Alberto Savinio - Tragedia dell’infanzia - A cura di Paola Italia - Piccola Biblioteca Adelphi 2001.
Alberto Savinio - Infanzia di Nivasio Dolcemare - A cura di Alessandro Tinterri Piccola Biblioteca
Adelphi 1998.
Manuel Vázquez Montalbán - Io, Franco - Traduzione dallo spagnolo di Hado Lyria - Titolo
originale: Autobiografía del general Franco - Nota di Hado Lyria – Sellerio 2016.
Lucia Boldrini, Autobiographies of Others: Historical Subjects and Literary Fiction - Routledge
2012.
Angel Díaz Arenas - Quién es quién en la obra narrativa de Manuel Vázquez Montalbán -
Reichenberger 1997.
PROBLEMATIZZAZIONE PRELIMINARE
Ce genre regroupe à mon avis tous les récits qui programment une double réception,
à la fois fictionnelle et autobiographique, quelle que soit la proposition de l’une et de l’autre.
Philippe Gasparini
Lungo l'asse che attraversa quel territorio ampio tra l'estremo documentale e quello finzionale del
racconto di vita si stagliano i sottogeneri ibridi: il romanzo autobiografico, l'autobiografia (e i suoi
sottogeneri autobiografia profonda ed eterobiografia), l'autofiction.
Philippe Gasparini chiarisce come l’autofiction acquisisca gli aspetti testuali e di genere del
romanzo autobiografico. Secondo il transalpino l’enunciazione autofinzionale s'inscrive nei
movimenti del genere autobiografico: c'è coincidenza tra autore, narratore e personaggio
conformi al nome del protagonista e dell’autore in copertina; presenti anche la psicoanalitica e la
metatestualità, tipicamente autofinzionali (come, del resto, sono canoniche nel romanzo
autobiografico ma di più intensa letterarietà). Autofiction, insomma, come un alter ego raffinato
del romanzo autobiografico.
Gasparini, partendo dalla fragile e complicata sintesi fra le analisi di Genette, Doubrovsky e
Colonna, tenta di delineare appunto lo spazio letterario fra finzione e referenza principiando dal
congegno d'immedesimazione fra chi scrive, chi narra e chi è narrato. Il motivo della
corrispondenza tra autore, narratore e personaggio è tracciato mediante altri operatori
d'identificazione rintracciabili nell'ambiente sociale e nel paesaggio culturale del narratore-eroe-
personaggio. Tramite vettori analogici l'autore graduerebbe la finzionalità dei contenuiti narrativi
profilando la forma del genere.
Egli spiega la triplice rilevanza, relativa alla perimetrazione dell'ambito letterario, dei costituenti
netti che consentono di delinearla fra gli opposti della pura referenza autobiografia e l'assoluta
invenzione autofinzionale.
L'idea di plausibilità da Gasperini correlata agli aspetti di coincidenza tra l'autobiografia come
segno e la vita dell'autore come referente trasferisce il riconoscimento di genere e sottogenere del
racconto di vita a una diversa quota d'indagine e d'accoglienza, un livello correlato al grado di
autotenticità della storia e alla corrispondenza anagrafica presso le quali l'analisi di genere si è
inceppata.
Gasparini osserva l’autobiografia come metafora del sè, il suo duplice processo di ri-scoperta e ri-
creazione. Prerequisito è che si configuri come un'architettura fluttuante tra l'area finzionale e
quella referenziale, implicando allora un campo generico che circoscriva compiutamente i testi
analizzati.
L’ingaggio della ricchezza retorica dei metodi dell'elaborato autobiografico come principio di
catalogazione e stima della norma di genere rivolge la domanda su come lo stile possa essere il
tratto comune tra il polo finzionale e quello referenziale del racconto di vita. Quest'assunzione
evita lo scivolamento dell'esame del sè nell’analisi decostruzionista del puro linguaggio,
mantenendo la materia referenziale: il testo stesso, imprescindibile sostanza biografica colla quale
ci si deve misurare. Visto in quest'ottica il campo letterario del modello autobiografico si carica di
elementi persino notevoli.
La prospettiva d'analisi Gaspariniana mostra insomma due nuove tracce che rendono pertinente la
selezione di testi eterogenei che si localizzeranno in punti difformi lungo la linea che corre dal
bordo della finzione a quello della referenza, fornendo quindi una chiave di lettura rilevante per
la questione del gradiente di finzionalità e referenzialità del genere autobiografico.
L’intento esegetico di questa esposizione sarà quello di sondare e indagare gli aspetti retorici e
morfologici dei testi: due elementi, quindi, d'approfondimento e comprensione riguardo il loro
peculiare status di genere.
ETEROBIOGRAFIA
Autobiografía del general Franco di Manuel Vázquez Montalbán è costruito attorno al dialogo tra
narratore-biografo, che sembra essere una proiezione dell'autore, e il suo autobiografo-soggetto.
Il dialogo inerente al "doppio io" dell'eterobiografia è qui reso esplicito. Il narratore di Vázquez
Montalbán, Marcial Pombo, è incaricato di scrivere l'autobiografia di Francisco Franco come il
Generale se medesimo l'avrebbe scritta. lui stesso, un compito che egli soddisfa con riluttanza. La
sua famiglia aveva sofferto sotto il regime di Franco: ha così intercalato la suo pseudo-
autobiografia ventriloquitaria con altre voci che sfidano la prospettiva del generale. Mentre
capitola per motivi finanziari e cancella queste voci alternative dal suo testo, è consapevole del suo
ruolo nel mantenere un resoconto pericolosamente unilaterale della storia della Spagna. Rivelare
l'inversione finale di Pombo verso la terza persona come segno di disperazione per la fuga del
dittatore dalla sconfitta attraverso la sua morte, ammettere la dipendenza continua delle
narrazioni della vita delle vittime del dittatore su quella dello stesso, equivale ad analizzare i modi
in cui la forma eterobiografica del libro esplora la relazione tra l '"io" e le comunità storiche in cui
mira, o fallisce, a partecipare. In questo modo, sfruttando le possibilità offerte dalla letteratura,
Vázquez Montalbán trova un modo per reinventare il generale Franco cercando nel contempo di
far apprendere chi sia il dittatore. Attraverso l'uso d'una fraudolenta autobiografia, permette
altresì al lettore di conoscere nella ricreazione memoriale il narratore, personaggio e autore
“assunto” di questa autobiografia, l'alter-ego di Franco, il più giovane scrittore Marcial Pombo.
