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EMIDIO DIODATO

RELAZIONI INTERNAZIONALI – Dalle tradizioni alle sfide

1. Le relazioni internazionali: logica, metodo e livelli di analisi

Il realismo è spesso considerato il principale paradigma delle relazioni


internazionali. Nel 1954 il paradigma realista tradizionale si impone sull’idealismo
contrapponendosi al pensiero comportamentista: la scuola realista affonda le proprie radici
nella tradizione filosofica europea (soprattutto tedesca) e si oppone al pensiero liberale
contestandone l’eccessiva fiducia nelle potenzialità dell’uomo come agente scientifico e
razionale. Nel corso degli anni ’50, diversi studiosi realisti (Morgenthau, …) attaccarono
l’atteggiamento scientista e comportamentista dell’approccio liberale – o istituzionalista,
come si era evoluto in quel periodo -, ritenendo che lo studio delle relazioni internazionali
dovesse affrancarsi dai paradigmi allora in uso nella scienza politica. Del liberalismo erano
dunque criticate tutte le posizioni fondate sulla fiducia nelle istituzioni liberali (le
organizzazioni internazionali) e nella razionalità umana, e i realisti portavano come prova il
fallimento del sistema liberale wilsoniano di fronte all’avvento di Hitler. Ciò che
maggiormente è divisivo in questo primo dibattito è la natura del potere: Morgenthau,
come gli altri realisti, accetta che gli interessi degli attori nelle IR siano razionali, ma ritiene
allo stesso tempo che siano sempre definiti in termini di potere, e perciò derivino da una
fonte – il desiderio umano – che è per definizione irrazionale.

Nel secondo dopoguerra la scienza politica era stata attraversata dalla c.d. rivoluzione
comportamentista: il comportamentismo si prefiggeva di individuare il comportamento
umano (cioè il comportamento del singolo) come principale fattore esplicativo della politica
e dell’attività di governo, puntando a fare della materia uno studio oggettivo e avalutativo,
condotto tramite metodi quantitativi. Alla base dell’idea comportamentista vi era la
convinzione dell’unità della scienza (derivata dal neopositivismo viennese) che si
traduceva in uno studio fondato sull’empirismo logico. Uno dei maggiori esponenti della
corrente comportamentista, Morton Kaplan, tradusse l’approccio in uso nelle scienze
politiche adattandolo all’ambito delle relazioni internazionali, tramite la creazione della
teoria dei sistemi, che relegava a un ruolo marginale la questione morale estremamente
cara invece ai realisti: qualunque tipo di sistema (naturale o umano) è in grado di
raggiungere una propria stabilità dinamica indipendentemente dall’intervento di singoli
fattori casuali, e di conseguenza è possibile valutare il comportamento degli Stati nelle IR
a partire solamente dal tipo di sistema che questi fondano con le loro relazioni.
Mantenendo dunque i singoli Stati come unità d’analisi, e ritenendoli attori unitari e
razionali fintantoché formavano un sistema internazionale, i comportamentisti si ritenevano
in grado di spiegare le relazioni internazionali. Il maggiore problema della teoria sistemica
nelle IR è la confusione che si pone nel momento in cui si vuole spiegare o a) il modo in
cui il comportamento degli Stati può trasformare un certo sistema in cui quegli Stati si
trovano; o b) il modo in cui un certo tipo di sistema vincola gli Stati che vi si trovano ad
adattarvisi; vi è, in altre parole, assenza di chiarezza nelle relazioni che si pongono tra il
livello di analisi sistemico (superiore) e quello del comportamento degli Stati (inferiore).
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Lo stallo generato dal fallimento del liberalismo comportamentista fu superato con
l’avvento del neorealismo, corrente forgiata da Kenneth Waltz a partire da un’evoluzione
più “scientifica” del realismo classico di Morgenthau. Riguardo alla stessa definizione di
“teoria”, Waltz intendeva preminente la formulazione di un costrutto coerente, piuttosto che
una collezione di leggi di natura empirico-osservativa. A partire dalle teorie di Kaplan,
Waltz ripropose i sistemi, preferendo però concentrarsi non tanto sull’analisi micro dei
comportamenti dei singoli Stati, ma su quella macro riguardante la struttura dello stesso
sistema. A tal proposito egli isolò quello che definì il “sistema politico internazionale”, tipico
e proprio esclusivamente delle IR, da tutti gli altri sistemi, concentrandosi solamente su
questo. Se dunque è vero che tutti i sistemi sviluppano strutture che premino o puniscono
il comportamento delle relative unità, indipendentemente dall’emergere di fattori casuali,
ciò che conta nella definizione del sistema – conclude Walts – è la distribuzione relativa
di potenza tra gli Stati che lo compongono. Ne derivano due sole configurazioni
sistemiche: il bipolarismo e il multipolarismo, poiché un sistema di monopolio
richiederebbe una tale concentrazione di potere e risorse in un solo Stato che non sarebbe
effettivamente credibile.

Nonostante il fallimento del progetto wilsoniano della Società delle Nazioni, e la


crescente convinzione che la cooperazione internazionale fosse un obiettivo ben difficile
da raggiungere, anche a partire dal Secondo Dopoguerra il liberalismo si evolse dalla sua
forma originale, quella dell’idealismo, nell’istituzionalismo neoliberale: si vuole cioè creare
un sistema internazionale dove la presenza di vincoli istituzionali sia in grado di frenare le
preferenze individuali, spesso contrastanti, dei vari attori. In realtà l’introduzione di un
paradigma istituzionalista entro le IR la si deve, quantomeno in prima battuta, a uno
studioso neorealista, Robert Giplin, il quale – criticando la teoria sistema waltziana per il
fatto che, concentrando tutta la responsabilità delle IR sull’analisi del sistema, riteneva
quest’ultimo più grande della somma delle sue parti – analizzò il ruolo delle organizzazioni
internazionali nelle IR e concluse che queste riflettevano gli interessi degli Stati dotati di
maggior potere, e quindi:
 La stabilità dipende dal ruolo degli Stati egemoni (stabilità egemonica), e questa è
assicurata quando le grandi potenze riescono a vincolare i comportamenti degli altri
Stati secondo i propri interessi.
 Il mutamento dipende dalla difficoltà che gli Stati egemoni possono incontrare nel
fissare regole costrittive, lasciando dunque agli altri Stati lo spazio per mutare gli
scopi e la natura delle istituzioni internazionali, e del sistema stesso.
Fu successivamente Robert Keohane a mutare le affermazioni di Giplin in termini
neoliberali: egli sosteneva infatti che sì la presenza di uno Stato egemone fosse
necessaria per la creazione di norme e istituzioni internazionali, ma che la stabilità del
sistema potesse sopravvivere anche dopo il crollo dell’egemonia di quella potenza,
siccome gli Stati – attori razionali – avrebbero operato alla ricerca del miglior vantaggio
economico assoluto (cioè per tutti, better off).

Sul piano teorico e lessicale Hedley Bull aveva introdotto anche una distinzione tra
sistema e società internazionale, intendendo quest’ultima come quella particolare

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evoluzione di un sistema i cui membri, a partire dalla condivisione di un determinato set di
valori ed esperienze storiche, sono in grado di darsi nel tempo norme e istituzioni per la
comune convivenza. Anche in una situazione di società così definita, ciò che
maggiormente affliggeva gli studiosi delle IR rimaneva comunque il problema del
coordinamento economico: il pensiero liberale (Keohane, Axelrod), evoluto dalla teoria dei
giochi, sosteneva che nei regimi internazionali si tendesse a istituzionalizzare la
reciprocità, togliendo legittimità alla defezione, che si presentava come un opzione
estremamente costosa nelle relazioni tra due stati. Al contrario, il pensiero realista (Greico)
opponeva alla reciprocità la preminenza del vantaggio relativo, cioè la necessità per uno
Stato non tanto di massimizzare i propri guadagni indipendentemente dagli altri attori,
quanto piuttosto di massimizzare il proprio gap rispetto al guadagno altrui. Partendo da
questo punto di vista, l’esistenza delle istituzioni internazionali è possibile soltanto fino a
ché queste non rispecchiano l’interesse della potenza egemone.

SINTESI “NEO-NEO” su un fronte paretiano (Krasner)

NEOISTITUZIONALISMO: tutti i
punti sulla curva sono possibili
ottimi paretiani, siccome gli attori
considerano soltanto il proprio
guadagno assoluto.

NEOREALISMO: sulla curva c’è un


solo ottimo, cioè il punto scelto
dall’egemone in considerazione del
proprio guadagno relativo.

Sul tema delle istituzioni nell’ambito delle IR si espose anche il riflettivismo, che
proponeva un punto di vista prettamente sociologico, basato sull’interpretazione
intersoggettiva delle istituzioni. Tale paradigma partiva da una definizione di “istituzione” in
senso ampio (comprendendo cioè anche una serie di “principi” quali sovranità e diritti
umani) e da una formulazione di quesiti di ricerca imperniati sull’analisi di come tali
istituzioni si trasformano a causa di mutamenti nei sistemi di credenze collettive. Tali
mutamenti possono essere determinati: a) dalla presenza di una potenza egemone che
detta una serie di norme per proteggere i propri interessi; o b) da un processo di
apprendimento sociale che permette a determinati valori particolari di essere condivisi e
divenire così universali. Nel condurre questa analisi i riflettivisti rifiutano l’adozione di
metodi quantitativi o derivanti dalla teoria dei giochi (tanto cara invece ai liberali),
preferendo l’utilizzo di strumenti di ricerca qualitativa.

Un’ultima questione sorta nel corso del dibattito interparadigmatico è il problema agente-
struttura: una cosa su cui, pur con molte differenze, neoliberali e neorealisti concordano è
la natura della relazione tra la struttura (sistema) e l’agente (Stati), per cui è il sistema
internazionale, da intendersi qui come struttura, a vincolare il comportamento dei singoli
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Stati che in esso sono agenti. Una posizione differente è quella occupata invece dal
paradigma neomarxista, il quale ritiene che non sia tanto il sistema internazionale a
dettare il comportamento degli Stati e degli altri attori che vi operano, quanto piuttosto un
elemento strutturale posto su un livello più alto, cioè il capitalismo, che si manifesta come
la struttura globale che contiene al suo interno lo stesso sistema internazionale, e che non
solo condiziona gli Stati, ma anche il loro adattamento alla stessa struttura tanto in termini
di mutamento nazionale quanto di azione transnazionale delle forze sociali.

Dopo la conclusione della Guerra Fredda è emerso nello studio delle IR un nuovo
paradigma, il costruttivismo, che si è posto l’obiettivo – prima tipicamente postpositivista –
di aggiungere l’interpretazione sociologica alla spiegazione politica delle relazioni
internazionali. La riflessione di partenza può ancora una volta muovere dalla formazione e
dal ruolo delle istituzioni internazionali: è indubbio infatti che queste siano insiemi codificati
di norme e regole, ma per i costruttivisti è altrettanto indubbio che, per essere tali, queste
istituzioni devono derivare da motivazioni generate dalla socializzazione tra gli Stati, quindi
non solo dai loro interessi (tali spesso a prescindere dalla socializzazione), ma anche dalle
rispettive identità. Ne deriva perciò che il processo di socializzazione non dipende dal
rapporto struttura/agente – come, seppur in modo diverso, sostenuto dagli altri paradigmi
–, ma è un processo tipicamente cognitivo, nel corso del quale gli attori non si limitano al
passivo adattamento sociale, ma attivamente e consapevolmente acquisiscono un ruolo
all’interno del sistema internazionale. Inoltre, l’entrata in scena del costruttivismo ha
permesso anche il ritorno dell’attenzione alla dimensione etica delle relazioni
internazionali, attraverso la c.d. riflessione normativa.

MATRICE COSTRUTTIVISTA degli approcci metodologici


Spiegazione Comprensione
NON si può
spiegare un
Struttura razionalismo riflettivismo sistema solo
spiegando le sue
componenti
costruttivismo
Qualsiasi sistema
Agente comportamentismo normativismo è dato dall’agire
delle sue
Scopo della ricerca è Scopo della ricerca è componenti
contribuire alla conoscenza favorire l’interpretazione
dei fenomeni sociali dei fenomeni sociali

L’introduzione di uno sguardo “sociologico” alle IR, dovuta all’avvento del costruttivismo,
ha spinto anche gli studiosi liberali ad adottare una maggiore attenzione nei confronti dei
comportamenti degli attori. Andrew Moravcsik ha analizzato le preferenze degli Stati
espresse in termini politici e capaci di esprimere modelli di interazione sociale
transazionale. L’aspetto transnazionale delle preferenze degli Stati deriva dal fatto che
esse si formino in un contesto di interdipendenza, finendo poi per porre dei vincoli al
comportamento degli stessi Stati. Per Moravcsik le preferenze sono analiticamente

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prioritarie, nel senso che prioritaria sono la loro definizione e lo studio del loro mutamento,
dovuto al mutare di valori e interessi domestici in un contesto transnazionale. Quanto al
metodo, si tratta dunque di utilizzare un approccio comparativo, che sia in grado cioè di
procedere alla comparazione, in senso empirico-osservativo, tra le politiche estere dei
diversi Stati. Da questo approccio è derivata, per esempio, la c.d. teoria della pace
democratica. Sulla falsa riga di Moravcsik, anche Michael Doyle ha proposto un analogo
approccio, basato sulla riscoperta del cosmopolitismo kantiano e dunque sulla
convinzione che più che la varietà del comportamento statale, lo studio delle IR si sarebbe
dovuto soffermare sulla natura interattiva delle stesse relazioni internazionali.

NB: Moravcsik parla di preferenze come precedentemente aveva fatto, da un’ottica


realista, anche Morgenthau: qual è la principale differenza?
 Per Moravcsik (liberalismo), le preferenze hanno una natura razionale, libera e
democratica, quindi generalmente favoriscono la pace e la collaborazione tra gli
Stati.
 Per Morgenthau (realismo), le preferenze hanno una natura razionale, ma derivano
dalla brama di potere e di dominio, quindi generalmente favoriscono il conflitto tra
gli Stati.

Il paradigma maggiormente colpito dalla fine della Guerra Fredda è stato però
probabilmente quello marxista, che si è visto costretto dal mutare dell’oggetto di analisi a
cambiare il proprio approccio e i propri studi. Della natura del potere si è occupato Robert
Cox, attraverso un paradigma neomarxista da egli stesso chiamato new realism (ma ben
distante dal neorealismo), il quale sostiene la globalità del livello strutturale e dunque la
centralità del sistema-mondo capitalistico nelle IR, dettato da relazioni standard di
subordinazione a Stati e forze sociali dominanti interrotte soltanto in rari casi
dall’emancipazione di un gruppo subordinato.

RIASSUMENDO: nel corso del Novecento i quattro principali paradigmi delle IR


subiscono una serie di mutazioni
1. Il realismo prima, con l’avvento del neorealismo, concentra la propria attenzione
sul livello sistemico-strutturale; successivamente, dopo la Guerra Fredda, torna a
occuparsi principalmente degli agenti. L’origine del potere, inizialmente definita in
termini hobbesiani (pessimismo antropologico) figlia della brama di dominio
dell’uomo, è stata più tardi riformulata come derivante dalla percezione delle
minacce dei singoli agenti rispetto al sistema in cui sono inseriti.
2. Il liberalismo ha spostato il proprio focus sul livello strutturale con l’avvento del
neoliberalismo. Oggi, a fianco della persistente analisi strutturale, è stata introdotta
(spesso con significato prioritario) una forte attenzione alle preferenze e al
comportamento degli Stati, quindi al livello individuale.
3. Il costruttivismo si è imposto grazie alla sua capacità di attraversare i vari livelli
di analisi, passando senza perdere coerenza dall’analisi strutturale a quella
individuale.

