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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI GUGLIELMO

MARCONI

FACOLTA’ DI ECONOMIA
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE ECONOMICHE

IL DEBITO PUBBLICO
ITALIANO

RELATORE

PROF. FABRIZIO BOTTI

CANDIDATO

GREGORIO ALFIERI

MATR. ECO02938 L33


SommarioIndice Commented [FB1]: Cambia i titoli dei capitoli nell’indice come
segue (tutto su una riga):
CAPITOLO I: BREVE STORIA DEL DEBITO PUBBLICO
ITALIANO.
INTRODUZIONE............................................................................... 3 Se possibile numera progressivamente anche i paragrafi (1.1., 1.2,
ecc.), in ogni capitolo
CAPITOLO I ...................................................................................... 5
BREVE STORIA DEL DEBITO PUBBLICO ITALIANO .............. 5
Il debito pubblico nei primi anni del Regno d’Italia....................... 5
Gli anni della ripresa economica .................................................... 8
Dalla 1° guerra mondiale all’avvento del fascismo ........................ 9
Il debito italiano nel periodo fascista ............................................ 11
Dal secondo dopoguerra agli anni ‘90 .......................................... 15
Miracolo economico e anni ‘70 .................................................... 16
Gli anni ’80 e l’esplosione del debito ........................................... 21
Gli anni ’90 e l’ingresso dell’ Euro .............................................. 24
Il debito pubblico italiano dopo l’ingresso dell’ Euro .................. 26
CAPITOLO 2 .................................................................................... 31
SITUAZIONE ATTUALE E CONFRONTO CON GLI ALTRI
PAESI .......................................................................................................... 31
Il debito pubblico italiano oggi .................................................... 31
Breve analisi del rapporto debito/pil............................................. 32
I l pericolo di un debito pubblico elevato ................................. 3534
La sostenibilità del debito pubblico italiano ................................. 37
La crisi del debito in Europa ......................................................... 40
Storia di una crisi: la Grecia ......................................................... 45
Germania: un passato di ristrutturazioni ....................................... 50
Riflessioni sulla ristrutturazione tedesca ...................................... 52
Il debito pubblico americano .................................................... 5453
CAPITOLO 3 .................................................................................... 57

1
EFFETTI DEL DEBITO PUBBLICO E POLITICHE RISOLUTIVE
...................................................................................................................... 57
Principali tipologie di effetti ......................................................... 57
Effetti fiscali sulla politica monetaria ........................................... 58
Effetti redistributivi....................................................................... 59
Effetti sugli investimenti e sulla crescita economica .................... 64
Ipotetiche politiche risolutive ....................................................... 67
Politiche di rientro del debito pubblico .................................... 6968
Ipotesi di possibili manovre di aggiustamento ............................. 71
Valutazioni su una ristrutturazione del debito pubblico italiano .. 81
CONCLUSIONI ........................................................................... 8685
BIBLIOGRAFIA E MATERIALE DI RIFERIMENTO ............. 8887
SITOGRAFIA ............................................................................... 9089

2
INTRODUZIONE

A partire dagli anni ’60 più o menola gran parte dei tutti i paesi
sviluppati hanno visto crescere smisuratamente la spesa pubblica.
Quei paesi che hanno registrato una crescita delle imposte non
troppo distante dalla crescita della spesa, hanno oggi dei un debito
pubblicoi contenutoi. Altri, invece, hanno speso velocemente mentre le
imposte crescevano lentamente, da qui i grossi deficit, che cumulati, hanno
prodotto un gran debito pubblico.
La spesa pubblica si divide fra la spesa per lo Stato minimo, e quella
per lo sStato sociale. La prima finanzia l’ordine, la giustizia, la difesa,
funzioni imprescindibili dello Stato. La seconda finanzia prevalentemente la
salute e l’ istruzione.
Premesso ciò, la spesa per lo Stato minimo è rimasta all’ incirca la
stessa nel secondo dopoguerra, mentre è esplosa quella per lo sStato sociale.
Quest’ esplosione è avvenuta in tutti i Paesi europei. Dunque non è
un fenomeno solo italiano.
Il punto è che l’ Italia ha speso più di quanto incassasse per troppo
tempo, e così, a partire dagli anni ’80, il debito pubblico è diventato
l’assoluto protagonista della vita politica ed economica del nostro paese
generando notevoli preoccupazioni tra gli economisti, i politici e le autorità
dell’ Unione Europea e incidendo in maniera notevole sulle azioni dei
governi, succedutisi nel tempo, in relazione alle modalità con cui lo stesso
possa essere ridotto, rappresentando uno dei maggiori ostacoli alla crescita
economica.
In questo trattatoelaborato, formato da tre capitoli, si affronta questo
tema, a partire da un’ osservazione generale a ricostruzione della sulla sua
evoluzione storica per arrivare all’esame della situazione attuale e
concludere con la descrizione di ipotetiche proposte risolutive incentrate sul
superamento di questo difficile momento storico.
Il primo capitolo tratta l’evoluzione della storia del debito pubblico
italiano ed è suddiviso in cinque paragrafi che analizzano l’ evolversi del
debito pubblico dal 1861, ovvero l’anno dell’ unità di Italia, ai giorni nostri.

3
Il secondo capitolo, suddiviso in tre paragrafi, tratta dell’attuale
situazione del debito pubblico in Italia, con riferimento alla sua sostenibilità
e del debito degli altri paesi Europei, quali Grecia e Germania, con uno
sguardo al non meno eclatante rilevante debito americano.
Infine il terzo ed ultimo capitolo prende in considerazione gli effetti
del debito nel breve e lungo termine e cerca di analizzare propose risolutive
e manovre di aggiustamento in grado di risolvere, o comunque favorire una
risoluzione attuale della crisi.

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CAPITOLO I

BREVE STORIA DEL DEBITO PUBBLICO ITALIANO

Il debito pubblico nei primi anni del Regno d’Italia

L’origine del debito pubblico italiano risale all’ epoca dell’


unificazione politica del paese.
Subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia vi fu la necessità di
procedere all’ unificazione degli ordinamenti amministrativi dei vecchi
Stati confluiti nel nuovo Stato.
La prima delle leggi unificatrici in materia finanziaria ad essere
discussa dal Parlamento riguardò l’ istituzione del Gran Libro del debito
pubblico.
Poco dopo l’ istituzione del Gran Libro avvenuta con L. 10 luglio
1861, n.94, si provvide al riconoscimento dei titoli di debito degli Stati che
erano entrati a far parte del nuovo Regno: titoli di cui fu disposta l’
iscrizione nel Gran Libro con L. 4 agosto 1861, n. 174.
In seguito, annesso nel 1866 il Veneto, e venuta nel 1870 Roma a far
parte del Regno d’Italia, con L. 3 settembre 1868, n. 4.580 e L. 29 giugno
1871, n. 339, anche i debiti di questi nuovi territori vennero riconosciuti
come “debito pubblico italiano”. Ciò premesso, non è azzardato affermare
che con l'unificazione si aprì un decennio di fuoco per la finanza pubblica
italiana che, oltre a dover fare i conti con i costi necessari per la creazione
di una struttura unitaria adatta alle esigenze di uno Stato
moderno, si trovò a dover far fronte ai costi di svariati eventi militari.
Tutto questo si tradusse in una vertiginosa ascesa del Debito
Pubblico che, nel giro di dieci anni, passò dal 45 % al 95 % del PIL.
Negli anni 1862-68 vi fu un rilevante disavanzo di cassa dovuto
all'aumento della spesa a fronte di un livello iniziale delle entrate molto
basso, infatti nel 1862 le entrate coprivano solo il 60% delle spese.
La classe dirigente dell'epoca riuscì a rimpinguare le entrate
ricorrendo all'aumento delle imposte. Nel 1864 fu introdotta l'imposta sui
redditi di ricchezza mobile e fu riordinata l'imposta fondiaria. Quattro anni

5
dopo, nel 1868, fu istituita l'imposta sul macinato, nello stesso tempo
vennero inasprite tutte le altre aliquote impositive.
Ma non ci si fermò a questo, per rimpinguare le entrate si ricorse
anche alla vendita di beni demaniali e dell'asse ecclesiastico, alla cessione
alla società Alta Italia delle ferrovie dello Stato, e perfino alla concessione,
nel 1869, della Privativa dei Tabacchi per 15 anni.
In tal modo, tra il 1862 ed il 1868 le entrate aumentarono del 79 %
facendo
scomparire il deficit al netto degli interessi già fin dal 1867.
La copertura della spesa per interessi richiese ancora qualche anno e
fu completata nel 1872.1
Praticamente il riequilibrio di bilancio provenne quasi interamente
dal lato delle entrate se si esclude la cessazione delle uscite per spese
militari a partire dal 1871.
Non si ritenne opportuno apportare consistenti tagli alle spese in
quanto si era assolutamente convinti della necessita e dell'improrogabilità
della realizzazione di nuove opere pubbliche.
Dopo questo primo difficile decennio durante il quale si registrò una
violenta crescita del debito, una progressiva diversificazione delle sue fonti
di finanziamento ma anche una continua attenzione a rimuoverne le cause,
agendo con fermezza dal lato delle entrate tributarie e patrimoniali fino a
raggiungere il pareggio, il debito pubblico dapprima, fino al 1897, aumentò,
anche se in modo contenuto, il suo rapporto con il PIL, poi, nell'età
giolittiana, iniziò a diminuirlo fino a rendere possibile un' operazione di
alleggerimento dei tassi d'interesse.
Fondamentali per la storia finanziaria italiana sono stati comunque
due interventi istituzionali: la fondazione delle Casse di Risparmio Postali
nel 1875 e l'istituzione del Ministero del Tesoro, varata da Agostino
Depretis nel 1877.

1
F. DOMENICANTONIO, Lineamenti dell’ evoluzione del debito pubblico in Italia
(1861-1961), Napoli, 2005.

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Successivamente, nel 1889, venne sancita la separazione dei due
dicasteri, quello delle Finanze e quello del Tesoro, e Giovanni Giolitti fu il
I° vero e proprio Ministro del Tesoro nel 1889.
Il 1880 vide l'abolizione del corso forzoso grazie ad un disegno di
legge formulato dal Ministro Agostino Magliani ed approvato in
Parlamento a stragrande maggioranza.
Ma il risultato di tale manovra non fu quello che si sperava, anche a
causa del peggioramento della congiuntura economica nazionale ed
internazionale che si era evidenziato e che raggiunse il suo culmine negli
anni 1888-93.
Le esportazioni diminuirono, i pagamenti all'estero per il servizio
della rendita si impennarono e l'oro prese a defluire.
Ma ciò che caratterizzò questo periodo fu anche il progressivo
processo di
pubblicizzazione delle ferrovie protrattasi per circa un trentennio.
L'espediente Selliano di disfarsi delle ferrovie a favore dei privati
all'inizio aveva dato risultati positivi ma nel lungo periodo si era dimostrato
inefficace per via delle passività di molti tronchi ferroviari dovuti sia alla
penuria dei traffici sia agli elevati costi di costruzione e di esercizio.
La questione ferroviaria diventò una questione centrale nella vita del
paese anche in termini politici dal momento che con essa entravano in gioco
rilevanti interessi sia stranieri che nazionali.
Nei primi anni del 1880 furono riscattate due reti: le strade ferrate
romane e quelle dell'alta Italia, quasi contemporaneamente, nel giugno del
1879 venne approvata una legge che dava il via alla costruzione di 64
tronchi complementari daealizzarsi tra il 1880 e il 1900, naturalmente con
un impegno di spesa assai consistente.
Per rendere omogenea la regolamentazione relativa alle ferrovie di
tutto il territorio del Regno, nel 1885, con la legge n°3048 del 27/4/1885,
furono acquistati quei pochi impianti fissi che ancora non erano di
proprietà dello Stato e l'esercizio di tutte le ferrovie fu concesso a tre società
private. Tutto ciò costò ben 2.431 milioni di lire.

