenti. In quel pomeriggio bolzanino di gran pioggia Mozart inizia a creare un quartetto brillante e concertante, nell'indubbio protagonismo del primo violino che si afferma subito, svettante e veloce, tra terzine, quartine e trilli, piuttosto indifferente a quanto accade sotto di lui, dove un calcolato gioco di intensità mutevoli, eredi del collaudato effetto barocco del cosiddetto «suono a terrazze» - caratterizzato da passaggi nettamente e bruscamente differenziati tra piano e forte - crea un duplice piano di ascolto: il vicino e il lontano, il contorno netto e quello più alonato. L'«Allegro» iniziale è una corsa, veloce e piuttosto uniforme, nella quale lo spirito di conversazione rimane sacrificato, se non fosse per dei brevi passaggi, quasi degli sguardi d'intesa che il pilota primo violino scambia con il suo equipaggio, e per il secondo tema, giocato spavaldo tra i due violini, prima che al secondo venga affidata una melodia il cui effetto Mozart esige improvviso e di teatrale efficacia. La cantabilità emerge inattesa, schiudendo un breve, raccolto momento di interiorità, poco prima che il carattere dominante del movimento si riaffermi e si avvii la volata finale, quando è la viola a rispondere agli impulsi del dominus. Idee, ma poco sviluppate, come nell'«Andante»: più contratto che disteso, più ripetuto che variato, non immune da qualche effetto anche gratuito, come la serie dei trilli nelle quartine durante il dialogo tra primo e secondo violino, al momento della coda del primo tema: molti interpreti preferiscono non evidenziarli, forse non persuasi dalla loro efficacia e congruenza qui, in questo contesto. L'avvio del secondo tema rappresenta un momento di ispessimento nel racconto e di divaricazione dialettica tra il procedere piuttosto grave e meditabondo di viola e violoncello e la leggerezza aerea dei violini: il contrasto cattura subito l'attenzione, lascia intravedere possibilità che tuttavia non si dischiudono, anzi vengono frustrate nella conclusione repentina che quasi delude l'attesa. Nella musica, il tempo è spazio: se l'idea è forte, procede, cresce, si sviluppa e persiste nello spazio della scrittura e dell'ascolto, altrimenti presto si arresta. Il conclusivo «Molto allegro» regala il passaggio più originale dell'intero quartetto: al termine di battuta 48, dopo aver di nuovo mostrato il proprio aspetto spavaldo, come illuminando un volto segnato da un acceso make-up, il primo violino muta di passo; piano, inizia ad esplorare un sentiero melodico legato ed esitante, accompagnato dalle terzine del secondo e dal sostegno di viola e violoncello. Un incanto, ma talmente breve da svanire troppo presto, come se, non credendo Mozart per primo alle possibilità di sviluppo della nuova idea, la lasciasse cadere, indossando l'abito precedente e uscendo velocemente di scena. Così accade a chi non ha più nulla da dire o, più ancora, è rimasto deluso da quanto non è riuscito a esprimere, pur avendolo intuito. «Di più preziose confidenze comincia invece a esserci largo il Quartetto in sol maggiore K 156, scritto probabilmente a Milano nel novembre o dicembre 1772»:<6 Massimo Mila, con le efficaci sintesi di cui era capace, coglie nel segno. Meno fretta, maggiore profondità, come se l'ampia arcata dell'opera Lucio Silla, la differenziazione dei suoi personaggi, la necessità di fornire loro momenti drammatici diversi (e Mozart aveva in compagnia almeno due ottimi cantanti, il soprano Anna De Amicis e il sopranista Venanzio Rauzzini), avesse portato il compositore diciassettenne a scavare più a fondo. Da subito, dalle prime battute del Presto iniziale, si impone un'atmosfera dialogante, alla quale partecipano tutti gli strumenti, nessuno escluso. Il respiro è più ampio e coinvolgente: in quattro sono e in quattro parlano e ascoltano. I temi sono più marcati, la sezione dello sviluppo non è compressa; l'entrata del secondo violino a battuta 72, che scivola in regioni timbriche più scure, è un momento di forte teatralità, subito condiviso dalla viola, poi dal primo violino e dal violoncello, creando così un vivace concertato strumentale, di netta derivazione operistica. Dell'«Adagio» del K 156 esistono due versioni, molto ravvicinate nel tempo e scritte sullo stesso tipo di carta: subito dopo averne composto una, e più breve, Mozart scrive la seconda, più estesa e più complessa, dopo che il padre ha biffato la prima, giudicandola evidentemente non matura. Il lirismo della stesura originaria, dove più libera e lieve procede l'ampia arcata della melodia del primo violino, cede il passo a un andamento più omogeneo, distribuito tra i quattro strumenti, rispettoso delle regole ritenute allora necessarie a scrivere un quartetto. Come in un microcosmo, si fronteggiano qui due scuole di pensiero musicale: l'italiana e la mitteleuropea, la libertà solistica del canto e l'organizzazione dialogante delle quattro voci. L'incedere lento è screziato da un improvviso e condiviso crescendo, forte come una reminiscenza, che si vorrebbe ma non si può allontanare da sé. Il dolente domandare del primo violino, l'intensificazione drammatica che prepara il finale raccontano di una solennità neoclassica che incontra un temperamento Sturm und Drang, nel movimento memorabile di un lavoro che appare molto distante dal precedente quartetto di Bolzano, tanto da far dubitare alcuni studiosi della correttezza della datazione normalmente accettata: «[...] le origini di questi sei quartetti italiani sono avvolte nell'oscurità».<7 Il tempo è sospeso, ma non immobile, anzi inquieto, come se un animo giovane faticasse a rassegnarsi a un esito tragico: la dolcezza del ricordo contrasta con la severità del momento, con il suo peso, con quel colore scuro che irradia dal timbro della viola, spesso protagonista. L'«Adagio» è il movimento più ampio, non solo nella durata, ma nello spessore. Da questa profondità emerge il «Tempo di Menuetto» (è Leopold a scrivere): eccolo, si dirà, il Settecento galante e mondano, chiamato a dissolvere rapidamente l'ombra pesante che era scesa. Ma non c'è solo questo: spiccano inattesi momenti di pausa, asprezze puntate e staccate che scompaginano la progressione quieta che si potrebbe attendere. Un minuetto a più facce, che propone anche un'eco segreta dell'«Adagio» precedente, nelle pause asimmetriche che segnano il percorso dei diversi strumenti, nel modo brusco con cui si interrompe il passaggio in imitazione su un tempo di danza che sembra venire da Madrid. Ma la chiusa del movimento è rapida, poco preparata, come se Mozart avesse già detto quanto doveva dire e volesse passare oltre. Re maggiore per il primo quartetto, sol maggiore per il secondo, do maggiore per il terzo: l'ordine deciso dall'autore privilegia la successione per intervalli di quinte discendenti, segno piuttosto netto della volontà mozartiana di seguire un percorso tonale che unifica l'intera serie. Se fossimo - ma perché mai dovremmo esserlo - costretti a scegliere, è questo terzo (K 157) il prediletto dei sei quartetti. L'«Allegro» iniziale presenta una nuova ricchezza tematica, nell'impiego continuamente mutevole, anche all'interno di una singola battuta, della risorsa teatrale dell'intensità del suono, mentre i quattro protagonisti procedono su un piano di sostanziale parità, concedendo al primo violino il ghiribizzo di alcune volatine, riprese da secondo e viola. Sapienza e divertimento si alternano con naturalezza, con frequenti, sapide differenziazioni, come se Mozart avesse ora ben compreso che la scrittura quartettistica esige invenzioni e digressioni, caratteri marcati e insieme approfonditi. Questa conquistata pienezza si manifesta anche nell'«Andante» (il manoscritto ci dice che è ancora Leopold a nominare il movimento), in do minore: [...] bisogna vedere con quale evidente passione egli si sforza di trarre, da tali tonalità, tutti gli effetti di tristezza o di inquietudine patetica di cui sono capaci. Sempre, nei lavori di questo periodo, è il momento in tono minore che ci appare come il gioiello preferito del poeta, il pezzo dove ha messo a un tempo più cura e amore. (Georges de Saint-Foix)<8 I trasalimenti del minore, il modo al quale la musica dell'età classica affida il compito di esplorare un territorio dove un compositore, se vi scende, deve essere disposto a smarrirsi. Mozart lo impiega nel secondo movimento di quattro dei sei quartetti: secondo, terzo, quarto, quinto, mentre per il primo e l'ultimo sceglie il maggiore. Già le prime battute testimoniano di una avvenuta conquista sintattica ed espressiva: tre strumenti - viola, secondo violino, primo violino - entrano in successione, ciascuno però con un proprio passo e un proprio tempo, dimostrando una raggiunta individualità all'interno di un condiviso percorso, quello della melodia che segnerà l'intero svolgersi del movimento. Quando, a battuta 12, sommesso entra il violoncello, ecco raggiunta la quadratura del cerchio: tutti stanno assieme eppure ognuno è assorto nella propria intimità. Un piccolo stacco precede la ripresa del tema, mentre emergono anche brevi echi dell'«Allegro» iniziale - memoria della musica, la sua capacità di tenere assieme il passato e il presente, come accade nella stratificazione della nostra coscienza, delle nostre emozioni. Ogni idea, per realizzarsi, necessita di una tecnica: qui, è l'apocope, la caduta frequente del primo tempo della battuta, sostituito da una pausa; un'esitazione, un incedere non equilibrato, perturbato, come sottolinea anche la frequente alternanza tra note puntate e note legate: l'istante che il ricordo isola e la sequenza che si sviluppa. Consapevolezza e compostezza, come nella Coda - così indicata da Mozart - di otto battute che chiude questo canto, lasciando l'ultima parola a due pause ciascuna dal valore di un ottavo, di cui la conclusiva corona intende prolungare l'eco, non più nella presenza sensibile del suono, ma nella nostra percezione. Converrà qui, e d'ora in avanti spesso, non dimenticare questa persuasione, impossibile da non condividere, di Saul Bellow, rivelata in una conversazione tenuta a Firenze nel dicembre 1991, a due secoli dalla morte di Mozart: Quando ci proviamo a spiegarla, la musica ci costringe a un punto morto. C'è una dimensione della musica che nega la comprensione finale, che elude e storna le prassi cognitive che siamo abituati a seguire e venerare. È un po' come se fossimo convinti di cavalcare la cresta di un'onda di conoscenza che ha già superato la natura, ormai votati alla convinzione che il mistero non esiste - esiste solamente il non ancora noto. Ma credo di essermi spiegato. I fondamenti ci sfuggono, come sempre. Tuttavia l'amor proprio impone che si finga di possedere questa convinzione.<9 Infine, il «Presto». Si ritorna al do maggiore, con andamento vivace, nel tema impettito enunciato forte dai due violini e ripreso nel da capo della breve esposizione, attraversato da tre brevi intermezzi, e il secondo solcato da un passaggio piano in minore, come una pausa di riflessione, un memento; Mozart segue lo schema tipico del rondò, sviluppato tuttavia in modo piuttosto elementare, con la semplice ripetizione del motivo iniziale, senza preoccuparsi di variarlo, di arricchirlo. Un rondò più prevedibile che sorprendente. Ancora un intervallo di quinta discendente e dal do maggiore si arriva al fa maggiore del Quartetto K 158. Forte attacca subito il primo violino, sgusciante, bizzarro con quella frasetta con semicroma puntata e una terzina di crome discendenti; trovata che subito cattura l'attenzione, quattro volte ripetuta e ripresa dal secondo violino, poi dagli altri due strumenti, prima di cedere il passo a una nuova melodia cantabile affidata sempre al violino primo: possibile omaggio alla scuola violinistica italiana, che tuttavia si espande senza troppa libertà, solcato da una serie di trilli più pittoreschi che ispirati. Come in tutti i primi movimenti di questa serie, Mozart rispetta sia la struttura tripartita della forma sonata, segnata nell'ordine dai momenti dell'esposizione di un'idea, del suo sviluppo e infine dalla ripresa, sia il bitematismo, che prevede un primo tema d'apertura ritmicamente scolpito, di immediata forza comunicativa, e un secondo tema di andamento cantabile. Dall'incontro dialettico delle parti di questo insieme si generano variazioni, nuove idee, nuovi percorsi. Si fa presto a dirlo, meno a trasformare il codice dominante in quei primi anni dello stile classico in una forma abitata confortevolmente. Nell'«Allegro» (ancora la mano di Leopold) iniziale del K 158, il passaggio sorprendente sono le otto battute (da 46 a 53) all'unisono, in costante alternanza di forte e piano, di movimento ascendente e discendente, di accenti e di pause, che precedono lo sviluppo. Un inciso, una felice digressione non richiesta, il tratto più originale, anche bizzarro, del movimento, come se all'improvviso fosse apparso in scena, per subito uscirne, un nuovo personaggio: un frammento di prorompente teatralità. L'«Andante un poco Allegretto», in la minore, ha aperture di spessore sinfonico: proprio nella primavera e nell'estate del 1772, Mozart aveva molto ampliato il suo contributo al genere, e ventuno delle sue quarantuno sinfonie sono a quella data già state composte. Ma questo movimento non ha soltanto una pienezza orchestrale, esige il canto e lo fa rispettando lo schema recitativo e aria. C'è saggezza in questa pagina, nel mobile andamento contrappuntistico, nell'imitazione tra gli strumenti (primo e secondo violino all'inizio, secondo e viola da battuta 10, un passaggio di tutti da battuta 14), ma si resterebbe dentro i confini del sapiente esercizio se da questa base non si staccasse un canto spezzato, che conosce l'esitazione, lo smarrimento, la violenza del dolore. Difficile stabilire - riprendendo l'osservazione di Mila - se e quanto le adolescenziali private inquietudini abbiano agito di concerto con la diffusa, appassionata sensibilità di quegli anni. Le battute da 26 a 33 rappresentano una perfetta geometria degli affetti, giocata tra le quattro voci che si distribuiscono i ruoli, e dapprima si rispondono - le quartine del primo violino, riprese nell'ordine da secondo, viola, cello - poi si dissociano, seguono traiettorie non parallele, non omogenee, si ritrovano in parte, mentre la voce più grave incede solitaria e secca, forte e scandita, prima che si dischiuda il gran colpo di teatro del finale: tutti, uno dopo l'altro, passano al piano e preparano il congedo secco, senza remissione, senza consolazione. Un sipario che scende veloce e definitivo, «un dolore velato» (Hermann Abert). Ma nella poetica neoclassica le ombre devono dissolversi, ed ecco puntuale un rasserenante «Tempo di Menuetto»; lungo, ripetuto, poco variato, inizia in fa maggiore, trascolora in un passaggio in fa minore, ricco di modulazioni, procede piuttosto incerto, come se Mozart volesse distinguersi dalla ritualità prevedibile di un minuetto e introdurre, come già nel minuetto che chiude il K 156, delle ansie, delle inattese digressioni; quartine volanti del primo violino fungono da acceleratore di una narrazione spesso tentata di volgersi all'indietro, come ad ascoltare echi dell'«Andante un poco Allegretto» appena concluso. Sono queste interruzioni a impedire al «Tempo di Menuetto», ripetuto - come prescrive l'Autore - da capo senza ritornelli, di poter essere risolto in un quadro di genere. Cacciare la noia era evidentemente un imperativo che Mozart avvertiva anche nei confronti del suo pubblico. È fatale cercare nelle opere giovanili anticipazioni, annunci di quanto verrà, mai dimenticando che la vita di Mozart è stata troppo breve per poterla dividere in periodi distinti. E che, frequentemente, l'esplosione creativa degli artisti più grandi scompagina le consuete scansioni temporali, l'idea stessa di una progressiva evoluzione e definizione del loro genio e del loro stile. Franz Schubert, che vivrà trentuno anni, cinque in meno di Mozart, pubblica come op. 1 e op. 2 due Lieder folgoranti, perfettamente compiuti, Erlkönig (Il re degli Elfi) e Gretchen am Spinnrade (Margherita all'arcolaio), scritti da adolescente. Non si resta indifferenti di fronte al «forte contrasto che caratterizza il Quartetto in si bemolle K 159, in cui un "Allegro" in sol minore, grandioso, oscuro, appassionato, è posto fra un "Andante" molto corretto ma personale e un rondò ("Allegro grazioso") pieno di sensuale bellezza» (Alfred Einstein).<10 Per la prima volta, Mozart inizia con un movimento lento e un tema d'apertura a grandi volute, dal respiro ampio, e per la prima volta il primo violino all'inizio tace: la sua entrata, a battuta 9, spicca, con un fa nel registro acuto e forte. Creare l'attesa e scioglierla con evidenza: se restiamo nella metafora della conversazione, questa è l'entrata in scena di un ospite atteso e che fa il suo ingresso per ultimo, ma avendo sentito quanto ha appena detto il secondo violino, di cui riprende il motivo e il carattere. Da questo momento, il procedere del movimento è omogeneo: le tre idee tematiche che vengono esposte si concatenano una all'altra, piuttosto che differenziarsi, garantendo una continuità di carattere che prevale sull'approfondimento dello spunto iniziale. «Molto corretto ma personale», gli aggettivi scelti da Einstein sintetizzano bene le 71 battute di questo «Andante», che svolge la principale funzione di creare attesa per l'entrata in scena dell'«Allegro»: 195 battute, il movimento più ampio di tutto questo ciclo quartettistico, il più drammatico, il più stürmisch, percorso da un impeto espressivo che ancora non abbiamo sentito così definito, violento. Un marcato impulso caratterizza l'inizio e rimane il tratto dominante dell'intero movimento, circondato da molte idee secondarie che si inanellano a volte semplicemente come frammenti della prima, destinata a rimanere in netta evidenza. Talmente numerosi gli spunti tematici, che la stessa struttura della forma sonata, con la sua prevedibile varietà, viene tesa fino a farla vacillare. Questo «Allegro» ha tratti ruvidi, è brusco nella chiusura, quando rallenta la corsa ansiosa è per brevi attimi, come una sosta per ritrovare nuova lena. Siamo nella tonalità di sol minore, ma confermando che, se lo è davvero, è sempre l'artista a imporsi sulle convenzioni, questo non è un modo minore malinconico, intimo. La scelta tonale si rivela utile per tendere la febbrile inquietudine sino ai confini di un parossismo tragico e tutto terreno - definito con esagerazione da alcuni commentatori addirittura "demoniaco" - che Mozart riproporrà nella Sinfonia n. 25 K 183, composta a Salisburgo nell'ottobre del 1773 e affidata, con la sua tragica passionalità, alla stessa tonalità. Ancora il sol minore distinguerà, nella cupa estate del 1788, la penultima delle sue sinfonie, la n. 40 K 550. Una incrollabile coerenza. Il breve «Allegro grazioso» che conclude il K 159 è un rondò; la galanteria di una gavotta, col suo andamento in 2/4, è investita, disturbata da veloci, aggressivi disegni che ne spezzano l'andamento consueto e, come conviene alla forma del rondò, ritornano, però così perturbanti da obbligarci a ricordare il carattere dell'«Allegro» appena concluso. Questa gavotta è impossibile da danzare, subisce accelerazioni che manderebbero fuori tempo il più incipriato e imparruccato esperto ballerino, facendolo uscire dai gangheri. Ma Mozart si stanca prima di lui e chiude con due accordi perentori questa fotografia deformata, quasi una caricatura, della compassata natura di una celebratissima danza di corte. Il sesto quartetto, K 160, rispettando il percorso tonale dei precedenti cinque, è in mi bemolle maggiore. È diviso in tre tempi, come tutti i fratelli, e il primo ritorna a essere un «Allegro», confermando così l'unicità dell'inizio andante del K 159. Il movimento è scandito all'inizio dal tema baldanzoso e brillante esposto, una volta ancora, dal primo violino; un motivo che ritorna e si piega a successive declinazioni e lievi metamorfosi, con vivaci scelte dinamiche, ricorrendo quattro volte all'intensificazione di un crescendo forte e, per contrasto, ad altrettanti successivi diradarsi del tempo e dell'intensità del suono, creando così momenti più annunciati che inattesi, come prevalesse un bisogno di ordine. L'avvio piano dell'«Un poco Adagio» (questa indicazione, ancora di mano di Leopold, appare qui per la prima volta) subito crea un'atmosfera meditativa e raccolta. È il movimento più rilevante del quartetto, nel prevalere di una smarrita instabilità, accentuata dai frequenti cromatismi, dal desiderio di libertà dei due violini a cui, come per delimitarne lo spazio, si contrappone l'incedere delle sestine di viola e violoncello. Anche qui, come nell'«Allegro» iniziale, Mozart utilizza - non quattro, ma due volte - la risorsa del crescendo, seguita da una battuta in forte e da una in piano, che creano un moto di distensione e contrazione, di apertura e ripiegamento. Ma l'impressione è che, mentre si avvicina la conclusione del movimento, si rimanga in superficie, che lo spunto tematico non venga approfondito come potrebbe, andando verso una sommessa conclusione. Il «Presto» finale non adotta la forma del minuetto o del rondò come tutti i precedenti, ma la forma sonata. Indizio che ha fatto ipotizzare ad alcuni studiosi - in particolare Teodor de Wyzewa e Georges de Saint-Foix, autori di una celebre biografia mozartiana in cinque volumi iniziata nel 1911 e conclusa nel 1946, davvero il libro di una vita - che Mozart lo abbia concluso a Salisburgo. Il suo carattere poco cantabile, poco "italiano", il peso piuttosto massiccio del suono, costituisce a loro avviso un ulteriore indizio in tal senso. Il primo tema è marziale, da petto in fuori durante una parata, però con un velo d'ironia, come un'anticipazione dell'atteggiamento irridente che nell'aria «Non più andrai farfallone amoroso» avrà Figaro verso Cherubino diretto «alla vittoria, alla gloria militar». L'attenzione al rispetto dei criteri sonatistici prevale sull'originalità dei temi e sull'invenzione espressiva, generando una certa assenza di estro, anche se non mancano, in alternanza ai prevalenti forti impulsi ritmici, momenti di alleggerimento del suono, di più lieve protagonismo del primo violino, di più vario e misurato dialogo tra le diverse parti. * Sabato 27 febbraio 1773, ultimo giorno di Carnevale secondo il rito ambrosiano, i Mozart assistono a teatro al Sismano nel Mogol, dramma per musica di Giovanni Paisiello e ultima opera italiana vista da Wolfgang in Italia. In questi anni di apprendistato Mozart trascorse ore preziosissime ad ascoltare le opere di autori allora in voga e, come altri novizi, le ricopiava con diligenza. Tenendo sempre desta la sua capacità assimilativa straordinariamente vigile, si appropriava liberamente degli stili dominanti, e le idee musicali dei contemporanei più in vista si riflettevano nelle sue. Istruì se stesso nel modo impiegato da quasi tutti i grandi artisti: si fece strada verso l'originalità studiando e imitando gli anziani.<11 Quello stesso giorno Leopold scrive alla moglie; prima la informa che il «13 marzo, la sera della ricorrenza dell'elezione, dobbiamo e vogliamo arrivare a Salisburgo» - l'elezione è quella a principe arcivescovo di Hieronymus Joseph Franz de Paula von Colloredo, il suo datore di lavoro, il giorno 14 marzo 1773 -, poi le dà la brutta notizia: «Quanto all'affare che sai, non c'è niente da fare. Ti dirò tutto a voce. Dio avrà altri progetti per noi. Siamo, Dio sia lodato, in buona salute». È l'ultima lettera inviata dall'Italia. Il 13 marzo, come previsto, padre e figlio fanno ritorno a Salisburgo. Quattro mesi dopo, il 14 luglio, Leopold e Wolfgang partono ancora; la meta è Vienna ed è nella capitale dell'Impero che, nell'estate, nasceranno presto sei nuovi quartetti.
Wolfgang compone come sempre, senza respiro
Quattro mesi a Salisburgo e poi di nuovo in viaggio, verso Vienna, dalla quale Leopold e Wolfgang mancano dal gennaio 1769 e dove arrivano per la terza volta nel luglio del 1773. Le ragioni di questa partenza non sono del tutto chiare. Nei settanta giorni trascorsi nella capitale - e sarà l'ultima volta che il figlio la raggiunge al seguito del padre - alloggiano a casa di Maria Anna Barbara Fischer, cinquantenne vedova del capo cuoco di corte, e appartenente a una famiglia che i Mozart conoscono dal 1768, anno del secondo viaggio a Vienna. In questo periodo il lavoro compositivo sarà continuo, approfondito, le occasioni professionali non eccezionali. L'incontro a corte con Maria Teresa, il 5 agosto, non produce, una volta ancora, i risultati sperati: «Sua Maestà l'Imperatrice è stata certo assai gentile con noi, ma questo è tutto» scrive Leopold. Alla fine di luglio viene completata e inviata in gran fretta a Salisburgo l'ampia, festosa e brillante Serenata in re maggiore (K 185), conosciuta anche come Finalmusik, commissionata a Wolfgang da Thaddäus Andretter, figlio del consigliere militare di Salisburgo, in vista delle proprie nozze; ai primi di agosto nella chiesa viennese Auf dem Hof, per l'ottava di Sant'Ignazio, protettore dell'ordine dei gesuiti, è eseguita la Dominicus-Messe (K 66) che Wolfgang ha composto nel 1769. Assidua è la frequentazione con Franz Anton Mesmer e la sua famiglia. I Mesmer, benestanti, abitano in una villa con vista sul parco del Prater e con un giardino che Leopold definisce «incomparabile». Nel teatro all'aperto di quel giardino, nell'estate del 1768, durante il precedente viaggio viennese, era forse nato - ma non disponiamo di una documentazione certa - Bastiano e Bastiana (K 50), Singspiel (genere dove si alternano parti cantate e parti recitate) in un atto, commissionato a Wolfgang proprio da Mesmer e a lui dedicato. Medico, Mesmer pratica la teoria del magnetismo animale, il "mesmerismo". È musicista e suona l'armonica a bicchieri - «è l'unico a Vienna a averla imparata» -, lo strumento messo a punto dalla virtuosa inglese Marianne Davies che produce un suono diafano e incantatorio, ipnotizzante, usato da Mesmer come rimedio terapeutico. Mozart renderà un omaggio scherzoso all'amico nel finale del primo atto di Così fan tutte (1790), quando Despina, travestita da medico, intende curare con una «pietra mesmerica» Ferrando e Guglielmo, avvelenati per finta: «Questo è quel pezzo / Di calamita: / Pietra mesmerica, / Ch'ebbe l'origine / Nell'Alemagna, / Che poi sì celebre / Là in Francia fu». Nel 1778 Mesmer, non gradito alle autorità viennesi, si era trasferito a Parigi, dove ancora risiedeva al tempo del Così fan tutte. Ai primi di settembre è il momento del cordoglio per la morte del medico di famiglia dei Mozart e amico Franz Joseph Niderl, che da Salisburgo era venuto a Vienna per sottoporsi ad un'operazione di calcoli, finita tragicamente: «[...] ogni giorno moltissimo tempo a consolare la sig. vedova del Dr. Niderl». Da Salisburgo la moglie sollecita il ritorno di marito e figlio, anche perché è già in vista il trasloco nella nuova casa di Makartplatz. Leopold scrive dettagliatissime lettere nelle quali, come il più scrupoloso cronista, mette a parte Anna Maria dei loro impegni, pranzi, cene, visite ad amici vecchi e nuovi, escursioni alle vicine terme di Baden; la informa che «ormai è fatta con i poveri gesuiti», riferendosi allo scioglimento dell'ordine nei territori del Sacro Romano Impero, deciso dall'imperatore Giuseppe II il 10 settembre 1773 in seguito al breve Dominus ac Redemptor di papa Clemente XIV. Quando Anna Maria insiste per raggiungerli, Leopold diventa brusco: [...] se avessimo avuto qualche prospettiva o incasso, ti avrei certamente scritto di venire. Ma ci sono molte cose che non si possono scrivere. E inoltre bisogna evitare tutto quanto possa suscitare scandalo o sospetto sia qui NB, sia a Salisburgo e che possa metterci i bastoni tra le ruote. (21 agosto) Sulla data del rientro le risposte sono vaghe: Se non partiamo lunedì prossimo, non torneremo prima dell'inizio di settembre; lo saprò tra oggi e domani. (12 agosto) Quando arriveremo noi? - Non ancora; perché Sua Grazia il Principe ci ha permesso di trattenerci ancora qui. (14 agosto) [Sua Grazia è il principe- arcivescovo Hieronymus von Colloredo, che stava trascorrendo un lungo periodo di vacanza lontano dalla sua residenza di Salisburgo e dunque non aveva necessità delle prestazioni professionali di Leopold, al quale concede un periodo di congedo.] Noi stessi non sappiamo quando partiremo. Magari assai presto, magari invece ci vorrà ancora qualche tempo. Dipende da circostanze che non posso citare. Per la fine di Septembris, se Dio vuole, saremo assolutamente a casa. Le cose devono cambiare e cambieranno. Abbiate fiducia, stateci bene! (21 agosto) La ragione per cui devo trattenermi qui così a lungo la dirò, a suo tempo, a tutti quanti, e tutti la troveranno fondata. Ho informato di questa ragione Sua Grazia il Principe e questa ragione rimane tuttora valida. - (8 settembre) Un marito in vacanza nella capitale, che spedisce alla moglie dodici nastri alla moda, quattro ventagli, due dei quali arrivati dalla Cina, due paia di scarpe eleganti, ma che non ha alcuna voglia di ritornare a casa e procrastina il momento del rientro adducendo come motivazione l'imminenza di opportunità importanti, di cui sarà meglio riferire a voce, mentre non passa giorno senza che i due uomini della famiglia ricevano piacevoli inviti mondani. Il vero scopo di tanta tenacia da parte di Leopold viene forse rivelato da questo passaggio: Il sig. Gasman è stato malato, ma sta meglio. Non capisco che legame debba avere questo con il nostro soggiorno a Vienna. Gli stolti non sono assennati da nessuna parte! (4 settembre) Il compositore boemo Florian Leopold Gassmann, a lungo attivo in Italia, era dal 1772 maestro di cappella a Vienna. In quell'estate era malato, e non è impossibile ipotizzare che Leopold sia rimasto a Vienna, anche seguendo dei suggerimenti venuti dalla corte, per trovarsi pronto a proporre la candidatura di Wolfgang in caso Gassmann non fosse più in grado di assolvere l'incarico. Gassmann morirà l'anno dopo, il 1774, ma senza alcun vantaggio per Mozart. Nuovo maestro di cappella sarà infatti nominato Giuseppe Bonno, austriaco di origine italiana. * In calce alle lunghe lettere del padre Wolfgang scrive qualche appunto e lo indirizza alla sorella. Sempre inventivo, spiritoso, si dimostra in alcuni casi un surreale giocoliere di parole: hodie nous avons incontrato per strada Dominum Edlbach che ci ha trasmesso i di voi complimenti, et qui manda omaggi tibi et ta mere. Adio. Wolfgang Mozart Landstrasse, 12 agosto Se si considera il favore del tempo, senza tuttavia dimenticare affatto di tener conto del sole, è certo che, sia ringraziato e lodato Iddio, sto bene. La seconda frase è però tutta diversa: invece che il sole, vogliamo mettervi la luna, invece che favore, arte, e allora chiunque sia minimamente dotato di un semplice intelletto concluderà che sono pazzo, giacché tu sei mia sorella... gnagflow Trazom. anneiv, 12 otsoga 3771 Wolfgangerl non ha tempo di scrivere perché non ha niente da fare, gira in tondo per la stanza come un cane che si toglie le pulci. concerto per violino obligato è stromenti del sig. giuseppe Misliwecek detto il boemmo = Baßo =1 L'intensa vita mondana, l'accavallarsi di speranze e delusioni professionali, non distraggono il ragazzo diciassettenne: «Wolfgang compone come sempre, senza respiro» scrive Leopold. In quei settanta giorni nascono anche sei nuovi quartetti: in media, uno ogni due settimane e, come dice l'iscrizione che appare per mano di Leopold sugli autografi, i primi quattro vedono la luce a Vienna, 1773 / nel mese d'Agosto. Lo stesso Leopold ordina la successione e la sequenza delle tonalità. I manoscritti sono poco dissimili dalle copie finali, scarse le correzioni, le integrazioni. Haydn ha appena concluso i Quartetti del Sole e anche Gassmann, che ha una presenza da protagonista nella vita musicale viennese, licenzia in quegli anni alcuni dei suoi trentasette quartetti. È consuetudine critica rilevare la principale differenza tra i recentissimi Quartetti milanesi e la nuova serie viennese, nella presenza, in questi ultimi, di una maggiore «maestria compositiva» (Massimo Mila). I movimenti da tre diventano, sempre, quattro; sempre è presente un minuetto, collocato al secondo o al terzo posto; sia Haydn che Gassmann avevano inserito nei loro quartetti delle fughe, ed ecco che Mozart scrive due fughe, nel primo e nell'ultimo di questi nuovi quartetti, e numerosi passaggi fugati. Ma questa maggiore maestria tecnico-compositiva, questa più delineata sapienza stilistica, penalizza l'invenzione? Mozart forse compone questi quartetti preoccupato di dimostrare a se stesso, al padre, alla Vienna musicale, che possiede i requisiti per essere considerato un giovane compositore professionista? Sembra che Mozart si sia lanciato nella scrittura polifonica dominandone certamente gli aspetti tecnici ma senza averli davvero integrati al suo proprio stile, così che, cosa davvero rara per lui, il risultato non è esente da rigidità e anche da una certa aridità, come l'inizio dell'«Andante» in do minore del Quartetto K 171. (Bernard Forunier)<2 È riduttivo contrapporre - per di più in un così ravvicinato arco di tempo - la cantabilità e la freschezza italiane a una gravità riconducibile alla scuola viennese. La naturalezza alla rigidità dello stile. Tutti i quartetti giovanili appartengono al periodo di apprendistato, di incontro e confronto con le diverse scuole allora dominanti in Europa; tutti rivelano ingenuità ed esiti maturi, fragilità e conquiste, riferimenti a codici percepiti come autorevoli ed emergere della soggettività. L'affermazione di una personalità propria, tanto più nel campo della creatività, è sempre un processo complesso e integrato, difficilmente prevedibile, non del tutto cosciente, soprattutto non da subito, come sanno bene gli scienziati: Quando diciamo che il comportamento umano è imprevedibile, diciamo il vero, perché è troppo complesso per essere previsto, soprattutto da noi stessi. La nostra intensa sensazione di libertà interiore, come Spinoza aveva visto acutamente, viene dal fatto che l'idea e le immagini che abbiamo di noi stessi sono estremamente più rozze e sbiadite del dettaglio della complessità di ciò che avviene dentro di noi. Noi siamo sorgente di stupore per noi stessi. Abbiamo cento miliardi di neuroni nel nostro cervello, tanti quanti le stelle di una galassia, e un numero ancora più astronomico di legami e combinazioni in cui questi possono trovarsi. Di tutto questo non siamo coscienti. "Noi" siamo il processo formato da questa complessità, non quel poco di cui siamo coscienti. (Carlo Rovelli)<3 Un punto di vista non limitato alla musica, che trova conferma in questa considerazione rivolta all'insieme dei sei quartetti: Questi quartetti meritano di essere conosciuti non soltanto per la loro qualità musicale incontestabile ma anche in ragione dei problemi che pongono, problemi soprattutto di posizionamento stilistico. E le esitazioni di un compositore così ispirato e intuitivo come Mozart sono, in sé, ricche di insegnamenti; sono problemi di equilibrio tra il desiderio di espressione personale e la necessità di seguire un modello nello stesso tempo rigido e perfino estraneo al tipo di sensibilità del compositore, e sono anche problemi di maturità intellettuale. (Bernard Fournier)<4 A «problemi di equilibrio» si riferisce anche Hermann Abert: Nell'insieme questi quartetti mostrano a confronto dei precedenti una maggiore ricerca espressiva e uno spiccato progresso stilistico, al quale contribuisce la più accurata scrittura contrappuntistica. Non sempre li eguagliano però per l'immediatezza dei sentimenti: spesso si ha infatti l'impressione che Mozart, impacciato dal grande modello [il riferimento è a Haydn], cerchi di supplire alla propria mancanza di sicurezza con la minuziosità del lavoro. Lo si vede ad esempio nella fuga finale del primo quartetto, formalmente impeccabile, ma in effetti alquanto scolastica. Altre volte invece, come nei tempi centrali dei quartetti K 171 e 172, Mozart si mantiene stringato e laconico anche là dove il contenuto tematico avrebbe richiesto una maggiore ampiezza. Non mancano tuttavia i passi in cui si rivela tutta la grandezza del Mozart di allora. Il limite viene dunque individuato in una mancanza di soggettività. Perché era questa attitudine, questo esporsi in prima persona del soggetto rispetto all'ortodossia del genere, che la sensibilità del secondo Settecento pretendeva, affermando i concetti di imaginatio (immaginazione, fantasia) e ingenium (ingegno, estro). Kant portò a compimento questa linea, proclamando nel 1790 nel § 46 della Critica del giudizio che «Genio è il talento che dà le regole all'arte». La Geniezeit degli anni Settanta, preparata da Shaftesbury, Rousseau, Hamann e Herder, fece del concetto un punto chiave ovunque imperante. Era la svolta verso l'irrazionale, il sentimentale, l'assolutamente personale, definita in sede di storia letteraria come una rivoluzione del principio soggettivo contro quello oggettivo. (Heinrich Besseler)<6 Il primo dei sei Quartetti viennesi, K 168, in fa maggiore, inizia con un «Allegro» (è ancora la mano di Leopold a scrivere l'indicazione di tempo) incerto, irrisolto. L'anima del movimento è nella veloce e brillante figura discendente del primo violino a battuta 7, che segue la breve introduzione, dove si racchiude la cellula della frase? Oppure nei passaggi giocati in imitazione tra i due violini, o ancora nelle isole più rarefatte, o in certo vigore popolaresco, rustico? Troppe anime, nessuna veramente caratterizzante. Troppe strade intraprese, nessuna percorsa fino in fondo. E il finale che, dopo uno sviluppo piuttosto contratto, arriva troppo presto, appunto «stringato e laconico», troppo imprevisto e insieme troppo prevedibile, conferma che il limite di questo «Allegro» è la debolezza di carattere, la personalità fragile, il cedere a troppe tentazioni. Più strutturato, invece, è l'«Andante». Con sordina, prescrive Mozart all'inizio del percorso, così proseguendo fino alla conclusione. Movimento breve, più intenso che vario, capace di creare da subito un'atmosfera e di mantenerla sino al termine. Una scrittura minimalista, dove l'economia dei mezzi - la frase del primo violino ripresa dal violoncello - ci fa da guida, persistente, tenace, solenne come un corale, però attraversata da un calore intimo, da rari mutamenti della dinamica - un crescendo che precede un forte, prima di ritornare al piano, dinanica dominante di tutto il movimento - e da qualche brivido cromatico. Come se due diversi compositori avessero scritto uno il primo, l'altro il secondo tempo dello stesso quartetto. E invece, a conferma che «il comportamento umano», e quello degli artisti creatori in particolare, «è troppo complesso per essere previsto», la mano è sempre quella di un ragazzo di diciassette anni che prima segue le convenzioni, poi un'idea propria. Questo «Andante» è miracoloso per coerenza: la mancanza dello sviluppo dell'idea iniziale non appare un limite, ponendosi invece come cifra di continuità, e anche i brevi passaggi contrappuntistici evitano sempre esiti scolastici. Sono come un accenno, un orizzonte che si apre per subito richiudersi e reclinare in una calma senza tempo, bloccata, non felice. Con il «Menuetto» si ritorna alla normalità di un periodo di apprendistato. Anche qui, come nell'«Allegro», sembra che Mozart non abbia particolari ambizioni. Il pacificato gusto viennese dell'avvio, con la frasetta svettante del primo violino, si spinge brevemente, nella seconda idea tematica, verso una regione sonora più grave, dove il passo è più vago, carico di una tensione che il riapparire della prima idea presto però inghiotte. Il trio ha una scrittura più articolata, più varia, e nella seconda frase accenna a un passaggio contrappuntistico, dove riappare l'ombra del precedente «Andante», come l'irruzione di un ricordo, però presto rimosso. Il trio si chiude e, nel rispetto degli equilibri formali della fase iniziale del periodo classico - ogni affetto a suo tempo e al proprio posto, ogni ape nella sua cella -, ritorna il passo cadenzato in 3/4 del «Menuetto», garbato, senza malizia, poco estroso. Mozart fa i compiti in fretta, e continua a farli nell'«Allegro» conclusivo, nella fuga che lo attraversa da capo a fondo, con irruenza, seguendo l'impulso dell'unico soggetto tematico, al quale è il primo violino a dare l'abbrivio, seguito poi dalle entrate in successione di secondo, viola, violoncello. Ma una fuga è anche musica da vedere, seduti vicino agli esecutori, osservandoli uno per uno e tutti assieme, guardando come attendono il momento in cui toccherà a loro imbracciare lo strumento, mettersi in posizione, iniziare ed entrare nel flusso, per non uscirne più. C'è una forte tensione dall'inizio alla fine in questa fuga: manca però l'articolazione del pensiero iniziale, manca l'arricchimento tematico portato dal controsoggetto, difetta l'alternanza del respiro, del passo, che procede uniforme. Nella versione finale Mozart aggiunge alla cadenza quattro battute in più, scritte sul recto del foglio di musica: una scelta accorta, perché quell'inserto permette di concludere con più agio la cadenza, prima della veloce chiusa del movimento. Il «Molto allegro» che apre il Quartetto in la maggiore, K 169, si propone in modo perentorio, con un festoso forte, seguito dalla vispa frase ascendente, scandita da tre quartine di semicrome affidate al primo violino, e subito riprese, ma in forma discendente, dal secondo violino: questo scambio veloce, giocoso, viene interrotto da un secondo tema, piano, liricamente più disteso, detto da secondo violino e viola, però presto dimenticato, sopraffatto dall'impeto iniziale. Dopo il da capo, ecco una terza idea, breve e marcata come un motto, che si dispiega tra le quattro voci, acquistando un respiro sinfonico, una nuova ampiezza di racconto, che presto si annebbia. Invenzione o artificio? Entrambi, assieme alla difficoltà, forse alla non volontà, di approfondire gli spunti, le possibilità combinatorie offerte dal materiale di partenza. Come se in ognuno di questi quartetti convivessero due intenzioni parallele - l'esercizio, portato a termine con diligenza, anche velocemente, e il momento più personale - e fosse a questo secondo aspetto che Mozart dedica più attenzione, più cura, però saltuariamente. Frequente è anche la presenza di passaggi asimmetrici, non prevedibili, che spezzano la regolarità dell'andamento; può essere una pausa, un'attesa, un cambio netto di intensità del suono, una riesposizione del tema più lunga dell'esposizione. Forme retoriche necessarie alla comunicazione della musica strumentale che ad altre risorse - canto, gesti, scene, costumi, luci, esplicita teatralità - non ha accesso, e nelle quali Haydn era assai esperto, nella musica da camera come in quella sinfonica. È sufficiente dare un'occhiata alla prima pagina di questo «Andante» di Mozart per riconoscervi un'imitazione diretta degli andanti o adagi di Haydn nei suoi quartetti dell'opera XVII [pubblicati nel 1771, un anno prima dell'opera XX, e sicuramente conosciuti da Mozart]; stesso canto del primo violino, molto ampio e con un'espressione molto precisa, stesso accompagnamento del secondo violino e della viola (si veda per esempio il «Largo» del Quartetto in re di Haydn, il numero 6) sotto il quale il basso fa ascoltare talvolta una figura indipendente; stessa maniera di ripartire il canto in due couplets o due strofe distinte, che equivarrebbero in definitiva a due soggetti, se, sotto la diversità di questo canto, l'accompagnamento non proseguisse esattamente simile. E Mozart, per meglio accentuare la separazione di questi due couplets, immagina di introdurre tra loro, del tutto inopinatamente, una battuta intera di silenzio. Così ci troviamo in presenza di un pezzo evidentemente ispirato dai quartetti di Haydn e d'altra parte sufficientemente originale sotto questa forma presa a prestito, con le belle modulazioni espressive dell'accompagnamento continuo del secondo violino e della viola in terzine. (Teodor de Wyzewa e Georges de Saint- Foix)<7 Il rapporto tra esempio da imitare e ricerca di una via propria appare evidente nell'«Andante» del K 169. Quella «battuta intera di silenzio» fa la differenza: è il precoce e infallibile senso di Mozart per il teatro. Intermezzi, opere, Singspiel, serenate, azioni teatrali ne aveva già alle spalle parecchi nell'estate del 1773 (Apollo et Hyacinthus, Bastiano e Bastiana, La finta semplice, Mitridate, re di Ponto, Ascanio in Alba, Il sogno di Scipione, Lucio Silla) e quella sospensione è un sipario che si chiude perché un altro si apra: su una scena diversa, contemplata però dallo sguardo dello stesso protagonista, il primo violino. Un'idea non prescritta, non ovvia, preceduta da uno strategico rallentando che crea attesa, e seguita da una battuta forte alla quale tutti e quattro partecipano. Un'affermazione, una presa di posizione, subito attraversata dalla dolcezza inquieta di un souvenir, dal ritorno del piano, poi di nuovo da quell'inseguirsi delle terzine: il piacere del ricordo e l'urgenza del cammino, il desiderio di sostare e l'esigenza di proseguire. Una risorsa usata una prima e una seconda volta, senza però che si apra, dopo la seconda, un nuovo scenario, o che il precedente venga approfondito. Inizia invece un episodio incerto, prima che ritorni il tema d'avvio, così marcato e ricco di potenzialità, così scandito, tuttavia, da quelle terzine insistite, esageratamente eguali, che precedono una codetta non drammatica, come il carattere del movimento consentirebbe, ma neppure sognante, e che lentamente si avvia verso un finale anche troppo preparato, distante dallo spirito iniziale del movimento. Potenzialità e limiti: affascina questo modo di procedere di Mozart, alle prese non soltanto con il proprio periodo di formazione, ma con un genere compositivo giovane, dal quale rimane sedotto, che impara a conoscere, ad approfondire, cercando di incanalarvi molteplici suggestioni e spunti. E senza una commissione, o la previsione di un esito editoriale e commerciale. Ma negli anni settanta del Settecento è imprescindibile comporre quartetti. Leopold e Wolfgang lo sanno; se Leopold desiste, non si cimenta (tra i suoi lavori cameristici non figura un solo quartetto), il figlio non può sottrarsi e il padre sovrintende. I compositori di area centroeuropea e francese continueranno a scrivere quartetti anche nelle generazioni successive; noi italiani invece, con inesorabile progressione, ne limiteremo sempre più la