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4. Il marxismo concentra la propria attenzione a livello strutturale, tuttavia
affermando l’esistenza di una struttura globale comune a tutti gli agenti,
inevitabilmente torna sempre all’analisi del comportamento e dell’azione delle forze
sociali.

2. La tradizione realista. Anarchia e asimmetria nel sistema politico internazionale

Nelle relazioni internazionali il realismo si è posto come il paradigma dominante,


ovvero come l’intelaiatura teorica fondamentale dell’analisi internazionalistica. Tra gli
assunti fondamentali della tradizione realista si trovano: la centralità dello Stato; l’anarchia
internazionale; l’unitarietà e la razionalità degli attori statuali; il dilemma della sicurezza; la
politica di potenza (strettamente correlata al concetto di interesse nazionale); e l’equilibrio
di potenza che genera le politiche di alleanza. La visione del mondo realista è
caratterizzata da un certo pessimismo antropologico, che deriva dalla concezione della
natura umana come preda di istinti aggressivi ed egoistici, cosa che non può che definire
una lettura conflittualistica dei rapporti politici. In poche parole, si può distinguere il
realismo dagli altri paradigmi proprio in virtù di questo suo fondamento:

I rapporti umani sono governati da una logica antagonistica e coercitiva, in questo


contesto il fine dell’agire politico non è vincolato a valori sostantivi (giustizia, bene
comune, …) ma è volto soltanto al successo.

Indubbiamente centrale nella concezione realista delle IR è lo stato-centrismo, laddove lo


Stato è ovviamente inteso in termini westfaliani, dunque come ente dotato di sovranità
territoriale e indipendenza politica. Lo Stato è attore centrale della politica internazionale,
prevalente su tutti gli altri attori (organizzazioni internazionali, imprese multinazionali, …),
poiché è l’unico in grado di modificare le regole con consentono a tutti gli altri attori non
statali di operare a livello internazionale. A questa definizione e concezione dello Stato
nell’ambiente internazionale, si accompagna il postulato della razionalità e unitarietà
dello stesso: in politica estera gli Stati agiscono svincolati rispetto al proprio pluralismo
politico-istituzionale interno, e sono in grado di produrre politiche coerenti pianificate
razionalmente sulla base di un calcolo costi-benefici (massimizzazione dell’utilità attesa).
In secondo luogo, cardine dell’analisi realista è il concetto di anarchia internazionale: gli
Stati operano in un contesto strutturalmente anarchico, cioè privo di un’autorità centrale
monopolizzatrice della forza, alla quale potersi appellare per ricevere giustizia o
protezione. Non esiste alcun potere superiore a quello delle singole unità statuali perché,
ancora a partire da una concezione westfaliana dello Stato, qualsiasi organizzazione di
questo tipo sarebbe altamente lesiva delle diverse sovranità nazionali (“nessuno ha il
diritto di comandare, nessuno ha il dovere di obbedire”, K. Waltz), l’anarchia è dunque
necessaria e naturale in un contesto internazionale. Di conseguenza l’arena internazionale
non può soggiacere ad altra legge se non a quella della forza, il cui impiego si profila
sempre come una minaccia di fondo nelle relazioni tra gli Stati. In un contesto così
delineato, uno Stato deve in primo luogo preoccuparsi della propria sicurezza, cioè dei
propri interessi vitali, della propria sopravvivenza come un’entità territorialmente sovrana e

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indipendente. Se la forza è l’unica legge sicura e la sopravvivenza il fine ultimo dell’azione
politica, gli Stati secondo la prospettiva realista si occuperanno in primo luogo di rafforzare
le proprie risorse militari, sviluppando una politica di potenza che è volta, in primo luogo,
al conseguimento o alla difesa dell’interesse nazionale, ma che è spesso percepita (a
ragione o a torto) come una minaccia dagli altri attori del sistema internazionale.

NB: secondo la concezione realista la condotta degli stati è a-morale, quantomeno


fintantoché essa si esplica nel perseguimento dell’interesse nazionale (non si può
applicare alcun giudizio morale a ciò che è fatto per necessità).

Data l’assenza di un’entità sovranazionale in grado di regolare le contese tra gli Stati e la
loro reciproca convivenza, ciò che questi attori possono fare in caso di minaccia alla
propria sopravvivenza è soltanto difendersi autonomamente, sviluppando di conseguenza
quello che è definito un atteggiamento di self-help. Ciò che rilevano i realisti, però, è che
quando uno stato per necessità di autodifesa potenzia le proprie risorse militari,
automaticamente si pone rispetto ad altri Stati come una nuova minaccia, generando una
sorta di cortocircuito che prende il nome di dilemma della sicurezza. L’unica possibile via
d’uscita da un contesto in cui ogni azione volta a generare sicurezza per un singolo Stato
genera di conseguenza insicurezza per tutti gli altri è il raggiungimento di uno stato di
equilibrio di potenza, che i realisti rilevano massimamente nei sistemi bipolari, laddove
cioè si genera una situazione di deterrenza reciproca capace di trattenere gli attori da una
situazione di conflitto aperto, che in quelle condizioni sarebbe inevitabilmente distruttiva.
Ne deriva dunque che, di fronte a una crescente minaccia, piuttosto che ricorrere a un
meccanismo di self-help (potenzialmente molto pericoloso), gli Stati più piccoli
preferiscono attuare una politica di balancing, cioè creare delle alleanze che siano in
grado di contrastare efficacemente la potenza dello Stato (o dell’altra alleanza) in quel
momento in ascesa.

Principali autori e teorie nell’alveo della tradizione realista

a. Precursori del realismo classico

Il primo autore considerato precursore del pensiero realista classico risponde al


nome di Tucidide. Nella sua opera, Guerra del Peloponneso, lo storiografo greco delinea i
tratti caratteristici di un pensiero proto-realista, che si distingue per:
 Una concezione secolarizzata della storia, priva di richiami divini, incentrata sulle
categorie di necessità, caso e fattori umani.
 Un’antropologia naturalistica e, soprattutto, pessimistica.
 Una concezione conflittualistica della politica.
 Una teoria della regolarità rispetto alle dinamiche di potenza.
Tucidide riteneva che la storia fosse destinata a ripetersi poiché immutabile era la natura
umana, e dunque anche l’azione degli attori internazionali (le poleis, nel suo caso), mossa
sempre da moventi quali il prestigio, il timore e l’utilità. Per primo lo storiografo greco

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introdusse anche l’idea che la dinamica delle relazioni internazionali fosse guidata dalla
crescita differenziale della potenza tra gli Stati.

Il secondo “padre” del realismo classico è Niccolò Machiavelli: l’autore fiorentino


innanzitutto condivide con Tucidide, e anzi la potenzia, una concezione altamente
pessimistica della natura umana; e, in secondo luogo, anche la convinzione che attraverso
la conoscenza del passato l’uomo possa guidare le proprie azioni nel futuro (il che deriva
dall’idea della ricorsività della storia). A proposito della storia, o meglio del “divenire
storico”, Machiavelli ritiene che sia scandito dalla lotta per l’autoconservazione e
l’autoaffermazione degli Stati, intesi come soggetti collettivi che tanto più riescono ad
essere coesi internamente quanto più riescono a condurre conflitti esterni. Questo
atteggiamento deriva dal fatto che i governanti assumono come propria priorità il compito
di difendere gli interessi del proprio Stato, ma inevitabilmente la ricerca di sicurezza –
attuata in termini di potenziamento militare – finisce per tradursi in uno sforzo egemonico
volto all’imposizione del proprio dominio sugli altri.

La tradizione realista deve molto anche all’opera di Thomas Hobbes, che per
primo convintamente postula una situazione originaria di anarchia, intesa come assenza di
un’autorità centralizzata, in cui ogni uomo si considera nemico dei suoi simili e dunque non
può che generarsi una condizione di conflitto perpetuo (bellum omnium contra omnes). Se
nelle relazioni tra individui Hobbes teorizza una via d’uscita da questa situazione, tramite
l’istituzione di uno Stato-Leviatano al quale, mediante un pactum societatis e un pactum
subiectionis, la comunità può derogare il compito di produrre le leggi e fornire protezione
dalle minacce interne ed esterne, a livello internazionale questo non è possibile. Nelle
relazioni internazionali tra gli Stati, la situazione di anarchia non è soltanto primitiva ma è
anche immutabile, poiché intraprendere la via d’uscita possibile per gli individui
comporterebbe agli Stati la perdita della propria sovranità, e dunque negherebbe il loro
stesso essere Stati.

b. Realismo classico

Se già nel Primo Dopoguerra Edward H. Carr aveva teorizzato i primi fondamenti
del paradigma realista classico, partendo da una critica alla teoria dell’armonia tra gli
interessi degli Stati centrale nel pensiero liberal-idealista, sarà all’indomani della Seconda
Guerra Mondiale Hans J. Morgenthau a definire in maniera più chiara i punti fondanti la
teoria realista:
1. La politica, così come la società, è governata da leggi oggettive che trovano il loro
fondamento nella natura umana.
2. La principale indicazione che aiuta il pensiero realista a orientarsi nello studio delle
relazioni internazionali è il concetto di interesse in termini di potere.
3. Il realismo ritiene che il concetto di interesse sia una categoria universalmente
valida, tuttavia esso non ha un significato sempre univoco (cioè assume significati
diversi in base al contesto politico e culturale di ogni Stato).

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4. Il realismo è consapevole del significato morale dell’azione politica, e della tensione
tra principio morale e successo.
5. Il realismo rifiuta di identificare le aspirazioni morali di una nazione con le leggi
morali che regolano l’universo.
6. Il realismo sostiene l’autonomia della sfera politica da ogni altro campo di studi.
Riguardo a quanto già affermato nel punto (1), Morgenthau specifica che la natura umana
è immutabile e caratterizzata egoismo e animus dominandi, quindi dalla brama di potere.
Di conseguenza la politica, interna o internazionale, non è che da leggersi come una lotta
per il potere: l’assenza di un’arena internazionale costringe gli Stati a un conflitto
incessante per la difesa dei propri interessi (“la politica internazionale, quindi, è
necessariamente una politica di potenza). A tale situazione non è possibile porre rimedio,
come invece sostengono i pensatori liberali, facendo ricorso alla condivisione di norme e
valori universali che vincolino le azioni degli Stati, poiché le azioni dei vari attori in difesa
dei propri interessi sono sempre condotte a-moralmente. Dunque, l’unico fattore di
stabilizzazione nelle relazioni internazionali è determinato dall’equilibrio di potenza
(balance of power), che è risultato naturale della lotta che coinvolge tutti gli Stati e che può
manifestarsi in diverse modalità: divide et impera, sistemi di alleanza, corsa agli
armamenti, …
Una particolare riformulazione del pensiero realista è quella prodotta da Reinhold Neibuhr,
autore di quella che si potrebbe definire una “via cristiana al realismo”: egli ritiene che
l’animus dominandi caratterizzante la natura umana derivi da una sorta di “peccato
originale” che conduce il singolo ad atteggiamenti collettivi che se condotti individualmente
sarebbero ritenuti inaccettabili. Neibuhr riconosce anche l’imprescindibilità della Realpolitik
nella conduzione delle relazioni internazionali, ma afferma che i governanti abbiano il
compito di applicare principi di responsabilità e prudenza per moderare gli istinti più
offensivi.

c. Realismo eterodosso

Maggiore esponente di questa corrente è stato Raymond Aron, la cui analisi


muove dal riconoscimento dell’alternanza continua di pace e guerra, dovuta al fatto che gli
Stati storicamente non si sono solo riconosciuti a vicenda, ma facendo questo hanno
anche conferito legittimità ai reciproci conflitti. Per Aron, però, a differenza dei realisti
classici, la politica internazionale non è solo Machtpolitik, anzi al fianco della forza vi è
spazio anche per una seconda dimensione valoriale-ideologica. Tale dimensione si
esprime nel fatto che la condotta esterna degli Stati non è dettata solamente dal rapporto
delle forze, ma anche idee e sentimenti influiscono sulle decisioni prese dagli attori. Ciò
definisce in primo luogo la condotta diplomatico-strategica dei vari Stati, che Aron
ritiene fondamentale nell’analisi delle IR: ogni attore agisce seguendo una pluralità di fini
che rende indeterminate, quantomeno aprioristicamente, le proprie azioni agli occhi dello
studioso, che deve sempre assumere come oggetto di ricerca la definizione dell’interesse
nazionale dello Stato in analisi. Non è nemmeno possibile definire una condotta
diplomatico-strategica “di base” applicabile a differenti realtà, poiché essa muta al mutare

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dei vari regimi (determinanti morali) e al mutare delle condizioni geografiche,
demografiche ed economiche dei vari Stati (determinanti materiali).

d. Neorealismo

Kenneth Waltz, ragionando sulla presenza della guerra nel sistema internazionale,
sostiene che tanto la spiegazione che vede come causa del conflitto la natura umana,
quanto quella che la individua in caratteristiche interne dei vari Stati non reggono, poiché
prese per come sono presupporrebbero una situazione di guerra perpetua che è di sicuro
smentita dai fatti. Ciò su cui dunque pone l’attenzione Waltz è la stessa struttura del
sistema internazionale, che funziona come elemento di costrizione rispetto ai vari agenti.
Egli dunque si occupa di definire il concetto di “struttura” in tre elementi:

DEFINIZIONE DI STRUTTURA di un sistema (Waltz)


Nei sistemi politici nazionali, sviluppandosi
rapporti di superiorità e subordinazione tra le
Principio ordinatore parti è la gerarchia. Ma nel contesto
internazionale, poiché gli Stati sono
formalmente uguali il principio ordinatore è
l’anarchia.
Poiché il primo obiettivo di ogni Stato, secondo
una concezione realista, è sempre garantire per
Funzioni delle unità se stesso la sicurezza, questo punto può
essere tralasciato nell’analisi, in quanto uguale
per ogni attore.
Questo è il punto cruciale: gli Stati sono uguali
nelle funzioni (= sicurezza), ma non nella
Distribuzione del potere rispettiva capacità di svolgerle. Essi si
differenziano in base al diverso modo in cui le
risorse sono distribuite presso ognuno
(potenzialità).

Dall’analisi strutturale di Waltz deriva che, rispetto al sistema internazionale, l’unico punto
soggetto a variazione è la distribuzione del potere tra le unità componenti il sistema, e
dunque le principali differenze ed evoluzioni nel contesto delle IR si possono spiegare in
termini di balance of power. Waltz arriva poi a sostenere che sia preferibile per gli Stati
trovarsi in un sistema configurato secondo un modello bipolare, poiché in esso le due
potenze contrapposte (o i due sistemi di alleanza) possono mantenere l’equilibrio
ricorrendo solamente a sforzi interni, senza dunque andare per forza a cercare appoggi
esterni che rischierebbero di destabilizzare il sistema. Quando non è presente una
situazione di equilibrio comunque, permane nell’azione degli Stati la ricerca dell’equilibrio,
motivo per cui essi sono tenuti a preferire stringere alleanze con la potenza più debole, al
fine di bilanciare nuovamente il sistema, piuttosto che affidarsi alla fazione in quel
momento più forte creando ulteriore sbilanciamento.