Questo personaggio sfaccettato offre un'insolita visione plurale di Franco, propizia l'interrogatorio
sul ruolo degli storici in relazione all'interferenza d'una visione storica che, fermandosi nelle linee
generali, indebolisce la reale dimensione dei fatti. Non c'è ingenuità nella presentazione di
un'opera il cui titolo annuncia un'autobiografia. Il nome dell'autore imbroglia il patto stabilito dal
titolo: Manuel Vázquez Montalbán firma la sua opera. Il suo autore e creatore che ha la
complicità del lettore, istigata dalla rottura del patto autobiografico di cui parla Lejeune. Tra la
modanatura di un introito e quella di un epilogo, Marcial Pombo, scrittore spagnolo la cui vita era
stata condizionata dal fuoco della tortura del regime di Franco, entra nella pelle di Franco nei suoi
ultimi giorni di vita per
(…) raccontare la tua storia alle generazioni di domani [...] agli uomini dell'anno 2000.
L'editore immaginario Ernesto Amescua, di fronte alla domanda del figlio dodicenne: "Papà, chi
era Franco?", trasferì la stessa a Marcial Pombo così da fornirgli la risposta. L'editore contava sul
talento di Marcial Pombo che, messo nella pelle di Franco, avrebbe dovuto prestare attenzione al
consiglio dato al caudillo morente da sua figlia e dal suo medico:
Marcial Pombo adotta la falsa obiettività che presumibilmente lo stesso Franco avrebbe adottato,
lasciando quello che sarebbe dovuto essere un messaggio fattuale e oggettivo. Strappò una frase
materna relativa a un aneddoto infantile di Francisco:
Altri figuranti, come l'inevitabile Ridruejo (…) comunista, ebreo e basco, RamónTamames, figlio di un
professionista repubblicano (…) mi sorpresero meno, ma il tempo mi avrebbe insegnato a non sorprendermi
quando apparvero, negli anni sessanta, illustri cognomi della crociata legati a gruppi di sinistra, anche il partito
comunista.
e ogni volta che un cittadino del futuro legga questa storia oggettivata o presenzi e testimoni la
riproduzione delle immagini o dei video, sarà come se egli emergesse all'orizzonte guidando un nero bulldozer
spettrale pronto a coprire tutte le sue vittime con pensieri, parole, azioni e omissioni con un altro strato di terra.
BIOGRAFIA PROFONDA
Alberto Savinio ha avuto modo di chiarire in quali termini ed entro quali limiti la sua opera possa
essere definita autobiografica: «A me è superfluo chiedere autobiografie. La mia opera è in parte
una precisa ed estesa autobiografia». In prima istanza, si consideri la ridondanza d'argomenti
tipicamente autobiografici dell'autore. La descrizione della prima esperienza sessuale come snodo
fondamentale tra le età d'infanzia e adolescenza ne rappresenta un esempio. In Tragedia
dell'infanzia l'irrompere della maturità sessuale è rappresentato dall'invasione di campo d'una
figura androgina su una scena teatrale. L'apparizione mistica turba il giovane Nivasio
(anagramma di Savinio) al pari d'aver vissuto un'iniziazione sessuale reale.
Che stava per capitarmi? La sua mano mi tastò la fronte, il ganascino, strisciò tra il bavero e la pelle
della schiena. «Dio mio! I brividi!». Era solletico, ma io non lo dissi. «Fuori la lingua!». Stettero entrambi a fissare
la mia lingua, preoccupatissimi dapprima, poi via via più imbambolati, infine delusi. Allora, piano piano, io mi
riportai la lingua a casa. Perché turbarmi nei miei pensieri? Febbre non è la mia. Non di quelle in ogni modo
causate da «forme tifoidi», come dice il vecchio Saltas. Avverto sì un imprecisabile turbamento, ma non è cosa
che voi possiate capire, né io tanto meno confidarvi. Lasciatemi riposare sulla mia gioia. Altro non chiedo.
Nivasio e Cleopatra si fissavano attraverso lo spiraglio dell’uscio. Timido fino all’irrigidimento delle
facoltà ma convinto che laggiù in fondo al corridoio Cleopatra non lo poteva vedere. Nivasio sosteneva con
fermezza lo sguardo dell’isolana. Quella pupilla priva di sguardo esercitava su Nivasio l’invincibile attrazione
dell’occhio della serpe sulla gallina. Nivasio traversò il corridoio, spinse l’uscio, penetrò nella luce. Camminava
come un sonnambulo. La mammella brillava tra il pizzo della camicia, come un candito dentro il canestrino di
carta traforata. Il capezzolo era pigmentato come una fragola. Avvenne l’incontro. Rotolarono assieme sul letto
ancora sfatto della signora Trigliona. Quella mammella che a distanza prometteva tanto, Nivasio, dopo una
rapida presa di possesso, s’accorse che nonché cieca era anche «muta». Sentiva che altri erano i punti da
scoprire, altra la meta da raggiungere. Lottò per le nuove scoperte, per la meta a difesa della quale Cleopatra
opponeva i gomiti e le pugna, ergeva il muro di una resistenza dura, sorda, bestiale.
Se nella prima citazione l'attrazione è idealizzata e sconvolgente, nella seconda l'approccio fisico
assume quasi la forma d'una lotta tra corpi. Rilevate la topicità e la tipicità dell'iniziazione erotica
(essa stessa motivo e presenza consuetudinari del racconto autobiografico) sarà agevole
evidenziare le varianti formali rispetto al comune contenuto. Nell'episodio di Tragedia
dell'infanzia il tema si carica d'elementi surreali, onirici, iniziatici e allegorici lungo l'asse della
vita e all'altezza del passaggio all'età adulta. In quello di Infanzia di Nivasio Dolcemare l'analoga
materia, fuor di metafora, accoglie inequivocabili reminescenze memorialistiche che descrivono il
momento in cui l'epoca dell'incanto infantile abdica per quella dell'adulto disincanto. Le due opere
citate sono quelle presso le quali Alberto Savinio utilizza il dispositivo del racconto di sé
approssimandosi più da presso all'autobiografia ortodossa. In questi due libri la linearità e
l'organicità del racconto seguono una cronologia pressocchè regolare. Del resto, l'uso saviniano
dei meccanismi autobiografici di scrittura è innovativo e insolito, sia quando la diacronia negli
eventi del plot narrativo risulti incoerente tanto quando la narrazione dei fatti sembra seguire un
ordine più lineare e organico. Tragedia dell’Infanzia si sviluppa in tre diversi nuclei narrativi.