quantità e la qualità, a causa del prevalere pressoché monopolistico, nel nostro mercato della musica e nel nostro gusto, del melodramma. Così la musica da camera sarà troppo a lungo confinata ai margini delle consuetudini prevalenti dei nostri compositori, del pubblico, degli editori. Ma torniamo al K 169. Il «Menuetto» scorre via tra un passo cadenzato e le veloci terzine sovracute del primo violino che in modo non ortodosso, come fosse un gesto ironico, ne ravvivano l'andamento e passano poi alle altre voci. Il minuetto è espressione caratterizzante dell'estetica musicale settecentesca, del suo ideale di garbo e di educate mezze tinte: qui si sussurra, non si grida. Ma per non venire inghiottiti dal prevedibile e dal ripetitivo - rischio che per le nostre orecchie tumefatte dal suono e ansiose di oggi si annida in ogni da capo - è previsto che il trio venga inserito prima della ripresa del minuetto, per variarne il tempo, il respiro, per distrarre. Però questo trio distrae poco: tutto si svolge e si conclude in poche battute - 16, divise in due periodi di 8 - e non è sufficiente una modulazione in mi maggiore per portare elementi davvero nuovi in quella frase dove a ogni nota corrisponde una pausa di analoga durata, quasi a indicare un andamento zoppicante: una trovata, ma che non emoziona. Poi, minuetto da capo, quindi fine, per lasciar fare il suo ingresso al rondò conclusivo, in tempo allegro. Il motivo iniziale, ancora una volta affidato al primo violino, ritorna «senza complicazioni di struttura, e a un breve tema ricorrente alterna tre episodi, di cui il secondo in minore, nessuno con caratteri di originale rilievo». (Massimo Mila)<8 Il terzo dei quartetti, K 170, in do maggiore, inizia con un «Andante» in forma di variazioni, citazione dal primo movimento del terzo quartetto dell'op. 17 di Haydn. Tema, quattro variazioni e di nuovo il Thema, come indicato in partitura. Il motivo iniziale, breve, marcato, ripetuto nel previsto da capo, possiede un'eloquenza diretta, con quell'attacco forte del primo violino sul quale si innestano, ognuno con una diversa figurazione, gli altri compagni di viaggio, subito entrando in dialogo. Il frequente ricorso a pause di durata, più che manifestarsi come intuizione drammaturgica, più che preludere a un cambio di passo, crea un effetto retorico di sorpresa, facendo credere che l'esposizione finisca qui, mentre il percorso non è ancora concluso - come una gag, anch'essa mutuata da Haydn, che aveva capito bene come interpreti e pubblico gradissero questi improvvisi pizzicotti sonori, capaci di catturare l'attenzione anche del più distratto spettatore. E le pause indicate da Mozart tra battuta 15 e 16 servono a creare quell'asimmetria cui si è accennato. Le quattro variazioni sono tutte di carattere: non sviluppano le potenzialità insite nel tema d'avvio, sono piuttosto degli ornamenti che ravvivano il percorso. Netto il protagonismo brillante nelle quartine del primo violino nella prima variazione; secondo, viola e violoncello guidano il cammino nella seconda, dapprima assieme, poi dividendosi e ricomponendosi, mentre il primo violino continua a starsene da solo lì in alto; nella terza prevale l'umorismo, nella raffigurazione del procedere dapprima esitante, poi più spavaldo nelle alzate di capo del primo violino, che nella quarta variazione Mozart rende buffo in quel suo voler svettare a ogni costo: lui tutto vanitoso in cielo, e gli altri che lo guardano da terra. Dopo questo divertissement costruito in quattro brevi capitoletti, riprende il tema dell'inizio, il ricorso alla pausa di sorpresa si accentua, le note ritornano a essere puntate, ben scandite, un efficace effetto di sforzando carica il peso del suono prima della chiusa, che avviene proprio così come la si poteva attendere. Per essere un minuetto, il secondo movimento possiede un andamento piuttosto ruvido, più icastico che aggraziato; il peso non è lieve, le figurazioni sono inquiete, non rispettose di un tempo e di un passo congrui a questa danza. Nel trio, con il cambio di tonalità da do maggiore a do minore, nasce una idea nuova, nel susseguirsi di vuoti e di pieni, con la sestina del primo violino all'avvio e la risposta interrogativa piano dei tre altri strumenti, che seguono percorsi diversi, non rassicuranti, accentuati dai frequenti cromatismi, lievemente destabilizzanti. Un passaggio tutt'altro che scontato, a differenza della chiusa del trio, molto rapida, che precede il ritorno del minuetto da capo. Il canto del primo violino nel terzo movimento, «Un poco adagio» (il più ampio del quartetto), si innalza su un accompagnamento ostinato e piano, scandito dall'alternanza di pieno e di vuoto - una nota, una pausa, una nota, una pausa -, nella grazia perfetta di una sobria melodia mozartiana, che chiede soltanto di distendersi nel tempo dell'esecuzione e in quello interiore dell'ascolto. Forse per evitare il rischio (ma chi lo avverte?) della monotonia, stacca improvviso un ghiribizzo di semicrome del primo, al quale risponde, all'eufonica distanza di una terza, il secondo violino. Un'accelerazione, resa umbratile dai passaggi della viola, in un movimento che trova la ragion d'essere nella costanza del proprio andare, del proprio tempo sospeso. E la ritrova nelle battute finali, in un pianissimo che dissolve, semplicemente, sulla corona conclusiva, da tenere il più a lungo possibile. Ma le due ultime battute sono troppo poche e frettolose per poter ricreare il clima dell'inizio. Il rondò fila via in un veloce allegro in tempo di 2/4, con quella frase discendente, tre volte ripetuta, netta come un motto, che subito entra nell'orecchio e nella memoria e fa venire voglia di canticchiarla: i compositori, allora, pensavano anche a questo, a scrivere un tema, una melodia che restassero bene impressi, come ancora si usa nelle canzoni. Il rondò si prestava benissimo allo scopo e la sua fortuna durerà a lungo, nella musica strumentale come in quella vocale: [...] il rondò, pezzo originariamente basato sul periodico ritorno dello stesso tema, ogni volta più o meno variato, poi volto a designare semplicemente un pezzo d'esibizione virtuosistica, segnatamente quello affidato alla prima donna a conclusione dell'opera. Ma s'incontrano anche forme estremamente libere, capricciose, nelle quali anche senza mutare il tempo sono adoperati una mezza dozzina di temi diversi, disposti secondo un sistema di ritorni quanto mai fantasioso (esempio tipico la cavatina di Figaro nel Barbiere, «Largo al factotum»). (Fedele D'Amico)<9 Nel «Rondeaux» del K 170 la serie delle quattro riprese del motivo iniziale, collegate da brevi episodi di raccordo, inizia in un'alternanza dell'intensità del suono e dei valori di durata - più veloci, più misurati -, in un complice gioco di sguardi tra i quattro strumenti, mentre il primo violino è sempre pronto a imboccare la strada per conto suo, a precedere il gruppo, che lo riprende, per arrivare tutti assieme, sorridendo, alla conclusione. Il quarto quartetto, K 171, in mi bemolle maggiore, desta spesso il massimo stupore, sgomento perfino: Il culmine del disorientamento viene raggiunto nel Quartetto K 171, aperto da un adagio (dove ci si imbatte in un inciso che ritroveremo nel tema principale dell'«Andante» della Sinfonia in sol minore K 550) cui fa seguito un allegro assai che avanza tentoni tra procedimenti sonatistici e conati polifonici mal combinati e si conclude con una ripresa dell'introduzione lenta. Vengono poi un minuetto e trio, entrambi con spunti canonici; un andante in do minore, esumazione letterale delle spoglie irrigidite di un'antica sonata a tre, con tanto di "continuo"; e, per concludere nel più incongruo e stravagante dei modi, un disinvolto finale in ritmo ternario da sinfonia italiana. (Giovanni Carli Ballola) <10 Il vecchio e il nuovo, la stentata polifonia e i procedimenti sonatistici e il giovane Mozart stretto tra le due vie, incerto, insicuro. I due mesi di questa estate viennese diventano allora un momento decisivo per la sedimentazione e la metamorfosi delle alchimie compositive. Molti reagenti colmano le sue provette, qualche esperimento funziona, altri meno, ma sono proprio questi quartetti a farci comprendere il bivio di fronte al quale Mozart si è trovato, con ben maggiore consapevolezza rispetto al recente periodo milanese: crescere o fermarsi, assecondare le regole o provare a forzarle. Cogliere i tentennamenti, le soluzioni frettolose e meno ispirate è perfino più utile, ora, che segnalare gli esiti già convincenti. In modo analogo Mozart, durante il soggiorno a Londra del 1765, si era confrontato con alcune sonate di Johann Christian Bach dando vita ai Tre concerti per pianoforte K 107, messi a punto a Salisburgo nel 1771 e molto influenzati nell'alternanza tra solista e orchestra e nel rilievo dato alle cadenze dalla struttura dell'aria d'opera, come nota Charles Rosen.<11 L'inciso, all'unisono, che apre l'introduzione «Adagio» del K 171, in mi bemolle maggiore, ha una gravità rituale - fosse il Flauto magico diremmo massonica - e il suo procedere è ben risolto nelle battute di transito verso l'«Allegro assai», con la successione sempre piano delle entrate a canone dei quattro strumenti, che mantengono il passo lento e solenne prima che da quelle ombre si esca, però in modo non imperioso: se si attendeva lo scatto netto, contrastante - come avverrà nell'analogo passaggio «Adagio-Allegro» del Quartetto K 465 - si resta delusi; se si pensa che debba invece persistere un'eco di quell'avvio anche nell'affermarsi del tema dell'«Allegro», allora si apprezzerà la coerenza. Che dura poco, perché poi Mozart cerca un tema vivace per caratterizzare il movimento e lo trova solo in parte, prima di sorprenderci con la decisione di riprendere, in coda, il motivo iniziale dell'«Adagio». Una scelta irrituale, perché frena del tutto il dinamismo dell'«Allegro», come se la memoria di quell'inizio si fosse imposta, obbligando a non dimenticare. Ma non scrivi, nell'«Adagio», un tema così scolpito per lasciarlo vivere una volta sola: è forse questo il passaggio più profondamente singolare dei sei Quartetti viennesi. Il «Menuetto», e, al suo interno, il trio, è inquieto di incisi: due per il minuetto, con l'efficace soluzione di legare le prime due note della sestina per accentuare l'effetto di spinta iniziale, e due per il trio, che cambia la tonalità da mi bemolle maggiore a la bemolle maggiore. Il passo è, insieme, regolare e teso e, nel trio, l'atmosfera si distende come in un canto operistico, puntato e vivace. Gli «spunti canonici» sono riconoscibili, e non troppo sviluppati, ma dentro la regolarità del canone vive la sensibilità per il ritmo, per l'alternanza di piano e forte, per i frequenti cambi dell'articolazione della frase. L'«Andante» è prescritto con sordino, come il precedente «Andante» del K 168. E Mozart sceglie ancora una tonalità minore: lì fa minore, qui do minore. Il passo ritorna grave, in una scrittura polifonica, però divisa: primo violino e violoncello, secondo e viola, primo e secondo, viola e violoncello in un ordine che mantiene costante quel procedere quasi immobile, come scolpito nel marmo solenne della classicità, e sufficientemente esteso perché entri e persista nella memoria dell'ascolto. Ma non è un cammino irreggimentato: ognuno dei quattro viandanti segue la mesta traiettoria con un proprio passo. Non «spoglie irrigidite», soltanto spoglie, e cordoglio. Due i temi dell'«Allegro assai» conclusivo: strappato il primo, con quell'idea, molto teatrale, di iniziare piano e poi subito prescrivere un trillo, un gioco di pause, un secondo trillo, e il forte di tutti alla quinta battuta. Poi tre battute di veloci sestine, poi di nuovo la rarefazione della scrittura. E si prosegue in questa alternanza, che crea tensione e attesa, fino all'emergere del secondo tema, più brillante. Dopo l'esposizione il motivo iniziale viene ripreso. Ancora una volta, non sono le idee a mancare, piuttosto la loro articolazione, il loro sviluppo. Nel finale Mozart ripropone la sequenza iniziale di piano-trillo-pausa-trillo-forte e la riprende anche nelle ultime tre battute: piano-trillo-pausa. Ma l'«Allegro assai» finisce lasciando la sensazione che ci sia ancora qualcosa da scrivere, da suonare, da ascoltare. «Allegro spiritoso» (e questa volta la mano che scrive l'indicazione di movimento è sconosciuta, né di Wolfgang, né di Leopold) è l'indicazione del primo movimento del Quartetto in si bemolle maggiore K 172, composto a settembre. Il meno amato della serie, quello che ha consentito i giudizi meno lusinghieri. Mozart fu, per così dire, disorientato. Non riuscì mai nemmeno lontanamente a raggiungere l'originalità, l'indipendenza da ogni convenzione, la condotta discorsiva delle voci e l'insieme popolaresco e intellettuale del suo modello [Haydn]. Si è quasi tentati di dire che questi sei quartetti debbano la loro esistenza a un comando di Leopold. Allorché l'editore Torricella li pubblicò in copie manoscritte alla fine del 1785 dopo la pubblicazione dei sei grandi quartetti dedicati a Haydn, essi destarono molta sorpresa fra gli amatori. (Alfred Einstein)<12 Perché il K 172, più di tutti gli altri Viennesi, pone davanti a un bivio, quello che, in tutte le arti, separa un autore di genere e un creatore. È la percezione di questo rischio che imporrà a Mozart di non scrivere più quartetti per un lungo periodo e di non dare alle stampe questi suoi lavori giovanili? Così che quando lo saranno, dopo la pubblicazione nel 1785 della serie dedicata a Haydn, gli «amatori» saranno sorpresi e si chiederanno se davvero è lo stesso compositore ad aver scritto gli uni e gli altri? L'«Allegro spiritoso» propone due idee tematiche: la prima ritmicamente più marcata, la seconda cantabile nella sua melodia affidata al dialogo tra i violini. Qui si comincia e qui anche si finisce, alternando brillantezza e andamento lirico, tensione e distensione, ispessimento sinfonico (in quello stesso 1773, tra marzo e ottobre, Mozart compone a Salisburgo quattro sinfonie, K 181, K 182, K 183, K 184, e la terza, in sol minore, ha esiti altissimi) e un momento di più accentuato abbandono, prima della rapida chiusura. Questa alternanza di carattere latita nell'«Adagio» in mi bemolle maggiore, unico movimento a discostarsi dalla tonalità iniziale, scritto in un tempo calmissimo di 4/4, attraversato dall'inizio alla fine dalla linea melodica del primo violino; qui però la persistenza genera più saturazione che attesa e mistero. L'accompagnamento procede uniforme, alcuni passaggi della melodia toccano registri più acuti, prima di un breve rallentare del percorso che presto riprende il passo precedente, mentre il violoncello accompagna, scandisce il tempo. Lo schema della forma sonata è rispettato, non sviluppato. Nelle battute finali sembrerebbe giunto il momento di una nuova idea, di una possibile invenzione nell'intreccio dei due violini e della viola, nell'ampliarsi degli intervalli del violoncello, ma proprio allora il movimento si ferma. Nel «Menuetto» vanno segnalate due idee di drammaturgia musicale: la scrittura contrappuntistica non è concepita come esercizio di stile, si rivela invece funzionale a creare un movimento sostenuto, teso e vivace nella distribuzione delle parti, mentre il trio è tutto giocato tra suono e sua assenza: fare un passo in avanti e poi restare fermi, in attesa, prima che, forzando le abitudini, Mozart decida di non ripetere, nell'atteso da capo, la seconda frase del trio, prescrivendo invece: attacca il Menuetto subito. L'«Allegro assai» conclusivo, dopo una veloce introduzione, generosa di effetti utili a attirare l'attenzione, presenta tre diversi temi, ma soprattutto il suo «interminabile ritornello» (Teodor de Wyzewa e Georges de Saint-Foix), che precede una coda dove si alternano leggerezza di tratto, puntature di accenti e una chiusa ben preparata, efficace, breve colpo d'ala. Cinque quartetti in tonalità maggiore, uno soltanto in minore, il K 173. I sei milanesi erano tutti in maggiore, come il Quartetto di Lodi. Questo, dopo dodici quartetti, è il primo in cui Mozart sceglie il modo minore, re minore. E il primo tempo del K 173 ha suscitato le reazioni critiche più immaginifiche, perfino inverosimili. Conferma che parlare di musica è rischioso e che sempre il punto di vista del critico è soggettivo. Talvolta di una soggettività senza freni, veramente disinibita. Comincia abbastanza seriamente, ma arrivando, dopo sedici battute, al secondo tema, Mozart mostra di avere molto più interesse per ciò che ha da dire. La bizzarra melodia sembra quasi essere suggerita dai suoni che emanano da un pollaio. Certamente questo è il chiocciolio di molte galline in differenti chiavi. Nello sviluppo, con un umorismo ancor maggiore, Mozart, invece di elaborare ciò che vi è stato prima, semplifica. La nostra attenzione è richiesta da un assolo di gallina che va avanti chiocciolando per molte battute. È molto divertente, tutto, e certamente è la più bella musica da cortile che mai sia stata composta! (Thomas Frederick Dunhill)<13 Via libera alla fantasia, al meccanismo autogenerantesi della metafora. È stato a lungo così nella prosa critica applicata alla musica, con una libertà di associazioni e di immagini sconosciuta ai critici delle altre arti. Oggi si scrive di musica in modo diverso, ci si attiene più alla partitura, alla sua verità oggettiva: se tuttavia esistesse una verità oggettiva, perché - e ancora una volta sono gli scienziati a insegnarlo - il punto di vista dell'osservatore non solo individua il dato osservato, ma lo condiziona, lo costringe all'interno di una predefinita griglia interpretativa, costituita a sua volta dai protocolli prescelti. Eppure ci deve essere un limite al delirio critico, se a proposito delle galline e del chiocciolio così commenta severo Massimo Mila: «Incredibile interpretazione, che val la pena di citare, non foss'altro che per dare un'idea dei pericoli cui si va incontro indulgendo alla tentazione di descrivere la musica in termini di specifiche impressioni soggettive». Tante soggettività contrapposte a una, una soltanto, oggettività? Le reazioni soggettive del critico, che a volte gli stessi critici dichiarano casuali per documentare la propria superiorità, non sono opposte all'oggettività del giudizio, ma alla condizione di questo. Senza tali reazioni, è addirittura impossibile intendere bene la musica. Starebbe alla morale del critico di innalzare a obiettività l'impressione ricevuta mediante un continuo confronto con il fenomeno. Se è davvero competente, le sue impressioni sono più oggettive delle valutazioni illuminate di personaggi pomposi estranei alla musica. Ma la macchia della relatività, inerente a tutti i giudizi sull'arte, non basta a oscurare la differenza di livello tra una sinfonia di Beethoven e un pot-pourri, tra una sinfonia di Mahler e una di Sibelius, tra un concertista di valore e una schiappa [...] I critici non sono cattivi quando hanno delle reazioni soggettive, ma quando non ne hanno nessuna o quando vi insistono senza un procedimento dialettico e bloccano, in forza dell'ufficio da loro svolto, il processo critico cui il loro ufficio stesso li obbliga [...] Benjamin ebbe a definire in termini epigrammatici questo compito [il compito della critica]: «Al pubblico deve essere sempre dato torto, pur sentendosi esso sempre rappresentato dal critico». (Theodor Adorno)<14 Doloroso e veemente è l'«Allegro moderato» (la mano è ancora quella di Leopold), primo movimento del K 173, composto a settembre. Quartetto del Sig Cav. A.W. Mozart, a Vienna 1773, dice l'autografo. Dal 5 luglio 1771, per decreto di papa Clemente XIV, che pochi giorni dopo lo avrebbe ricevuto in udienza privata nel palazzo di Santa Maria Maggiore, Mozart era Cavaliere dello Speron d'Oro. «Grave di destino» definisce Abert la melodia iniziale discendente del primo violino, pronunciata piano e lentamente. A battuta 2 entrano insieme gli altri tre strumenti, a battuta 5 tacciono tutti, riprendono, intercettano il cammino del primo violino, a battuta 9 rompono l'atmosfera di attesa con un accordo forte, sul quale il primo balza come fosse un trampolino da dove lanciarsi in un passaggio veloce sul registro acuto, anch'esso forte. Il contrasto emerge a battuta 16, con l'entrata del secondo tema, scandito dall'insistere su una sola nota - il mi - di un motivo pungente, ripetuto uguale a se stesso (deve essere questo il famoso «chiocciolio»), e del tutto alieno all'idea espressa dal primo tema. I due temi non si parlano, né lo faranno in seguito; quando si confronteranno non sarà per dialogare, ma per scontrarsi: il primo dolorosamente cantabile, il secondo pieno di energia e di un potenziale narrativo che rimane però un grezzo, non finito torso marmoreo al quale spetterà l'ultima, soverchiante parola. Qui la nota non è più il mi, ma il la; una quarta sopra per poi, di nuovo in modo brusco, ritornare e chiudere sul re, tonica del movimento. Forte, senza complimenti, senza buone maniere. L'«Andantino grazioso» - così scrive sul manoscritto una mano anonima, forse quella di un copista - è in re maggiore. È scritto come un rondò, forma non prevista nel secondo movimento di un quartetto, e sola occasione in cui Mozart la colloca in questo punto. Un motivetto d'avvio staccato e una seconda idea, legata e cantabile, si alternano alla guida del movimento, in non fantasiosa alternanza, scossa da numerosi cambi di intensità, da un decrescendo che rallenta l'andatura, prima che il passo ritorni a essere quello di prima e di dopo. Qualche impennata del primo violino, qualche trillo, qualche veloce, denso passaggio di tutti i protagonisti, e il rondò prosegue in modo talmente grazioso da apparire soprattutto cerimonioso, fino ad arrivare alla fine e voltare pagina, giungendo così al «Menuetto», che ripropone il re minore prima di passare al fa maggiore nel trio: dieci battute due volte ripetute, per poi ritornare al minuetto, segnato, all'inizio come alla fine, da un incedere grave, marcato dall'irrequietezza del primo violino, dal suo procedere che scende e sale, sale e scende, del suo fraseggio forte-piano-trillo-pausa / piano-pausa-forte-trillo, difficile da prevedere, per quanto invece era agevole capire come e dove sarebbe andato a finire l'«Andantino grazioso» che lo precede. Un contrasto netto, rovesciando lo schema consueto che propone un movimento lento capace di smarrire, e un minuetto che allontana le nubi. Qui è il contrario: alchimie del laboratorio mozartiano, che nella transizione dal trio al ritorno del minuetto lavora sulle metamorfosi possibili allo stesso materiale tematico, passando da modo maggiore a modo minore. L'«Allegro», la fuga con cui termina il K 173, dimostra la rapidità e la profondità dei progressi compiuti nel breve arco di tempo che separa l'ultimo quartetto della serie dal primo. Nella fuga conclusiva del K 168 prevaleva la dimensione scolastica, di svolgimento di un compito. Qui il soggetto è più ricco di possibilità: contrastato nell'andamento cromatico discendente, autorevole nell'avvio affidato alla voce grave del violoncello, denso di modulazioni, non uniforme nelle durate temporali, consente all'intero movimento di acquistare spessore, con la bella intuizione della fermata con corona prima della ripresa, sempre al violoncello, del soggetto iniziale, che l'ultima volta, in tutt'altro registro, lì grave, qui acuto, verrà affidato al primo violino, per un finale, una volta ancora, «stringato e laconico». Mozart lavora in due riprese a questa fuga: il manoscritto della prima versione presenta significative differenze rispetto alla seconda e definitiva. Il soggetto non muta, ma le battute da 83 diventano 97, le durate sono più varie, il respiro più ampio, alla ricerca di una personale intensità, non raggiunta, sfiorata. Non abbiamo notizia di esecuzioni pubbliche di questi Quartetti viennesi, né del Lodi, né dei Milanesi. Tredici quartetti, scritti tra il 15 marzo 1770 e la metà di settembre 1773, e nessun riscontro concertistico, nessuna edizione a stampa. Dovranno passare dieci anni prima che Mozart inizi a scrivere un nuovo quartetto e ce ne vorranno dodici perché ritenga giunto il momento di pubblicarne alcuni. Accadrà nel 1785, ancora a Vienna, diventata ormai la sua città, dove vive con la moglie Constanze Weber, dove non è più figlio, ma padre. In questo lungo periodo, decisivo per le scelte private e professionali, non si è creata l'occasione per scrivere nuovi quartetti, oppure Mozart aveva una tale considerazione verso l'idea del quartetto da aver ritardato il pubblico esordio fino a quando non si è sentito in grado di produrre dei lavori inconfondibili?
Un padre, avendo risolto di mandare i suoi figli nel gran Mondo...
SEI QUARTETTI PER DUE VIOLINI, VIOLA, E VIOLONCELLO. Composti e dedicati al Signor GIUSEPPE HAYDN Maestro di Cappella di S. A il principe d'Esterâzi dal suo amico W. A. Mozart OPERA X. in vienna presso Artariae comp. mercanti ed editori di stampe musica e carte geografiche 6.30
Un Padre, avendo risolto di mandare i suoi figli nel gran Mondo, stimò doverli affidare alla protezione, e condotta d'un Uomo molto celebre in allora, il quale per buona sorte, era di più il suo migliore Amico. Eccoti dunque del pari, Uom celebre, ed Amico mio carissimo i sei mieifigli. Egli sono, è vero, il frutto di una lunga, e laboriosa fatica, pur la speranza fattami da più Amici di vederla almeno in parte compensata m'incoraggisce, e mi lusinga, che questi parti siano per essermi un giorno di una qualche consolazione. Tu stesso, amico carissimo, nell'ultimo tuo soggiorno in questa Capitale, me ne dimostrasti la tua soddisfazione. Questo tuo suffragio mi anima sopra tutto, perché Io te li raccomandi, e mi fa sperare, che non ti sembreranno del tutto indegni del tuo favore. Piacciati dunque accoglierli benignamente; ed esser loro Padre, Guida, ed Amico! Da questo momento, Io ti cedo i miei diritti sopra di essi: ti supplico però di guardare con indulgenza i difetti, che l'occhio parziale di Padre mi può aver celati, e di continuar loro malgrado, la generosa tua Amicizia a chi tanto l'apprezza, mentre sono di tutto Cuore. Amico Carissimo il tuo Sincerissimo Amico Vienna il p.mo Settembre 1785. W.A. Mozart * Finalmente giunge il tempo di pubblicare i primi quartetti, ai quali l'editore Artaria assegna, seguendo una propria numerazione, il titolo di Opera X. La dedica, quasi la richiesta di un viatico, al mio caro amico Haydn perché ne sia Padre, Guida ed Amico!, è scritta in italiano e la prosa di Mozart è ricercata, elegante, funzionale al codice retorico di una dedica, rivolta a un collega al quale si riconosce la massima autorità. Qualcuno - diverte pensare che possa essere stato Lorenzo Da Ponte, che Mozart conosce dal 1783 - lo avrà forse aiutato a tradurre l'intenzione in parola scritta, oppure Mozart possedeva la nostra lingua così bene da permettersi tali dettagli di nitore? Per un documento unico tra tutte le opere del proprio catalogo - perché questa non è una dedica a un principe, a un mecenate, a un committente, a un allievo, a una qualsiasi istituzione, ma a un amico che è anche il massimo compositore del tempo - Mozart sceglie l'italiano, il codice linguistico allora dominante tra i musicisti. La sociologa statunitense Wendy Griswold ha messo a punto un efficace strumento di indagine per comprendere quando un frutto del nostro lavoro, del nostro ingegno, diventa un oggetto culturale, e lo ha battezzato "diamante culturale": diamond, nel gioco del baseball, indica una zona del campo chiamata base ed è a questo significato della parola, molto popolare negli Stati Uniti, che l'autrice si è ispirata. Così lo disegna: Mondo sociale e così lo definisce: Il nostro diamante culturale ha quattro punti e sei legami o connessioni. Non possiamo chiamarlo una teoria della cultura perché non dice nulla sul modo in cui i punti sono collegati. Neppure possiamo dirlo un modello di cultura in senso stretto, perché non indica quali siano le cause e quali gli effetti [...] Piuttosto, il diamante culturale è uno strumento euristico inteso a favorire una più piena comprensione della relazione di qualsiasi oggetto culturale col mondo sociale. Esso non dice quale debba essere la relazione tra i vari punti, ma solo che lì esiste una relazione.<1 Mettendo in relazione la qualità della propria opera, il contesto sociale nel quale vive e lavora, il pubblico possibile, il rilievo raggiunto dal genere del quartetto, Mozart compie questo passo e trasforma i suoi quartetti in oggetti culturali. Si può ben immaginare quanta attenzione abbia riservato a questi figli, che rappresentano il suo pubblico esordio nel genere in una città, Vienna, che nel frattempo ha sottratto a Parigi, se non nella quantità certamente nella densità, il primato dell'editoria musicale. Anche Luigi Boccherini lascia gli editori parigini e pubblica ormai da Artaria: nel 1781 i Sei quartetti op. 26, l'anno successivo quelli dell'op. 32. I Quartetti op. 1 di Ignaz Pleyel, allievo di Haydn, sono editi a Vienna da Rudolf Gräffer. Nella lettera del 24 aprile 1784 Mozart dirà che sono «scritti benissimo, e piacevolissimi» e consiglia al padre di procurarseli: «ne vale la pena». Nello stesso anno Pleyel dedica, ancora in italiano, i suoi Quartetti op. 2 al celebrissimo estimatissimo fu suo maestro Giuseppe Haydn. Anche Beethoven dedicherà a quel dottore in musica le Tre sonate op. 2, pubblicate da Artaria nel 1796: un debutto nel genere, come lo era stato per Mozart con i suoi Quartetti. Nel 1782, ancora per i tipi di Artaria, Haydn dà alle stampe i sei quartetti dell'op. 33, chiamati Russische Quartette, per via della dedica al granduca Pavel Petrovic, oppure Jungfernquartette, per l'immagine della fanciulla che appare nel frontespizio dell'edizione berlinese dello stesso anno. O ancora Gli scherzi, perché in ognuno dei sei, come secondo o terzo movimento, è presente non un minuetto, ma uno scherzo. Tre titoli possibili per un'opera di capitale importanza, composta - come già abbiamo ricordato - in quella «nuova e speciale maniera» annunciata da Haydn allo scrittore svizzero Johann Caspar Lavater nella lettera che nel 1781 gli invia, proprio in vista della pubblicazione dei nuovi quartetti: «Sto pubblicando, a sottoscrizione, al prezzo di 6 ducati, un lavoro che consiste di sei Quartetti per 2 violini, viola e violoncello concertante, correttamente copiati e scritti in una nuova e speciale maniera (dal momento che non ne ho composti per dieci anni)». I precedenti, i sei dell'op. 20, erano apparsi a Parigi nel 1774. Otto anni di attesa, a conferma che i quartetti non si scrivono per seguire le mode o per rispondere a delle commissioni. Papà Haydn, il musicista che ha portato il genere della sinfonia, della sonata, del trio e del quartetto per archi alla prima compiuta maturità. Nella dedica, Mozart parla di questi sei quartetti come del frutto di una lunga, e laboriosa fatica. Li ha composti senza altra urgenza che non fosse la propria soddisfazione di artista. Sono stati necessari oltre due anni: lì 31 di dicembre 1782 in Vienna viene completato, come riporta l'autografo, il primo, il Quartetto in sol maggiore K 387. Sei mesi dopo, il 17 giugno 1783, è concluso il secondo, K 421; la nascita del K 428 avviene tra il luglio 1783 e il gennaio 1784. Gli ultimi tre sono compresi in un arco di tempo più breve: il quarto, K 458, è concluso il 9 novembre 1784, mentre 1785. / il 10 gennaio e il 14 [gennaio], sempre a Vienna, sono le date che Mozart scrive di proprio pugno sul personale catalogo delle opere per gli ultimi due, il K 464 in la maggiore e il K 465 in do maggiore, il Quartetto delle Dissonanze, che gli procurerà critiche feroci, perfino insulti. Laboriosa fatica, superiore alle stesse previsioni di Mozart, che il 26 aprile del 1783, quando ancora non aveva terminato il secondo dei sei, scrive da Vienna all'editore parigino Jean Georges Sieber, proponendo la vendita di diversi suoi lavori. Inoltre, sto lavorando a 6 quartetti per 2 violini, viola e basso - se li volete incidere vi do anche questi. Ma non sono così a buon mercato - non posso dare via questi 6 quartetti per meno di 50 luigi d'oro. Se quindi potete e volete fare un affare con me, vi basta rispondermi: vi indicherò allora un indirizzo a Parigi dove riceverete i miei lavori dietro pagamento da parte vostra. Forse aveva un po' sbruffoneggiato, forse aveva sottovalutato l'impegno, comunque passeranno più di due anni prima della pubblicazione, e così lungo tempo è trascorso per raggiungere la desiderata qualità della scrittura e per la quantità dei ripensamenti. L'autografo dei quartetti - conservato al British Museum di Londra - davvero non conferma l'immagine, prevalente nella realtà e anche nel mito, di Mozart scrittore velocissimo, senza incertezze, capace di comporre sotto la dettatura di un'incontenibile, fluida ispirazione. Qui, le modifiche, le cancellature sono significative: la fatica è sorella all'audacia. Alfred Einstein, nella prefazione all'edizione critica pubblicata nel 1945 da Novello, come anche la più recente Neue Mozart Ausgabe, apparsa a Kassel nel 1992, riporta le circa duecento correzioni di mano dell'autore ai manoscritti e alle bozze della prima edizione dell'Opera X. Nelle intenzioni di Mozart, Haydn doveva, dopo averli apprezzati, proteggere questi figli, ora che iniziavano a camminare nel mondo, e dal mondo difenderli; li difenderà, ma la sua protezione, e condotta non saranno sufficienti a metterli al riparo dalle critiche. Haydn sa che cosa significa osare, per un compositore: «Un paio di volte mi sono preso la libertà di offendere non l'orecchio, ma le regole dei trattati, e ho sottolineato quei passaggi con le parole: "con licenza". La gente si metteva a gridare: "È un errore!", e cercava di provarmelo usando il trattato del Fux. Io chiedevo ai miei avversari se erano in grado di provarmi che c'era un errore, ed essi non potevano che rispondermi di no», racconta Haydn al pittore paesaggista Albert Christoph Dies, che nel 1810, un anno dopo la morte del compositore, pubblica le Notizie biografiche su Joseph Haydn redatte e pubblicate in base ai suoi racconti orali. Il riferimento è al Gradus ad Parnassum di Johann Joseph Fux, edito in latino nel 1725, tradotto in tedesco nel 1742 (e in italiano nel 1761). Haydn conosceva bene quel diffuso e influente testo didattico, al punto da curarne un compendio, apparso col titolo di Elementarlehre. La musica che ha in mente Mozart per i suoi nuovi quartetti è destinata ai Kenner, intenditori e musicisti che possono apprezzare la libertà e la profondità di quel suo teatro senza voci, senza scene, senza gesti, dove converge e si sublima il lavoro di tanti e diversi precursori. In questi quartetti la brillante invenzione strumentale e la ricerca melodica non penalizzano l'approfondimento, lo sviluppo delle idee; la libertà armonica, anche scioccante, convive con il ricorso al contrappunto, la musica orizzontale con la verticale, la lezione di Bach con la galanteria, l'ordine e il quadro formale con l'inventiva concessa dall'introspezione, anche la più aspra e irrisolta. Il tono è severo e cordiale, austero e allegro; mobilissimo lo spettro dei timbri e delle sonorità. Il gusto nel citare fonti popolari e ritmi di danza convive con l'astrazione improvvisa che interrompe quel gioco, quel riferimento. La forza fisica del suono convive con il fascino del suo svanire. * Mozart abita nella capitale dell'Impero dal 9 marzo 1781, quando vi giunge, con tutta l'intenzione di rimanerci, da Monaco di Baviera, dove il 29 gennaio aveva debuttato Idomeneo. Commissionato da Carl Theodor, principe elettore di Baviera, questo dramma per musica in tre atti su libretto di Gianbattista Varesco, cappellano di corte dell'arcivescovo di Salisburgo, rappresenta il primo vero successo in terra germanica di Mozart autore teatrale. L'esito dell'opera dà al compositore una rinnovata fiducia nelle proprie possibilità e costituisce la spinta decisiva per le scelte successive, private e professionali. La lettera di Leopold Mozart del 16 febbraio 1785, scritta da Vienna, dove era giunto per rendere visita al figlio, alla nuora Constanze Weber e al nipotino Karl Thomas, nato da appena cinque mesi, è un documento prezioso perché data con precisione il momento e il luogo della prima esecuzione privata di tre dei nuovi quartetti composti da Wolfgang. Ma in queste righe c'è molto di più: dopo aver ricordato la fatica di quel suo viaggio d'inverno, Leopold descrive l'atmosfera domestica, il tenore di vita della famiglia di Wolfgang, il proprio stupore per i suoi successi. Il padre arriva a Vienna nel periodo probabilmente più felice della vita del figlio e scrive - secondo sua abitudine con non pochi passaggi in lingua francese - alla figlia Nannerl, rimasta a Salisburgo con il marito e i loro due bambini. Anna Maria, la moglie, è morta già da sette anni: è accaduto all'improvviso, nel luglio del 1778 a Parigi, dove aveva accompagnato Wolfgang in un lungo viaggio di studio e lavoro. Aveva cinquantotto anni. Che bel quartier abbia tuo fratello con toutes sortes d'agrements faisant partie de la maison, potete ricavarlo da ciò, ch'egli paga 480 fi. di pigione. Il medesimo venerdì sera alle 6 andammo al suo primo Concert per sottoscrizione, dov'era un grande assembramento di persone di rango. Ognuno paga per i 6 concerti di Quaresima un Souverain d'or o 3 ducati. È nella Mehlgrube; per la sala paga ogni volta solo un demi souverain d'or. Il Concert è stato incomparabile, l'orchestra magnifica; a parte le sinfonie una cantante del teatro italiano ha cantato 2 arie; poi c'è stato un nouveau Concert pour clavier remarquable de Wolfgang, cui il copista quando arrivammo noi stava ancora lavorando, e tuo fratello non ebbe neppure il tempo di finir di provare il Rondeau, dovendo sorvegliare la copiatura. Quanti conoscenti ho incontrato, e come tutti corressero da me, puoi bene immaginarlo; ad altri invece fui menato. Il sabato sera il sig. Joseph Haydn e i 2 barons Tindi vennero da noi; si eseguirono i nuovi quartetti, ma soltanto i 3 nouveaux che lui ha aggiunto agli altri 3 che abbiamo noi, e pur essendo un po' più facili, sono composti magnificamente. Il sig. Haydn mi disse: Je vous affirme, devant Dieu, en honnête homme, votre fils est le plus grand compositeur que je connaisse, en persone ou de réputation; il a du goût et, en outre, la plus grand science de la composition. Domenica sera in teatro ci fu l'accademia della cantante ital. Laschi, che adesso parte per l'Italia. Ha cantato 2 arie, ci fu un concerto per Violoncello, un tenore e un basso cantarono un'Aria ciascuno e ton frère a joué un merveilleux concert qu'il a écrit pour la Paradies afin qu'elle le joue à Paris. Io stavo solo 2 palchi distante dall'avvenente principessa del Würtemb. e ho avuto il piacere di ascoltare talmente bene tutto il succedersi degli strumenti, che per la gioia avevo le lagrime agli occhi. Quando tuo fratello ha lasciato la scena, l'Imperatore gli ha fatto un compliment con il cappello in mano, e ha gridato Bravo, Mozart! - Quando è arrivato per mettersi al piano, lo si è ancora applaudito. Il viaggio in carrozza di Leopold da Monaco - dove lasciando Salisburgo si era recato per impegni professionali - verso Vienna era durato dalle 8 di mattina di lunedì 7 febbraio alle 13 di venerdì 11. Trecentocinquanta chilometri: un'ottantina al giorno, in pieno inverno, tra ghiaccio e tormente di neve. Non casuale il riferimento al costo dell'affitto, 460 fiorini l'anno. La cifra per la famiglia Mozart è significativa: 450 fiorini costituivano il salario annuale che Wolfgang riceveva quando era organista della corte di Salisburgo. Ora il padre constata che l'incasso di una sola Accademia - concerti il cui ricavato, tolte le spese di affitto della sala e di promozione, resta all'interprete - consente al figlio di guadagnare di più. Già la sera di venerdì 11 è in programma un nouveau Concert pour clavier remarquable che il copista sta ancora trascrivendo quando Leopold arriva. È il Concerto per pianoforte K 466: sappiamo così che la sera della prima Mozart e l'orchestra hanno suonato il rondò a prima vista. Del resto, il pubblico amava il compositore soprattutto per il suo phantasieren alla tastiera: non soltanto improvvisare, ma variare, cambiare passo, tempo, fraseggio, rendendo ogni interpretazione imprevedibile, diversa. Leopold riporta in francese le parole di ammirazione per Wolfgang pronunciate da Haydn, che si sarà probabilmente espresso nella sua lingua madre, il tedesco. Peccato non poter conoscere la frase esatta scelta dal più venerato dei compositori del tempo per comunicare il suo affetto, la sua ammirazione verso Mozart, quella sera del 12 febbraio 1785. Un sabato sera, quando gli ultimi tre dei sei nuovi quartetti vivono la loro prima esecuzione, a completamento degli altri 3 che abbiamo noi precisa Leopold, confermando così che anche nella maturità di Wolfgang il rapporto di informazione e confronto con il padre rimane solido. Esecuzione domestica, intima, riservatissima, nel salotto di casa, al primo piano di Schulerstrasse 846 (oggi l'indirizzo è Domgasse 5), a due passi dal duomo di Santo Stefano dove Mozart si era sposato il 4 agosto 1782 con Constanze Weber: ventisei anni lui, venti lei, nata in una famiglia di musicisti e cantanti, e buon soprano. Schulerstrasse 846, il nono - dei tredici cambiati in dieci anni, sempre pagando l'affitto, mai potendo disporre di una proprietà - appartamento abitato da Mozart a Vienna. Erano ormai passati quattro anni dal suo arrivo nella capitale e dalla violenta rottura con il suo Herr (una parola sola per significare sia "signore" che "padrone"), il principe-arcivescovo di Salisburgo Hieronymus von Colloredo. Il rapporto di lavoro era iniziato nella primavera del 1772, quando Colloredo, che si diletta a suonare il violino, lo nomina Konzertmeister della sua orchestra di corte, concedendogli un salario. Mozart lascia l'incarico nell'agosto del 1777, alla vigilia del viaggio con la madre verso Mannheim e Parigi, ma ritorna a servizio nel gennaio del 1779, come organista. Nel marzo del 1781 Herr Colloredo, che in quei giorni si trova a Vienna, accoglie Mozart malamente, gli rimprovera inadempienze, sottovalutazioni dei propri doveri, assenze non giustificate, mancato rispetto dei concordati periodi di congedo. Colloredo non è cambiato, Mozart sì. I ruoli sociali sono rimasti eguali, le sensibilità delle persone no e il punto di crisi diventa senza ritorno quando - l'episodio, molto teatrale e non meno sconvolgente per la nostra di sensibilità, rimarrà esemplare - l'8 di giugno, sempre a Vienna, il conte Karl Joseph Felix Arco, «cameriere, consigliere alla Guerra e gran maestro delle cucine» del Colloredo, esasperato dalle richieste di Mozart di presentare personalmente «una istanza scritta» all'arcivescovo, che per le sue insistenze lo aveva in precedenza chiamato «pazzo e canaglia», reagisce così: «invece di accordargli tout au moins l'accèsso, lo si sbatte fuori della porta, e gli si dà un calcio nel sedere», come fosse un ragazzino petulante, maleducato. Mozart si divincola, si libera, fugge «ché non volevo perdere il rispetto per la camera principesca, benché l'Arco l'avesse già perduto». Una lezione di stile, o l'istinto di sopravvivenza? Poi la ferma determinazione comunicata al padre e alla quale terrà fede: «Ormai non ho più da mandargli nessuna supplica, il caso è chiuso. Ora non intendo scriver più nulla di tutto l'affaire; e se anche l'Arciv. mi desse 1200 fi. di salario, dopo un trattamento simile non ci andrei». Il calcio nel sedere viene associato, con nesso diretto e immediato, alla felicità e alla possibilità di migliorare il tenore di vita: «Siate allegro, signor padre, perché la mia felicità comincia adesso. Vi manderò presto un po' di denaro, per dimostrarvi che qui io non vegeto». L'ebbrezza della nuova condizione lo fa fantasticare: «Colloredo qui è detestato da tutti. Ma se dovesse farvi subire qualcuna delle sue angherie, venite subito a Vienna, con mia sorella: possiamo vivere tutti e tre, ve lo giuro sul mio onore. Preferirei però che restiate ancora un anno». Non rispettando le regole, provocando la reazione del suo Herr, era dunque riuscito a farsi licenziare. Senza mai pentirsene. «[...] sarebbe forse a temersi, qualora io venissi a Salisburgo, che l'Arcivescovo mi faccia eventualmente "arrestare" o quantomeno - - Basta!», scriverà al padre il 21 maggio 1783. Si conoscono i litigi [...] tra Mozart, che non aveva la docilità di Haydn, e il principe arcivescovo di Salisburgo, il quale era meno "gentiluomo" del principe Esterházy. Sovente si esagera nel descrivere a fosche tinte questa assimilazione alla "servitù", che avrebbe messo gli artisti in una posizione umiliante rispetto ai loro protettori; ma si dimentica che, per i musicisti, questa era l'unica possibilità di conservare una sistemazione stabile, avere uno stipendio regolare e l'opportunità di comporre, senza esporsi agli alti e bassi del successo materiale. Se essi mangiavano alla tavola dei "domestici", vale a dire dei segretari, e non a quella dei padroni, questa non era una vergogna, l'uguaglianza delle classi non essendo stata enunciata come un dogma dalla Dichiarazione dei diritti dell'Uomo, e le persone con le quali i musicisti cenavano valevano senza dubbio quanto quelle che si sedevano sotto i lampadari scintillanti della sala dei signori. (Marcel Brion)<2 Se le tinte fossero o no vissute come «fosche» e quale fosse il limite della «docilità» bisognerebbe in verità chiederlo a Mozart, che nel 1785 aveva compiuto la scelta allora e tuttora più difficile per un musicista di professione: cercare di coniugare la libertà con le opportunità e gli obblighi del mestiere. Anche mettendo in discussione la propria funzione sociale, se nel momento in cui «abbandona un ruolo riconosciuto e funzionale» nota oggi Pierre Boulez «il compositore corre il rischio di non vedersene riconosciuto più alcuno». Il rischio di cui parla Boulez, Mozart decide di percorrerlo interamente, con una determinazione consentita da un'alta opinione delle proprie possibilità: «Certamente Mozart poteva tener testa alle forze congiunte del suo signore e padrone e del padre solo perché la consapevolezza del valore della propria creazione artistica, e quindi del proprio valore come persona, gli infondeva coraggio» (Norbert Elias).