L’analisi di Waltz, per quanto efficace, rimane alquanto statica e dunque incapace di
spiegare il mutamento a livello internazionale, del quale invece si è più profondamente

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occupato Robert Giplin. Giplin riconduce il mutamento internazionale a tre fattispecie
fondamentali:

MUTAMENTI nel sistema internazionale (Giplin)


Mutamento Spiegazione Esempio
Cambia la natura degli attori, o Passaggio da un S.I. di città-
dei diversi enti, che Stato a un S.I. di Stati-nazione
M. dei sistemi
compongono il sistema
internazionale
• Emersione di un nuovo
Cambia la forma di controllo (o egemone (mut. gerarchico).
M. sistemico governo) del sistema • Introduzione di nuovi vincoli
internazionale all’azione degli Stati (mut.
normativo)
Deriva da regolari interazioni o Il rapporto tra due Stati muta
M. di interazione processi tra le entità del da cooperativo a conflittuale
sistema internazionale

Giplin non rinnega i fondamenti dell’analisi waltziana – e insieme anche di tutto il pensiero
realismo – ovvero l’immutabilità della natura fondamentale delle relazioni internazionali,
fondate lotta per la ricchezza e il potere in una perpetua condizione di anarchia, tuttavia
egli concentra maggiormente la propria analisi sul ruolo delle grandi potenze, ritenendo
che la storia delle IR possa essere letta una successione di ordini imposti al mondo dagli
Stati più potenti: così facendo però Giplin introduce una sorta di gerarchizzazione, o
almeno dei rapporti verticali, nelle relazioni internazionali che i realismo ortodosso ha
storicamente negato. L’idea è, ad ogni modo, quella che uno Stato (o un’alleanza) tenterà
di mutare il sistema politico in cui si trova in risposta a sviluppi che aumentano il suo
potere relativo – o diminuiscono i costi necessari – fino a quando una nuova accurata
analisi costi/benefici non dimostrerà che un successivo mutamento sarebbe più costoso
che remunerativo. Complessivamente, la teoria di Giplin prevede che:
1. Un sistema internazionale è stabile fintantoché nessuno Stato ritiene vantaggioso
un suo mutamento.
2. Uno Stato ritiene vantaggioso mutare il sistema internazionale quando i benefici di
tale mutamento superano i costi richiesti per portarlo a termine.
3. Uno Stato guiderà il mutamento tramite: a) espansione territoriale (imperi); b)
espansione politica ed economica (nazioni); fino a quando i costi marginali non
eguagliano o superano i benefici marginali di tale operazione.
4. Tendenzialmente, una volta raggiunto un equilibrio, i costi economici del
mantenimento dello status quo crescono più rapidamente della capacità economica
dello Stato coinvolto.
5. Di conseguenza, l’eventuale fallimento nel mantenere un nuovo equilibrio genererà
un’ulteriore mutamento e dunque un nuovo status quo che rifletterà l’aggiornata
distribuzione del potere.
Da questi punti è facile derivare che ciò che maggiormente preoccupa la stabilità
internazionale è la crescita differenziata di potere tra gli Stati: essa infatti, modificando
le funzioni di utilità dei vari attori (o meglio dei gruppi e degli individui che li controllano),
influisce sui calcoli costi/benefici che guidano le azioni in politica estera, determinando di
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volta in volta un aumento o una diminuzione dei vantaggi potenziali rispetto a una
determinata azione e quindi destabilizzando l’equilibrio del sistema.

e. Sviluppi più recenti della teoria realista

Oltre all’opera di Giplin, soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, sono state
prodotte ulteriori teorie nell’ambito del paradigma realista con l’obiettivo di superare il
rigido schematismo del neorealismo waltziano. Una particolare interpretazione degli studi
di Waltz, elaborata da Joseph Grieco, prende il nome di posizionalismo difensivo, e
teorizza che l’obiettivo principale degli Stati, attori nel contesto internazionale, non è quello
di massimizzare i propri guadagni individuali, bensì quello di impedire che gli altri attori
incrementino le loro capacità relative. Grieco cioè concorda sul fatto che il comportamento
degli Stati sia da imputarsi all’immutabile condizione di anarchia del sistema
internazionale, ma ritiene che gli sforzi di questi siano testi a massimizzare la propria
sicurezza difendendo lo status quo. L’opposto della teoria di Grieco è rappresentata da
quella corrente che prende il nome di realismo offensivo – tra i maggiori esponenti si
riconosce John Mearsheimer -, dove si ritiene che ogni Stato sia portato a comprendere
che il miglior modo per garantire la propria sopravvivenza nel sistema internazionale sia
proprio quello di rendere “sconveniente” agli altri attori attaccarlo, e quindi di potenziare le
proprie capacità militari, politiche ed economiche sempre intese in termini di guadagno
relativo rispetto a quello dei rivali (si preferiscono perciò incrementi nazionali, che
massimizzano però il gap con gli altri attori, rispetto a grandi incrementi assoluti che però
non portano a vantaggi effettivi in un contesto comparato). Una teoria come quella di
Mearsheimer porta alle estreme conseguenza il dilemma della sicurezza, già teorizzato da
John Herz, descrivendo una situazione in cui ogni azione, anche intenzionalmente
difensiva, di uno Stato è percepita ragionevolmente come offensiva dagli altri, e quindi una
situazione di reale e definitiva pace è impossibile da raggiungere nelle relazioni
internazionali.

Sempre a partire dal lavoro di Kenneth Waltz si sono sviluppati numerosi studi,
raccolti generalmente entro la “famiglia” del realismo neoclassico, che puntano a
introdurre nuove variabili entro l’analisi del comportamento degli Stati nelle IR. Piuttosto
comune è, dunque, il fatto di prendere in considerazione le c.d. variabili interne, intese
tanto come le percezioni dei decision-maker (Wohlforth), quanto quelle legate all’apparto
istituzionale o alla società dei singoli Stati (Zakaria). Più completa e complessa è invece
l’opera di Glenn Snyder, che aggiunge al modello waltziano tre nuove categorie, esterne
sia alla definizione strutturale del sistema internazionale quanto a quella delle sue
particolari unità:
 Modificatori strutturali: con i quali Snyder intende quei fattori (norme e istituzioni
internazionali, tecnologia militare, …) che hanno un impatto a livello sistemico,
portando ad alterazioni sostantive negli elementi strutturali fondamentali dei
processi di interazione tra gli attori.
 Rapporti fra gli Stati: cioè quegli elementi che generano contesti situazionali posti
alla base delle scelte comportamentali dei vari attori. Si tratta dunque di tutto ciò

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che ha effetto, motiva le azioni compiute dagli Stati ed ha un’origine interattiva,
dunque la creazione di alleanze, rapporti di interdipendenza, o lo scoppio di un
conflitto.
 Interazioni: rispetto al punto precedente, per interazioni si intende, in senso
generale, l’insieme di quelle azioni e comportamenti che scaturiscono come effetto
di un precedente fattore, ma che a loro volta influenzano i fattori successivi. Le
interazioni possono essere ridotte a tre macro-categorie: a) i preparativi; b) la
diplomazia; e c) l’azione militare.

Al lavoro di Snyder si affianca anche un’ulteriore corrente del pensiero realista, che
prende il nome di realismo strutturale (B. Buzan, C. Jones, R. Little): si rafforza tanto il
livello di analisi sistemico-strutturale che quello delle unità introducendo un terzo livello,
che prende il nome di capacità di interazione, al fine di elevare a fattore sistemico alcuni
elementi legati alle dinamiche interattive tra le unità (presenza di norme internazionali,
sviluppo della tecnologia militare, …). L’obiettivo dei realisti strutturali, prendendo in
considerazione gli aspetti riguardanti il processo politico internazionale, è quello di
evidenziare la varietà dei possibili rapporti tra gli Stati, superando la concezione monolitica
e univoca dell’anarchia proposta da tutti gli altri realisti e, al contempo, negando il ruolo del
dilemma della sicurezza come unico possibile esito delle relazioni internazionali tra gli
attori.

f. Principali sfide al realismo nel mondo contemporaneo

La fine della Guerra Fredda e l’instaurarsi di un sistema internazionale


organizzando non più in termini rigidamente bipolari sembra aver fatto venire meno il ruolo
centrale della guerra (della deterrenza) su cui i realisti hanno costruito la maggior parte dei
propri spunti teorici. Il post-bipolarismo, infatti ha piuttosto mostrato una situazione più
affine ai modelli liberali, apparentemente modificando qualitativamente le relazioni
internazionali verso un contesto più pacifico e collaborativo. In realtà, ciò che ha
dimostrato la fine della Guerra Fredda non è stata né una fine della storia (Fukuyama), né
il trionfo della teoria della pace democratica: la guerra vi è ancora, ma si è spostata su altri
fronti in virtù di uno spostamento nella distribuzione del potere a livello internazionale.
Se dunque i realisti (Buzan, …) sono convinti del fatto che per valutare le relazioni
internazionali sia sufficiente guardare alla struttura e al processo dei rapporti che
intercorrono tra le grandi potenze, e dunque descrivere il modello polare del sistema che si
ha di fronte, dopo il 1989 essi possono a grandi linee concordare sull’affermarsi di un
modello unipolare, imperniato su un’egemonia americana che non riesce a trovare credibili
rivali.

Un altro problema che il realismo si è trovato ad affrontare recentemente è stato il declino


dello Stato, costretto a fare i conti da un lato con crescenti regionalismi (o altre spinte
etniche, che favoriscono la particolarizzazione delle identità individuali) e dall’altro con i
processi di globalizzazione che ne segnano l’erosione dall’esterno. Tuttavia, questo
fattore, per quanto centrale nell’analisi delle relazioni internazionali, non segna

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convincentemente un reale problema per le teorie realiste, siccome il fatto che gli Stati
siano sostituiti da altri attori nel loro ruolo di protagonisti dei rapporti internazionali non
pregiudica in alcun modo la natura anarchica delle stesse interazioni. In terzo luogo,
riguardo alla crescente influenza delle organizzazioni internazionali nei rapporti tra gli
altri attori, i realisti rispondono con la loro affermata concezione delle stesse, intese come
strumenti al servizio delle grandi potenze per imporre i propri modelli sugli Stati più deboli,
che le devono accettare fintantoché esse sono l’unico strumento che hanno per far sentire
la propria voce in un contesto pacifico al resto del sistema internazionale. Per quel che
concerne il ruolo della politica interna ai singoli Stati nelle relazioni internazionali, e più
specificatamente in risposta all’affermata teoria della pace democratica di matrice liberale,
a risposta realista si trova costretta da un lato ad accettare il fatto che sia praticamente
impossibile assistere a un conflitto tra due liberal-democrazie (strettamente intese), ma
allo stesso tempo rilanciano sottolineando come proprio le democrazie liberali, nonostante
la presenza di numerosi vincoli di politica interna, sono gli Stati che hanno più probabilità
di essere protagonisti in un conflitto armato, pur sempre contro paesi non democratici. Il
fatto, inoltre, che sia dunque sostanzialmente negata la possibilità di una guerra tra due
paesi democratici e, dunque, maturamente sviluppati non presuppone, secondo i realisti,
che sia vicino l’avvento di una warless society dove ogni conflitto armato è stato sostituito
dalla competizione economica.

3. La tradizione liberale. I diversi sentieri di un paradigma pluralista

Si parla rispetto alla tradizione liberale di un’ontologia pluralista, in riferimento alla


grande varietà di approcci che questa presenta. Ad ogni modo, sono individuabili alcuni
punti fondamentali e più o meno condivisi da tutti i suoi esponenti. In primo luogo la
centralità dell’individuo: le decisioni degli Stati ricadono sui singoli e sono a loro volta
prodotte da individui, quindi è necessario analizzare una pluralità di attori di diversa natura
per comprendere il comportamento dello Stato, che non è – a differenza del pensiero
realista – da concepirsi come unitario. Lo stesso Stato, inoltre, non è da concepirsi come
un Leviatiano, ma viene descritto nella forma dello stato di diritto, dove cioè il rapporto tra
governati e governanti è determinato da una serie di leggi comunemente riconosciute (rule
of law), che influenzano anche le azioni in politica estera. Vi è dunque una forte sensibilità
all’aspetto normativo, che nei rapporti internazionali si traduce nella volontà di creare
quegli stessi legami istituzionali con gli altri attori, al fine di facilitare la cooperazione
reciproca (se la presenza di leggi giuste e riconosciute favorisce il benessere degli
individui all’interno di uno Stato; allora questa favorirà anche la convivenza dei vari attori
nel sistema internazionale, domestic analogy). I pensatori liberali sono dunque per loro
stessa natura ottimisti, convinti che sia perseguibile una forma di progresso rispetto alla
condizione umana: la pace a livello internazionale è perseguibile attraverso l’uso di una
serie di strumenti, quali il diritto, la democrazia, le istituzioni internazionali e il commercio.
Quest’ultimo è di grande importanza, dal momento che stabilendo rapporti commerciali
solidi e duraturi nel tempo gli Stati sviluppano un reciproco grado di interdipendenza che
rende in definitiva sconveniente il conflitto come mezzo di risoluzione di una controversia

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tra due Stati che dipendono in vari settori commerciali e produttivi l’uno dall’altro. Riguardo
infine al ruolo delle istituzioni internazionali, i liberali sono convinti che esse possano
fungere da arena per il dialogo e la pacificazione tra gli Stati, e sono dunque favorevoli alla
promozione del multilateralismo nelle relazioni internazionali.