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Tra il 1905 ed il 1906 si decretò una ulteriore spesa di 910 milioni di
lire da reperirsi con l'emissione di Certificati Ferroviari al 3,50 % per
Commented [FB2]: Quando riporti dei dati, oltre che quando
sistemare l'assetto della rete esistente. riporti contributi trovati tra le tue fonti devi riportare la fonte in nota.

Si stanziarono inoltre più di un miliardo di lire per il pagamento di


indennità alle società private, da reperirsi in vario modo, e 530 milioni per
lo sviluppo dell'esercizio di Stato.
A fronte di queste colossali spese ferroviarie, l'aumento del debito
pubblico causato da altri progetti di spesa dei governi dell'epoca appare di
poco conto, anche se notevole.
A favore del Comune di Roma tra il 1881 ed il 1883 furono votate
spese per 220 milioni per la costruzione di opere pubbliche.
Prestiti furono concessi pure al Comune di Napoli, specie dopo
l'epidemia di colera del 1884.
Inoltre gli anni 1889-92 e l'anno 1896 si chiusero con un disavanzo
che,
aggiungendosi alle forti spese per opere pubbliche e ferroviarie,
generava consistenti disavanzi globali da finanziare in anni certamente non
facili per l'economia italiana, considerata la crisi agraria e bancaria, la
caduta generale dell'economia e la rottura delle relazioni commerciali con la
Francia; tutto ciò spinse il governo a creare nuovi canali di finanziamento e
a riordinare il debito pubblico esistente.

Gli anni della ripresa economica

Il ministro del Tesoro Luigi Luzzati nel 1891 propose di emettere


Buoni del Tesoro a 5 anni da collocarsi alla pari al 4,1/2% di interesse per
evitare l'aumento del debito consolidato.
La proposta fu accettata e questi vennero autorizzati con la legge n°
111 del 7 Aprile 1892.
Nel 1894-95 i tentativi di riordinare il debito emettendo nuovi
consolidati non ebbero molto successo per le persistenti difficoltà di
bilancio. Ma dall'anno successivo le cose iniziarono a cambiare.

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Negli esercizi finanziari 1896-97 e 1911-12 il bilancio dello Stato di
parte corrente fu caratterizzato da saldi attivi; questo fu un periodo di forte
crescita delle attività economiche e delle riforme sociali che portarono ad
un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.
Nel periodo 1898-1907 le spese dello Stato rimasero invariate mentre
le entrate aumentarono dell’8% grazie alla crescita del reddito. Il debito
pubblico, che nel 1897 aveva raggiunto il 120 % del PIL, nel 1913 si era
Commented [FB3]: Come sopra
ridotto all’80 % grazie all’aumento del reddito.
Questo miglioramento del bilancio dello Stato spinse ad attuare una
riforma del sistema tributario ed un alleggerimento del debito pubblico.
Nel 1902 si effettuò l’emissione di un nuovo consolidato del 3,50 %
netto utilizzato per la conversione di obbligazioni ferroviarie redimibili e
buoni del Tesoro a lunga scadenza, dato il successo dell’operazione, negli
anni successivi, vennero effettuate altre operazioni di conversione.
I successi ottenuti a partire dal 1902 portarono il governo a varare, il
29 Giugno 1906,la legge della grande conversione dei consolidati 5% lordo
e 4% netto che coprivano circa il 60% del debito patrimoniale italiano ( 8
miliardi di capitale nominale ). Si trattò di un operazione di cui il governo
andò giustamente orgoglioso, a conclusione della quale il Tesoro aveva
speso poco più di 9,5 milioni di lire, con un risparmio annuo di circa 20,2
milioni.
Negli anni successivi i disavanzi, pur essendoci, furono di ridotte
dimensioni ed inferiori alle spese per interessi.

Dalla 1° guerra mondiale all’avvento del fascismo

A partire dal 1915 e fino al 1924, i disavanzi, assunsero proporzioni


notevoli, dapprima crescenti poi decrescenti, ma comunque di
ragguardevole entità , addirittura nel 1917 le entrate non riuscirono a
coprire neanche il 29 % della spesa pubblica.
Infatti le spese dello Stato iniziarono ad aumentare rapidamente con
lo scoppio della 1^ guerra mondiale e le entrate non riuscivano a coprire il
fabbisogno di spesa. Il costo della guerra venne pagato attraverso le
imposte, il debito pubblico e l’emissione di carta moneta.

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Il sistema tributario in vigore era rimasto quasi totalmente invariato
da quello creato dopo l’unificazione del Paese e ciò andò ad accrescere le
difficoltà della finanza pubblica.
La politica tributaria perciò si focalizzò sull’immediato rendimento
fiscale con un conseguente rialzo immediato delle aliquote delle imposte,
ciononostante nel periodo bellico le entrate tributarie non riuscirono a
coprire i bisogni dello Stato.
Solo nel periodo post bellico le imposte vennero utilizzate per
liquidare finanziariamente la guerra, ma fu comunque necessario ricorrere
all’indebitamento; Il costo della guerra venne pagato con l'accensione di
debiti.
Nel 1914 e nel 1915 furono autorizzati ben tre “prestiti nazionali”
redimibili mentre altri due furono autorizzati nel 1917 e un altro nel 1919,
quest' ultimo volto alla riduzione della circolazione monetaria e al
consolidamento di una parte del debito fluttuante. Per non menzionare i
debiti esteri: il 99 % del debito di guerra era nei confronti della Gran
Bretagna e degli Stati Uniti e a questi debiti si cercò di trovare una
sistemazione con accordi stipulati tra il 1925 e il 1926.
Tra il 1914 ed il 1917 vennero emessi in modo continuativo buoni
ordinari del Tesoro ed inoltre vennero autorizzati cinque prestiti nazionali.
Nel periodo tra gli esercizi finanziari 1914-15 e 1921-22 il debito
pubblico subì un incremento del 429% passando da 15.766 a 92.857
milioni di lire.
La struttura dell’indebitamento subì una notevole trasformazione
infatti i debiti a medio e lungo termine passarono dal 94,1% al 60,9% del
totale.
Il processo inflazionistico che si innescò durante la guerra e che
esplose nel dopoguerra rese infatti poco convenienti i titoli di Stato a lunga
scadenza.
La percentuale del debito fluttuante invece aumentò dal 5,9% al
39,1%. Il debito fluttuante quindi perse la sua funzione originaria di
strumento per fronteggiare a temporanee esigenze di cassa soprattutto a

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causa dei buoni ordinari del Tesoro che aumentarono da 401 milioni nel
1914 a 24,1 miliardi nel 1922.
Tutto ciò non fu ancora sufficiente e l’Italia dovette procedere con il
collocamento di prestiti all’estero emettendo speciali buoni del Tesoro.
Durante la guerra e nel dopoguerra il rapporto debito/PIL si
mantenne su livelli non molto più elevati rispetto a quelli prebellici però, se
si considera anche il debito estero, il rapporto debito/PIL raggiunse il 125%
nel 1920 che rappresentò il valore più elevato nel periodo preso in
considerazione.2
Solo dopo il 1920 si cominciò a registrare una certa risalita (56 %)
ma nel 1923 le entrate coprivano ancora solo il 67 %.

Il debito italiano nel periodo fascista

Quando, nel dicembre 1922, con l'avvento del I° governo fascista,


Alberto De Stefani assunse il ruolo di ministro delle finanze, trovò un
bilancio ancora in deficit dove la condizione del tesoro era alquanto
difficile, visto l'ammontare dei debiti a breve scadenza.
La legge 3 Dicembre 1922 n°1601, che garantiva al governo pieni
poteri in materia tributaria ed amministrativa fino al 31 Dicembre 1923,
agevolò la politica finanziaria del nuovo ministro che, per cercare di porre
rimedio a tale incresciosa situazione, ricorse alla contrazione delle aliquote
di molte imposte nonché all'abolizione di molte fonti di entrata.
Così nel triennio successivo fu attuata una politica che, per limitare
le spese pubbliche, limitava l'intervento dello Stato nell'economia.
Il triennio si concluse nel 1924-25 con un avanzo di bilancio, merito
certamente anche della politica del De Stefani, ma soprattutto del risparmio
realizzato grazie al venir meno delle spese necessarie per la guerra.
Nel 1925 assunse la carica di ministro delle finanze Volpi che
continuò la politica già attuata dal De Stefani, inoltre, nel tentativo di

2
Relazione del Direttore Generale alla commissione parlamentare di vigilanza, Il Debito
Pubblico in Italia 1861-1987, vol. I, Roma, Istituto poligrafico e zecca dello stato, 1988.

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favorire la ripresa degli investimenti stranieri in Italia, inquadrò la politica
del Tesoro verso il consolidamento del debito fluttuante e la sistemazione
dei prestiti esteri di guerra e proseguì un' efficace politica di rivalutazione
della lira.
La svalutazione della moneta aveva reso più onerosa l'importazione
delle materie prime e l'Italia si trovava in grandi difficoltà tanto che nel
mese di Luglio 1926 Mussolini aveva dichiarato che il governo era fermo
nel difendere il valore della moneta e, in una cerimonia all'Altare della
Patria, simbolicamente aveva bruciato il debito pubblico.
Ne conseguì una politica di deflazione e rivalutazione della lira che
colpì in particolar modo le classi più povere in quanto gli stipendi e i salari
furono ridotti di una percentuale oscillante tra il 10 % e il 20 % mentre i
prezzi al minuto rimasaro stabili.
Durante questo periodo l'industria iniziò un processo di
razionalizzazione finalizzato alla contrazione dei costi di produzione,
inoltre furono introdotte nuove misure fiscali cosicché alla fine del 1927 si
registrò un avanzo effettivo che permise a Volpi di affermare che sui
risultati dell'esercizio 1925-26 avevano influito notevolmente la regolazione
dei debiti esteri e le operazioni connesse ad essa, procurando un
alleggerimento del bilancio di 542 milioni di lire.
La rivalutazione monetaria influì in modo particolare sulla
composizione del debito pubblico.
Verso la fine del 1926 i buoni ordinari del Tesoro si mostrarono
particolarmente rischiosi per la pressione sulla Cassa per cui si verificò una
condizione di squilibrio che portò alla definizione del consolidamento del
debito a breve termine tramite l'emissione del “Prestito Littorio” che era un
prestito nazionale consolidato al 5 %.
Di fatto però questo prestito, emesso in un periodo di elevati tassi
d'interesse, portò ad una depressione dei prezzi, sfociando in una mazzata
per i risparmiatori italiani.
La perdita di credibilità fu talmente grande che per dieci anni lo
Stato si trovò costretto a sospendere l'emissione di buoni ordinari del
Tesoro.