<3 Una consapevolezza che si esprime anche con la decisione di tenere un «catalogo di tutte le mie opere»: Mozart inizia il 9 febbraio 1784 con il Concerto per pianoforte n. 14 K 449 e lo aggiorna fino al 15 novembre 1791, data della Cantata massonica K 623, ultima composizione a essere terminata. Mozart calcola il rischio e decide di correrlo a Vienna, dove i confini della produzione e del consumo attivo di musica colta si stanno allargando oltre l'ambito dell'aristocrazia: La musica del tardo Settecento, mentre ancora rappresentava un aspetto della vita di corte, diventava anche parte dell'esistenza della classe media [...] Per i musicisti, la trasformazione da un sistema basato sul signore-padrone a quello di una libera agenzia si affermò in tempi diversi in luoghi diversi, ma raggiunse l'apogeo attorno al 1770. Le possibilità di guadagnarsi la vita erano diverse e numerose: si poteva essere Kapellmeister part-time, oppure presentare alla casa reale propri lavori (per esempio, una serie di trii o di quartetti) per i quali si poteva sperare di ricevere qualche tabacchiera ingioiellata, monete d'oro o gioielli, o ancora diventare editori di se stessi; si potevano dare lezioni private o suonare in occasioni particolari come matrimoni e funerali, suonare in concerto, arrangiare popolari arie d'opera per diversi organici. Le opzioni erano molte, nessuna però del tutto sicura. (Mara Parker)<4 Nella musica strumentale e vocale si diffondono i concerti pubblici su iniziativa privata che devono promuoversi e autofinanziarsi attraverso la pubblicità sui giornali e la vendita dei biglietti; gli editori acquistano e commerciano partiture nuove, la musica a stampa affianca la pratica antica della copiatura dei manoscritti e i prezzi si abbassano: «A Vienna tutto è costosissimo e soprattutto la musica, che non è stampata», aveva annotato soltanto pochi anni prima l'inglese Charles Burney nel suo Viaggio musicale del 1772. Il mercato è in espansione e i mestieri si confondono: Franz-Anton Hoffmeister a Vienna e Ignaz Pleyel a Parigi sono insieme compositori e editori, e Pleyel diventerà anche industriale, grazie alla fabbrica di pianoforti fondata nel 1807. La critica, che aveva celebrato la sua nascita nel 1722 quando Johann Mattheson pubblicava ad Amburgo la rivista Critica Musica, diventa una presenza abituale. La musica da camera, con i suoi organici leggeri, le diverse difficoltà di scrittura che ne rendono possibile la pratica sia ai dilettanti che ai professionisti, l'aura di musica riservata, distintiva degli esclusivi piaceri della vita di corte, conosce uno straordinario sviluppo creativo e d'uso, una diffusione in settori della società emergenti, desiderosi di accedere finalmente a una pratica musicale vissuta come qualificante uno status culturale. Nasce in questi anni una consuetudine destinata a proseguire a lungo, dimostrandosi fondamentale anche per il germinare, tra Settecento e Ottocento, in tutta Europa, di tante Società di Concerti, del Quartetto, Accademie Filarmoniche, Amici della Musica che, prolungando ed estendendo il piacere domestico in un luogo pubblico dove si ricreano condizioni simili di frequentazione e di consumo, consentiranno alla musica da camera di mantenere la propria identità e visibilità. Una pratica ancora oggi non smarrita, ma più di altri generi musicali, più dell'opera, più del concerto sinfonico, in difficoltà nel difendere i propri spazi, la propria necessità. Per indomabile necessità d'ingegno e fidando su più favorevoli condizioni sociali, Mozart aveva dunque reso evidente la propria diversità rispetto alle decisioni e alle preoccupazioni del padre, al solo sistema di vita da lui ritenuto possibile. Leopold, lavoratore salariato per necessità e per orizzonte di pensiero, aveva manifestato la sua contrarietà verso questi azzardi e mantenuto il punto, anche non presenziando al matrimonio viennese del figlio e finalmente inviando la propria paterna benedizione soltanto il giorno dopo le nozze. Ma aveva accolto i giovani sposi a Salisburgo nel luglio del 1783, quando Wolfgang era tornato nella città natale per far conoscere la moglie al padre e alla sorella. Da allora Leopold e il figlio non si erano più incontrati. Il viaggio a Vienna del febbraio 1785 doveva dunque servire a sciogliere le residue incomprensioni. Mozart questo voleva e organizzò ogni cosa perché Leopold restasse ammirato e accettasse le sue scelte. Nessuno dei due poteva immaginare che quel soggiorno di oltre due mesi del padre nella capitale - dall'11 febbraio al 25 aprile 1785 - sarebbe stata l'ultima loro occasione di incontro e di convivenza. Leopold morirà a Salisburgo il 28 maggio 1787, a sessantasette anni. Schulerstrasse 846, primo piano di un palazzo di quattro. Un appartamento ampio, certamente il più bello abitato da Wolfgang a Vienna, oggi trasformato in museo con annessa piccola sala da concerto. Centralissimo, perfino di rappresentanza per quel milieu borghese al quale Mozart cominciava ad appartenere. Scala interna a spirale in ferro battuto, 180 metri quadri, ingresso principale e di servizio, cinque stanze, due cabinetti da bagno, cucina con comodo di alloggio per la servitù, due dispense, soffitta, cantina, deposito per la legna. Un balcone chiuso con tre grandi finestre affaccia luminoso sulla strada. Dall'altro lato, ancora molta luce e vista sull'attuale Domgasse, alla fine della quale, dopo poche decine di metri, sulla destra, sorge proprio il palazzo dei Cavalieri dell'ordine tedesco, dove Wolfgang aveva ricevuto il calcio nel sedere. Il pavimento è a parquet, il soffitto stuccato, firmato. Una casa Camesina, Joseph Camesina, decoratore di successo. La conosciamo però come Figaro- Haus, perché lì, dove abitava dal 29 settembre 1784 e dove sarebbe rimasto fino al 24 aprile del 1787 (la sosta più lunga tra i tanti traslochi), Mozart scrive anche Le nozze di Figaro. Come nell'ultima casa, ci sarà stato il biliardo? Almeno due stanze sembrano poterlo accogliere con comodo. A Vienna Mozart stava vincendo la sua battaglia per affermarsi come musicista in grado di vivere del proprio mestiere, incontrando l'ammirazione del pubblico del tempo: «Accanto al Mozart cameratesco e burlone e accanto al massone preoccupato dei più alti problemi dell'esistenza, c'è, soprattutto in questo periodo, un terzo Mozart, il musicista di mondo, l'eroe di innumerevoli accademie e di distinti salotti privati».<5 Leopold mette piede nella casa del figlio all'una e cinque ore dopo, alle sei del pomeriggio, è già a sentirlo suonare. Quella sera si tiene il primo dei sei concerti in cui Wolfgang si esibisce come solista di fortepiano. Il Carnevale è appena finito, è tempo di Quaresima, i teatri sono chiusi, ma resta aperta - anzi, incentivata - la possibilità per i musicisti di suonare a proprio beneficio. E il pubblico di Vienna aveva stabilito che nessun pianista era migliore di lui. Per sei venerdì consecutivi, Mozart affitta la sala della Mehlgrube - sul Neuer Markt, non lontano da casa -, un albergo, oggi è l'Hotel Ambassador, di proprietà di un consigliere di corte con il quale ha buone relazioni, Franz Sales von Greiner, e che gli costa soltanto un «demi souverain d'or a sera». L'arrivo di Leopold doveva dunque coincidere con il primo di quei sei concerti; Wolfgang lo aveva scritto: rompi gli indugi, devi arrivare a Vienna in tempo per questa occasione. Voleva che ci fosse, e il padre non mancò uno solo di quei sei venerdì. L'emozione di Leopold è profonda: nonostante le sue fosche previsioni fatte al tempo della «sconsiderata decisione» di sposarsi appena dopo essersi licenziato dal servizio alle dipendenze del loro Herr, suo figlio se la passa bene. Non è solo, ha successo, non è povero in una città dove un maestro elementare guadagna 22 fiorini all'anno, un professore di università 300, un chirurgo 800 e Antonio Salieri, maestro di cappella della corte imperiale, 1200. Saranno altri, e inspiegabilmente vicini, se già nel novembre del 1785 Wolfgang chiede con insistenza un prestito all'editore Hoffmeister, i tempi della miseria e delle malattie. Ai suoi concerti, gli spettatori sono molti, influenti, «un grande assembramento di persone di rango». Leopold può verificare di persona la verità della lettera del 20 marzo 1784, nella quale Wolfgang aveva elencato uno per uno, con efficacissima pignoleria, i sottoscrittori delle sue accademie, concludendo che dovrà «portarmi pazienza finché non sia passata Quaresima». Non ha tempo per scrivere a casa, deve suonare come solista ogni giorno, avendo anche cura di scegliere «i migliori musicisti dell'orchestra»; non può deludere le 173 persone che hanno pagato in anticipo il suo talento: 13,5 fiorini ciascuno per i sei concerti. Uno studio statistico<6 - fondamentale per comprendere quanto "di mondo" fosse Mozart in quel periodo - ci informa che gli uomini costituivano l'87 per cento di quel pubblico, le donne il 13 per cento. L'alta aristocrazia (case principesche e comitali) raggiunge il 50 per cento; la bassa e la nobiltà d'acquisto, commerciale il 42; la borghesia appena l'8. Un quarto di loro svolge professioni che non conosciamo (aristocratici e redditieri quale lavoro fanno, oltre ad amministrare il patrimonio?); tra gli altri emergono i consiglieri dell'Impero, della corte o del governo e altri funzionari (33 per cento); i diplomatici accreditati a Vienna (12); i militari (12); i commercianti, imprenditori e banchieri (9); i titolari di alte cariche di Stato (8). Al concerto di domenica 13 febbraio al Burgtheater, Leopold ha «il piacere di ascoltare così meravigliosamente il dialogo di tutti gli strumenti che mi sono venute, per la gioia, le lacrime agli occhi». Quando il figlio entra in scena, il pubblico lo riconosce e applaude. In sala c'è anche l'imperatore Giuseppe II; dopo averlo ascoltato suonare il Concerto per pianoforte K 456, composto nell'autunno del 1784, gli fa un compliment togliendosi il cappello, lo saluta con il braccio e dal palco grida: Bravo Mozart! Nella lettera del 12 marzo, ancora alla figlia, e riferendosi al concerto del 10 marzo al Burgtheater, Leopold racconta la concreta felicità di quei giorni: «[...] tuo fratello nella sua accademia ha fatto 559 f., ciò che non ci aspettavamo». È in questo periodo che Mozart decide di pubblicare i primi quartetti: «I quartetti per archi possono essere considerati l'emblema della raggiunta indipendenza economica, la prova che egli poteva dedicarsi finalmente alla musica pura al di là di qualsiasi considerazione commerciale o di opportunità concertistica» (Maynard Solomon). La frenesia di quei giorni affascina Leopold: «Tempo orribile! Ogni giorno accademia, sempre studiare, musica, scrivere etc. Dove ho da andare? — Se solo finissero le accademie. È impossibile descrivere tutte quante le seccature e il subbuglio: il Fortepiano a coda di tuo fratello è stato trasportato, da che son qui io, almeno 12 volte da casa in teatro o in un'altra casa»: evidentemente Mozart non si fidava che del proprio strumento. Alla Mehlgrube, dal conte Zicky, dal principe Kaunitz, nel palazzo del conte Johann Baptist Esterházy di Galántha dove, a marzo, Mozart suona in nove concerti. Accademie private nelle case di campagna dei suoi conoscenti, concerti di beneficenza a favore delle vedove della Società dei musicisti, dove nel marzo del 1785 debutta l'oratorio Davidde penitente, una delle sue opere, allora, di maggior successo. Serate con il soprano Caterina Cavalieri e il tenore Valentin Adamberger, stimatissimi tra i cantanti. Inviti su inviti a cena, che naturalmente vanno contraccambiati; non si va mai a dormire prima dell'una, ci si alza alle nove, si pranza alle due, perfino alle due e mezzo. Il 18 febbraio, pranzo sontuoso a casa dell'attore e autore teatrale, membro della compagnia del Burgtheater, Johann Gottlieb Stephanie, che per Mozart aveva scritto nel 1782 il libretto del Ratto dal serraglio (accolto da un franco successo) e da lì a pochi mesi consegnerà quello dell'Impresario teatrale. È venerdì, ma si mangia carne e Leopold osserva: «[...] qui non c'è da pensare alla Quaresima. Non furono serviti se non piatti di carne, e Le faisan a été servi aux choux; il resto era principesco, alla fine huitres, il più stupendo dei confetti, e da non sottacere le parecchie bottiglie di Champagne; e caffè a volontà, - s'intende». Il tempo è tremendo, nevica e tira un vento gelido che si infila nelle case e le raffredda; Leopold, pur di non camminare su quelle strade coperte di neve e scivolose, prende la carrozza anche per tratti brevissimi. È un uomo robusto e ancora piacente; più bello del figlio, più alto, più forte: «Il fisico di Mozart non aveva nulla di particolarmente attraente sebbene, come già abbiamo detto, i suoi genitori fossero stati in gioventù di reale bellezza, e nonostante l'influsso che questo fatto avrebbe potuto avere sulla buona costituzione del loro figlio», scrive il letterato tedesco Friedrich von Schlichtegroll alla voce «Mozart» del Necrologio per l'anno 1791. * L'appartamento di Schulerstrasse 846 è il nono abitato da Mozart a Vienna. Questo l'elenco delle case dove ha vissuto in quei dieci anni: - 16 marzo 1781: alloggia alla Casa Tedesca di Singerstrasse 856 (oggi n. 7), residenza dei Cavalieri teutonici e domicilio scelto dall'arcivescovo Colloredo durante la sua permanenza a Vienna; - 1-2 maggio 1781: dopo che l'arcivescovo Colloredo gli ordina di «andarsene immediatamente», è ospite di Maria Cäcilia Weber, madre di Constanze; è la casa Zum Auge Gottes (All'occhio di Dio), oggi in Petersplatz 8; - fine agosto 1781: affitta «una camera arredata proprio carina sul Graben»; Graben 1175, oggi n. 17; - 23 luglio 1782: Zum roten Säbel (Alla sciabola rossa), Hohe Brücke (oggi Wipplingerstrasse 19). Wolfgang e la famiglia vi avevano già alloggiato durante il viaggio a Vienna del 1768; - 14 dicembre 1782: «piccola casa Herberstein», Wipplingerstrasse n. 14, terzo piano; - febbraio 1783: Zum englischen Gruss (Al saluto dell'angelo), sul Kohlmarkt; - 24 aprile 1783: Judenplatz 244 (oggi n. 3); camera in affitto al primo piano; - gennaio 1784: appartamento al terzo piano, seconda scala, al Trattnerhof, sul Graben. Paga 75 fiorini a semestre; - 29 settembre 1784: Schulerstrasse 846 (oggi Domgasse 5), al primo piano; è conosciuta come Figaro Haus. L'affitto è di 460 fiorini l'anno; - 24 aprile 1787: Landstrasse 224 (oggi n. 75-77); l'appartamento, più periferico, affaccia su un giardino. Dalla lettera di Mozart del 17 giugno 1788 capiamo che il proprietario è a quella data ancora creditore di parte dell'affitto dovuto; - 29-30 settembre 1787: Tuchlauben 27; - 17 giugno 1788: Währingerstrasse n. 16. Casa con giardino nel quartiere di Alsergrund, esterno all'attuale Ring; - inizio gennaio 1789: Judenplatz n. 4, casa Zur Mutter Gottes (Alla madre di Dio); - 30 settembre 1790: Constanze e Karl Thomas si trasferiscono nell'appartamento di Rauhensteingasse 970 (oggi n. 8), primo piano. Mozart raggiungerà moglie e figlio nel nuovo, e ultimo, appartamento al ritorno dal viaggio a Berlino, probabilmente il 10 novembre. Nella casa di Rauhensteingasse il 26 luglio 1791 nasce Franz Xaver Wolfgang, secondo dei loro figli a sopravvivere. Queste le date estreme dei sei figli di Constanze e Wolfgang: Raimund Leopold: 17 giugno - 19 agosto 1783; Karl Thomas: 21 settembre 1784 - 31 ottobre 1858; Johann Thomas Leopold: 18 ottobre - 15 novembre 1786; Theresia Constanzia Adelheid Friderika Maria Anna: 27 dicembre 1787 - 29 giugno 1788; Anna Maria: 16 novembre 1789 (muore un'ora dopo la nascita); Franz Xaver Wolfgang: 26 luglio 1791 - 29 luglio 1844. * La prima esecuzione dei sei quartetti dedicati a Haydn ha luogo in due distinte serate private, sempre nella bella casa di Schulerstrasse 846. Il 15 gennaio 1785 vengono suonati i primi tre, il 12 febbraio il quarto, il quinto e il sesto. In tutte e due le occasioni, ospite dei Mozart è Haydn; sulla seconda serata, grazie alla lettera di Leopold, abbiamo informazioni più dettagliate. Il 12 febbraio i presenti sono almeno sette. Con i quattro Mozart - Leopold, Wolfgang, Constanze, Karl Thomas - Franz Joseph Haydn, giunto nella capitale dalla sua residenza al castello di Fertod-Eszterháza, che il principe Nicola I Giuseppe Esterházy di Galántha, detto il Magnifico, aveva immaginato come la Versailles dell'Austria-Ungheria. Lì, sostenendo ritmi di lavoro densi e regolari - oggi diremmo da artigiano più che da artista, dimenticando però che questa era allora la condizione dei musicisti di successo -, Haydn era direttore responsabile, amministrativo e artistico, della musica del principe. La conoscenza e la frequentazione con Mozart risale probabilmente al 1781 e da allora non si è più interrotta. Più volte, i due compositori fanno quartetto assieme, sempre in occasioni private e in compagnia di altri amici strumentisti e compositori. Non ci è possibile stabilire con esattezza quando egli entrasse in rapporti di amicizia con Mozart; sappiamo tuttavia che all'epoca in cui Leopoldo andò a Vienna, nel 1785, i due artisti [Haydn e Mozart] erano già intimi al punto di darsi del tu. Le entusiastiche parole di riconoscimento espresse da quel grand'uomo sul conto di Volfango rimasero profondamente impresse nel cuore paterno di Leopoldo [...] Non avveniva mai che Haydn parlasse dell'amico Mozart senza cantarne le lodi: «Se a ogni amico della musica, e specialmente ai Grandi, io potessi imprimere nell'animo gli impareggiabili lavori di Mozart e far sì che tutti li sentissero come io li comprendo e li sento, tutte le nazioni andrebbero a gara per avere entro i loro confini un simile gioiello. Perdonate se divago: ma quell'uomo mi è troppo caro», scriveva a Praga nel 1787, non esitando ad anteporre al proprio genio quello di Mozart. Il quale da parte sua lo ricambiava con la stessa ammirazione affettuosa. (Bernhard Paumgartner)<7 Ospiti di Mozart, quella lunga sera di febbraio - per suonare tutti e tre i quartetti, occorre quasi un'ora e mezzo - sono anche i fratelli baroni Anton e Bartholomäus von Tinti, nobili di Salisburgo; Anton diventerà presto ministro residente della corte principesca di Salisburgo a Vienna. Leopold li conosceva, forse non immaginava di trovare concittadini di tale rango invitati a casa del figlio, a Vienna. Tre borghesi, lavoratori della musica e due nobili, dilettanti-amatori di ottimo livello: a suonare sono in cinque, per quattro strumenti, nella felice intimità della bella casa di Wolfgang, artefice e regista di quelle ore di gioia condivisa. Bartholomäus von Tinti ha certamente suonato il violoncello, il suo strumento. Leopold e Wolfgang saranno stati il primo e il secondo violino e Anton von Tinti la viola? E Haydn? Se ha suonato, e non abbiamo motivo per pensare che non lo abbia fatto, avrà scambiato il posto con Leopold o con Anton, che magari in qualche momento si sarà fatto sostituire da Wolfgang e Leopold, ottimi violisti? E papà Leopold si sarà mai seduto ad ascoltare? E come si sono seduti? Da sinistra a destra, prima i due violini, poi la viola, infine il violoncello secondo la disposizione oggi prevalente? O il secondo era accanto al primo, poi il violoncello lasciando la viola esterna? Oppure i due violini erano contrapposti, alle estremità di destra e di sinistra, il violoncello alla sinistra del primo violino e la viola alla destra del secondo? Ancora Johannes Brahms per la sua op. 67 del 1875 penserà a questa disposizione "stereofonica", di tradizione viennese. E i leggii erano quattro, o soltanto due, ciascuno con un doppio ripiano dove appoggiare le parti, così che i musicisti dovevano sedere di fronte, due a due? Un acquarello di metà Ottocento di Johann Carl Arnold, conservato al Museo Goethe di Francoforte, ci mostra un Quartettabend domestico: i musicisti siedono, ciascuno davanti al proprio leggio, in modo da formare un cerchio dove è difficile stabilire una successione, un inizio, una fine, e dal quale invece emerge una rotonda, conchiusa continuità. Karl Thomas, che ha cinque mesi e già comincia a mettere i denti, sarà stato accudito da una tata e a casa Mozart, allora, non doveva mancare un domestico a tempo pieno. Otto, nove persone. A Parigi, a casa del barone d'Holbach, bastavano dieci persone per rendere appagante una serata di libera conversazione. A Vienna, l'abitudine, tuttora rispettata, era che i concerti cominciassero alle sette e, in casa, prima si suonava, poi si cenava. Tra gli argomenti di conversazione, non sarà mancato il fatto del giorno: era stata annullata la prima austriaca di Le Mariage de Figaro di Beaumarchais - la commedia aveva debuttato a Parigi il 27 aprile 1784 - prevista per il 3 febbraio al Kärntnertortheater (Teatro della Porta di Carinzia) nella messa in scena della compagnia di Emanuel Schikaneder, futuro librettista del Flauto magico e già allora amico di Mozart. La stessa censura aveva però autorizzato la pubblicazione a stampa del testo tradotto dal francese. Il 10 Maggio del 1786 l'"opera buffa" che, su libretto di Lorenzo Da Ponte, Mozart crea partendo dal testo di Beaumarchais debutterà al Burgtheater. Evidentemente, il canto in lingua italiana suscitava nei censori meno timore di un testo tedesco in prosa. Passando alle questioni più personali, si sarà certo parlato della domanda di ammissione rivolta da Mozart alla Società dei Musicisti (Tonkünstler-Societät). Wolfgang aveva deciso di inoltrare la richiesta venerdì 11 febbraio, proprio il giorno dell'arrivo a Vienna di suo padre. Dei cinque musicisti, quattro sono già massoni. Leopold lo diventerà formalmente il 4 aprile, come apprendista della loggia Zur Wohltätigkeit (Alla carità); il 16 dello stesso mese sarà promosso al secondo grado (confratello) nella Zur wahren Eintracht (Alla vera concordia), il 22, tre giorni appena prima di ripartire per Salisburgo, al terzo, quello di maestro. Mozart era diventato apprendista della Carità il 14 dicembre 1784; il 7 gennaio 1785 è confratello della Vera concordia, mentre il suo passaggio a maestro avviene probabilmente il successivo 13 gennaio, il giorno prima del completamento del Quartetto K 465, il Quartetto delle Dissonanze. Sempre il 14 gennaio Mozart assiste all'ingresso del barone Anton von Tinti nella sua stessa loggia, di cui il fratello Bartholomäus faceva già parte. Anche Pasquale Artaria, il suo editore, è massone, membro della Zur gekrönten Hoffnung (Alla speranza incoronata). La sera del 12 febbraio ci si trova a Schulerstrasse 846 anche per festeggiare l'ingresso nella massoneria di Haydn, avvenuto nella Vera concordia la sera prima, quando Mozart non aveva potuto essere presente perché impegnato nel primo dei suoi concerti-accademia. Ce ne occuperemo alla fine di questo capitolo, al momento di raccontare il Quartetto delle Dissonanze. * Nell'anno 1785 fece incidere e pubblicò sei quartetti dedicati al maestro di cappella Joseph Haydn, suo amico - opere magistrali che sono un bel segno della sua venerazione per questo grande uomo; e se questo omaggio, tributato da un artista come Mozart, accresce la gloria di Haydn, onora anche l'autore e rende caro per noi il cuore di un uomo il cui talento trasporta il mondo intero all'ammirazione. Davvero Mozart non avrebbe potuto far meglio per onorare Haydn di questi quartetti esemplari che contengono le idee più belle e costituiscono una vera e propria scuola di composizione. Agli occhi degli intenditori il valore di questi lavori eguaglia quello di qualsiasi altra opera teatrale di Mozart. Tutto è meditato e compiuto. Si comprende che in questi quartetti ha messo in campo ogni mezzo per meritare l'approvazione di Haydn. <8 Così Franz Niemetschek, nella Vita di Mozart, prima biografia del compositore, uscita a Praga nel 1798, sette anni dopo la morte, sottolinea l'importanza dell'Opera X, che considera una stella fissa nell'universo creativo mozartiano. Ma la reazione del pubblico, degli amatori come dei professionisti, non è unanime. La prima impressione che ricevettero i contemporanei fu di un qualcosa di confuso, di poco chiaro, di artificioso. Invece di sorriderne, faremmo meglio a tentare di comprenderla. Effettivamente una giustificazione è possibile, entro certi limiti. Il rapporto maestro-allievo determina sempre in quest'ultimo una limitazione di libertà creativa, almeno dal punto di vista tecnico e anche per Mozart non è stato facile, come egli stesso ha affermato, adottare la nuova tecnica haydniana alla propria esperienza d'artista. In fondo era come per lo studio di Bach e Händel, solo che minore era la distanza che lo separava dal modello. Inoltre il suo tipo di esperienza artistica era ben diversa da quella di Haydn: molto più sensibile all'elemento irrazionale, l'arte di Mozart tendeva agli alti voli della fantasia e alle improvvise catastrofi spirituali, tutte cose da cui Haydn, educato alla scuola tedesco-settentrionale, rifuggiva. Ciò che per quest'ultimo rappresentava il frutto naturale della sua evoluzione, Mozart dovette cominciare coll'appropriarsene interiormente, e questo compito gli riusciva tanto più difficile quanto più alte erano le sue mire e quanto più profonda la sua esperienza d'artista. Possiamo credergli sulla parola, quando afferma che i sei quartetti erano il frutto di un lavoro lungo e faticoso. (Hermann Abert)<9 Il primo movimento del Quartetto in sol maggiore K 387 è così suddiviso: 55 battute per l'esposizione 52 battute per lo sviluppo 63 battute per la ripresa Se, come in questo caso, il numero di battute necessario a Mozart per sviluppare i temi, le idee esposte all'avvio del lavoro, quasi eguaglia quello dell'esposizione, significa che per la prima volta in un suo quartetto i rapporti tra le diverse membra di questo corpo sono paritari. Non ci sono parti sovradimensionate e altre rachitiche. Ed è al momento dello sviluppo che il pensiero musicale del periodo classico affida il ruolo decisivo per l'approfondimento dei temi esposti. La parte centrale si è sviluppata in armonica proporzione e non ha più l'aria di una frettolosa digressione, affidata all'introduzione di un'idea estranea, per poi far ritorno il più presto possibile al sicuro porto della Ripresa. Ora lo Sviluppo, strettamente tematico, si presenta come un ragionamento necessario e par quasi la ragion d'essere dell'intero Allegro, ne costituisce il saldo centro di gravità. (Massimo Mila)<10 Sono mutati l'ampiezza dell'orizzonte, lo spessore della scrittura: è sufficiente un colpo d'occhio alle prime battute del Quartetto K 173 - il suo ultimo, composto nell'ormai lontano settembre del 1773 - e a quelle del K 387, il primo dei nuovi, per vedere la differenza, prima ancora di sentirla. Qui, il pensiero orizzontale - la melodia - e quello verticale - l'armonia - si con/fondono con studiata naturalezza, mentre la consapevolezza della necessaria teatralità esige che quasi ogni battuta sia fornita di precise indicazioni dinamiche, a cominciare proprio dall'inizio: a battuta 1 è soltanto il primo violino ad attaccare forte sulla nota sol, la tonica della tonalità di sol maggiore; il suo battere è solitario e l'effetto retorico dell'anacrusi applicato alla musica (una nota che precede il tempo forte di una battuta) è perfettamente raggiunto. Anche i tre altri strumenti attaccano forte, ma ognuno seguendo un proprio percorso: il secondo scende- sale-scende, la viola scende-scende-sale, il violoncello sale-scende-scende, mentre il primo sale-resta-scende. Diversi anche gli intervalli: l'affermativo salto di quinta del violino primo non trova eco nelle altre voci, creando immediatamente una dialettica tra le diverse intenzioni. Alla battuta successiva tutti suonano piano, però alla quarta ritorna il forte. Questo è da subito un quartetto. Ne possiede l'intimità, la profondità del respiro; il tema non è stentoreo, immediatamente affermativo, come può essere il tema d'avvio di una sinfonia, di un concerto. È, invece, un plastico prisma sonoro che assume forme diverse: si presta a figurazioni brillanti come i gruppetti veloci affidati al primo violino (battute 19-23), a imitazioni a canone, come avviene tra primo e secondo violino (per esempio alle battute 40-42), a frequenti alzate di voce ora di uno ora dell'altro dei quattro attori, in una costante attenzione alla mobilità della scrittura. A battuta 52 l'indicazione è fortepiano, che «era d'uso mettere all'inizio della nota; invece, Mozart descrive esattamente e a cavallo di battuta quanto dura il forte e quanto il piano» (Antonello Farulli). L'organizzazione formale del pensiero, la coerenza, non esclude la flessibilità. Le battute iniziali dello sviluppo - da 56 a 60 - sono basate sul tema iniziale, eppure l'episodio è «accuratamente condotto in contrasto con il carattere molto più animato dell'esposizione» (John Irving). Il materiale è il medesimo, l'esito espressivo diverso. Una deviazione dal percorso non casuale, capricciosa, ma funzionale a quanto sta per accadere, alla creazione di brevi immagini tutte interiori, come il passaggio solistico della viola a battute 70 e 71. E quando il racconto sembra avviarsi alla conclusione, ecco (a battute 88-89) tutti e quattro, a gruppi di due - i due violini, e viola e violoncello - procedere assieme in quelle due quartine che abbiamo già ascoltato alla fine dell'esposizione, poi tutti concedersi una pausa. Alla battuta successiva, la finezza delle indicazioni prevede che, nella divisione della battuta, il passaggio dallo sforzando al piano dei due violini e del violoncello anticipi quello della viola: scrivere in partitura notazioni così dettagliate non è ancora una consuetudine del tempo, e questa precisione, che ricorre con frequenza, Mozart la esige da subito, dal primo dei suoi tanto attesi quartetti. Una tecnica «in chiaroscuro» (Harnoncourt), vicina più alla xilografia che all'acquerello. Poi i due violini svagano in un trillo, di nuovo tutti si fermano in un'altra pausa. Pausa dopo pausa ecco creata l'attesa di qualcosa di nuovo, perché una pausa - soprattutto quando l'armonia ci dice che il discorso non è concluso - non è un congedo, ma la creazione di un'attesa. E a battuta 90 la narrazione riprende con un accordo sforzato, poi due volte forte piano e, come all'inizio, è il primo violino a precedere gli altri. Poi tutti suonano piano e siamo di nuovo nel flusso di una musica che già conoscevamo e che tuttavia si presenta ora con degli elementi di novità. Si sta affermando il principio della variazione nella continuità, che in nessuna altra disciplina artistica è così sottile come nell'arte della composizione, perché deve fornire a chi suona e a chi ascolta dei punti di riferimento per non smarrirsi e insieme dei continui slittamenti, perché non prevalga l'assuefazione, la noia. Strategie di comunicazione, che proseguono fino alla conclusione del movimento, in un alternarsi rigorosamente prescritto dal compositore di densità e rarefazione, di effetti diminuendo e crescendo, prima che tutti si ritrovino al porto sicuro - la tonica di sol maggiore - dal quale il viaggio era iniziato. Da lì si parte e lì si ritorna, come prescrive la rassicurante regola base dell'armonia classica, ma quello che può accadere durante la navigazione va ogni volta inventato. Senza perdersi, almeno per ora. Se il minuetto è una danza regolare in tempo di 3/4, galante, garbata e mai spiazzante, il secondo movimento del K 387 non è un minuetto. La scansione del tempo è rispettata, ma il carattere ha il rigore, perfino austero, di una geometria ed è segnato dalla crepa profonda di drammaticità del trio centrale. In un tempo allegro, l'instabilità delle dinamiche è sovrana. Soltanto in questo movimento di questo quartetto Mozart prescrive una simile indicazione: alle battute 3, 4, 5, 6 del primo violino; 7, 8 e primo quarto della 9 del violoncello; 13, 14 e 15 del secondo; 14 e 16 della viola, la successione tra forte e piano è ininterrotta. Una nota forte, una nota piano. Mozart deve essere così preciso perché l'abitudine di indicare con esattezza in partitura le intenzioni dei compositori è una pratica recente, che fa ancora fatica a essere accettata dagli interpreti, dai cantanti soprattutto - abituati allora, e ancora a lungo, a prendersi tutte le libertà possibili - ma anche dagli strumentisti. Mozart vuole ottenere questo effetto e non teme di dimostrarsi pignolo. Luce e ombra, ombra e luce, e dall'ombra si esce quando tutti assieme iniziano un crescendo che ci allontana da quella instabilità, accentuata dai frequenti cromatismi, immagine perfetta di chi si trova a camminare incerto, appunto tra ombra e luce. Un timore che il secondo tema vuol far dimenticare; il suo passo spedito si lascia alle spalle, si libera di quello smarrimento, lo dimentica. Poi, precipitiamo nel trio; dal sol maggiore del minuetto si passa al sol minore. L'ampiezza delle sue 54 battute lo trasformano da inciso a movimento in sé, con una propria autonomia espressiva, tanto più radicale perché inserita in un contesto inatteso. Con questo movimento Mozart apre nuovi orizzonti estetici per il minuetto, quelli della forma sonata concepita come una forma contrastante tesa verso l'espressione di una dualità del pensiero. Ancora una volta questa via si situa agli antipodi delle prospettive di Haydn nei suoi quartetti, dove negli scherzi scoppietta lo spirito (pétille l'esprit). (Bernard Fournier)<11 La dualità del pensiero è ribadita dall'opposizione dei motivi che attraversano il trio. L'incisività tagliente, le scansioni brusche, annunciate dall'attacco forte e all'unisono nel registro grave, seguite dalla melodia in legato esposta dal secondo violino. Una melodia che non si distende, non induce al canto, rimane ripiegata su se stessa, espressiva e dolente, conservando evidente memoria di quelle crepe, che ritornano, violente, crescendo. Anche il trio assume dunque un carattere diverso da quello consegnato dalla tradizione. Poi, Menuetto da capo senza repliche prescrive Mozart nell'autografo. Possiamo soltanto immaginare la sorpresa, se non lo sgomento, del mondo musicale contemporaneo di fronte a tali arditezze. Neppure nell'«Andante cantabile» che segue - tonalità di do maggiore, tempo di 3/4 - la melodia regna sovrana, né l'oblio della trepidazione accumulata nel minuetto è garantito. Già dalle prime battute si crea una tensione: mentre i due violini e la viola dal piano attraverso un crescendo arrivano al forte, ma non simultaneamente, il primo tempo della battuta del violoncello è sempre prescritto forte e soltanto alla quinta battuta inizierà piano: «È la concezione moderna dei volumi del suono e del loro aprirsi e chiudersi attraverso singole dinamiche e non solo attraverso dinamiche generali» (Antonello Farulli). Il codice del periodo classico prevede che nelle grandi forme venga raggiunto l'equilibrio tra velocità e lentezza, spensieratezza e inquietudine, sorriso e timore, affermazioni perentorie e domande che possono anche non trovare risposta, restando sospese in un'attesa senza fine. Chi ha l'abitudine di seguire i movimenti lenti chiudendo gli occhi, per non vedere nulla mentre ascolta la musica e così concentrarsi sull'immaterialità del suono, qui dovrà aprirli, per non sentirsi privo di punti di riferimento, per non impaurirsi. Perché Mozart decide di interrompere tanto presto il canto avviato dal primo violino, così elegantemente vestito di un gruppetto di note, di rallentarlo dopo un crescendo, di farlo scemare dal forte al piano al pianissimo fino a renderlo impercettibile, mentre il testimone del racconto è passato alla voce grave del violoncello? Da ora, il cammino proseguirà nella convivenza degli opposti: i passaggi veloci del primo violino che riprende il proprio percorso ed è accompagnato come in un'eco dal violoncello, mentre il secondo violino traccia una diversa figura, segnata da una nota quattro volte ripetuta, che torna e ritorna, implacabile come un motto e la viola aggiunge la propria voce, facendo da scuro fondale a quell'inquietudine misteriosa. Presto il primo violino si ferma, come guardandosi attorno, per poi di nuovo provare a riaffermarsi, chiedendo agli altri misericordia, comprensione. La risposta che trova, a battuta 39 e battuta 40, sono due sestine puntate, che non gli prestano ascolto, lo ignorano. L'espressione di questa difficoltà di ascolto reciproco si intensifica, viene drammatizzata e poi di nuovo sciolta dal primo violino, che presto ritrova sul proprio cammino quella figura di quattro note, dapprima indicata sforzando e dunque sbalzata in primo piano, poi piano, svanendo. Andante cantabile, prescrive Mozart. L'aggettivo deve essere inteso come espressione del desiderio di allontanarsi attraverso la seduzione del canto dalle inquietudini di questa rêverie. Siamo in do maggiore e l'accordo finale è un perfetto accordo di do maggiore, però appena sussurrato in pianissimo e lentamente lasciato svanire, scontornato. È l'arte dell'accennare, del lasciare immaginare, mentre Mozart ribadisce che non è mai la tonalità a marcare il carattere di un brano, ma la personalità dell'autore. La luminosità, la felicità, gli aspetti trionfali, vincenti, che la consuetudine associa al do maggiore? Non pervenuti. Tutto il sapere e la tecnica, tutto il gusto - il a du goût et, en outre, la plus grand science de la composition, aveva detto Haydn al padre - convivono nel «Molto Allegro» conclusivo, aperto da un lento incedere del secondo violino, quasi l'avvio di un canto rituale, ripreso dal primo violino. Ma subito, con efficace contrasto, emerge una frase piena di vivacità che si inspessisce in un volume sonoro adatto a una pagina sinfonica, mentre le altre due voci, violoncello e viola, entrano nel flusso, per non lasciarlo più. Questa ambivalenza rimarrà costante, segnando il movimento conclusivo del primo dei sei quartetti dedicati a Haydn in maniera non confondibile. Il tempo trascorso e che ancora trascorrerà a studiare e trascrivere le opere di Bach e Händel - l'incompiuta Fuga a quattro voci K 401, il Preludio e Fuga a tre voci K 394, la trascrizione per quartetto d'archi di cinque preludi e fughe dal Clavicembalo ben temperato di Bach, K 405, la Fuga per due pianoforti K 426 del 1783, poi diventata nel 1788 l'Adagio e fuga «per 2 violini, viola e basso» K 546 - consente a Mozart non solo di assimilare una tecnica di scrittura, ma di comprenderla all'interno della propria poetica. Perché non è dato conoscere una fuga bachiana o händeliana così sgusciante, di continuo oscillante tra rispetto del canone e originalità di soluzioni brillanti, come questa fughetta vivace che attraversa l'intero ultimo movimento del K 387. A casa Mozart, lo studio dell'arte della fuga era diventata una passione capace di coinvolgere anche Constanze. Così Wolfgang, che a dicembre dello stesso anno inizierà la composizione del primo dei sei nuovi quartetti, scrive al padre e alla sorella il 10 e il 20 aprile 1782. In ambedue le occasioni viene ricordata la frequentazione con il barone Gottfried van Swieten, olandese di nascita, intellettuale, bibliofilo collezionista, alto funzionario dell'Impero, prefetto della Biblioteca imperiale, poi direttore della Commissione di Censura, appassionato di musica e massone: Tutte le domeniche alle 12 vado dal barone von Suiten - e lì non si suona altro che Händl e Bach. - Mi sto giusto facendo una collezione delle fughe dei Bach, - sì di Sebastian che di Emanuel e Friedeman Bach. - E altresì delle händeliane. Da che la Konstanze ha ascoltato le fughe, se n'è tutta innamorata; - non vuol sentire altro che fughe, ma particolarmente (in questo genere) nient'altro che Händl e Bach; - ora avendomi spesso sentito suonare a mente delle fughe, mi domandò se non ne avessi ancora trascritta nessuna; - e avendole io risposto di no, - mi sgridò moltissimo ch'io non scrivessi proprio quanto di più bello e artistico sia nella musica; e non mi diede pace con le preghiere, finché non le composi una fuga, che così è nata. - Ci ho scritto per bene sopra Andante Maestoso, affinché non la si esegua velocemente - se infatti una fuga non viene suonata adagio, non si riesce a discernere chiaramente l'entrata del tema, ed essa non fa di conseguenza alcun effetto. - Ne farò - col tempo e all'occasione propizia, altre 5, che poi rimetterò al barone van Suiten; il quale ha veramente un tesoretto di buona musica - grandissimo per valore - ma piccolissimo di numero. Ma la fuga del K 387, il mutare continuo delle sue dinamiche, il ricominciare e svicolare, cambiando l'ordine di entrata delle diverse voci, il suo mostrarsi solenne per brevi battute ma più spesso brillante, poco ha da spartire con la fuga intesa come geometrica immagine dell'ordine e dell'equilibrio universali cara anche alla filosofia massone. «Com'è bello, nel finale, il tema appassionato del contrappunto rigoroso che sboccia con la spontaneità di un frutto naturale e maturo dal primaverile e germogliante fermento delle pagine precedenti» (Hermann Abert). Un rigore libero, «appassionato», che consapevolmente confonde assieme le forme della fuga e della forma sonata con nuova arditezza, fino a creare «l'illusione di una fuga» (Bernard Fournier). E illusorie, spiazzanti perché appaiono non come una conclusione ma come un possibile nuovo inizio che tuttavia non decolla, sono le due ultime battute. Un tremolo di tutti e quattro, un gruppetto ascendente dei due violini e della viola, poi un accordo sulla tonica di sol mentre il secondo violino suona il si, la terza dell'accordo. Manca la quinta, quasi il desiderio di lasciare l'accordo non compiuto, il discorso aperto. Già alla fine del primo di questi sei quartetti possiamo capire perché Mozart abbia aspettato dieci anni a comporne di nuovi. Ventitré quartetti: ventuno in tonalità maggiore, due soltanto in minore. Il K 173 e il K 421, tutti e due in re minore. Come il Concerto per pianoforte K 466 del 1785, il Don Giovanni del 1787, l'incompiuto Requiem del 1791. Il re minore tonalità del lutto, dell'assenza, della perdita? Ma come conciliare questa prospettiva con la precisa testimonianza di Constanze: Ella confermò che davvero egli scrisse il Quartetto in re minore mentre lei stava dando alla luce il loro primo figlio; moltissimi passaggi esprimono le sue sofferenze, specialmente il minuetto (una parte del quale ci ha cantato).<12 Il K 421 - il più breve dei sei: 408 battute, neppure la metà delle 822 del K 464, il più lungo - viene composto tra il 14 e il 17 giugno 1783 e il 17 giugno nasce Raimund Leopold, il primo figlio di Constanze e Wolfgang, che vivrà soltanto due mesi. Ancora una volta, affidare alla tonalità prescelta il compito di indicare il carattere di fondo di una composizione appare ipotesi non fertile, se confrontata con la ricchezza di inventiva e di ispessimento armonico di questo quartetto, a cominciare dal primo movimento, l'«Allegro moderato». La presenza di aree tonali, come quel la minore della misura 46, raggiunte senza apparenti ragioni funzionali ma per puro raptus espressionistico ante litteram, va considerata nel quadro dello straordinario arricchimento e della turbolenza cui il linguaggio armonico mozartiano va incontro in questi anni che seguono immediatamente al fatale trauma bachiano [...] L'immensa tensione accumulata in questo primo movimento fa sì che il baricentro dell'intera opera gravi su di esso, scaricandone il peso nei contrafforti costituiti dagli altri tempi: nei quali, salvo le impennate del minuetto e della formidabile conclusione delle variazioni, non si può non avvertire un progressivo allentarsi di quella morsa inesorabile (ciò che non avverrà, a onta del suo finale in modo maggiore, o forse proprio a causa di esso, nel grande contraltare del Quartetto in re minore, il Quintetto in sol minore K 516).