Principali autori e teorie nell’alveo della tradizione liberale

a. Liberalismo classico

Il liberalismo classico si sviluppa in epoca illuminista e rappresenta le basi del


pensiero liberale moderno. Tendenzialmente si prendono in considerazioni due correnti di
questo movimento: la prima (Smith, Cobden, …) ritiene che la pace vada costruita tramite
il commercio; la seconda (Kant, Bentham, …) pone invece il diritto come strumento
prioritario per il raggiungimento della pace. Centrale nella riflessione di Adam Smith vi è
la fiducia nella capacità del mercato di riequilibrare autonomamente (la c.d. mano
invisibile) le azioni degli individui che perseguono il proprio interesse individuale: ciò che
Smith teorizza, come conseguenza di questo ragionamento è l’esistenza, per stessa
definizione delle dinamiche del mercato, di un’armonia degli interessi tra i vari individui in
ambito commerciale. La teorizzazione di Smith non è però estesa ai rapporti internazionali
tra gli Stati: si dovrà infatti aspettare l’opera di Richard Cobden, che agli inizi del
Novecento applicherà il pensiero di Smith alle relazioni internazionali, evidenziando come
gli Stati non debbano perseguire un imperialismo monopolistico, che porterebbe
solamente a rapporti conflittuali, ma al contrario favorire la libera competizione in
economia e la diffusione dei commerci. Il pensiero di Cobden, però, già fortemente
conflittuale in quanto il libero mercato era in quel momento un modello economico
funzionale alla Gran Bretagna e dunque la sua opera risultava quasi “servile”, si infrangerà
con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

L’altra corrente del liberalismo classico vede come suo principale esponente Immanuel
Kant. Kant individua tre condizioni fondamentali per l’istituzione di una pace perpetua tra
gli Stati:
 Una costituzione repubblicana, cioè uno Stato governato dal diritto e caratterizzato
da una netta separazione del poteri.
 Un foedus pacificum tra gli Stati repubblicani, cioè la sottoscrizione di un accordo di
non belligeranza tra tutti gli stati di diritto (interpretazioni più cosmopolitiche leggono
in questo punto l’anelito a un governo federale mondiale).
 L’affermazione del diritto cosmopolitico, limitatamente alle condizioni di ospitalità
universale, che include anche la promozione del libero mercato.
La teorizzazione di Kant ruota principalmente attorno all’estensione dei modelli normativi e
istituzionali dello stato di diritto ai rapporti internazionali: la democrazia è il modello
migliore per garantire la pace tra gli Stati poiché rende protagonista di ogni decisione il
popolo, cioè quello stesso gruppo di individui che, nel caso di un conflitto, dovrebbe in

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prima persona pagarne i costi, e che dunque più facilmente lotterà sempre per il
mantenimento della pace.

b. Liberalismo internazionalista

Il liberalismo internazionalista è la prima grande corrente liberale del Novecento, e


si sviluppa principalmente nel Primo Dopoguerra. L’obiettivo è dimostrare l’illusorietà del
fatto che gli Stati possano ottenere benessere interno utilizzando il conflitto militare come
strumento prioritario in politica estera (R.N. Angell-Lane): lo stato raggiunto
dall’interdipendenza economica tra gli Stati è talmente sviluppato che un qualsiasi conflitto
ridurrebbe notevolmente i guadagni degli attori in campo. Il maggior esponente di questa
corrente è senza dubbio Woodrow Wilson, il quale individua alcuni strumenti principali
per il raggiungimento e il mantenimento della pace a livello internazionale: eguaglianza
reciproca delle nazioni, autogoverno dei popoli, riduzione degli armamenti, libero
commercio e creazione di una organizzazione internazionale. Il progetto di Wilson è anche
strettamente legato all’estensione dei principi democratici ai rapporti internazionali, che si
concretizza per esempio nel principio di pubblicità dei trattati internazionali, volto alla
garanzia della piena trasparenza nei rapporti tra i vari attori.

c. Teorie dell’integrazione

Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale segna il fallimento delle teorie liberali e,
di conseguenza, il trionfo del realismo che si afferma come paradigma dominante nelle IR.
La logica della deterrenza sviluppatasi tra Unione Sovietica e Stati Uniti rende
praticamente impossibile lo sviluppo di nuovi paradigmi liberali nel contesto americano, e
dunque la maggiore area di interesse e sviluppo per queste teorie si sposta in Europa,
dove l’inizio del percorso di integrazione europea offre un interessante caso per il pensiero
liberale (J. Monnet, …). Nasce così una scuola di pensiero, che prende il nome di
funzionalismo, che porta alle estreme conseguenze il rafforzamento della cooperazione
interstatale, promuovendo la fondazione graduale di una federazione mondiale che sappia
superare il modello, rivelatosi fallimentare, della Società delle Nazioni. La via principale
per la creazione di solidi legami transnazionali tra gli Stati, secondo questi studiosi (D.
Mitrany, E. Haas) è il potenziamento della cooperazione in ambiti “tecnici”, cioè in quei
settori fondamentali per gli attori coinvolti che sono però estranei dalle logiche politiche,e
dove dunque si presuppone sia più facile cooperare. David Mitrany parla a tal proposito di
ramificazione, intendendo un processo nel quale, proprio a partire da questi legami più
facili da costruire e mantenere poiché stabiliti in ambiti tecnici e de-politicizzati, gli Stati
iniziano tramite la cooperazione a costruire una serie di norme, procedure e strutture che,
in un primo momento pensate come limitate e settoriali, pian piano si espandono limitando
il potere dei governi nazionali e creando centri autorità non concorrenti e de territorializzati.
Ernst Haas, alla guida della corrente neofunzionalista, invece – pur condividendo punti di
partenza e di arrivo del pensiero di Mitrany – preferisce alla ramificazione il processo di
spill-over: la cooperazione da settoriale diventa generale perché uno Stato che si rende
conto di non poter più permettersi di rinunciare a un rapporto cooperativo in un

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determinato settore (per effetto della stretta interdipendenza creatasi) è costretto ad
espandere lo stesso approccio collaborativo in quel settore o in altri contigui. Haas
riconosce anche due fenomeni che possono intervenire nei processi di integrazione:
 La politicizzazione, che è una variabile negativa e dunque rallentante i processi
integrativi, consiste nel fatto che talvolta problemi eminentemente tecnici siano
trattati come politici, e dunque faziosamente, dai vari governi.
 L’esternalizzazione, che è una variabile positiva perché amplia l’area di
cooperazione, si rileva quando uno Stato, oramai abituato a trattare nell’arena
internazionale secondo logiche collaborative, assume atteggiamenti cooperativi
anche di fronte a Stati in quel momento esterni al processo di integrazione, creando
un asse comune in politica estera che può tradursi in una nuova inclusione nell’area
di Paesi reciprocamente integrati.

Un’ulteriore interpretazione delle teorie dell’integrazione è quella fornita da Karl


Deutsch, che concentra i suoi studi non sul percorso dell’integrazione europea, ma
sull’Alleanza Atlantica. La teoria di Deutsch prevede la possibilità che un gruppo di Stati
che si riunisce condividendo (a) valori fondamentali; (b) mutual responsiveness, cioè
mutua lealtà; e (c) aspettative reciproche di cambiamento pacifico, possa andare a
formare quella che egli stesso definisce una comunità di sicurezza, cioè una comunità
che nei rapporti interni tra i suoi membri ha definitivamente superato il dilemma della
sicurezza così come definito da Herz. Nell’analisi di Deutsch il perfetto esempio di questo
gruppo è, appunto, l’Alleanza Atlantica; tuttavia egli considera anche la possibilità che
l’integrazione prosegua e che da una comunità di sicurezza si raggiunga una ancor più
solida comunità amalgamata, ove i legami transazionali tra i vari Stati e soprattutto tra le
relative società sono continui e liberi, e ove si viene a formare un governo unico che
coordina le unità prima totalmente indipendenti. Per quanto il modello di comunità
amalgamata resti più idealtipico che concretamente perseguibile, è innegabile come
l’istituzione che più vi si avvicini in questo momento sia proprio l’Unione Europea.

d. Teoria dell’interdipendenza

La fine della Guerra Fredda crea un nuovo contesto internazionale in cui è


permesso al paradigma liberale di ritrovare il proprio spazio entro il dibattito sullo studio
delle IR. Ritorna così centrale nel pensiero liberale il concetto di interdipendenza, a partire
dall’elaborazione, promossa da John Burton, delle relazioni internazionali come una rete di
comunicazioni tra vari gruppi che travalicano i confini degli Stati spesso
indipendentemente dal volere dei governi. Burton sottolinea anche il concetto di
appartenenza multipla: in un contesto in cui gli individui appartengono a un solo gruppo,
cioè la rispettiva nazione, è più facile che scoppi un conflitto rispetto a una situazione –
come quella contemporanea – in cui ogni individuo appartiene a più gruppi, spesso definiti
anche in chiave transazionale e dunque non limitati a un solo Stato. Il fatto che esistano
moltissimi attori nel sistema internazionale altri rispetto agli Stati, e che questi siano
spesso in reciproci rapporti che possono favorire l’interdipendenza e la cooperazione tra
gli attori statuali è centrale anche nella c.d. teoria dell’interdipendenza complessa (R.

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Keohane, J. Nye): nella condizione attuale le relazioni tra Stati non si limitano a quelle
strettamente intese di rapporti tra governi (o rapporti permessi, concessi e organizzati dai
governi, tutto ciò che ha a che fare con l’alta politica), ma comprendono anche e
soprattutto una miriade di contatti trasversali tra società e livelli più bassi, locali, di
governo. Ciò significa che, per poter mantenere il controllo della propria sovranità, i
governi non possono più occuparsi solamente di alta politica, ma devono piuttosto
concentrare le proprie forze sulla bassa politica, cioè su gli affari economici e sociali. Di
conseguenza è inconcepibile un’azione in politica estera di uno Stato guidata da un solo
interesse nazionale che non è minimamente influenzato dai fattori interni o dalla presenza
di altri attori esterni nell’area circostante: laddove vi è un alto livello di interdipendenza
(cioè trai paesi industrializzati e pluralisti) i governi non possono fare altro che mantenere
reciproci rapporti pacifici e collaborativi, poiché interromperli significherebbe andare contro
i propri interessi.

e. Istituzionalismo neoliberale

L’istituzionalismo neoliberale si sviluppa a partire dalla critica a uno dei punti


fondamentali del paradigma realista, cioè la necessità della presenza di un paese
egemone per la creazione e il mantenimento di un regime internazionale. I realisti, infatti,
ritengono che una determinata istituzione internazionale abbia possibilità di rimanere in
vita fintantoché è associata a una potenza egemone, che la usa per i suoi scopi: quando
questa non è ne ha più bisogno, o ha perso la sua posizione di egemonia, allora anche
l’istituzione decade. Robert Keohane, al contrario, ha teorizzato che la cooperazione può
esistere anche tra attori egoisti che perseguono il proprio interesse (cioè l’idealtipo
dell’attore internazionale per i realisti), a patto che si realizzino alcune modificazioni nelle
relazioni tra questi due attori capaci di mutarne l’incentivo alla cooperazione. Il
ragionamento di Keohane, in altre parole, si sviluppa a partire dal dilemma del prigioniero:
se giocato una volta sola, questo creerà un rapporto tra i due attori così come è descritto
dai realisti, cioè non vi sarà cooperazione ed entrambi punteranno a massimizzare il
proprio guadagno relativo, accettando qualche perdita rispetto al guadagno assoluto ma
sperando di marcare il gap con l’altro. Quando però si offre la possibilità di (a) reiterare il
gioco e (b) aprire alla comunicazione tra i due attori, questi potranno assicurarsi di
perseguire vantaggi maggiori assicurandosi al contempo che il comportamento dell’altro
non sarà per loro svantaggioso. Gli attori, cioè, collaboreranno reciprocamente.

DILEMMA DEL PRIGIONIERO e cooperazione (Keohane)

GIOCO SINGOLO REITERAZIONE DEL GIOCO


Non potendo conoscere il Reiterando il gioco, si apre alla comunicazione tra i
comportamento altrui, ogni attore è due attori, che possono dunque accordarsi su
portato a difendere il proprio quale strategia intraprendere. Sono accessibili
interesse, e cerca di conquistare il maggiori vantaggi, perché ci si assicura che il
minimo vantaggio relativo. comportamento altrui non sarà svantaggioso
Non c’è collaborazione Comportamento collaborativo
REALISMO ISTITUZIONALISMO NEOLIBERALE

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Secondo Keohane, dunque, un regime internazionale, quando è stabilito, produce l’effetto
della reiterazione del gioco nel dilemma del prigioniero, stabilendo canali di negoziazione
tra le parti e fornendo loro un tavolo negoziale continuativo. Di conseguenza, si può
concludere anche che, in virtù di questi benefici fondamentali che sono possibili solo se si
stabiliscono solide istituzioni e norme, un regime internazionale perdura – poiché
effettivamente utile – anche dopo che è venuta a mancare la potenza egemone che ne ha
promosso la creazione. L’amplificazione e il consolidamento di questo meccanismo si ha
con la creazione di istituzioni internazionali, cioè insieme di regole tra loro interconnesse
e persistenti nel tempo, che prescrivono ruoli ai partecipanti vincolandone le azioni e
plasmandone le aspettative. Secondo Keohane, la presenza attiva delle istituzioni
internazionali si manifesta in tre importanti funzioni, esse cioè:
 Offrono opportunità di negoziare alle parti, garantendo loro anche un adeguato
canale per il reciproco scambio di informazioni.
 Rendono più credibili gli impegni presi dalle parti, attraverso una serie di sistemi di
monitoraggio e controllo (ispezioni) che facilitano l’attuazione degli stessi impegni.
 Stabilizzano le aspettative circa il comportamento degli attori, e assicurano
l’efficacia delle norme internazionali.
Inoltre, Keohane individua tre condizioni per la legittimità delle istituzioni multilaterali: (a)
l’inclusività; (b) la capacità di agire decisamente in risposta a gravi minacce; e (c) la c.d.
legittimità epistemica, cioè la capacità di generare e usare informazioni che producano
azione e riducano l’arbitrarietà nelle relazioni internazionali.

Al lavoro di Keohane si aggiunge quello di Andrew Moravcsik, che – partendo dalla


teoria del gioco a due livelli di Robert Putnam – rappresenta lo Stato come un entità
composta da (a) il governo e (b) l’insieme degli attori societari. Questi due livelli sono in
stretta connessione reciproca e ogni governo svolge un ruolo fondamentale di “ponte”,
trovandosi a metà tra i rispettivi attori societari nazionali (politica interna) e gli altri governi
nel contesto internazionale (politica estera). Ciò che vuole evidenziare Moravcsik è
dunque l’impatto domestico dei negoziati tra Stati: nelle relazioni diplomatiche cioè le
parti non devono tenere conto solamente dei rapporti che intrattengono l’una con l’altra,
ma anche di quelli che ognuna intrattiene con i propri attori societari interni.

f. Teoria della pace democratica

Già Immanuel Kant aveva proposto una connessione tra gli stati democratici (“stati
liberali” nell’opera kantiana) e la guerra, sostenendo come le relazioni tra i primi
tendessero a seguire dinamiche pacifiche più che conflittuali. A partire da questa intuizione
si sviluppa uno dei cardini del liberalismo contemporaneo: la teoria della pace
democratica (Doyle, Russett, Ray, …). La legge fondamentale è rappresentata
dall’assunto che “le democrazie non si fanno guerra tra di loro”, ed è sostanzialmente
supportata da una solida evidenza empirica. Sempre a partire da quest’ultima, è possibile
sviluppare una serie di punti a supporto della teoria:
1. Gli Stati democratici, a coppie, non si sono mai fatti guerra tra loro, a patto
ovviamente che per “Stato democratico” si intenda una democrazia moderna.
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2. Gli Stati democratici combattono contro nemici non democratici. Inoltre, in una
guerra contro un tale nemico, gli Stati democratici possono accettare a loro fianco
anche alleati non democratici (nella Guerra del Golfo paesi come Arabia Saudita,
Kuwait, Egitto e Siria erano alleati degli Stati Uniti).
3. Difficilmente le democrazie fanno guerra preventiva.
4. Se una democrazia ha intenzione di muovere guerra contro un'altra democrazia,
non lo fa mai direttamente, ma ricorre a guerre segrete o coperte (Stati Uniti contro
il Cile di Allende).
5. Gli Stati democratici tendono a vincere le guerre in cui entrano.
6. La vittoria di uno Stato democratico contro uno non democratico favorisce
l’instaurazione di un nuovo regime democratico.
7. Esiste una correlazione tra cicli elettorali e guerra: è più probabile una guerra
all’inizio di un ciclo elettorale che alla sua fine.
Pur supportata da numerosi dati empirici, la pace democratica necessità anche di una
spiegazione teorica, che si può trovare in tre possibili punti: a) i governi democratici
rispondono davanti a rispettivi cittadini delle proprie azioni in politica estera: siccome
spetterebbe a loro scendere in campo nel conflitto, i cittadini tendono (sulla base di un
banale calcolo costi/benefici) a preferire la pace [spiegazione istituzionale]; b) nelle
democrazie è presente una complessa struttura di check and balance tra le varie istituzioni
e tra istituzioni e società che rende il processo decisionale estremamente complicato e
lento, soprattutto quando si deve decidere se dichiarare guerra a un altro paese
[spiegazione istituzionale]; c) le democrazie liberali condividono comunemente una serie
di norme e principi, che spaziano dalla garanzia delle libertà fondamentali e dei diritti
umani, alla tutela delle minoranze fino alla risoluzione pacifica delle controversie, che
definiscono una cultura politica incompatibile con una politica estera pesantemente
militarista e conflittuale [spiegazione normativa].

g. Sviluppi più recenti della teoria liberale

Se per il realismo è stata un duro colpo, la fine della Guerra Fredda ha invece
segnato la vittoria del paradigma liberale: la stabilizzazione politica e la pacificazione
erano figlie dell’estensione della democrazia liberale ai paesi ex-sovietici, e della loro
inclusione nelle aree di libero mercato. Ben presto, l’esplodere di più brevi ma anche più
violenti conflitti (Ruanda, Bosnia, Iraq, Somalia, Afghanistan) e lo scoppio della war on
terror hanno di nuovo messo in discussione le teorie liberali, riconcedendo spazio al
paradigma realista. Ancora una volta, ciò che in primo luogo – e senza alcun dubbio – la
fine del bipolarismo novecentesco ha portato è stata la crisi degli Stati, colpiti
dall’aumento, in numero e importanza, degli attori non statuali nel contesto internazionale.

