Nel secondo dopoguerra la scienza politica era stata attraversata dalla c.d. rivoluzione
comportamentista: il comportamentismo si prefiggeva di individuare il comportamento
umano (cioè il comportamento del singolo) come principale fattore esplicativo della politica
e dell’attività di governo, puntando a fare della materia uno studio oggettivo e avalutativo,
condotto tramite metodi quantitativi. Alla base dell’idea comportamentista vi era la
convinzione dell’unità della scienza (derivata dal neopositivismo viennese) che si
traduceva in uno studio fondato sull’empirismo logico. Uno dei maggiori esponenti della
corrente comportamentista, Morton Kaplan, tradusse l’approccio in uso nelle scienze
politiche adattandolo all’ambito delle relazioni internazionali, tramite la creazione della
teoria dei sistemi, che relegava a un ruolo marginale la questione morale estremamente
cara invece ai realisti: qualunque tipo di sistema (naturale o umano) è in grado di
raggiungere una propria stabilità dinamica indipendentemente dall’intervento di singoli
fattori casuali, e di conseguenza è possibile valutare il comportamento degli Stati nelle IR
a partire solamente dal tipo di sistema che questi fondano con le loro relazioni.
Mantenendo dunque i singoli Stati come unità d’analisi, e ritenendoli attori unitari e
razionali fintantoché formavano un sistema internazionale, i comportamentisti si ritenevano
in grado di spiegare le relazioni internazionali. Il maggiore problema della teoria sistemica
nelle IR è la confusione che si pone nel momento in cui si vuole spiegare o a) il modo in
cui il comportamento degli Stati può trasformare un certo sistema in cui quegli Stati si
trovano; o b) il modo in cui un certo tipo di sistema vincola gli Stati che vi si trovano ad
adattarvisi; vi è, in altre parole, assenza di chiarezza nelle relazioni che si pongono tra il
livello di analisi sistemico (superiore) e quello del comportamento degli Stati (inferiore).
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Lo stallo generato dal fallimento del liberalismo comportamentista fu superato con
l’avvento del neorealismo, corrente forgiata da Kenneth Waltz a partire da un’evoluzione
più “scientifica” del realismo classico di Morgenthau. Riguardo alla stessa definizione di
“teoria”, Waltz intendeva preminente la formulazione di un costrutto coerente, piuttosto che
una collezione di leggi di natura empirico-osservativa. A partire dalle teorie di Kaplan,
Waltz ripropose i sistemi, preferendo però concentrarsi non tanto sull’analisi micro dei
comportamenti dei singoli Stati, ma su quella macro riguardante la struttura dello stesso
sistema. A tal proposito egli isolò quello che definì il “sistema politico internazionale”, tipico
e proprio esclusivamente delle IR, da tutti gli altri sistemi, concentrandosi solamente su
questo. Se dunque è vero che tutti i sistemi sviluppano strutture che premino o puniscono
il comportamento delle relative unità, indipendentemente dall’emergere di fattori casuali,
ciò che conta nella definizione del sistema – conclude Walts – è la distribuzione relativa
di potenza tra gli Stati che lo compongono. Ne derivano due sole configurazioni
sistemiche: il bipolarismo e il multipolarismo, poiché un sistema di monopolio
richiederebbe una tale concentrazione di potere e risorse in un solo Stato che non sarebbe
effettivamente credibile.
Sul piano teorico e lessicale Hedley Bull aveva introdotto anche una distinzione tra
sistema e società internazionale, intendendo quest’ultima come quella particolare
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evoluzione di un sistema i cui membri, a partire dalla condivisione di un determinato set di
valori ed esperienze storiche, sono in grado di darsi nel tempo norme e istituzioni per la
comune convivenza. Anche in una situazione di società così definita, ciò che
maggiormente affliggeva gli studiosi delle IR rimaneva comunque il problema del
coordinamento economico: il pensiero liberale (Keohane, Axelrod), evoluto dalla teoria dei
giochi, sosteneva che nei regimi internazionali si tendesse a istituzionalizzare la
reciprocità, togliendo legittimità alla defezione, che si presentava come un opzione
estremamente costosa nelle relazioni tra due stati. Al contrario, il pensiero realista (Greico)
opponeva alla reciprocità la preminenza del vantaggio relativo, cioè la necessità per uno
Stato non tanto di massimizzare i propri guadagni indipendentemente dagli altri attori,
quanto piuttosto di massimizzare il proprio gap rispetto al guadagno altrui. Partendo da
questo punto di vista, l’esistenza delle istituzioni internazionali è possibile soltanto fino a
ché queste non rispecchiano l’interesse della potenza egemone.
NEOISTITUZIONALISMO: tutti i
punti sulla curva sono possibili
ottimi paretiani, siccome gli attori
considerano soltanto il proprio
guadagno assoluto.
Sul tema delle istituzioni nell’ambito delle IR si espose anche il riflettivismo, che
proponeva un punto di vista prettamente sociologico, basato sull’interpretazione
intersoggettiva delle istituzioni. Tale paradigma partiva da una definizione di “istituzione” in
senso ampio (comprendendo cioè anche una serie di “principi” quali sovranità e diritti
umani) e da una formulazione di quesiti di ricerca imperniati sull’analisi di come tali
istituzioni si trasformano a causa di mutamenti nei sistemi di credenze collettive. Tali
mutamenti possono essere determinati: a) dalla presenza di una potenza egemone che
detta una serie di norme per proteggere i propri interessi; o b) da un processo di
apprendimento sociale che permette a determinati valori particolari di essere condivisi e
divenire così universali. Nel condurre questa analisi i riflettivisti rifiutano l’adozione di
metodi quantitativi o derivanti dalla teoria dei giochi (tanto cara invece ai liberali),
preferendo l’utilizzo di strumenti di ricerca qualitativa.
Un’ultima questione sorta nel corso del dibattito interparadigmatico è il problema agente-
struttura: una cosa su cui, pur con molte differenze, neoliberali e neorealisti concordano è
la natura della relazione tra la struttura (sistema) e l’agente (Stati), per cui è il sistema
internazionale, da intendersi qui come struttura, a vincolare il comportamento dei singoli
3
Stati che in esso sono agenti. Una posizione differente è quella occupata invece dal
paradigma neomarxista, il quale ritiene che non sia tanto il sistema internazionale a
dettare il comportamento degli Stati e degli altri attori che vi operano, quanto piuttosto un
elemento strutturale posto su un livello più alto, cioè il capitalismo, che si manifesta come
la struttura globale che contiene al suo interno lo stesso sistema internazionale, e che non
solo condiziona gli Stati, ma anche il loro adattamento alla stessa struttura tanto in termini
di mutamento nazionale quanto di azione transnazionale delle forze sociali.
Dopo la conclusione della Guerra Fredda è emerso nello studio delle IR un nuovo
paradigma, il costruttivismo, che si è posto l’obiettivo – prima tipicamente postpositivista –
di aggiungere l’interpretazione sociologica alla spiegazione politica delle relazioni
internazionali. La riflessione di partenza può ancora una volta muovere dalla formazione e
dal ruolo delle istituzioni internazionali: è indubbio infatti che queste siano insiemi codificati
di norme e regole, ma per i costruttivisti è altrettanto indubbio che, per essere tali, queste
istituzioni devono derivare da motivazioni generate dalla socializzazione tra gli Stati, quindi
non solo dai loro interessi (tali spesso a prescindere dalla socializzazione), ma anche dalle
rispettive identità. Ne deriva perciò che il processo di socializzazione non dipende dal
rapporto struttura/agente – come, seppur in modo diverso, sostenuto dagli altri paradigmi
–, ma è un processo tipicamente cognitivo, nel corso del quale gli attori non si limitano al
passivo adattamento sociale, ma attivamente e consapevolmente acquisiscono un ruolo
all’interno del sistema internazionale. Inoltre, l’entrata in scena del costruttivismo ha
permesso anche il ritorno dell’attenzione alla dimensione etica delle relazioni
internazionali, attraverso la c.d. riflessione normativa.
L’introduzione di uno sguardo “sociologico” alle IR, dovuta all’avvento del costruttivismo,
ha spinto anche gli studiosi liberali ad adottare una maggiore attenzione nei confronti dei
comportamenti degli attori. Andrew Moravcsik ha analizzato le preferenze degli Stati
espresse in termini politici e capaci di esprimere modelli di interazione sociale
transazionale. L’aspetto transnazionale delle preferenze degli Stati deriva dal fatto che
esse si formino in un contesto di interdipendenza, finendo poi per porre dei vincoli al
comportamento degli stessi Stati. Per Moravcsik le preferenze sono analiticamente
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prioritarie, nel senso che prioritaria sono la loro definizione e lo studio del loro mutamento,
dovuto al mutare di valori e interessi domestici in un contesto transnazionale. Quanto al
metodo, si tratta dunque di utilizzare un approccio comparativo, che sia in grado cioè di
procedere alla comparazione, in senso empirico-osservativo, tra le politiche estere dei
diversi Stati. Da questo approccio è derivata, per esempio, la c.d. teoria della pace
democratica. Sulla falsa riga di Moravcsik, anche Michael Doyle ha proposto un analogo
approccio, basato sulla riscoperta del cosmopolitismo kantiano e dunque sulla
convinzione che più che la varietà del comportamento statale, lo studio delle IR si sarebbe
dovuto soffermare sulla natura interattiva delle stesse relazioni internazionali.