<13 Raptus espressionistico: la definizione di Carli Ballola non è un'esagerazione. Le prime quattro battute sono indicate sotto voce, e al loro interno accade moltissimo: il salto d'ottava discendente e il trillo del primo violino rispettivamente alla prima e alla seconda battuta, il suo brusco salto di decima - re-fa - che chiude la seconda battuta, mentre sotto di lui gli altri tre strumenti procedono con passi diversi: mobili e ben scanditi il secondo e la viola, solenne e fermo come un corale il violoncello. Alla quinta misura, radicale cambio di passo: tutti suonano forte all'unisono. Appena iniziato, il quartetto è già segnato da una tensione che si accumula, si placa, di nuovo si afferma, governata da una maestria ormai sovrana. Salto d'ottava: affermare e ripetere la stessa nota, o salendo o scendendo. In questo caso, scendendo dal re sul quarto rigo al re sotto il primo rigo del pentagramma. Sempre un re, ma quanto diverso: lungo e luminoso il primo, breve e scuro il secondo. Il suono, il suo colore, il suo spessore, è un parametro decisivo nelle intenzioni del compositore e nella percezione di chi ascolta. E qui Mozart subito scurisce, inquieta. Il rapporto tra tensione e distensione che segna il tema d'avvio non si placherà più, fino all'arrivo di quella battuta 46, così inattesa, perentoria e libera, così marcata nella sua teatralità: preparata da un piano, suonata in pianissimo, seguita da un crescendo di tutti, dal trillo della viola, dal gioco alternato di forte e piano su note puntate, cioè fortemente scandite e accentate. Diventa difficile attribuire a questo movimento un determinato carattere, uno soltanto: quel prevalente tono di mestizia sottolineato da molti commentatori. Si percepisce più volte, indubbiamente, ma se risalta è proprio perché questo colore rassegnato viene attraversato da continue, perfino rabbiose, impennate dinamiche, luminose aperture cantabili, subito contraddette da scure tensioni. Anche la musica strumentale è teatro e il teatro vive di contrasti, non di tinte uniformi. Fino alle sei battute della coda, dove nell'insistere veloce delle terzine del secondo violino appare piuttosto esplicito l'omaggio al primo dei quartetti dell'op. 33 di Haydn. Una citazione, ma tutt'altro che letterale, perché questo primo movimento termina com'era iniziato: fremente di energia non repressa, ma neppure risolta e infine bruscamente spenta. Le grida del parto - se prestiamo fede al racconto di Constanze - si "sentono" a battuta 31 e 47 dell'«Andante». Nella prima, sono i salti di ottava discendente dei due violini e della viola, contraddetti dal moto ascensionale del violoncello, a dare l'impressione di un urlo e di una spinta; poi, dopo lo sforzo, ecco il riposo di un piano, mentre lo sguardo sempre più si rasserena. A battuta 47, invece, balza in primo piano l'aspro accordo forte e staccato seguito da una pausa dalla quale si esce, ancora, con un piano che cresce: la vita è arrivata. Drammaturgia di una nascita. Ma non perdiamoci in rischiosi descrittivismi. Se questo movimento, con la sua forma da capo, immaga, è per il tema che Mozart inventa. A battuta 3, mezzoforte - cioè farsi sentire, notare, però senza alzare troppo la voce - ecco una terzina ascendente del violino e una quarta nota, più lunga (tre semicrome e una croma): affermano la tonalità di partenza del movimento, il fa maggiore, e insieme l'inizio del viaggio. Già alla sua prima comparsa questo motivo incatena la fantasia del compositore al punto da fargli allungare il tema su cinque battute, dopodiché esso domina con le più diverse varianti l'intero tempo, eccetto il bellissimo, trasognato episodio in la bemolle maggiore. Affine a questo procedimento è un altro tratto caratteristico, cioè la occasionale sostituzione dei temi con piccoli motivi di breve respiro, che vengono poi sviluppati tramite la ripetizione e la variazione sulla base di un cammino armonico non di rado audace. Si tratta ora, tradizionalmente, di frammenti di temi principali, come all'inizio dello sviluppo del primo tempo del K 421, ora di elementi autonomi, come nell'«Andante» del K 465. Tali episodi devono aver accresciuto la diffidenza dei contemporanei nei confronti del «romantico» Mozart; e in effetti non siamo più molto lontani dal lavoro di cesello caro ai romantici. (Hermann Abert)<14 Le più diverse varianti: quell'attacco forte di battuta 10, quell'inciso, prima piano poi forte, di battute 24 e 25, quella secca scansione delle battute che seguono. Il movimento ha la forma del da capo: le frasi, le idee, vengono prima esposte e poi ripetute; la seconda volta, però, non deve essere identica alla prima, anche se le note sono quelle. Sta alla sensibilità degli interpreti proporre delle diverse intenzioni: un respiro, un'esitazione, una sottolineatura. «Non è grand'uomo chi non varia» dicono i trattati di canto settecenteschi. Chi non cambia intensità, intenzione, sfumature, nella voce come nel suono. Se non accade così, questa risorsa, intensamente sfruttata dagli autori del periodo barocco e classico, non svelerà la propria grandezza, che è la convivenza dell'identico e del diverso, la loro sovrapposizione incrociata. Si crea così la semplicità profonda di questo movimento, la sua trasparenza solo apparente, perché le pause frequenti generano affanno, attesa, spezzatura del tempo calmo. Pause che aumentano di numero e di significato quanto più ci si avvicina alla fine, in una continua alternanza di sistole e diastole: il motivo ascendente che conosciamo dall'inizio, dalla seconda battuta, e una frase che scende; il suono e il silenzio, il piano, il mezzoforte, il forte, il crescendo, poi ancora il mezzoforte per chiudere in piano. Sembra facile essere semplici. E questo non è un movimento consolatorio, se mai il Mozart della maturità lo è stato. Il «Menuetto» ritorna alla tonalità del re minore e prosegue l'erosione dall'interno di questa antica forma di danza, espressione esemplare di un mondo e dei suoi equilibri sociali e fisici - nel danzare il minuetto, la coppia non si tocca - che a fine Settecento si sta sgretolando. Come nel «Menuetto» del precedente quartetto, Mozart inizia con un inciso forte, a cui segue una continua oscillazione che spezza la prevedibile simmetria, mentre frequente è il ricorso alle alterazioni cromatiche - i diesis (diesis), i bemolle (bemolle), i bequadro (bequadro) - che accentuano il disequilibrio del cammino, e alla finta risoluzione. La nota do diesis, sensibile della tonica di re, invece di risolvere sul re, ritrovando per così dire la strada di casa, scende dal diesis al do naturale e riavvia il cammino: sei arrivato a un passo dalla meta, ma quell'ultimo passo non riesci a farlo. E ricominci, e ancora, e ancora, e infine finalmente ce la fai, e ti siedi. Ma per un attimo soltanto, perché quando attacca il trio, si salta sulla sedia: chi sta prendendo in giro, Mozart? Questo trio in re maggiore è un minuetto esasperato, caricaturale. Un puntuto ritmo lombardo - una nota breve accentata seguita da una di durata superiore - del primo violino comincia a salire verso il registro acuto e sovracuto: è una bambola meccanica che sta danzando, accompagnata dal ritmo regolare di un battito scandito dal pizzicato degli altri tre strumenti. Poi, la viola riprende a suonare coll'arco e accompagna, facendogli da quinta, il cammino da diva un po' rimbambita, ma certamente ancora molto vanitosa, come se si sentisse tutti gli occhi addosso, del primo violino. Le battute finali del più bizzarro e ironico trio scritto da Mozart precedono la ripresa del minuetto da capo. E dalla caricatura si ritorna alla tensione. Per il finale, «Allegretto ma non troppo», Mozart sceglie la risorsa del tema con variazioni. Sono cinque, ognuna diversa dall'altra e tutte previste con il da capo. L'avvio è sul ritmo calmo di una siciliana, antica danza originaria della Sicilia, molto usata nella musica strumentale e vocale del Sei e Settecento (Bach chiama «Siciliano» un movimento della Partita in sol minore per violino e della Sonata per flauto in mi bemolle maggiore) e ispirata, qui, all'«Allegretto conclusivo» del quinto quartetto dell'op. 33 di Haydn. Il tema è esposto in due periodi, di 8 e 16 battute, con ampiezza d'orizzonte, utile a entrare in confidenza col suo carattere, che presto diventa febbrile di accelerazioni: anche in questa occasione, Mozart non rispetta il passo, l'atmosfera del motivo prescelto. La calma della siciliana si lascia attraversare da impennate repentine, da attacchi di suono forte, da trilli, da pause, da numerose alterazioni. Una siciliana inquieta, così diversa da quella composta da Haydn. Le variazioni passano da un disegno ornamentale costruito sulla frase d'avvio del primo violino e segnato dalla levità della grazia, a un inquieto incrociarsi di ritmi diversi, al protagonismo molto mobile e con continue variazioni dinamiche della viola. E a battuta 65 della terza variazione appare una formula ritmica di efficace drammaticità, con l'indicazione per i due violini e la viola, che già procedono ognuno su un proprio ritmo, di fortepiano, previsto però in momenti diversi della stessa misura, mentre il violoncello, dopo l'attacco forte, ha una pausa, poi riprende forte, poi ancora tace. Le quattro voci diventano quattro differenti sorgenti sonore. Nella quarta variazione, Mozart sceglie il re maggiore e tutto sembra placarsi, nel segno di un sorriso condiviso, senza contrasti. Nell'ultima, ritornano il ritmo di siciliana dell'inizio e anche la tonalità di re minore. Il tempo indicato è Più allegro e la conclusione è affidata a una frase ripetuta sei volte del primo violino. Parte e sempre si interrompe e sempre riprende, più acuta, più stridente, più sola. Gli altri strumenti fanno ala a questa solitudine, come in un compianto. Un cordoglio scolpito nel marmo, di composta grandezza neoclassica, suggella una pagina drammatica, tanto più sorprendente qui, alla fine di una serie di variazioni il cui compito dovrebbe essere quello di divertire, di sorprendere. Nessun altro quartetto di Mozart, né prima, né dopo, si conclude con altrettanta afflitta tensione. È a questa musica che pensava Stendhal quando, nel 1823, di fronte alle «vestigia» della basilica romana di San Paolo Fuori le Mura visitata il giorno dopo l'incendio che l'aveva devastata, provò una sensazione «triste come la musica di Mozart»? L'ultimo gesto del primo violino è un reclinare il capo: ancora un salto d'ottava, esattamente come all'avvio del primo movimento, ma questa volta partendo da un registro più acuto: dal re sopra il rigo al re sul quarto rigo. Di nuovo, e definitivamente, scendendo. Con coerenza assoluta. La fine già iscritta nell'inizio. In «Mozart, il classico», articolo apparso in occasione del secondo centenario della nascita, nel 1956 così scriveva Fedele D'Amico: [...] un senso della costruzione, dell'arco architettonico, che è già beethoveniano e romantico; e che non è riducibile soltanto all'uso delle forme che domineranno l'Ottocento, ma consiste, oltre quelle, in un sentimento fermissimo dell'unità del discorso in qualsiasi forma, nella lampante, organica rispondenza d'ogni particolare al tutto, quale non si riscontra in nessuno dei suoi ispiratori (lo stesso Haydn, più vecchio di lui di ventiquattr'anni, e destinato a sopravvivergli per altri diciotto, conquistò una piena sicurezza del discorso solo alla metà della carriera, appunto sotto il suo influsso diretto).<15 Il Quartetto in mi bemolle K 428 inizia con un «Allegro ma non troppo» e termina con un «Allegro vivace». Mi bemolle all'avvio, mi bemolle alla conclusione. Salto d'ottava alla prima battuta, salto d'ottava alla fine. Mozart indaga qui le possibilità, destinate a un grande futuro, della forma ciclica, di un'idea che, con maggiore o minore evidenza, persiste e nelle sue metamorfosi rimane riconoscibile all'interno di tutta l'opera. Incomincia con sensazioni incerte, inquiete e severe, a esse fa seguire espressioni di enorme sofferenza, per arrivare infine nel minuetto e nel finale a una serenità semplice, anche se talora un po' bizzarra, come nel secondo tema del finale. Mozart apre il primo movimento con una melodia all'unisono e lineare, che non viene completamente determinata né dal punto di vista armonico, né da quello metrico. (Wilhelm Seidel)<16 Senza concederci neppure il tempo di un preambolo, di un acclimatamento, Mozart abbandona l'atmosfera espansiva, esuberante, con cui si era concluso il precedente quartetto e ne crea, all'inizio del successivo, una opposta. Instabile, indeterminata, continuamente oscillante tra dire e non dire, crescere e diminuire del suono, espandersi e contrarsi, dialogare e procedere in solitudine. Il primo violino più volte afferma il proprio desiderio di prendere il volo, ma appena si eleva, viene come costretto a ridiscendere dall'incalzare del violoncello: l'acuto e il grave, i poli del suono che creano l'energia e la sua dialettica. Stessa frase, stesso salto d'ottava, anche per l'inizio del secondo tema: il tono generale non cambia, si fa però più febbrile e incalzante; ancora una volta, Mozart sceglie di lasciar convivere gli opposti, senza far prevalere una o l'altra delle direzioni possibili, ma assecondandole tutte. Lo strumento per realizzare questa idea è l'imitazione tra le diverse voci, il gioco delle domande e delle risposte, che così frequentemente cambia direzione. Per il finale del movimento, Mozart sceglie un congedo veloce, una abruptio, efficace risorsa retorica per lasciarci con il desiderio inappagato di sapere come andrà a finire quella contesa. L'«Andante con moto» ribadisce, all'inizio, l'atmosfera indeterminata dell'avvio del primo movimento: forma ciclica, al punto che molto, e forse inutilmente, si è discusso se questo movimento abbia uno o due temi, se il secondo, che parte dal forte di battuta 10, sia una trasformazione del primo o possieda invece una propria autonomia. La continua modulazione armonica e l'intrecciarsi della linea melodica rende problematica qualsiasi risposta: stabilita una regola, la dialettica tra due temi come motore del procedere della narrazione, un artista proverà presto il bisogno di svilupparla, approfondirla, infrangerla. Creato il primo stupore, ecco arrivare subito il secondo, che certo non può aver lasciato indifferenti i musicisti del tempo. Catafratti come ormai siamo nelle nostre certezze sul procedere progressivo della storia della musica e delle sue sintassi, eccoci pronti a riconoscere nella figura di quattro note ascendenti del secondo violino - da battuta 15 a 17 e ancora da 20 a 22 - una somiglianza con l'inizio del Tristano di Wagner. Come se fosse questo il solo passaggio in cui Mozart fa ricorso al cromatismo, come se le scelte di drammaturgia di Wagner potessero non avere degli antecedenti. All'interno di un movimento che non si vuole ancorare ad alcuna boa tonale, Mozart esaspera questa instabilità usando una risorsa ben nota ai compositori della classicità e rendendola funzionale al percorso che ha in mente per il movimento lento di questo quartetto, che parla la stessa lingua dell'«Allegro» iniziale. Per Wagner, il cromatismo non sarà un episodio, ma, grazie al dis-equilibrio che crea, un pilastro fondante la sua nuova concezione di teatro musicale, centrato sul sentimento della perdita e del lutto. L'«Andante» mozartiano procede verso il suo epilogo riproponendo con l'indicazione sforzando piano, affascinante come un ossimoro, la frase del primo violino presente già nel primo movimento; subito dopo tutto rallenta, si arresta, piano. In modo che il forte con cui si avvia il «Menuetto» risuoni forte come uno schiaffo che sveglia. Più breve sarà la pausa tra secondo e terzo movimento, più netto si percepirà l'effetto. È il momento della distensione dopo tanta «meditazione filosofica» (Georges de Saint-Foix); la frase caratterizzante è sbalzata all'insù, l'armonia ben definita, i ruoli tra i quattro strumenti chiaramente distribuiti, il ritmo vivacissimo, sempre alternando la fretta e la calma, la corsa, perfino sfrenata, e il riposo, il fortissimo al piano. Poi, il gioiello del trio: l'inizio è in una tonalità diversa da quella degli altri tre movimenti - da mi bemolle maggiore si passa a si bemolle maggiore -, poi si susseguono due altre tonalità minori. L'instabilità armonica del quartetto viene confermata, ma muta l'indole, quando il composto slancio melodico affidato al primo violino incontra il sussulto di battuta 9 e tutti passano dal piano al fortepiano, mentre il suono si impenna nell'acuto. Dopo il da capo, la ripresa del motivo viene affidata al secondo violino, al quale risponde la viola col suo suono ambrato, che precede un breve crescendo del primo violino, culminante in un forte, prima che nelle ultime cinque battute tutti reclinino verso il piano. Così, quando, come consuetudine, il minuetto riprende con un accordo forte, netta è la percezione del passaggio, dell'uscita dal breve momento sospeso del trio. Scappa, fermati, riprendi a correre, fermati ancora, di nuovo scatta in avanti: è formidabile l'abbrivio che, da subito, connota l'«Allegro vivace». Attacca piano, ma - dopo la consueta esposizione di 8 battute - a battuta 9 ecco il soprassalto di un forte: è l'affermazione del contrasto dei due temi, lieve e che tutti coinvolge il primo, marcatissimo il secondo, affidato solo al primo violino e la cui apparente «serenità» non si direbbe né «semplice», né «talora un po' bizzarra». La ripetizione dell'esposizione, prevista dalla regola del tempo, più che ribadire quei motivi per farceli entrare in testa, ha l'effetto di rallentare la velocità del viaggio. Ma non era ancora giunto il tempo di mettere in discussione questa consuetudine. Ci si ragionerà molto tempo dopo, quando di fronte alla dirompente energia vettoriale delle sinfonie di Beethoven alcuni interpreti novecenteschi si chiederanno se eseguire la ripetizione o abolirla e tirar dritto. Il movimento procede inglobando i princìpi della forma sonata e del rondò, perché i due temi ci sono, ma c'è anche l'insistente ritorno del motivo d'avvio, dentro il quale è riconoscibile la frase iniziale del primo «Allegro»: forma ciclica, appunto. La risorsa retorica dello stop and go, della corsa febbrile e della pausa improvvisa di silenzio, cara anche a Haydn, è la più adatta a creare sorpresa. Dall'interno di questo architrave del movimento, si aprono spazi per veloci passaggi contrappuntistici, per l'oscillare tra il grave e l'acuto, per lo scambio frequentissimo della frase tra le diverse voci. A battuta 104 appare l'indicazione ten. (tenuto, suono tenuto) prescritta due volte, per tutti, per sei battute. Ancora una volta emerge la preoccupazione che le intenzioni siano rispettate dagli interpreti, in questo caso contraddicendo la prassi consueta di un primo tempo forte della battuta e di un secondo tempo più debole, come di rimbalzo. Mozart invece «vuole tenere il suono, senza alcuna soluzione di continuità e questa sua estrema precisione di indicazioni espressive, alle quali lo stesso Haydn non prestava in partitura altrettanta attenzione, delinea già la scrittura musicale del futuro» (Antonello Farulli). Formidabile è la costruzione del finale: cinque battute di rallentando, una battuta di pausa, poi l'indicazione a tempo, precedono l'invenzione di un nuovo tema del primo violino. Un dono inatteso, un legato morbidissimo, un volgersi calmo dello sguardo, un primo trillo, un secondo, una pausa ed è già scomparso, dissolto nella riaffermazione del motto che, più di ogni altro, caratterizza l'intero quartetto. Per due battute primo e secondo tacciono, poi pianissimo ricompaiono, mentre questa volta per quattro battute sono viola e violoncello a tacere. Che cosa sta per accadere? Ormai siamo abituati a questi rallentamenti del flusso di energia, utili a creare l'attesa del forte di tutti che avvia la conclusione perentoria, riaffermando la tonalità d'inizio. Se, nell'età classica, un viaggio comincia, prima o poi deve anche finire, tornando lì dove era iniziato. * Siamo giunti alla metà del ciclo dei quartetti dedicati a Haydn. Ognuno di essi ha un suo proprio carattere, o ne presenta, insieme, diversi? Chi cerca il carattere musicale richiede l'elemento particolare di unità dell'opera, come già affermava la teoria del XVIII secolo. Invece l'analisi - come è espresso dal termine - suddivide l'opera nelle sue parti. Inoltre la comprensione del carattere musicale ha una sua componente estetica. Christian Gottfried Körner, nel 1795, riteneva che il carattere di un'opera derivasse dal rapporto in cui il compositore collocava pathos ed ethos. Egli considerava come sue categorie il "passivo" e l'"attivo". L'analisi tuttavia si occupa di elementi tecnici e la lingua che noi usiamo è quella specifica della teoria musicale. Di conseguenza chi si vuole avvicinare al carattere di un'opera musicale attraverso l'analisi, deve però indirizzare il suo metodo verso gli stessi elementi che sono alla base dell'unità dell'opera; deve far valere un interesse che superi l'elemento tecnico e renda libera la visione dell'elemento estetico o, come si dice comunemente, dell'umano. (Wilhelm Seidel)<17 Quale l'ethos, quale il pathos di ognuno e di tutti questi quartetti? La consuetudine allora prevalente - in vigore ancora nel 1801, quando Beethoven pubblica i quartetti dell'op. 18, suo esordio nel genere - esigeva di raggiungere il numero di sei. Per un compositore significava non solo scrivere ventiquattro movimenti divisi tra tempi lenti e veloci, ma soprattutto essere capace di attirare l'attenzione del pubblico di musicisti ai quali erano destinati e che rappresentavano i possibili acquirenti. Bisognava, per così dire, piacere a prima vista, soddisfacendo gusti diversi, senza annoiare, senza stancare, senza mostrarsi banali e monotoni, oppure troppo complessi, trovando il sempre instabile punto di equilibrio tra personalità propria e gusto medio. Obiettivo che Mozart, in questi quartetti, in parte fallirà. Ma nella progressione dal primo all'ultimo si delinea una precisa traiettoria degli affetti, un'etica del racconto? La fruizione della musica - sia quella del singolo ascoltatore, sia quella del critico, del giornalista, del compositore o di un pubblico generalizzabile in via ipotetica - non avviene in ingenua immediatezza, come simula l'ideologia dei prodotti dell'industria culturale confezionati come merci. Essa è invece determinata da condizioni preliminari in parte difficili da dimostrare per vie di fatto. Sembra una banalità dire che tra ascoltatore e oggetto estetico non esiste un rapporto puro e incondizionato; tuttavia in casi estremi questa constatazione rende palese che il ripudio o l'entusiasmo per un brano di musica ha a che vedere più con il pregiudizio dell'ascoltatore che con il processo o l'oggetto dell'ascolto [...] Nei cosiddetti giudizi estetici si insinuano in continuazione pregiudizi, sorti precedentemente e separatamente dall'oggetto, poi trasferiti inconsciamente nel processo di valutazione della percezione musicale. Ciò significa che la ricezione è di principio condizionata dalla disposizione emozionale, dalla socializzazione e dalle scale di valori dei diversi gruppi sociali. (Martin Zenck)<18 Vicende biografiche, culturali, emotive condizionano la relazione tra chi ascolta e l'oggetto sonoro che si sta ascoltando e fanno dell'ascolto un atto, una condizione, un'aspettativa, una memoria, una verità, un vissuto né «ingenuo», né «immediato». E per ognuno di noi diversamente profondo, nell'ethos come nel pathos. Diversamente analitico e diversamente sintetico. La ricezione dell'opera di Mozart è un esempio perfetto dei continui mutamenti del gusto e dei giudizi. Li documenta bene Gernot Gruber in La fortuna di Mozart, libro fondamentale per comprendere le variazioni nella ricezione mozartiana, a partire dal 1800: «Con il mutamento dell'estetica intorno al 1830, con la fine dell'epoca goethiana, del classicismo viennese e del romanticismo tedesco in senso stretto, la vitalità della sua musica divenne un problema che provocò prese di posizione diametralmente opposte». Nella Vie de Mozart del 1814, Stendhal è il primo a proporre l'associazione tra il compositore - «la sua felicità era cercare sulla tastiera le terze e niente eguagliava la sua gioia quando aveva trovato questi accordi armoniosi» - e Raffaello, che venti anni dopo affascinerà anche Robert Schumann: Serenità, tranquillità, grazia, segni distintivi delle opere d'arte dell'antichità classica, sono anche caratteristiche della scuola mozartiana. Come il Greco raffigurava il proprio Giove tonante pur sempre con il viso sereno, così Mozart trattiene i suoi lampi [...] Il musicista colto potrà studiare una Madonna di Raffaello con lo stesso profitto con cui il pittore potrà studiare una sinfonia di Mozart. «Dimmi come vedi Mozart, e ti dirò chi sei» ha scritto Massimo Mila. E chi in lui vuole vedere «l'ottimista a tutti i costi» (Hermann Abert), avrà difficoltà a darsi ragione dei numerosi passaggi della sua musica, così spesso presenti anche nei quartetti, che non corrispondono a tale immagine. Oggi la sua musica incarna il non plus ultra dell'armonia luminosa e serena. Rapiti, si fa l'elogio di tutte le interpretazioni in cui dominano una perfezione paradisiaca, senza tensione nei tempi che devono essere perfettamente naturali, nei colori che non devono avere durata. Nessun conflitto, nessuna disperazione è percepibile. Questa musica è ridotta a un dolce sorriso, a un'armonia rasserenante e perfetta. Ogni interpretazione quindi che non rispetti queste convenzioni sacre, non è "mozartiana"; una volta di più, avvicina troppo Mozart a Beethoven. A parer mio, se la musica di Mozart è così perfetta è perché contiene sicuramente tutto questo, ma dice anche infinitamente di più. Contiene tutta la pienezza della vita, dal dolore più profondo alla gioia più pura. Esprime i conflitti più duri, spesso senza offrire una soluzione. Il quadro che ci offre è spesso terrificante. Questa musica è più che bella, è formidabile nel senso più vero del termine: è sublime, vede tutto e sa tutto. (Nikolaus Harnoncourt)<19 * Nella sequenza dell'Opera X pubblicata da Artaria il Quartetto in si bemolle K 458, datato sull'autografo Vienna 9 novembre 1784, viene al terzo posto e precede il Quartetto in mi bemolle maggiore K 428, composto tra il giugno e il luglio del 1783. Una scelta di impaginazione non rispettosa della cronologia, che risponde evidentemente a una strategia di comunicazione concordata tra compositore e editore. Probabilmente è stato ritenuto necessario, pensando sia agli esecutori che al pubblico, stemperare la tensione accumulata nel quartetto precedente e offrire, ora, un momento più disteso. Questa serenità ha provocato al K 458 qualche rischio di sottovalutazione: «Ecco dunque apparentemente il più leggero, il meno profondo dei sei quartetti, e quello che più si avvicina allo stile di Haydn» scrive Harry Halbreich, per poi subito precisare: «In realtà, il Quartetto non è per nulla inferiore ai suoi fratelli per quanto riguarda la bellezza espressiva, la ricchezza inventiva e la perfezione della scrittura».<20 In questo giudizio vive, anche, un pregiudizio: che nel Mozart della maturità la leggerezza della scrittura sia un limite, se altri e profondi orizzonti gli sono più congeniali. Mozart non è mai soltanto leggero, o soltanto erudito: sa scrivere in modo comico e tragico, sapiente e brillante, ritmicamente, fisicamente travolgente e sospeso in un'atmosfera metafisica. Nulla è più difficile che essere semplici, per chi conosce e frequenta la profondità. La caccia: il titolo, apocrifo, dato al K 458 è limitato e fuorviarne. Giustificato soltanto dal motivo d'avvio, una fanfara dei due violini subito seguiti da viola e violoncello che può far pensare al richiamo dei corni durante una battuta di caccia. Ma presto la scena cambia di colore e al carattere rustico e forte segue un'intimità festosa, enunciata dallo svettare del primo violino. Dopo un acuto, infinito trillo che si prolunga per quattro battute, è lui a proporre una frase di cinque note vicine - do-re-do-re-do - ripresa subito da, nell'ordine, secondo, viola, violoncello e dal violoncello affidata di nuovo a viola, secondo e primo. Immaginiamo di vederla mentre viene suonata, perché Mozart crea qui una drammaturgia visiva e sonora che nella distribuzione delle parti di un quartetto per archi emerge con grande evidenza. Ma la giovialità di questo dialoghetto viene, repentinamente, interrotta: il primo violino tace, la voce che conduce passa al secondo, il cui passo è scandito dall'accompagnamento di viola e violoncello: ancora quella frase, ma ora appare in note puntate, mentre la dinamica prescrive, simultaneamente, fp, cioè fortepiano, in inquieta convivenza degli opposti, tra gentili slanci melodici e improvvisi inspessimenti del ritmo, prima di un calando che precede il pianissimo, nell'infittirsi delle sghembature delle pause. Nella seconda idea, cantabile e insieme febbrile, che appare al momento dello sviluppo, quella frase di cinque note ritorna, però mutata. Metamorfosi del materiale di partenza, insieme riconoscibile e diverso. Altre sfumature, più introverse, di uno stesso discorso: mozartiane sottigliezze nell'esercizio dell'arte della conversazione. Infine, la coda: non poche battute, ma un ampio discorrere, ancora insistendo sul materiale di partenza e portando qui in primo piano la forza che cattura del suono e dell'incessante variare delle sue dinamiche, in un'accelerazione che conduce al forte finale. Movimento leggero? Sì, anche. E l'intenzione era proprio questa. Il breve minuetto è davvero così regolare come appare nella scansione delle sue otto battute? Nei minuetti dei primi due di questi sei quartetti, Mozart si è divertito a spiazzare le attese e le abitudini; qui, l'andamento è più moderato, i contrasti con il trio contenuti. Prevale tuttavia una certa gravità, che nasce proprio dall'organizzazione interna dell'esordio: «L'intero tema comprende otto battute; perciò l'irregolarità è per così dire sottocutanea (cioè non appare in superficie)» ha scritto Arnold Schönberg. Perché quelle otto battute hanno questa articolazione: 3 + 1 + 1 + 3. Lo sforzando centrale interrompe la prescrizione del legato: l'arcata del suono si avvia, si interrompe, viene ripresa. E la rottura dell'equilibrio prevedibile è realizzata. Dopo il da capo, da battuta 9 inizia la ripresa dolcemente variata e sviluppata del tema, marcata da un crescendo che eleva la temperatura del movimento e lo conduce all'entrata del trio, e tra tutti i quartetti mozartiani, questo è l'unico caso in cui il trio mantiene la stessa tonalità del minuetto che lo precede e contiene. Il passo però è ora diverso, sempre piano e qui sì danzante e regolare, se non fosse per quel breve vuoto che si apre sotto il primo violino, lasciato solo per un'intera battuta; come una mancanza di fiato, di sostegno, che obbliga a fermarsi per un istante, per dare poi voce a quella striatura secca, improvvisa come un taglio di luce radente creato dal crescendo di tutti seguito da due trilli del primo violino. Poi, ritorna l'indicazione del legato e il trio va verso la sua conclusione, per lasciare posto, convenzionalmente, al minuetto da capo, che ripropone il suo incedere compassato, misterioso più che sussiegoso. La musica di Mozart è, in un certo senso, il momento "occidentalizzante" del film. Esprime il mio modo di guardare all'Oriente... I temi di Mozart, tratti dall'«Andante» del Quartetto per archi n. 15 in re minore K 421 e dall'«Adagio» del Quartetto per archi n. 17 in si bemolle maggiore K 458, incorniciano la storia principale del film, ossia quella di Zumurrud e Nur er Din. Pasolini usa pertanto Mozart come strumento musicale per accostarsi all'oniricità del mondo orientale. Le audaci prospettive dell'«Andante», date da una sintassi tonale assolutamente scontata e ricca invece di tensioni e di cromatismi, e la cantabilità dell'«Adagio» ben si prestano così ad accompagnare le avventure fiabesche dei due protagonisti. (Leandro Lucchetti) <21 L'ampia citazione dei movimenti lenti del K 421 e del K 458 nel Fiore delle mille e una notte è il più esteso omaggio alla musica di Mozart compiuto da Pier Paolo Pasolini. Nel segno dell'«oniricità», del placarsi dei tormenti e delle inquietudini nella dolcissima felicità erotica dei due adolescenti protagonisti. Come se questa musica potesse come nient'altro rappresentare, in qualsiasi luogo, tempo e contesto, l'armonia che l'Occidente è stato capace di raggiungere e raccontare. Il terzo movimento del Quartetto K 458, più ancora dell'«Andante» del K 421, appartiene all'universo del fiabesco possibile alla musica, quando - come accade qui - sospende il flusso consueto, il trascorrere che non si può arrestare del tempo, e ne inventa uno suo proprio, dove ogni altra scansione è sospesa. Una forma narrativa che appartiene in modo esclusivo alla musica. Dopo la prima battuta, così intensa di indicazioni dinamiche ed espressive nel passaggio piano-legato-sforzando-pausa-piano che precede i due ultimi ottavi puntati, tre volte si avvia, sempre in crescendo, una frase di sei note ascendenti del primo violino: più lunghe la prima e l'ultima, più brevi le altre quattro; ogni volta la frase ritorna simile e ogni volta diversa: nell'altezza del suono, nella sottolineatura dell'ultima nota, della quale cambia l'intensità, prima forte, poi due volte piano. Muta anche la velocità, perché la seconda volta le quattro note centrali sono prescritte più rapide, in sedicesimi invece che in ottavi. Soltanto adesso, dopo averci catturato con questo motivo che non può concludersi così, che deve condurre a qualche esito, finalmente si dispiega l'ala del canto. A battuta 7, mentre il violoncello crea il fondale sonoro, secondo violino e viola aprono l'orizzonte del suono, lo inondano di una luce profondissima e sfumata. Ora, Mozart ripete tre volte la nuova frase del primo violino, alternando due risorse complementari, il legato e le note col punto, ognuna ben scandita. Un'intuizione profonda di drammaturgia strumentale, come se il protagonista volesse prima soltanto abbandonarsi al canto, poi ascoltarsi, riflettere su quelle stesse note, riascoltarle una per una con maggior nitore. Il motivo, che non sopporterebbe fioriture, abbellimenti, che va custodito nella sua crepuscolare bellezza, gira tra violino e violoncello, ritorna nella ripresa, diventa inquieto, si allontana, rallenta, quasi scompare, si riaffaccia. Senza fretta, perché battuta dopo battuta possa dispiegare tutto il suo fascino, lasciandoci abbandonare al suo appartenere a un mondo onirico, dove il sogno non è né bello, né brutto, ma è questo suono, che dolcemente, grazie alla tecnica del crescendo verso la regione dell'acuto, penetra con più forza, prima di reclinare e ancora risalire. Il suono è prima di tutto un fenomeno fisico, energia prodotta da un soffio che penetra in un pezzo di legno o di metallo, da una bacchetta che colpisce la pelle di un tamburo, da un dito che abbassa il tasto di un pianoforte, da un archetto che sfrega una corda di violino. In ogni caso, prima o poi, questione di secondi, quel suono decade. L'energia che lo ha generato, che lo ha fatto esistere in maniera sensibile, si spegne. Le farfalle vivono un giorno, il suono appena pochi secondi. Qualunque suono: una nota, un arpeggio, un accordo, una serie di accordi. Quando nasce sta già per morire, subito si dissolve nello spazio e nel tempo, non ne resterà traccia. Il suono non si può toccare, non si può vedere, non si può gustare. Eppure persiste, svelando la doppia natura concessa al nostro udito: un organo sensibile, che corrisponde all'atto del sentire come atto fisiologico e, nello stesso tempo, un veicolo che dilata il tempo dell'ascolto nella nostra percezione interiore, nella nostra memoria. Ed è a questo punto che, contro ogni legge della fisica, la musica crea un altro tempo. Un tempo che non si può misurare, un tempo che smargina e che possiede una particolarità unica: muta col mutare della sensibilità, della disponibilità, del desiderio di concedersi, di mettersi in gioco di chi ascolta, assimila, condivide oppure rifiuta questo tempo inventato dal suono. Ancora una volta, come si è notato per il primo movimento del Quartetto K 387, nella ripresa Mozart modifica il materiale di partenza, ne scombina la successione, creando un contemporaneo effetto di memoria e di novità. L'ultima battuta dell'«Adagio» del K 458 è prescritta, per tutti, pianissimo e staccato: ogni nota è preceduta da un'appoggiatura, come se il suono, mentre sente che sta per terminare il tempo concessogli, volesse ancora insistere, ancora esistere, prima di dissolversi nel silenzio dal quale nasce e che sempre lo attende. Parlando delle sinfonie, Alfred Einstein ha scritto che Mozart percorre una strada in grado di condurre «dal decorativo all'espressivo, dall'esteriore all'interiore, dalla festosa occasionalità alla confessione spirituale». Non solo nelle sinfonie: accade anche in altri generi, anche in questo quartetto. Per l'«Allegro assai» che conclude il K 458, così come per il «Menuetto», Mozart ha scritto e poi cassato un diverso inizio. La prima versione del «Menuetto» era più incalzante e povera nelle indicazioni dinamiche, che nella stesura finale invece abbondano e sono importanti per scandire l'andamento più disteso del cammino. Per l'«Allegro assai» - che ripropone la tonalità iniziale di si bemolle, costante in tre dei quattro movimenti del quartetto e lasciata solo per l'«Adagio» in mi bemolle - Mozart pensa dapprima a un tempo Prestissimo (l'indicazione scompare nella versione finale), a valori più lunghi delle note, a un maggiore protagonismo del primo violino e del violoncello. Poi, il ripensamento: la durata si accorcia, il ritmo si fa più serrato, i quattro strumenti sono tutti più presenti.<22 Eccola di nuovo la leggerezza, dopo la profondità dell'«Adagio». Tutto nasce da un inciso di due note legate e vicine - si-do - prima suonate due volte piano, poi una volta forte. Affidate al primo violino, hanno la funzione di accendere la miccia, di dare l'innesco: sono seguite da due battute che intensificano e completano l'idea tematica, che ritornerà infinite volte, sempre ribadendo un tono vivace, spensierato, un'atmosfera che nello sviluppo non si addensa di altre idee o variazioni; prevale la tecnica dell'imitazione, prevedibile nel suo schematismo, mentre il secondo tema non si pone a contrasto del primo, ma entra anch'esso veloce nel flusso. Sta agli interpreti sorprenderci accentuando o alleggerendo il peso del suono, i crescendo e i diminuendo, regalarci lievi effetti di rubato (non scritti in partitura), con attacchi anticipati o ritardati. Brevi passaggi fugati, durante i quali il timone passa rapido da uno strumento all'altro, e una riesposizione che sottolinea il carattere dominante del movimento ci conducono alla coda: veloce slittamento cromatico del primo violino, suono piano degli altri, ritorno, come una perorazione, dell'inciso iniziale, gioco tra pause, accenti, note ben scandite; poi, il violino prende l'abbrivio, sale in alto, scende, si unisce al gruppo e siamo ormai al traguardo, mentre il tema iniziale una volta ancora riafferma se stesso forte, ben scandito dall'ultima quartina puntata, perentoria nell'affermare la tonalità. Allegro assai, brillante, rassicurante, felice. Studiando i diversi tipi di carta usati da Mozart per scrivere i sei quartetti, e soffermandosi in particolare sulla genesi della Caccia, Alan Tyson propone una diversa successione compositiva dell'intero ciclo: La tradizionale divisione cronologica che vuole i sei quartetti composti in due brevi e distinti archi creativi [...] risulta superata una volta accertato che parte de La caccia, il quarto quartetto, fu scritta nel 1783 e che un finale, non entrato nella versione definitiva, fu iniziato nello stesso anno. La teoria che Mozart avesse in mente ogni quartetto per intero e che lo scrivesse di getto sulla carta (una convinzione della quale ci sono poche prove fondate e che è sempre più messa in discussione) cade di fronte alla dimostrazione che parecchi movimenti erano "avviati", ma poi abbandonati e che La caccia fu composto in due diverse fasi creative, a distanza di oltre un anno luna dall'altra.<23 Beethoven ha ricopiato di sua mano il finale del Quartetto in la maggiore K 464, il più scavato, cesellato dei sei. Ricopiare, ricordava Luciano Berio, è il modo migliore per assimilare la lezione dei maestri. Nel quinto dei sei quartetti dell'op. 18 Beethoven sceglie la stessa tonalità, la maggiore, del K 464, chiama, come Mozart, «Minuetto» il secondo movimento e lascia trapelare, come un evidente omaggio, alcuni precisi riferimenti tematici. I sei quartetti dell'op. 18 furono scritti quando Beethoven aveva trent'anni e furono i suoi primi quartetti a venire pubblicati. Nel 1801 Mozart era morto da quasi dieci anni e Haydn era troppo vecchio e debole per compiere ancora granché. Alcuni quartetti dell'op. 18 sono radicalmente differenti da qualsiasi precedente composizione di tale genere, ma Beethoven aveva anche bisogno di dimostrare di poter creare, se lo avesse voluto, un'opera dalla forma e dal carattere mozartiani: per avanzare pretese alla successione e al suo legittimo posto all'interno della tradizione. I quartetti di Mozart, in particolare i sei dedicati a Haydn, avevano ricevuto la loro consacrazione intorno al 1800; essi fornirono un modello in base al quale sarebbero stati giudicati tutti i futuri quartetti, e un compositore doveva dimostrare che era in grado di cominciare là dove Mozart si era fermato. (Charles Rosen)<24 Nel K 464 la musica si genera da se stessa, come possedesse una congenita capacità di svilupparsi. Non certo come, nei tini e per un processo biologico, il vino fermenta dal mosto e neppure secondo la tecnica della "scrittura automatica" cara a Jackson Pollock. La maestria qui raggiunta sfocia nella naturalezza di un fluire lungo, potenzialmente infinito, sempre controllato. Il quartetto viene terminato il 10 gennaio 1785, un mese dopo l'affiliazione di Mozart alla massoneria viennese, e non manca chi insiste per mettere in relazione le due sapienze: quella massonica e quella compositiva. Forse, il solo possibile collegamento iniziatico è nel segno di una sovrana calma espressiva, possibile a chi ha conquistato un'interiore consapevolezza di sé. A chi è capace di guardare il singolo dettaglio come parte di un insieme organico. Non v'è più alcuna parte che valga o esista per sé, ma ognuna rientra nel tutto, da esso ricevendo significato, rango ed esistenza. Ma se si ritiene che il tratto fondamentale della teoria della conoscenza kantiana stia nel fatto che in luogo della natura subentra la norma, in luogo della sostanza la funzione, allora si può con qualche diritto affermare che questo Quartetto in la maggiore costituisca la Critica della ragion pura di Mozart. Togliendo ai temi la loro conchiusa forma melodica, trasformando il singolo particolare in una coesione, il limitato in una consecuzione ininterrotta, il sostanziale in funzionale, esso ha fatto per la musica lo stesso che aveva fatto per la logica quell'opera terminata quattro anni prima. (Erich Klochow)<25 Se la norma di un quartetto in stile severo è il prevalere della polifonia, questo è un quartetto in stile severo; se la natura della musica è la melodia, in questo quartetto la melodia non manca: a cominciare dalla frase dolcissima piano del primo violino che caratterizza il tema d'avvio dell'«Allegro», ripresa da un accordo forte di tutti e quattro. Il canto che si dispiega e il contrasto che lo contrae, la libertà e il rigore, la presenza e l'assenza: tutte le tecniche, le astuzie, i saperi interiorizzati da Mozart precipitano in un'opera la cui bellezza non consola, ma avvince, non placa, ma lascia ammirati per la sua continua tensione. Non uno di questi aspetti può vivere senza il suo doppio, senza il suo opposto, ognuno è funzionale all'altro. La volontà evidente del compositore è di tenerli assieme, in una progressione che porta la complessità a raggiungere l'apice nei due movimenti conclusivi. Comporre significa, sempre, scegliere una direzione tra le tante possibili, e qui Mozart sembra procedere più per sottrazione che per espansione del materiale. I due temi sono affidati al primo violino: tutti e due detti piano, il secondo più sfuggente nei suoi cromatismi. Temi brevi, perfino troppo brevi, se sembrano promettere uno slancio, un dispiegarsi che invece non si verifica. Il controllo sulle idee è ferreo e la principale esigenza del compositore è distribuirle tra le diverse voci, piuttosto che lasciarle espandere. Osservandole attraverso un prisma, dove l'intimità e il vigore, la certezza e il dubbio, il singolo e l'insieme, le linee orizzontali e verticali e quelle oblique del transito di una frase da uno strumento all'altro convivono inseparabili. Neppure nel breve passaggio del «Menuetto» scompare la tensione, scema la coesione, indicata subito, dalla prima battuta: tutti e quattro prima forte e poi piano. Affermare con forza e poi sussurrare: siamo oltre l'arte della conversazione, qui è un grande attore di prosa a fare il suo ingresso in scena, ben sapendo quanto è accaduto prima della sua entrata. Il tema assume subito un andamento contrappuntistico, dal quale stacca forte e marcata una frase del primo violino nel registro acuto e luminoso, come per uscire dalla dominante penombra, delineando così un inquieto chiaroscuro, tutt'altro che tradizionale in un minuetto. Le terzine veloci del primo violino caratterizzano la sezione centrale del trio, giocato su una sempre mutevole sismografia delle intensità del suono; da subito, da un piano che sale al forte, che ritorna piano, che cresce e ancora reclina in piano, nel successivo dialogo tra calando e crescendo, come se la natura prima del suono fosse mercuriale, liquida, destinata a cambiare di continuo densità e temperatura. Poi minuetto da capo, che si conclude con una lunga corona - un accordo tenuto - per condurci al piano sotto voce con cui inizia l'«Andante» in re maggiore, unico movimento a uscire dalla tonalità di la maggiore. Per farci entrare in questo labirinto, Mozart sceglie la forma del tema con variazioni. La percezione di trovarci ormai dentro non è immediata: che cosa c'è di più semplice della frase discendente del primo violino alla prima battuta, dell'entrata degli altri tre strumenti a battuta 2, di quel tranquillo gioco di scambi tra le diverse voci? Il tempo è calmo, il suono prevalentemente contenuto nel piano, con brevi accumuli di intensità in crescendo, il passo cadenzato: il movimento sembra dunque procedere nel segno prevedibile della bella variazione ornamentale. La prima affidata al primo violino; la seconda a un dialogo tra primo e secondo; la terza a una conversazione di tutti, nel protagonismo della viola. Intanto, si è creato un senso di attesa, come se qualcosa prima o poi debba succedere, mentre questa calma malinconica, attraversata da brevi fremiti cromatici, dalle tinte nere sbalzate in primo piano dal violoncello, ci ha condotto a perdere la dimensione vettoriale del tempo, a sospenderla. Un crescendo, un'impennata di tutti obbliga, al termine della terza variazione, a tendere l'attenzione. Infatti nella quarta Mozart decide di cambiare il modo e la tonalità: da re maggiore a re minore, affidando ancora al primo violino lo slancio appassionato del canto, che dal piano giunge a un forte lancinante, per poi ripiegare su se stesso, ancora impennarsi, infine reclinare, accolto come in un grembo dagli altri strumenti, mentre inizia la variazione numero 5, che ripropone il re maggiore dell'inizio. Abbiamo oltrepassato la metà delle 186 battute di questo «Andante» infinito e nel labirinto siamo ormai perduti: nel dialogo contrappuntistico, fermamente sereno, tra le quattro voci ritorna il carattere dell'avvio, come se fossimo di nuovo al punto di partenza, se la strada percorsa non avesse condotto ad alcun traguardo. Il cammino procede piano, non una sola volta in questa variazione Mozart prescrive forte; ricorre invece a un'indicazione di sforzando, non simultaneo, in successione, per dilatare l'effetto di questa crescita dello spessore del suono. Poi esige di nuovo piano e conclude con una battuta di note puntate, nell'approdo di tutti sulla tonica di re. E qui, ora, l'imprevedibile colpo di genio: mezzoforte, per una battuta da solo, poi accompagnato piano dagli altri, il violoncello inizia a percorrere un proprio cammino, su un ritmo martellante, ossessivo e divertito assieme, come fosse diventato indifferente a quanto accade attorno a lui, ma anche come se nessuno lo ascoltasse. Ne accadono di cose, eppure lui viaggia imperterrito da qui alla fine, più veloce, più lento, attirando a sé la viola che per un tratto lo imita, per alcuni attimi fermandosi e tacendo, ascoltando il primo violino che ritorna protagonista, lassù in alto, per una battuta forte e subito dopo calando. Poi, riprende la propria marcia verso chissà dove e le battute finali sono ancora una volta indicate piano. Infine si ferma, calmo, rassicurato dal ritorno del tema iniziale; lo ascolta riproposto dagli altri strumenti, ma forse lui ora è lontano, li sente ma non li vede, e loro non vedono lui e la strada per uscire da quel labirinto non l'hanno ancora trovata. L'«Allegro non troppo» che conclude il quartetto è costruito su un solo tema, articolato in due frasi e sviluppato attraverso un fitto contrappunto in imitazione, in perpetuo slittamento cromatico. È stato questo lavoro di approfondimento tematico ad affascinare soprattutto Beethoven? Le frasi si susseguono, enunciate e riprese tra i diversi strumenti, ma non dobbiamo pensare a una corsa ininterrotta e fatalmente monotona; ci sono numerose fermate e riprese, c'è spazio, in questa trama così fitta, anche per un breve e più libero momento melodico, quasi una cadenza. E, come nell'«Andante» appena concluso, quale una reminiscenza, ritorna il protagonismo del violoncello. Del tutto sorprendente in un allegro conclusivo è l'assenza di un secondo tema che consenta una diversione, un confronto dialettico col primo. No: Mozart decide per un corale, breve e lento, intonato dapprima dai quattro strumenti, continuato poi da primo violino e violoncello, mentre secondo e viola disegnano altre figure che, crescendo, conducono lontano da questa isola sacra, di meditazione raccolta. «Il finale porta al culmine la tendenza di tutto il quartetto allo stile severo: la componente seria e pensosa la vince su quella sognante» (Hermann Abert).