Il primo grande tema riguarda i mutamenti che le democrazie hanno, in molte zone del
mondo subito: se la definizione di democrazia è fondamentale per il pensiero liberale,
essendo imprescindibile per l’applicazione della teoria della pace democratica, è bene
dunque soffermarsi sulla sua evoluzione più recente. Molti studiosi hanno riscontrato a tal
proposito un pericoloso scollamento, tipico dei paesi di nuova democratizzazione, tra i

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meccanismi elettorali e la componente liberale delle democrazie, che ha contribuito a
creare quei regimi che prendono il nome di democrazie illiberali (F. Zakaria). In questi
contesti il vengono a mancare le garanzie di controllo all’azione del governante, e dunque
la tutela dei diritti individuali (di proprietà e di libertà). Una tale riduzione del
costituzionalismo snatura la democrazia e conduce il regime in cui si verifica a una
dittatura della maggioranza, che sovverte le previsioni liberali circa il comportamento in
politica estera di quel paese: la pace democratica si applica soltanto alle liberal-
democrazie propriamente dette. Una seconda minaccia alla tenuta della pace
democratica, in questo caso ancor più subdola della precedente, è l’intervento di élite
illiberali (o comunque avverse al liberalismo kantiano) che prendono il governo in contesti
liberali, senza mutarne le caratteristiche strutturali, ma conducendo la politica estera di
quei paesi con strumenti e propositi illiberali. Si parla, in questo caso, di liberalismo
egemonico (J. Habermas), cioè di un atteggiamento in campo internazionale che, per
quanto perpetrato da democrazie liberali, nega il rispetto del diritto internazionale e
afferma come universali interessi particolari (es: politica estera di G.W. Bush).

Un’ultima evoluzione del pensiero liberale muove dal concetto di foedus pacificum
originariamente proposto da Kant e si concretizza nel multilateralismo, cioè propone la
costruzione della pace attraverso istituzioni multilaterali. Queste non sono altro che forme
di cooperazione internazionale istituzionalizzate, dunque un arena formale che permette la
creazione e il successivo rafforzamento di rapporti pacifici e cooperativi tra gli Stati.
Tuttavia il multilateralismo si espone spesso a un serie di critiche provenienti da più fronti:
in primo luogo le istituzioni internazionali sono – come già evidenziato – spesso criticate
per essere strumenti al servizio delle potenze egemoni, e non effettive arene per condurre
un dialogo multilaterale. L’instaurazione di relazioni di questo genere, anche fitte, continue
e stabili, tra più paesi poi non è in alcun modo considerabile come un dato sufficiente per
garantire la pace in un determinato contesto internazionale. La presenza di organizzazioni
internazionali formali, infine, porta con sé alcune incompatibilità di fondo con il concetto di
sovranità riferito ai singoli Stati, imprescindibile in un contesto internazionale, soprattutto
quando – nel caso delle Nazioni Unite – si prende in considerazione la responsability to
protect, che presuppone l’intervento (pur non necessariamente militare, ma indipendente
dal consenso esplicito del governo coinvolto) negli affari interni di uno Stato nel caso in cui
questo non riesca, o non lo voglia, a garantire l’incolumità dei propri cittadini.

4. La tradizione critica. Le logiche della politica internazionale nelle teorie marxiste

a. Teorie dell’imperialismo

L’opera di Karl Marx non si occupa esplicitamente di relazioni internazionali,


tuttavia essa non può prescindere da un contesto internazionale, poiché muove
dall’assunto che, presto o tardi, il capitalismo è destinato a estendersi a tutto il pianeta (“il
capitale per sua natura deve tendere ad abbattere ogni ostacolo locale che si frappone al
traffico, […] e conquistare la terra intera come suo mercato”). Le teorie marxiste

21
concepiscono la storia umana come segnata dal conflitto, ma rifiutano l’idea prettamente
realista che vede nella distorta ed egoista natura umana l’origine della conflittualità tra gli
attori del sistema internazionale: essa infatti scaturisce dall’assetto dei rapporti sociali di
produzione, assumendo di conseguenza le forme della lotta di classe. Inoltre un altro
grande punto differenzia il pensiero marxista da quello realista: se quest’ultimi infatti
leggono la storia come un percorso regolare, circolare e cioè ricorsivo, per il pensiero
marxista essa invece si sviluppa in modo lineare, teleologico, ed è inevitabilmente
orientata al progresso. Un progresso, però, ben differente da quello teorizzato dai liberali
come un obiettivo raggiungibile tramite la cooperazione tra gli esseri umani e poi gli Stati,
bensì qui espresso tramite una concezione nuovamente violenta, conflittuale: la
condizione finale, indubbiamente pacifica, è perseguibile solo quando le divisioni di classe
saranno scomparse e il modello di produzione capitalistico superato, ma questi obiettivi
non sono raggiungibili, secondo il pensiero marxista classico, soltanto tramite mezzi
pacifici. La prima generazione marxista aveva individuato questo momento (lo
Zusammenbruch, il crollo del capitalismo) nella lunga depressione della seconda metà
dell’Ottocento, tuttavia il superamento della crisi da parte dell’economia mondiale portò
questi studiosi a chiedersi quale fosse l’errore nella loro teorizzazione.

È principalmente la seconda generazione marxista ad occuparsi perciò di quel


fenomeno che prende il nome di imperialismo, e che descrive una propensione a
politiche aggressive e militariste tipica degli Stati Occidentali (e del Giappone) sviluppata
tra l’ultimo quarto del XIX secolo e la Prima Guerra Mondiale. L’imperialismo è definito uno
stadio particolare dello sviluppo capitalistico, e – di conseguenza – anche le guerre che
scoppiano tra paesi imperialisti sono figlie delle stesse caratteristiche strutturali del
capitalismo. Una interessante spiegazione delle dinamiche imperialiste è quella elaborata
agli inizi del Novecento da Rosa Luxemburg: il capitalismo è contrassegnato dalla
tendenza ad espandere la propria base produttiva più rapidamente di quanto non si
estendano le possibilità di un effettivo e concreto consumo dei beni prodotti; questa
intrinseca stortura conduce inevitabilmente a ricorsive crisi di realizzazione del plusvalore,
che in ultima istanza generano conflittualità a livello internazionale. In altre parole,
Luxemburg sostiene che, per sua natura, il capitalismo tende a reinvestire il plusvalore
realizzato per ampliare la propria base produttiva (accumulazione); la realizzazione del
plusvalore però è possibile soltanto tramite la vendita sul mercato, cioè la sua traduzione
in denaro, e se il modello capitalistico è segnato da un ritmo di produzione più veloce
dell’espansione naturale del numero dei consumatori, questo processo è possibile soltanto
andando a realizzare il plusvalore al di fuori del mercato, cioè in aree geografiche non
ancora colonizzate. L’imperialismo, dunque, per Luxemburg è:

L’espressione politica del processo di accumulazione del capitale nella sua lotta di
concorrenza intorno ai residui di ambiente non-capitalistici non ancora posti sotto
sequestro.

In un contesto così descritto, diviene di primaria importanza per la sopravvivenza e


l’espansione del modello capitalistico il ruolo svolto dagli Stati, che disponendo in

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esclusiva della forza militare e coercitiva sono si comportano spesso come strumenti a
servizio del capitale nella sua espansione geografica. D’altro canto, per Luxemburg,
l’imperialismo non è solo massima espressione delle logiche capitalistiche, ma anche di
fatto l’inizio della loro fine: quando tutto il mondo sarà colonizzato, infatti, non vi sarà più
possibilità di accumulazione del plusvalore, e il capitalismo non potrà che crollare su se
stesso. Proprio in questa conclusione si manifesta l’errore di fondo dell’analisi
luxemburghiana, che erroneamente esclude in modo categorico la possibilità, invece
empiricamente riscontrabile, che i consumi della classe lavoratrice e di quella capitalistica
possano crescere proporzionalmente, permettendo al sistema di espandersi al suo
interno, senza ricorrere cioè a mercati esterni.

Parallela all’analisi di Rosa Luxemburg vi è quella condotta, più o meno negli stessi
anni, da Lenin. Egli riconosce, osservando gli effetti prodotti dal processo di
accumulazione sul capitalismo all’inizio del XX secolo, che il modello studiato da Marx si è
evoluto in una sua nuova forma, che chiama capitalismo monopolistico e che descrive
tramite i seguenti elementi:
 La concentrazione della produzione del capitale, che conduce alla formazione di
pochi ma grandi monopoli in tutti i principali settori industriali.
 La crescita delle rilevanza delle banche, una fusione tra capitale economico e
capitale finanziario che ha dato vita a un’oligarchia finanziaria capace di esercitare
controllo sulla politica dei paesi capitalistici.
 La crescita di rilevanze dell’esportazione del capitale, soprattutto in quei paesi non
ancora sviluppati ma già nell’orbita capitalista, che vengono sfruttati poiché
permettono investimenti con basso costo ma grandi guadagni.
 La spartizione del mondo in sfere d’influenza tra le grandi associazioni
monopolistiche, che favorisce la creazione di cartelli mondiali.
 Un inasprimento del conflitto per la spartizione del mondo, che si traduce
definitivamente nello scontro militare.
In conclusione, per Lenin lo Stato in questo contesto ricopre – ancor di più rispetto a
quanto teorizzato da Luxemburg – il ruolo di strumento nelle mani dei grandi poteri
economico-finanziari (cioè le oligarchie finanziarie).

b. Teoria della dipendenza

Tutte le teorie marxiste sull’imperialismo di fatto crollano all’indomani della Seconda


Guerra Mondiale: il capitalismo riparte dopo quella che doveva essere la sua fine e nel
mondo Occidentale i paesi capitalistici entrano in reciproca concorrenza economica senza
però mai sfociare nella competizione politico-militare. La ridefinizione delle teorie marxiste
è dunque svolta in primo luogo da Paul Baran e Paul Sweezy, che descrivono l’economia
monopolistica come dominata dal modello della società per azioni gigante, che opera
sempre con l’obiettivo di massimizzare il profitto su un orizzonte temporale più esteso e
una capacità di calcolo più raffinata rispetto al vecchio capitalista individuale. Tale società
agisce in un contesto monopolistico in cui, per definizione, i costi sono ridotti e i profitti
sono in crescita in termini assoluti e anche relativi (cioè rispetto al tasso di crescita
23
salariale): il sistema tende a favorire la crescita del surplus economico della società, cioè
della differenza tra ciò che la società produce e i costi necessari per la produzione di quei
beni. Tale sempre crescente aumento del surplus, non essendo adeguatamente
compensato da un concreto aumento dei consumi o da una crescita degli investimenti,
ripropone la questione dell’accumulazione, cioè della necessità di reinvestire il plusvalore,
che è risolvibile – secondo Baran e Sweezy – in due diverse modalità:
 Tramite la promozione delle vendite, cioè creando dei bisogni indotti nella società
che spingano gli individui a investire i propri risparmi nel consumo, o
nell’investimento in attività finanziarie, assicurativi e immobiliari.
 Tramite la spesa statale, che può essere civile (ma in questo caso spesso riceve
l’opposizione delle classi dominanti) o più spesso militare, in senso favorevole
all’oligarchia militare. Questa dinamica produce quello che viene definito nuovo
imperialismo, e che è esemplificato dal comportamento degli Stati Uniti a partire
dalla Seconda Guerra Mondiale.

CAPITALE MONOPOLISTICO e “S.p.a. gigante” (Baran, Sweezy)

S.p.a. Gigante
Protagonista del modello a) Promozione delle vendite
capitalista dal secondo Creazione di bisogni indotti presso i
dopoguerra: consumatori
massimizzazione del b) Spesa statale
profitto su orizzonti - Civile (osteggiata
temporali, economici e Necessità di reinvestimento del da classi dominanti);
razionali più ampi rispetto surplus eccedente, tramite: - Militare (sostenuta
al capitalista-individuale. da olig. finanziaria).

Crescita del surplus economico


della società: differenziale tra
produzione e costi di produzione
sempre più ampio. Profitti crescono
più velocemente dei salari.

Baran e Sweezy non approfondiscono la definizione di quello che hanno definito “nuovo
imperialismo”, tuttavia descrivono la gerarchia del paesi capitalistici secondo relazioni di
sfruttamento organizzate tramite una logica piramidale:
 Viene definito “metropoli” l’insieme dei paesi che stanno al vertice della piramide, o
che sono comunque vicini allo stesso.
 I paesi collocati alla base della piramide o in prossimità della stessa prendono
invece il nome di “colonie”.
 I paesi al vertice sono impegnati su due fronti: (a) lo sfruttamento delle relative
colonie, e l’insieme di una metropoli e delle “sue” colonie prende il nome di
“impero”; e (b) la competizione con i propri rivali, cioè gli altri paesi di vertice che
non fanno parte di quello stesso impero.
La competizione qui descritta da Baran e Sweezy non si limita ad essere economica ma
potenzialmente può svilupparsi anche come conflitto militare, tanto che i due studiosi
24
sottolineano come sia imprescindibile per una potenza che vuole conservare la propria
posizione nella gerarchia disporre di un’adeguata forza armata.

L’opera di Baran e Sweezy trova un valido supporto empirico nell’analisi della politica
estera statunitense dalla Seconda Guerra Mondiale in poi: la grande depressione era stata
parzialmente superata tramite l’utilizzo della spesa pubblica verso investimenti “civili” con il
New Deal, che però non aveva potuto espandersi al massimo della sua potenza per
l’opposizione dei gruppi capitalistici; la Seconda Guerra Mondiale ha offerto dunque un
fondamentale volano economico agli Stati Uniti, permettendo l’investimento del surplus
nella spesa militare e il definitivo rilancio del settore economico. L’atteggiamento degli
Stati Uniti nel corso della Guerra Fredda prova invece la seconda parte della teoria di
Baran e Sweezy: i governi americani non hanno mai voluto sfidare direttamente l’Unione
Sovietica, poiché non ne avrebbero tratto alcun vantaggio, ma la sfida consisteva piuttosto
nella difesa e nell’affermazione del proprio impero, cioè nel mantenere entro il sistema
capitalistico a guida Usa gli Stati del blocco occidentale, e nel tentare di sottrarre
dall’influenza sovietica quelli del “Secondo Mondo”.