Il paradigma maggiormente colpito dalla fine della Guerra Fredda è stato però
probabilmente quello marxista, che si è visto costretto dal mutare dell’oggetto di analisi a
cambiare il proprio approccio e i propri studi. Della natura del potere si è occupato Robert
Cox, attraverso un paradigma neomarxista da egli stesso chiamato new realism (ma ben
distante dal neorealismo), il quale sostiene la globalità del livello strutturale e dunque la
centralità del sistema-mondo capitalistico nelle IR, dettato da relazioni standard di
subordinazione a Stati e forze sociali dominanti interrotte soltanto in rari casi
dall’emancipazione di un gruppo subordinato.
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4. Il marxismo concentra la propria attenzione a livello strutturale, tuttavia
affermando l’esistenza di una struttura globale comune a tutti gli agenti,
inevitabilmente torna sempre all’analisi del comportamento e dell’azione delle forze
sociali.
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indipendente. Se la forza è l’unica legge sicura e la sopravvivenza il fine ultimo dell’azione
politica, gli Stati secondo la prospettiva realista si occuperanno in primo luogo di rafforzare
le proprie risorse militari, sviluppando una politica di potenza che è volta, in primo luogo,
al conseguimento o alla difesa dell’interesse nazionale, ma che è spesso percepita (a
ragione o a torto) come una minaccia dagli altri attori del sistema internazionale.
Data l’assenza di un’entità sovranazionale in grado di regolare le contese tra gli Stati e la
loro reciproca convivenza, ciò che questi attori possono fare in caso di minaccia alla
propria sopravvivenza è soltanto difendersi autonomamente, sviluppando di conseguenza
quello che è definito un atteggiamento di self-help. Ciò che rilevano i realisti, però, è che
quando uno stato per necessità di autodifesa potenzia le proprie risorse militari,
automaticamente si pone rispetto ad altri Stati come una nuova minaccia, generando una
sorta di cortocircuito che prende il nome di dilemma della sicurezza. L’unica possibile via
d’uscita da un contesto in cui ogni azione volta a generare sicurezza per un singolo Stato
genera di conseguenza insicurezza per tutti gli altri è il raggiungimento di uno stato di
equilibrio di potenza, che i realisti rilevano massimamente nei sistemi bipolari, laddove
cioè si genera una situazione di deterrenza reciproca capace di trattenere gli attori da una
situazione di conflitto aperto, che in quelle condizioni sarebbe inevitabilmente distruttiva.
Ne deriva dunque che, di fronte a una crescente minaccia, piuttosto che ricorrere a un
meccanismo di self-help (potenzialmente molto pericoloso), gli Stati più piccoli
preferiscono attuare una politica di balancing, cioè creare delle alleanze che siano in
grado di contrastare efficacemente la potenza dello Stato (o dell’altra alleanza) in quel
momento in ascesa.
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introdusse anche l’idea che la dinamica delle relazioni internazionali fosse guidata dalla
crescita differenziale della potenza tra gli Stati.
La tradizione realista deve molto anche all’opera di Thomas Hobbes, che per
primo convintamente postula una situazione originaria di anarchia, intesa come assenza di
un’autorità centralizzata, in cui ogni uomo si considera nemico dei suoi simili e dunque non
può che generarsi una condizione di conflitto perpetuo (bellum omnium contra omnes). Se
nelle relazioni tra individui Hobbes teorizza una via d’uscita da questa situazione, tramite
l’istituzione di uno Stato-Leviatano al quale, mediante un pactum societatis e un pactum
subiectionis, la comunità può derogare il compito di produrre le leggi e fornire protezione
dalle minacce interne ed esterne, a livello internazionale questo non è possibile. Nelle
relazioni internazionali tra gli Stati, la situazione di anarchia non è soltanto primitiva ma è
anche immutabile, poiché intraprendere la via d’uscita possibile per gli individui
comporterebbe agli Stati la perdita della propria sovranità, e dunque negherebbe il loro
stesso essere Stati.
b. Realismo classico
Se già nel Primo Dopoguerra Edward H. Carr aveva teorizzato i primi fondamenti
del paradigma realista classico, partendo da una critica alla teoria dell’armonia tra gli
interessi degli Stati centrale nel pensiero liberal-idealista, sarà all’indomani della Seconda
Guerra Mondiale Hans J. Morgenthau a definire in maniera più chiara i punti fondanti la
teoria realista:
1. La politica, così come la società, è governata da leggi oggettive che trovano il loro
fondamento nella natura umana.
2. La principale indicazione che aiuta il pensiero realista a orientarsi nello studio delle
relazioni internazionali è il concetto di interesse in termini di potere.
3. Il realismo ritiene che il concetto di interesse sia una categoria universalmente
valida, tuttavia esso non ha un significato sempre univoco (cioè assume significati
diversi in base al contesto politico e culturale di ogni Stato).
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4. Il realismo è consapevole del significato morale dell’azione politica, e della tensione
tra principio morale e successo.
5. Il realismo rifiuta di identificare le aspirazioni morali di una nazione con le leggi
morali che regolano l’universo.
6. Il realismo sostiene l’autonomia della sfera politica da ogni altro campo di studi.
Riguardo a quanto già affermato nel punto (1), Morgenthau specifica che la natura umana
è immutabile e caratterizzata egoismo e animus dominandi, quindi dalla brama di potere.
Di conseguenza la politica, interna o internazionale, non è che da leggersi come una lotta
per il potere: l’assenza di un’arena internazionale costringe gli Stati a un conflitto
incessante per la difesa dei propri interessi (“la politica internazionale, quindi, è
necessariamente una politica di potenza). A tale situazione non è possibile porre rimedio,
come invece sostengono i pensatori liberali, facendo ricorso alla condivisione di norme e
valori universali che vincolino le azioni degli Stati, poiché le azioni dei vari attori in difesa
dei propri interessi sono sempre condotte a-moralmente. Dunque, l’unico fattore di
stabilizzazione nelle relazioni internazionali è determinato dall’equilibrio di potenza
(balance of power), che è risultato naturale della lotta che coinvolge tutti gli Stati e che può
manifestarsi in diverse modalità: divide et impera, sistemi di alleanza, corsa agli
armamenti, …
Una particolare riformulazione del pensiero realista è quella prodotta da Reinhold Neibuhr,
autore di quella che si potrebbe definire una “via cristiana al realismo”: egli ritiene che
l’animus dominandi caratterizzante la natura umana derivi da una sorta di “peccato
originale” che conduce il singolo ad atteggiamenti collettivi che se condotti individualmente
sarebbero ritenuti inaccettabili. Neibuhr riconosce anche l’imprescindibilità della Realpolitik
nella conduzione delle relazioni internazionali, ma afferma che i governanti abbiano il
compito di applicare principi di responsabilità e prudenza per moderare gli istinti più
offensivi.
c. Realismo eterodosso
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dei vari regimi (determinanti morali) e al mutare delle condizioni geografiche,
demografiche ed economiche dei vari Stati (determinanti materiali).
d. Neorealismo
Kenneth Waltz, ragionando sulla presenza della guerra nel sistema internazionale,
sostiene che tanto la spiegazione che vede come causa del conflitto la natura umana,
quanto quella che la individua in caratteristiche interne dei vari Stati non reggono, poiché
prese per come sono presupporrebbero una situazione di guerra perpetua che è di sicuro
smentita dai fatti. Ciò su cui dunque pone l’attenzione Waltz è la stessa struttura del
sistema internazionale, che funziona come elemento di costrizione rispetto ai vari agenti.
Egli dunque si occupa di definire il concetto di “struttura” in tre elementi:
Dall’analisi strutturale di Waltz deriva che, rispetto al sistema internazionale, l’unico punto
soggetto a variazione è la distribuzione del potere tra le unità componenti il sistema, e
dunque le principali differenze ed evoluzioni nel contesto delle IR si possono spiegare in
termini di balance of power. Waltz arriva poi a sostenere che sia preferibile per gli Stati
trovarsi in un sistema configurato secondo un modello bipolare, poiché in esso le due
potenze contrapposte (o i due sistemi di alleanza) possono mantenere l’equilibrio
ricorrendo solamente a sforzi interni, senza dunque andare per forza a cercare appoggi
esterni che rischierebbero di destabilizzare il sistema. Quando non è presente una
situazione di equilibrio comunque, permane nell’azione degli Stati la ricerca dell’equilibrio,
motivo per cui essi sono tenuti a preferire stringere alleanze con la potenza più debole, al
fine di bilanciare nuovamente il sistema, piuttosto che affidarsi alla fazione in quel
momento più forte creando ulteriore sbilanciamento.
L’analisi di Waltz, per quanto efficace, rimane alquanto statica e dunque incapace di
spiegare il mutamento a livello internazionale, del quale invece si è più profondamente
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occupato Robert Giplin. Giplin riconduce il mutamento internazionale a tre fattispecie
fondamentali:
Giplin non rinnega i fondamenti dell’analisi waltziana – e insieme anche di tutto il pensiero
realismo – ovvero l’immutabilità della natura fondamentale delle relazioni internazionali,
fondate lotta per la ricchezza e il potere in una perpetua condizione di anarchia, tuttavia
egli concentra maggiormente la propria analisi sul ruolo delle grandi potenze, ritenendo
che la storia delle IR possa essere letta una successione di ordini imposti al mondo dagli
Stati più potenti: così facendo però Giplin introduce una sorta di gerarchizzazione, o
almeno dei rapporti verticali, nelle relazioni internazionali che i realismo ortodosso ha
storicamente negato. L’idea è, ad ogni modo, quella che uno Stato (o un’alleanza) tenterà
di mutare il sistema politico in cui si trova in risposta a sviluppi che aumentano il suo
potere relativo – o diminuiscono i costi necessari – fino a quando una nuova accurata
analisi costi/benefici non dimostrerà che un successivo mutamento sarebbe più costoso
che remunerativo. Complessivamente, la teoria di Giplin prevede che:
1. Un sistema internazionale è stabile fintantoché nessuno Stato ritiene vantaggioso
un suo mutamento.