<26 Anche l'invenzione del corale trova la propria ragione d'essere nel carattere complessivo di questo quartetto, e lo ribadisce nel cuore di un movimento al quale la tradizione affida il compito di dissolvere ogni tensione. Nella coda, ritorna il tema dell'inizio, quel suo anelito inquieto, lo scendere della prima frase e il salire della seconda, e ambedue procedono su note vicine, segnate dai cromatismi. Ma Mozart non desidera scrivere la parola fine e le ultime battute sembrano voler evitare la conclusione. In pianissimo, svanendo, affermano senza alcun dubbio la tonalità di la maggiore, ma insieme la sfiorano, la accarezzano via, ancora una volta nell'assenza della quinta dell'accordo. È questa la sola conclusione coerente del suo quartetto più bachiano, quello che, tra tutti i ventitré, richiede la più intensa concentrazione di ascolto, affidandosi alla saggezza della musica. C'è ogni volta una storia, che vive in ogni pezzo, e che non nasce da alcun desiderio di descrivere o di immaginare contenuti esterni alla musica, e che invece s'innerva nella stessa mentalità razionale, illuminista, della sua civiltà. Cioè nella convinzione che capire e sapere fossero legati al contrasto dialettico delle idee, come metodo naturale di procedere ragionando. Il pensiero di Mozart nella musica non è certamente tutto qui; ma da qui parte: dalla necessità compiuta di chiarire, di porre alternative, di trovare quale delle idee proposte sia giusta e debba prevalere, e a prezzo di quale medicazione. (Lorenzo Arruga)<27 Prima di occuparci delle Dissonanze, una breve digressione dedicata all'esito, in famiglia e sul mercato, della pubblicazione di questi quartetti. * La stampa dell'Opera X genera una querelle editoriale che conferma sia la diffusione raggiunta dal quartetto per archi, sia la visibilità del nome di Mozart. In quel periodo, vengono pubblicate numerose sue opere e in meno di un mese - 17 e 31 agosto, 14 settembre 1785 - la Wiener Zeitung reclamizza tre volte la disponibilità commerciale di lavori mozartiani, cameristici e sinfonici. Il 10 settembre, dieci giorni dopo la pubblicazione di Artaria, l'editore Christoph Torricella, più piccolo di Artaria, più giovane e forse più spregiudicato, fa apparire sullo stesso giornale una Nachricht (notizia) che annuncia la pubblicazione di Sei quartetti per due violini, viola e violoncello di Mozart, pronti per la vendita nel suo negozio-stabilimento sul Kohlmarkt «a un prezzo economicissimo». Sono i Quartetti K 168-173, composti da Mozart a Vienna nell'estate del 1773 (in quell'occasione, gli erano bastati due mesi per completarli, non più di due anni!) e mai pubblicati. Torricella però non specifica né date né numeri d'opera, sottolinea invece che l'edizione è «bella e scritta correttamente» e il prezzo veramente billig: 5 fiorini appena. Il 17 settembre Artaria risponde con un altro annuncio a pagamento, che il giorno successivo appare anche sulla Wiener Realzeitung. È molto stizzito e il testo deve essere stato concordato con Mozart: Poiché il commerciante d'arte Herr Torricella ha recentemente annunciato sei quartetti di Mozart a basso prezzo, senza specificare se fossero manoscritti o incisi, vecchi o nuovi, Herr Mozart considera suo dovere informare lo stimato pubblico che i detti sei quartetti non sono per nulla nuovi, trattandosi invece di un vecchio lavoro scritto da lui quindici anni fa. In questo modo gli amateurs che stavano aspettando i nuovi non potranno essere serviti in modo errato. Poi, Artaria motiva il prezzo di «6 fiorini e 30 Kreutzer»: Le opere di Mozart non richiedono una lode particolare, e dovrebbe essere superfluo andare nei dettagli; basta dire che qui si tratta di un capolavoro [...] L'autore ha dedicato quest'opera al suo amico Joseph Haydn, Kapellmeister del Principe Esterházy, che l'ha onorato con tutto il plauso di cui è capace un uomo di grande genio. La novità e la qualità si pagano. Artaria sostiene di non aver badato a spese, purché l'opera venisse offerta «agli amateurs e agli intenditori» nel modo migliore, per quanto riguarda sia la carta sia l'incisione. Torricella, di cui è stata messa in discussione l'onestà professionale, non può che riconoscere le ragioni di Artaria: il fatto che fossero entrambi massoni (Torricella membro della loggia Zur Beständigkeit, Artaria della Zur gekrönten Hoffnung) non aveva impedito il nascere della polemica; ora però sarà meglio sedarla. La replica, pubblicata sempre sulla Wiener Zeitung, è abile: Torricella sostiene di non aver voluto ingannare nessuno, mettendo sul mercato opere «scritte quindici anni fa» (in realtà gli anni sono dodici, se la composizione di questo gruppo di quartetti risale all'estate del 1773, a Vienna). Mi trovo nella necessità di spiegare che il mio tacere sul fatto che fossero incisi o in manoscritto, vecchi o nuovi, dovrebbe provare che non avevo intenzione di ingannare il pubblico - supponendo che la provata onestà dovrebbe parlare per me. Per quanto riguarda i quartetti vecchi di quindici anni, credo comunque che non abbiano bisogno di alcuna altra raccomandazione al di là del nome del loro Maestro. Sono infatti convinto che anche questi possano essere una novità per molti degli ammiratori degli ultimi, grazie alla loro qualità veramente peculiare; e che gli amateurs non saranno mal serviti, poiché anche questi sono certamente figli di Mozart. Qui la polemica si conclude (ma Mozart era o non era a conoscenza dell'iniziativa di Torricella?), mentre Artaria continua - il 18 ottobre - a pubblicare annunci che reclamizzano l'Opera X, offerta sempre allo stesso prezzo. Il 24 dicembre il negozio d'arte Schauffische li pubblicizza sulla Pressburger Zeitung, a gennaio è la volta di Le Due, con un annuncio sul Mercure de France di Parigi. Da tuo fratello non ho ancora avuto una sillaba; l'ultima sua lettera è del 14 sett. e da allora con ogni postale sarebbero dovuti arrivare i quartetti. Se fosse ammalato, il sig. Artaria me ne avrebbe scritto nella sua del 28 ott. Il sig. gazzettista [Lorenz Hübner, redattore della Salzburger Staatszeitung], incontrandomi qualche giorno addietro, mi disse: le nombre des choses que M. votre fils édite maintenant est tout à fait étonnant; je lis le nom de Mozart dans toutes les annonces de musique. Les annonces de Berlin ont ajouté à celle des quatuors les mots suivants: il est inutile de vanter ces quatuors auprès de notre public; il suffit de dire: ils sont de M. Mozart. Non gli ho potuto rispondere, non sapendo io nulla, giacché sono ormai quasi 6 settimane che non ho lettere da lui. Disse pure qualcosa di una nuova opera. Basta! Ne sentiremo pure! Così Leopold scrive alla figlia Nannerl il 3 novembre 1785. Quanta trepidazione paterna e di musicista in quell'attendere i quartetti «con ogni postale», quanto orgoglio nel riportare le frasi e le notizie del «sig. giornalista» sulla quantità di pubblicazioni del figlio, sul suo successo anche a Berlino; quanta delusione per il silenzio di Wolfgang che si prolunga da più di un mese. Non abbiamo date precise, perché nessuna delle lettere scritte da Wolfgang a suo padre in questo periodo ci è pervenuta, ma l'attesa e l'amarezza di Leopold ritornano frequenti: «Da tuo fratello, non ho ancora avuto una sillaba!». Nei giorni seguenti, Leopold non sta bene, deve restare chiuso in casa, ma il malumore passa quando finalmente - il 2 dicembre - arrivano i nuovi quartetti di Wolfgang: Per fortuna alle 5 venne il giovane Preyman [Anton Breymann, ventitré anni, studente universitario a Salisburgo, futuro violinista professionista, forse allievo di Leopold], - e benché io non avessi più gli occhi bene a posto, avendo dovuto forzatamente preparare mattina e pomeriggio una lunghissima lettera per il Marchand e portarla alla posta, mi è stato però di svago fino alle 8 il suonar seriamente col Preyman 3 dei nuovi quartetti, così da poterli poi fare insieme, istruendo un altro al violon e uno al violoncelle, mentr'io suonerò l'alto. Quali avrà scelto? Ormai li conosceva tutti, e tutti, tra Salisburgo e Vienna, li aveva già suonati; quel pomeriggio, e fino a sera, appena ha tra le mani la copia a stampa, li vuole risuonare subito, anche se in casa sono soltanto in due, lui e il giovane Breymann, arrivato per una visita e sequestrato per tre ore. Pur di suonarli, pur di avere svago seriamente a far musica da camera. Il 7 dicembre - due giorni prima che a Salisburgo vada in scena Il ratto dal serraglio - Leopold aspetta con impazienza a casa propria «il Preyman con 2 altri per provare i 6 quartetti»: ha dunque trovato l'altro violino e il violoncello che cercava. Il 23 febbraio dell'anno successivo, mentre è a Monaco durante il Carnevale, racconta ancora a Nannerl: «Ce matin 23 abbiamo avuto ancora un gran freddo, dalle 11 all'1 suoneremo i quartetti: verranno da noi tutti quelli che capiscono la buona musica». Poco importa che il figlio si sia allontanato dalla raccomandazione tante volte ripetuta: «Ti raccomando di non pensare nel tuo lavoro solo ed esclusivamente al pubblico musicale, ma altresì a quello non musicale, - sai che per 10 veri conoscitori ci sono 100 ignoranti. - pertanto non dimenticarti del cosiddetto popolare, che solletichi anche le orecchie lunghe» (lettera dell'11 dicembre 1780). Ora, nessuna obiezione da parte di Leopold, solo ammirazione. La vendita dell'Opera X non andò secondo le previsioni di Artaria; tanta attesa, tanto investimento promozionale non si trasformarono in un lusinghiero esito commerciale. Nella primavera del 1787, l'editore ancora li reclamizza, segno che un buon numero di copie rimaneva in magazzino quasi due anni dopo la prima edizione. Nell'agosto dello stesso anno, il compositore viennese Carl Ditters von Dittersdorf scrive ad Artaria proponendo l'edizione di una sua serie di quartetti, destinata ad apparire l'anno successivo: «Dovrebbe andare meglio con i miei quartetti rispetto a quanto sei riuscito a fare con Mozart (in verità, io come i più grandi teorici, riteniamo che siano degni della massima lode, ma che a causa della loro qualità, che è inesorabile e ti sopraffà, non incontrino il gusto di tutti)».<28 Dittersdorf fotografa la delusione di Artaria e dimostra di ben conoscere e di tenere in conto i condizionamenti del mercato, stabilendo una chiara differenza tra «qualità» e «gusto». Nelle Memorie, apparse postume a Lipsia nel 1801, Dittersdorf sarà ancora più esplicito: Non ho conosciuto alcun compositore che possegga una così stupefacente ricchezza di idee. Vorrei solo che Mozart non le usasse con tanta prodigalità. Non lascia prender fiato all'ascoltatore; appena si vuol meditare su un bel tema, già se ne presenta un altro più bello che soppianta il precedente, e si va avanti sempre così sinché, alla fine, non è possibile conservare nessuna di quelle bellezze. «La vita di Mozart è l'esempio perfetto di quanto la preoccupazione di avere successo subito non debba condizionare un artista», ha dichiarato Pierre Boulez nell'estate del 2005, in occasione dei suoi ottant'anni. Quando ribadisce la novità dell'Opera X e afferma che non può essere confusa con i quartetti precedenti, Artaria non persegue soltanto una strategia commerciale. Il Mozart del 1785 non è commensurabile al diciassettenne che in due mesi aveva completato la serie dei Quartetti viennesi. Sebbene qualunque periodo si possa definire di transizione, gli anni fra il 1755 e 1775 meritano più di altri questa definizione. Esprimendo in brevi e inadeguate parole avvenimenti che meriterebbero ben altro spazio, si può affermare che in questi anni il compositore doveva scegliere fra la sorpresa in senso drammatico e la perfezione formale, fra l'espressività e l'eleganza, ma difficilmente poteva raggiungere entrambi gli obiettivi; almeno fino a quando Haydn e Mozart, separatamente e insieme, ebbero creato uno stile nel quale l'effetto drammatico appariva nello stesso tempo sorprendente eppure motivato logicamente, nel quale l'espressività e l'eleganza si incontravano: solo allora nacque lo stile classico. (Charles Rosen)<29 * Le 22 battute dell'«Adagio» introduttivo del Quartetto K 465, delle Dissonanze, hanno fatto scorrere fiumi di parole. Molte ipotesi, nessuna certezza. Di seguito, tra le infinite possibili, riportiamo qualche opinione, qualche tentativo di raccontare, descrivere, spiegare il senso dell'inaudita invenzione mozartiana: Questi quartetti hanno avuto, qui e là, un singolare destino. Quando Artaria li spedì in Italia, li ricevette di ritorno «perché l'incisione era molto difettosa». Vale a dire che si consideravano errori i molti strani accordi e dissonanze. Questa dedica a Haydn è l'omaggio di un Genio a un Genio! Un più bello, più raro, forse unico tratto (chi ha dato l'esempio?) del suo sentimento di stima per questo grande uomo. Con nessuna opera Haydn è stato meglio onorato che con questo frutto del più bel pensiero, con questo modello di una perfetta composizione. Agli occhi dell'intenditore, la dedica è considerata tanto quanto ogni sua opera. (Georg Nikolaus von Nissen, secondo marito di Constanze e autore della prima ampia biografia di Mozart, 1828) La giustificazione grammaticale [dell'«Adagio» introduttivo] è stata ripetutamente fornita in dotte analisi. Haydn diceva che se Mozart ha scritto così, avrà avuto le sue ragioni per scrivere così e non diversamente; si è dunque concluso che o lui ha riconosciuto queste ragioni come valide, oppure che le ha accettate anche se personalmente non era d'accordo [...] Soltanto il Quartetto in do maggiore, l'ultimo di questi sei, ha un'introduzione. L'atmosfera, come qui si percepisce, è di una serenità nobile, virile, imperturbabile da ogni bassezza, che nell'«Andante» si eleva a una meravigliosa frase di soprannaturale purezza e chiarezza; una calma serenità che nella vita come nell'arte appare solo come il risultato di trascorsi dolori e battaglie. (Otto Jahn, 1856) Ancora nell'Ottocento questo passo è stato assai criticato per le sue durezze; non sono mancati tentativi di "correzione" da parte di personaggi come Fétis e Ulybysev. Un'epoca che in Mozart voleva vedere l'ottimista a tutti i costi non sapeva certo darsi ragione di questo «Adagio». Proprio quel Mozart ci appare però qui distante le mille miglia. L'introduzione, come la maggior parte dei brani consimili, tende alla tonalità della dominante, raggiungendola infine dopo essersi profondamente immersa nella regione della sottodominante. Il basso, come spesso nella musica più antica, discende cromaticamente di quarta, dando origine nelle prime nove battute a una regolare progressione. Mozart però non si contenta della discesa di quarta al basso, ma inserisce un'altra parte in cui la dominante viene raggiunta per le vie traverse di mi bemolle maggiore e do minore, cioè attraverso la sua sottodominante. Su questa base armonica si svolge un cammino espressivo di ineguagliabile pregnanza [...] Taglienti accenti dinamici chiudono l'«Adagio» sulla dominante, senza alcuna chiarificazione. Non si tratta quindi di un temporale passeggero, di quelli che purificano l'aria, bensì del sentimento fondamentale di tutto il quartetto: l'immagine di un'anima gravata da oscuri presentimenti, che cerca invano di dominare; ancora una volta, è un concetto di carattere esclusivamente soggettivo, che si allontana in misura notevole dal quadro della musica di società del tempo. Ma nell'introduzione questo stato d'animo non esce dalla sfera dell'inconscio. (Hermann Abert, 1921) Nel corso di quella serata furono suonati tre dei sei quartetti dedicati a Haydn, tra i quali quello in do maggiore (K 465) da poco terminato (14 gennaio 1785) cui è stata affibbiata l'assurda denominazione di Dissonanzen-Quartett a causa dell'ardita armonia dell'introduzione all'«Adagio». Queste prime ventidue battute hanno gettato nella costernazione o mandato in collera tutta una generazione di interpreti o ascoltatori, prima che ne venisse riconosciuta la logica interna. Durante la soirée in casa Mozart a ogni modo pare che nessuno si sia scandalizzato. Per meglio dire: non ci è noto quello che abbiano pensato i due altri ospiti, due fratelli di loggia, i baroni von Tinti. Leopold trovò i quartetti «composti in maniera eccellente» - vada a eterno onore di Leopold Mozart l'esser stato il primo a intendere e ammirare il compositore Wolfgang Amadé Mozart - e il grande ispiratore Haydn non era certo nuovo ad arditezze musicali. (Wolfgang Hildesheimer, 1977) Le battute iniziali immediatamente ci immergono nel centro di un terrore simbiotico. Qui Mozart ha simulato l'autentico processo della creazione, mostrandoci i lineamenti del caos al momento della sua conversione in forma [...] Senza sapere con esattezza dove ci troviamo, sappiamo di essere in un universo alieno [...] La realtà è stata de-familiarizzata, il misterioso ha soppiantato il consueto. In questa introduzione, Mozart ha simulato la transizione dal buio alla luce, dal mondo sotterraneo alla superficie, dall'id all'ego. Perché, al di là della nostra cornice metaforica, questa musica in definitiva riguarda ciò che è occulto e ciò che si rivela. E adesso il tema dell'«Allegro» emerge mentre spicca il volo, liberato. (Maynard Solomon, 1995) In realtà, dissonanze appaiono spesso in tutti i quartetti, e alcune volte sono straordinarie, ma vengono sempre risolte in modo logico. Molto più importante delle cosiddette dissonanze è la condotta armonica dell'introduzione del K 465. Il quartetto è in do maggiore, ma l'introduzione comincia in do minore, che del resto - come nella Fantasia per pianoforte K 475 - non è annunciato dall'armatura in chiave. In tutta l'introduzione l'accordo di do maggiore arriva una volta soltanto, e a dire il vero è a stento percepibile, quasi fosse un accordo di passaggio, al secondo ottavo di battuta 14. L'entrata del mi della viola a battuta 19 e il pedale del violoncello nelle battute 19-21 possono dare, all'ascoltatore esperto, la sensazione che con la battuta 19 siamo giunti alla dominante di do maggiore. Il fatto che questa introduzione sia armonicamente indistinta, che stia quasi "cercando se stessa", ha fornito lo spunto al ricercatore francese Jacques Chailley per metterla in rapporto all'ingresso di Mozart nella loggia Zur Wohltätigkeit, dove era stato presentato proprio un mese prima. Anche se dobbiamo usare la massima prudenza verso i significati "programmatici" della musica strumentale al di fuori dell'epoca preromantica, l'interpretazione di Chailley non è del tutto sbagliata. Appare evidente che con l'inizio dell'«Allegro» a battuta 23, le cupe ombre dell'introduzione vengono cacciate. (Marius Flothuis, 1998) Il rapporto che intrattengono l'«Adagio» cromatico e dissonante a partire da un do minore teorico e l'«Allegro» in do maggiore è chiaramente quello dell'ombra e della luce. Questa dualità, così come Mozart la concepisce - dualità essa stessa radicata nella tradizione barocca, dove la tonalità di do maggiore simbolizza per eccellenza la luce - troverà una risonanza in Haydn, non in un quartetto, ma nell'Introduzione della Creazione, quando il passaggio dall'oscuro «Chaos» (do minore) alla luce si compie, dopo un lungo cammino cromatico, con l'esplosione forte della tonalità di do maggiore durante quattro battute sulle parole Es werde Licht / Und es ward Licht (Che la luce sia / e la luce fu). Nel quartetto di Mozart, a dire il vero, nulla esplode con l'arrivo improvviso del do maggiore, si tratta piuttosto di una trasfigurazione e di una luce tutta interiore che brilla all'inizio dell'«Allegro». Questa trasfigurazione si compie forse come metafora del rito dell'iniziazione, ricordata qui dai tre bemolle impliciti del do minore, come era simbolizzato dai tre diesis del quartetto precedente, K 464 in la maggiore. (Bernard Fournier, 2000) Nell'Introduzione del 465 Mozart allarga la distanza tra le prime due stazioni del discorso - exordium e narratio - facendo ricorso alla risorsa dell' interrogatio: il suo discorrere rimane sospeso, non procede, non c'è risposta alla domanda da cui sorge il Quartetto ed è questa assenza di certezze a creare attesa e mistero. Poi tutto si compie, senza l'asprezza di una improvvisa abruptio, ma con la dolcezza che scioglie l'ansia in una cadenzina: è la soluzione che preferisco. (Hatto Beyerle, 2003) Non bisogna parlarne. È un mistero, un non senso. (Norbert Brainin, 2004) L'angoscia si affranca - per un attimo, per un'ora, per un secolo?. .. L'esempio perfetto è uno dei quartetti più importanti dei sei che Mozart dedicò a Haydn, il Quartetto delle Dissonanze, opera esangue, senza ferite, che è forse uno dei risultati più straordinari da conseguire. Non mi può più trasmettere sofferenza, mi trasmette misteriosa fascinazione, quella misteriosa ilarità, uno dei temi fondamentali di tutta l'opera di Mozart. (Giorgio Manganelli, 1980) «Come il litigio per gli amanti, così sono le dissonanze per il mondo. La riconciliazione è implicita nel contrasto e ogni oggetto separato si ritrova» scrive Hölderlin nell'Hyperion (1793-99). E il filosofo Johann Ludwig Fricker, nella Rivista musicale per l'anno 1789, così descrive il processo della bellezza: «La bellezza consiste principalmente nella risoluzione della dissonanza in consonanza [...] Immagine di come infine tutte le dissonanze del mondo si risolveranno in una armonia eterna». Questa, allora, era la speranza. Ogni oggetto separato deve ritrovarsi, ogni ferita rimarginarsi. La musica delle Dissonanze comincia «Adagio», e sembra non volersi muovere; non un piglio sostenuto, affermativo, ma un'incertezza totale: noi potremmo chiamarla ansia. Una parola che Mozart conosce bene: la farà cantare alla Contessa nelle Nozze di Figaro (1786): «E Susanna non vien... Sono ansiosa...». È la prima volta che questa idea, questo stato d'animo compare in un libretto d'opera, da protagonista. Mozart, il primo compositore a guardare in faccia l'inconscio. C'è un'ostinazione impaurita, smarrita, nel passo del violoncello che inizia e non stacca mai, insistendo ossessivo su un'unica nota, do; nella viola che mormora, sussulta, tace, ricomincia e si impenna, esitando: la bemolle-la bemolle-sol-fa diesis; nel cammino del secondo violino che insiste scendendo anche lui, come la viola, di semitono in semitono e poi risalendo - mi bemolle-re-do diesis-re - e procede svagato, si assenta, incupisce, risorge, accelera; nella breve frase del primo che ogni volta ricomincia e sale e reclina e di nuovo attacca: la-la-sol-fa diesis. Sono queste le dissonanze: due note vicine, che incontrandosi stridono, come se si sfregassero una sull'altra. È l'immagine di un'anima rotta, spezzata, che non trova ascolto, che vaga dentro. Un'armonia irrisolta, smarrita in un banco di nebbia. Tutti dapprima piano, poi crescendo, poi forte, e di nuovo piano, proseguendo nella continua oscillazione della presenza del suono. Mozart spesso scriveva di getto, d'un sol tratto. Qui no, qui davvero ha avuto bisogno di una «lunga e laboriosa fatica». Alla seconda battuta, nella parte del secondo violino, nel manoscritto conservato al British Museum di Londra, appare una cancellatura, così marcata che quasi trapassa la carta. Sotto quel segno così ruvido, a guardar bene, si riconosce un'altra nota. All'inizio dell'idea, primo e secondo violino suonavano la stessa nota, un la, e l'urto con la viola era ancora più aspro. Poi Mozart ha cancellato, assegnando al secondo violino un più prevedibile mi bemolle. Perché ha preferito riscriverla? Ha avuto timore di andare troppo oltre? Ha moderato se stesso? Oppure ha deciso che l'effetto dissonante del primo violino, l'ultima voce a entrare in gioco, avrebbe così acquistato una maggiore efficacia? Queste sono le tenebre da attraversare prima di giungere alla luce, fanno notare i massoni di oggi. È qui che va cercata l'origine prima del Flauto magico e del percorso verso la saggezza che compirà Tamino. È l'orbo ab chaos, l'ordine che emerge dal caos, la luce dell'intelligenza oltre le tenebre della paura. È la felicità del tema dell'«Allegro» che segue questo doloroso rito di iniziazione, di mistero, concluso da una pausa, nient'altro che una pausa, un silenzio, ma interminabile, una sospensione della vita, un attimo che schiude un'eternità. Su quella soglia, tutti e quattro si fermano. Per sciogliere il grumo di questa tensione, per dare il senso, la consolazione, di una speranza, a questo punto, esattamente a questo punto, stacca lieve, dolcemente in piano, il tema dell'«Allegro» in do maggiore, come una luce che promette di salvare. Mozart vuole dunque che nel nostro orecchio, nel nostro "sentire", vivano assieme, nello stesso istante, il ricordo di quello che è accaduto e l'attesa del prossimo passo. La memoria e il futuro. Ma non si inventa un'idea così profonda per abbandonarla del tutto, e infatti nel cuore dell'«Andante cantabile» ritornerà quella frase, quell'ombra che conosciamo: è il segno moderno della continuità, della memoria che riaffiora e subito ti obbliga a ricordare, anche se non vuoi. Non è questa la sola volta in cui il compositore usa la dissonanza: l'ascoltiamo in momenti di abbandonato lirismo, come nel terzettino «Soave sia il vento» di Così fan tutte e nel movimento lento del Concerto per pianoforte K 467, mentre nell'apparizione del Commendatore che avvia la scena finale del Don Giovanni appare l'inaudita violenza (per le orecchie del tempo) di una serie dodecafonica. Ma nel Quartetto K 465 lo spessore dell'effetto è ingigantito, perché posto all'inizio del cammino e perché il suo mistero riappare nel secondo movimento. La musica ricorda e, simultaneamente, passa oltre, svanisce mentre esiste e persiste intanto che fluisce; come negli automatismi involontari della memoria, grazie a una tecnica narrativa che si stratifica - sarà questo il nucleo poetico della drammaturgia wagneriana - e intende sottrarsi all'oblio. Una cellula breve, una frase appena accennata sono sufficienti per alludere e far percepire la totalità espressiva; così la musica si iscrive nello spessore del tempo interiore, delle sue immagini più profonde. Ventitré anni dopo la pubblicazione dell'Opera X di Mozart, sempre a Vienna, nel gennaio del 1808, Beethoven dà alle stampe i tre quartetti dell'op. 59. A margine di uno schizzo del movimento finale appunta, con la sua grafia nervosa, veloce, questa frase: «Come sei capace di tuffarti nel vortice della mondanità, così puoi scrivere delle opere a dispetto di tutti gli ostacoli che ti impone la società. Non custodire più il segreto della tua sordità, anche nella tua arte». Il terzo e ultimo quartetto dell'op. 59 è scritto in do maggiore ed è l'unico dei suoi sedici quartetti a scegliere questa tonalità. Do maggiore, come le Dissonanze. E come accade nelle Dissonanze Beethoven inizia con un'introduzione lenta, arcana, che non afferma quella tonalità, la sfiora, la evita. Esattamente come aveva scelto di fare Mozart. Nel momento in cui cerca una nuova forza, rende omaggio a chi, prima di lui, aveva osato: stesso mistero e inquietudine, sospesa bellezza, spaesamento, attesa. Per dirgli grazie, da musicista a musicista. Perché Mozart aveva saputo trovare quella libertà che lui ora pretendeva da se stesso. La conclusione dell'«Adagio» introduttivo è affidata al primo violino che piano, e preceduto da un veloce gruppetto, si ferma sul si, la nota sensibile, che con naturalezza, all'interno della scala temperata, conduce alla tonica, in questo caso do. E infatti il tema dell'«Allegro» lascia emergere, netta, ma ancora piano, come un'aurora, la tonalità di do maggiore. A battuta 9, dopo la canonica esposizione affidata alle prime otto battute, ecco l'accordo forte e la ripresa del tema. Dall'oscurità alla luce piena, mentre il violoncello, che era stato protagonista durante l'«Adagio» introduttivo, ora tace. Quando ritorna, lo fa assecondando lo slancio ascendente del primo violino. Ma il territorio appena attraversato continuerà ad allungare la sua ombra; ed è questo rapporto inseparabile tra quanto sta accadendo e quanto già abbiamo ascoltato a dare al quartetto la sua unità. Mozart ripete più volte il tema, affida al primo violino una crescente libertà e velocità, attende a lungo prima di dare spazio al secondo tema (battute 72-79), come se volesse farci assimilare e apprezzare l'uscita dal tunnel appena attraversato. Dopo un breve episodio di dialogo tra primo violino e viola, il primo tema ritorna in netto rilievo, mentre riappare anche la presenza, inesorabile, del violoncello. Si prosegue così fino alla conclusione del movimento: «Nello sviluppo, anticipando la maniera di Beethoven, Mozart progredisce secondo delle opposizioni di blocchi i cui contrasti sono sottolineati dall'alternanza di sequenze rispettivamente piano e forte» (Bernard Fournier). <30 Ma piano e forte non sono soltanto indicazioni dinamiche; esprimono, in alternanza, l'inquietudine e la persuasione, l'incertezza e il convincimento. Fino alle ultime battute, quando una volta ancora crescendo e forte si afferma il tema notissimo, che ha ormai conquistato tutto il nostro spazio percettivo. Giunge fino a un esultante trillo del primo violino e poi subito reclina di nuovo piano, poi pianissimo, nel registro acuto, però svanendo lontano. Dialettica dei sensi e delle idee. Nell'«Andante cantabile» (in fa maggiore: unico movimento a non rispettare la tonalità di do maggiore) il tema iniziale è affidato al primo violino, in piano, con la consueta inquietudine prodotta dalla coesistenza di sfumature diverse e simultanee, del rapporto ben distribuito tra legato e staccato, tra flusso continuo e pause. Il violoncello inizia a dialogare col primo violino, insieme costruiscono un crescendo, poi il violoncello fa un passo indietro, ma quando a battuta 26 riappare protagonista con quello che potrebbe sembrare un secondo tema, non fa che ricordare quanto è già accaduto all'inizio del viaggio: siamo di nuovo nella nebbia dell'«Adagio» introduttivo. Il violino gli risponde, e lui al violino, mentre le voci mediane ascoltano, seguendo da vicino quel dialogo che si ripete. Il cammino si ferma (battuta 75) e quando riprende è di nuovo il violoncello - pianissimo e calmissimo - a ripetere la sua frase, alla quale uno per volta tutti rispondono, seguendo la successione pianissimo-crescendo-piano-fortepiano, di nuovo pianissimo per il violoncello solo. Il movimento è ormai giunto alla sua conclusione, quando il primo violino, con scoperta tenerezza, in pianissimo, espone una nuova idea (battuta 102), appena sussurrata, come se, sottovoce, volesse contraddire la viola che riprende il passo oscuro del violoncello. Ma vince la viola, che richiama a sé prima il secondo violino, poi di nuovo il violoncello, tutti in pianissimo, e infine il primo violino al quale Mozart affida il ghiribizzo di un veloce gruppetto, prima che anche lui si plachi nel finale che tutti accoglie. Nell'«Andante», come nelle 22 battute dell'«Adagio» introduttivo, Mozart non prevede ritornelli. Non c'è bisogno di ripetere, di ribadire, quando la narrazione, più che procedere, continuamente riflette su se stessa. In tempo allegro (allegretto è invece indicato nella prima edizione a stampa) stacca il «Menuetto», costruito sull'alternanza di due motivi dal carattere ben distinto: il primo piano e legato, il secondo forte e scandito. Questo contrasto prosegue lasciando spazio a varianti e digressioni, come la nuova frase cromatica che appare a battuta 21, a dei passaggi in imitazione che proseguono prevedibili fintanto che, dopo il ritornello, inizia il trio, in do minore. La temperatura espressiva si alza, gli intervalli si tendono, il primo violino si impenna, tra slanci e raccoglimento, prima che - unica vera costante di questi sei quartetti, regola mai messa in discussione - Mozart scriva Menuetto da capo. Poi, inizia a volare l'«Allegro molto» (Allegro nell'autografo, Allegro molto nella prima edizione a stampa). I due temi e la ripetizione insistita della frase d'avvio: ancora una volta forma sonata e rondò convivono. Il movimento è di grande estensione e accoglie al suo interno, dentro lo schema definito, una serie continua di invenzioni: il breve inciso fugato tra violino e viola, il dinamismo velocissimo, come in un moto perpetuo, del primo violino quando enuncia il secondo tema, creando un evidente contrasto tra la sua fluidità e gli spigoli del primo, rimarcata anche dalla costante contrapposizione delle dinamiche. Il momento in cui, senza alcuna ragione apparente, se non quella della libertà di inventare, la corsa del primo violino si interrompe e tutti e quattro si fermano incantati, piano, ascoltandosi, prima che riprenda la scorribanda del leader. Ma quanto è accaduto nei primi due movimenti, nei passaggi febbrili del trio, il lato oscuro, dissonante del quartetto, è dimenticato? Non del tutto; ritornano dei lampi di memoria, mai in primo piano, tenuti sullo sfondo, segnalati da rapide modulazioni, da un breve protagonismo del suono grave del violoncello, da attimi in cui la corsa si arresta: momenti che servono per rifiatare, prima di riprendere il volo fino alla coda affermativa, forte. Do maggiore, trionfalmente affermato. Le tenebre, con i loro incubi, sono lontane. L'Opera X esce di scena mostrando un volto sorridente. «L'angoscia si affranca - per un attimo, per un'ora, per un secolo?» Le opere dei grandi compositori sono mere caricature di ciò che avrebbero fatto se fosse stato loro permesso. Non si può immaginare nessuna armonia prestabilita tra l'artista e il suo tempo [...] Ciò vale ancora più per Mozart. La sua musica è un unico tentativo di aggirare la convenzione. In pezzi per pianoforte come l'«Adagio» in si minore, il «Minuetto» in re maggiore, nel Quartetto delle Dissonanze, in passi del Don Giovanni e Dio sa dove altro, si ritrovano le tracce della dissonanza che egli aveva in mente.<31 Se Theodor Adorno prende spunto dalle 22 battute iniziali - che definisce «emblema universale del coraggio dell'artista» - per immaginare quali risultati Mozart avrebbe raggiunto se gli fosse stato «permesso», a György Ligeti dobbiamo un'analisi di eccezionale precisione e coerenza sull'«Adagio» introduttivo delle Dissonanze. Battuta dopo battuta, il compositore austroungherese racconta la «suprema raffinatezza della tecnica compositiva di Mozart», il rapporto sempre consapevole tra convenzione e originalità, la sapienza con cui riesce a creare, attraverso le continue modulazioni, la tensione dell'attesa, rinviando, fino all'affermarsi del tema in do maggiore dell'«Allegro», il momento della risoluzione. Le considerazioni finali del suo saggio schiudono due ulteriori orizzonti: Una tale analisi delle strategie di modulazione e dell'oscillazione tra squilibrio ed equilibrio ci indica che è possibile giudicare il valore artistico di una composizione a partire esclusivamente dall'artigianato e dalle procedure tecniche del compositore, sempre a patto che una convenzione del linguaggio musicale, così come sviluppato in un dato momento, sia stata stabilita univocamente. A parte Mozart, solo Haydn e Beethoven erano in grado di creare, ognuno a proprio modo, una introduzione in un movimento di sonata di tale ricchezza sul piano delle modulazioni e di tale complessità per la condotta delle voci, impiegando ciascuno il medesimo linguaggio ma trasformandolo in maniera diversa. Nessun altro contemporaneo ha padroneggiato l'artigianato a questo livello. Schubert, certo, ma egli ha spinto l'arte della modulazione verso tutt'altri lidi. L'architettura armonica di Haydn, Mozart e Beethoven era fondata sulla stabilità delle relazioni di quinta e dell'aspirazione ascendente della sensibile; Schubert amplia tutto ciò con una mentalità basata sulle relazioni di terza, che introducono una vaga condizione di incertezza in seno alla dinamica direzionale delle forme classiche. Superare la perfezione delle strutture di Haydn, Mozart e Beethoven era impossibile, poiché il linguaggio tonale aveva raggiunto nelle loro opere il più alto grado di equilibrio. Schubert, in quanto compositore dello stesso rango degli altri tre, ha dissolto la solidità dell'architettura musicale, così come, nella stessa epoca, William Turner ha dissolto la precisione dei contorni in pittura. Entrambi aprivano una nuova epoca.<32 Ligeti definisce i confini stilistici e temporali del periodo della storia della musica che noi chiamiamo classico, destinato a concludersi con gli ultimi capolavori di Franz Schubert. Contrariamente alla persuasione di Saul Bellow - «i fondamenti ci sfuggono, come sempre. Tuttavia l'amor proprio impone che si finga di possedere questa convinzione» - Ligeti rivendica la possibilità di «giudicare il valore artistico di una composizione a partire esclusivamente dall'artigianato e dalle procedure tecniche del compositore». È soltanto così, analizzando il lavoro e la tecnica dell'artigiano musicista, che si può onestamente parlare di musica, senza pretendere di trovare nella successione delle armonie, nel dispiegarsi della melodia, nella scelta della tonalità, intenzioni, emozioni, valori extramusicali che ci ostiniamo a ricercare? Il letterato e il musicista: saranno sempre incommensurabili i loro punti di vista? Il primo sempre alla ricerca di un significato, il secondo sempre legato alla grammatica e alla sintassi del testo musicale. Stop Making Sense (Smettila di cercare un senso) raccomandavano un film e un disco del 1984 dei Talking Heads. E tuttavia - come abbiamo ricordato nel precedente capitolo a proposito del «chiocciolio» del primo movimento del Quartetto K 173 - è impossibile applicare questo perentorio invito alla narrazione e all'ascolto musicali. La musica, come il mito, tenta continuamente di "parlare" all'uomo, spinta dalla nostalgia di ritrovare l'unità originaria perduta [tra suono e senso]. Perciò attraverso l'ascolto, i suoni che il compositore propone legati da una rete di relazioni si uniscono al senso eccedente che l'ascoltatore detiene allo stato latente in forma di affetti, ricordi, esperienze del mondo. (Stefano Jacoviello)<33 E infine, Mozart ha scritto le Dissonanze perché era diventato massone? Quale pretesa! L'appartenenza non garantisce alcuna identità. Nessun automatismo è tollerabile, nessuna semplificazione, di fronte all'immensità dello scarto inventivo. Le logge massoniche di Vienna pullulavano di musicisti; uno soltanto ha scritto le Dissonanze. Esiste invece una convergenza temporale, che fa aderire molte delle migliori intelligenze creative di quel tempo al movimento massonico: Dopo questa data (l'età della Restaurazione), tradizionalmente fissata nel 1830, la musica espressa dal movimento massonico riveste un interesse storico alquanto limitato e l'appartenenza all'Ordine di molti musicisti, anche di alto livello, non sembra avere sollecitato, fatte salve poche eccezioni, l'estro creativo né influenzato il divenire dell'Istituzione. (Alberto Basso)<34 Prima dell'età della Restaurazione, invece, e segnatamente in Baviera e a Vienna, «la massoneria è in gran voga. Tutto è Maçon. La loggia Zur wahren Eintracht è quella dove l'influenza dell'Illuminismo è più forte. Pubblica un Journal für Freimaurer, in cui si discute di fede massonica, di giuramento, di stravaganze, di cerimonie, di tutto insomma e con maggiore libertà che da noi nella Bassa Sassonia. Ne sono membri le migliori teste di Vienna tra gli scienziati e i maggiori poeti: ci si fa beffe di quanto nella Cosa è mistero e la loggia si è trasformata in una società di scienziati, amanti dell'Illuminismo e liberi da pregiudizi»<35 scrive lo scienziato ed eccellente cronista Johann Georg Adam Forster, appartenente al circolo Rosacroce di Kassel, che visita Vienna nell'estate del 1784. Far parte di questo milieu intellettuale e sociale era diventato dunque anche alla moda, soprattutto prima che l'11 dicembre del 1785 - l'imperatore Giuseppe II decidesse un riordino delle logge, diminuendone il numero e accentuando il controllo politico sulla loro attività. Per un musicista, che ancora poteva constatare il diffuso stato servile della propria professione, la possibilità stessa di frequentare ambienti dove venivano chiamati "fratelli" anche gli esponenti dell'aristocrazia più prossima alla corte imperiale rappresentava l'immagine di un innalzamento del ruolo sociale e della considerazione di sé. Così Ernesto Napolitano, con laico acume: Più importante di tutte, veniva infine l'adesione morale, la vicinanza a quell'insieme di valori con cui le logge massoniche interpretavano il progetto illuministico di emancipazione dell'uomo; le idee che [Mozart] vedeva schierate dalla stessa parte in cui abitavano il suo desiderio d'indipendenza e la sua tensione all'autonomia: idee di trasformazione, sviluppo, perfezionamento, quei fermenti etico-umanitari che in qualche modo riuscivano a innestarsi nella sua formazione cattolica. Ma, anche qui, non lungo una prospettiva utopica che avrebbe rimandato tutto a un futuro lontano e ideale, ma come realtà a portata di mano, disponibile, vicina, forse già da sperimentare fra le pareti di una loggia al riparo dall'agitato corso del mondo. È in quest'ambito che sarebbe ragionevole aspettarsi un ruolo privilegiato per la Freude massonica, figlia minore della settecentesca aspirazione alla felicità.<36 Ma l'appartenenza alla loggia, le amicizie influenti, la protezione di Haydn non impediscono a Mozart di evitare i noti problemi economici, non lo proteggono da una ricezione faticosa di alcuni suoi lavori, né, per ritornare a questi quartetti, lo mettono al riparo da critiche immediate. Le 22 battute dell'introduzione scatenano infatti molte reazioni. I quartetti che Artaria pubblicizza giudicandoli «capolavori» per il solo fatto che li ha scritti Mozart, non convincono la Wiener Zeitung che, nel gennaio 1787, constata come «la frase di Herr Mozart, così ispirata e così realmente bella, si smarrisce per volere, a ogni costo, fare delle cose nuove». Nell'aprile dello stesso anno il libraio e editore Carl Cramer pubblica ad Amburgo il Magazin der Musik. In una corrispondenza da Vienna, racconta così quei Quartetti: Mozart è il più capace e dotato interprete della tastiera che abbia mai ascoltato; il peccato è solo che punta troppo in alto nelle sue abili e veramente belle composizioni, nel tentativo di diventare un nuovo creatore, e così bisogna dire che a causa di ciò il sentimento e il cuore se ne giovano poco; i suoi nuovi quartetti per due violini, viola e violoncello, che ha dedicato a Haydn, possono ben essere definiti troppo speziati - quale palato può tollerarli a lungo? Perdonatemi questo paragone preso dal libro di cucina. Due anni dopo, Cramer ritorna su quelle opere: «I suoi quartetti dedicati a Haydn confermano una volta di più che ha una decisa inclinazione verso il difficile e l'insolito. Ma quali idee grandi ed elevate gli appartengono, testimoniando uno spirito audace!». Appariranno altre critiche e si racconteranno episodi clamorosi come quelli riportati nel numero dell'11 settembre 1799 della Allgemeine musikalische Zeitung, otto anni dopo la scomparsa di Mozart, e ripresi da Nissen nella sua biografia del 1828. Si narra che dall'Italia alcuni interpreti abbiano rispedito ad Artaria le parti del K 465 chiedendo la «correzione degli errori di incisione» e ritenendo che a battuta 2 e 6 la distanza di una seconda minore tra violino e viola sia una svista, due volte ripetuta e tanto più sorprendente perché posta all'inizio del movimento. La circolazione di quei Quartetti aveva evidentemente toccato anche il nostro paese. Dal castello di Schönbrunn - o da altre residenze viennesi: i diversi reportages non sono concordi - arriva invece voce del clamoroso alterco accaduto tra il principe Grassalkovich e Haydn. Durante un'esecuzione delle Dissonanze e nonostante nel quartetto di interpreti ci fosse appunto Haydn, il principe prima si stupisce dell'errore e grida Vous jouez faux! (State stonando!), poi quando Haydn gli fa vedere che la musica è scritta proprio così e dunque loro non hanno sbagliato, s'infuria talmente da stracciare le parti. Un evidente caso di censura e la conferma che le orecchie dei veri intenditori, per quanto fossero dilettanti, erano infallibili. Il principe percepisce la dissonanza e si indigna: esempio perfetto di orizzonte d'attesa deluso. Grande fortuna, ancora negli anni trenta dell'Ottocento, avrà un pamphlet del compositore italiano Giuseppe Sarti, che Mozart aveva ben conosciuto, intitolato Esame acustico fatto sopra due frammenti di Mozart. Dopo aver analizzato le battute dell'«Adagio» introduttivo del K 465 e un passaggio dell'«Allegro» del K 421, Sarti conclude: Si può forse avere così il meglio della musica? E si potrà trovare qualcuno che stampi questa musica? In breve se questo compositore riempie di errori madornali le sue composizioni (19 in 36 battute) come è stato mostrato nei frammenti succitati, così si può certamente credere che questa musica verrà "ributtata" da tutti coloro che hanno orecchie, si capisce "orecchie che funzionano" e non "guaste". Anch'io dico con l'immortale Rousseau: de la musique à faire boucher les oreilles (musica da tapparsi le orecchie). «La diffusione di questi quartetti costituisce un pesantissimo scacco, da cui Mozart non si riprenderà mai, almeno a Vienna» scrive non senza enfasi Jean- Marie Thill, poi precisando: «I frammenti fugati, le audacie armoniche, l'arte dello sviluppo tematico sono oggi profondamente ammirati, ma apparivano allora aspri e gettavano nello spavento».<37 Fino alla metà del Novecento non era difficile trovare in commercio edizioni "corrette" dell'«Adagio» del K 465, emendate di quelle scandalose dissonanze. E quando ormai sono passati più di due secoli dalla pubblicazione dell'Opera X, ancora non sappiamo chi abbia battezzato così l'ultimo dei sei quartetti dedicati da Mozart a Haydn perché fosse per loro Padre, Guida ed Amico!