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Tra il 1922 ed il 1929 il debito pubblico si ridusse da 92.857 a
87.134 milioni.
Nel 1927 fu costituita la “Cassa per l'ammortamento del debito
pubblico interno” che sostituì il “Consorzio Nazionale per l'ammortamento
del debito pubblico” costituito nel 1866 ad opera di alcuni privati cittadini
angosciati a causa dell'incremento del debito del nuovo Stato Italiano.
Il patrimonio del Consorzio fu trasferito alla nuova Cassa ma essa
non ebbe vita facile: le sue risorse calarono presto e nel 1945 venne abolita,
non essendovi più possibilità di conseguire lo scopo per cui era stata creata.
Negli anni successivi al 1929 vi furono notevoli disavanzi dovuti alla
riduzione delle entrate oltre che all'effettuazione di spese straordinarie ma
gli anni di maggiore depressione furono quelli del 1933-34 che videro una
contrazione delle entrate ed un incremento delle spese tale che il disavanzo
passò da 4.100 milioni a 6.153 milioni.
L'anno successivo, grazie alla ripresa economica ed all'incremento
delle aliquote delle imposte, le entrate aumentarono ma si registrò
comunque un disavanzo di 3.213 milioni derivante dalle spese per
l'imminente guerra in Etiopia.
Nel complesso i disavanzi registrati dal 1929 al 1935 portarono alla
crescita del debito pubblico da 87.134 milioni a 105.710 milioni.
Il rapporto debito/PIL passò dal 58 % del 1929 all' 88 % del 1934
con una crisi che costrinse lo Stato ad un colossale salvataggio industriale e
bancario che andò a costituire, nel 1933, l' IRI che fu un ente pubblico
centrale nell'economia italiana fino al 1992, anno in cui fu liquidato.
Il disavanzo continuò anche negli anni 1935-36 causato
principalmente dalle spese militari e negli anni compresi tra il 1935-36 e il
1939-40 le spese finali superarono le entrate finali di oltre 70 miliardi.
Nell'esercizio 1940-41 la quota delle spese correnti coperte dalle
entrate correnti si ridusse al 37,6 %.
Per fronteggiare tali disavanzi si decise di incrementare la
circolazione e l'emissione di prestiti a breve e lunga scadenza.

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Con l'inizio della guerra in Etiopia le necessità del Tesoro
aumentarono fortemente così, a partire dall'esercizio finanziario 1935-36 si
ricominciò ad emettere buoni ordinari del Tesoro.
Tra il 1936 ed il 1946 si registrarono disavanzi sempre crescenti e
per coprirli lo Stato ricorse a debiti redimibili e a debiti fluttuanti.
Le operazioni di debito redimibile riguardavano principalmente
l'emissione di buoni poliennali del Tesoro mentre i fondi acquisiti attraverso
il debito fluttuante provenivano dalle anticipazioni della Banca d'Italia.
La seconda guerra mondiale costò molto in termini di bilancio
all’Italia.
Le spese di guerra arrivarono a toccare il 40% del PIL in
corrispondenza con l’anno 1943; il governo ricominciò ad emettere titolo di
debito a breve termine e si fece un larghissimo ricorso all’istituti di
emissione.
Tuttavia il rapporto deficit/PIL raggiunse “solamente” il 108 %
ovvero molto meno rispetto al periodo della prima guerra mondiale; ma va
considerato che essendo in questo caso esclusivamente debito interno, si
può rilevare che fu molto più gravoso il finanziamento di questa guerra.
Nel 1943, il 25 luglio cadde il fascismo e l’8 settembre venne firmato
l’armistizio, ma i travagli per il popolo italiano non terminarono in questa
data.
L’Italia rimase divisa in due fino al 1945 in un susseguirsi di lotte
intestine e
occupazioni militari; la lira non fu più sotto controllo ed esplose
l’inflazione, l’ordine monetario infatti fu ristabilito solamente nel 1947.
Il rapporto debito/ PIL che nel 1900 aveva raggiunto il valore
massimo arrivando al 125 % e che successivamente si era ridotto, dapprima
al 96 % grazie all'inflazione e poi negli anni 1925- 26, con l'eliminazione
del debito di guerra, al 63 % , nel 1946 si ridusse al 32 % nonostante le
inevitabili impennate del 1941 e del 1943 che lo avevano portato a quota
rispettivamente 106 % e 118 %.
Successivamente, con la caduta del regime fascista, il rapporto
debito/PIL subì un' importante contrazione.

14
Dal secondo dopoguerra agli anni ‘90

Alla fine della seconda guerra mondiale la situazione del debito


pubblico non destava preoccupazione, infatti a causa della forte
svalutazione della lira, la spesa per interessi era fortemente diminuita ed il
debito aveva subito un sostanziale ammortamento.
La ricostruzione di una nazione distrutta, da un punto di vista morale,
da un punto di vista delle infrastrutture e delle città bombardate, da un
punto di vista della quasi totale perdita di una generazione con quasi
500.000 morti, non fu facile, ma almeno il debito pubblico non fu di
ostacolo.
Infatti, nonostante le ingenti spese, il gran costo economico della
guerra, il debito raggiunse già nel 1946 quello che rispetto al rapporto degli
altri anni è veramente poca roba, ovvero il rapporto debito/PIL si assestava
nel 1946 al 40%; questo dovuto all’elevatezza del livello inflattivo dopo la
caduta del regime.
Dal 1946 al 1967 l’Italia poté godere di un trentennio in cui per la
prima volta e fino ad ora probabilmente unica nella nostra storia nazionale,
la questione del debito pubblico come stock ingente per le finanze statali,
diverrà secondaria.
L’imperativo risultava dunque quello di ripartire, far ripartire
l’industria, dare un indirizzo allo sviluppo industriale di questo Paese.
Quando divenne primo ministro De Gasperi, l’Italia ebbe
definitivamente il suo indirizzo neo-liberista.
Sotto De Gasperi venne costituito il Consiglio Industriale Alta Italia,
vennero prodotti i “piani di primo aiuto” e nel marzo del 1946 si fece una
parziale liberalizzazione del cambio per favorire le esportazioni ma questo
diede vita ancora di più a fattori speculativi e spinte inflazionistiche.
Il biennio 1945-46 fu probabilmente il più duro di tutti, calarono le
razioni in media di 1/3 rispetto ai livelli prebellici e la povertà era un fattore
che toccava grande parte della popolazione.

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Questa situazione spinse De Gasperi a recarsi nel gennaio del 1947
negli Stati Uniti a chiedere un aiuto finanziario che però non portò i risultati
sperati, infatti concluse un prestito di soli 100 milioni di dollari da parte
dell’Import-Export Bank.
Questo viaggio permise di capire però che vi era la volontà di aiuto
del governo americano nei confronti degli Stati europei, a patto
dell’esclusione delle sinistre dai governi;
Nel maggio del 1947 De Gasperi formò il primo governo senza la
presenza della sinistra.
Questo portò il governo degli Stati Uniti il 5 giugno 1947 a
concedere quel piano di appoggio alla ricostruzione europea, ben
conosciuto come “PianoMarshall”.
Questo, era un piano multilaterale di aiuti che durò dal 1948 al 1952,
volto al riequilibrio della bilancia dei pagamenti in un clima di inedita
cooperazione fra gli stati europei. Consisteva in un piano di trasferimento
gratuito di beni da parte degli USA, formulato in base ad una lista di
richieste compilate annualmente dagli Stati europei secondo il loro piano di
sviluppo.
Si occupò di tale piano per l’Italia il direttore del Centro di studi e
piani tecnico economici dell’IRI Pasquale Saraceno.
Questo piano fu attaccato perché non coincideva né con le politiche
keynesiane di sostegno alla domanda e né andava ad intaccare direttamente
la piaga della disoccupazione, ma la filosofia di tale piano era quella di
forzare gli investimenti produttivi nel campo delle infrastrutture e dei beni
capitali in modo da riassestare in un orizzonte duraturo la bilancia dei
pagamenti.

Miracolo economico e anni ‘70

Terminato il piano di aiuti americani nel 1952, l’Italia ebbe tutte le


carte in regola per avere una crescita sostenuta, crescita che, grazie alle
occasioni colte da parte dei governi e degli industriali, effettivamente ci fu.

16
Vi fu in Italia un aumento del reddito che sfiorò il 6% annuo fino al
1963, con addirittura picchi del 6,8% nel 1961.
Questa grande crescita, che permise davvero all’Italia di vivere dal
punto di vista del bilancio anni felici, fu dovuta principalmente alla crescita
industriale e sostenuta da fattori sia interni che legati a contingenze
internazionali.
Dal punto di vista interno fu fondamentale il livello di
disoccupazione in questo periodo: l’offerta di manodopera risultava
eccessiva rispetto alla domanda, e ciò permetteva alle industrie di pescare
facilmente e senza grossi sforzi economici nel mercato del lavoro.
Dal punto di vista delle contingenze internazionali esse risultano
positive sia perché vi è l’inizio di costanti e crescenti scambi con l’estero,
ma rifacendoci a situazioni più specifiche nel 1950-53 vi fu la guerra di
Corea, il cui fabbisogno di metallo ed altre materie lavorate fu un ulteriore
stimolo alla crescita dell’industria pesante italiana, Italia che nel frattempo
aveva costituito la CECA3, mettendo in comune la produzione di queste due
materie prime con gli altri cinque Paesi membri: Francia, Belgio,
Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania occidentale.
Dal punto di vista monetario, sotto il governatore della Banca d’Italia
Menichella, che governò fino al 1960, fu perseguita la già citata “Linea
Einaudi”, ovvero sostegno del cambio, fissato nel 1949 dopo una lieve
svalutazione a 625 lire per dollaro, e controllo delle spinte inflazionistiche
Il bilancio, come detto, in questo periodo fu tutt’altro che un
problema ma, dalla seconda metà degli anni sessanta, esso riprese a
crescere. Questo fu dovuto specialmente al fatto che l’avanzo in conto
corrente degli anni precedenti risultava azzerato e non riusciva più a coprire
il disavanzo dovuto agli investimenti pubblici.
Questo rapido aumento della spesa pubblica, questa fine del periodo
virtuoso dell’Italia dal punto di vista fiscale, è riconducibile in special modo
all’espansione delle spese sociali che vi furono dopo le riforme concesse in
seguito a “l’autunno caldo”, prima fra tutti l’introduzione dello statuto del
lavoro, che in parte non permise più di sfruttare la manodopera a basso

3
Comunità Europea del Carbone e dell’acciaio

17
costo, che aveva permesso un grosso sviluppo dell’industria negli anni
precedenti.
Infatti gli anni '70 rappresentano il primo balzello alla crescita
smisurata del debito, a causa di una crisi economica che colpì l'intera
Europa rallentando la crescita e originando una nuova segmentazione delle
classi sociali, a discapito del tradizionale schema bipolare.