L’evoluzione del pensiero di Baran e Sweezy è rappresentata dalla teoria della


dipendenza, elaborata da diversi autori (A. Gunder Frank, S. Amin, H. Cardoso, E.
Faletto) convinti, pur con qualche differenza tra l’uno e l’altro, che la condizione di
sottosviluppo dei paesi del Sud del mondo sia in gran parte da attribuirsi allo sfruttamento
esercitato nei secoli dai paesi occidentali, e quindi da quel legame di dipendenza che
determina la subordinazione del Terzo Mondo alle metropoli. Andre Gunder Frank
descrive il capitalismo come un sistema di scambio tendenzialmente mondiale,
contrassegnato dalla persistenza del monopolio e da condizioni di sfruttamento: lo
sviluppo di scambi tra i paesi più arretrati e il mondo occidentale determina per i primi un
meccanismo di dipendenza da cui si originano condizioni di sottosviluppo. Il sottosviluppo
è un prodotto del capitalismo, non una sua stortura: l’espansione coloniale e imperialistica
delle grandi potenze ha determinato una condizione di netta subordinazione economica e
politica per i paesi colonizzati, che sono stati – a loro svantaggio – forzatamente inclusi
entro il mercato capitalistico (di conseguenza il capitalismo “inizia” non con la Rivoluzione
Industriale, ma già prima con la colonizzazione del Nuovo Mondo). In quest’ottica, il
capitalismo è caratterizzato da tre contraddizioni, che segnano la commistione tra
sfruttamento economico e subordinazione politica:
 Il sistema capitalistico è polarizzato in un centro metropolitano e nei rispettivi
satelliti periferici. Sviluppo e sottosviluppo sono dunque strettamente legati e
rappresentano le due facce di un unico processo: lo sviluppo di una metropoli
cresce al crescere dello sfruttamento, e dunque del sottosviluppo, dei suoi satelliti.
 Il surplus economico e sistematicamente espropriato e controllato da parte di una
minoranza: le metropoli – in cima alla scala gerarchica – tendono ad appropriarsi
del surplus prodotto dai rispettivi satelliti, così come il grande latifondista si
appropria del profitto prodotto dal lavoro del contadino.

25
 La struttura metropoli-satellite si presenta continuativamente in tutta la storia dello
sviluppo capitalistico, di conseguenza le contraddizioni che ne derivano sono
imprescindibili entro questo sistema.

c. Teoria del sistema-mondo

I limiti delle analisi neoimperialiste legate alla teoria della dipendenza emersero a
partire dagli anni ’70, quando nuovi autori aggiornarono la teoria marxista. Tra questi,
Immanuel Wallerstein arrivò a sostenere che i rapporti di dipendenza già descritti da
molti studiosi potessero essere concretamente ricostruiti e compresi solo se osservati in
un quadro globale, capace di considerare in una prospettiva di lungo periodo le
trasformazioni economiche e politiche e soprattutto l’espansione del capitalismo
dall’Europa al resto del mondo. Il sistema-mondo descritto da Wallerstein è dunque “un
sistema entro il quale opera una divisione del lavoro comprensiva di un’eterogeneità di
gruppi sociali discriminabili sia verticalmente (culturalmente, eticamente, per nazionalità)
che orizzontalmente (per classi sociali)”. Ogni “mondo”, in altre parole, è un sistema di
divisione del lavoro al suo interno coeso e separato tramite confini più o meno materiali
rispetto all’ambiente esterno. Wallerstein sostiene che tutti i casi storici di sistema-mondo
siano riconducibili a due relazioni tra spazio economico e spazio politico:
 Gli imperi-mondo, dove i confini dello spazio economico coincidono con quelli dello
spazio politico, di conseguenza sono caratterizzati da un economia ridistributiva che
non esternalizza in alcun modo la produzione. Le grandi civiltà del passato (Cina,
Egitto, Roma, …) sono riconducibili a questa relazione.
 Le economie-mondo, dove lo spazio economico travalica i confini dello spazio
politico, e quindi prevale una logica capitalistico-accumulativa. Per poter
sopravvivere le economie-mondo devono garantirsi un costante flusso economico
con l’esterno, stabilendo e rafforzando mercati particolarmente strategici.
Wallerstein individua il momento in cui è iniziato il passaggio da imperi-mondo a
economie-mondo tra il XIV e il XV secolo, contemporaneamente al consolidamento dello
Stato moderno, quando cioè ha preso forza il “capitalismo storico”, ovvero quella forma di
capitalismo che ha come obiettivo l’auto-espansione del surplus realizzato nel processo
produttivo.

Wallerstein, inoltre, condivide con Frank l’idea che si instaurino nelle dinamiche
capitalistiche meccanismi di scambio ineguale tra il centro e le periferie del sistema: il
surplus prodotto nelle periferie tende a spostarsi verso il centro, avvantaggiando dunque le
metropoli. Ciò che aggiunge Wallerstein è che tale polarizzazione, che è un dato di fatto
nelle relazioni internazionali, non è comunque immutabile, nel senso che può cambiare nel
corso dei secoli la sua collocazione geografica, così che i centri e le periferie possono
anche arrivare a scambiare i loro ruoli. A centri e periferie, infine, egli aggiunge una terza
condizione, quella delle semiperiferie, cioè quei raggruppamenti di paesi che si trovano a
uno stato intermedio tra i due poli per aspetti quali la complessità della attività
economiche, la forza dell’apparato statale o l’integrità culturale. La distinzione tra centri e

26
periferie, invece, rimane simile a quella dei suoi predecessori, ed è in ogni modo ribadita
nello schema seguente.

CENTRI e PERIFERIE (Wallerstein)


CENTRO PERIFERIA
Produzione principalmente legata a prodotti Produzione connessa all’estrazione delle
manufatti. materie prime
Prevalenza di lavoro salariato. Prevalenza di lavoro coatto.
Stato forte. Stato debole.
Forte ruolo della borghesia nelle dinamiche Predominio dell’aristocrazia rurale nelle
politiche dinamiche di potere.
SEMIPERIFERIE Paesi posti a uno stato intermedio
AREE ESTERNE Paesi non integrati nella divisione del lavoro

Definiti i ruoli di centri, periferie e semiperiferie, il sistema-mondo di Wallerstein entra in


una concezione prettamente gerarchica delle relazioni internazionali, alla quale è ora
aggiunto il concetto di egemonia. L’egemonia è qui intesa in maniera differente dal suo
significato mainstream nelle IR: essa si ha cioè quando la corrente rivalità tra le grandi
potenze è così sbilanciata che una potenza può massicciamente imporre le sue regole e i
suoi interessi (non necessariamente manu militari, anche tramite potere di voto) in ambito
economico, politico, militare, diplomatico e culturale. Le radici dell’egemonia sono
sostanzialmente economiche – perché la sua base consiste nella capacità delle imprese di
operare alla massima efficienza contemporaneamente nel settore agro-industriale,
commerciale e finanziario -, tuttavia i suoi effetti trascendono il dato economico. Secondo
Wallerstein vi sono state soltanto tre potenze egemoniche nell’era dell’economia-mondo:
le Province Unite olandesi (XVII secolo), il Regno Unito (XIX secolo) e gli Stati Uniti (1945-
67). Per descrivere le dinamiche con cui un’egemonia prima si afferma e poi entra in
declino, lo studioso statunitense ha ideato un ciclo egemonico che si organizza in questo
modo:
1. La condizione di partenza è rappresentata da una situazione di conflitto, in cui si
sviluppa un processo di espansione competitiva delle potenze in lotta tra loro.
2. Il periodo di egemonia vera e propria ha una fase A in cui è possibile conservare un
monopolio di una certa rilevanza; e una fase B in cui le possibilità di conservazione
vengono a mancare e dunque l’egemonia entra in crisi. Spesso la crisi è segnata da
un trasferimento geografico della produzione (cioè dalla fuoriuscita delle
competenze economiche e tecnologiche dai confini dello Stato).
3. Nel momento in cui l’egemonia perde il proprio primato competitivo, si ritorna alla
fase iniziale di conflitto.
Addirittura, per Wallerstein un ciclo egemonico si apre sempre con la conclusione di una
guerra mondiale e si chiude con lo scoppio di una nuova guerra mondiale, tanto è serrata
la lotta tra le potenze per il monopolio della produzione.

Una successiva evoluzione dell’opera di Wallerstein è quella prodotta da Giovanni


Arrighi, che muove la sua analisi a partire dalla convinzione che l’egemonia non nasce
solo da pressioni sistematiche (cioè per le proprietà della struttura, il capitalismo stesso),
ma deriva anche dalla azione e dal profilo dell’agente, cioè della potenza egemone.
27
L’egemonia, in altre parole, prende forma quando si incontrano la domanda e l’offerta
riguardo a un ruolo di supplenza nel governo del mondo. Arrighi elabora dunque quattro
cicli sistemici, che corrispondono ai tipi diversi di istituzioni governative dominanti in un
dato contesto storico:
 Il primo è il ciclo genovese, che corrisponde al modello espresso tra il XIV e il XVI
secolo dalle città-Stato italiane, prime punte avanzate nell’economia capitalistica
mondiale. In questo ciclo vige un modello di accumulazione estensivo, cioè
l’egemone sfrutta i mercati allargando il proprio spazio geografico di influenza. Tutti
i costi interenti il mantenimento dell’egemonia sono però ancora esternalizzati, in
ragione delle limitate dimensioni geografiche della potenza.
 Il secondo è il ciclo olandese: il modello di accumulazione è in questo caso
intensivo, cioè l’egemone sfrutta i mercati consolidando un’espansione geografica
già realizzata in precedenza. Inoltre la potenza olandese inizia a internalizzare i
costi di mantenimento dell’egemonia, potendo solidamente controllare quelli
riguardanti la protezione (cioè il mantenimento delle forze armate); questo perché
l’architettura geografico-istituzionale dello Stato si sta muovendo dalla città-Stato
allo Stato-nazione.
 Il terzo è il ciclo britannico, che prevede un modello di accumulazione estensivo e
un più avanzato processo di internalizzazione dei costi, che in questo caso
comprende tanto la protezione quanto la produzione (prettamente intesa come
agro-industriale, comunque sufficiente a garantire la redditività delle attività
commerciali nazionali), trovandoci in un contesto di Stato-nazione maturo.
 Il quarto è il ciclo statunitense: il modello di accumulazione è nuovamente intensivo,
mentre l’internazionalizzazione ha quasi raggiunto la sua fase massima, dato che
l’egemone è in grado di controllare la protezione, la produzione e anche la
transizione, cioè la gestione dei mercati e dunque la valorizzazione del capitale. Il
modello egemone statunitense si trova nel percorso di transizione dallo Stato-
nazione allo Stato-mondiale, non ancora raggiunto.

Una volta definiti i cicli sistemici e quindi tracciato un percorso delle egemonie lungo la
storia prendendo in considerazione il ruolo e le caratteristiche degli agenti, Arrighi si
occupa di definire la transizione tra un’egemonia e l’altra, andando ad analizzare le
dinamiche che contraddistinguono le crisi egemoniche. Innanzitutto, sono definite due
forme di espansione del capitale, proprie di due distinti momenti del ciclo di accumulazione
dello stesso: (a) l’espansione materiale, dove il capitale è trattato nella forma di merce, ed
è tipica del periodo di crescita dell’egemonia; e (b) l’espansione finanziaria, dove il capitale
è trattato in forma liquida, e questo può essere dovuto a una sovra-accumulazione di
capitale (le imprese non reinvestono il capitale eccedente nei canali tradizionali, perché
esausti, e conservano il denaro in forma liquida) o a un intensa competizione interstatale
per il capitale mobile (comunque dovuta a una diminuzione generale degli introiti), ad ogni
modo l’espansione finanziaria è tipica dei momenti di crisi di un’egemonia. Le crisi, più in
generale, sono segnate dall’emersione di tre processi tra loro correlati: (a)
l’intensificazione della competizione tra Stati e tra imprese (livello esterno); (b) l’aumento
dei conflitti sociali (livello interno); e (c) l’emergere di nuove configurazioni di potere.
28
Perché una crisi egemonica si concluda ordinatamente e non crei una situazione di caos
sistemico, come è definita da Arrighi, è necessario sia che la potenza in crisi riconosca la
propria situazione e accetti delle condizioni di adattamento e conciliazione e sia che
emerga tempestivamente una nuova egemonia pronta a sostituirla. Per evitare il caos, in
altre parole, è necessario un accordo tra la vecchia egemonia, che si fa da parte, e quella
emergente che ne prende il posto, riorganizzando un nuovo sistema o emulando
l’egemonia del predecessore.

Dinamica della TRANSIZIONE EGEMONICA (Arrighi, Silvers)

d. Teorie critiche e neomarxismo dopo il 1989

Dopo il 1989 i paradigma marxista è costretto, come tutti gli altri, a rivedere alcune
delle proprie posizioni, o ad ampliarsi a nuove aree di analisi. Un pensiero interessante, a
tal proposito, è quello che si sviluppa attorno al tema della conoscenza: già in generale la
concezione marxista è caratterizzata per una visione fortemente politicizzata della
conoscenza e anche della conoscenza scientifica, e i contributi successivi (di critica ai
paradigmi illuministi, ma non solo) portati dalla Scuola di Francoforte hanno contribuito a
porre questo tema in posizione centrale nell’analisi critica. Il maggior esponente, in questo
ambito, è Robert Cox, che muove la propria analisi da una critica alla proposta
neorealista di Kenneth Waltz, definita più che una solida teoria in grado di affrontare il
reale un esercizio di problem solving che si limita a presentare i rapporti esistenti (senza
metterli in discussione) e a considerarli come elementi immutabili che limitano l’azione
degli attori. Il cardine del pensiero di Cox è che la conoscenza non può essere neutrale,
perché “la teoria è sempre per qualcuno o per qualcosa”, cioè è da considerarsi entro un
determinato contesto storico, culturale e ideologico, che ne condiziona evidentemente la
produzione. Elaborazioni teoriche come quella di Waltz, per Cox sono più o meno
implicitamente conservatrici, perché nel descriverlo non fanno altro che legittimare l’ordine
29
sociale e politico esistente. Cox successivamente si propone di declinare questo suo
primo assunto sulla definizione gramsciana di “egemonia”, riavvicinando la sua opera a
quella di Arrighi: egli sostiene che l’attività della potenza egemone non si limita soltanto a
un’azione di persuasione esercitata dall’alto al basso, ma a un vero e proprio processo di
costruzione della realtà, di strutturazione delle relazioni sociali. Le stesse categorie
attraverso le quali siamo abituati ad analizzare la realtà, dunque, non sarebbero altro che
prodotto ideologico di una costruzione egemonica che opera per prima plasmare un
determinato ordine nella società mondiale e poi per fare in modo che quello stesso ordine
sia concepito come giusto e naturale. La teoria di Cox ha dalla sua parte un importante
dato empirico, che dimostra come nella seconda metà dell’800 (e più precisamente in Età
Vittoriana), quando la potenza egemone era il Regno Unito, le teorie dominanti in ambito
economico erano quelle del libero commercio, del vantaggio comparato e del gold
standard, tutte applicate con buoni esiti in Gran Bretagna; mentre il Secondo Dopoguerra,
periodo d’oro dell’egemonia americana l’economia è dominata dal neoliberalismo e dalle
teorie a favore della liberalizzazione dei mercati finanziari, modelli di gran successo negli
Stati Uniti.