L'iniziale racconta di come il piccolo Nivasio scopra ed esplori il mondo circostante, in costante
dissidio con i grandi:
Triste il conoscere. Più triste e assieme nefanda l’inclinazione che ci spinge a conoscere a tutti i costi,
quando ignorare sarebbe tanto più pietoso, o se ignorare non si può almeno dimenticare. Come negare che la
gioia più intima dei nostri genitori si rinutre delle sofferenze di noi bambini?
Di fronte alla finestra della mia camera dei giochi, si levava il Pelio. Avevo deliberato di partire di casa,
varcare la montagna, affrontare una vita nuova e un più forte destino. Pregustavo il dolore dei miei genitori.
Infine, il polo enunciativo relativo all'evento del teatro. l’esperienza teatrale rivela il suo
perturbante significato esistenziale. La visione dell’ermafrodito rappresenta il primo contatto del
protagonista con la sessualità che lo porta alla maturità e al distacco dall’amore materno. Nivasio
ha scoperto la natura del suo carattere e l’attitudine delle sue passioni. Savinio racconta il primo
passo del suo distacco dalle strutture sociali impostegli dalla famiglia e dalla società.
La cronologia del racconto è lineare quanto intricata la conseguenzialità delle vicende esistenziali:
I miei rimpianti non durarono. L’immagine dell’indegnamente amata, che ricordi e nostalgie
alimentavano, si denutrì all’alba di un nuovo amore e sparve. Vivevo nella sfera di Mercurio. La mia vita si
muoveva con rapidità, dentro un’orbita ristretta. Sofferenze e gioie mi si traducevano in turbamenti violenti ma
brevi. I bambini risorgono dalle malattie più sicuri e temprati. Le sorprese della nuova vita cancellarono le
ultime tracce della città notturna. Da un mondo buio e molle d’incertezza, m’affacciai a un mondo chiaro e
ancorato alla realtà.
I passati remoti innescano la sensazione d'un movimento temporale lungo le pagine dell'opera,
come sembra conseguenziale l'elenco degli umori prima propri dell'infanzia e dopo tipici
dell'adolescenza. Se il buio cosmo infantile è incerto e molle quanto l'universo adulto è reale e
solido, allora l'esempio filosofico dello yin e yang ci aiuta a trasferire la relazione cronologica fra
le due età esistenziali su un piano dialettico chiarendone il legame tematico. L’etimo rivela il senso
dei due termini: yin in origine indicava il versante oscuro, adombrato, settentrionale e yang quello
luminoso, assolato, meridionale di una stessa collina o altura. Così infanzia, adolescenza, maturità
e senilità affermano il legame necessario fra le ere esistenziali, certo per distinguerle
singolarmente, ma soprattutto per denotare la natura mutevole delle loro relazioni.
Tutte le cose (…) io me le sarei scoperte da me. (…) i primi passi della mia vita io li potei compiere
senza quella fatica che indurisce l’animo e spegne la grazia, ma in maniera amabile e adorna di liete sorprese. Le
illusioni (...) poi le ho dovute dimettere a una a una. (...) ho tratto quella fede incrollabile nella meta faticosa ma
alta del mio destino, la quale anziché scemare con gli anni, cresce di continuo e si rafforza.
Infanzia di Nivasio Dolcemare può essere considerata come una chiave di lettura di Tragedia
dell’Infanzia. Alla coincidenza del vissuto che viene narrato, si aggiunga un'analoga tripartizione
della cronologia del racconto, questa volta più marcata anche perché le vicende personali di
Nivasio sono affiancate a quelle familiari dei Dolcememare. L'incedere parallelo degli eventi
chiarisce i conflitti contro la famiglia e verso l’intera società borghese. Il viaggio notturno è
l'evento cardine dell’infanzia del protagonista:
La continuazione di quella medesima società di cui di giorno in giorno egli andava approfondendo
l’insondabile vacuità e la incommensurabile idiozia. (...) Nivasio uscì pian piano dal letto, si vestì in fretta, scese
le scale recando le scarpe in mano. Nella casa era quel che di cupo, di «sudato» dà al sonno degli uomini. Tra gli
ostacoli maggiori che a previsione di Nivasio avrebbero ostacolato il suo tentativo notturno, era il buio della
notte e l’impossibilità di farsi lume […] Nivasio si sentiva felice, sicuro, ma ispirava ancora una fiducia
illimitata. «Perché la sua vita non si svolge sempre in questa luce?» pensò Nivasio. In questa luce ferma e pacata
Nivasio Dolcemare aveva riconosciuto un che d’irrimutabile e duraturo, che la luce del sole non ha.
Il luogo letterario relativo alla prima esperienza sessuale considerato come snodo esistenziale tra il
protagonista infante e quello adolescente è ripreso anche in questo libro:
Lottò per le nuove scoperte, per la meta a difesa della quale Cleopatra opponeva i gomiti e le pugna,
ergeva il muro di una resistenza dura, sorda, bestiale.
La Noia cominciò a stendersi come una enorme macchia sulla vita di Nivasio Dolcemare. E lentamente,
irresistibilmente, Nivasio Dolcemare calò nelle sabbie mobili della Noia Vorace, della Noia Sitibonda, della Noia
che aspira l’anima e il corpo. La vita si era decolorata in un biancore uniforme e opaco. Ogni attività non
diciamo felice, ma appena gradevole era cessata. Sembrava che una epidemia di «nulla» si fosse silenziosamente
abbattuta sul mondo. A parte gli atti quotidiani e indispensabili, come il sedere a tavole due volte il giorno, e
quei pochi «doveri» cui era astretto dalla soggezione alla volontà altrui, Nivasio si era ridotto a un’apatia
completa, sorda, compatta, che diminuiva le facoltà, insonnolita gli occhi, empiva la testa di ronzio e
tramortimento. L’afa del giorno soffocava ogni movimento, ogni suono. La casa era oscura come una cripta,
silenziosa come una tomba. Il sonno la dominava per le lunghe ore. Nivasio, che non sentiva bisogno quanto a sé
di partecipare al sonno comune, al sonno «familiare», perché egli stesso era tutto chiuso in un suo sonno
particolare, era costretto in quelle ore «morte» a camminare in punta di piedi, a evitare alcuni passi troppi vicini
alle camere da letto, a comportarsi come il guardiano di morti.
Tra i racconti della raccolta dal titolo Il signor Dido e precisamente in Solitudine , il narratore
racconta d'un tipico giorno vissuto dal signor Dido, ennesivo alter ego autobiografico di Alberto
Savinio:
Ogni mattina, il signor Dido apre la giornata con la lettura del giornale. È la prima invasione che il
signor Dido subisce. Al signor Dido sarebbe facile chiudersi a questa invasione. Gli basterebbe non leggere il
giornale. Ma come rinunciare a riprender contatto ogni mattina col mondo?