Le proteste del 1968 fecero sì che la situazione conseguente


presentasse costi di produzione eccezionalmente aumentati, a discapito di
una moderata crescita economica, il tutto senza che i governi riuscissero a
reagire agli aumenti salariali, né attraverso una forte espansione degli
investimenti né tramite processi di razionalizzazione. E' di questi anni anche
la nascita delle Regioni, tentativo di riforma degli enti territoriali al fine di
decentrare il potere e alleggerire gli apparati ministeriali.
In questo periodo comunque, la spesa pubblica italiana era ancora al
di sotto della media europea, attestandosi all'incirca al 40% del PIL, ma in
crescita costante e continua da alcuni anni. Ciò si stava verificando in
quanto i governi avevano deciso di abbandonare la politica del bilancio
neutrale la quale favoriva la redistribuzione delle ricchezze fra generazioni,
a favore di una politica basata sui disavanzi di bilancio, e perseguita
attraverso investimenti pubblici e infrastrutture sociali al fine di contrastare
la decrescita economica ma senza realizzare nel contempo una crescita delle
entrate.
Il debito era composto per circa il 37% da titoli a lungo termine,
dalla raccolta postale tramite debiti contratti con la Cassa Depositi e
Prestiti, da impieghi bancari, e in misura minore da titoli a medio termine e
da un esiguo debito estero.
I risparmiatori quali imprese, privati e famiglie sostenevano questo
debito per circa il 30%, oltre agli intermediari finanziari e alla Banca d'Italia
che attenzionavano i titoli a più lungo termine.
Tuttavia la situazione si presentava ambigua in quanto le entrate
tributarie permettevano una copertura inferiore a metà della spesa pubblica
la quale invece era alquanto elevata, intorno al 35% del PIL, inducendo così

18
un forte e costante aumento del debito, in media del 20% all'anno fino a
circa la metà degli anni '80. Inoltre, sempre in questo periodo, il governo
appoggiò alcuni interventi di sostegno economico alle imprese petrolifere in
crisi, di fatto rimettendoci il 2% in quanto lo Stato pagava sul debito un
tasso di interesse compreso tra il 6 e il 7% e prestava il denaro con un tasso
del 4%.
Tale situazione però al tempo era vista come sostenibile, al confronto
con gli altri paesi europei i quali presentavano percentuali analoghe, ed era
altresì sostenuta tramite la creazione di nuova base monetaria per una
rilevante quota.
Oltretutto, essendo il debito fortemente nazionalizzato, in quanto
detenuto per oltre il 90% da soggetti residenti in Italia ed avendo il governo
ampi poteri in termini di politica monetaria, fino al 1972 il crescente peso
del debito solo da pochi era visto come un problema.
Tra il 1971 ed il 1972 la decisione del presidente Nixon di
sospendere gli accordi di Bretton Woods, che disciplinavano la conversione
del dollaro in oro, ebbe come effetto l'aumento dell'inflazione nei paesi
europei. La conseguenza fu una notevole propensione al risparmio da parte
delle famiglie le quali investivano i risparmi in titoli pubblici e le necessità
di copertura dei costi delle spese e dell'inflazione spinsero il debito oltre la
soglia del 50% del PIL.
Per l'Italia inoltre, la spesa pubblica si stava rivelando un grosso
problema perché il totale delle entrate non era assolutamente sufficiente a
coprire le spese correnti generando un deficit annuale compreso tra il 2 e il
4% che ben presto diventò strutturale.
Una riforma fiscale diventava quindi non più rimandabile e fu fatta
nel 1973-74 e fu la riforma che introdusse l’imposta sul reddito delle
persone fisiche (IRPEF), l’imposta sul reddito delle persone giuridiche
(IRPEG), l’imposta locale sui redditi (ILOR), l’imposta sull’incremento del
valori degli immobili (INVIM) ed infine l’imposta sul valore aggiunto
(IVA).
Questa riforma fiscale però non diede gli esiti desiderati almeno fino
al 1976, per colpa dell’annata molto negativa che risulta essere il 1975, ma

19
anche dopo riuscì solamente ad evitare una crescita di disavanzo senza
sanare i reali problemi di bilancio. Per ben due volte l'Italia, nel corso di
questo decennio, ricorse a prestiti concessi dal Fondo Monetario
Internazionale, nel 1974 e nel 1978.
Nel 1975 il debito avvicina il 60% del PIL e con ciò aumentano
anche gli interessi su di esso. Inoltre sempre più si ricorre al finanziamento
della spesa pubblica con il debito da contrarre (deficit spending).
L'uso del deficit spending fu originato dalla scelta politica del
cosiddetto “compromesso storico”, in cui l'alleanza al governo tra Dc e Pci
produsse un accordo basato sul contenimento dei costi del lavoro in cambio
dell'aumento degli investimenti pubblici, per l'appunto finanziati tramite
ricorso al debito.
Nel 1978 venne introdotta, tramite la legge 468/78 la cosiddetta
legge finanziaria (sostituita a partire dal 2009 dalla legge di stabilità, la
legge finanziaria emanata con cadenza annuale, determinava le spese che il
governo avrebbe dovuto affrontare nell'anno seguente, in una sorta di
bilancio preventivo, le quali poi dovevano essere di conseguenza votate ed
approvate seguendo l'iter legislativo. Tale fattispecie di legge nacque con
l'intento di garantire un maggior controllo parlamentare alle spese sostenute
dal governo4 la quale prevedeva come i progetti del governo debbano
anticipare la spesa da sostenersi per gli anni seguenti relativamente ad ogni
specifico impegno descritto e stabilito con la successiva votazione da parte
delle camere.
La legge finanziaria ben presto però ha finito per essere utilizzata in
maniera distorta, in quanto i fondi residui che si formavano alla chiusura
del bilancio, e già destinati ad uno specifico impegno derivante dagli anni
precedenti, venivano utilizzati per finanziare altri impegni di spesa, in
questo modo andando a configurare quote di spesa di anno in anno sempre
maggiori. Tutto ciò ha comportato una conseguente crescita del debito
tramite il ricorso a prestiti e alla vendita di titoli.
La fine degli anni '70 ha visto inoltre l'affermarsi delle famiglie
risparmiatrici sul mercato finanziario.

4
T. GAYER, H.S. ROSEN, Scienza delle Finanze, Milano, McGraw-Hill, 2010, p.21.

20
I cambiamenti sociali comportarono l'aumento della capacità di
spesa per le famiglie che con sempre maggior frequenza optarono per
l'investimento in titoli di Stato.
I BOT, titoli a breve termine, risultavano appetibili dati gli elevati
tassi di interesse e la durata relativamente breve.
La preferenza per i BOT rispetto ai titoli a lungo termine, ha finito
per contribuire alla problematica del debito pubblico, in quanto lo Stato si è
trovato a dover restituire con elevati costi, derivanti dall'alto tasso di
interesse, il debito contratto, senza avere il respiro fornito dalle scadenze a
lungo termine e, di fatto, contraendo prestiti al fine di restituire i prestiti in
scadenza.
Il decennio successivo (anni '80), vede il debito pubblico salire dal
60% fino al 100%.

Gli anni ’80 e l’esplosione del debito

Dalla fine degli anni settanta in poi, probabilmente per una serie di
concause e non per l’ultimo per colpa di una a dir poco disattenta gestione
finanziaria da parte della nostra classe politica, si è verificata una vera e
propria esplosione del debito pubblico.
Questi sono gli anni in cui si viene a formare quello stock di debito
che ancora oggi è causa di grosse preoccupazioni da parte di chi ci governa,
e che probabilmente ancora a lungo intaccherà i pensieri e la scelte dei
nostri governi.
Gli anni successivi al 1975 furono caratterizzati da un saldo delle
spese correnti sempre negativo che unito al disavanzo, portò all’alba degli
anni ottanta l’Italia ad un rapporto deficit/PIL del 65 % ovvero quasi il 20%
in più rispetto al 1975 e quasi il doppio se si guardano gli anni a cavallo con
il 1970.
Gli anni '80 furono anni assai travagliati a livello politico, con una
successione di governi al potere con cadenza quasi annuale, con effetti
diretti ed indiretti sulla politica di gestione del debito in quanto spesso i
programmi politici erano concentrati su altri aspetti più urgenti, trascurando

21
la continua crescita dell'esposizione debitoria ed anzi sfruttando la
situazione al fine di ottenere consensi.
Notevole rilevanza rivestirono in questo periodo due decisioni
riguardanti la politica monetaria: la prima fu quella di entrare nello SME5
nel 1979, consistente praticamente in un accordo per il mantenimento di
una parità di cambio prefissata che poteva oscillare tra il ± 2,25%,
parametro che però per Italia, Spagna, Gran Bretagna e Portogallo risultava
più elastico ovvero del ±6%, la seconda fu quella che sancì la separazione
del Tesoro dalla Banca d’Italia nel 1981 grazie alla quale la banca centrale
divenne autonoma dalla politica a seguito della cancellazione dell’obbligo
di acquisto del debito, ovvero venne meno il finanziamento automatico del
debito da parte della banca centrale.
Queste furono scelte che contribuirono all’aumento del deficit
pubblico infatti con la difesa della lira vi fu un’impennata dei tassi di
interesse che a questo punto superarono la pur alta inflazione, e così i tassi
reali altamente positivi andarono a contribuire in modo più pesante al
deficit pubblico con il servizio del debito.
Inoltre la politica restrittiva praticata dalla Banca d'Italia peggiorò le
condizioni economiche dello Stato, già provato dalla crisi economica
dettata anche dall'aumento dei prezzi del petrolio e dal contrasto politico in
atto tra i principali partiti.
Nel tentativo di risollevare la situazione debitoria il governo si pose
come obiettivo un maggior controllo sulla gestione dei centri di spesa, e, nel
tentativo di rendere più.
appetibile il debito optò per un ulteriore rialzo dei tassi di interesse a
fronte di un allungamento delle scadenze al fine di rendere il debito più
sostenibile.
Il peso degli interessi sul debito iniziò a farsi sempre più gravoso,
andando ad influire per circa il 24% della spesa pubblica nel 1984.
L'effetto maggiore sulla crescita della spesa pubblica e di
conseguenza del debito, nella seconda metà degli anni '80, fu dovuto al peso

5
G. TULLIO, s.v. “Sistema Monetario Europeo”, in Enciclopedia Italiana Treccani, V
appendice, Roma, 1994.

22
degli interessi, sempre più rilevanti. Così il servizio del debito diventò il
primo fattore di creazione di debito pubblico in Italia; infatti il disavanzo
primario se pur notevole rimase praticamente costante in tutti gli anni
ottanta all’incirca sull’8%, lo stesso abbassamento dell’inflazione non aiutò
il livello dei tassi reali, e il servizio del debito raggiunse a fine decennio il
10% del PIL dal 5% iniziale.
In questo periodo i BOT videro una notevole crescita di popolarità
tra i privati, grazie ad alcune peculiari caratteristiche: erano titoli del tutto
assenti da rischio i quali garantivano rendimenti elevati, intorno al 10% a
breve termine, esentasse ed oltretutto anonimi.
Questi titoli ad elevato rendimento costituivano altresì un forte
strumento di consenso, grazie al trasferimento di ricchezza dallo Stato ai
cittadini che originavano e del quale i governi fecero uso per attirare i
risparmiatori al sostegno del debito pubblico.
Ma lo Stato per ripagare gli interessi agli investitori doveva ricorrere
ad ulteriore indebitamento, alimentando un circolo vizioso assai complicato
da bloccare.
L'esito di tale politica del consenso finì per generare un
indebitamento netto di circa l'11% per tutto il decennio.
Nel 1986 la situazione sembrò tendere verso un miglioramento
congiunturale grazie al miglioramento dell'economia ed al contenimento
dell'inflazione ma la crescita del PIL non venne sfruttata per contenere il
debito pubblico a causa di una spesa corrente di pessima qualità e di un
sistema fiscale inaccettabile che permetteva con grande facilità fenomeni di
evasione fiscale.
Nel susseguirsi di governi della seconda metà del decennio si cercò
di riprendere il controllo della situazione procedendo ad una ristrutturazione
dei titoli di Stato, nel tentativo di allungare la vita media del debito e di
riequilibrare i tassi di interesse, e ricorrendo ai mercati internazionali.
Sul finire degli anni '80 la situazione ebbe un lieve miglioramento,
grazie al contenimento dei costi e all'allungamento delle scadenze. Di
contro vi fu un progressivo allontanamento delle famiglie dal debito,
diminuendo le sottoscrizioni di titoli di Stato.