2. Uno Stato ritiene vantaggioso mutare il sistema internazionale quando i benefici di
tale mutamento superano i costi richiesti per portarlo a termine.
3. Uno Stato guiderà il mutamento tramite: a) espansione territoriale (imperi); b)
espansione politica ed economica (nazioni); fino a quando i costi marginali non
eguagliano o superano i benefici marginali di tale operazione.
4. Tendenzialmente, una volta raggiunto un equilibrio, i costi economici del
mantenimento dello status quo crescono più rapidamente della capacità economica
dello Stato coinvolto.
5. Di conseguenza, l’eventuale fallimento nel mantenere un nuovo equilibrio genererà
un’ulteriore mutamento e dunque un nuovo status quo che rifletterà l’aggiornata
distribuzione del potere.
Da questi punti è facile derivare che ciò che maggiormente preoccupa la stabilità
internazionale è la crescita differenziata di potere tra gli Stati: essa infatti, modificando
le funzioni di utilità dei vari attori (o meglio dei gruppi e degli individui che li controllano),
influisce sui calcoli costi/benefici che guidano le azioni in politica estera, determinando di
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volta in volta un aumento o una diminuzione dei vantaggi potenziali rispetto a una
determinata azione e quindi destabilizzando l’equilibrio del sistema.
Oltre all’opera di Giplin, soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, sono state
prodotte ulteriori teorie nell’ambito del paradigma realista con l’obiettivo di superare il
rigido schematismo del neorealismo waltziano. Una particolare interpretazione degli studi
di Waltz, elaborata da Joseph Grieco, prende il nome di posizionalismo difensivo, e
teorizza che l’obiettivo principale degli Stati, attori nel contesto internazionale, non è quello
di massimizzare i propri guadagni individuali, bensì quello di impedire che gli altri attori
incrementino le loro capacità relative. Grieco cioè concorda sul fatto che il comportamento
degli Stati sia da imputarsi all’immutabile condizione di anarchia del sistema
internazionale, ma ritiene che gli sforzi di questi siano testi a massimizzare la propria
sicurezza difendendo lo status quo. L’opposto della teoria di Grieco è rappresentata da
quella corrente che prende il nome di realismo offensivo – tra i maggiori esponenti si
riconosce John Mearsheimer -, dove si ritiene che ogni Stato sia portato a comprendere
che il miglior modo per garantire la propria sopravvivenza nel sistema internazionale sia
proprio quello di rendere “sconveniente” agli altri attori attaccarlo, e quindi di potenziare le
proprie capacità militari, politiche ed economiche sempre intese in termini di guadagno
relativo rispetto a quello dei rivali (si preferiscono perciò incrementi nazionali, che
massimizzano però il gap con gli altri attori, rispetto a grandi incrementi assoluti che però
non portano a vantaggi effettivi in un contesto comparato). Una teoria come quella di
Mearsheimer porta alle estreme conseguenza il dilemma della sicurezza, già teorizzato da
John Herz, descrivendo una situazione in cui ogni azione, anche intenzionalmente
difensiva, di uno Stato è percepita ragionevolmente come offensiva dagli altri, e quindi una
situazione di reale e definitiva pace è impossibile da raggiungere nelle relazioni
internazionali.
Sempre a partire dal lavoro di Kenneth Waltz si sono sviluppati numerosi studi,
raccolti generalmente entro la “famiglia” del realismo neoclassico, che puntano a
introdurre nuove variabili entro l’analisi del comportamento degli Stati nelle IR. Piuttosto
comune è, dunque, il fatto di prendere in considerazione le c.d. variabili interne, intese
tanto come le percezioni dei decision-maker (Wohlforth), quanto quelle legate all’apparto
istituzionale o alla società dei singoli Stati (Zakaria). Più completa e complessa è invece
l’opera di Glenn Snyder, che aggiunge al modello waltziano tre nuove categorie, esterne
sia alla definizione strutturale del sistema internazionale quanto a quella delle sue
particolari unità:
Modificatori strutturali: con i quali Snyder intende quei fattori (norme e istituzioni
internazionali, tecnologia militare, …) che hanno un impatto a livello sistemico,
portando ad alterazioni sostantive negli elementi strutturali fondamentali dei
processi di interazione tra gli attori.
Rapporti fra gli Stati: cioè quegli elementi che generano contesti situazionali posti
alla base delle scelte comportamentali dei vari attori. Si tratta dunque di tutto ciò
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che ha effetto, motiva le azioni compiute dagli Stati ed ha un’origine interattiva,
dunque la creazione di alleanze, rapporti di interdipendenza, o lo scoppio di un
conflitto.
Interazioni: rispetto al punto precedente, per interazioni si intende, in senso
generale, l’insieme di quelle azioni e comportamenti che scaturiscono come effetto
di un precedente fattore, ma che a loro volta influenzano i fattori successivi. Le
interazioni possono essere ridotte a tre macro-categorie: a) i preparativi; b) la
diplomazia; e c) l’azione militare.
Al lavoro di Snyder si affianca anche un’ulteriore corrente del pensiero realista, che
prende il nome di realismo strutturale (B. Buzan, C. Jones, R. Little): si rafforza tanto il
livello di analisi sistemico-strutturale che quello delle unità introducendo un terzo livello,
che prende il nome di capacità di interazione, al fine di elevare a fattore sistemico alcuni
elementi legati alle dinamiche interattive tra le unità (presenza di norme internazionali,
sviluppo della tecnologia militare, …). L’obiettivo dei realisti strutturali, prendendo in
considerazione gli aspetti riguardanti il processo politico internazionale, è quello di
evidenziare la varietà dei possibili rapporti tra gli Stati, superando la concezione monolitica
e univoca dell’anarchia proposta da tutti gli altri realisti e, al contempo, negando il ruolo del
dilemma della sicurezza come unico possibile esito delle relazioni internazionali tra gli
attori.
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convincentemente un reale problema per le teorie realiste, siccome il fatto che gli Stati
siano sostituiti da altri attori nel loro ruolo di protagonisti dei rapporti internazionali non
pregiudica in alcun modo la natura anarchica delle stesse interazioni. In terzo luogo,
riguardo alla crescente influenza delle organizzazioni internazionali nei rapporti tra gli
altri attori, i realisti rispondono con la loro affermata concezione delle stesse, intese come
strumenti al servizio delle grandi potenze per imporre i propri modelli sugli Stati più deboli,
che le devono accettare fintantoché esse sono l’unico strumento che hanno per far sentire
la propria voce in un contesto pacifico al resto del sistema internazionale. Per quel che
concerne il ruolo della politica interna ai singoli Stati nelle relazioni internazionali, e più
specificatamente in risposta all’affermata teoria della pace democratica di matrice liberale,
a risposta realista si trova costretta da un lato ad accettare il fatto che sia praticamente
impossibile assistere a un conflitto tra due liberal-democrazie (strettamente intese), ma
allo stesso tempo rilanciano sottolineando come proprio le democrazie liberali, nonostante
la presenza di numerosi vincoli di politica interna, sono gli Stati che hanno più probabilità
di essere protagonisti in un conflitto armato, pur sempre contro paesi non democratici. Il
fatto, inoltre, che sia dunque sostanzialmente negata la possibilità di una guerra tra due
paesi democratici e, dunque, maturamente sviluppati non presuppone, secondo i realisti,
che sia vicino l’avvento di una warless society dove ogni conflitto armato è stato sostituito
dalla competizione economica.
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tra due Stati che dipendono in vari settori commerciali e produttivi l’uno dall’altro. Riguardo
infine al ruolo delle istituzioni internazionali, i liberali sono convinti che esse possano
fungere da arena per il dialogo e la pacificazione tra gli Stati, e sono dunque favorevoli alla
promozione del multilateralismo nelle relazioni internazionali.
a. Liberalismo classico
L’altra corrente del liberalismo classico vede come suo principale esponente Immanuel
Kant. Kant individua tre condizioni fondamentali per l’istituzione di una pace perpetua tra
gli Stati:
Una costituzione repubblicana, cioè uno Stato governato dal diritto e caratterizzato
da una netta separazione del poteri.
Un foedus pacificum tra gli Stati repubblicani, cioè la sottoscrizione di un accordo di
non belligeranza tra tutti gli stati di diritto (interpretazioni più cosmopolitiche leggono
in questo punto l’anelito a un governo federale mondiale).
L’affermazione del diritto cosmopolitico, limitatamente alle condizioni di ospitalità
universale, che include anche la promozione del libero mercato.
La teorizzazione di Kant ruota principalmente attorno all’estensione dei modelli normativi e
istituzionali dello stato di diritto ai rapporti internazionali: la democrazia è il modello
migliore per garantire la pace tra gli Stati poiché rende protagonista di ogni decisione il
popolo, cioè quello stesso gruppo di individui che, nel caso di un conflitto, dovrebbe in
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prima persona pagarne i costi, e che dunque più facilmente lotterà sempre per il
mantenimento della pace.
b. Liberalismo internazionalista
c. Teorie dell’integrazione
Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale segna il fallimento delle teorie liberali e,
di conseguenza, il trionfo del realismo che si afferma come paradigma dominante nelle IR.
La logica della deterrenza sviluppatasi tra Unione Sovietica e Stati Uniti rende
praticamente impossibile lo sviluppo di nuovi paradigmi liberali nel contesto americano, e
dunque la maggiore area di interesse e sviluppo per queste teorie si sposta in Europa,
dove l’inizio del percorso di integrazione europea offre un interessante caso per il pensiero
liberale (J. Monnet, …). Nasce così una scuola di pensiero, che prende il nome di
funzionalismo, che porta alle estreme conseguenze il rafforzamento della cooperazione
interstatale, promuovendo la fondazione graduale di una federazione mondiale che sappia
superare il modello, rivelatosi fallimentare, della Società delle Nazioni. La via principale
per la creazione di solidi legami transnazionali tra gli Stati, secondo questi studiosi (D.