Molti contemporanei del signor Dido, inorriditi dalla ‘dispersione’ del nostro tempo, si rifugiano nella
musica prebeethoveniana, come in una oasi sicura. Così architettonica! Così priva di dubbi! Così serena! Meno
il signor Dido. Anima profondamente romantica, il signor Dido non solo rifugge la dispersione ma la ama. Farsi
portare da questo mare tempestoso e infinito, egli lo preferisce all’approdare a qualsiasi porto. Solo che anche in
questo dolce e disperato naufragare, egli vorrebbe simpatia; e trascinarsi dietro tutti gli uomini, tutte le donne:
tutta l’umanità: tutto l’universo.
La voce narrante presenta la profondità dei pensieri del signor Dido dal punto di vista dello stesso
protagonista analogamente a un monologo interiore. Si evince la descrizione dell'artista senile. E'
avvenuto un ribaltamento di prospettiva: la sovversività del giovane Nivasio si è tramutata, lungo
gli anni, nel desiderio di condivisione ed empatia del Savinio entrato nella terza età. Le citazioni
sin qui riportate forniscono vari aspetti e modalità relative al medesimo campo eterodiegetico di
voce. In questo ambito il racconto saviniano, non venendo meno alle regole della tipologia
narratologica, rappresenta una rarità nell'autobiografia. Particolarità ancor più infrequente è la
pseudonimia dell'autore, a volte anagrammatica, sempre in sede d'eterodiegesi.
AUTOFICTION
Finì così, con un referto autoptico di 73 parole e 567 battute. In quello stile neutro e gelido si
compendiava la storia di un morto, la mia storia.
Esordisce in tal guisa tale storia d'un fantasma. Viene certificato il decesso del soggetto enunciante.
Il testo comincia con la notifica della corrispondenza fra il narratore e l'esanime. La ripartizione
capitolare del libro è caratterizzata dalla conclusività individuale delle singole sezioni, ognuna
all'insegna d'un opera d'arte o di lettere. Al fine, però, di scoprirne i titoli, diverrà indispensabile
consultare l'elemento paratestuale, ovvero l'indice: sembra infatti che il complesso dinamico del
romanzo si sveli in quella sorta di catalogazione liminare. Libri, ingranaggi essenziali del sistema
narrativo, componenti la biblioteca del defunto, devoluta dalla sorella a un rigattiere. L'antiquario
agisce come un dispositivo ottico, che consentirà al fantasma d'esplorare, da posizione coperta,
quel giro d'orizzonte ed enunciarne il racconto.
Posso allontanarmi, sono libero di vagare ovunque, ma il polo attrattivo non cambia, il nord resta il
negozietto di libri usati sulla circonvallazione, un bugigattolo polveroso incuneato tra il tabaccaio e la farmacia,
proprio di fronte a dove morii.
La comparazione tra i dati biografici reali dell'autore Sergio Garufi e quelli fittizzi del narratore
rivelano subito uno scarto: il secondo nasce il
data del decesso fittivo dello scrittore. Del resto, quest'elemento d'indigine costituirà al momento
l'unica traccia d'inverosimiglianza biografica.
da quando misi piede nel negozio di mia madre dopo l’interruzione dell’università
e la sua susseguente reinvenzione nell'attività di scrittore causata dalla perdita del lavoro legata
alla crisi.
Tutto ciò che avevo visto, sentito o letto di ammirevole l’avevo trascritto lì, e ora mi sarebbe tornato
utile. Il secondo punto di forza l’avrei sfruttato raccontando ciò che conoscevo meglio, le storie di cui ero stato
protagonista, gli alti e bassi che il destino mi aveva procurato con generosità.
Tali i tre versori essenziali nello spazio euclideo della narrazione autobiografica, che localizzano il
perfetto incontro tra narratore, personaggio e autore. La bottega dell'antiquario Lino, che accoglie
la totalità dei libri appartenuti allo spettro, ritrae lo spazio preferito di quello spirito, luogo
d'elezione del dispositivo memoriale. I vari capitoli esordiscono con l'acquisto d'uno dei libri del
narratore continuando con l'esegesi intrapresa dal nuovo proprietario, vettore lui medesimo d'un
nuovo senso del testo. L'esplorazione visiva dei clienti da parte del rigattiere, provoca nel non
morto l'emersione di reminescenze indissolubilmente legate al codice già posseduto, i contesti
presso i quali il volume è stato per lui determinante. Dal fatto contingente s'irradiano meditazioni
sia attuali che trascorse che s'innescano reciprocamente intorno al nucleo di quest'eccitata
struttura atomica. Ogni motivo narrativo è intessuto nella trama libresca. L'espediente
bibliografico attiva il meccanismo del racconto. Ciascun tomo si configura come un varco
temporale attraverso il quale refluisce tutta la sostanza narrativa fra la finzionalità del presente e
la veridicità del passato in un'ottica omodiegetica. L'intima relazione tra il narratore e la sua ex
biblioteca s'estrinseca lungo la successione continua e inscindibile del racconto di vita. I libri come
pista cifrata, tappe dell'ermeneutica del sé. Infatti, ogni storia personale, secondo la terminologia
di Paul Ricoeur, deve essere letta, compresa e interpretata secondo tre dimensioni: il Sé, il Prossimo
e il Lontano. Questo geometria solida è intimamente collegata alla triade dell’etica della
personalità: la stima di Sé, l’incontro con l’altro all’interno d'uno spazio. Lungo questa linea la
memoria deve essere intesa non come filo d'un singolo, bensì ordito di collettiva trama. Quando
un soggetto parla, ricorda, immagina, è presente il diverso e la collettività, l’umanità presente nel
singolo; non esiste un individuo isolato, dal momento ch'esso pensa, patisce, agisce e parla, sono
presenti gli altri pensieri.
Quante volte mi era capitato di rispondere in mezzo minuto a chi mi chiedeva qualcosa sulla mia
biblioteca? […] Non era quella biblioteca il mio libro, la mia autobiografia, composta da tanti frammenti di me
stesso, che ora avvertivo come ingombrante e ricattatoria al punto da volermene sbarazzare; come capita agli
scrittori dopo aver pubblicato?