23
Gli anni ’90 e l’ingresso dell’ Euro

All'inizio degli anni '90 il debito era contenuto per il 90% all'interno
dei confini nazionali e questo ne permise il sostenimento nonostante la
discutibilità di alcune riforme di spesa.
Con il passare del tempo, l’allarme sul debito pubblico crebbe, nel
1991 il rapporto debito/PIL superò il 98% e fu calcolato che su ogni singolo
italiano pesava un debito di 23 milioni di lire; nel frattempo, per via della
crescente perdita di fiducia della popolazione nel sistema, ci fu un’ancora
più ampia voragine nel fisco, dovuta all’evasione.
Il 17 febbraio del 1992 scoppia tangentopoli, ministri, deputati,
senatori, imprenditori e persino ex Presidenti del Consiglio sono indagati e
molti condannati, per i reati più vari, corruzione, concussione,
finanziamento illecito di partiti ecc.
L’Italia nel 1992 firma il trattato di Maastricht, è scossa da
tangentopoli, sulla scena compaiono nuovi partiti, la “Prima Repubblica”
sta volgendo al termine.
Lo scandalo di tangentopoli destabilizza in modo definitivo la
situazione politica italiana dando origine ad una crisi istituzionale profonda
e provocando il crollo della valuta nazionale, crollo che comportò una
svalutazione pilotata della moneta e l'uscita dallo SME.
Ovviamente tale insieme di situazioni influì ancora più
negativamente sul debito pubblico il quale crebbe fino a raggiungere il
120% nel 1992, con una quota di interessi sul debito pari al 47% della spesa
pubblica.
Nel periodo che va dal 1992 al 1994 si susseguirono governi tecnici
e il debito pubblico salì ancora fino a raggiungere il picco del quasi 122%
del 1994.
In questa situazione di crisi al contempo politica ed economica
risultò difficile tagliare le spese sociali, anche se furono chiesti sacrifici a
partire dal 1992, ad esempio Amato, Presidente del Consiglio di un governo
tecnico, a partire dal giugno del 1992, riuscì a convincere i sindacati a
rinunciare alla “scala mobile”.

24
Il governo tecnico istituito da Amato pose tra i primi obiettivi la
riduzione del debito, ma la dura manovra finanziaria che ne seguì, con
grossi tagli riguardo pensioni e sanità, non ebbe l'effetto sperato in quanto i
tassi di interesse continuavano a rimanere elevati al fine di rimanere
competitivi sul mercato.
Nel corso del 1993, con il governo Ciampi, l'orientamento prevalente
riguardò le imponenti privatizzazioni che da tempo erano richieste sia
dall'opinione pubblica sia dalla comunità europea, nel rispetto dei trattati
vigenti.6
Fu così costituito un fondo di ammortamento titoli nel quale
confluirono i proventi derivanti dalle dismissioni statali con il risultato di
permettere una estinzione del debito con una media dello 0,64%, assai più
bassa di quanto ci si era immaginato. Di contro, una buona congiuntura sui
mercati permise una notevole riduzione del tasso di interesse contribuendo
ad un notevole calo della spesa con effetti positivi sia sul deficit sia sul
debito.
Il governo Dini, nel 1995, per affrontare il tema pensionistico pose il
problema del debito pubblico in secondo piano. Questo contribuì ad un
aumento della spesa pubblica anche a causa del rialzo degli interessi per
BOT e CCT , ma la riduzione del deficit, in discesa costante fino al 1999,
permise un periodo di riduzione del rapporto debito/PIL.
Prodi, nel 1996, essendo lui uno tra i promotori del Trattato di
Maastricht e dell'Unione Europea, mise in atto operazioni consone
all'avvicinarsi dell'entrata in vigore dei vincoli sui parametri di bilancio.
Fondamentale in questi anni per riuscire ad adottare l’euro fu la maxi
finanziaria ideata da Prodi e dal suo ministro del Tesoro Ciampi, che varata
nel settembre del 1997, incluse al suo interno anche l’eurotassa, e alzò di
due punti la pressione fiscale italiana rispetto al PIL.

6
Il Trattato di Maastricht, firmato l'anno precedente al fine di gettare le basi per la futura
Unione Europea, al suo interno prevedeva vincoli di natura economica e monetaria da rispettare da
parte degli Stati aderenti tra i quali l'Italia. Tra questi, i più importanti consistevano nel limite
massimo di deficit annuale da contenersi entro il 3% del Pil, mentre il rapporto debito/Pil aveva un
limite del 60%.

25
Questa mossa permise il rientro due mesi dopo all’interno dello SME
e l’avvicinamento al 3% annuo di debito che sembrava oramai a portata di
mano. Il lustro che va dal 1996 al 2001 mostra una piccola inversione di
tendenza, presentando tassi di sviluppo di nuovo accettabili e la forte
riduzione dei tassi d’interesse dovuti sia alla politica degli Stati Uniti, sia
alla nostra adesione al trattato di Maastricht.
Tutto ciò portò a una riduzione del rapporto debito/PIL che risulterà
del 109% e che scenderà ancora fino al 2004.
La discesa dei tassi di interesse tra gli Stati Europei diede luogo ad
una riduzione del tasso anche in Italia, favorendo un contesto positivo alla
collocazione di titoli a lungo termine e con tasso fisso, molto apprezzati
dagli acquirenti esterni e con il vantaggio di permettere l'allungamento del
debito.
Il debito stava lentamente calando, trovandosi al 118% del PIL, con
una spesa pubblica pari a circa il 51,5% del PIL e, per la prima volta, il
quantitativo di stock debitorio in mano straniere oltrepassava la soglia del
20%.
Nel 1998, il governo D'Alema operò per una riduzione dei costi.
Questo fu l'anno delle imponenti opere di privatizzazione delle imprese
pubbliche, soprattutto con riguardo ai settori dell'energia e dei trasporti, e,
grazie anche alla grande diffusione della Borsa, il rapporto debito/PIL calò
fino al 115,7%.

Il debito pubblico italiano dopo l’ingresso dnell’ Euro

Il nuovo millennio si apre con un peggioramento delle condizioni, sia


per quanto riguarda il disavanzo che l'indebitamento, di nuovo in crescita,
determinato dalle minori entrate e dalla maggiore spesa.
L’euro entra in vigore per la prima volta il primo gennaio del 1999
per tutte le forme di pagamento non fisiche, successivamente entrerà in
circolazione sotto forma di monete e banconote il primo gennaio 2002, in
Italia e in altri 11 Paesi europei. Attraverso l’adozione dell’Euro e con
l’adozione del D.Lgs 10 marzo 1998, la Banca d’Italia viene sottratta alla

26
dipendenza del governo italiano entrando a far parte del sistema europeo
delle banche centrali e da questo momento la quantità di moneta circolante
verrà decisa direttamente dalla Banca Centrale Europea.
Dopo l'introduzione della moneta unica, che ha comportato una
stabilizzazione del tasso di inflazione ed una notevole riduzione dei tassi di
interesse, i cambiamenti più significativi sono riconducibili alla
composizione dei soggetti detentori dei titoli, con una sempre maggiore
propensione dei soggetti esterni, quali Germania, Francia, Gran Bretagna,
Cina, Stati Uniti e da ultimi gli stati mediorientali, al possesso di debito
italiano.
Fino al 2008 il rapporto debito/PIL si mantiene intorno al 103-107%.
Nel 2008 la crisi economica mondiale e le politiche attuate dai governi per
uscire dalla recessione, contribuiscono alla nuova esplosione del debito,
tanto da far temere per la sua sostenibilità.
Il culmine della crisi lo si raggiunge con il fallimento di una delle più
importanti banche d'affari mondiali: l'americana “Lehman Brothers”.
Per la prima volta nella storia i vari governi dei paesi più potenti al
mondo collaborano per combattere questa crisi.
Le maggiori economie mondiali riportano pesantissime riduzioni del
PIL, tutte superiori al 3%. Le peggiori sono il Giappone e l'Italia con una
contrazione del reddito pari al 5,5%.
In Italia, a dover fronteggiare questa situazione di grave depressione
vi è il governo Berlusconi il cui esecutivo si trova a dover intraprendere una
serie di manovre atte ad aggirare la crisi, riordinare i conti statali e tornare
sui mercati finanziari con una maggiore credibilità. Tra i vari provvedimenti
che vengono presi, l'istituzione dell'Imposta Municipale Unica,
l'innalzamento dell'IVA e delle accise e tagli alla spesa pubblica.
L'ondata di crisi e le dure manovre avviate portano ad un
generalizzato impoverimento sia dei cittadini che delle imprese. Ad
aggravare la situazione c'è l'occupazione. Il mercato del lavoro non riesce a
dare spazio a nuovi posti di lavoro e il tasso di disoccupazione aumenta.

27
Il governo Berlusconi cerca da una parte di aiutare le famiglie ma
dall'altra, per ridurre il deficit è costretto a far lievitare le imposizioni
fiscali.
Sul fronte dell' aiuto ai nuclei familiari vengono introdotti: bonus
famiglia, la social card, incentivi e sgravi fiscali; sul fronte, invece, del
riordino dei conti pubblici ricordiamo la manovra correttiva del 2010 con
cui si vuole ridurre il disavanzo dal 5 al 2,7% entro il 2012.
Nel 2011 il governo è costretto a compiere una serie di tagli alle
uscite nella sanità e ad alzare nuovamente la pressione fiscale.
Ma l'onda lunga della crisi globale dei mercati finanziari non si
arresta e mescolandosi ad altri gravi problemi sviluppa una tragica
congiuntura economica.
Nel 2011 infatti molti paesi dell'Unione Europea, a causa dell'elevato
indebitamento, cominciano ad essere oggetto di attacchi speculativi senza
precedenti. Ad essere colpiti sono principalmente l'Italia, la Grecia, la
Spagna ,il Portogallo e l'Irlanda.
La prima scintilla scoppia in Grecia dove il debito sfora il 140% del
PIL e il disavanzo supera il 12%. L'Eurozona è in pericolo.
Solo grazie all'intervento del FMI e della BCE si riesce ad evitare il
peggio.
La preoccupazione aumenta anche in Italia: si comincia a parlare di
spread.
Il governo Berlusconi perde credibilità. E' l'inizio della calda estate
del 2011 che porta una nuova instabilità sui mercati finanziari.
In autunno la situazione diventa insostenibile ed il Premier è
costretto a dimettersi. Mario Monti riceve l'incarico di comporre un
governo per far fronte alla crisi e riportare stabilità e credibilità sui mercati.
Lo spread tra Btp e Bund tedeschi ha raggiunto livelli insostenibili.
Per ristabilire l'ordine Monti dà inizio ad un nuovo periodo di dure
riforme.
Viene approvato il Decreto “Salva Italia” che prevede una serie di
novità in materia fiscale per fare uscire il paese dallo sprofondo. La
manovra riafferma la tassa sulla prima casa, apporta modifiche al sistema