Mitrany, E. Haas) è il potenziamento della cooperazione in ambiti “tecnici”, cioè in quei
settori fondamentali per gli attori coinvolti che sono però estranei dalle logiche politiche,e
dove dunque si presuppone sia più facile cooperare. David Mitrany parla a tal proposito di
ramificazione, intendendo un processo nel quale, proprio a partire da questi legami più
facili da costruire e mantenere poiché stabiliti in ambiti tecnici e de-politicizzati, gli Stati
iniziano tramite la cooperazione a costruire una serie di norme, procedure e strutture che,
in un primo momento pensate come limitate e settoriali, pian piano si espandono limitando
il potere dei governi nazionali e creando centri autorità non concorrenti e de territorializzati.
Ernst Haas, alla guida della corrente neofunzionalista, invece – pur condividendo punti di
partenza e di arrivo del pensiero di Mitrany – preferisce alla ramificazione il processo di
spill-over: la cooperazione da settoriale diventa generale perché uno Stato che si rende
conto di non poter più permettersi di rinunciare a un rapporto cooperativo in un
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determinato settore (per effetto della stretta interdipendenza creatasi) è costretto ad
espandere lo stesso approccio collaborativo in quel settore o in altri contigui. Haas
riconosce anche due fenomeni che possono intervenire nei processi di integrazione:
La politicizzazione, che è una variabile negativa e dunque rallentante i processi
integrativi, consiste nel fatto che talvolta problemi eminentemente tecnici siano
trattati come politici, e dunque faziosamente, dai vari governi.
L’esternalizzazione, che è una variabile positiva perché amplia l’area di
cooperazione, si rileva quando uno Stato, oramai abituato a trattare nell’arena
internazionale secondo logiche collaborative, assume atteggiamenti cooperativi
anche di fronte a Stati in quel momento esterni al processo di integrazione, creando
un asse comune in politica estera che può tradursi in una nuova inclusione nell’area
di Paesi reciprocamente integrati.
d. Teoria dell’interdipendenza
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Keohane, J. Nye): nella condizione attuale le relazioni tra Stati non si limitano a quelle
strettamente intese di rapporti tra governi (o rapporti permessi, concessi e organizzati dai
governi, tutto ciò che ha a che fare con l’alta politica), ma comprendono anche e
soprattutto una miriade di contatti trasversali tra società e livelli più bassi, locali, di
governo. Ciò significa che, per poter mantenere il controllo della propria sovranità, i
governi non possono più occuparsi solamente di alta politica, ma devono piuttosto
concentrare le proprie forze sulla bassa politica, cioè su gli affari economici e sociali. Di
conseguenza è inconcepibile un’azione in politica estera di uno Stato guidata da un solo
interesse nazionale che non è minimamente influenzato dai fattori interni o dalla presenza
di altri attori esterni nell’area circostante: laddove vi è un alto livello di interdipendenza
(cioè trai paesi industrializzati e pluralisti) i governi non possono fare altro che mantenere
reciproci rapporti pacifici e collaborativi, poiché interromperli significherebbe andare contro
i propri interessi.
e. Istituzionalismo neoliberale
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Secondo Keohane, dunque, un regime internazionale, quando è stabilito, produce l’effetto
della reiterazione del gioco nel dilemma del prigioniero, stabilendo canali di negoziazione
tra le parti e fornendo loro un tavolo negoziale continuativo. Di conseguenza, si può
concludere anche che, in virtù di questi benefici fondamentali che sono possibili solo se si
stabiliscono solide istituzioni e norme, un regime internazionale perdura – poiché
effettivamente utile – anche dopo che è venuta a mancare la potenza egemone che ne ha
promosso la creazione. L’amplificazione e il consolidamento di questo meccanismo si ha
con la creazione di istituzioni internazionali, cioè insieme di regole tra loro interconnesse
e persistenti nel tempo, che prescrivono ruoli ai partecipanti vincolandone le azioni e
plasmandone le aspettative. Secondo Keohane, la presenza attiva delle istituzioni
internazionali si manifesta in tre importanti funzioni, esse cioè:
Offrono opportunità di negoziare alle parti, garantendo loro anche un adeguato
canale per il reciproco scambio di informazioni.
Rendono più credibili gli impegni presi dalle parti, attraverso una serie di sistemi di
monitoraggio e controllo (ispezioni) che facilitano l’attuazione degli stessi impegni.
Stabilizzano le aspettative circa il comportamento degli attori, e assicurano
l’efficacia delle norme internazionali.
Inoltre, Keohane individua tre condizioni per la legittimità delle istituzioni multilaterali: (a)
l’inclusività; (b) la capacità di agire decisamente in risposta a gravi minacce; e (c) la c.d.
legittimità epistemica, cioè la capacità di generare e usare informazioni che producano
azione e riducano l’arbitrarietà nelle relazioni internazionali.
Già Immanuel Kant aveva proposto una connessione tra gli stati democratici (“stati
liberali” nell’opera kantiana) e la guerra, sostenendo come le relazioni tra i primi
tendessero a seguire dinamiche pacifiche più che conflittuali. A partire da questa intuizione
si sviluppa uno dei cardini del liberalismo contemporaneo: la teoria della pace
democratica (Doyle, Russett, Ray, …). La legge fondamentale è rappresentata
dall’assunto che “le democrazie non si fanno guerra tra di loro”, ed è sostanzialmente
supportata da una solida evidenza empirica. Sempre a partire da quest’ultima, è possibile
sviluppare una serie di punti a supporto della teoria:
1. Gli Stati democratici, a coppie, non si sono mai fatti guerra tra loro, a patto
ovviamente che per “Stato democratico” si intenda una democrazia moderna.
19
2. Gli Stati democratici combattono contro nemici non democratici. Inoltre, in una
guerra contro un tale nemico, gli Stati democratici possono accettare a loro fianco
anche alleati non democratici (nella Guerra del Golfo paesi come Arabia Saudita,
Kuwait, Egitto e Siria erano alleati degli Stati Uniti).
3. Difficilmente le democrazie fanno guerra preventiva.
4. Se una democrazia ha intenzione di muovere guerra contro un'altra democrazia,
non lo fa mai direttamente, ma ricorre a guerre segrete o coperte (Stati Uniti contro
il Cile di Allende).
5. Gli Stati democratici tendono a vincere le guerre in cui entrano.
6. La vittoria di uno Stato democratico contro uno non democratico favorisce
l’instaurazione di un nuovo regime democratico.
7. Esiste una correlazione tra cicli elettorali e guerra: è più probabile una guerra
all’inizio di un ciclo elettorale che alla sua fine.
Pur supportata da numerosi dati empirici, la pace democratica necessità anche di una
spiegazione teorica, che si può trovare in tre possibili punti: a) i governi democratici
rispondono davanti a rispettivi cittadini delle proprie azioni in politica estera: siccome
spetterebbe a loro scendere in campo nel conflitto, i cittadini tendono (sulla base di un
banale calcolo costi/benefici) a preferire la pace [spiegazione istituzionale]; b) nelle
democrazie è presente una complessa struttura di check and balance tra le varie istituzioni
e tra istituzioni e società che rende il processo decisionale estremamente complicato e
lento, soprattutto quando si deve decidere se dichiarare guerra a un altro paese
[spiegazione istituzionale]; c) le democrazie liberali condividono comunemente una serie
di norme e principi, che spaziano dalla garanzia delle libertà fondamentali e dei diritti
umani, alla tutela delle minoranze fino alla risoluzione pacifica delle controversie, che
definiscono una cultura politica incompatibile con una politica estera pesantemente
militarista e conflittuale [spiegazione normativa].
Se per il realismo è stata un duro colpo, la fine della Guerra Fredda ha invece
segnato la vittoria del paradigma liberale: la stabilizzazione politica e la pacificazione
erano figlie dell’estensione della democrazia liberale ai paesi ex-sovietici, e della loro
inclusione nelle aree di libero mercato. Ben presto, l’esplodere di più brevi ma anche più
violenti conflitti (Ruanda, Bosnia, Iraq, Somalia, Afghanistan) e lo scoppio della war on
terror hanno di nuovo messo in discussione le teorie liberali, riconcedendo spazio al
paradigma realista. Ancora una volta, ciò che in primo luogo – e senza alcun dubbio – la
fine del bipolarismo novecentesco ha portato è stata la crisi degli Stati, colpiti
dall’aumento, in numero e importanza, degli attori non statuali nel contesto internazionale.
Il primo grande tema riguarda i mutamenti che le democrazie hanno, in molte zone del
mondo subito: se la definizione di democrazia è fondamentale per il pensiero liberale,
essendo imprescindibile per l’applicazione della teoria della pace democratica, è bene
dunque soffermarsi sulla sua evoluzione più recente. Molti studiosi hanno riscontrato a tal
proposito un pericoloso scollamento, tipico dei paesi di nuova democratizzazione, tra i
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meccanismi elettorali e la componente liberale delle democrazie, che ha contribuito a
creare quei regimi che prendono il nome di democrazie illiberali (F. Zakaria). In questi
contesti il vengono a mancare le garanzie di controllo all’azione del governante, e dunque
la tutela dei diritti individuali (di proprietà e di libertà). Una tale riduzione del
costituzionalismo snatura la democrazia e conduce il regime in cui si verifica a una
dittatura della maggioranza, che sovverte le previsioni liberali circa il comportamento in
politica estera di quel paese: la pace democratica si applica soltanto alle liberal-
democrazie propriamente dette. Una seconda minaccia alla tenuta della pace
democratica, in questo caso ancor più subdola della precedente, è l’intervento di élite
illiberali (o comunque avverse al liberalismo kantiano) che prendono il governo in contesti
liberali, senza mutarne le caratteristiche strutturali, ma conducendo la politica estera di
quei paesi con strumenti e propositi illiberali. Si parla, in questo caso, di liberalismo
egemonico (J. Habermas), cioè di un atteggiamento in campo internazionale che, per
quanto perpetrato da democrazie liberali, nega il rispetto del diritto internazionale e
afferma come universali interessi particolari (es: politica estera di G.W. Bush).