Libri come tessere vitree, ognuna connessa vicendevolmente nel mosaico autobiografico. Il récit
de vie è ricamato mediante patchwork, analoghe alle pezze cucite che vende Lino, colui il quale
presta la vista all'ex arredatore non più vivo. Ancor meglio, la narrazione si sviluppa unendo pezzi
d'un puzzle viceversa incastrati a rappresentare il quadro bio e bibliografico conclusivo,
ricorsivo, insomma circolare. Il giro si chiude con la scena della scomparsa dell'eroe. La
ridondanza si palesa ulteriormente nella disposizione sistematica dei libri.
Io subivo invece la fascinazione dei movimenti circolari, quando la fine coincide con l’inizio; quello che
qualcuno chiamava il vaudeville del diavolo. Mi attraevano nelle cose che vedevo, nelle persone che mi
circondavano, in ciò che mi accadeva.
Un esempio rappresentativo di tale catena di rimembranza è il capitolo relativo al libro “Jorge Luis
Borges – Tutte Le Opere”. Garufi ebbe modo d'incontrare l'autore rioplatense, del quale lo stesso
Sergio è un' aficionado, prima della sua scomparsa. L'aneddoto memoriale ne ricalca
dettagliatamente i particolari. L'esordio del frammento in analisi mette a fuoco l'interno del
robivecchi letterario, dal cui bancone il narratore osserva il flusso dei viandanti dal quale apparirà
la prossima cliente, destinata a comprare uno dei libri dello scrittore. Proprio l'acquisto d'uno di
questi sarà il motivo per il quale l'avventrice diverrà la protagonista temporanea del flusso
narrativo:
D’un tratto, in mezzo alla folla sbuca una bella donna sulla cinquantina, con fluenti riccioli nerastri e
una sciarpa indaco a gorgiera. La dolcezza dei suoi lineamenti mi ricorda la Mazzafirra, l’incantevole modella
che posò per Cristofano Allori nel quadro Giuditta e Oloferne. Si ferma davanti alla libreria e osserva da vicino
la locandina di un reading poetico in memoria di Jorge Luis Borges, che si svolgerà l’indomani sera presso la
Casa delle Letterature in piazza dell’Orologio.
Il manifesto d'una lettura collettiva in onore dello scrittore argentino richiamerà l'interesse della
figura femminile. L'episodio ispirerà un ulteriore il ricordo. L'autore rammenta la fase della
rottura con la ex compagna durante la quale cominciò a visitare cenacoli culturali del genere:
Il primo era dedicato a un poeta cileno con l’epressione severa e una folta barba d’ordinanza che viveva
tra Milano e Parigi.
All’interno del locale, in un seminterrato perlinato coi neon perimetrali a soffitto, una mezza dozzina di
depressi come me ascoltava con rassegnazione le rime impegnate dell’intellettuale sudamericano […]. Davanti a
me, una sciura che odorava di anisetta espresse timidamente dei complimenti, azzardando un paragone con
Borges.
Anche l’omaggio romano di domani a Borges minaccia una sequenza di tediose letture salmodianti, ma
perlomento non pare viziato da pregiudizi ideologici.
Ora, il punto d'osservazione esula dal fluire dell'anamnesi e irrompe nel presente, focalizzandosi
ex novo sull'avvenente dama intenta ad acquisire il libro del protagonista, quasi a portargli via
uno scampolo di vita.
Forse sulla spinta del manifesto, o dell’insostenibile prossimità dei suoi simili, la cinquantenne entra
nella bottega di Lino, si allenta la sciarpa e gli domanda qualcosa. Lui si avvicina alla pila dei miei volumi, […] e
infine le porge quello che aveva richiesto: il cofanetto coi due meridiani, sulla cui copertina compare la foto di
Borges appena maggiorenne e già con gli occhi spenti. […] Allora esco con lei, la seguo come l’ombra che sono e
non ho, mentre si distingue dagli altri per le sue falcate ampie e distratte.
Ad acquisto concluso l'avvenente quinquagenaria esce fuori e la voce che dice io è indotta ad
allontanarsi dalla bottega sui di lei passi, in un insistente intreccio fra lo stratagemma espositivo
sull'erudito non vedente e l'attualità degli eventi descritti.
Giunta vicino a un mendicante inginocchiato, all’angolo di piazzale Clodio con viale Mazzini, si china
per dargli una moneta e non c’è traccia d’indifferenza nella sua carità glabra. « Ogni vero regalo è reciproco,
colui che dà non si priva di ciò che dà, dare e ricevere sono la stessa cosa », scrisse Borges nella dedica della
raccolta di poesia La cifra.
L'atto caritatevole al questuante è descritto per mezzo d'una menzione al Bairense. Ora, tralasciato
lo zoom sulla riccia bruna, il focus è indirizzato sull'evento capitolare cardine, la visita dell'io
narrante al suo eroe.
Quel libro lo acquistai nel 1982, a diciannove anni, incuriosito da un’ispirata recensione di Pietro Citati
sul Corriere, e la dedica a Maria Kodama fu l’incipit di un’ossesione. Per tre anni non feci che leggerlo e
rileggerlo.
Tutt'intorno la tranche de vie v'è una costellazione d'escamotage finzionali che ne contraffanno
ineludibilmente la costituzione; allo stesso tempo il recit de vie verbalizza puntualmente, quasi
fosse una scrittura notarile, la citazione dell'autore relativa al pezzo scritto dal critico letterario sul
Corriere, della quale s'è fatto pocanzi cenno:
Ciononostante il libro non lo comprai subito, come tanti bei propositi finii per dimenticarmene fino a
quando, sempre sul Corriere, lessi una recensione di Pietro Citati sull’ultimo libro dell’argentino, una raccolta di
poesie edita da Mondadori e intitolata ‘La Cifra’. Lo comprai poco prima della chiusura dei negozi e iniziai a
leggerlo dopo cena. Ancora oggi so a memoria la prima pagina, che è una dedica bellissima che lui fece alla
propria donna, Maria Kodama.
L'andatura elicoidale dei fili referenziali e fittivi attorno all'asse autobiografico cattura il lettore,
l'iperbole è nostra, in una ragnatela inducendolo a sbrogliarne la matassa ermeneutica. A questo
punto della narrazione il protagonista racconta il suo incontro con Borges. Per farsi ricevere pregò
suo padre di telefonare in albergo per fissargli un appuntamento tramite la Kodama, alla quale
avrebbe dovuto dire che stava preparando la tesi su di lui e che non gli avrebbe preso molto
tempo. Ricevuto il via libera del padre, l’indomani mattina si presentò puntuale alla reception, ma
la Kodama lo accolse con fastidio, come fosse uno scocciatore, e solo per la sua insistenza
acconsentì a farlo parlare con lui per il tempo della colazione.