28
previdenziale e cerca di supportare il mercato rendendolo più flessibile e
puntando sullo sviluppo.
E' di questo periodo la riforma delle pensioni o riforma Fornero che
comporta il mutamento del sistema di calcolo del sistema pensionistico da
retributivo a contributivo e un adeguamento al rialzo riguardo l'età di uscita
dal mercato del lavoro.
La Banca Centrale Europea con a capo l'economista italiano Mario
Draghi risponde alla crisi dei debiti sovrani lanciando la LTRO7.
Con tale manovra la BCE intende effettuare dei prestiti con scadenza
triennale. In tal modo vengono immessi nel sistema europeo attraverso le
banche più di mille miliardi di euro.
Grazie all'intervento del governo Monti e alle operazioni
straordinarie compiute dalla BCE, l'Italia riesce lentamente e con fatica a
superare la crisi che l'aveva colpita e ad inizio 2013 lo spread mostra un
valore più che dimezzato rispetto al 2011.
Sul fronte del rapporto debito pubblico/PIL, invece, si registra ancora
una volta un aumento dal 115,3% del 2010 al 123.2% del 2012.8
Dai 1600 miliardi del 2007 si passò ai 1900 miliardi del 2011,
ovvero in termini. deficit/PIL dal 103% al 120%, per poi arrivare al 2014,
anno in cui si è sforato il muro dei 2 miliardi, per l’esattezza 2134 miliardi,
con un rapporto deficit/PIL pari al 132%.
L'ascesa del debito è determinata prima da un rallentamento e poi da
una contrazione del prodotto interno lordo e da una spesa elevatissima di
oneri passivi per via di tassi d'interesse insostenibili come dimostra il
differenziale tra titoli di Stato italiani e quelli tedeschi.
La situazione del debito pubblico al giorno d’oggi è questa, e
nemmeno le politiche di austerità applicate negli ultimi anni sono riuscite a
modificare questo trend di espansione del debito; debito che, congiunto alla
spesa per interessi sul debito e alla mancanza anche di una reale crescita
economica negli ultimi anni, non lascia prospettare una soluzione rapida ed

7
Long Term Refinancing Operacion.
8
Dati di Banca D’Italia (non hai un riferimento più preciso?)

29
indolore, ma sicuramente è una situazione che dovrà impegnare i governi e i
cittadini italiani ancora a lungo..
Nonostante il rapporto tra debito e PIL abbia avuto alti e bassi nel
corso degli anni, lo stock debitorio si è sempre mantenuto in costante
crescita. Ciò dimostra come sia ormai definitivo il processo di
autoalimentazione del debito sovrano, ossia la produzione di nuovo debito
per essere solventi di quanto già dovuto, generando gravi dubbi sulla
solvibilità futura e sulle reali prospettive attuabili di riduzione dello stesso.

30
CAPITOLO 2

SITUAZIONE ATTUALE E CONFRONTO CON GLI ALTRI PAESI

Il debito pubblico italiano oggi

Il debito pubblico, in una definizione assai semplicistica, è pari al


valore nominale di tutte le passività lorde consolidate delle amministrazioni
pubbliche, le quali si identificano in amministrazioni centrali, enti locali ed
Commented [FB4]: Fonte?
istituti previdenziali pubblici.
Il debito è costituito da biglietti, monete e depositi, titoli diversi dalle
azioni, con l'esclusione di strumenti finanziari derivati, e prestiti9 il tutto
definito secondo la normativa SEC 201010, di recente emanazione e
riguardante gli Stati aderenti in particolare all'Unione Europea.
In particolare, in Italia le passività finanziarie costituenti il debito
pubblico sono generalmente titoli obbligazionari di Stato e di Enti Locali e,
in misura minore ma non irrilevante, prestiti e mutui speciali erogati da
banche ed altre società finanziarie, conti correnti presso la tesoreria dello
Stato, buoni fruttiferi e depositi postali a carico del Ministero del Tesoro.
A Settembre 2018 il debito pubblico italiano è di oltre 2.331 miliardi
di euro.
Quanti avevano sperato in una progressiva discesa della misura dopo
i positivi dati di agosto si sono dovuti ricredere. Secondo i dati del
Bollettino Statistico mensile di Bankitalia l’incremento mensile è stato pari
a 4,7 miliardi di euro.
Il tutto contro i 2.263 miliardi di fine 2017.
La quota di debito in scadenza entro 1 anno risulta di 509 miliardi di
euro, mentre la durata residua media si attesta a 7,3 anni.
Quasi la metà del debito ha un durata residua superiore a 5 anni.

9
DIPARTIMENTO DEL TESORO, ammontare titoli e debito pubblico (2018),
(www.dt.tesoro.it)[12.01.2018]
10
Aa partire da settembre 2014, con la pubblicazione di una nuova versione dei conti
nazionali viene adottato dagli Stati membri dell’Unione europea il nuovo sistema europeo dei conti
nazionali e regionali – Sec 2010 – in sostituzione del Sec 95

31
Le entrate tributarie a 28,1 miliardi di euro sono rimaste
sostanzialmente stabili, mentre il controvalore dei titoli di Stato italiani
detenuti da investitori esteri è scivolato sui minimi di marzo 2014, a quota
656,839 miliardi.
Formatted: Normal
La risalita del dato ha acceso nuovamente i fari sulle casse dello
Stato Italiano. L'Italia si ritrova oggi con un debito pubblico tra i più alti
d’Europa, secondo soltanto a quello della Grecia e superiore al 130% del
Pil.11

Formatted: Normal

Breve analisi del rapporto debito/pil

Il rapporto debito/PIL è un indicatore usato come strumento per


misurare lo stato di salute di un paese soprattutto da quando, in base al patto
di stabilità e crescita, gli Stati dell’Unione monetaria sono tenuti a
mantenere tale rapporto entro il limite del 60%.
Ciò vuol dire che non si può sforare questo rapporto e che, nel caso
in cui non si rispettino gli accordi presi, devono essere date delle
motivazioni e i bilanci dello Stato devono poi essere approvati.
L’indicatore debito/PIL acquista infatti sempre più importanza dal
momento che ci dice quanto il debito del paese pesi sulle finanze dello
stesso.
Esso misura quanto un paese deve restituire ai suoi creditori, cioè a
tutti coloro che hanno acquistato titoli di Stato.
Il rapporto debito pubblico italiano/PIL ha subito diverse variazioni
nel corso degli anni.
Al momento dell'introduzione della moneta unica, nel 1999, in Italia
vi era un rapporto debito pubblico/PIL pari al 109%.
Negli anni successivi questo rapporto è gradualmente diminuito
arrivando a raggiungere nel 2004 un valore pari al 99,70%.

11
C. GAGLIARDUCCI, Italia: il debito pubblico è tornato a salire, in Money (2018),
(www.money.it) [10.01.2019]

32
In seguito, fino al 2008, esso si è mantenuto costante, con valori
oscillanti intorno al 100% per innalzarsi poi di nuovo nel 2009, anno in cui
ha raggiunto un livello pari al 112,43%.
L’anno 2017 si è chiuso con un rapporto debito/PIL pari al 131,8%.
Vi è da dire che dal 2015 ad oggi la tendenza è al miglioramento.
Considerato che proprio nel 2015 il rapporto debito/PIL raggiunse e
superò quota 134% appare evidente che l’indicatore relativo al debito,
considerato più importante da un punto di vista della stabilità economica e
del rispetto dei criteri di Maastricht, è in effetti in leggero calo.
Il debito pubblico italiano in rapporto al PIL è considerato stabile
nell’ultimo triennio e in lieve calo per quanto riguarda gli ultimi mesi12.
Quello italiano, in ogni caso, resta il secondo peggior rapporto
debito/PIL dell’Unione europea.
Peggio di noi fa soltanto la Grecia, col 178,6% nel quarto trimestre
2017.
Per quanto riguarda l’andamento del Prodotto interno lordo, è vero
che l’Italia è tornata a crescere.
Dopo aver avuto segno negativo nel 2012 (-2,8%) e nel 2013 (-
1,7%), il PIL è tornato in positivo a partire dal 2014 (+0,1%).
Negli anni successivi la crescita si è consolidata, con un aumento del
PIL all’1% nel 2015 e allo 0,9% nel 2016.
Nel 2017 è arrivato all’1,5% e, secondo le stime, nel 2018 dovrebbe
confermarsi la stessa percentuale.
Questa è la crescita più alta dal 2010, quando il PIL aumentò
dell’1,7% (ma bisogna considerare che arrivava dopo il drammatico -5,5%
del 2009).
Ciononostante , anche in questo caso, il confronto europeo è
piuttosto negativo.
Pur con un aumento del PIL dell’1,5%, nel 2018 l’Italia sarebbe
comunque ultima per crescita nell’Unione europea insieme al Regno Unito.
I PIL degli altri Paesi crescono tutti di più, spesso con percentuali
superiori al 2% se non al 3%.

12
Nonostante ciò in valore assoluto continua ad aumentare

33
Il PIL italiano è cresciuto più di quello medio dei paesi fondatori
dell'euro negli anni '60 (+5,7% contro +5,3% ) e negli anni '70 ( +3,8%
contro +3,4% ) per poi farsi raggiungere negli anni '80 ( quando sia l'Italia
che la zona euro crescevano del 2,4% all'anno ) e quindi farsi staccare.
Negli anni '90 il PIL italiano è cresciuto dell'1,7% all'anno contro il
2,2% medio della zona euro.
Negli anni 2000 ha segnato +0,3% contro +1,1%.
Se poi guardiamo agli ultimi sette anni , l'Italia ha una media di
crescita zero contro il +0,9% del resto dell'area euro.
Anche il +1,5 del PIL italiano del 2017 impallidisce davanti al +2,5
della zona euro.
Senza crescita e senza lo spazio finanziario per raccogliere fondi da
investire per promuoverla, l' Italia si trova impantanata nella gigantesca
palude di un debito pubblico improduttivo creato in un'altra epoca ma che
rappresenta un problema aperto oggi, anche a livello pratico.
Infatti, a differenza delle altre volte in cui l'Italia si è trovata in una
situazione simile, mi riferisco alla grande depressione di fine secolo (1897)
e alle due guerre mondiali, e in un modo o nell'altro è riuscita a riportare
sotto controllo i suoi conti pubblici; stavolta non è riuscita a riassorbire il
debito accumulato nel ventennio 1974-1994.
Ci ha provato e, con significativi sforzi, è stata capace, unica in
Europa, di chiudere in attivo, al netto degli interessi, 22 bilanci pubblici su
23 tra il 1995 ed il 2017. Non è bastato.
Nel 2007 il rapporto debito/PIL era tornato sotto quota 100%.
La grande recessione ha però abbattuto il prodotto interno lordo di
quasi dieci punti percentuali (che ancora non abbiamo recuperato ) facendo
schizzare il rapporto debito/PIL fin sopra il 130%.13