Uno dei grandi dibattiti interni allo studio delle relazioni internazionali concerne le
condizioni del sistema internazionale all’indomani della caduta dell’egemonia americana,
avviatasi tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70. Nel contesto della globalizzazione
neoliberale gli Stati, pur rimanendo attori fondamentali, iniziano evidentemente a perdere
parte del loro potere a vantaggio di attori non territoriali. Si può dunque ancora parlare di
una potenza egemone statuale? Per rispondere a questa domanda è utile ricorrere alla
formulazione di una nuova forma di sovranità, elaborata da Antonio Negri e Michael Hardt,
che prende il nome di impero. Tale nuovo paradigma di sovranità si caratterizza per
essere “una fabbrica di norme e una produzione di legittimità a lungo termine che
ricoprono l’intero spazio mondiale”, organizzandosi come una struttura sistematica
flessibile e articolata orizzontalmente. L’impero non si limita al disciplinamento del
comportamento degli individui, ma ha verso la società un atteggiamento quasi totalitario,
proponendosi di disciplinare ogni attività del singolo. La nascita dell’impero, che Hardt e
Negri collocano tra la fine della Guerra Fredda e la Guerra del Golfo (1991), non
determina automaticamente il crollo delle sovranità statuali, quanto piuttosto il
trasferimento di una serie di competenze da queste a un livello superiore. La costituzione
imperiale viene descritta come una struttura piramidale, articolata in tre piani:
 Al primo piano si trovano gli Stati Uniti, un numero limitato di Stati nazionali e
alcune associazioni dotate di un effettivo potere globale. Tutti questi attori, pur
definendo complessivamente il vertice della struttura imperiale, sono posti tra loro
su tre livelli gerarchici.
 Al secondo piano si trovano le reti delle corporation capitalistiche transnazionali e la
gran parte degli Stati, che svolgono funzioni molteplici.
 Al terzo piano sono rappresentanti gli interessi popolari, dunque si trovano le Ong
che sono indipendenti sia dagli Stati che dal capitale.
Hardt e Negri comparano, pur metaforicamente, tale struttura alla costituzione mista
concepita da Polibio riguardo alla struttura di governo della Roma antica: (a) gli Stati Uniti,
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e gli altri attori del primo livello rappresentano l’unità monarchica; (b) gli Stati nazionali e le
multinazionali rappresentano l’aristocrazia; e (c) le Ong, i media e gli altri organismi
popolari costituiscono la rappresentanza democratica.

COSTITUZIONE dell’IMPERO (Hardt, Negri)

Unità monarchica
[ma c’è gerarchizzazione interna]
USA
[SN e ass. con
potere globale]

STATI NAZIONE Aristocrazia


MULTINAZIONALI

INTERESSI POPOLARI Rappresentanza democratica


(Ong, mass media, …)

La costituzione imperiale non è dunque una sorta di Stato globale, quanto piuttosto un
equilibrio instabile di corpi sociali operativi a vari livelli e con diverse funzioni. Il comando
imperiale, inoltre, riflette non soltanto l’esistenza di uno spazio globale, ma anche il progilo
delle forze che hanno materialmente realizzato tale unificazione (“la bomba, il denaro e
l’etere”). Secondo Hardt e Negri, come già accennato, il momento in cui si impone il
paradigma imperiale nelle relazioni internazionali è da ritrovarsi nella Guerra del Golfo,
quando cioè gli Stati Uniti intervengono in un conflitto non per tutelare propri interessi
prettamente nazionali, ma per difendere quelli dell’impero.

5. Il costruttivismo. La rivalutazione delle idee nelle relazioni internazionali

L’approccio costruttivista, emerso sostanzialmente negli anni ’90, ha rappresentato


una delle maggiori sfide sul versante ontologico nelle IR: esso rappresenta la svolta
sociologica dello studio delle relazioni internazionali, dove la politica è vista come un
processo di relazioni sociali in cui i fattori ideali hanno la stessa dignità di quelli materiali, e
agenti e struttura sono sullo stesso piano. I costruttivisti si concentrano sulla costruzione
sociale dei significati, e quindi sulla conoscenza e sul processo di formazione della
realtà sociale, mettendo in discussione tutti i concetti chiave delle IR. Precursori “classici”
del costruttivismo sono senza dubbio Émile Durkheim e Max Weber: rispetto al primo è
importante il contributo circa la specificità dei fattori ideali (da trattare al pari della realtà
materiale) e il ruolo delle interazioni sociali nel creare fatti sociali distinti rispetto alle loro
singole componenti. Da Weber invece i costruttivisti traggono l’attenzione per il ruolo dei
processi nelle scienze sociali, che sono concepite come volte all’interpretazione del
significato e del senso che gli attori attribuiscono all’azione sociale. Il sociologo tedesco
parla, a tal proposito di Verstehen, cioè un metodo di comprensione che si svolge in tre

31
passaggi: (a) comprensione diretta dell’azione dal punto di vista dell’attore; (b)
comprensione esplicativa dell’azione in un contesto di pratiche sociali riconosciute dalla
collettività; e (c) oggettivizzazione/reificazione. Più approfonditamente, si distinguono
quattro filoni per quel che concerne le origini filosofiche del paradigma costruttivista:
 Kant e i neokantiani, per ciò che riguarda la consapevolezza che conoscere
significa imporre le forme aprioristiche della nostra mente sulle strutture della natura
e della cultura. È, inoltre, possibile un approccio oggettivo all’ermeneutica anche
attraverso la ricostruzione di processi storici e narrative.
 Heidegger e Wittgenstein, per quel che concerne la centralità del linguaggio
nell’analisi dei fatti sociali: questi infatti si costruiscono attraverso le strutture del
linguaggio e dunque non possono che essere studiati così come sono mediati dallo
stesso. Si parla a tal proposito di svolta linguistica (Searle, …) e si evidenzia una
corrente del costruttivismo che, a partire da una feroce critica al positivismo,
sostiene che esistono fatti oggettivi nel mondo che esistono solo perché la
collettività – cioè noi – crede che esistano (l’intenzionalità collettiva è in grado di
produrre fatti sociali, si pensi al valore del denaro).
 Habermas, e in generale la Scuola di Francoforte, per la promozione della filosofia
del linguaggio e la critica alla strumentalità razionale, con l’obiettivo di promuovere
una teoria sociale dell’azione comunicativa e della democrazia deliberativa.
 Bernstein e Kuhn, per aver rafforzato il pragmatismo, sottolineando il ruolo degli
scienziati nella ricerca, che deve aspirare ma non può essere sempre assimilato, a
modelli di prova deduttiva o di generalizzazione induttiva.
Il costruttivismo nasce in un contesto di forte crisi per i tre paradigmi fondamentali delle IR,
segnato dalla decolonizzazione – che è interpretabile come una sconfitta del modello
normativo occidentale – e, successivamente, dalla fine della Guerra Fredda. I primi segnali
della nascita dell’analisi costruttivista si hanno in una serie di critiche prodotte, nel corso
degli anni ’80, da alcuni studiosi (Ruggie, Ashely) al neorealismo waltziano, che è
accusato di celarsi dietro a una approccio di strutturalismo positivista che, invece di
espandere l’analisi e il discorso politico, si limita a riconoscere l’ordine dato come ordine
naturale (Ashley in questo punto non è lontano da Cox). Per questa ragione, e per un
certo utilitarismo che nega la socialità riducendo le relazioni internazionali a mera
materialità, Ashley bolla il neorealismo come antipolitico. Il costruttivismo si impone allora
come quel paradigma che ritiene centrali, nell’analisi delle relazioni internazionali, la
costruzione sociale della realtà e la reciproca costituzione di agente e struttura; come gli
altri paradigmi, ad ogni modo, presenta delle divisioni interne:
 Il costruttivismo modernista, caratterizzato da un’ermeneutica oggettiva e da un
interesse cognitivo conservatore sia in fase di comprensione che di spiegazione, si
propone di svelare i meccanismi sociali causali e le relazioni sociali costitutive delle
relazioni internazionali.
 Il costruttivismo linguistico (o modernista-linguistico), caratterizzato da
un’ermeneutica soggettiva e un interesse cognitivo conservatore, pone maggiore
attenzione nell’epistemologia e nella comprensione della realtà sociale definita
tramite il linguaggio.

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 Il costruttivismo radicale, caratterizzato da un’ermeneutica soggettiva e un
atteggiamento decostruttivista verso la conoscenza, mette in discussione la
rappresentabilità della realtà sociale, occupandosi di analizzare testi, narrativa e
discorsi con l’obiettivo di comprendere la costruzione della realtà tramite pratiche
discorsive. Da questo punto di vista, si conclude che, non esistendo affermazioni
oggettivamente più valide di altre, è impossibile verificare la validità delle
affermazioni normative ed epistemiche: di conseguenza, la causalità è una chimera.
 Il costruttivismo critico, che si sovrappone in realtà alla teoria critica (Cox,
Linklater), vuole comprendere i meccanismi sui quali si basano gli ordini politici e
sociali per pervenire all’emancipazione della società.

Esiste, ad ogni modo, un’ontologia costruttivista condivisa dai quattro filoni di questo
paradigma, che descrive un mondo composto da strutture e processi intersoggettivamente
e collettivamente dotati di significato. La politica internazionale è un fenomeno sociale e il
mondo è socialmente, e relazionalmente costruito. Di conseguenza l’analisi, nel campo
delle IR, deve soffermarsi su quei processi che producono e riproducono le strutture
sociali che formano le identità e gli interessi degli attori e il significato dei rispettivi contesti
materiali. Non esiste, perciò, né una realtà indipendente, né tantomeno è possibile parlare
di attori indipendenti (o di attori che precedono ontologicamente la realtà): realtà e attori
co-esistono e interagiscono, i secondi si relazionano con l’ambiente culturale in cui sono
immersi e gli conferiscono significato. Oltre ai fatti materiali, esistono poi dei fatti sociali la
cui esistenza è consentita soltanto dal fatto che esiste, internamente alla società, un
accordo più o meno esplicitato riguardo alla loro esistenza, quindi un fatto sociale
cesserebbe di esistere nel momento in cui quell’accordo dovesse cadere. È importante poi
il ruolo di quelle che vengono definite convinzioni collettive, cioè i fondamenti dell’azione
dei vari soggetti, le quali derivano dall’interazione intersoggettiva e vengono
istituzionalizzate ed espresse tramite pratiche. Le pratiche, e in generale tutti gli oggetti
sociali, ricevono un significato dagli attori che le promuovono e utilizzano. Siccome una
stessa pratica, o una stessa azione, può ricevere diversi significati in base al contesto in
cui si trovano gli attori che ci si confrontano, allora è proprio il processo di attribuzione di
significato e di interpretazione delle pratiche sociali il punto centrale dell’analisi politica
costruttivista. L’organizzazione politica internazionale, inoltre, è formata attraverso le idee
condivise dai vari attori, secondo l’interpretazione e il significato che queste hanno
ricevuto. Le idee sono mezzo e motore dell’azione sociale, che è da queste delimitata e
descritta; il loro significato è sempre contestuale, non può essere colto al di fuori del
contesto in cui è espresso. Le idee che formano una data pratica, le conferiscono un
senso e le permettono di esistere, prendono anche il nome di norme costitutive, poiché in
loro assenza quel comportamento non avrebbe né significato né effetto, e dunque sarebbe
impraticabile. Questa è la grande differenza tra il costruttivismo e il materialismo realista e
liberale, dato che per quest’ultimo gli oggetti materiali hanno effetti diretti sugli attori sociali
indipendentemente dalla presenza di quest’ultimi e dal significato che questi vi
attribuiscono. Agente e struttura, dunque, sono reciprocamente costruiti: gli attori sociali
definiscono il significato della struttura, ma questa è in grado di influenzare le capacità
interpretative degli stessi agenti; nelle relazioni internazionali, gli Stati cercano spesso di

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adattare il proprio comportamento alla struttura che definisce il contesto normativo in cui si
trovano, ma possono anche cercare di imporre la loro forza per ridefinire le regole
esistenti. Il costruttivismo presta grande attenzione anche al cambiamento: il processo
che ri-produce e ri-costituisce attori e struttura non è né deterministico né immutabile, cioè
possono avverarsi cambiamenti nei fattori ideali o nelle pratiche sociali che mutano
radicalmente tanto gli attori quanto la struttura. Il cambiamento può avvenire tramite
diversi mezzi: l’apprendimento collettivo, l’evoluzione cognitiva, il cambiamento epistemico
o il ciclo di vita delle norme. Il paradigma costruttivista si occupa anche di ridefinire il
concetto di interessi, adeguandoli al proprio pensiero e definendoli come non soltanto
definiti dalla distribuzione di potere nel sistema internazionale, ma anche dalle idee e dai
contesti culturali nei quali operano gli Stati. Gli interessi non derivano dunque
automaticamente dalle condizioni strutturali del sistema, cioè dall’anarchia, ma seguono
una determinata distribuzione delle idee che si dipana nel contesto internazionale: gli Stati
costituiscono i rispettivi interessi ovviamente in base a ciò che voglio, ma i realisti
aggiungono – ed evidenziano – che ciò che un attore vuole è tale in conseguenza
dell’identità di quell’attore (“vogliamo ciò che vogliamo a causa di come noi ci pensiamo”,
Wendt). Gli interessi sono gli strumenti attraverso i quali noi osserviamo la realtà,
definendo i nostri bisogni; essi si creano però sulla base della percezione complessiva
dell’ordine internazione e del suo ruolo entro questo che ha ogni Stato, e che può
ovviamente cambiare ed evolversi nel tempo. La concezione costruttivista del potere
dunque è fortemente intersoggettiva, e dà grande importanza al ruolo svolto dal
linguaggio: è attraverso questo che la realtà può essere costruita, di conseguenza la
stessa esistenza di dispositivi simbolici che per convenzione danno significato alla realtà
rende fondamentale l’analisi linguistica per la comprensione della realtà istituzionale. Sul
piano metodologico, infine, il costruttivismo si caratterizza per quella che viene definita una
doppia ermeneutica: esistono cioè due momenti interpretativi, il primo posto al livello
dell’azione e il secondo a quello dell’osservazione; gli attori attribuiscono, come già detto,
senso alle loro azioni, ma anche lo studioso nella sua analisi stabilisce i significati delle
pratiche che ha di fronte sulla base di premesse analitiche che sono culturalmente
determinate. Di fronte all’inevitabile dubbio circa la plausibilità di una ricerca condotta da
queste premesse (cioè se essa possa giungere riflettere la realtà o se sia soltanto una
prospettiva del mondo), i costruttivisti concludono sostenendo che una buona ricerca
giunge a interpretazioni logiche ed empiricamente plausibili circa l’oggetto studiato, ma
che ogni affermazione così conseguita sarà sempre contingente e parziale rispetto alla
complessità del reale.