Fui accompagnato da un inserviente fin sulla soglia della sua camera. Quando si aprì la porta ebbi un
attimo di esitazione, come di fronte a una ierofania. Borges mi accolse acclamando in italiano i versi dell’inferno
dantesco: « Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate ». Aveva ragione: la letteratura è un adorcismo, l’unico modo
che abbiamo per interloquire con le furie che ci tormentano.
Lo zenit capitolare e formale non è però rappresentato dalla rievocazione del meeting ma bensì
dal report degli spostamenti relativi alla nuova padrona del libro
Giunti in piazza Perin del Vaga, la cinquantenne parcheggia la sua Yaris grigia vicino alla fontana dei
pesci simmetrici ed estrae dal portabagagli un pesante sacchetto della spesa. […] Suona il campanello e le apre
la porta una vecchina curva e sorridente.
L'obiettivo si focalizza brevemente su questo momento ove l'anziana mostra alla matura esibisce il
suo corredo nuziale, ovvero
Questo breve schizzo induce un'ulteriore reverie nel narratore d'equivalente cifra intima. Il
personaggio che dice io rimembra un discorso con la sua amata:
In quella stessa piazzetta, all’ombra del leccio secolare, vinsi le ultime resistenze di Anna e pensai che
avessimo un futuro […]. Era un caldo pomeriggio di Marzo, stavo per stabilirmi a Roma e lei era assalita dai
dubbi, temeva che non ci fossimo dati il tempo necessario per conoscerci.
Lo stesso luogo fu teatro di memorie posteriori, legate al trascorso di Anna e agli agenti scatenanti
del suo disagio quali lo stallo professionale di stilista e la malattia dell'ava Luisa. Un'ennesima
citazione del maestro del quartiere Palermo è l'occasione per connettere il ricordo al flusso
narrativo tramite un'analogia tematica:
Mi venne in mente la sua passione per le rose, e le sussurrai i versi dei poemi inglesi di Borges: « Ti offro
una rosa gialla vista al tramonto, anni prima che tu nascessi. Ti offro spiegazioni di te, teorie su di te, autentiche
e soprendenti notizie di te.
La seguente scena, l'ultima dedicata alla bella signora prima che lo spettro abbandoni le sue
tracce, descrive un banchetto serale tra amici. Il narratore prova a intuire, attraverso i vicendevoli
discorsi e posture del convivio, alcuni aspetti intimi della personalità della donna.
Simultaneamente, un nuovo e repentino flashback sui reali rendez-vous tra i due scrittori:
Con Borges ci incontrammo ancora, ogni volta che passava dall’Italia. Dopo Vicenza e Venezia ci furono
Volterra, Roma e Senago, alla corte del mefistofelico Verdiglione. A quell’epoca il mondo faceva a gara per
averlo […]. L’ultima volta capitò a Milano, nell’autunno del 1985, all’università Statale. Per tirarmela un po’
convocai gli amici più cari e mio padre, che era incuriosito dall’idolo cieco del figlio.
Nella clausula liminare al cieco idolo e nel ricordo del genitore a essa connessa, Sergio Garufi da
l'abbrivio al tema della scomparsa del padre.
Gli presentai mio padre e dietro suo invito andammo assieme a Borges in un ristorante di Corso
Venezia. […] Ritornata Maria ci congedammo dandoci appuntamento a giugno dell’anno seguente, quando
avremmo dovuto inaugurare a Firenze il Nono congresso mondiale del poeti. Morì pochi giorni prima a
Ginevra, per un cancro al fegato. Sei anni dopo io ero l’unico superstite di quella cena.
Sarà perchè è il primo anniversario della mia morte, o perchè è tutto il giorno che sto rintanato a
rimuginare nella specola di Lino. Fare il vitoacconci mi ha stancato: seguire ogni volta degli sconosciuti per
capire chi si è preso una parte di me, indovinarne i motivi, scandagliarne la vita, che importa alla fine? Non c’è
alcun nesso fra me e loro.
Mimare Vito Acconci dalla specola di Robi Vecchi ampliando il gioco dei doppi del romanzo: il
rigattiere indossa il fantasmatico lenzuolo bianco prestando la vista al non morto mentre lo
spettro corre dietro alle ombre dei clienti. Un geniale stratagemma narrativo per sciogliere
temporaneamente i nodi della forma autofinzionale e allentarne la tensione. Autofiction che
Walter Siti, a proposito della sua trilogia “Il dio impossile” interrogato da Niccolò Scaffai nel corso
d'un seminario all'università di Losanna, definisce “inconsapevole”.
All'esordio del capitolo relativo alla dipartita del padre troviamo Lino intendo a vendere i “Diari”
kafkiani a
episodio da cui nasce una lunga parentesi memoriale relativa all'età infantile e alla gioventù dell'io
narrante. Legata allo scrittore ceco è anche la scelta del titolo del libro che l'autore deduce da
questa citazione dall'autore boemo: “la magnificenza della vita (…) se la si chiama con la parola
giusta, col nome giusto, viene”. Il medium Kafka rinnova l'accensione delle connessioni
epifaniche:
Con Cinzia i presupposti sembravano favorevoli: non solo il suo nome era adatto, perchè laicamente
adespota, ma Senago, il paese dove viveva e dove vidi Borges molti anni prima, confinava con l’ospedale in cui
fu ricoverato e infine morì mio padre. Kafka morì di tubercolosi alla laringe nel sanatorio di Kierling il 3 giugno
1924. Nella stessa data avveniva la posa della prima pietra dell’ospedale Salvini di Garbagnate Milanese, che
nacque proprio come sanatorio per tubercolotici.
Il nosocomio, infatti, ospiterà il padre del narratore. Anche se la fitta trama di corrispondenze
lasciarebbe considerare artefatta la biografia del sé, è lecito pensare che il suicidio paterno sia
realmente avvenuto, visto che gli unici elementi palesemente fittivi del romanzo sembrano
riscontrarsi nell'episodio iniziale della morte dell'io narrante. Del resto, lo scrittore fa convergere
la decisione di vergare la propria palingenesi con l'elaborazione del lutto. La propulsione biografia
oltrepassa i limiti narrativi e si configura come bisogno dello scrittore di rivisitare la propria
esistenza attraverso un'autoanalisi scrittoria:
Soltanto grazie ad Anna compresi che per garantirmi un avvenire dovevo chiudere i conti col passato, e
per voltare davvero pagina era necessario rileggere la sua storia e scrivere la mia.