13
ISTAT, conti economici nazionali, in comunicato stampa, n.221221, (2018),
(www.istat.it) [11.12.2018]

34
I l pericolio di un debito pubblico elevato

Una situazione di debito pubblico elevato, con un alto rapporto in


relazione all’economia del paese, può comportare situazioni di pericolo sia
in capo ai conti pubblici, sia per quanto riguarda la situazione sociale ed
economica stessa, poiché il tutto potrebbe sfociare in una crisi finanziaria.
La crescita del tasso di interesse e la sua relazione con la crescita del
PIL, determinano la dimensione percentuale dell’avanzo primario
necessario al fine di avere costanza nel rapporto debito/PIL nel tempo.
Se, per motivi dovuti a qualche shock, il tasso di interesse sale dal 3
al 7% tale da indurre un cambio di aspettative negli investitori e dunque una
variazione della remunerazione richiesta, a parità di tasso di crescita del
PIL, l’avanzo primario dovrà crescere di conseguenza per riuscire a
mantenere nel periodo successivo un rapporto debito/PIL costante. Ma non
è così semplice.
La crescita del tasso di interesse reale è connessa a molteplici
meccanismi non sempre controllabili dal governo o dal soggetto deputato al
controllo della politica monetaria. Ad esempio, ad indurre la crescita dei
tassi può essere uno shock dovuto ad uno scandalo politico che aumenta
negli investitori la percezione di rischiosità del paese, di fatto comportando
una riduzione degli investimenti. Per questo, il governo opera un aumento
dei tassi di interesse, al fine di innalzare l’appetibilità dei suoi titoli, come
richiesto dagli investitori.
Il rialzo dei tassi comporta la necessità di un conseguente aumento
dell’avanzo primario, perseguibile unicamente agendo sulle variabili che
dominano la sua formazione, ovvero la spesa pubblica e le entrate
pubbliche, sotto forma di imposte.
La soluzione di più rapida attuazione consiste nell’aumento delle
imposte, ma ciò comporta delle spiacevoli conseguenze in quanto un
aumento dell’imposizione fiscale, oltre ad essere impopolare, genera effetti
negativi sulle aspettative degli investitori dovuti alla maggior incertezza
politica che viene ad instaurarsi e dunque comportando un rinnovato
aumento dei premi al rischio, ovvero i tassi di interesse. Senza contare il

35
fatto per cui l’aumento delle imposte riduce i consumi, dunque il PIL e il
tasso di crescita, con un ulteriore effetto deprimente.
La soluzione di non intervenire, da parte del governo, ha a sua volta
effetti negativi, poiché il conseguente rialzo del debito pubblico, in
percentuale debito/PIL ed in valore assoluto, comporta allo stesso modo
preoccupazione nei mercati finanziari che richiedono un tasso di interesse
sempre maggiore per prevenire l’accresciuto rischio di insolvenza.
Nel caso il governo opti per un intervento volto a ridurre la
consistenza del debito, può farlo in diversi modi.
Una possibile soluzione può considerarsi il ripudio di parte o della
totalità del debito: questa prospettiva è assai intrigante perché consente un
calo delle imposte, non più finalizzate ad ottenere avanzi primari, ed il venir
meno della spesa per interessi quindi con ininfluenza dell’oscillazione dei
tassi. Ma presenta una grave incoerenza con le prospettive temporali e le
aspettative dei creditori: infatti ad un governo che rinnega la promessa di
pagare i propri debiti difficilmente sarà possibile contrarne di nuovi, poiché
gli investitori non avranno la fiducia necessaria per sottoscrivere gli
impegni richiesti. Tale soluzione, pur se allettante, è di rado utilizzata
proprio per le ricadute che genera nel lungo periodo.
Un’altra soluzione assai utilizzata dai governi per ridurre i propri
debiti pubblici consiste nella creazione di nuova moneta necessaria a
finanziare il disavanzo. La politica monetaria non spetta tuttavia al governo
ma è compito della Banca Centrale, l’unica con il potere di creare nuova
moneta.
Di fatto, con la cooperazione tra governo e banca centrale,
l’emissione di nuovi titoli viene coperta tramite acquisto dalla banca la
quale, per effettuare l’acquisto, utilizza la nuova moneta emessa, che così
finisce nelle casse statali e può essere utilizzata per finanziare il disavanzo.
Anche l’intervento monetario però spesso si rivela illusorio, in
quanto presenta diretta influenza sul tasso di inflazione il quale presto
inizierà a crescere conducendo nella spirale il tasso di interesse.
La soluzione più virtuosa e lungimirante è quella di più difficile
attuazione; consiste nel generare avanzi primari abbastanza ampi da coprire

36
la spesa per interessi, in modo da condurre ad una discesa dello stock
debitorio.
Per fare ciò, il governo può intervenire sulla spesa pubblica
riducendo le uscite ed i trasferimenti, oppure aumentando le imposte.
Tali prospettive sono comunque costose sul piano politico e sociale.

La sostenibilità del debito pubblico italiano

Il debito pubblico si dice “sostenibile” quando le spese pubbliche


coperte dall'indebitamento consentono di generare un tasso di crescita
dell'economia nazionale pari o superiore al tasso di interesse riconosciuto
sui titoli di Stato.
Soltanto in questo caso la crescita del reddito nazionale è tale da
poter ripagare alla loro scadenza il capitale e gli interessi del debito
pubblico tramite l'incremento naturale del gettito fiscale senza dover
aumentare la pressione fiscale e senza dover reperire le risorse economiche
in altro modo.
La nostra bilancia commerciale fino al 2011 era in forte passivo, ciò
significa che consumavamo come sistema paese più di quanto non
riuscivamo a produrre. Questo con l’aggravante di avere un forte debito
pubblico estero.
Ciò significava chiaramente che non eravamo più un paese solvibile,
ovvero un paese in grado di fare fronte alle proprie obbligazioni con i propri
creditori esteri.
Questo chiaramente non poteva non essere notato da economisti,
analisti finanziari ed operatori dei mercati finanziari che hanno iniziato a
chiedere un premio per il rischio più alto sui titoli del debito pubblico
italiano portando in definitiva il nostro debito su una chiara traiettoria di
insostenibilità14.
Il governo Monti, subentrato nel 2011 al governo Berlusconi, ha
imposto pesanti manovre di austerità costringendo gli italiani a consumare
di meno.
14
Premio per il rischio che altro non era che un tasso d’interesse.

37
Questo minor consumo ha riportato la nostra bilancia commerciale in
forte attivo rendendo nuovamente solvibile lo Stato italiano e consentendo
un minor premio per il rischio sui propri titoli di debito.
La manovra posta in essere da Monti ha realizzato l'aggiustamento
strutturale che si proponeva ma è anche vero che ha provocato un
fisiologico aumento dei cittadini in stato di deprivazione materiale o se si
preferisce di povertà assoluta. Si poteva fare meglio? Si poteva evitare o
comunque minimizzare tutto questo?
Difficile dirlo, ma una cosa è certa: se la traiettoria della nostra
bilancia commerciale non fosse stata riportata su un territorio positivo ciò
avrebbe portato al dissanguamento delle nostre riserve in valuta e in oro,
alla difficoltà di approvvigionarci delle materie prime per il nostro settore
produttivo e ad un collasso di tipo argentino con conseguente intervento del
Fondo Monetario Internazionale.
E si, perché l’Italia è un paese privo di materie prime che devono
essere importate e pagate in valuta così da consentire al nostro sistema
produttivo di trasformarle e a loro volta di venderle sia all’estero che nel
mercato interno.
Ad un economista del calibro di Mario Monti non poteva sfuggire
l’importanza cruciale della bilancia commerciale e dunque la necessità di
portarla in attivo per rendere solvibile il nostro debito pubblico o – fatto
ancora più grave – per evitare che ci fosse un’interruzione del flusso delle
importazioni verso l’Italia causata dall’impossibilità a pagare i fornitori.
E' evidente la correlazione tra aumento/diminuzione della domanda
aggregata in un mercato aperto agli scambi con l’estero (come quello in cui
viviamo noi): l’aumento della domanda aggregata e dunque dei consumi
comporta un automatico peggioramento del saldo della nostra bilancia
commerciale, con la conseguenza di riportarci su quella traiettoria di non
solvibilità che fu interrotta dall’azione di governo Monti.
L’aumento del debito pubblico conseguente all’aumento della spesa
pubblica è solo una subordinata per quanto importante di questa relazione
fondamentale:
+ spesa pubblica = + consumi = – attivo della bilancia commerciale

38
Venendo all’oggi il problema sta tutto qui: fino a quale punto il
governo italiano può prendere provvedimenti espansivi senza distruggere
quel meccanismo virtuoso che ha riportato la nostra bilancia commerciale e
dunque il nostro debito pubblico in una traiettoria di sostenibilità?
Non ha peraltro molta importanza, a livello sistemico, se i
provvedimenti espansivi saranno incentrati sul reddito di cittadinanza o
sulla riduzione delle tasse. Questo è il vero problema che il governo è
chiamato a risolvere15.
Da una prima sommaria analisi risulta che il debito pubblico italiano
è posseduto per circa due terzi da soggetti italiani.
Si tratta di banche, assicurazioni e risparmiatori che hanno acquistato
titoli sia direttamente sia sottoscrivendo quote di fondi comuni.
Far crescere il deficit pubblico significa creare nuovi debiti, e quindi
nuovi interessi passivi da pagare. Debiti troppo alti significano maggiori
rischi per i risparmiatori, che quindi chiederebbero maggiori interessi per
prestare denaro allo Stato.
Se gli interessi da pagare diventano troppo alti, potrebbe diventare
impossibile emettere debito per coprire il deficit pubblico.
Di conseguenza lo Stato potrebbe non avere abbastanza soldi per
pagare tutte le spese.
Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, al 64° Convegno
di Studi Amministrativi della Corte dei Conti a Varenna, ha lanciato
l’allarme sulla sostenibilità del debito pubblico, mettendo l’accento sulla
qualità della spesa.
Secondo il governatore, si devono tenere in considerazione i vincoli
che derivano dall’elevato livello del debito, poiché “un aumento del
disavanzo finirebbe col peggiorare le prospettive delle finanze pubbliche,
alimentando i dubbi degli investitori e spingendo più in alto il premio per il
rischio sui titoli di Stato”.
Solo una “strategia credibile” sarebbe in grado di “determinare una
riduzione del premio per il rischio sui titoli di Stato Italiani”. Ed ha

15
G. MASALA, Sostenibilità del debito pubblico for dummies, in Globalist (2018),
(megachip.globalist.it) [20.01.2019]

39
aggiunto che un’ efficace politica di investimenti da sola non basta a portare
l’economia ad un livello superiore di crescita.
Visco ha anche ricordato che accrescere la spesa per gli investimenti
finanziandola in disavanzo, senza incidere sul potenziale di crescita,
fornirebbe benefici solo temporanei.
Il governatore della Banca d’Italia ha chiarito che servono interventi
capaci di agevolare l’introduzione di nuove tecnologie e la riorganizzazione
dei processi produttivi ed ha invitato il governo ad utilizzare al meglio le
risorse disponibili,
“solo così l’aumento della spesa potrà essere coerente con la
sostenibilità del debito”.16

La crisi del debito in Europa

Molti degli Stati membri dell'Unione Europea, in seguito alla crisi


globale del 2008 hanno osservato un crollo della propria produzione
economica, che ha condotto ad una recessione.
La lenta ripresa è iniziata solo nel 2010, con una media europea di
crescita del prodotto interno lordo dello 0,7% nel quadriennio 2010-2014.
In seguito alla recessione i governi hanno dovuto affrontare un'altra
situazione altrettanto esplosiva, quale l'enorme crescita dei propri debiti
pubblici, avvenuta sia in termini nominali, sia in relazione al rapporto
debito/PIL.
L'introduzione della moneta unica, nei primi anni duemila, ha
comportato per i paesi aderenti una seri di cambiamenti; su tutti la politica
monetaria, strumento attraverso il quale gli Stati costruiscono le loro
politiche di crescita economica e tramite il quale affrontano in maniera più
diretta le crisi, non è stata più compito spettante ad ogni banca centrale
nazionale ma si è trasferita presso la Banca Centrale Europea la quale
coordina in maniera identica le economie di tutte le nazioni adottanti l'euro.