Un’ultima evoluzione del pensiero liberale muove dal concetto di foedus pacificum
originariamente proposto da Kant e si concretizza nel multilateralismo, cioè propone la
costruzione della pace attraverso istituzioni multilaterali. Queste non sono altro che forme
di cooperazione internazionale istituzionalizzate, dunque un arena formale che permette la
creazione e il successivo rafforzamento di rapporti pacifici e cooperativi tra gli Stati.
Tuttavia il multilateralismo si espone spesso a un serie di critiche provenienti da più fronti:
in primo luogo le istituzioni internazionali sono – come già evidenziato – spesso criticate
per essere strumenti al servizio delle potenze egemoni, e non effettive arene per condurre
un dialogo multilaterale. L’instaurazione di relazioni di questo genere, anche fitte, continue
e stabili, tra più paesi poi non è in alcun modo considerabile come un dato sufficiente per
garantire la pace in un determinato contesto internazionale. La presenza di organizzazioni
internazionali formali, infine, porta con sé alcune incompatibilità di fondo con il concetto di
sovranità riferito ai singoli Stati, imprescindibile in un contesto internazionale, soprattutto
quando – nel caso delle Nazioni Unite – si prende in considerazione la responsability to
protect, che presuppone l’intervento (pur non necessariamente militare, ma indipendente
dal consenso esplicito del governo coinvolto) negli affari interni di uno Stato nel caso in cui
questo non riesca, o non lo voglia, a garantire l’incolumità dei propri cittadini.
a. Teorie dell’imperialismo
21
concepiscono la storia umana come segnata dal conflitto, ma rifiutano l’idea prettamente
realista che vede nella distorta ed egoista natura umana l’origine della conflittualità tra gli
attori del sistema internazionale: essa infatti scaturisce dall’assetto dei rapporti sociali di
produzione, assumendo di conseguenza le forme della lotta di classe. Inoltre un altro
grande punto differenzia il pensiero marxista da quello realista: se quest’ultimi infatti
leggono la storia come un percorso regolare, circolare e cioè ricorsivo, per il pensiero
marxista essa invece si sviluppa in modo lineare, teleologico, ed è inevitabilmente
orientata al progresso. Un progresso, però, ben differente da quello teorizzato dai liberali
come un obiettivo raggiungibile tramite la cooperazione tra gli esseri umani e poi gli Stati,
bensì qui espresso tramite una concezione nuovamente violenta, conflittuale: la
condizione finale, indubbiamente pacifica, è perseguibile solo quando le divisioni di classe
saranno scomparse e il modello di produzione capitalistico superato, ma questi obiettivi
non sono raggiungibili, secondo il pensiero marxista classico, soltanto tramite mezzi
pacifici. La prima generazione marxista aveva individuato questo momento (lo
Zusammenbruch, il crollo del capitalismo) nella lunga depressione della seconda metà
dell’Ottocento, tuttavia il superamento della crisi da parte dell’economia mondiale portò
questi studiosi a chiedersi quale fosse l’errore nella loro teorizzazione.
L’espressione politica del processo di accumulazione del capitale nella sua lotta di
concorrenza intorno ai residui di ambiente non-capitalistici non ancora posti sotto
sequestro.
22
esclusiva della forza militare e coercitiva sono si comportano spesso come strumenti a
servizio del capitale nella sua espansione geografica. D’altro canto, per Luxemburg,
l’imperialismo non è solo massima espressione delle logiche capitalistiche, ma anche di
fatto l’inizio della loro fine: quando tutto il mondo sarà colonizzato, infatti, non vi sarà più
possibilità di accumulazione del plusvalore, e il capitalismo non potrà che crollare su se
stesso. Proprio in questa conclusione si manifesta l’errore di fondo dell’analisi
luxemburghiana, che erroneamente esclude in modo categorico la possibilità, invece
empiricamente riscontrabile, che i consumi della classe lavoratrice e di quella capitalistica
possano crescere proporzionalmente, permettendo al sistema di espandersi al suo
interno, senza ricorrere cioè a mercati esterni.
Parallela all’analisi di Rosa Luxemburg vi è quella condotta, più o meno negli stessi
anni, da Lenin. Egli riconosce, osservando gli effetti prodotti dal processo di
accumulazione sul capitalismo all’inizio del XX secolo, che il modello studiato da Marx si è
evoluto in una sua nuova forma, che chiama capitalismo monopolistico e che descrive
tramite i seguenti elementi:
La concentrazione della produzione del capitale, che conduce alla formazione di
pochi ma grandi monopoli in tutti i principali settori industriali.
La crescita delle rilevanza delle banche, una fusione tra capitale economico e
capitale finanziario che ha dato vita a un’oligarchia finanziaria capace di esercitare
controllo sulla politica dei paesi capitalistici.
La crescita di rilevanze dell’esportazione del capitale, soprattutto in quei paesi non
ancora sviluppati ma già nell’orbita capitalista, che vengono sfruttati poiché
permettono investimenti con basso costo ma grandi guadagni.
La spartizione del mondo in sfere d’influenza tra le grandi associazioni
monopolistiche, che favorisce la creazione di cartelli mondiali.
Un inasprimento del conflitto per la spartizione del mondo, che si traduce
definitivamente nello scontro militare.
In conclusione, per Lenin lo Stato in questo contesto ricopre – ancor di più rispetto a
quanto teorizzato da Luxemburg – il ruolo di strumento nelle mani dei grandi poteri
economico-finanziari (cioè le oligarchie finanziarie).
S.p.a. Gigante
Protagonista del modello a) Promozione delle vendite
capitalista dal secondo Creazione di bisogni indotti presso i
dopoguerra: consumatori
massimizzazione del b) Spesa statale
profitto su orizzonti - Civile (osteggiata
temporali, economici e Necessità di reinvestimento del da classi dominanti);
razionali più ampi rispetto surplus eccedente, tramite: - Militare (sostenuta
al capitalista-individuale. da olig. finanziaria).
Baran e Sweezy non approfondiscono la definizione di quello che hanno definito “nuovo
imperialismo”, tuttavia descrivono la gerarchia del paesi capitalistici secondo relazioni di
sfruttamento organizzate tramite una logica piramidale:
Viene definito “metropoli” l’insieme dei paesi che stanno al vertice della piramide, o
che sono comunque vicini allo stesso.
I paesi collocati alla base della piramide o in prossimità della stessa prendono
invece il nome di “colonie”.
I paesi al vertice sono impegnati su due fronti: (a) lo sfruttamento delle relative
colonie, e l’insieme di una metropoli e delle “sue” colonie prende il nome di
“impero”; e (b) la competizione con i propri rivali, cioè gli altri paesi di vertice che
non fanno parte di quello stesso impero.
La competizione qui descritta da Baran e Sweezy non si limita ad essere economica ma
potenzialmente può svilupparsi anche come conflitto militare, tanto che i due studiosi
24
sottolineano come sia imprescindibile per una potenza che vuole conservare la propria
posizione nella gerarchia disporre di un’adeguata forza armata.
L’opera di Baran e Sweezy trova un valido supporto empirico nell’analisi della politica
estera statunitense dalla Seconda Guerra Mondiale in poi: la grande depressione era stata
parzialmente superata tramite l’utilizzo della spesa pubblica verso investimenti “civili” con il
New Deal, che però non aveva potuto espandersi al massimo della sua potenza per
l’opposizione dei gruppi capitalistici; la Seconda Guerra Mondiale ha offerto dunque un
fondamentale volano economico agli Stati Uniti, permettendo l’investimento del surplus
nella spesa militare e il definitivo rilancio del settore economico. L’atteggiamento degli
Stati Uniti nel corso della Guerra Fredda prova invece la seconda parte della teoria di
Baran e Sweezy: i governi americani non hanno mai voluto sfidare direttamente l’Unione
Sovietica, poiché non ne avrebbero tratto alcun vantaggio, ma la sfida consisteva piuttosto
nella difesa e nell’affermazione del proprio impero, cioè nel mantenere entro il sistema
capitalistico a guida Usa gli Stati del blocco occidentale, e nel tentare di sottrarre
dall’influenza sovietica quelli del “Secondo Mondo”.
25
La struttura metropoli-satellite si presenta continuativamente in tutta la storia dello
sviluppo capitalistico, di conseguenza le contraddizioni che ne derivano sono
imprescindibili entro questo sistema.