La storia di mio padre, riassunta in quindici pagine, conteneva un finale a sorpresa. Svelava che un
suicida non è il paladino del libero arbitrio e neppure un disertore, il crumiro della specie, bensì un povero
cristo costretto a fare una scelta dettata dalla disperazione, dalla solitudine, in certi casi dal rancore. Ci si può
uccidere anche per punire chi resta. Per rinsaldare dei rapporti che si erano allentati. Per il desiderio di
rimanere vivi, almeno nel ricordo dei propri cari.
Il cortocircuito autofittivo si concretizza nello smarrimento dell'io narrante dopo il suo stesso
suicidio:
Non credevo che esistesse l’aldilà, lo consideravo una ridicola superstizione, e in ogni caso mai avrei
sospettato che l’aldilà fosse il qua, il mondo così come lo conosciamo, solo ancora più freddo e indifferente di
prima. Io non sono più lo stesso, certo, non posso toccare, sentire i rumori, gli odori, i sapori, e tuttavia posso
muovermi e guardare, come se quel riflesso corneale non si fosse spento, e seguitasse a registrare la vita che
pulsa senza di me.
Il personaggio che dice io sa d'esser un morto vivente, fantasma errante nel reale relegato in una
sorta d'autismo che ne disattiva i sensi e la capacità d'interazione. Il suicida vive una sorta
d'ibernazione. Nello stato di quiescenza lo spirito ramingo possiede le sole facoltà di spiar e non
vedere, d'origliar non d'ascoltare, solvergliar non di seguire, e ricordare. Quest'astuzia fa scattare
la fiction imponendo all'io narrante le rimembranze, acconsentendone il percorso autobiografico:
Mi interrogo di continuo sulle ragioni di questa aspettativa dalla morte. Se rappresenti il castigo di un
demiurgo vendicativo per il mio scetticismo, oppure il limbo per i miei propositi suicidi. A volte temo sia colpa
della memoria, e penso che finchè qualcuno si ricorderà di me non avrò pace, rimarrò inchiodato qui. Forse in
questo consiste la fine, più che nell’asistolia: nel congedo definitivo dai pensieri degli altri.
Sarebbe un contrappasso ironico all’imperativo del successo, che istiga a rincorrere la fama e bolla
l’anonimato come la peggiore delle infamie.
Contrappasso dantesco ed eterna dannazione per chi ponga se stesso e la propria problematica al
centro di ogni esperienza, trascurando la presenza e gli interessi degli altri. La scena del suicidio
filiale non è altro che la replica dell'autoeliminazione paterna. Il tema del doppio svolge un ruolo
di capitale importanza nel romanzo, dove sarà espresso come ombra e riflesso temporale (leggasi
memoria). Questa categoria, scendendo in quella mezza morte che riorganizza l'identità e
l'alterità, grazie al vertiginoso susseguirsi degli acquirenti librari e al gioco delle citazioni
letterarie, rappresenta il meccanismo funzionale de “Il nome giusto”, ovvero sperimentare cosa si
prova a essere ricordati (metafora della sofferenza che prova l'autore nel ricordo del padre
suicida, sopravvissuto nella memoria del figlio) e a farsi ricordare (metafora della lacerazione e
del progressivo depauperamento che l'autore prova nel vedere il suo vissuto andare in pezzi)
lungo un infinito spasmo post mortem. Tanato nel plot Garufiano è impersonificato dalla fiction .
Figurazione inusuale, alla luce del fatto che la tradizione critica autobiografica reputa la morte
costantemente come non pervenuta. Il decesso del biografato è l'elemento imprescindibile d'ogni
biografia, mentre la scomparsa dell'autobiografato rimane latente: magari si vien configurando,
descrivendo un'esistenza che s'appropincua alla conclusione, ma che di fatto è asintotica. Questa
cronica imperfezione dello scritto autobiografico è nodale. Il difetto svela inoltre il motivo per cui
l'atto esegetico dedicato all'autobiografia non si completi mai in utile ermeneutico, gnostico
guadagno. Ma le opportunità che quest'anomalia eroga al compositore autobiografico consente
all'autore libertà d'azione: il farsi della sua scrittura manifesterà tracce vitali. Infatti, L'iniziale
assassinio retroflesso dell'io narrante si configura altresì come circostanza scatenante l'analisi à
rebours della propria esistenza tramite la rimembranza con la finzionalità agente a ritroso, a
dispetto del fatto che la sua vita si sia già risolta nel momento incipitario. La diga finzionale,
quindi, argina il flusso memoriale come la corsa del criceto è inibita dalla ruota. La memoria verrà
attivata e arrestata, nello stesso punto spaziale e nel medesimo attimo temporale, dall'interruttore
dell'invenzione narrativa che accende e spegne il sistema circolare. Nel libro, il tondo apparato è
funzionante fino al termine del romanzo. Il protagonista lascerà ogni speranza entrando nella
porta dell'Ade al suo secondo e definitivo passaggio attraverso gli stipiti. Il memento viene
bruscamente interrotto dall'esatta descrizione dell'invertito omicidio. E il fanciullo con le efelidi
che rieccheggia la fisionomia dell'io narrante è l'astante nel momento in cui il cerchio si chiude e i
due suicidi si sovrappongono. L'estinzione della voce del fantasma narrante coincide col togliersi
la vita dell' il fu Sergio Garufi. Se l'istinto del seguire le orme dei bibliofili metaforicizzava il
commiato dalle schegge della propria vita, la macerazione della sua biblioteca coincide con il
concludersi del trucco finzionale che manteneva viva l'illusione dell'atto narrativo. Del resto, il
capitolo conclusivo citante il Samuel Taylor Coleridge di “Table Talk” comincia con la liquidazione
di tutti i volumi presso Lino, obbligato ad abbassare la saracinesca per ristrettezze finanziarie.
Mi allontano dalla sua bottega senza problemi: non era quella la mia Itaca, il baricentro della mia
esistenza postuma, bensì ciò che vi era contenuto. Ero legato ai miei libri, è con loro che starò fino alla fine.
Pertanto la vita post mortem dell'io narrante è, in sostanza, di cellulosa. Le citazioni dei libri
scintillano incendiando il carburante finzionale, all'esaurimento del quale il motore narrativo si
spegne.
La verità è che non mi sono mai allontanato tanto dai miei libri. Il poco che ho combinato nella vita
erano brevi glosse alla realtà, un timido affacciarsi alla finestra per poi tornare a rifugiarmi nel bunker cartaceo.
Quei libri rappresentano la mia ragion d’essere, il mio supplizio, il passato da cui mi sto accomiatando.
Il racconto dell'ultimo atto dell'opera corrisponde alla scena biografica finale. Il narratore passerà
dall'illusoria fiducia accordata al tempo che verrà allo scivolare in una cupa depressione,
anticamera del suicidio.