Carissimo Hoffmeister! Cerco rifugio da Lei, e Le chiedo per intanto di assistermi
Si può dire di no a un collega compositore e giovane titolare di una neonata casa editrice che sta tentando di affermarsi? Si può dire di no a un amico al quale, il 20 novembre 1785, appena due mesi dopo la pubblicazione dei quartetti dell'Opera X, Mozart aveva chiesto aiuto con tono accorato? A /Monsieur/ Monsieur franç. Ant. / de Hoffmeister/ Chez lui. Carissimo Hofmeister! Cerco rifugio da Lei, e Le chiedo per intanto di assistermi con un poco di denaro, di cui ho in questo momento grandissima necessità. - Le chiedo ancora di darsi da fare a procurarmi il più presto possibile quel che sa. - Perdoni ch'io La importuni sempre, ma conoscendomi, e sapendo Lei quanto mi sta a cuore che le Sue cose vadano bene, sono anch'io persuasissimo che Lei non prenderà in mala parte le mie insistenze, ma al contrario mi aiuterà con la stessa sollecitudine ch'io avrei a Lei. Hoffmeister dona, o presta, due ducati, forse un anticipo sul compenso pattuito per la pubblicazione del Quartetto per pianoforte, violino, viola e violoncello K 478, che sarebbe avvenuta a dicembre. Negli anni successivi questo sodalizio compositore-editore si ripetè altre undici volte, sempre per lavori cameristici. Non sappiamo perché Mozart, che dal febbraio all'aprile di quello stesso 1785, grazie alle Accademie di cui era stato protagonista, aveva guadagnato bene, in autunno fosse già in difficoltà. E non sappiamo perché Franz Anton Hoffmeister (il de usato nell'intestazione della lettera non indica un titolo nobiliare ma, secondo l'usanza del tempo, un riguardo verso il destinatario), tedesco di nascita, trasferito a Vienna, allievo di Johann Georg Albrechtsberger (futuro insegnante di Ludwig van Beethoven), compositore molto attivo, da poco diventato editore, abbia chiesto a Mozart un nuovo quartetto per archi. Uno soltanto, terminato il 19 agosto 1786 e poco dopo, con una decisione editoriale inconsueta, pubblicato come numero unico, senza venire collocato in una serie. Sappiamo invece che, negli anni successivi, Mozart chiederà a Hoffmeister di farsi garante dei propri debiti, offrendo in cambio nuove composizioni. Nasce così il Quartetto n. 20, il K 499, conosciuto come Quartetto Hoffmeister. Scrive Massimo Mila: I Quartetti ad arco sono fra le composizioni di Mozart, quelle che meno frequentemente sono sollecitate da un'occasione esterna. Spesso nascono invece spontaneamente dalla sua personale iniziativa, in una specie di cimento del compositore con una forma che veniva considerata la più alta ed ardua attuazione del nuovo ideale strumentale, fondato sullo schema sonatistico.<1 In questa circostanza la sollecitazione esterna c'è stata. Il 1786 per Mozart è un anno denso di impegni e riconoscimenti, fitto di vita mondana. Il 7 febbraio, quando da undici giorni ha compiuto trent'anni, debutta a Vienna, alla presenza dell'imperatore Giuseppe II e in una serata di gala, L'impresario teatrale, Singspiel in un atto. Il 19 febbraio, nel corso di una festa di carnevale alla Hofburg, la residenza imperiale, Mozart si presenta vestito da filosofo indiano e distribuisce un foglio che contiene otto indovinelli e sparsi frammenti di saggezza; tutta farina del suo sacco, ma lui finge che l'autore sia il filosofo persiano Zoroastro. Uno degli indovinelli e alcune delle "massime zoroastriane" verranno poi pubblicati, un mese dopo, da un giornale di Salisburgo. Dice l'indovinello: Mi si può avere senza vedermi. Mi si può portare senza accorgersene. Mi si può mettere senza avermi. A.c.e.l.n.o.r (soluzione dell'anagramma: Le corna; nell'originale: D.e.e.h.i.n.ö.r.r., ossia Die Hörner) E così tre massime: Preferisco un vizio evidente a due virtù ambigue: almeno so cosa aspettarmi. Non si addice a tutti essere modesti: solo i grandi uomini possono permettersi di esserlo. Se sei povero ma abile, armati di pazienza e lavora: anche se non diventerai ricco, resterai comunque un uomo abile.<2 Tra marzo e agosto nascono due nuovi concerti per pianoforte (K 488 e K 491), il Concerto per corno K 495, il Quartetto con pianoforte K 493, il Trio per pianoforte, violino e violoncello K 496, il Trio per pianoforte, clarinetto e viola K 498. Il 7 aprile Mozart tiene un'Accademia al Burgtheater, mentre è nel pieno della composizione delle Nozze di Figaro, prima sua collaborazione con Lorenzo Da Ponte. Terminata il 29 aprile, l'opera debutta il 10 maggio, con successo, al Burgtheater. Continua dunque il felicissimo periodo creativo, segnato da lusinghieri riscontri professionali, iniziato già nel 1784, e proseguito e rafforzato nel 1785. In questo contesto, nell'agosto 1786, avviene la consegna a Hoffmeister del nuovo quartetto: il più spiritoso, il più libero. L'unico, assieme al Quartetto di Lodi, che non faccia parte di un gruppo. [l'Hoffmeister] si può considerare come una sintesi dei tre «più seri» e dei tre «più leggeri» dell'Opera X, e il suo inizio simboleggia lo spirito dell'intera composizione: dapprima un facile e piacevole unisono; poi un dialogo condotto ora da una coppia di strumenti, ora dall'altra; un passaggio più serio in minore; infine lo scioglimento della tensione in un canone fra primo violino e violoncello - esempio di erudizione che nessuno, però, sentirà tale. (Alfred Einstein)<3 Si inizia piano tutti assieme con un arpeggio discendente calmo e grave; poi una frasetta veloce anch'essa discendente, e infine cinque note puntate. Sono i tre frammenti del tema, che daranno vita a continue metamorfosi e apparizioni. Il primo violino si impenna improvviso e subito cambia il carattere: da «serio» diventa per un istante «leggero», poi di nuovo prevale l'atmosfera dell'inizio, che si inspessisce, ma dopo una progressione piano-crescendo-forte appare un inciso buffo, dove non è impossibile riconoscere il bozzolo dell'aria d'entrata di Papageno nel Flauto magico. Anch'esso presto scompare, perché ritorna il tema d'avvio, che è l'unico scelto da Mozart per il primo movimento, «Allegretto», in re maggiore. Monotematismo e non dialogo tra due temi diversi; una sola idea, accompagnata da una grande varietà di motivi secondari, che continuamente si intrecciano. Passaggi all'unisono si intrecciano a momenti polifonici, un incedere lento viene di colpo travolto da un'accelerazione perfino furiosa. La libertà delle invenzioni può essere giudicata «una quasi irritante ostentazione di disimpegno espressivo» (Massimo Mila), oppure apparire come un sovrano compromesso tra una scienza compositiva totalmente posseduta e la preoccupazione di vendere qualche copia in più di questo nuovo quartetto, considerato lo scarso esito commerciale che stavano avendo i sei dedicati a Haydn. Mozart ha appena terminato di scrivere Le nozze di Figaro, dove astuzie, inganni, desiderio, sofferenza, comicità, rivendicazioni sociali e di libertà convivono in una perfetta dimensione teatrale. Ed è come se questo caleidoscopio di intenzioni si trasferisse ora nell'Hoffmeister, conferendogli l'aspetto di un prototipo, di un'opera sperimentale, cara ai violisti per il ripetuto protagonismo, soprattutto nel primo movimento, del loro strumento, la voce mediana di un quartetto d'archi. L'«Allegretto» non si conclude con un accordo forte, di quelli che a suonarli e ascoltarli danno soddisfazione, nella certezza di sapere dove siamo e cosa stiamo facendo, ma con un pianissimo. Tutti e quattro salgono nel registro acuto, ma rendono quel congedo svanente, inudibile, tenuto a lungo, il più a lungo possibile, su una corona, come una cometa luminosissima che sfila via nel cielo e un istante dopo non si vede più, nonostante il nostro desiderio di trattenerla ancora. Verso i primi anni ottanta si poteva parlare di trionfo dello stile sonatistico o di classicismo viennese: tutte le forme precedenti, rondò, concerto, fuga, aria con da capo, forma ternaria, si erano ora trasformate in forme-sonata. (Charles Rosen)<4 Nel classicismo, l'ascolto attivo-sintetico del Settecento tocca il vertice. L'ascoltatore [...] compie così, passo passo, la costruzione musicale. In pari tempo egli comprende il tema principale che domina il movimento di sonata come un contenuto di senso, che possiamo definire con il termine "carattere". L'unità della forma e l'unità del senso, entrambi contrassegni del classicismo, poggiano sul potere sintetico dell'ascoltatore. (Heinrich Besseler)<5 Quando una forma espressiva giunge alla sua completa definizione, tocca l'apogeo e viene facilmente riconosciuta dal pubblico al quale si rivolge, allora arriva anche il momento di divertirsi a metterla in discussione, di provare a scardinarla: da questo punto di vista, l'Hoffmeister non ha eguali nel catalogo dei quartetti mozartiani. E il gioco prosegue nel breve «Menuetto», che ha l'andamento di un rustico Ländler, la danza popolare austriaca in 3/4 ritenuta la più riconoscibile madre del valzer che presto verrà. Ma dopo l'accordo forte dell'inizio, del tutto tipico, che ci fanno in un Ländler quei cromatismi, quella svagatezza della viola che se ne sta per conto proprio, quel rallentare nettissimo del passo, che giunge quasi a fermarsi, prima che il tempo riprenda a scorrere? Che funzione ha la gravità breve di alcuni passaggi del violoncello? La costante dissoluzione delle simmetrie del «Menuetto», iniziata nei quartetti precedenti, continua coerente. Il trio in re minore, più ampio del minuetto, ha un aspetto imperativo; comincia velocissimo, guizzando, scandito da due motivi, entrambi affidati al primo violino: veloci terzine e note puntate nel primo, evidenza di trilli nel secondo. Nel secondo ritornello le due metà dell'idea si fondono insieme. I passaggi in imitazione, la tensione degli accenti, l'uso del crescendo, la consueta attenzione per i più netti contrasti dinamici, conferiscono al trio una sapiente complessità. Poi, dopo un accordo forte e un ultimo trillo del primo violino, subito Attacca il Menuetto da capo. Il luogo comune, la citazione evidentissima, la sua trasformazione in qualcosa di diverso: significa questo essere artigiano e artista, convenzionale e originale, conoscere il gusto, la moda prevalente, senza sacrificare la libertà della creazione.<6 Ma la sintesi tra popolare e colto, nella lingua del libretto come nelle scelte compositive, non è anche il pilastro delle ultime opere e in particolare del Flauto magico? La solennità dell'assunto ideale si intreccia in modo singolare (caso davvero unico nel paesaggio teatrale del tardo Settecento) con gli elementi del teatro popolare e suburbano viennese, con la tipologia della Maschinen-Komödie che nella Vienna di allora godeva di grande popolarità, e con un linguaggio figurativo ingenuo imparentato con quello della fiaba [...] Se poi si prendono in considerazione i piani musicali che operano nel Flauto magico - Singspiel, opera buffa, opera seria, l'evocazione di tecniche antiche nell'ouverture (fuga) e nella scena degli armigeri (elaborazione di un corale) - il quadro si fa del tutto confuso e sconcertante. (Stefan Kunze)<7 L'«Adagio» in sol maggiore attacca affidandosi ai due violini: il loro procedere è lento, intessuto di note intervallate da silenzi, nel segno di una meditazione inquieta, di un respiro non regolare; al primo crescendo entrano anche viola e violoncello, poi lo strumento più grave allunga la sua ombra persistente, contrastando il canto tentato dal primo violino. Che non si rassegna e avvia la pulsazione regolare del secondo tema, lanciandosi da solo in un'arcata acuta, lunga, densa di fioriture, bruscamente interrotta, dopo l'affermazione di un trillo, da un accordo forte di tutti. Quel tentativo di volo è riportato sulla terra, poi ancora, e ancora, e ancora proverà a ricominciare. Da ora in avanti, le due inseparabili metà di questo «Adagio» procederanno assieme, continuando ad ascoltarsi e a cercarsi, allontanandosi verso altri territori armonici, facendo prevalere ora la levità, ora la durezza, ora il ghiribizzo brevissimo, senza mai dimenticare la tinta di fondo del movimento, una dimensione onirica dove i confini del tempo si dilatano, gli spigoli si attutiscono, prima che nella coda tutto si dissolva pianissimo. Più che allo sviluppo, all'approfondimento delle idee enunciate all'avvio, Mozart sembra interessato qui all'effetto prodotto dall'iterazione di quelle due frasi, in una staticità dinamica dove tutto procede e tutto sta. Quasi un immobile moto perpetuo, nel quale le gerarchie armoniche si stingono, rendendo il cammino insicuro e per questo affascinante, nel segno di un raccolto lirismo. Quando la sezione di sviluppo manca del tutto o non consiste che di poche misure dalla mera funzione di transizione, la tensione viene minimizzata, e ne risulta una struttura meno drammatica [...] In questa forma si sorvola spesso senza troppe preoccupazioni su tutti i punti cardine strutturali che si presterebbero alla drammatizzazione. Il ritorno del tema iniziale nel movimento lento del Quartetto K 575 di Mozart è il più semplice possibile. Forse a motivo del suo interesse per la forma dell'aria, Mozart fece uso di questa forma nella musica strumentale in misura maggiore di altri compositori. (Charles Rosen)<8 Il finale è indicato come «Allegro»; in un secondo momento, la mano di Mozart ha aggiunto Molto. E «Molto allegro» va suonato quest'ultimo movimento, nel quale si ritorna alla tonalità di re maggiore e al monotematismo e dove per la prima volta in un suo quartetto Mozart lascia esplicitamente emergere l'umorismo, la bizzarria. Il primo violino parte piano con la sua frase svettante, sinuosa, legata, ma subito si ferma, poi riprende, si ferma ancora. Tacciono tutti. Riprende il violino, questa volta tutti gli si accodano. La corsa è finalmente partita per davvero? Ma no, il gioco è proprio quello: una continua falsa partenza che obbliga tutti a ritornare ai blocchi e a riprovarci. Naturalmente ogni volta, nella lunga esposizione, accade qualche cosa di nuovo e di diverso, nell'emergere frequente di motivi secondari. Lo sviluppo è molto più breve e consente una riflessione su una delle principali differenze della matura sintassi mozartiana rispetto a quella di Haydn, sempre attento alla trasformazione tematica, il cui luogo deputato è appunto lo sviluppo. Nella riesposizione, il carattere non cambia: un gioco, un divertimento, al quale più spesso partecipa ora il secondo violino, mentre l'uso teatralissimo della pausa breve, della presa di fiato, è meno frequente, così che lo slancio non si fermi, l'abbrivio non incontri ostacoli. Fino all'apparizione della coda, dove quei vuoti ritornano, nei silenzi del primo violino e del violoncello, prima che il secondo violino lanci la volata finale, alla quale viola, primo, violoncello subito si accodano, insieme arrivando alla meta, forte. Si conclude così un quartetto nel quale Mozart ha voluto dichiarare al mondo che non ha più alcun bisogno di dimostrare niente a nessuno, a nessun Padre, a nessuna Guida. Passeranno tre anni prima che inizi, e ancora una volta con fatica, a comporre altri quartetti, i suoi ultimi, i tre Prussiani. Nel 1787 - l'anno della morte del padre a Salisburgo (28 maggio), dei due viaggi a Praga, dove vive entusiasmanti successi e dove (29 ottobre) debutta Don Giovanni, l'anno in cui (7 dicembre) viene nominato «musicista della camera imperiale e reale», con il né misero, né generoso stipendio annuale di 800 fiorini e l'incarico di scrivere musica da ballo per la corte - Mozart scrive due quintetti per archi, K 515 e K 516. Al genere del quintetto si era dedicato e si dedicherà altre volte, a partire dal K 174, nato nel 1773 e composto, come tutti i successivi, per due violini, due viole e violoncello. Verranno poi il K 406, scritto nel 1787 come rielaborazione della Serenata per fiati K 388, e infine, nel dicembre 1790 e nell'aprile del 1791, due altri quintetti originali, K 593 e K 614. Impossibili da concepire senza il punto d'arrivo rappresentato dai Quartetti dedicati a Haydn e l'affermazione di libertà dell'Hoffmeister, i due quintetti del 1787 sono opere di immenso spessore. Mozart non scriveva quintetti da quattordici anni; non conosciamo con precisione il motivo che lo spinge a comporne due, uno di seguito all'altro, nella primavera di quell'anno. Possiamo soltanto ammirarne l'esito altissimo, dove ancora una volta melodia e contrappunto, fascino e forma, si fondono. Nel 1788, ancora per le edizioni Hoffmeister, Mozart trascrive per «2 violini, viola e basso» la Fuga in do minore per due pianoforti K 426, composta nel dicembre 1783. Nasce così l'Adagio e Fuga K 546: «[...] il contributo più grandioso dato da Mozart al genere della fuga» (Hermann Abert). Non un esercizio di stile, non soltanto un omaggio ai maestri delle generazioni passate Bach e Händel (scomparsi nel 1750 e nel 1759), non un frammento, ma un'opera, compiuta nella sua brevità esemplare, dove convivono rigore e audacia, padronanza delle tecniche contrappuntistiche e capacità di inserire nel flusso della scrittura respiri, fraseggi, colori del tutto personali. Anche quando la meta è l'astrazione metafisica e la musica purissima e severa che nessun'altra struttura come la fuga è capace di esprimere, la soggettività mozartiana emerge.
Sabato prossimo ho intenzione di eseguire i miei quartetti a casa mia...
Nel giugno 1789 Mozart iscrive nel catalogo tematico delle proprie opere un nuovo quartetto per archi. Ein Quartett für 2 violin, viola et violoncello für Seine Mayestätt dem König in Preussen. In Junius, in Vienna Nessun dubbio sembra possibile: la destinazione è Berlino e questo lavoro è il primo di una serie di nuovi quartetti che Federico Guglielmo II di Prussia ha commissionato a Mozart, in occasione del recente viaggio nella Germania del Nord. Tornato a Vienna, Wolfgang si dedica subito al nuovo progetto, che tuttavia non concluderà. I quartetti saranno tre invece dei sei comandati e di questi tre nessuno verrà consegnato al committente. Il mancato rispetto della richiesta ricevuta dal re violoncellista costituisce, ancora oggi, uno degli episodi non risolti della biografia mozartiana. Haydn, nel 1787, aveva accettato l'invito reale, componendo per il sovrano berlinese i sei quartetti dell'op. 50, detti appunti Preussische Quartette. Dal 1786 anche Luigi Boccherini è al servizio di Federico, per il quale scriverà cinquantasei brani, tra cui sedici quartetti. Era difficile dire di no a un sovrano, eppure Mozart - se davvero ebbe la richiesta di questa commissione - ci riuscì. Impareggiabile il ritratto di Federico Guglielmo consegnatoci da Giovanni Morelli: Un grassone, rubizzo, dal corpaccione sempre addobbato di panni pesanti sbottonati qua e là. Nato nel 1744, nipote dell'omonimo I sale al trono di sghembo, in quanto successore dello zio privo di eredi, nel 1786. Lo strapperà dal trono la Parca nel 1797, pochi mesi dopo la dedica beethoveniana (le due sonate per pianoforte e violoncello dell'op. 5 del 1795-6); nel frattempo si allea con Leopoldo II d'Austria per salvare Luigi XVI (col risultato ben noto), si fa promotore dell'infelice fuga di Varenne... Visceralmente avverso ad ogni declinazione ideologica del secolo dei Lumi, lavorò di censura come nessun re di Prussia aveva mai fatto (infierendo sul versante della religione che peraltro non coltivava con autentica convinzione); introdusse riforme dissennate che i suoi successori faticarono a correggere; delegò quasi tutti i suoi poteri, in ispecie quelli militari, scegliendo collaboratori estremamente incapaci, così da portare il già ben portante esercito prussiano ad uno dei suoi minimi qualitativi storici; infine portò alla bancarotta le finanze dello Stato, costringendo il suo Stato ad essere del tutto alla mercé di spericolati banchieri. Tanto si doveva al vero. Un vero che un po' trascina nei guai anche Mozart (tentato di trasferirsi a Berlino, ma dipoi subito ravveduto), in ispecie per quel che riguarda il fatto che, se proprio non tutti, i primi due quartetti prussiani sono segnati da un gran bel ruolo attribuito al violoncello. Del tutto casualmente, forse, ma per molti esegeti prova di una sudditanza psicologica obbrobriosa che contamina l'ispirazione.<1 E se Mozart si fosse fermato, osando l'inosabile per un musicista di allora, cioè la mancata consegna a una testa coronata - e che testa, un Hohenzollern seduto sul trono di Prussia - di un lavoro commissionato e dal prezzo già definito, perché Federico Guglielmo II, «visceralmente avverso a ogni declinazione ideologica del secolo dei Lumi», era persona molto diversa dal sovrano che lui stava frequentando, Giuseppe II? L'imperatore d'Austria, che aveva non solo autorizzato, ma sollecitato la realizzazione delle Nozze di Figaro (Vienna, 10 maggio 1786), nell'autunno del 1789 affiderà a Mozart l'incarico di una nuova opera, suggerendo lui stesso l'argomento, quello scandaloso del Così fan tutte (Vienna, 26 gennaio 1790). Nella terza e ultima collaborazione con Lorenzo Da Ponte, nata non come Le nozze di Figaro e Don Giovanni da precedenti fonti letterarie, ma da un soggetto originale, il tradimento, l'inganno, l'infedeltà di tutti i protagonisti, uomini e donne, la durata brevissima della più solenne promessa di amore perenne vincerebbero a mani basse se la saggezza del perdono e la comprensione delle meravigliose umane debolezze non venissero a togliere di scena ogni ipotesi di vendetta e punizione. L'intreccio potenzialmente esplosivo così si scioglie nel concertato finale: Fortunato l'uom che prende Ogni cosa pel buon verso, E tra i casi e le vicende Da ragion guidar si fa. Quel che suole altrui far piangere Fia per lui cagion di riso, E del mondo in mezzo ai turbini Bella calma troverà. Così fan tutte, o sia la scola degli amanti. Degli amanti: neutro plurale. E soltanto un librettista italiano, coetaneo di Casanova, ammiratore dei testi libertini dei poeti per musica del Seicento che erano stati cari a Claudio Monteverdi e Francesco Cavalli, poteva riuscire nell'impresa. Lorenzo Da Ponte deve tutto a Mozart; però Mozart trovò in lui, finalmente, il suo miglior poeta per musica. Correndo verso gli esiti di Don Giovanni, Così fan tutte, Il flauto magico, La clemenza di Tito, Mozart ci confida come ogni sentimento, ogni fatto, ogni individuo e ogni civiltà siano davvero comprensibili tenendo conto delle loro contraddizioni. [...] La prospettiva massonica auspica un'uguaglianza ben salda su interiori certezze. Nelle Nozze il singolo è dotato di più anime. Nessuno è riuscito a cogliere, come Mozart, la soggettività libera e imprevedibile. Solo accettando la trasformazione dell'altro è possibile amare. Non si tratta né di condannare, né, peggio, di ricucire i mille volti del sé. Si tratta di accoglierli in noi e nel prossimo. (Lidia Bramani)<2 Deprimente il confronto tra i due sovrani, il viennese e il berlinese? O troppo penoso, dopo il traguardo dei sei dedicati a Haydn, dopo l'Hoffmeister, comporre nuovi quartetti tenendo conto dei desideri e dei limiti del destinatario? Oppure Mozart non aveva voglia di scrivere sei quartetti su commissione, di dover essere non troppo «serio», però neppure troppo «leggero»? Il viaggio con destinazione Berlino inizia l'8 aprile 1789, il ritorno a Vienna cade il 4 giugno. Alla vigilia della partenza Mozart dedica alla moglie Per il viaggio programmato, una poesia di cui l'autografo è perduto. Otto versi: l'ultima parola di ognuno è stata scritta da Constanze. E da quella Wolfgang ha preso ispirazione. Se a Berlino devo andare, spero in verità di conquistare onore e gloria. Non do importanza alle lodi, di fronte a tanti elogi, moglie, tu resti muta. Quando ci rivedremo, ci scambieremo baci, ci abbracceremo, sublime gioial Ma lacrime, lacrime di dolore, scorreranno prima, spezzando il cuore e il petto. La partenza avviene in compagnia di Karl Lichnowsky, un principe e un suo allievo, che lo accoglie nella propria carrozza privata: condizioni di viaggio lussuose. Preoccupanti, invece, appaiono le condizioni di vita. Carissimo amico, - mi prendo la libertà di chiederle una cortesia senza tanti preamboli; - se potesse o volesse prestarmi 100 fi. fino al 20 del prossimo mese, Le sarei molto obbligato; - il 20 cade il trimestre del mio salario, e allora potrò, con riconoscenza, saldare i miei debiti. - Ho fatto troppo affidamento su 100 ducati (che devo ricevere dall'estero); - ma non avendoli finora ricevuti (li aspetto però a giorni) mi sono eccessivamente sguarnito di denaro, tanto che ora ne ho un bisogno immediato, e per questo ripongo la mia fiducia in Lei, giacché sono certissimo della Sua amicizia. - Pochi giorni prima di lasciare Vienna, Mozart scrive a Franz Hofdemel, funzionario del tribunale. Presto potremo chiamarci con un nome più bello! - La Sua faccenda sta per concludersi! - Il salario di 800 fiorini annui per il lavoro di «musicista della camera imperiale e reale» («Troppo per quello che faccio, troppo poco per quello che potrei fare!» era l'opinione di Mozart) gli veniva corrisposto in quattro rate trimestrali; i 100 ducati dovevano forse arrivare da Praga, dove era andato in scena il Don Giovanni; e infine in quei giorni di inizio primavera Hofdemel stava per essere ammesso alla loggia Alla speranza nuovamente incoronata, la stessa di Mozart. Si sarebbero così potuti chiamare fratelli. Fratello era anche Karl Lichnowsky, fratello il re di Prussia. Tuttavia, le speranze di successo economico e di nuovi incarichi affidate a quel viaggio svaniscono presto, nonostante i numerosi concerti tenuti in tutte le città toccate (Praga, Dresda, Lipsia, Potsdam), i «successi travolgenti» riportati dai cronisti, la rappresentazione, il 19 maggio a Berlino, del Ratto dal serraglio, nella serata in cui Mozart conosce il poeta Ludwig Tieck, allora sedicenne. Così, già il 23 maggio ammette a Constanze: «Mia carissima mogliettina, bisognerà che al mio ritorno tu ti rallegri più di me che del denaro. - 100 federighi d'oro non sono 900 fi., ma 700». I 100 federichi (un federico d'oro valeva tra i 7 e gli 8 florin) rappresentano, a detta di Mozart, l'anticipo per la composizione di sei quartetti per archi e di sei sonate per pianoforte che Federico Guglielmo e la figlia maggiore, Friederike, gli avevano commissionato, probabilmente durante i giorni trascorsi a Potsdam nella residenza di Sanssouci (Senza preoccupazioni), la "Versailles prussiana" fatta erigere da Federico II il Grande. La principessa non sarà più fortunata del babbo, anzi: delle sonate pattuite, Mozart ne comporrà una soltanto, la K 576, nel luglio del 1789, mentre a Parigi scoppia la Rivoluzione e di soucis i sovrani europei ne avranno molte negli anni a venire. Poco più di un mese dopo il ritorno a Vienna, Mozart riprende la corrispondenza con Johann Michael Puchberg, commerciante benestante, non ricco, di quindici anni più anziano di lui, massone, amico, il cui nome è comparso per la prima volta nell'epistolario mozartiano il 29 settembre del 1787. In quella occasione, scrivendo al marito di sua sorella Nannerl a Salisburgo, Mozart lo prega di indirizzare a Puchberg la cambiale di 1000 fiorini in moneta viennese a suo nome, come concordato tra i due fratelli riguardo alla divisione dell'eredità paterna. Da quel momento, il nome del fratello Puchberg appare spesso e sempre per lo stesso motivo. Il 12 luglio 1789, dopo aver rappresentato in modo nerissimo la sua condizione professionale e chiesto un prestito di 500 fiorini, informa l'«unico amico» che «frattanto scrivo 6 sonate facili per tastiera per la principessa Friederika e 6 quartetti per il Re, che farò stampare a mie spese da Kozeluch [Anton Tomas Kozeluch, di origine boema, dal 1785 editore a Vienna]; inoltre anche le 2 dediche mi frutteranno qualcosa». Spedisce la lettera il 14 luglio e tre giorni dopo ne scrive un'altra, ancor più impudica. a Monsieur Michael Puchberg chez lui addì 17 Julius 1789 Carissimo, dilettissimo amico e venerabile fr., Sabato prossimo ho intenzione di eseguire.. Lei è certamente adirato con me, dal momento che non mi dà alcuna risposta! - Se considero le Sue prove di amicizia e le mie attuali richieste, riconosco che ha perfettamente ragione. Ma se considero le mie sfortune (di cui non sono responsabile) e ancora una volta i Suoi sentimenti amichevoli nei miei confronti, allora trovo anche che io - merito perdono; dato che nella mia ultima lettera, mio carissimo, Le ho scritto con estrema franchezza tutto ciò che avevo nel cuore, oggi non mi resterebbe che ripetermi, ma devo aggiungere Io che non avrei bisogno di una somma tanto cospicua se non mi si prospettassero i terribili costi della cura di mia moglie, in particolare se deve recarsi a Baden, 2do che, essendo sicuro di trovarmi in breve tempo in una condizione migliore, la somma da restituire mi è proprio indifferente, ma al momento sarebbe preferibile e più sicuro se fosse considerevole. 3.tens devo scongiurarla, se al momento Le fosse del tutto impossibile aiutarmi con questa somma, di avere per me l'amicizia e l'amore fr. di sostenermi solo in questo momento con quello di cui Le è possibile privarsi, perché da ciò dipende veramente la mia sorte; - dubitare della mia onestà non può di certo, mi conosce troppo bene. Diffidare delle mie parole, del mio comportamento e della mia condotta di vita non può neppure, perché conosce il mio modo di vivere e il mio comportamento, di conseguenza - perdoni la mia fiducia in Lei, sono assolutamente convinto che solo l'impossibilità potrebbe impedirle di venire in aiuto al Suo amico; se può e vuole consolarmi in tutto e per tutto, La ringrazierò come mio salvatore anche oltre la tomba - perché Lei mi aiuta così ad assicurare la mia felicità a venire - se no - in nome di Dio, La prego e La scongiuro di un aiuto immediato a Suo piacere, o anche di consiglio e consolazione. Sempre il Suo obbligatissimo servitore P.S. Mia moglie ieri era di nuovo in uno stato miserevole. Oggi con le sanguisughe grazie a Dio si sente di nuovo meglio; - quanto sono infelice! - Sempre tra angoscia e speranza! - E poi! - Il Dr Closset ieri è stato qui di nuovo. [Thomas Franz Closset, medico molto noto, dopo aver curato Constanze seguirà Mozart durante la malattia mortale del 1791] In calce alla lettera, una nota autografa del destinatario: il 17 lug. 1789 eod. die risposto e inviato 150 fl. Supplichevole, astuto, anche mendace, perentorio, perfino ricattatorio, ma soprattutto scoperto nella «immediata» richiesta di denaro. Mozart scriverà a Puchberg - la persona che di più e più a lungo lo ha Concretamente aiutato - ancora: a luglio e dicembre del 1789, a gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio del 1790. La lettera del 17 maggio 1790 contiene un passaggio riferito ai nuovi quartetti: «Se sapesse le cure e le preoccupazioni che tutto questo mi crea - mi ha impedito per tutto questo tempo di terminare i miei quartetti [...] Sabato prossimo ho intenzione di eseguire i quartetti a casa mia e La invito vivamente con la Sua sig.ra consorte». All'inizio di giugno, un nuovo accenno: «Ora sono costretto a dare i miei quartetti (questo lavoro faticoso) per una cifra ridicola, solo per avere un po' di soldi in mano in queste mie circostanze». Come era accaduto per la «lunga e laboriosa fatica» dei sei dedicati a Haydn, ancora una volta, parlando di quartetti, Mozart racconta di un «lavoro faticoso»: una sensazione che ricorre molto raramente nel suo epistolario. Non sappiamo quanto «irrisorio» sia stato il prezzo pagato dall'editore Artaria, subito corrisposto, anche se la pubblicazione dei tre Prussiani avverrà, senza alcuna dedica al re di Prussia, negli ultimi giorni del dicembre 1791, dopo la morte di Mozart e preceduta da un ampio annuncio pubblicitario sulla Wiener Zeitung. Una nuova richiesta d'aiuto a Puchberg è dell'agosto 1790, poi ancora nell'aprile e durante l'estate del 1791. Ma ormai dei nuovi quartetti non si parla più. A metà maggio Mozart scrive una bozza di lettera a Sua Altezza Reale Franz Joseph Karl d'Asburgo-Lorena perché interceda presso suo padre Leopoldo II, fratello dell'imperatore Giuseppe II, deceduto il 20 febbraio, e futuro imperatore. L'ambizione alla gloria, l'amore per il lavoro, e la consapevolezza delle mie conoscenze, [tutti insieme] mi spingono ad avere l'ardire di far richiesta per un posto di secondo maestro di Cappella, in particolare perché l'assai valente maestro di cappella Salieri non si [è] mai dedicato alla musica da chiesa, mentre io fin dalla gioventù mi [sono] perfettamente impadronito di questo stile. La poca fama concessami dal mondo per il mio modo di suonare Piano=forte, mi dà anche il coraggio di rivolgere una preghiera alla Sua Altissima Grazia affinché mi affidi graziosissimamente l'insegnamento musicale della famiglia reale. - Non sappiamo se la richiesta fu o no formalmente inviata, in ogni caso non sarà esaudita. Mozart cerca lavoro, cerca allievi: «Ora ho 2 allievi, ma vorrei arrivare a 8 - cerchi di far sapere in giro che do delle lezioni» scrive a Puchberg. Il 10 ottobre sottoscrive una «ricognizione di debito», certificando che «l'illustre signor Heinrich Lackenbacher, commerciante accreditato in questo stesso luogo, mi ha prestato, dietro mia richiesta e per la mia necessità attuale, un capitale di 1000 fi.». Si impegna a rimborsarli in due anni, all'interesse del 5 per cento e «di versare puntualmente questo interesse ogni sei mesi, qui a Vienna». «Come garanzia sia del capitale che degli interessi do in pegno tutto il mio mobilio.» Alla morte di Mozart, il signor Lackenbacher non figurerà nell'elenco dei creditori, segno che il debito era stato già estinto. Il 1° ottobre Mozart, partito a proprie spese, senza aver ricevuto - a differenza di altri compositori - un invito ufficiale dalla corte, era già a Francoforte per assistere all'incoronazione imperiale di Leopoldo II, che aveva fatto il suo ingresso in città alla testa di un infinito seguito di 1493 carrozze! Il viaggio, ancora una volta alla ricerca di commissioni e occasioni, durerà fino al 10 novembre, toccando diverse città. Tornato a Vienna, trova la lettera in francese che il direttore dell'Opera italiana a Londra, Robert Bray O'Reilly, gli aveva inviato il 26 ottobre: «Se voi siete dunque in grado di trovarvi a Londra verso la fine del prossimo mese di dicembre 1790 per rimanervi fino alla fine di giugno 1791 e di comporre in quest'arco di tempo almeno due opere serie o comiche, secondo la scelta della direzione, vi offro trecento sterline». Una sterlina inglese valeva 10 fiorini, dunque la cifra era cospicua: tremila fiorini austriaci, quasi quattro annualità del suo stipendio a corte. O'Reilly chiedeva «la grazia di darmi una risposta immediata». Nello stesso periodo, arriva a Vienna per trattare con Haydn l'impresario Johann Peter Salomon, tedesco da tempo attivo a Londra. Haydn accetta l'invito e a Londra nasceranno le sue ultime sinfonie. Salomon contatta anche Mozart, che preferisce non dare seguito all'offerta, lasciando cadere anche quella di O'Reilly. Sono le condizioni di salute di Constanze, la speranza di ottenere nuovi incarichi a Vienna, o forse la combinazione delle due cose a spingerlo al rifiuto. Il 14 dicembre lui e Haydn cenano assieme. Il giorno successivo Haydn parte e - racconta uno dei suoi primi biografi - Mozart rimane in sua compagnia fino all'ultimo istante: Cenò con lui e al momento della partenza disse: «Ci stiamo salutando per l'ultima volta in questa terra». Avevano entrambi le lacrime agli occhi. Haydn era profondamente turbato, perché aveva riferito a sé le parole di Mozart, né mai lo sfiorò il pensiero che il filo dell'esistenza di Mozart potesse essere interrotto già l'anno dopo dall'inesorabile Parca.<3 Mentre non riesce a «terminare i miei quartetti», tra il 1789 e il 1791 Mozart compone molte nuove creazioni: i tre ultimi capolavori teatrali, Così fan tutte, Il flauto magico e La clemenza di Tito, numerose arie da concerto, il Quintetto con clarinetto, la rielaborazione di alcuni lavori di Händel, il mottetto Ave verum Corpus, danze, contraddanze e minuetti legati al suo incarico a corte, l'ultimo Concerto per pianoforte (K 595), le Variazioni in re maggiore per pianoforte, due fantasie per organo meccanico, l'Adagio e Rondò per glassarmonica, gli ultimi due quintetti per archi, il Concerto per clarinetto, due cantate massoniche (K 619 e K 623), l'incompiuto Requiem, al quale ancora lavora il pomeriggio del 4 dicembre, poche ore prima della morte. Un mare, un oceano di musica, ma non i tre quartetti necessari a soddisfare la richiesta del re di Prussia. Né da Berlino risultano pervenire richieste di chiarimenti o intimazioni di consegna del lavoro concordato. Ha forse colto nel segno Maynard Solomon, ipotizzando che la commissione ricevuta da Federico Guglielmo se l'era inventata Mozart per giustificare il fallimento del suo viaggio in Prussia di fronte a Constanze, alla quale nelle lettere talvolta mentiva, talvolta distorceva la realtà, sempre in chiave ottimistica? Il re, che avrebbe aspettato con tanta impazienza l'arrivo di Mozart, non gli concesse udienza; scrisse invece sul documento [un documento di corte datato 26 aprile 1789 e portato all'esame di Federico Guglielmo, nel quale «una persona di nome Mozart (che al proprio arrivo si è presentato come Kapellmeister di Vienna) ... domanda di aspettare l'invito che gli faccia sperare di essere ricevuto da Sua Maestà Sovrana»] le parole «Directeur Du Port», intendendo che Mozart andava indirizzato al direttore della musica da camera della corte Prussiana, Jean-Pierre Duport, e che doveva essere quest'ultimo a prendere la decisione che riteneva opportuna [...] Il problema è che a conferma dell'apparizione a corte di Mozart, della commissione di due serie di opere o del pagamento di somme di denaro non esistono registri di corte, lettere, memoriali, resoconti di giornali o documenti di sorta [...] Quando, poche settimane dopo la morte di Mozart, Artaria pubblicò i Quartetti, essi non avevano alcuna dedica. In genere le commissioni reali non erano trattate con tanta disinvoltura.