I limiti delle analisi neoimperialiste legate alla teoria della dipendenza emersero a
partire dagli anni ’70, quando nuovi autori aggiornarono la teoria marxista. Tra questi,
Immanuel Wallerstein arrivò a sostenere che i rapporti di dipendenza già descritti da
molti studiosi potessero essere concretamente ricostruiti e compresi solo se osservati in
un quadro globale, capace di considerare in una prospettiva di lungo periodo le
trasformazioni economiche e politiche e soprattutto l’espansione del capitalismo
dall’Europa al resto del mondo. Il sistema-mondo descritto da Wallerstein è dunque “un
sistema entro il quale opera una divisione del lavoro comprensiva di un’eterogeneità di
gruppi sociali discriminabili sia verticalmente (culturalmente, eticamente, per nazionalità)
che orizzontalmente (per classi sociali)”. Ogni “mondo”, in altre parole, è un sistema di
divisione del lavoro al suo interno coeso e separato tramite confini più o meno materiali
rispetto all’ambiente esterno. Wallerstein sostiene che tutti i casi storici di sistema-mondo
siano riconducibili a due relazioni tra spazio economico e spazio politico:
Gli imperi-mondo, dove i confini dello spazio economico coincidono con quelli dello
spazio politico, di conseguenza sono caratterizzati da un economia ridistributiva che
non esternalizza in alcun modo la produzione. Le grandi civiltà del passato (Cina,
Egitto, Roma, …) sono riconducibili a questa relazione.
Le economie-mondo, dove lo spazio economico travalica i confini dello spazio
politico, e quindi prevale una logica capitalistico-accumulativa. Per poter
sopravvivere le economie-mondo devono garantirsi un costante flusso economico
con l’esterno, stabilendo e rafforzando mercati particolarmente strategici.
Wallerstein individua il momento in cui è iniziato il passaggio da imperi-mondo a
economie-mondo tra il XIV e il XV secolo, contemporaneamente al consolidamento dello
Stato moderno, quando cioè ha preso forza il “capitalismo storico”, ovvero quella forma di
capitalismo che ha come obiettivo l’auto-espansione del surplus realizzato nel processo
produttivo.
Wallerstein, inoltre, condivide con Frank l’idea che si instaurino nelle dinamiche
capitalistiche meccanismi di scambio ineguale tra il centro e le periferie del sistema: il
surplus prodotto nelle periferie tende a spostarsi verso il centro, avvantaggiando dunque le
metropoli. Ciò che aggiunge Wallerstein è che tale polarizzazione, che è un dato di fatto
nelle relazioni internazionali, non è comunque immutabile, nel senso che può cambiare nel
corso dei secoli la sua collocazione geografica, così che i centri e le periferie possono
anche arrivare a scambiare i loro ruoli. A centri e periferie, infine, egli aggiunge una terza
condizione, quella delle semiperiferie, cioè quei raggruppamenti di paesi che si trovano a
uno stato intermedio tra i due poli per aspetti quali la complessità della attività
economiche, la forza dell’apparato statale o l’integrità culturale. La distinzione tra centri e
26
periferie, invece, rimane simile a quella dei suoi predecessori, ed è in ogni modo ribadita
nello schema seguente.
Una volta definiti i cicli sistemici e quindi tracciato un percorso delle egemonie lungo la
storia prendendo in considerazione il ruolo e le caratteristiche degli agenti, Arrighi si
occupa di definire la transizione tra un’egemonia e l’altra, andando ad analizzare le
dinamiche che contraddistinguono le crisi egemoniche. Innanzitutto, sono definite due
forme di espansione del capitale, proprie di due distinti momenti del ciclo di accumulazione
dello stesso: (a) l’espansione materiale, dove il capitale è trattato nella forma di merce, ed
è tipica del periodo di crescita dell’egemonia; e (b) l’espansione finanziaria, dove il capitale
è trattato in forma liquida, e questo può essere dovuto a una sovra-accumulazione di
capitale (le imprese non reinvestono il capitale eccedente nei canali tradizionali, perché
esausti, e conservano il denaro in forma liquida) o a un intensa competizione interstatale
per il capitale mobile (comunque dovuta a una diminuzione generale degli introiti), ad ogni
modo l’espansione finanziaria è tipica dei momenti di crisi di un’egemonia. Le crisi, più in
generale, sono segnate dall’emersione di tre processi tra loro correlati: (a)
l’intensificazione della competizione tra Stati e tra imprese (livello esterno); (b) l’aumento
dei conflitti sociali (livello interno); e (c) l’emergere di nuove configurazioni di potere.
28
Perché una crisi egemonica si concluda ordinatamente e non crei una situazione di caos
sistemico, come è definita da Arrighi, è necessario sia che la potenza in crisi riconosca la
propria situazione e accetti delle condizioni di adattamento e conciliazione e sia che
emerga tempestivamente una nuova egemonia pronta a sostituirla. Per evitare il caos, in
altre parole, è necessario un accordo tra la vecchia egemonia, che si fa da parte, e quella
emergente che ne prende il posto, riorganizzando un nuovo sistema o emulando
l’egemonia del predecessore.
Dopo il 1989 i paradigma marxista è costretto, come tutti gli altri, a rivedere alcune
delle proprie posizioni, o ad ampliarsi a nuove aree di analisi. Un pensiero interessante, a
tal proposito, è quello che si sviluppa attorno al tema della conoscenza: già in generale la
concezione marxista è caratterizzata per una visione fortemente politicizzata della
conoscenza e anche della conoscenza scientifica, e i contributi successivi (di critica ai
paradigmi illuministi, ma non solo) portati dalla Scuola di Francoforte hanno contribuito a
porre questo tema in posizione centrale nell’analisi critica. Il maggior esponente, in questo
ambito, è Robert Cox, che muove la propria analisi da una critica alla proposta
neorealista di Kenneth Waltz, definita più che una solida teoria in grado di affrontare il
reale un esercizio di problem solving che si limita a presentare i rapporti esistenti (senza
metterli in discussione) e a considerarli come elementi immutabili che limitano l’azione
degli attori. Il cardine del pensiero di Cox è che la conoscenza non può essere neutrale,
perché “la teoria è sempre per qualcuno o per qualcosa”, cioè è da considerarsi entro un
determinato contesto storico, culturale e ideologico, che ne condiziona evidentemente la
produzione. Elaborazioni teoriche come quella di Waltz, per Cox sono più o meno
implicitamente conservatrici, perché nel descriverlo non fanno altro che legittimare l’ordine
29
sociale e politico esistente. Cox successivamente si propone di declinare questo suo
primo assunto sulla definizione gramsciana di “egemonia”, riavvicinando la sua opera a
quella di Arrighi: egli sostiene che l’attività della potenza egemone non si limita soltanto a
un’azione di persuasione esercitata dall’alto al basso, ma a un vero e proprio processo di
costruzione della realtà, di strutturazione delle relazioni sociali. Le stesse categorie
attraverso le quali siamo abituati ad analizzare la realtà, dunque, non sarebbero altro che
prodotto ideologico di una costruzione egemonica che opera per prima plasmare un
determinato ordine nella società mondiale e poi per fare in modo che quello stesso ordine
sia concepito come giusto e naturale. La teoria di Cox ha dalla sua parte un importante
dato empirico, che dimostra come nella seconda metà dell’800 (e più precisamente in Età
Vittoriana), quando la potenza egemone era il Regno Unito, le teorie dominanti in ambito
economico erano quelle del libero commercio, del vantaggio comparato e del gold
standard, tutte applicate con buoni esiti in Gran Bretagna; mentre il Secondo Dopoguerra,
periodo d’oro dell’egemonia americana l’economia è dominata dal neoliberalismo e dalle
teorie a favore della liberalizzazione dei mercati finanziari, modelli di gran successo negli
Stati Uniti.
Uno dei grandi dibattiti interni allo studio delle relazioni internazionali concerne le
condizioni del sistema internazionale all’indomani della caduta dell’egemonia americana,
avviatasi tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70. Nel contesto della globalizzazione
neoliberale gli Stati, pur rimanendo attori fondamentali, iniziano evidentemente a perdere
parte del loro potere a vantaggio di attori non territoriali. Si può dunque ancora parlare di
una potenza egemone statuale? Per rispondere a questa domanda è utile ricorrere alla
formulazione di una nuova forma di sovranità, elaborata da Antonio Negri e Michael Hardt,
che prende il nome di impero. Tale nuovo paradigma di sovranità si caratterizza per
essere “una fabbrica di norme e una produzione di legittimità a lungo termine che
ricoprono l’intero spazio mondiale”, organizzandosi come una struttura sistematica
flessibile e articolata orizzontalmente. L’impero non si limita al disciplinamento del
comportamento degli individui, ma ha verso la società un atteggiamento quasi totalitario,
proponendosi di disciplinare ogni attività del singolo. La nascita dell’impero, che Hardt e
Negri collocano tra la fine della Guerra Fredda e la Guerra del Golfo (1991), non
determina automaticamente il crollo delle sovranità statuali, quanto piuttosto il
trasferimento di una serie di competenze da queste a un livello superiore. La costituzione
imperiale viene descritta come una struttura piramidale, articolata in tre piani:
Al primo piano si trovano gli Stati Uniti, un numero limitato di Stati nazionali e
alcune associazioni dotate di un effettivo potere globale. Tutti questi attori, pur
definendo complessivamente il vertice della struttura imperiale, sono posti tra loro
su tre livelli gerarchici.
Al secondo piano si trovano le reti delle corporation capitalistiche transnazionali e la
gran parte degli Stati, che svolgono funzioni molteplici.
Al terzo piano sono rappresentanti gli interessi popolari, dunque si trovano le Ong
che sono indipendenti sia dagli Stati che dal capitale.
Hardt e Negri comparano, pur metaforicamente, tale struttura alla costituzione mista
concepita da Polibio riguardo alla struttura di governo della Roma antica: (a) gli Stati Uniti,
30
e gli altri attori del primo livello rappresentano l’unità monarchica; (b) gli Stati nazionali e le
multinazionali rappresentano l’aristocrazia; e (c) le Ong, i media e gli altri organismi
popolari costituiscono la rappresentanza democratica.