Perfino adesso, non posso fare a meno di sentire quanto la mia situazione attuale sia simile alla
precedente.
Il frivolo evento che innesca la sproporzionata reazione a catena mostra il protagonista che viene
colto dalla compagna impegnato in un'ambigua conversazione digitale con la di lei amica del
cuore, cagione d'una lite veemente e conseguente allontanamento: l'io narrante precipita in una
profonda crisi. L'atto del torgliersi la vita segue l'eliminazione dal suo computer del romanzo che
egli stesso stava elaborando ed era ormai giunto sulla dirittura d'arrivo. Continua quindi la serie
di riferimenti paralleli tra vita e letteratura sul piano referenziale come su quello fittivo. Il
fantasma si riconoscerà nell'esistenza passata del protagonista suicida.
Poco dopo la conferenza di Mantova finii l’ultimo giro di bozze del mio romanzo. Ero entusiasta e
sfinito. Da un lato mi sentivo fiero di me, di essere riuscito a concludere il progetto più ambizioso della mia vita,
l’unico che avrebbe potuto darle un senso, dall’altro mi accorgevo di non avere più energie, come se la scrittura
mi avesse prosciugato o fossi invecchiato di vent’anni.
Se pareba boves, alba pratàlia aràba et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba . Così recita
l'indovinello veronese. L'atto scrittorio dunque come seme dal quale germoglia l'esistenza
dell'autore. La letteratura è legata a doppio filo alla vita e, di conseguenza, coinvolta nella
depressione in cui lo scrittore sprofonda:
Garufi seguita a percorrere l'asse fra la il polo documentale e quello finzionale correndo sui fili
dell'ordito del libro. L'ultima negativa circostanza d'un drammatico susseguirsi d'eventi e il ripudio
del suo libro autobiografico, ovvero il volume che il lettore ha sotto gli occhi. Siamo in presenza di
una gideana mise en abyme , di fronte a delle scatole cinesi narrative, entro le quali realtà e
fantasia si contengono vicendevolmente.
Le rogne mi investirono a settembre, finito il libro. L’ansia per il responso degli editor, i dubbi sul mio
talento, i timori per il mio avvenire professionale.
Il vertiginoso slalom parallelo lungo il ripido crinale della voragine ove frana il protagonista
percorre i binari dell'ora e della memoria: lungo il percorso del presente l'io narrante perde la
donna, il tetto, pure il mestiere; attraverso il tracciato del passato, invece, il suo fantasma seguirà
la camionetta che conduce i suoi amatissimi libri al macero.
Lascio Lino e salgo con i miei libri, nel vano chiuso, per seguirli nell’ultimo trascloco, quello definitivo.
[…] Mi sento come se fossi su un’ambulanza ad accompagnare una persona cara che sta male.
Durante la riduzione in poltiglia dei suoi libri l'io narrante comincia a pensare al suicidio:
Aprii Word, il file del libro, e rimasi seduto a lungo con il volto tra le mani a guardare quelle parole
insensate, mentre la casa si oscurava piano piano. Mi ero incartato senza neppur aver stampato una pagina.
Leggevo e rileggevo con un senso crescente di nausea, finchè alla fine cliccai « elimina ». Troppa sofferenza lì
dentro, e rimorsi, e affettazione, e pressapochismo. Mi facevo pena da solo. Basta, mi ero liberato di un incubo. A
Roma non ero venuto per Anna o per diventare uno scrittore. Ero venuto a tacermi per iscritto.
Il sordo tonfo ai piedi d'un palazzo che caratterizzerà il suicidio del protagonista avverrà
all'unisono col frastuono dei libri scaricati dal camion che poco dopo verranno trasformati in
Per districare la gomena della narrazione bisognerebbe seguire il fil rouge che renderebbe
possibile separare l'una dall'altra le corde aggrovigliate del referenziale e del finzionale: ciò non è
semplice. Un caso modello ricorre quando lo scrittore dichiara, come già fatto risaltare, che
A Roma non ero venuto per Anna o per diventare uno scrittore. Ero venuto a tacermi per iscritto.
Dov'è la realtà? Dove la finzione? Rintracciare quel filo rosso diventa arduo. I vari temi
autobiografici come l'atto estremo del padre, la scoperta dell'adozione del figlio innestata nei
racconti d'infanzia lacera la fibra del flusso mnemonico fino a rendere indistricabile la matassa
del plot . La patina fittiva cautelerebbe lo strato sottostante del concreto, operando una divisone
dualistica dello spazio narrativo: stabilirebbe, con la sua presenza, un al di qua e un al di là a essa
correlata. Il bisogno sorge dall'incapacità dell'io odierno di raccontarsi nella guisa più tersa. Il
tendere al romanzare non solo aiuta la coagulazione memoriale ma esonda nell'alveo del reale sin
quasi a inondarlo completamente. Fintantoché la rimembranza fluisce coadiuvata da riferimenti
anagrafici e circostanze rilevabili che ne confermano la veridicità, non sorge il dubbio secondo il
quale l'io stia realmente narrando la sua esistenza. Ciò non ostante, il narratore sceglie sull'uscio
liminare dell'opera di consegnare un concetto completamente romanzesco del raccontare. L'autore
ultracontemporaneo è solidale all'idea che solo un ego potente, con un netto riconoscimento
sociale e artistico, sarebbe abile a narrare una biografia così complessa quanto complicata, in tutto
il suo contenuto drammatico. Se ne deduce quindi un io cosciente della sua artisticità letteraria ed
edotto sui fondamentali della mise-en-scène narrativa, in questo caso consapevolmente svolta e
del tutto riuscita. La complementarità della finction diventa quindi un modo d'esprimere
completamente il dato biografico. Quindi più che informarsi all'autofinzione che segua la scia
d'un estremo egocentrismo, la biografia fa riferimento a un protagonista detronizzato ed estenuato
che pur di raccontare indossa il trucco finzionale: una maschera fittiva dietro la quale Garufi
decide di nascondersi. L'inetto io narrante, consapevole della sua sicura disfatta, comprende di
non essere conforme a quella (già citata) duplice identificazione che non si configurerà mai come
agnizione, ricorrendo a un soggetto posticcio che lo rappresenti. La mancata soddisfazione del
bisogno di portare a termine la pubblicazione del suo romanzo lo rende consapevole che sarà
impossibile convivere col dispiacere che ne è derivato tanto d'arrivare a togliersi la vita. L'atto
estremo conclusivo non è che un rito mediante il quale l'autore scongiura l'ammissione della
sconfitta.