<4 L'8 ottobre 1790, scrivendo alla moglie da Francoforte sul Meno, dove era andato in cerca di lavoro, Mozart, tra altri progetti, accenna all'idea di dare durante l'Avvento «dei piccoli concerti su sottoscrizione per quartetto» (e non più Accademie con orchestra). L'originale progetto di questo ciclo di concerti dedicato alla propria musica cameristica e in particolare ai quartetti non avrà seguito. E resteranno allo stato di frammenti due rondò (K 589a e K 589b) e altri schizzi destinati, forse, a diventare quartetti.<5 Per quanto riguarda le reali condizioni economiche della famiglia Mozart - Wolfgang, Constanze, Karl Thomas e Franz Xaver Wolfgang, che nasce il 26 luglio 1791, poco più di quattro mesi prima della morte del padre - appaiono definitive le considerazioni di Robbins Landon. Dopo aver confrontato le voci di spesa e di incasso, i debiti e i crediti, gli affitti e gli stipendi, dopo aver guardato nei guardaroba di casa e letto tutte le voci dell'Inventario cautelativo stilato nel dicembre 1791 dopo la morte del compositore, lo studioso statunitense conclude: [I Mozart] erano certamente spensierati e prodighi di ospitalità e, particolarmente, di denaro: per esempio, nel 1791 poterono a stento permettersi di prestare 500 fiorini ad Anton Stadler [clarinettista, dedicatario del Quintetto con clarinetto, detto Stadler-Quintett, e del Concerto per clarinetto, massone]. Ma tale generosità è ben lontana dall'avventatezza e dalla irresponsabilità che è stata spesso attribuita loro. Sembra piuttosto che non fossero interessati al denaro in quanto tale; però, furono sventati nello spenderlo.<6 Avevano un certo tenore di vita, e ci tenevano. Anche nella commemorazione del fratello Mozart, tenuta nell'aprile del 1792, Carl Friedrich Hensler, secondo sorvegliante della loggia Alla speranza nuovamente incoronata, accenna alla sua generosità: Non dobbiamo dimenticare di rendere omaggio al suo cuore eccellente. Fu uno zelante membro del nostro Ordine: amore per i fratelli, tolleranza, bontà, beneficenza, vero intimo sentimento di gioia, quando poteva giovare con le sue doti a un fratello, erano i tratti eminenti del suo carattere [...] Gli mancarono soltanto i tesori necessari a far felici, secondo il suo cuore, centinaia di persone. <7 I tre Prussiani vengono composti in due distinti momenti: il primo - K 575, in re maggiore - nel giugno del 1789, il secondo e il terzo - K 589, in si bemolle maggiore, e K 590, in fa maggiore - un anno dopo, tra maggio e giugno del 1790. L'inizio del primo movimento del K 575, «Allegretto», è sottovoce per i due violini e la viola, su figurazioni diverse, subito creando un dialogo tra secondo e primo. Il violoncello tace per le prime otto battute, creando l'attesa per la sua entrata, che avviene anche per lui sottovoce a battuta 9. Quando di nuovo tace, il primo violino si inerpica nell'acuto, svettando: sono schermaglie, brevi scosse di elettricità che anticipano la lunga arcata tenuta, sempre iniziando piano e dolce, del violoncello a battuta 32; la conversazione ora proseguirà soprattutto tra i due strumenti estremi, come se il più grave e saggio esercitasse una funzione di moderazione rispetto alle impennate del suo interlocutore. È lui a tenere la barra, con una certa solennità, senza essere chiamato a episodi brillanti: meglio non chiedere al sovrano passaggi tali da metterlo in difficoltà? Nel rispetto della forma sonata, senza particolari contrasti espressivi, nel rilievo dato ai momenti concertanti, dove i singoli strumenti emergono portando ciascuno il proprio contributo, il movimento prosegue con regolarità, interrotta da incisi brevi e graffianti, da alcuni secchi contrasti dinamici. Senza oscurità, senza sorprese spiazzanti. Alla viola, poi al violoncello, è affidato il compito di lanciare, con delle quartine puntate, la corsa verso il finale, dove tutti approdano insieme, mentre solo per il violoncello, alla terzultima battuta, è prescritto di tenere forte, a lungo e legato, un la, quinta dell'accordo, mettendosi così in evidenza. Sottovoce inizia anche l'«Andante». La melodia richiama il motivo di Das Veilchen, il Lied (K 476) su testo di Goethe che Mozart aveva composto nel giugno del 1785. In qualche edizione, capita di trovare accanto al numero di catalogo K 575 il titolo di La violetta affibbiato a questo quartetto, «tourné plus vers la cour que vers le cœur» (rivolto più alla corte che al cuore), osserva caustico Fournier. Alla battuta 8, inizia un crescendo, con il primo segnale di attenzione per il violoncello, che riceverà poi, passando dalla chiave di basso a quella di soprano, il suo momento di protagonismo cantabile. Simmetrico nella forma ternaria, tessuto su uno sfondo di raccolta intimità nostalgica, mai dolente, il movimento si avvia morbido alla conclusione, dopo che primo violino e cello si sono passati un'ultima volta il testimone salendo all'acuto, come per salutarsi. Alfred Einstein nota che nel primo e secondo movimento Mozart «adoperò l'incipit del felice periodo milanese e portò a termine l'opera in uno spirito giovanile e maturo al tempo stesso». Bernhard Paumgartner osserva che «l'impostazione dei primi due tempi risale forse a epoca precedente». Nessuno dei due grandi studiosi fa però riferimenti precisi. Nella prefazione all'edizione critica, Ludwig Finscher afferma che, ritornato a Vienna dal viaggio a Potsdam e Berlino, Mozart «evidentemente iniziò a lavorare al primo quartetto usando schizzi precedenti». Come ogni compositore, Mozart aveva un proprio "baule" dal quale, secondo un'usanza molto in voga anche tra i cantanti, pescare all'occorrenza temi, motivi, frammenti appuntati e messi da parte, che sarebbero tornati buoni in momenti di deficit di ispirazione o di affollamento di impegni. Oggi diremmo un hard-disk con una memoria piena. Nel caso del primo Prussiano, non possiamo affermare con certezza che Mozart abbia fatto ricorso a del materiale completo già esistente. Il «Menuetto» in tempo allegretto è davvero un minuetto, non una sua caricatura, o perfino una voluta distorsione come Mozart aveva preso gusto a scrivere nei precedenti quartetti. E lo è da subito, nella regolarità dell'andamento in 3/4, nella linearità dei giochi di ruolo delle quattro voci: prima tutti assieme, poi spazio al primo violino, poi dialogo tra i due violini, poi tra viola e cello. Alla seconda ripresa del tema, tutti suonano degli accordi forte seguiti da note staccate: una breve intensificazione espressiva, un giocoso guizzo di fiamma. E il violoncello di Federico Gugliemo II? Eccolo, nel trio: primo e secondo gli porgono proprio un invito a iniziare e lui lo fa ancora una volta in chiave di soprano (il sovrano la preferiva?), avviandosi piano e legato e così continuando, sempre nel ruolo dell'uomo saggio e ponderato, in dialogo col primo violino e poi con la viola (che procedono, prescrive Mozart, simile, uno ascoltando l'altro, senza ghiribizzi individualistici). Poi, Menuetto da capo senza repliche, cioè senza eseguire i ritornelli. Per evitare che la simmetria sconfini nel tedio. E si arriva al finale, di nuovo «Allegretto», di nuovo in re maggiore. Al violoncello è affidata l'esposizione del primo tema del movimento di maggior peso, che "salva" il quartetto anche agli occhi degli osservatori più critici: Il Quartetto in re, come i due seguenti - in si bemolle e in fa del maggio e giugno 1790 - è molto diverso dalla serie perfetta e ispirata dei sei dedicati a Haydn nel periodo felice dei Concerti. Inizia come un compito erudito, concentrato, contratto, ingrato, fa sprizzare dal tema tutto il suo succo, lo forza. Occorrono il secondo tema dell'«Andante» e il trio del «Menuetto» per liberare la farfalla, cioè la melodia, che poi rientra nel suo bozzolo. Col finale tutto muta, perché il problema è già risolto, la scienza ha raggiunto la bellezza, il florilegio, la danza. La ginnastica dello spirito agisce sul cuore, sui sensi, l'avvolge fremente con tutto il pensiero umano, il rompicapo contrappuntistico diventa puro diletto.<8 Così Henri Ghéon nelle sue romantiche, e tanto letterarie, Passeggiate con Mozart. Più tecnicamente, Abert individua, nel «contrappunto liberamente inteso [del Finale] la caratteristica saliente dell'ultimo stile mozartiano»: Analogamente a Haydn quindi, Mozart è giunto, attraverso una fase di contrappunto rigorosa (culminante nella Sinfonia in do maggiore), a un nuovo tipo di scrittura che combina la tecnica tematica e quella contrappuntistica, lasciando però a quest'ultima, a differenza di Haydn, una palese preminenza. Già qui infatti egli si serve di un mezzo che d'ora in poi tornerà sempre più di frequente nei suoi lavori: il rivolto dei temi, per esempio dell'idea principale.<9 Insistere sui temi, sulle loro possibilità metamorfiche: lezione che Beethoven farà propria, ancora dilatandola. Il tema del quarto movimento del primo Prussiano è uno soltanto, scelta compiuta da Mozart anche per l'«Allegretto» dell'Hoffmeister. Il suo frequente ritornare è tipico del rondò e, come mostra il manoscritto custodito al British Museum, per l'ultimo movimento del K 575 Mozart all'inizio ha in mente proprio un Rondeaux, per il quale scrive otto battute, affidate al primo violino e poi cancellate. «Forse il "popolare" stile di rondò gli apparve troppo leggero (il movimento sarebbe stato l'ultimo rondò alla francese nelle opere di Mozart, tre anni dopo il finale del Trio con clarinetto K 498), o forse lo disturbò l'ovvia rassomiglianza al tema principale del finale della Sinfonia in sol maggiore n. 88 di Haydn» (Ludwig Finscher).<10 Una frase discendente del primo violino è l'unico accenno a una seconda idea tematica, confinata però in questo inciso melodico. Il movimento prosegue tra solido tematismo, contrappunto, melodia, fibrillazione dinamica, distribuzione di valori diversi tra le parti; infine, dopo un'ultima eco del tema affidata al primo violino, in un gioco di imitazione e variazione che tutti coinvolge, si arriva al finale, con un poderoso slancio sinfonico. Poi, per un anno intero, niente quartetti. Secondo e terzo Prussiano nascono a maggio e a giugno del 1790 e nella sequenza del catalogo seguono immediatamente Così fan tutte (K 588). «Questo lavoro faticoso» cui Mozart accenna nella lettera a Puchberg del 12 (?) giugno 1790, risalta nel K 589 e K 590 e rende difficile accostare i suoi due ultimi quartetti al K 575. Emergono le differenze, più che la continuità. Mozart aveva frequentato professionalmente principi e re sin da bambino, imparando a conoscerne i gusti. Se ha osato, nei Sei Haydn, arditezze assolute, potrà proporre la stessa complessità a Federico Guglielmo II? Alle sue dipendenze, come primo violoncello dell'orchestra imperiale, lavora Jean-Louis Duport, appena arrivato da Parigi, dove, con il suo magnifico Stradivari, era primo violoncello dell'orchestra dell'Opera. A Berlino, Jean-Louis raggiunge il fratello maggiore Jean-Pierre - Duport il vecchio - che suonava nell'orchestra della corte prussiana dal 1773. E per Jean-Pierre, anch'egli violoncellista e compositore, Beethoven scriverà nel 1796 le due Sonate per violoncello op. 5. Partendo da un minuetto composto da Jean-Pierre, Mozart scrive, il 23 aprile 1789, le nove Variazioni per pianoforte K 573. Inoltre, il re apprezza i brani cameristici del molto prolifico Luigi Boccherini. Allo stesso sovrano, Haydn ha dedicato i sei quartetti dell'op. 50, pubblicati nel 1787, di concezione tutt'altro che semplice, dimostrando così che l'autore non si è posto dei limiti di scrittura, né tecnici, né di pensiero. Difficile risolvere l'enigma degli incompiuti Prussiani. Nei K 589 e 590 la tensione, gli scarti espressivi, l'invenzione improvvisa prevalgono sulla simmetria, la cantabilità, lo schematismo affiorati nel precedente quartetto. [Un' impressione] di gaiezza forzata e stravolta si ricava dai movimenti rapidi del Quartetto in si bemolle maggiore K 589, il più glaciale e geometrico dei tre, con gli intrecci canonici e i contrappunti a specchio dell'Allegro e del Rondò finale e con quella sorta di acre parodia dello stile "brillante" alla francese e delle sue fatue smanicature, che balza fuori nel trio del Minuetto, in un vero tripudio di sonorità affilate e pungenti. (Giovanni Carli Ballola) Glaciale e geometrico: tutto procede come in una sequenza disegnata a tavolino prima di cominciare a scrivere. Disegnata benissimo: i due violini attaccano l'«Allegro», alla seconda battuta si aggiunge la viola, alla sesta entra il violoncello, anche lui piano, però con un passo più marcato, evidente. I due protagonisti del movimento saranno, come già era accaduto nel primo Prussiano, gli strumenti estremi, affidando al violino un disegno spiritoso, in una prevalente atmosfera cantabile, però vista da lontano, come in un effetto di straniamento, e che rimane estranea all'energia travolgente di tanti allegri iniziali. Al cello è concesso un importante passaggio solistico a battuta 45, ancora in chiave di soprano, e la sua ampia frase viene "ceduta" al violino che sembra proprio attenderla; poi si inserisce il secondo che la riprende, la gira di nuovo al cello, che la restituisce al primo. Ci si avvia così alla tranquilla conclusione dell'esposizione, che precede la ripresa. Però, questo geometrico «Allegro» viene attraversato da un momento di follia: a battuta 72, all'inizio dello sviluppo, tutti per cinque battute attaccano una frase forte, inattesa. Un passaggio, si direbbe a Venezia, descanta baùchi, capace di produrre un certissimo effetto. Da svegliare anche i morti. Frase brevissima, presto riavvolta e oscurata dal ritorno del più morbido andamento con cui era iniziato il movimento, che ora dà vita a una serie di imitazioni, diverse per intensità, con lievi alterazioni cromatiche; però, quell'isola di sei battute non è affondata, riemerge, sempre provocando un sussulto, al punto da chiedersi: quando sarà la prossima volta che l'ascolteremo? Dallo sviluppo ci si incammina verso la riesposizione, mentre il dialogo strumentale prosegue, lasciando anche alla viola più di un momento di evidenza. A un passo dalla conclusione quell'inciso così violento, così fuori contesto, ritorna un'ultima volta, marcando di sé le battute finali, prima della quiete. Il «Larghetto» destinato (forse) al re di Prussia inizia affidando il tema al violoncello, sotto voce, mentre la viola ne sostiene il percorso e il secondo violino disegna una prima divagazione. Riflettendo su questo inizio, Diether de la Motte vi riconosce un esempio caratteristico, e molto "italiano", del ruolo della melodia nella scrittura mozartiana: La melodia del «Larghetto» del Quartetto per archi K 589 di Mozart viene suonata dal violoncello in un registro molto acuto, il secondo violino accompagna, la viola fornisce, dopo il pedale di tonica, il necessario fondamento armonico, il primo violino tace: non c'è alcun bisogno di un quarto evento sonoro [...] La melodia di Mozart è già significativa in sé e per sé. L'andamento armonico è già chiaro nella stessa melodia, la si può cantare e la si possiede interamente.<13 Quando, anch'esso sottovoce, entra il primo violino, gli vengono affidati la ripresa del tema e un episodio di canto solistico. Siamo nel pieno di un arioso, che lascia al violino una seconda idea motivica, alla quale risponde il violoncello, anche lui in un solo. Senza sviluppo, senza interrompere o deviare la linea del canto, si avvia la riesposizione, galantemente ornata (ci dicessero che questa musica è di Boccherini, non sarebbe impossibile crederci), riflessiva nel passaggio in cui la simmetria del dialogo si interrompe per lasciare spazio a diversi respiri, a momentanee assenze del secondo, della viola, del cello, mai del primo violino che prosegue il suo canto fino alla conclusione, quando tutti si ritrovano sull'accordo di mi bemolle, tonica del movimento. Suonato piano e sospeso, svanendo. Una seconda imprevedibile decisione - dopo la frase rapinosa che rende improvvisamente tagliente il primo movimento - Mozart la prende nel «Menuetto». Il trio di 66 battute non solo è lungo quasi il doppio del vero e proprio minuetto (37 battute), ma ha un carattere che sconcerta. L'avvio del «Menuetto» - dopo il «Larghetto» in mi bemolle si ritorna qui al si bemolle dell'«Allegro» iniziale, rispettato anche nell'«Allegro» conclusivo - è ricco di idee: primo accordo forte, enunciazione del tema in piano, ritorno del forte, ripresa della frase affidata solo al primo violino, trillo della viola, pausa. Poi, ripartenza del motivo, più distribuito tra le quattro voci, più variato nel rapporto tra accelerazione e distensione, più generoso verso le ambizioni del primo violino. Nel trio, l'«acre parodia dello stile francese» emerge nel passo d'avvio di secondo violino e viola, prescritto simile e veloce e impettito, nello svettare incipriatissimo e vanitoso del primo, capace di accelerazioni quasi parossistiche, isteriche. Nel frequente mutare d'aspetto dell'idea iniziale, c'è spazio, all'inizio della seconda parte del trio, anche per l'ironia, in quel vero e proprio colpo di sonno di secondo, viola e violoncello subito svegliati, per due volte, dal richiamo del primo. E c'è, netto, lo stupore creato da una pausa di tutti - a battuta 31 - dalla quale si ricomincia, ma in una diversa tonalità, brevemente accarezzata e poi lasciata: un segnale di quella mozartiana volontà, che più volte emerge nelle opere degli ultimi anni, «di disturbare la regolarità del corso armonico con inattesi dirottamenti verso regioni tonali lontane» (Rudolf Gerber),<14 con una scelta che già lo proietta in territori romantici. Dopo questo contenuto smottamento, riprende il motivo iniziale, ora con più marcata intensità, in un crescendo che fa ancora salire la temperatura, accentuando la molteplicità degli aspetti e l'originalità del trio. Se per due movimenti Mozart era stato canonico, qui rompe gli schemi. L'«Allegro assai» conclusivo, nella sua veloce brevità, ripropone il monotematismo: una sola idea, continuamente variata, con una alternanza espressiva degna di un personaggio d'opera. Baldanzoso, dubbioso, propositivo, che ora parla con tono normale, ora alza la voce, ora sussurra, si abbandona al piacere del ricordo, tace: ancora una volta la pausa è una utilissima risorsa teatrale, che interrompe e crea attesa. Tutte queste intenzioni vivono in una scrittura che, lasciando spesso emergere la sonorità svettante del primo violino, continuamente sposta il baricentro dall'euforia alla quiete, dalla luminosa leggerezza al chiaroscuro, fino alle battute ultime dove l'aspetto umbratile prevale. Iniziato piano, piano si conclude un movimento attraversato da un virtuosismo contrappuntistico serrato e astratto, ancora più disinvolto che nel finale del primo Prussiano, ancora più teatrale. Coerente nella sua libertà dalla prima all'ultima battuta. «Fra tutte le moderne sonate per quattro strumenti [i quartetti di Mozart] rispondono di più al concetto di un vero quartetto e, in grazia della loro originale mescolanza fra lo stile legato e lo stile libero e del trattamento armonico, sono unici nel loro genere» nota già nel 1793 Heinrich Christoph Koch, tra i principali teorici della musica di area germanica.<15 L'avvio del K 590, in fa maggiore, è magistrale da ogni punto di vista: la caratterizzazione del primo e del secondo tema e della loro diversità; la capacità di creare, già nelle primissime battute, una drammaturgia dell'attesa; il modo in cui le quattro voci si intrecciano. E tutto avviene - sembra - per uno spontaneo fluire. I quattro strumenti iniziano piano e legato, il primo tempo di battuta 2 è invece prescritto forte e dà avvio a un veloce arpeggio discendente. Poi, il respiro di una pausa e a battuta 4 riprende lo stesso disegno, però senza l'indicazione forte, sostituita da un piano: l'idea si ripresenta così eguale e diversa, con due esiti possibili, contemporaneamente. Subito dopo, il primo violino stacca il suo disegno melodico, che riprende il motivo del tema. A quel punto, mentre il tema passa al violoncello, inizia il dialogo tra le voci estreme, che poi coinvolge gli altri due strumenti, accelera e ripiega, prima che a battuta 31 sia il violoncello a esporre forte e poi subito piano il secondo tema, che entra nel flusso tracciato dal primo, nel segno della continuità di pensiero ma rovesciandone l'andamento: da discendente ad ascendente. Poi, è la viola ad avere dei momenti di evidenza solistica. La prima parte dello sviluppo è affidata al dialogo tra primo violino e violoncello (anche nell'ultimo Prussiano la più grave delle quattro voci assume un ruolo tutt'altro che secondario), che si scambiano l'un l'altro due diversi motivi: uno discendente, segnato da intervalli ampi e sempre diversi e da due note ben scandite, e uno ascendente e legato. L'indicazione dinamica è una soltanto: piano. Piano per tutti, anche per secondo violino e viola, che discretissimanente seguono quel discorrere. Ma piano fino a quando? Fino a battuta 93, quando esplode il primo forte, il passo accelera e il dialogo diventa un intreccio contrappuntistico che di colpo erompe in primissimo piano. È un'isola scoscesa, selvaggia, destinata a vita brevissima, perché poco dopo inizia la riesposizione che ripropone il tema iniziale. Un flash, anticipo di folgorazioni che verranno nei movimenti successivi. Dalla riesposizione alla coda, che attacca forte e dove tutti gli elementi che caratterizzano il movimento - i due temi e i due motivi dello sviluppo - si incontrano e si fondono. Poi, con un rallentando non indicato nell'autografo, ma che molti interpreti prediligono, si va a chiudere, con l'ultima battuta affidata a violino primo e violoncello, che ora, per la prima volta, intonano la stessa frase, nel registro acuto, dove la materia del suono è la luce. L'«Allegretto» (così la prima edizione a stampa, mentre nell'autografo l'indicazione è Andante, ma il cambiamento è probabilmente decisione di Mozart) è «uno dei tempi più delicati di tutta la musica da camera; sembra fondere il dolore e la beatitudine di un addio alla vita. Come è stata bella la vita! Ma come breve e piena di delusioni» (Alfred Einstein).<16 Un tema, uno soltanto, sviluppato con accenti, respiri, colori diversi, esposto da tutti gli strumenti in un piano che rimarrà il tono dominante del movimento. È un tema affannoso, che non riesce a svilupparsi, a prendere un respiro regolare, che vorrebbe alzarsi, ma sempre deve ricominciare da dove è iniziato. Un'eco dell'ossessività dell'«Adagio» introduttivo del Quartetto delle Dissonanze vive anche qui. Il primo violino inizia allora una personale strategia di distacco da questa ansia che tutti coinvolge, e il violoncello lo asseconda, riprendendone il disegno, rimarcato poi dalla viola: senza grida, senza spavalderie, tutto rimanendo nell'ambito del discreto, tranne un inizio di battuta - la 37 - forte. Un lampo, uno solo, per ora, e con accenti spostati per duplicarne l'effetto: prima i due violini, poi viola e violoncello. Con passaggi veloci e scanditi, alternati a brevi frasi più distese, il primo violino tende al registro acuto e sovracuto, che progressivamente raggiunge, toccando regioni del suono-luce mai prima esplorate in un quartetto mozartiano. Nello sviluppo, dopo un momento di dialogo avviato dal violoncello, che progressivamente sprofonda nella regione oscura del suono, appare il secondo forte: uno strappo di tutti, che dura soltanto due battute e per questa sua aspra brevità si fa ancor più rimarcare. Una violenza che sembra voler costringere il primo violino a scendere dalle sue altezze, e infatti il suo suono precipita di quattro ottave verso il basso. Poi riprende il piano che conduce alla riesposizione, dove Mozart crea la seconda creatura anomala del K 590. Il movimento era iniziato nella condivisione di un motivo comune, ma da battuta 63 appare un inciso affidato dapprima alla viola, soltanto alla viola, legato. È un breve ritmo lombardo, scandito da pause, ripetuto per quattordici volte, prima di essere ceduto al primo violino e ripreso dal violoncello. Vive in questo continuo accennare e ricominciare di un breve, e perfino buffo motivo, in questo salire e reclinare, distendersi e ripiegarsi, quell'addio alla vita e alle sue dolcezze visto da Einstein? La coda del movimento inizia in crescendo, tocca il forte prima di ritornare al prediletto piano. Anche l'«Allegretto», come l'«Allegro moderato», termina nel registro sovracuto, avvolto in un pulviscolo luminosissimo, lontano fino a rendersi invisibile. Il «Menuetto», in fa maggiore e in tempo allegretto, inizia scherzoso: 7 battute durante le quali i due violini, in piano, battono il tempo di uno Jodler tirolese. Il secondo periodo, affidato alla viola, è anch'esso di 7 battute, però inizia forte per la viola e poi per il violoncello, che così segnalano il loro ingresso, e passa dal fa maggiore al re minore: in un attimo, due novità sorprendenti. Il motivo continua ma, grazie alla decisione di usare un numero di battute dispari e di non rispettare la canonica simmetria di 8 battute, non riusciamo a capire se Mozart cita davvero o si avvicina e si allontana, proseguendo in quella atmosfera di instabilità che ha sinora caratterizzato il quartetto e che deriva anche dalla scelta di violare la regola aurea della periodicità della frase. La periodicità, chiaramente una questione centrale nella musica del tardo Settecento, era stata discussa in dettaglio dal teorico Joseph Riepel, uno dei cui trattati era in possesso di Leopold Mozart e che, dunque, può essere stato usato nell'istruzione musicale di suo figlio. La preferenza di Riepel andava alle frasi simmetriche, bilanciate in unità di due o di quattro battute. (John Irving)<17 Se ancora ci fossero dubbi sul gusto di Mozart per la demolizione dell'immagine tradizionale del minuetto, scompaiono con quanto accade subito dopo: la frammentazione tra le quattro voci. Ognuna segue una propria traiettoria, in modo rude, strappato, crescendo e sforzando; gli accenti sono spostati, non simultanei, il peso del forte di alcuni strumenti si accentua prescrivendo alle altre voci delle pause; in poche battute è raggiunta una totale instabilità armonica e ritmica. È l'addensarsi di una tempesta e stupisce la sua gratuità, la sua non necessità all'interno del percorso in cui ci troviamo. Ma questo è il genio. Poi il violino, ignorando il caos che lo circonda, disegna la sua frase puntata e cortese, da vero minuetto, là in alto, ma viene interrotto, però poi ritenta e adesso riesce, convincendo tutti a ritrovarsi, a parlare piano, perché ora, dopo la ripresa, sta per iniziare il trio. E qui Mozart gioca: non è accaduto nulla, ecco il tranquillo motivo dell'esordio, non lo sentite cantato da tutti assieme, danzando? Soltanto un'appoggiatura sbarazzina del primo violino crea qualche buffo inciampo; soltanto il violoncello è un po' ondivago, sale e scende con intervalli ampi, e con poche legature; a dire il vero anche secondo violino e viola potrebbero procedere più tranquilli, senza quei cambi frequenti del valore delle note e quelle brevi pause che rendono un po' affannoso il cammino. Se non fosse per questi dettagli, il trio sarebbe cantabile, disteso. Nella seconda frase ritorna all'inizio il forte, mentre il dialogo prosegue, a coppie: prima tra secondo violino e viola, poi tra primo e violoncello, per concludersi in imitazione, scandita dalla prescrizione delle note staccate, una per una. Poi, minuetto da capo, come sempre. L'ultimo movimento del suo ultimo quartetto è un «Allegro», in tempo di 2/4. Il primo violino fa subito decollare il tema, piano e veloce, svettante, con un andamento che al tempo piaceva chiamare "all'ungherese", volendo così definire una vivacità, una pulsazione ritmica più tzigana che magiara. Risponde la viola e il motivo guizza e ritorna, rispettando la forma del rondò, mentre le voci si incontrano assieme e assieme si fermano. Poi, a battuta 42, il primo scarto: per tre volte il cammino si arresta, per tre volte il suono incontra il silenzio, raggiunto attraverso tre accordi indicati da Mozart con una corona. Primo silenzio, prima ripartenza piano; secondo silenzio, seconda ripartenza piano; terzo silenzio, attesa, terza ripartenza però questa volta forte. Subito dopo «improvvisamente si innesta un secondo tema, in re minore, a carattere marcatamente tragico, con grandi balzi di intervalli discendenti, poiché nulla giustifica una tale irruzione appassionata, che passa in realtà senza lasciare alcuna traccia» (Massimo Mila).<18 Senza svilupparsi, senza modificarsi, come dovrebbe essere congruo a un tema. Questa eruzione ha la violenza di quello che gli psichiatri chiamano "pensiero intrusivo", una pulsione che scompare con la stessa incontrollabile rapidità con la quale si era manifestata. Non prevedibile, non preparata. Quando non accade, quando non scompare, il pensiero intrusivo si trasforma in disturbo ossessivo- compulsivo. La musica dell'ultimo Schubert sarà affollata e sconvolta da tali pensieri. E questo passaggio nell'ultimo dei Prussiani ne rappresenta un'anticipazione. Poi, a battuta 78, entra il secondo tema, più sognante, disteso, affidato al primo violino, segnato dal ghiribizzo di un gruppetto, mentre lo slancio del primo tema appare e vortica tra secondo violino, viola, violoncello. Durante lo sviluppo - da battuta 134 a battuta 184 - il pensiero intrusivo ritorna e prende il sopravvento e accade qualcosa, non solo nella storia ancora giovane del quartetto, di inaudito. Il motivo velocissimo all'ungherese viene riproposto dal primo violino, poi dal violoncello, poi dal secondo, poi dalla viola, ma all'interno di questo percorso se ne svolge un altro. Il moto perpetuo è accompagnato da lunghi accordi tenuti dagli altri strumenti, da un breve inciso indicato sempre con un trillo, in una modulazione continua, segnata da altrettanto frequenti dissonanze, da un colore del suono livido, inciso da striature che graffiano. È impossibile e inutile cercare qui una base d'appoggio, un armonico punto di riferimento. In questo sviluppo, avviato e tenuto sempre su un suono forte, sulla violenza dei contrasti, non è riconoscibile il germe di quella che sarà nel 1824 la Grande Fuga, tanto libera quanto rigorosa concepita da Beethoven? Lo stesso furore, la stessa astrazione, la stessa capacità di abbagliare: qui come episodio in un contesto, in un flusso diverso in Beethoven dilatati fino ad assumere l'aspetto e la compiutezza di opera a sé, e unica, contemporanea per sempre. Questi due momenti, la tragicità del secondo tema e la visionarietà dello sviluppo, consentono - ricordando i cupi bagliori dei movimenti precedenti - di parlare per l'«Allegro» conclusivo e per l'intero ultimo quartetto di "opera al nero". Ma non eravamo in un rondò? Certo, siamo pur sempre in uno schema di forma sonata-rondò e dunque il moto perpetuo continuerà sino alla fine. E nella riesposizione ritorna anche quel tema «a carattere marcatamente tragico, con grandi balzi di intervalli discendenti», scandito dalle tre fermate improvvise e dall'asprezza degli ampi intervalli prescritti al primo violino. La conclusione arriva in piano, senza annunci, rinvii, senza compiacimenti, rimarcata da alcuni trilli: due per il primo violino da solo, poi altri tre per i due violini assieme. E, come per tutti i movimenti precedenti di questo quartetto, e solo di questo quartetto, nel luminoso registro acuto. Tra le ipotesi possibili relative al mancato completamento dei sei Quartetti prussiani, ne va presa in considerazione un'ennesima: che Mozart abbia deciso di fermarsi qui, dopo aver raggiunto le colonne d'Ercole dell'età classica. * Pur avendo Dio, il mondo, gli uomini, se stesso, il cielo e la terra, la vita e soprattutto la morte dinanzi agli occhi, nell'orecchio e nel cuore, egli è stato un uomo intimamente non problematico e quindi libero: in un modo che gli era, a quanto sembra, lecito e manifestamente necessario, e quindi esemplare. Ma questo comporta che la musica di Mozart sia priva, in maniera del tutto inconsueta, di ogni eccesso, di ogni rottura e contrapposizione sul piano dei princìpi. Il sole risplende, ma non abbaglia, non consuma, non arde. La volta del cielo si eleva sopra la terra, ma non la opprime del suo peso, non la soffoca e non l'inghiotte. E così la terra rimane la terra, ma senza doversi affermare in una rivolta titanica contro il cielo. Anche le tenebre, il caos, la morte e l'inferno si rendono visibili, ma non v'è un solo momento in cui riescano a prendere il sopravvento. Mozart compone la sua musica avendo conoscenza di ogni cosa, partendo da un centro misterioso e quindi conosce e osserva i limiti posti a destra e a sinistra, verso l'alto e verso il basso. (Karl Barth)<19 Mozart, ossia la capacità di osservare, comprendere e restituire ogni nostra esperienza «dinanzi agli occhi, nell'orecchio e nel cuore». La traiettoria dei ventitré quartetti per archi, iniziata una sera di metà marzo del 1770 nella locanda della stazione di posta di Lodi e conclusa nel giugno del 1790 a Vienna nell'appartamento di Judenplatz 4, racconta quanto tale attitudine si sia affinata, evoluta, raggiungendo i vertici della sua arte. E infine: questo imperfetto racconto è soprattutto un invito all'ascolto. Perché, oggi, ascoltare la musica eseguita dal vivo? Perché a Mozart non erano concesse altre modalità e a lui piaceva così, potrebbe già essere una risposta sufficiente. Perché pensava e scriveva musica immaginando gli effetti e le reazioni che avrebbe prodotto sul suo pubblico, mentre la sentiva/vedeva nascere, mentre i muscoli, i nervi, gli sguardi, la memoria, il pensiero, il corpo e la mente degli interpreti erano, come tuttora sono, impegnati davanti a noi, ai nostri occhi, orecchi, intelletto e affetti. Questo modo di condividere la musica non è sostituibile da alcuna tecnologia e non lo sarà mai. Rimane un rito sociale incruento e amoroso, necessario.
Ringraziamenti
La Società del Quartetto di Milano, che ha avuto l'idea Antonello Farulli, interlocutore per me insostituibile Paolo Arcà, per la preziosa e costante attenzione critica Markus Engelhardt, direttore della sezione Musica dell'Istituto Storico Germanico di Roma, con Christine Streubühr e Roberto Versaci Malgorzata Krzos, responsabile manoscritti della Biblioteca Jagellona di Cracovia Annalisa Bini, direttore della Bibliomediateca dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia Marco Scolastra, per i molti suggerimenti
Cronologia dei quartetti
Quartetto di Lodi Lodi, 15 marzo 1770: ultimo movimento composto a Salisburgo o Vienna nel 1773 Quartetto in sol maggiore K 80 Adagio, Allegro, Menuetto, Rondo I sei Quartetti milanesi Bolzano, Verona, Milano tra il 28 ottobre 1772 e i primi di marzo 1773 n. 1 - Quartetto in re maggiore K 155 Allegro, Andante, Molto allegro n. 2 - Quartetto in sol maggiore K 156 Presto, Adagio, Tempo di minuetto n. 3 - Quartetto in do maggiore K 157 Allegro, Andante, Presto n. 4 - Quartetto in fa maggiore K 158 Allegro, Andante un poco allegretto, Tempo di minuetto n. 5 - Quartetto in si bemolle maggiore K 159 Andante, Allegro, Allegro grazioso n. 6 - Quartetto in mi bemolle maggiore K 160 Allegro, Un poco adagio, Presto I sei Quartetti viennesi Vienna, tra il 17 luglio e il 24 settembre 1773 n. 1 - Quartetto in fa maggiore K 168 Allegro, Andante, Menuetto, Allegro n. 2 - Quartetto in la maggiore K 169 Molto allegro, Andante, Menuetto, Rondo-Allegro n. 3 - Quartetto in do maggiore K 170 Andante, Menuetto, Un poco adagio, Rondo-Allegro n. 4 - Quartetto in mi bemolle maggiore K 171 Adagio, Menuetto, Andante, Allegro assai n. 5 - Quartetto in si bemolle maggiore K 172 Allegro spiritoso, Adagio, Menuetto, Allegro assai n. 6 - Quartetto in re minore K 173 Allegro moderato, Andantino grazioso, Menuetto, Allegro moderato I sei Quartetti dedicati a Haydn Vienna, dal dicembre 1782 al 14 gennaio 1785 n. 1 - Quartetto in sol maggiore K 387 Allegro vivace assai, Menuetto (Allegro), Andante cantabile, Molto allegro n. 2 - Quartetto in rè minore K 421 Allegro, Andante, Menuetto (Allegro), Allegretto ma non troppo n. 3 - Quartetto in mi bemolle maggiore K 428 Allegro ma non troppo, Andante con moto, Menuetto (Allegretto), Allegro vivace n. 4 - Quartetto in si bemolle maggiore K 458, La caccia Allegro vivace assai, Menuetto (Moderato), Adagio, Allegro assai n. 5 - Quartetto in la maggiore K 464 Allegro ma non troppo, Menuetto, Andante, Allegro non troppo n. 6 - Quartetto in do maggiore K 465, Le Dissonanze Adagio-Allegro, Andante cantabile, Menuetto, Allegro Il Quartetto Hoffmeister Vienna, agosto 1786 Quartetto in re maggiore K 499 Allegretto, Menuetto (Allegretto), Adagio, Allegro I tre Quartetti prussiani Vienna, il primo nel giugno 1789, il secondo e il terzo nel maggio e giugno 1790 n. 1 - Quartetto in re maggiore K 575 Allegretto, Andante, Menuetto, Allegretto n. 2 - Quartetto in si bemolle maggiore K 589 Allegro, Larghetto, Menuetto, Allegro assai n. 3 - Quartetto in fa maggiore K 590 Allegro moderato, Allegretto, Menuetto, Allegro Le fonti
Wolfgang Amadeus Mozart, Die dreizehn frühen Streichquartette / The Thirteen Early String Quartets e Die zehn berühmten Streichquartette / The Ten Celebrated String Quartets, a cura di Karl Heinz Fiissl, Wolfgang Plath, Wolfgang Rehm, Bärenreiter, Kassel 1966-2001-2009, 2 voll. Mozart. Die Dokumente seines Lebens, raccolti e commentati da Otto Erich Deutsch, Bärenreiter, Kassel 1961; Addenda und Corrigenda a cura di Joseph Heinz Eibl, 1978. Ludwig Ritter von Kochel, Chronologisch-thematisches Verzeichnis sämtlicher Tonwerke Wolfgang Amadé Mozart, sesta edizione a cura di Franz Giegling, Alexander Weinmann e Georg Sievers, Wiesbaden 1964. Wolfgang Amadeus Mozart, Briefe und Aufzeichnungen. Gesamtausgabe, a cura dell'Internationale Stiftung Mozarteum Salzburg; raccolti e commentati da W.A. Bauer e O.E. Deutsch, Bärenreiter-Verlag, Kassel 1962-1975, 7 voll. La traduzione italiana delle lettere è tratta dall'opera di prossima pubblicazione presso il Saggiatore. Alberto Basso, I Mozart in Italia, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Roma 2006.