Unità monarchica
[ma c’è gerarchizzazione interna]
USA
[SN e ass. con
potere globale]
La costituzione imperiale non è dunque una sorta di Stato globale, quanto piuttosto un
equilibrio instabile di corpi sociali operativi a vari livelli e con diverse funzioni. Il comando
imperiale, inoltre, riflette non soltanto l’esistenza di uno spazio globale, ma anche il progilo
delle forze che hanno materialmente realizzato tale unificazione (“la bomba, il denaro e
l’etere”). Secondo Hardt e Negri, come già accennato, il momento in cui si impone il
paradigma imperiale nelle relazioni internazionali è da ritrovarsi nella Guerra del Golfo,
quando cioè gli Stati Uniti intervengono in un conflitto non per tutelare propri interessi
prettamente nazionali, ma per difendere quelli dell’impero.
31
passaggi: (a) comprensione diretta dell’azione dal punto di vista dell’attore; (b)
comprensione esplicativa dell’azione in un contesto di pratiche sociali riconosciute dalla
collettività; e (c) oggettivizzazione/reificazione. Più approfonditamente, si distinguono
quattro filoni per quel che concerne le origini filosofiche del paradigma costruttivista:
Kant e i neokantiani, per ciò che riguarda la consapevolezza che conoscere
significa imporre le forme aprioristiche della nostra mente sulle strutture della natura
e della cultura. È, inoltre, possibile un approccio oggettivo all’ermeneutica anche
attraverso la ricostruzione di processi storici e narrative.
Heidegger e Wittgenstein, per quel che concerne la centralità del linguaggio
nell’analisi dei fatti sociali: questi infatti si costruiscono attraverso le strutture del
linguaggio e dunque non possono che essere studiati così come sono mediati dallo
stesso. Si parla a tal proposito di svolta linguistica (Searle, …) e si evidenzia una
corrente del costruttivismo che, a partire da una feroce critica al positivismo,
sostiene che esistono fatti oggettivi nel mondo che esistono solo perché la
collettività – cioè noi – crede che esistano (l’intenzionalità collettiva è in grado di
produrre fatti sociali, si pensi al valore del denaro).
Habermas, e in generale la Scuola di Francoforte, per la promozione della filosofia
del linguaggio e la critica alla strumentalità razionale, con l’obiettivo di promuovere
una teoria sociale dell’azione comunicativa e della democrazia deliberativa.
Bernstein e Kuhn, per aver rafforzato il pragmatismo, sottolineando il ruolo degli
scienziati nella ricerca, che deve aspirare ma non può essere sempre assimilato, a
modelli di prova deduttiva o di generalizzazione induttiva.
Il costruttivismo nasce in un contesto di forte crisi per i tre paradigmi fondamentali delle IR,
segnato dalla decolonizzazione – che è interpretabile come una sconfitta del modello
normativo occidentale – e, successivamente, dalla fine della Guerra Fredda. I primi segnali
della nascita dell’analisi costruttivista si hanno in una serie di critiche prodotte, nel corso
degli anni ’80, da alcuni studiosi (Ruggie, Ashely) al neorealismo waltziano, che è
accusato di celarsi dietro a una approccio di strutturalismo positivista che, invece di
espandere l’analisi e il discorso politico, si limita a riconoscere l’ordine dato come ordine
naturale (Ashley in questo punto non è lontano da Cox). Per questa ragione, e per un
certo utilitarismo che nega la socialità riducendo le relazioni internazionali a mera
materialità, Ashley bolla il neorealismo come antipolitico. Il costruttivismo si impone allora
come quel paradigma che ritiene centrali, nell’analisi delle relazioni internazionali, la
costruzione sociale della realtà e la reciproca costituzione di agente e struttura; come gli
altri paradigmi, ad ogni modo, presenta delle divisioni interne:
Il costruttivismo modernista, caratterizzato da un’ermeneutica oggettiva e da un
interesse cognitivo conservatore sia in fase di comprensione che di spiegazione, si
propone di svelare i meccanismi sociali causali e le relazioni sociali costitutive delle
relazioni internazionali.
Il costruttivismo linguistico (o modernista-linguistico), caratterizzato da
un’ermeneutica soggettiva e un interesse cognitivo conservatore, pone maggiore
attenzione nell’epistemologia e nella comprensione della realtà sociale definita
tramite il linguaggio.
32
Il costruttivismo radicale, caratterizzato da un’ermeneutica soggettiva e un
atteggiamento decostruttivista verso la conoscenza, mette in discussione la
rappresentabilità della realtà sociale, occupandosi di analizzare testi, narrativa e
discorsi con l’obiettivo di comprendere la costruzione della realtà tramite pratiche
discorsive. Da questo punto di vista, si conclude che, non esistendo affermazioni
oggettivamente più valide di altre, è impossibile verificare la validità delle
affermazioni normative ed epistemiche: di conseguenza, la causalità è una chimera.
Il costruttivismo critico, che si sovrappone in realtà alla teoria critica (Cox,
Linklater), vuole comprendere i meccanismi sui quali si basano gli ordini politici e
sociali per pervenire all’emancipazione della società.
Esiste, ad ogni modo, un’ontologia costruttivista condivisa dai quattro filoni di questo
paradigma, che descrive un mondo composto da strutture e processi intersoggettivamente
e collettivamente dotati di significato. La politica internazionale è un fenomeno sociale e il
mondo è socialmente, e relazionalmente costruito. Di conseguenza l’analisi, nel campo
delle IR, deve soffermarsi su quei processi che producono e riproducono le strutture
sociali che formano le identità e gli interessi degli attori e il significato dei rispettivi contesti
materiali. Non esiste, perciò, né una realtà indipendente, né tantomeno è possibile parlare
di attori indipendenti (o di attori che precedono ontologicamente la realtà): realtà e attori
co-esistono e interagiscono, i secondi si relazionano con l’ambiente culturale in cui sono
immersi e gli conferiscono significato. Oltre ai fatti materiali, esistono poi dei fatti sociali la
cui esistenza è consentita soltanto dal fatto che esiste, internamente alla società, un
accordo più o meno esplicitato riguardo alla loro esistenza, quindi un fatto sociale
cesserebbe di esistere nel momento in cui quell’accordo dovesse cadere. È importante poi
il ruolo di quelle che vengono definite convinzioni collettive, cioè i fondamenti dell’azione
dei vari soggetti, le quali derivano dall’interazione intersoggettiva e vengono
istituzionalizzate ed espresse tramite pratiche. Le pratiche, e in generale tutti gli oggetti
sociali, ricevono un significato dagli attori che le promuovono e utilizzano. Siccome una
stessa pratica, o una stessa azione, può ricevere diversi significati in base al contesto in
cui si trovano gli attori che ci si confrontano, allora è proprio il processo di attribuzione di
significato e di interpretazione delle pratiche sociali il punto centrale dell’analisi politica
costruttivista. L’organizzazione politica internazionale, inoltre, è formata attraverso le idee
condivise dai vari attori, secondo l’interpretazione e il significato che queste hanno
ricevuto. Le idee sono mezzo e motore dell’azione sociale, che è da queste delimitata e
descritta; il loro significato è sempre contestuale, non può essere colto al di fuori del
contesto in cui è espresso. Le idee che formano una data pratica, le conferiscono un
senso e le permettono di esistere, prendono anche il nome di norme costitutive, poiché in
loro assenza quel comportamento non avrebbe né significato né effetto, e dunque sarebbe
impraticabile. Questa è la grande differenza tra il costruttivismo e il materialismo realista e
liberale, dato che per quest’ultimo gli oggetti materiali hanno effetti diretti sugli attori sociali
indipendentemente dalla presenza di quest’ultimi e dal significato che questi vi
attribuiscono. Agente e struttura, dunque, sono reciprocamente costruiti: gli attori sociali
definiscono il significato della struttura, ma questa è in grado di influenzare le capacità
interpretative degli stessi agenti; nelle relazioni internazionali, gli Stati cercano spesso di
33
adattare il proprio comportamento alla struttura che definisce il contesto normativo in cui si
trovano, ma possono anche cercare di imporre la loro forza per ridefinire le regole
esistenti. Il costruttivismo presta grande attenzione anche al cambiamento: il processo
che ri-produce e ri-costituisce attori e struttura non è né deterministico né immutabile, cioè
possono avverarsi cambiamenti nei fattori ideali o nelle pratiche sociali che mutano
radicalmente tanto gli attori quanto la struttura. Il cambiamento può avvenire tramite
diversi mezzi: l’apprendimento collettivo, l’evoluzione cognitiva, il cambiamento epistemico
o il ciclo di vita delle norme. Il paradigma costruttivista si occupa anche di ridefinire il
concetto di interessi, adeguandoli al proprio pensiero e definendoli come non soltanto
definiti dalla distribuzione di potere nel sistema internazionale, ma anche dalle idee e dai
contesti culturali nei quali operano gli Stati. Gli interessi non derivano dunque
automaticamente dalle condizioni strutturali del sistema, cioè dall’anarchia, ma seguono
una determinata distribuzione delle idee che si dipana nel contesto internazionale: gli Stati
costituiscono i rispettivi interessi ovviamente in base a ciò che voglio, ma i realisti
aggiungono – ed evidenziano – che ciò che un attore vuole è tale in conseguenza
dell’identità di quell’attore (“vogliamo ciò che vogliamo a causa di come noi ci pensiamo”,
Wendt). Gli interessi sono gli strumenti attraverso i quali noi osserviamo la realtà,
definendo i nostri bisogni; essi si creano però sulla base della percezione complessiva
dell’ordine internazione e del suo ruolo entro questo che ha ogni Stato, e che può
ovviamente cambiare ed evolversi nel tempo. La concezione costruttivista del potere
dunque è fortemente intersoggettiva, e dà grande importanza al ruolo svolto dal
linguaggio: è attraverso questo che la realtà può essere costruita, di conseguenza la
stessa esistenza di dispositivi simbolici che per convenzione danno significato alla realtà
rende fondamentale l’analisi linguistica per la comprensione della realtà istituzionale. Sul
piano metodologico, infine, il costruttivismo si caratterizza per quella che viene definita una
doppia ermeneutica: esistono cioè due momenti interpretativi, il primo posto al livello
dell’azione e il secondo a quello dell’osservazione; gli attori attribuiscono, come già detto,
senso alle loro azioni, ma anche lo studioso nella sua analisi stabilisce i significati delle
pratiche che ha di fronte sulla base di premesse analitiche che sono culturalmente
determinate. Di fronte all’inevitabile dubbio circa la plausibilità di una ricerca condotta da
queste premesse (cioè se essa possa giungere riflettere la realtà o se sia soltanto una
prospettiva del mondo), i costruttivisti concludono sostenendo che una buona ricerca
giunge a interpretazioni logiche ed empiricamente plausibili circa l’oggetto studiato, ma
che ogni affermazione così conseguita sarà sempre contingente e parziale rispetto alla
complessità del reale.