Principali autori e teorie nell’alveo della tradizione costruttivista

a. Teorie circa l’anarchia internazionale

Uno dei principali lavori prodotti dal paradigma costruttivista è lo smantellamento


del concetto cardine, quantomeno per le tradizioni liberale e realista, dell’anarchia
internazionale. Secondo Alexander Wendt, infatti, il fatto che uno Stato in politica estera
debba ricorrere sistematicamente alla politica di potenza o a qualche strategia di self-help

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per garantire la propria sopravvivenza non è dettato da una condizione strutturale e perciò
immutabile del sistema internazionale (cioè dalla stessa anarchia), bensì è dovuto al
comportamento che gli attori, cioè gli Stati, hanno mantenuto in quel determinato contesto.
Ciò significa, in altre parole, che la natura conflittuale delle relazioni internazionali non è
naturalmente data, ma deriva dalle pratiche intraprese dagli attori nei loro reciproci
rapporti. Gli Stati determinano il proprio comportamento in base alle idee che hanno circa
la natura del proprio ruolo e degli altri Stati e sulla base, ovviamente, delle precedenti
relazioni che hanno avuto con quest’ultimi. Ne deriva che ogni paese definisce una propria
cultura politica che, su queste basi, dà significato al potere e contenuto agli interessi: la
cultura politica è il vero aspetto centrale da considerare nell’analisi delle relazioni
internazionali. Wendt descrive dunque tre diverse culture dell’anarchia in riferimento a
tre diverse possibilità di reciproca concezione dei ruoli e dei rapporti tra gli Stati nel
sistema internazionale:
 Cultura hobbesiana, che si basa sulla rappresentazione dell’altro come nemico,
cioè si ha quando un attore non riconosce l’esistenza di un altro come legittima, e
anzi ritiene che questa possa minare la sussistenza della propria. In un contesto di
questo tipo, la violenza è inevitabile, a meno che non vi sia una mancanza di
risorse (cioè gli Stati non possano, fisicamente, farsi la guerra) o non esista un
Leviatano capace di assicurare la sicurezza. Tendenzialmente, in una condizione di
cultura dell’anarchia hobbesiana: (a) gli Stati agiscono come se avessero interessi
revisionisti, e dunque rispetto ai nemici cercano di sconfiggerli e conquistarli; (b) i
processi decisionali sono orientati verso gli scenari peggiori; (c) gli Stati
considerano le capacità militari relative, orientando la propria strategia sulla base
della convinzione che, appena riterrà di poterlo fare, il nemico attaccherà; (d)
quando scoppia un conflitto, non si pongono limiti alla violenza.
 Cultura lockeana, in questo caso la logica hobbesiana del “uccidi o sarai ucciso” è
stata rimpiazzata da quella lockeana del “vivi e lascia vivere”: gli Stati si
percepiscono l’un l’altro come rivali, ovvero riconoscono nei rispettivi rapporti la
sovranità come un diritto inderogabile e dunque uno Stato cerca in politica estera di
avvantaggiarsi sugli altri senza però metterne a rischio l’esistenza. In tale
condizione di cultura anarchica: (a) gli Stati, in relazione alla sovranità, cioè al
contesto geopolitico internazionale, tendono a mantenere lo status quo; (b) nelle
trattative diplomatiche, ogni Stato si occupa soltanto dei propri interessi senza
compararli con quelli altrui, quindi è portato a valutare come massimo profitto il
proprio guadagno assoluto; (c) non ci sono minacce esistenziali, quindi una
condizione di maggiore fiducia generale tende a favorire il crearsi di sistemi di
alleanza; (d) quando scoppia un conflitto, le parti si impegnano a limitare la propria
violenza.
 Cultura kantiana, si tratta dell’eventualità più pacifica nelle relazioni internazionali,
quando cioè gli Stati si percepiscono reciprocamente come amici. Wendt individua
due cardini di questo modello: (a) gli Stati riconoscono il principio di risoluzione
pacifica dei conflitti, quindi sono in grado di evitare in ogni caso il conflitto armato; e
(b) in caso di minaccia alla sicurezza di uno Stato da parte terza, tutti gli altri
interverranno insieme per difenderlo. In quelle aree geografiche dove si afferma
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una cultura dell’anarchia kantiana si sviluppano efficaci sistemi di sicurezza comune
(Nato), per cui tali casi sono assimilabili alle comunità di sicurezza già descritte da
K. Deutsch. Talvolta culture kantiane sono il punto di avvio di un percorso di
creazione di autorità decentralizzate che coordinano i rapporti tra i vari Stati,
finendo anche per divenire forme di governo sovranazionali con ampie competenze
(Unione Europea).
Dunque per Wendt non esiste una logica dell’anarchia che deriva dalla distribuzione del
potere materiale nel sistema internazionale, ma bisogna sempre riferirsi alla natura e
all’identità dei soggetti che lo popolano, nonché alle loro relazioni reciproche e a quelle
idee che determinano il significato del potere in un dato contesto. Questo però non
significa che il sistema non sia anarchico, ma soltanto che l’anarchia – che in Wendt
rimane condizione non eliminabile nelle IR – non è univoca e può essere anzi
diversamente percepita dai vari attori.

Più in avanti si sono spinti altri teorici del costruttivismo, che hanno parlato di
strutture di autorità in grado, alla lunga, di spingere il sistema a superare le proprie
caratteristiche anarchiche. John Ruggie sostiene, per esempio, che nel tempo schemi di
comportamento stabili possono essere a tal punto istituzionalizzati in una collettività da far
sì che vengano concepiti come dotati di autorità. Nel caso delle IR, si è in presenza di
autorità quando le norme del regime internazionali tra i fattori che influenzano le decisioni
nazionali. Si tratta ovviamente di un modello di autorità differente da quello comunemente
concepito nel linguaggio politologico, perché non sono propriamente previsti rapporti di
superordinazione e subordinazione. Ancor più esplicitamente rispetto a Ruggie, Ian Hurd
sostiene che qualunque istituzione eserciti un potere considerato legittimo è in posizione di
autorità: siccome il sistema internazionale comprende diversi attori con potere legittimo,
allora per Hurd non è in alcun modo possibile parlare di anarchia. L’autorità è in questo
caso concepita in termini relazionali: quando gli attori credono che una struttura sia
legittima nell’esercizio del suo potere, essi agiscono (anche implicitamente) in relazione a
questa rafforzandone lo stesso potere.

Dall’opera di Wendt – grazie al lavoro di Emanuel Adler e Michael Barnett è emerso


anche un ulteriore studio costruttivista, legato alla definizione delle c.d. comunità
pluralistiche di sicurezza, sistemi integrati tra Stati al punto da permettere e mantenere
aspettative di sviluppo pacifico dei rapporti interni sulla base di valori fondamentali
compatibili, istituzioni comuni, sensibili, identità e lealtà reciproche (senso del “noi”). In
questo contesto ogni singolo Stato rimane legato ai propri interessi e al proprio potere, ma
questi sono definiti anche dalle relazioni e dalle interazioni che quello Stato intrattiene con
gli altri attori entro la comunità. Adler e Barnett sottolineano inoltre come non è necessaria,
per la formazione di questi sistemi, l’esistenza di un’alleanza formale tra gli Stati che ne
sono membri, ma basta che essi consciamente condividano un set di valori fondamentali e
si adeguino una serie di norme che definiscono la stessa comunità. L’analisi di questi
particolari sistemi è svolta dai due studiosi tramite un sistema a tre livelli, che analizza
nella sua completezza il fenomeno:

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 Al primo livello si trovano le condizioni che incoraggiano gli Stati a coordinarsi
reciprocamente. Tra le altre, possiamo trovare: una minaccia esterna; comuni
sviluppi tecnologici o necessità economiche; il diffondersi di una nuova
interpretazione della realtà sociale; …
 Al secondo livello si trovano i fattori strutturali e il processo che segnano la
formazione delle comunità. I fattori strutturali di base riconosciuti da Adler e Barnett
sono due: il potere, inteso come l’autorità di determinare i significati condivisi della
realtà che costituiscono il comune “senso del noi” che lega reciprocamente i
membri del sistema, e di definire le pratiche degli Stati circa il funzionamento della
stessa comunità (norme di accesso, benefici attesi, …); e la conoscenza, cioè
l’elemento che fornisce agli attori le strutture cognitive da utilizzare nel momento in
cui essi esercitano il potere. Il processo invece può avvenire tramite transazioni,
organizzazioni e istituzioni internazionali o per mezzo dell’apprendimento sociale. A
questo punto è bene segnalare l’importante ruolo conferito alle istituzioni
internazionali nel promuovere la diffusione di determinati significati e nel
trasmettere convinzioni cognitive da una generazione all’altra.
 Al terzo livello si trova la fiducia reciproca, che l’elemento fondamentale per la
formazione di identità collettive. Una comunità in fase matura è in grado di
prendere decisioni comuni (multilateralismo) e di definire comunemente anche le
minacce esterne, cioè di raggiungere un meccanismo di sicurezza collettiva, tramite
ottimi livelli di coordinazione militare e politica. Una comunità matura è capace
anche di sviluppare un mercato comune, e dunque politiche di liberalizzazione circa
la circolazione di merci e persone; e infine di internazionalizzare le autorità interne
creando un sistema di condivisione di norme a livello internazionale che ha ricadute
anche sul piano nazionale.

COMUNITÀ PLURALISTICHE DI SICUREZZA, sistema a tre livelli (Adler, Barnett)

PRIMO LIVELLO SECONDO LIVELLO TERZO LIVELLO


CONDIZIONI POTERE/CONOSCENZA FIDUCIA RECIPROCA

minacce esterne; (a) dare significati condivisi creazione di identità


sviluppo tecnologico; alla realtà sociale; collettive
sviluppo economico; (b) determinare pratiche
interpretazioni della per il funzionamento della
realtà sociale comunità
multilateralismo;
SECONDO LIVELLO sicurezza collettiva;
PROCESSO mercato comune;
autorità centralizzata
transazioni; ist.
Internazionali; appr. sociale

Secondo Adler e Barnett, affinché una comunità riesca a svilupparsi nel modo più
integrato possibile, sono necessarie alcune condizioni, che vengono riscontrate nell’analisi
dell’Alleanza Atlantica: (a) le procedure decisionali sono consensuali e coinvolgono gli
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interessi di tutti i membri; (b) i confini tra gli Stati membri non sono protetti; (c) nessuno dei
membri della comunità viene considerato una minaccia a tal punto da modificare contro di
lui i propri piani militari; (d) le minacce, al contrario, vengono definite in comune; (e) c’è un
vero senso della comunità, anche sul piano discorsivo-linguistico; (f) il livello di
integrazione militare è già elevato, e comunque crescente.

b. Teorie circa i meccanismi del cambiamento

L’altro grande obiettivo del paradigma costruttivista è riuscire a descrive i


meccanismi che possono portare al cambiamento nelle relazioni tra gli attorni interni al
sistema internazionale. Un’importante studio, a tal proposito, prodotto da Martha
Finnemore e Kathryn Sikkink, riguarda l’elaborazione del c.d. ciclo delle norme, un
processo in tre fasi che definisce l’elaborazione, la condivisione e l’interiorizzazione di
standard di comportamento appropriato per attori aventi una data identità:
 Nella prima fase la norma emerge tramite il lavoro di un imprenditore di norme, cioè
un agente che ha un forte senso di ciò che è appropriato o desiderabile per la
comunità e che quindi lavora per richiamare l’attenzione su una questione delicata
e creare la giusta cornice (frame) perché questa sia adeguatamente dibattuta. Una
volta formulata la norma, l’imprenditore ha bisogno di condividerla con gli Stati,
quindi fa uso di una piattaforma organizzativa (un’organizzazione internazionale, o
una Ong, …), che permette alla norma di ottenere ancora maggiore visibilità e
soprattutto di essere condivisibile con i principali attori del sistema internazionale.
 Nella seconda fase avviene l’adozione della norma, che spesso è a cascata tramite
il meccanismo della socializzazione: quando una porzione importante della
comunità internazionale ha adottato una norma, i paesi che non lo hanno ancora
fatto sono indotti ad adeguarsi, cambiando il proprio comportamento, perché le loro
relazioni con gli altri, nei confronti della norma in questione, oscillano tra
l’apprezzamento (che può materialmente tradursi in una serie di incentivi) e la
censura diplomatica (a sua volta, trasformabile in sanzioni). Tendenzialmente non
si arriva a sanzioni materiali, perché uno Stato tende ad adeguarsi per rafforzare la
propria identità come membro a pieno titolo di una società internazionale, cioè c’è
una spinta conformistica che deriva dalla necessità di dimostrare di appartenere a
un gruppo.
 Nella terza fase, quando la norma è stata completamente accettata, inizia il suo
processo di interiorizzazione, fino a diventare scontata e pure naturale per gli Stati
che la rispettano.
Finnemore e Sikkink individuano anche delle condizioni che possono favorire l’adozione di
alcune norme in determinati contesti: (a) Stati le cui èlite sono minacciate internamente,
per semplici ragioni di legittimazione, tendono ad adeguarsi velocemente a nuove norme,
sperando di ottenere così un adeguato riconoscimento internazionale; (b) vale la regola
delle prominenza: se una norma è promossa, ma anche solo adottata, da un gruppo di
grandi potenze, è ben probabile che gli altri Stati vi si adeguino di conseguenza; (c) norme
che si legano senza contraddizioni al quadro normativo già esistente è più facile che
vengano approvate dalla comunità internazionale; (d) all’indomani di un importante
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conflitto, è molto probabile che l’intera comunità internazionale abbandoni le norme della
fazione perdente e adotti quelle proposte dalla vincitrice.

Riguardo all’analisi normativa delle relazioni internazionali, poi, Martha Finnemore ha


anche prodotto un’interessante lavoro circa l’evoluzione delle modalità e degli scopi
dell’intervento militare nei tempi recenti. Finnemore si è chiesta cioè le ragioni che
motivano la graduale riduzione dell’uso della forza armata nelle relazioni internazionali
(fino a qualche secolo fa ritenuto invece la norma, lo strumento standard nel contesto dei
rapporti tra Stati) a cui si è assistito negli ultimi secoli. La spiegazione non si trova in un
cambiamento materiale, ma appunto in uno normativo: gli Stati si sono cioè convinti, fino a
farlo divenire naturale, del fatto che la guerra non è uno strumento accettabile nelle
relazioni internazionali. Alla base di questo vi sono poi altre considerazioni, come
l’aumento della centralità e dell’importanza dei diritti umani, dei principi di intervento
fondamentale e dell’uguaglianza formale tra gli Stati, …

Un meccanismo di cambiamento differente rispetto al ciclo delle norme, proposto da


Alfred Adler, consiste nell’evoluzione cognitiva: idee innovative, secondo questo
paradigma, sopravvivono a un processo di selezione politica e istituzionalizzazione,
divenendo il fondamento di nuove pratiche internazionali e di nuovi interessi nazionali.
Questo processo si compone di tre momenti: (a) l’innovazione, che consiste nella
creazione di nuovi significati e nella loro attribuzione a elementi del reale, quando questi
significati sono condivisi vengono acquisiti nuovi valori e aspettative circa la realtà; (b) la
selezione, che è il processo di concretizzazione dei significati innovativi prodotti nella fase
precedente, questi sono infatti analizzati dai decisori politici che decidono quali
accantonare e quali invece tradurre effettivamente in policy; (c) la diffusione, cioè la fase
durante la quale le politiche innovative vengono condivise a livello internazionale e,
dunque, si propongono come base per la produzione di nuove aspettative e valori. Il
modello elaborato da Adler sottolinea come spesso, dunque, i contenuti trasmessi da
istituzioni e individui nel contesto internazionale – tramite la socializzazione o
l’apprendimento interattivo (cioè strumenti quali il negoziato, la persuasione e la
coercizione) – trasmettono anche concezioni normative circa l’interesse nazionale che
condizionano le varie politiche pubbliche, e non soltanto visioni generali circa le relazioni
tra gli Stati. Adler, infine, ribadisce il fatto che il processo di evoluzione cognitiva non serva
a selezionare, tra le tante possibili, l’idea di più valida e a tradurla in una norma concreta,
esso piuttosto è un percorso alla fine del quale emergono delle norme che non sono però
oggettivamente le migliori, ma semplicemente quelle che hanno ottenuto maggiore
condivisione.

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