Note
à Lodi. 1770. le 15 di marzo alle 7. di sera <1 Ludwig Finscher, «Mozarts erstes Streichquartett: Lodi, 15 März 1770», in Analecta Musicologica, 1978, XVII, pp. 246-70. <2 Giovanni Carli Ballola e Roberto Parenti, Mozart, Rusconi, Milano 1990, p. 334.
Quella nuova e speciale maniera <1 Clifford Geertz, The Interpretation of Cultures, New York 1973 e 1989; trad. it. Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1997, p. 141. <2 Theodor W. Adorno, Einleitung in die Musiksoziologie, Surkhamp, Frankufrt am Main 1962; trad. it. Introduzione alla sociologia della musica, Einaudi, Torino 1971, p. 107. <3 «La possibilità di tale omogeneo spazio ideale è concessa dallo stadio di relativa sicurezza di singoli cittadini indipendenti dal punto di vista economico, imprenditori e soprattutto membri agiati delle cosiddette professioni liberali. Esiste manifestamente una relazione tra la fioritura della musica da camera e l'epoca del liberalismo avanzato», Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, cit., p. 106. <4 La frase è il motto dell'Accademia Europea del Quartetto della Scuola di Musica di Fiesole. <5 Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, cit., p. 108. <6 Jean-Marie Thill, «XIX Quatuor à cordes K 465 en do majeur "Les Dissonances"», in L'Education Musicale, 412, 11/1994, pp. 9-10. <7 Antonello Farulli, comunicazione all'Accademia Europea del Quartetto, Fiesole, settembre 2005. Manoscritto. <8 Gioseffo Zarlino, Istituzioni armoniche, Venezia 1558; citato da Ludwig Finscher, Studien zur Geschichte des Streichquartetts, Bärenreiter, Kassel 1974, p. 280. <9 Bernard Fournier, Histoire du quatuor à cordes, Fayard, Paris 2000, vol. I, p. 19. <10 Simon McVeigh, Concert Life in London from Mozart to Haydn, Cambridge University Press, Cambridge 1993, p. 97. <11 Mary Sue Morrow, Concert Life in Haydn's Vienna, Pendragon Press, New York 1989, p. 161. <12 Finscher, Studien zur Geschichte des Streichquartetts, cit. <13 Charles Burney, The Present State of Music in Germany, the Netherlands and United Provinces, London 1773; trad. it Viaggio musicale in Germania e Paesi Bassi, EDT, Torino 1986, p. 98. <14 Michael Kelly, Réminiscences of Michael Kelly of the King's Theatre and Theatre Royal Drury Lane, New York 1826, pp. 150-51. <15 Mara Parker, The String Quartet, 1750-1797: Four Types of Musical Conversation, Ashgate, Burlington (VT) 2002. <16 Meinrad Spiess, Tractatus Musicus compositorio-practicus, Augsburg 1745-46, p. 162. <17 Johann Mattheson, Der vollkommene Capellmeister, Hamburg 1739, p. 91. <18 Georg August Griesinger, Biographische Notizen über J. Haydn, Breitkopf & Härtel, Leipzig 1810; trad. it. «Note biografiche su Joseph Haydn», in Haydn. Due ritratti e un diario, a cura di Andrea Lanza ed Enzo Restagno, EDT, Torino 2001, p. 12. <19 Heinrich Christoph Koch, Musikalisches Lexikon, Frankfurt am Main 1802; edizione in facsimile, Olms, Hildesheim 1964. <20 Heinrich Christoph Koch, Versuch einer Anleitung zur Composition, Adam Friedrich Böhm, Rudolstadt und Leipzig 1793, Bd. 3, p. 3. <21 Soltanto nei quintetti per archi Mozart porrà una distanza maggiore tra due opere successive: il K 174 è composto a Salisburgo nel dicembre 1773, i due gemelli K 515 e K 516 nascono nell'aprile e nel maggio 1787, a Vienna. <22 Karl Geringer, «The Rise of Chamber Music», in New Oxford History of Music, Oxford University Press, London 1973, vol. VIII, p. 22. <23 «Musicisti dalla Boemia e dalla Germania si fermavano qui durante il loro viaggio verso occidente, così come gli italiani che andavano a nord. Anche uno sguardo veloce ai visitatori di questa città rivela un elenco impressionante: Felice Bambini, Franz Beck, Luigi Boccherini, J.G. Burckhöffer, Giuseppe Cambini, Joseph-Baptiste Canevas, Heinrich Domnich, Christoph Willibald Gluck, Carlo Graziani, Pierre Miraglio, Wolfgang Amadeus Mozart, Gaspard Proksch, Franz Xaver Richter, Henri-Jean e Henri-Joseph Rigel, Georg Wenzel Ritter, Valentin Roeser, Antonio Rosetti, Filippo Ruge, M.lle Schenker, Johann Schobert, Anton, Carl e Johann Stamitz, Johann Wenzel Stich (Giovanni Punto), e Johann Baptist Wendling», Parker, The String Quartet, 1750-1797, cit., p. 31. <24 Marc Pincherle, Histoire illustrée de la musique, Gallimard, Paris 1959. <25 Janet M. Levy, The Quatuor Concertant in Paris in the latter Half of the Eighteenth Century, Stanford University, Stanford 1971, p. 8. <26 Emmanuel Bury, Littérature et politesse: l'invention de l'honnête homme (1580-1750), PUF, Paris 1996; cit. in Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione, Adelphi, Milano 2001, p. 463. <27 Mélanges extraits de manuscrits de madame Nécker, Charles Pougens, Paris an VI (1798); cit. in Craveri, La civiltà della conversazione, cit., p. 472. <28 Finscher, Studien zur Geschichte des Streichquartetts, cit., p. 286. <29 Craveri, La civiltà della conversazione, cit., pp. 485-86. <30 Ivi, pp. 481-83 e 487-88. <31 Giuseppe Carpani, Le Haydine, ovvero lettere sulla vita e le opere del celebre maestro G. Haydn, Milano 1812; seconda edizione, ampliata, Padova 1823, pp. 95-96. <32 Erich Hertzmann, «Il processo creativo di Mozart», in Sergio Durante (a cura di), Mozart, il Mulino, Bologna 1991, p. 37. <33 Bruno Zanolini, «Gli intendimenti retorici nel repertorio strumentale bachiano», in Musica e retorica, a cura di Nunziata Bonaccorsi e Alba Crea, Edizioni Di Nicolò, Messina 2004, p. 132. <34 John Irving, Mozart: The Haydn Quartets, Cambridge University Press, Cambridge 1998, pp. 61-72. Altri testi indagano la relazione tra forme della retorica classica e "discorso" musicale: Mark Bonds, Wordless Rhetoric: Musical Form and the Metaphor of the Oration, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1991; e E. Sisman, Haydn and the Classical Variations, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1993. <35 Giorgio Pestelli, «L'età di Mozart e di Beethoven», in Storia della Musica, EDT, Torino 1987, p. 15. <36 Joachim Quantz, Versuch einer Anweisung die Flöte traversiere zu spielen, J.F. Voss, Berlin 1752, cap. XI, par. 1. <37 Charles Rosen, The Classical Style, Norton, New York 1971; trad. it. Lo stile classico, Feltrinelli, Milano 1979, p. 20. <38 Leopold Mozart, Vice Maestro di Cappella del Principato Salisburghese, Scuola fondamentale di Violino, Geroglifico Editore, Gaeta 1991, p. 283. L'edizione è basata sulla terza ristampa dell'opera di Leopold, pubblicata nel 1787. Nel frontespizio, Leopold sceglie di dare di sé un'immagine più serena e sorridente, mentre nella prima e seconda edizione (1756 e 1770) aveva deciso di apparire severo e compassato. <39 Wilhelm Seidel, «Sei caratteri musicali dei quartetti dedicati a Haydn», in Durante (a cura di), Mozart, cit., pp. 249-55.
Anche Wolfgang sta bene; dalla noia si è giustappunto messo a scrivere un quatro <1 Johann Adolf Hasse e Gianmaria Ortes, Lettere (1760-1783), a cura di Livia Pancino, Brepols, Turnhout 1998, p. 228. <2 Pietro Lichtenthal, Cenni biografici intorno al celebre maestro Wolfango Amedeo Mozart estratti da dati autentici, Giovanni Silvestri, Milano 1816; ristampa anastatica, Fondazione Perosi, Biella 2006, p. 74. <3 Norbert Elias, Mozart. Zur Soziologie eines Genies, Surkhamp, Frankfurt 1991; trad. it. Mozart. Sociologia di un genio, il Mulino, Bologna 1991; pp. 123 e 121. <4 Massimo Mila, I quartetti di Mozart, Einaudi, Torino 2009, pp. 13-14; e Alfred Einstein, Mozart, his Character, his Work, Oxford University Press, Oxford 1945; trad. it. Mozart, Ricordi, Milano 1951, p. 186. <5 Heirich Besseler, Das musikalische Hören der Neuzeit, Akademie-Verlag, Berlin 1959; trad. it. L'ascolto musicale nell'età moderna, il Mulino, Bologna 1993, p. 77. <6 Mila, I quartetti di Mozart, cit., p. 15. <7 Vedi la prefazione di Karl Heinz Füssl, Wolfgang Plath, Wolfgang Rehm al primo volume dell'edizione critica dei quartetti di Mozart: Wolfgang Amadeus Mozart, Die dreizehn frühen Streichquartette / The Thirteen Early String Quartets, Bärenreiter, Kassel 1996-2001-2009, pp. 12-14. <8 Teodor de Wyzewa e Georges de Saint-Foix, Mozart, Desclée de Brouwer, Paris 1936, vol. I, pp. 65-66. <9 Saul Bellow, Mozart, Mondadori, Milano 1993, pp. 13-14. <10 Einstein, Mozart, cit., p. 188. <11 Peter Gay, Mozart: A Life, Penguin, London 1999; trad. it. Mozart, Fazi, Roma 2006, p. 17.
Wolfgang compone come sempre, senza respiro <1 Mozart fa riferimento alla parte del basso di un concerto per violino di Josef Myslivecek, compositore di vasta e meritata notorietà, che avrà con lui un rapporto di stima e amicizia. <2 Fournier, Histoire du quatuor à cordes, cit., p. 141. <3 Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, Milano 2014, p. 79. <4 Fournier, Histoire du quatuor à cordes, cit., p. 147. <5 Hermann Abert, Mozart, Breitkopf und Härtel, Leipzig 1919-21; trad. it. Mozart, il Saggiatore, Milano 1985, vol. I, pp. 383-84. <6 Besseler, L'ascolto musicale nell'età moderna, cit, pp. 79-80. <7 De Wyzewa e de Saint-Foix, Mozart, cit., vol. II, pp. 65-66. <8 Mila, I quartetti di Mozart, cit., p. 27. <9 Fedele D'Amico, Il teatro di Rossini, il Mulino, Bologna 1992, p. 72. <10 Carli Ballola e Parenti, Mozart, cit., p. 341. <11 Charles Rosen, Sonata Forms, Norton & Company, New York 1988; trad. it. Le forme sonata, Feltrinelli, Milano 1988; poi, EDT, Torino 2011; pp. 80-82. <12 Einstein, Mozart, cit., p 191. <13 Thomas Frederick Dunhill, cit. in Giovanni Morelli, «Prefazione», in Mila, I quartetti di Mozart, cit., pp. XXIV-XXV. Nell'ampia prefazione al volume di Mila, Giovanni Morelli cita la celebre opinione "chiocciolante" di Thomas Frederick Dunhill (1877-1946), cattedratico alla Royal Academy of Music di Londra, che «propone una lettura comica del primo tempo del K 173 (peraltro nella tonalità poco gioviale di re minore)». <14 Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, cit., pp. 181-82.
Un padre, avendo risolto di mandare i suoi figli nel gran mondo... <1 Wendy Griswold, Cultures and Societies in a Changing World, Thousand Oaks, Pine Forge 1994; trad. it. Sociologia della cultura, il Mulino, Bologna 1997, pp. 30-31. <2 Marcel Brion, La Vie quotidienne à Vienne au temps de Mozart et de Schubert, Hachette, Paris 1986; trad. it. La vita quotidiana a Vienna al tempo di Mozart e di Schubert, Rizzoli, Milano 1991, p. 90. <3 Elias, Mozart, cit., p. 121. <4 Parker, The String Quartet, 1750-1797, cit., p. 25. <5 Abert, Mozart, cit., vol. II, p. 77. <6 Heinz Schuler, «Die Subskribenten der Mozart'schen Mittwochskonzerte im Trattnersaal zu Wien ao. 1784», in Genealogische Jahrbuch, XXIII, 1983, pp. 7-90. <7 Bernhard Paumgartner, Mozart, Atlantis Verlag, Zürich und Freiburg in Breslau 1927; trad. it. Mozart, Einaudi, Torino 1945, poi 1994, pp. 322-23. <8 Friedrich von Schlichtegroll e Franz Niemetschek, Mozart, a cura di Giorgio Pugliaro, EDT, Torino 1990, p. 39. <9 Abert, Mozart, cit., vol. II, p. 155. <10 Mila, I quartetti di Mozart, cit., p. 37. <11 Fournier, Histoire du quatuor à cordes, cit., p. 161. <12 Vincent e Mary Novello, A Mozart Pilgrimage, Being the Travel Diaries of Vincent and Mary Novello in the Year 1829, trascritti e raccolti da Nerina Medici di Marignano, a cura di Rosemary Hughes, London 1955; cit. in Howard C. Robbins Landon, 1791: Mozart's Last Year, Thames & Hudson, London 1988; trad. it. L'ultimo anno di Mozart, Garzanti, Milano 1989, pp. 192 e 234. <13 Carli Ballola e Parenti, Mozart, cit., pp. 352-53. <14 Abert, Mozart, cit., vol. II, p. 157. <15 Fedele D'Amico, I casi della musica, il Saggiatore, Milano 1962, pp. 106- 08. <16 Seidel, «Sei caratteri musicali dei quartetti dedicati a Haydn», cit., p. 249. <17 Ivi, p. 254. <18 Martin Zenck, «Abbozzo di una sociologia della ricezione musicale», in Gianmaria Borio e Michela Garda (a cura di), L'esperienza musicale. Teoria e storia della ricezione, EDT, Torino 1989, p. 99. <19 Nikolaus Harnoncourt, Der musikalische Dialog. Gedanken zu Monteverdi, Bach, Mozart, Salzburg und Wien, Residenz Verlag, 1984; trad. it. Il discorso musicale. Scritti su Monteverdi, Bach e Mozart, Jaca Book, Milano 1987, pp. 104-05. Vedi anche Gernot Gruber, Mozart und die Nachwelt, Residenz Verlag, Salzburg 1985, trad. it. La fortuna di Mozart, Einaudi, Torino 1987, p. 62; Robert Schumann, Gli scritti critici, 2 voll., a cura di Antonietta Cerocchi Pozzi, Ricordi Unicopli, Milano 1991, vol. I, p. 127, p. 153; Massimo Mila, «Mozart», in Belfagor, VI, novembre 1985, poi in Mozart. Saggi 1941- 1987, Einaudi, Torino 2006, p. 315. <20 Harry Halbreich, Guide de la musique de chambre, Fayard, Paris 1989, p. 638. <21 Leandro Lucchetti, Per conoscere Pasolini, Pordenone, Cineteca di Cinemazero, s.i.a., cit. in Roberto Calabretto, Pasolini e la musica, CinemazerO, Pordenone 1999, p. 510. N <22 Mozart, Die zehn berühmten Streichquartette / The Ten Celebrated String Quartets, a cura di Karl Heinz Fussi, Wolfgang Plath, Wolfgang Rehm, Bärenreiter, Kassel 1966-2001-2009, pp. 68, 76, 307. <23 Alan Tyson, «La genesi del quartetto La caccia», in Durante (a cura di), Mozart, cit., p. 247. <24 Charles Rosen, The Romantic Generation, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1995; trad. it. La generazione romantica, Adelphi, Milano 1997, p. 636. <25 Erich Klochow, «Mozarts Streichquartett in A dur», in Mozart-Jahrbuch III, Benno Filser Verlag, 1929; cit. in Mila, I quartetti di Mozart, cit., p. 51. <26 Abert, Mozart, cit., vol. II, p. 163. <27 Lorenzo Arruga, Mozart da vicino, Rizzoli, Milano 2006, p. 115. <28 Carl Ditters von Dittersdorf cit. in Neal Zaslaw, «The Breitkopf Firm's Relations with Leopold and Wolfgang Mozart», in Bach Perspectives, University of Nebraska Press, Lincoln and London 1996, p. 88. <29 Rosen, Lo stile classico, cit., p. 46. <30 Fournier, Histoire du quatuor à cordes, cit., p. 219. <31 Theodor W. Adorno, Beethoven, Philosophie der Musik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1993; trad. it. Beethoven. Filosofia della musica, Einaudi, Torino 2001, p. 41. <32 György Ligeti, «Konvention und Abweichung: Die "Dissonanz" im Mozarts Streichquartett C Dur K 465», in Österreichische Musikzeitschrift, 1991, pp. 34-39; trad. it. di Angela Ida De Benedictis in Sandro Cappelletto, Mozart. La notte delle Dissonanze, EDT, Torino 2006, p. 139. <33 Stefano Jacoviello, La rivincita di Orfeo. Esperienza estetica e semiotica del discorso musicale, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 184. Nel volume, l'autore ricostruisce il vasto e non ancora concluso dibattito «sull'efficacia simbolica della musica» che da Il bello musicale di Eduard Hanslick del 1854 giunge alle riflessioni, tra gli altri, di Claude Lévi-Strauss, Leonard Meyer, Jean- Jacques Nattiez, Gino Stefani. <34 Alberto Basso, L'invenzione della gioia. Musica e Massoneria nell'età dei lumi, Garzanti, Milano 1994, pp. 18-19. <35 Johann Georg Adam Forster, cit. in Giuseppe Giarrizzo, Massoneria e Illuminismo nell'Europa del Settecento, Marsilio, Venezia 1999, pp. 371-72. <36 Ernesto Napolitano, Mozart. Verso il Requiem, Einaudi, Torino 2004, pp. 190-91. <37 Thill, «XIX Quatuor à cordes K 465 en do majeur "Les Dissonances"», cit.
Carissimo Hoffmeister! Cerco rifugio da Lei, e Le chiedo per intanto di assistermi <1 Mila, I quartetti di Mozart, cit., p. 3. <2 Per l'elenco completo di enigmi e "massime" vedi Tutte le lettere di Mozart. L'epistolario completo della famiglia Mozart, 3 voll., a cura di Marco Murara, Zecchini, Varese 2011, vol. III, pp. 1567-68. <3 Einstein, Mozart, cit., p. 198. <4 Rosen, Lo stile classico, cit., p. 170. <5 Besseler, L'ascolto musicale nell'età moderna, cit, p. 81. <6 Sul rapporto tra «l'invadenza di una originalità troppo scoperta e il richiamo a una convenzionalità apparente», vedi N. Castiglioni, «Del gusto e della libertà», in La Rassegna Musicale, XXX, n. 4, dicembre 1960, pp. 350-58. <7 Stefan Kunze, Mozarts Opern, Philipp Reclam jun. Verlag, Stuttgart 1984; trad. it. Il teatro di Mozart, Marsilio, Venezia 1990, p. 681. <8 Rosen, Lo stile classico, cit., pp.112-13.
Sabato prossimo ho intenzione di eseguire i miei quartetti a casa mia... <1 Morelli, «Prefazione», cit., p. XXXIII-XXXIV. <2 Lidia Bramani, Mozart rivoluzionario e massone, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 104. <3 Albert Christoph Dies, Biographische Nachrichten von Joseph Haydn nach mündlichen Erzählungen desselben entworfen und herausgegeben, Camesinaische Buchhandlung, Wien 1810; citato in Robbins Landon, L'ultimo anno di Mozart, cit., p. 26. <4 Maynard Solomon, Mozart. A life, Harper, New York 1996; trad. it. Mozart, Mondadori, Milano 1996, pp. 404-06. <5 Cfr. Alan Tyson, «New Light on Mozart's Prussian Quartets», in Musical Times, 116, 1975, pp. 126-30; e Konrad Wolff, «Mozarts' Haydn Quartets: The contribution of Paper Studies», in The String Quartets of Haydn, Mozart and Beethoven. Studies of the Autograph Manuscripts, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1980, pp. 179-90. <6 Robbins Landon, L'ultimo anno di Mozart, cit., p. 36. <7 Mozart. Die Dokumente seines Lebens, a cura di Otto Erich Deutsch, Bärenreiter, Kassel 1961, pp. 392-95. <8 Henri Ghéon, Promenades avec Mozart, Desclée de Brouwer, Paris 1932; trad. it., Mozart, Castelvecchi, Roma 2014, p. 256. <9 Abert, Mozart, cit., vol. II, p. 617. <10 Ludwig Finscher, «Vorwort», in Mozart, Die zehn berühmten Streichquartette, Cit., p. XIII. <11 Carli Ballola e Parenti, Mozart, cit., p. 375. <12 De Wyzewa e de Saint-Foix, Mozart, cit., vol. V, p. 110. <13 Diether de la Motte, Harmonielehre, Bärenreiter, Kassel 1976; trad. it. Manuale di armonia, Astrolabio, Roma 2007; pp. 186-87. <14 Rudolf Gerber, «Harmonische Problemen in Mozarts Streichquartetten», in Mozart-Jahrbuch 1924, Drei Masken Verlag, München 1924, cit. in Mila, I quartetti di Mozart, cit., pp. 75-77. <15 Heinrich Christoph Koch, Versuch einer Anleitung zur Composition, cit. in Gruber, La fortuna di Mozart, cit., pp. 50-51. <16 Einstein, Mozart, cit., p. 199. <17 föhn Irving, Mozart: The Haydn Quartets, cit., pp. 27-28. <18 Mila, I quartetti di Mozart, cit., p. 79. <19 Karl Barth, Wolfgang Amadeus Mozart, Theologischer Verlag, Zürich 1956; trad. it. Wolfgang Amadeus Mozart, Editrice Queriniana, Brescia 1980, pp. 40-41.
Indice dei nomi e delle opere
Abert, Hermann, 57, 68, 82, 99, 130, 139, 143, 154, 168, 177, 205, 224, 251- 253, 255 Adamberger, Valentin, 122 Adorno, Theodor W„ 22-23, 99, 187, 247, 251, 253 Albrechtsberger, Johann Georg, 30, 196 Andretter, Thaddäus, 75 Arco, conte Karl Joseph Felix, 114 Arnold, Johann Carl, 127 Arruga, Lorenzo, 169, 253 Artaria, Pasquale, editore, 34, 39, 104, 106-107, 129, 155, 170-172, 174-176, 192-193, 216, 219 Avison, Charles, 36 Six Sonatas for the Harpsichord with Accompanyaments for two Violins and a Violoncello, 36 Bach, Emanuel, 138 Bach, Friedeman, 138 Bach, Johann Christian, 56, 93 Tre concerti per pianoforte, 93 Bach, Johann Sebastian, 56, 110, 130, 137-138, 145, 205, 252-253 Il clavicembalo ben temperato, 137 Partita in sol minore per violino, 145 Sonata per flauto in mi bemolle maggiore, 145 Bambini, Felice, 249 Barrington, Daines, 43 Barth, Karl, 238, 255 Basso, Alberto, 40, 190, 246, 254 Baudron, Antoine-Laurent, 34 Six Quatuors op. 3, 34 Beaumarchais, Pierre-Augustin Carón de, 128 Le Mariage de Figaro, 128 Beck, Franz, 249 Beethoven, Ludwig van, 27, 33, 99, 106, 150, 152, 155, 163, 168, 183-185, 188-189, 196, 224-225, 236, 249, 253, 255 Grande Fuga, tanto libera quanto rigorosa op. 133, 236 Quartetti per archi n. 1-6 op. 18, 163 Quartetto per archi n. 11 in fa minore op. 95 (Quartetto Serioso), 33 Quartetto per archi n. 12 in mi bemolle maggiore op. 127, 27, 33 Sonate per pianoforte e violoncello op. 5, 208 Bellow, Saul, 66, 189, 251 Benjamin, Walter, 99 Berio, Luciano, 22, 163 Besseler, Heinrich, 83, 200, 250-251, 254 Beyerle, Hatto, 180 Boccherini, Luigi, 26-27, 34, 41, 60, 106, 207, 225, 228, 249 Sei quartetti G 159-164 op. 2, 34 Sei quartetti G 195-200 op. 26, 34, 106 Sei quartetti G 201-206 op. 32, 106 Bonno, Giuseppe, 79 Borghi, Luigi, 26 Boulez, Pierre, 116, 175 Brahms, Johannes, 127 Quartetto per archi n. 3 in si bemolle maggiore op. 67, 127 Brainin, Norbert, 180 Bramani, Lidia, 210, 254 Breymann, Anton (Preyman), 173 Brion, Marcel, 115, 251 Burckhöffer, J.C., 249 Bürger, Gottfried Augustus, 57 Burney, Charles, 27, 117, 248 Cambini, Giuseppe, 26, 34, 41, 249 Sei quartetti T 1-6 op. 1, 34 Camesina, Joseph, 119, 254 Canevas, Joseph-Baptiste, 249 Carli Ballola, Giovanni, 19, 93, 141, 226, 247, 251-252, 255 Carpani, Giuseppe, 39-41, 249 Casanova, Giacomo, 210 Cavalieri, Caterina, 122 Cavalli, Francesco, 210 Chailley, Jacques, 179 Cicerone, Marco Tullio, 42 Cigna-Santi, Vittorio Amedeo, 50 Clemente XIV, papa, 77, 99 Closset, Thomas Franz, 215 Colloredo, Hieronymus Joseph Franz de Paula von, 73, 77, 113-115, 123 Cramer, Carl, 192 Cramer, Wilhelm, 26 D'Amico, Fedele, 92, 146, 251-252 Da Ponte, Lorenzo, 105, 128, 198, 209-210 Davaux, Jean Baptiste, 41 Davies, Marianne, 76 De Amicis, Anna, 62 De Gamerra, Giovanni, 50 de la Motte, Diether, 228, 255 de Laclos, Choderlos, 37 de Momigny, Jérôme-Joseph, 41 de Saint-Foix, Georges, 65, 227, 255 de Staël, Madame, Anne-Louise Germaine Nécker detta, 35, 249 de Wyzewa, Teodor, 72, 87, 97, 250-251, 255 Diderot, Denis, 37 Dies, Albert Christoph, 109, 254 Dittersdorf, Carl Ditters von, 27, 174, 253 Domnich, Heinrich, 249 Dunhill, Thomas Frederick, 98, 251 Duport, Jean-Louis, 225 Duport, Jean-Pierre, 219, 225 Einstein, Alfred, 58, 69-70, 95, 108, 161, 198, 222, 232-233, 250-251, 254- 255 Elias, Norbert, 53, 116, 250-252 Esterházy di Galántha, principe Nicola I Giuseppe, 115, 125, 171 Esterházy, conte Johann Baptist, 122 Esterházy, principe Paolo II Antonio, 26 Farulli, Antonello, 24, 132, 136, 151, 239, 248 Federica Carlotta Ulrica di Prussia, 212 Federico Guglielmo II di Prussia, 27, 207-209, 212, 216, 218-219, 225, 227 Ferdinando d'Asburgo-Este, 50, 52 Fétis, François-Joseph, 177 Finscher, Ludwig, 27, 222, 224, 247-249, 255 Fischer, Maria Anna Barbara, 75 Flothuis, Marius, 179 Forkel, Johann Nikolaus, 45 Forster, Johann Georg Adam, 191, 254 Fournier, Bernard, 25, 82, 135, 139, 180, 185, 222, 248, 251-253 Franz Joseph Karl d'Asburgo-Lorena, 216 Fricker, Johann Ludwig, 181 Fürnberg, barone, 30 Fux, Johann Joseph, 109 Gassmann, Florian Leopold, 78-80 Geertz, Clifford, 21, 247 Gerber, Rudolf, 229, 255 Geringer, Karl, 33, 248 Ghéon, Henri, 224, 255 Giuseppe II d'Asburgo-Lorena, 27, 51, 77, 121, 191, 197, 209, 216 Gluck, Christoph Willibald, 249 Goldoni, Carlo, 36-37, 51 Gottardo, Carlo conte di Firmian, 14 Gottsched, Johann Christoph, 45 Gräffer, Rudolf, 106 Grassalkovich, principe, 193 Graziani, Carlo, 249 Greco, Dominikos Theotokopoulos detto El, 154 Greiner, Franz Sales von, 120 Griswold, Wendy, 105, 251 Gruber, Gernot, 154, 252, 255 Guillemain, Louis-Gabriel, 36 Six Sonates en Quatuors ou Conversations galantes et amusantes entre Flûte traversière, un Violon, une Basse de Viole et la Basse, 36 Halbreich, Harry, 156, 253 Hamann, Johann Georg, 83 Händel, Georg Friedrich, 130, 137-138, 205, 218 Hanslick, Eduard, 253 Harnoncourt, Nikolaus, 133, 155, 252 Hasse, Johann Adolf, 50-51, 250 Il Ruggiero, 50 Haydn, Franz Joseph, 27, 30-34, 36, 39-41, 47, 57, 59-60, 80, 82, 86-87, 89- 90, 95-96, 104-107, 109, 111, 113, 115, 125-127, 129-130, 135, 137, 142, 145, 147, 150-152, 155, 163, 171, 175-180, 188, 192-94, 199, 203-204, 207, 210, 215, 217-218, 223-225, 242, 248-250, 252, 254-255 La Creazione, 179 Sei quartetti op. 1, 34 Sei quartetti op. 17, 86 Quartetto n. 3 in do minore, 89 Quartetto n. 6 in re maggiore, 87 Sei quartetti op. 20 (Quartetti del Sole), 33, 59, 60, 107 Sei quartetti op. 33 (Russische Quartette), 32, 33, 39, 47, 107, 142, 145 Sei quartetti op. 50 (Preussische Quartette), 207 Sinfonia n. 44 in mi minore (Trauersymphonie), 57 Sinfonia n. 45 in fa diesis minore (Abschiedssymphonie), 57 Sinfonia n. 88 in sol maggiore, 224 Six Symphonies ou Quatuors dialogués, 34 Hensler, Carl Friedrich, 220 Herder, Johann Gottfried, 83 Hildesheimer, Wolfgang, 178 Hofdemel, Franz, 211-212 Hoffmeister, Franz-Anton, 26, 117, 120, 199-200 Hölderlin, Friedrich, 180 Hübner, Lorenz, 172 Irving, John, 43, 45, 132, 234, 249, 255 Jacoviello, Stefano, 190, 253 Jahn, Otto, 176 Jommelli, Niccolò, 19 Armida abbandonata, 19 Kant, Immanuel, 83 Kaunitz-Rietberg, Ernst Christoph, 122 Kelly, Michael, 27, 248 Klochow, Erich, 164, 253 Koch, Heinrich Christoph, 32, 230, 248, 255 Körner, Christian Gottfried, 152 Kozeluch, Tomas, 213 Kreutzer, Rudolphe, 41, 170 Kummel, editore, 39 Kunze, Stefan, 202, 254 L'Augier, Marc-Antoine, 27 La Chevardière, editore, 33, 39 Lackenbacher, Heinrich, 216-217 Lavater, Johann Caspar, 47, 107 Le Due, Simon, 172 Leopoldo II d'Asburgo-Lorena, 208, 216-217 Lévi-Strauss, Claude, 253 Levy, Janet M„ 34, 249 Lichnowsky, Karl Marx von, 26, 211-212 Lichtenthal, Pietro, 52, 250 Ligeti, György, 188-189, 253 Lotter, Johann Jakob, 45 Lucchetti, Leandro, 158, 253 Luigi XIV, 17 Mahler, Gustav, 99 Manfredi, Filippo, 26 Manganelli, Giorgio, 180 Maria Beatrice Ricciarda d'Este, 50 Maria Teresa d'Austria, 50-52, 75 Mattheson, Johann, 29-30, 117, 248 Mesmer, Franz Anton, 76 Metastasio, Pietro, 14, 50 Meyer, Leonard, 253 Mila, Massimo, 10, 58-59, 62, 68, 80, 89, 98, 131, 154, 196, 199, 235, 250- 255 Miroglio, Pierre, 249 Monteverdi, Claudio, 49, 210, 252 Morelli, Giovanni, 208, 251, 254 Mozart, Anna Maria (figlia di Wolfgang), 125 Mozart, Anna Maria nata Pertl, 13, 77, 111, 114 Mozart, Franz Xaver Wolfgang, 125, 219-220 Mozart, Johann Thomas Leopold, 125 Mozart, Karl Thomas, 110, 124-125, 127, 219 Mozart, Leopold, 13-16, 18, 24, 45, 49, 51-57, 59, 63-64, 67, 71, 73, 75-80, 83, 88, 95, 99, 106, 110-116, 118-123, 125-128, 137-138, 172-174, 178, 204, 234, 250, 253 Mozart, Maria Anna detta Nannerl, 13, 111, 172-173, 213 Mozart, Raimund Leopold, 125, 140 Mozart, Theresia Constanzia Adelheid Friderika Maria Anna, 125 Mozart, Wolfgang Amadeus, Adagio e Fuga in do minore K 546, 205 Adagio e Rondò per glassarmonica in do minore K 617, 218 Apollo et Hyacinthus, 87 Ascanio in Alba, 57, 87 Ave verum Corpus, 218 Bastiano e Bastiana, 76, 87 Cantata massonica K 619, 218 Cantata massonica K 623, 116, 218 La clemenza di Tito, 210, 218 Concerto per clarinetto K 622, 218 Concerto per corno K 495, 198 Concerto per pianoforte n. 14 in mi bemolle maggiore K 449, 116 Concerto per pianoforte n. 18 in si bemolle maggiore K 456, 121 Concerto per pianoforte n. 20 in re minore K 466, 112 Concerto per pianoforte n. 21 in do maggiore K 467, 183 Concerto per pianoforte n. 23 in la maggiore K 488, 198 Concerto per pianoforte n. 24 in do minore K 491, 198 Concerto per pianoforte n. 27 in si bemolle maggiore K 595, 218 Così fan tutte, 76, 183, 209-210, 218, 225 Dominicus-Messe K 66, 76 Don Giovanni, 139, 183, 187, 204, 209-210, 212 Exultate, jubílate, 58 Fantasia per organo meccanico in fa minore K 594, 218 Fantasia per organo meccanico in fa minore K 608, 218 Fantasia per pianoforte in do minore K 475, 179 La finta semplice, 51, 87 Il flauto magico, 50, 93, 128, 182, 199, 291, 218 Fuga a quattro voci in sol maggiore K 401, 137 Fuga in do minore per due pianoforti K 426, 205 Idomeneo, 110 L'impresario teatrale, 122, 197 Lucio Silla, 49-50, 52, 57, 62, 87 Mitridate, re di Ponto, 14, 50, 87 Le nozze di Figaro, 44, 72, 119, 181, 198-199, 209 Preludio e Fuga a tre voci in do maggiore K 394, 137 Quartetto di Lodi Quartetto in sol maggiore K 80, 13-19, 47, 54, 97, 101, 198, 238, 241 Quartetti milanesi, 49-73, 80, 97, 101, 241-242 Quartetto in re maggiore K 155, 57-58, 60-62 Quartetto in sol maggiore K 156, 62-64, 68, 241 Quartetto in do maggiore K 157 64-66, 241 Quartetto in fa maggiore K 158, 67-69, 241 Quartetto in si bemolle maggiore K 159, 69-71, 242 Quartetto in mi bemolle maggiore K 160, 71-72, 242 Quartetti viennesi, 33, 59, 75-102, 175, 242 Quartetto in fa maggiore K 168, 33, 83-85, 94, 101, 242 Quartetto in la maggiore K 169, 33, 85-89, 242 Quartetto in do maggiore K 170, 33, 89-92, 242 Quartetto in mi bemolle maggiore K 171, 33, 81, 83, 92-95, 242 Quartetto in si bemolle maggiore K 172, 33, 83, 95-97, 242 Quartetto in re minore K 173, 33, 97-101, 131, 139, 189, 242 Quartetti dedicati a Haydn (Opera X), 32, 103-194, 195, 198, 242-243 Quartetto in sol maggiore K 387, 7, 107, 130-139, 161, 242 Quartetto in re minore K 421, 107, 139-147, 158-159, 193, 242 Quartetto in mi bemolle maggiore K 428, 107, 147-155, 243 Quartetto in si bemolle maggiore K 458, La caccia, 108, 155-163, 243, 253 Quartetto in la maggiore K 464, 108, 140, 163-169, 180, 243 Quartetto in do maggiore K 465, Delle Dissonanze, 16, 94, 108, 128-129, 143, 169, 175-194, 232, 243, 248, 253-254 Quartetto Hoffmeister Quartetto in re maggiore K 499, 195-205, 210, 224, 243 Quartetti prussiani, 204, 207-237, 243 Quartetto in re maggiore K 575, 203, 221-225, 243 Rondò K 589a, 219 Rondò K 589b, 219 Serenata n. 3 in re maggiore K 185 (Finalmusik), 75 Serenata n. 12 per fiati in do minore K 388, 204 Sinfonia n. 23 in re maggiore K 181, 96 Sinfonia n. 24 in si bemolle maggiore K 182, 96 Sinfonia n. 25 in sol minore K 183, 70, 96 Sinfonia n. 26 in mi bemolle maggiore K 184, 96 Sinfonia n. 40 in sol minore K 550, 70, 92 Sinfonia n. 41 in do maggiore K 551 (Jupiter), 224 Sinfonia n. 40 K 550 Il sogno di Scipione, 87 Sonata in re maggiore K 576, 213 Trio per pianoforte, clarinetto e viola K 498, 198, 224 Quartetto in si bemolle maggiore K 589, 221, 225-228, 243. Quartetto in fa maggiore K 590, 221, 225-226, 228-237, 243 Quartetto per pianoforte, violino, viola e violoncello in sol minore K 478, 196 Quartetto per pianoforte, violino, viola e violoncello in mi bemolle maggiore K 493, 198 Quintetto con clarinetto in la maggiore K 581 (Stadler), 218, 220 Quintetto per archi n. 1 in si bemolle maggiore K 174, 204 Quintetto per archi n. 2 in sol minore K 406, 204 Quintetto per archi n. 3 in do maggiore K 515, 204, 248 Quintetto per archi n. 4 in sol minore K 516, 141, 204, 248 Quintetto per archi n. 5 in re maggiore K 593, 204 Quintetto per archi n. 6 in mi bemolle maggiore K 614, 204 Il ratto del serraglio, 122, 173 Requiem in re monire per soli, coro e orcestra K 626, 140, 218 Variazioni in re maggiore per pianoforte K 573, 218, 225 Myslivecek, Josef, 251 Napolitano, Ernesto, 191, 254 Nardini, Pietro, 26 Nattiez, Jean-Jacques, 253 Niderl, Franz Joseph, 76 Niemetschek, Franz, 129, 252 Nissen, Georg Nikolaus von, 176, 193 O'Reilly, Robert Bray, 217 Ortes, Giammaria, 51, 250 Paisiello, Giovanni, 73 Sismano nel Mogol, 72-73 Parini, Giuseppe, 50 Parker, Mara, 28, 117, 248-249, 252 Pasolini, Pier Paolo, 158, 253 Paumgartner, Bernhard, 126, 222, 252 Pestelli, Giorgio, 44, 249 Petrovic, Pavel, 33, 107 Pincherle, Marc, 34, 249 Pleyel, Ignaz, 26, 41, 106, 117 Sei quartetti B 301-306 op. 1, 106 Sei quartetti B 307-312 op. 2, 106 Pollock, Jackson, 164 Proksch, Gaspard, 249 Puchberg, Johann Michael, 213, 215-216, 225 Quantz, Joachim, 44, 250 Quintiliano, Marco Fabio, 42-43 Rauzzini, Venanzio, 62 Richter, Franz Xaver, 249 Riepel, Joseph, 234 Rigel, Henri-Jean, 249 Rigel, Henri-Joseph, 249 Ritter, Georg Wenzel, 249 Roeser, Valentin, 249 Rosen, Charles, 44, 93, 163, 175, 200, 203, 250-251, 253-254 Rosetti, Antonio, 249 Rousseau, Jean-Jacques, 37, 83, 194 Rovelli, Carlo, 82, 251 Ruge, Filippo, 249 Salieri, Antonio, 120, 216 Salomon, Johann Peter, 26, 217 Sammartini, Giovanni Battista, 19 Concertini a 4 istromenti soli, 19 Sanzio, Raffaello, 154 Sarti, Giuseppe, 193 Scarlatti, Alessandro, 28 Sonate a quattro per due violini, violetta e violoncello senza cembalo, 28 Schenker, M.lle, 249 Schikaneder, Emanuel, 128 Schlichtegroll, Friedrich von, 123, 252 Schobert, Johann, 249 Schönberg, Arnold, 157 Schrattenbach, Siegmund Christof von, 52 Schubert, Franz, 27, 69, 188-189, 236, 252 Erlkönig, 69 Gretchen am Spinnrade, 69 La morte e la fanciulla, 127 Schumann, Robert, 154, 252 Schuppanzigh, Ignaz, 26 Seidel, Wilhelm, 147, 152, 250, 252 Seiffert, Wolf-Dieter, 15 Sibelius, Jean, 99 Sieber, Jean Georges, editore, 108 Siedel, Wilhelm, 46 Solomon, Maynard, 122, 178, 218, 255 Spiess, Meinrad, 29-30, 248 Spinoza, Baruch, 81 Stamitz, Anton, 40-41, 249 Stamitz, Carl, 40-41, 249 Stamitz, Johann, 40-41, 249 Stefani, Gino, 253 Stendhal, Marie-Henri Beyle detto, 39, 146, 154 Stephanie, Johann Gottlieb, 122 Stich, Johann Wenzel, detto Giovanni Punto, 249 Storace, Nancy, 27 Swieten, Gottfried van, 138 Talking Heads, 189 Tartini, Giuseppe, 24 Theodor, Carl, 110 Thill, Jean-Marie, 194, 248, 254 Thiry Paul Henri, barone d'Holbach, 127 Tieck, Ludwig, 212 Tinti, Anton von, 111, 126-127, 129, 178 Tinti, Bartholomäus von, 111, 126-127, 129, 178 Toeschi, Carlo Giuseppe, 36 Tomasini, Luigi, 26 Torricella, Christoph, 95, 170-172 Turner, William, 189 Tyson, Alan, 162, 253, 255 Ulybysev, 177 Vanhal, Johann Baptist, 27 Varesco, Gianbattista, 110 Vasonikò, Karl Zicky von, 122 Vénier, editore, 34 von Suiten, barone, 138-139 Wagner, Richard, 149 Tristano e Isotta, 149 Weber, Constanze, 102, 110, 113 Weber, Maria Cäcilia, 123 Wendling, Johann Baptist, 249 Zanolini, Bruno, 42, 249 Zarlino, Gioseffo, 24, 248 Zelter, Carl Friedrich, 46 Zenck, Martin, 153, 252
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Wolfgang compone come sempre, senza respiro
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