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per garantire la propria sopravvivenza non è dettato da una condizione strutturale e perciò
immutabile del sistema internazionale (cioè dalla stessa anarchia), bensì è dovuto al
comportamento che gli attori, cioè gli Stati, hanno mantenuto in quel determinato contesto.
Ciò significa, in altre parole, che la natura conflittuale delle relazioni internazionali non è
naturalmente data, ma deriva dalle pratiche intraprese dagli attori nei loro reciproci
rapporti. Gli Stati determinano il proprio comportamento in base alle idee che hanno circa
la natura del proprio ruolo e degli altri Stati e sulla base, ovviamente, delle precedenti
relazioni che hanno avuto con quest’ultimi. Ne deriva che ogni paese definisce una propria
cultura politica che, su queste basi, dà significato al potere e contenuto agli interessi: la
cultura politica è il vero aspetto centrale da considerare nell’analisi delle relazioni
internazionali. Wendt descrive dunque tre diverse culture dell’anarchia in riferimento a
tre diverse possibilità di reciproca concezione dei ruoli e dei rapporti tra gli Stati nel
sistema internazionale:
Cultura hobbesiana, che si basa sulla rappresentazione dell’altro come nemico,
cioè si ha quando un attore non riconosce l’esistenza di un altro come legittima, e
anzi ritiene che questa possa minare la sussistenza della propria. In un contesto di
questo tipo, la violenza è inevitabile, a meno che non vi sia una mancanza di
risorse (cioè gli Stati non possano, fisicamente, farsi la guerra) o non esista un
Leviatano capace di assicurare la sicurezza. Tendenzialmente, in una condizione di
cultura dell’anarchia hobbesiana: (a) gli Stati agiscono come se avessero interessi
revisionisti, e dunque rispetto ai nemici cercano di sconfiggerli e conquistarli; (b) i
processi decisionali sono orientati verso gli scenari peggiori; (c) gli Stati
considerano le capacità militari relative, orientando la propria strategia sulla base
della convinzione che, appena riterrà di poterlo fare, il nemico attaccherà; (d)
quando scoppia un conflitto, non si pongono limiti alla violenza.
Cultura lockeana, in questo caso la logica hobbesiana del “uccidi o sarai ucciso” è
stata rimpiazzata da quella lockeana del “vivi e lascia vivere”: gli Stati si
percepiscono l’un l’altro come rivali, ovvero riconoscono nei rispettivi rapporti la
sovranità come un diritto inderogabile e dunque uno Stato cerca in politica estera di
avvantaggiarsi sugli altri senza però metterne a rischio l’esistenza. In tale
condizione di cultura anarchica: (a) gli Stati, in relazione alla sovranità, cioè al
contesto geopolitico internazionale, tendono a mantenere lo status quo; (b) nelle
trattative diplomatiche, ogni Stato si occupa soltanto dei propri interessi senza
compararli con quelli altrui, quindi è portato a valutare come massimo profitto il
proprio guadagno assoluto; (c) non ci sono minacce esistenziali, quindi una
condizione di maggiore fiducia generale tende a favorire il crearsi di sistemi di
alleanza; (d) quando scoppia un conflitto, le parti si impegnano a limitare la propria
violenza.
Cultura kantiana, si tratta dell’eventualità più pacifica nelle relazioni internazionali,
quando cioè gli Stati si percepiscono reciprocamente come amici. Wendt individua
due cardini di questo modello: (a) gli Stati riconoscono il principio di risoluzione
pacifica dei conflitti, quindi sono in grado di evitare in ogni caso il conflitto armato; e
(b) in caso di minaccia alla sicurezza di uno Stato da parte terza, tutti gli altri
interverranno insieme per difenderlo. In quelle aree geografiche dove si afferma
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una cultura dell’anarchia kantiana si sviluppano efficaci sistemi di sicurezza comune
(Nato), per cui tali casi sono assimilabili alle comunità di sicurezza già descritte da
K. Deutsch. Talvolta culture kantiane sono il punto di avvio di un percorso di
creazione di autorità decentralizzate che coordinano i rapporti tra i vari Stati,
finendo anche per divenire forme di governo sovranazionali con ampie competenze
(Unione Europea).
Dunque per Wendt non esiste una logica dell’anarchia che deriva dalla distribuzione del
potere materiale nel sistema internazionale, ma bisogna sempre riferirsi alla natura e
all’identità dei soggetti che lo popolano, nonché alle loro relazioni reciproche e a quelle
idee che determinano il significato del potere in un dato contesto. Questo però non
significa che il sistema non sia anarchico, ma soltanto che l’anarchia – che in Wendt
rimane condizione non eliminabile nelle IR – non è univoca e può essere anzi
diversamente percepita dai vari attori.
Più in avanti si sono spinti altri teorici del costruttivismo, che hanno parlato di
strutture di autorità in grado, alla lunga, di spingere il sistema a superare le proprie
caratteristiche anarchiche. John Ruggie sostiene, per esempio, che nel tempo schemi di
comportamento stabili possono essere a tal punto istituzionalizzati in una collettività da far
sì che vengano concepiti come dotati di autorità. Nel caso delle IR, si è in presenza di
autorità quando le norme del regime internazionali tra i fattori che influenzano le decisioni
nazionali. Si tratta ovviamente di un modello di autorità differente da quello comunemente
concepito nel linguaggio politologico, perché non sono propriamente previsti rapporti di
superordinazione e subordinazione. Ancor più esplicitamente rispetto a Ruggie, Ian Hurd
sostiene che qualunque istituzione eserciti un potere considerato legittimo è in posizione di
autorità: siccome il sistema internazionale comprende diversi attori con potere legittimo,
allora per Hurd non è in alcun modo possibile parlare di anarchia. L’autorità è in questo
caso concepita in termini relazionali: quando gli attori credono che una struttura sia
legittima nell’esercizio del suo potere, essi agiscono (anche implicitamente) in relazione a
questa rafforzandone lo stesso potere.
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Al primo livello si trovano le condizioni che incoraggiano gli Stati a coordinarsi
reciprocamente. Tra le altre, possiamo trovare: una minaccia esterna; comuni
sviluppi tecnologici o necessità economiche; il diffondersi di una nuova
interpretazione della realtà sociale; …
Al secondo livello si trovano i fattori strutturali e il processo che segnano la
formazione delle comunità. I fattori strutturali di base riconosciuti da Adler e Barnett
sono due: il potere, inteso come l’autorità di determinare i significati condivisi della
realtà che costituiscono il comune “senso del noi” che lega reciprocamente i
membri del sistema, e di definire le pratiche degli Stati circa il funzionamento della
stessa comunità (norme di accesso, benefici attesi, …); e la conoscenza, cioè
l’elemento che fornisce agli attori le strutture cognitive da utilizzare nel momento in
cui essi esercitano il potere. Il processo invece può avvenire tramite transazioni,
organizzazioni e istituzioni internazionali o per mezzo dell’apprendimento sociale. A
questo punto è bene segnalare l’importante ruolo conferito alle istituzioni
internazionali nel promuovere la diffusione di determinati significati e nel
trasmettere convinzioni cognitive da una generazione all’altra.
Al terzo livello si trova la fiducia reciproca, che l’elemento fondamentale per la
formazione di identità collettive. Una comunità in fase matura è in grado di
prendere decisioni comuni (multilateralismo) e di definire comunemente anche le
minacce esterne, cioè di raggiungere un meccanismo di sicurezza collettiva, tramite
ottimi livelli di coordinazione militare e politica. Una comunità matura è capace
anche di sviluppare un mercato comune, e dunque politiche di liberalizzazione circa
la circolazione di merci e persone; e infine di internazionalizzare le autorità interne
creando un sistema di condivisione di norme a livello internazionale che ha ricadute
anche sul piano nazionale.
Secondo Adler e Barnett, affinché una comunità riesca a svilupparsi nel modo più
integrato possibile, sono necessarie alcune condizioni, che vengono riscontrate nell’analisi
dell’Alleanza Atlantica: (a) le procedure decisionali sono consensuali e coinvolgono gli
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interessi di tutti i membri; (b) i confini tra gli Stati membri non sono protetti; (c) nessuno dei
membri della comunità viene considerato una minaccia a tal punto da modificare contro di
lui i propri piani militari; (d) le minacce, al contrario, vengono definite in comune; (e) c’è un
vero senso della comunità, anche sul piano discorsivo-linguistico; (f) il livello di
integrazione militare è già elevato, e comunque crescente.
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