16
I.VISCO, investimenti pubblici per lo sviluppo dell’ economia, 64° Convegno di Studi
Amministrativi (2018), (www.bancaditalia.it) [18.01.2019]

40
Il tipico ruolo della moneta nazionale, al servizio dello Stato al fine
di favorire l'economia del paese, è stato invertito, cosicché oggi ogni Stato
membro ha il dovere di prendere decisioni finalizzate al miglioramento del
valore della moneta comune.
In pratica c'è stata un'inversione tra obiettivi e strumenti, con il
passaggio da politiche economiche finalizzate al raggiungimento di
obiettivi sociali attraverso l'utilizzo della finanza pubblica, a politiche di
carattere europeo che stabiliscono obiettivi economici da perseguire e con i
governi nazionali impegnati nel trovare la via per raggiungerli.
Così, nel corso degli anni, invece di pervenire ad una convergenza
tra economie dei paesi membri per addivenire ad una unità nazionale
economica europea, il processo si è tendenzialmente evoluto in un aumento
del divario, andando a compromettere le economie di alcuni Stati i quali
sfruttavano la debolezza della loro moneta per essere competitivi nei
mercati internazionali, su tutti la Grecia attraverso il proprio fiorente settore
turistico.
La moneta unica infatti ha comportato, nel corso del tempo, un
accumulo di squilibri a livello della bilancia dei pagamenti.
Mentre alcuni paesi quali Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda,
le cosiddette “economie periferiche”, hanno accumulato per molti anni un
costante deficit della bilancia dei pagamenti, altre hanno goduto di un
surplus, su tutti la forte economia tedesca.
Tali sbilanciamenti trovano origine nella divergenza tra le posizioni
competitive tra Stati nel contesto dei beni negoziabili sui mercati nazionali
ed internazionali all'interno dei paesi membri dell'Unione.
Ciò ha finito per determinare una condizione in cui gli Stati che
hanno dato origine ad un deficit della parte corrente, hanno accumulato un
debito in conto capitale che ha finito per finanziare ulteriormente gli Stati
che godevano del credito, ovvero quelli in surplus, favorendo le loro
importazioni.
Il divario che si è originato ha avuto il proprio apice con lo scoppio
della crisi del 2008, in seguito tendenzialmente ridotto grazie alle politiche

41
di austerità poste in atto dai governi coinvolti al fine di pervenire ad un
equilibrio del saldo di conto corrente.
La crisi dei mutui subprime scoppiata negli Stati Uniti, che nel 2008
si è trasformata in una crisi economica di livello globale, ha comportato un
periodo di recessione che ha colpito notevolmente gli Stati europei.
L'avversione al rischio degli investitori, in forte aumento in seguito
al fallimento di Lehmann Brothers, generò una più elevata attenzione a
quelle situazioni che si preannunciavano come potenzialmente pericolose.
Le banche tedesche, che avevano accumulato molta liquidità in
seguito ai vari anni di surplus di conto corrente, bloccarono la loro politica
di prestito interbancario agli istituti europei e questo comportò una grave
crisi di liquidità, la quale ebbe un effetto molto negativo sull'economia già
recessiva degli Stati membri.
La crisi dei debiti sovrani ha avuto, inoltre, un'ulteriore spinta dalla
Grecia.
Nel 2009, infatti, il nuovo governo appena insediatosi ha rivelato
come i conti pubblici fossero stati negli anni precedenti artefatti al fine di
accedere all'Unione Europea, rivelando un debito ben superiore alle attese.
Ciò ha finito per contagiare le nazioni altrettanto deboli, accomunate
da un elevato stock di debito, scarsa competitività, bassa crescita economica
e squilibrio dei conti con i mercati esteri.
Tutto ciò ha comportato l'innalzamento vertiginoso degli spread tra i
titoli tedeschi e tutti gli altri titoli di Stato dei paesi con una situazione
simile alla Grecia. Questo perché, in seguito alle politiche perseguite al fine
di recuperare credibilità sui mercati internazionali, le misure di recupero
affidate ad investitori privati17 comportarono un aumento inaspettato della
percezione di rischio degli investitori stessi, nei confronti di quei paesi che
presentavano caratteristiche simili, tra i quali Italia, Portogallo e Irlanda.
Anche le banche nazionali degli Stati coinvolti ben presto si sono
trovate in crisi, poiché il loro rischio è stato assimilato a quello sovrano,
comportando difficoltà nella provvista all'ingrosso e nel collocamento delle
obbligazioni. Tra il 2008 e il 2009, per evitare la paralisi del sistema

17
Ccome stabilito anni prima dal trattato costitutivo dell'Unione Europea.

42
bancario a causa delle difficoltà di raccolta di provvista che si trovavano ad
affrontare le banche commerciali, Fed18 e BCE aumentarono le linee di
swap in dollari al fine di aumentare la liquidità del sistema europeo, con un
relativo taglio del tasso di interesse il quale finì col scendere fino all'1%.
Sopravvenuti i problemi di bilancio greci che, come già detto,
contagiarono le altre economie periferiche dell'Eurozona, al fine di
salvaguardare i bilanci degli Stati coinvolti, nacque il progetto EFSF, fondo
di intervento dotato inizialmente di 750 miliardi di euro, il quale venne
utilizzato dapprima per grecia e Irlanda, poi per Portogallo ed Italia.
Il cambio alla guida della BCE, con il nuovo governatore Mario
Draghi, comportò un aumento della liquidità tramite operazioni
straordinarie19 con scadenza a tre anni, e la riduzione del coefficiente di
riserva all'1%.
Tali scelte permisero di inserire nel circuito oltre 1000 miliardi di
euro tra il 2011 e il 2012, con lo scopo di contrastare il corto circuito tra
debito pubblico e bilanci bancari e stabilizzare il sistema finanziario.
Successivamente la Banca Centrale Europea è stata impegnata nel
cosiddetto “quantitative easing” con l'obiettivo di far salire il tasso di
inflazione nell'Eurozona fino al 2% per migliorare gli equilibri monetari e la
sostenibilità dei debiti sovrani.
Dopo oltre € 2,000 miliardi in acquisti di asset ed una politica di tassi
d’interesse a zero, la Banca Centrale Europea ha reso nota la fine del suo
programma di acquisto di asset ed un possibile rialzo dei tassi prima del
2019. Il massiccio programma di quantitative easing ha generato squilibri
molto significativi ed i rischi superano i benefici.
Il bilancio della BCE è ora superiore al 40% del PIL della zona Euro.
I governi dell’Eurozona, tuttavia, non si sono affatto preparati alla
fine degli stimoli. Proprio il contrario.
Gli stati dell’Eurozona spesso affermano che i deficit sono stati
ridotti e i rischi contenuti. Tuttavia un esame più attento mostra che la

18
Federal reserve, ovvero la Banca Centrale degli Stati Uniti d'America
19
Le cosidette LTRO

43
maggior parte delle riduzioni dei deficit derivano dal minor costo del
debito.
La spesa pubblica della zona Euro è scesa a malapena, nonostante la
minore disoccupazione e l’aumento delle entrate fiscali.
I deficit strutturali rimangono ostinati e, in alcuni casi, invariati
rispetto ai livelli del 2013.
I 19 Paesi dell’Eurozona hanno risparmiato molto in pagamenti di
interessi sin dal 2008 grazie alla riduzione dei tassi della BCE e agli
interventi di politica monetaria.
Tuttavia questa illusione di risparmio e stabilità di bilancio può
rapidamente scomparire in quanto la maggior parte dei Paesi dell’Eurozona
affronta massicce scadenze nel periodo 2018-2020 e ha sprecato anni
preziosi di quantitative easing senza attuare forti riforme strutturali.
Le principali economie dell’Eurozona tra il 2018 e il 2021 hanno di
fronte più di 2,100 miliardi di euro in scadenze. Se a queste si sommano le
minori entrate fiscali dovute al rallentamento economico e l’aumento della
spesa pubblica a causa delle manie populiste, ci ritroviamo l’enorme rischio
di una grande crisi del debito che nessuna banca centrale sarà in grado di
contenere.
In assenza di riforme strutturali, la zona Euro si trova di fronte ad
una stagnazione in stile giapponese o ad una crisi del debito.
Nessun Paese nella zona Euro, tranne la Germania e forse l’Olanda,
era veramente pronto per la fine del QE.
I governi dell’Eurozona hanno speso tutti i benefici del QE in un
aumento delle spese correnti e hanno mantenuto i deficit strutturali.
Il miglioramento della spesa netta per interessi è stato sprecato in una
maggiore spesa burocratica.
Ora la tendenza sta cambiando. I rendimenti dei titoli di stato ed i
credit default swap stanno aumentando in sordina. Non solo per la crisi
italiana, ma per l’evidenza di problemi irrisolti che tornano in superficie in
Europa.
I governi in Europa probabilmente decideranno di aumentare le tasse
per cercare di affrontare il crescente deficit derivante dal rallentamento

44
dell’Eurozona, dovuto a minori entrate e alla fine delle politiche dei tassi a
zero.
La combinazione di cunei fiscali più elevati, spese ostinatamente alte
e deficit e tassi crescenti può rappresentare una tempesta per l’Europa, la
quale ha deciso di affrontare la crisi nascondendo gli squilibri sotto
un’enorme ondata di liquidità mentre gli stati hanno abbandonato tutte le
riforme per scommettere tutto sulla politica monetaria. 20

Storia di una crisi: la Grecia

La Grecia, nel recente passato, ha attraversato una grave crisi interna,


economica, sociale e politica, che ha fatto temere per la sostenibilità del suo
debito sovrano, influendo molto sulle politiche dell'Unione Europea e sui
suoi assetti istituzionali.
Essa ha iniziato a far parte dell'Unione Europea nel 2002, adottando
come moneta l'euro in sostituzione della dracma.
Per far convergere i dati macroeconomici a quanto richiesto dai
Trattati per l'adesione alla moneta unica, a partire dagli anni '90 i governi
greci hanno dovuto attuare grandi riforme di politica economica, monetaria,
fiscale e di privatizzazione delle aziende pubbliche21.
I risultati si sono avuti nel corso degli anni, con una forte riduzione
del deficit che è passato dal 12% al 2,5% sul finire del 1999, rientrando così
all'interno del parametro richiesto.
Per alcuni anni la situazione è stata relativamente tranquilla, fino al
momento della crisi economica del 2008 che ha coinvolto tutti gli Stati a
livello mondile, partendo dalla crisi dei mutui subprime originatasi negli
Stati Uniti.

20
F. SIMONCELLI, l’imminente crisi del debito europa, in Rischio Calcolato (2018),
(www.rischiocalcolato.it) [30.12.2018]
21
Al fine di poter accedere all'Unione Europea, il trattato di Maastricht richiedeva agli
Stati aderenti l'adeguamento a certi indici economici con riguardo al proprio bilancio nazionale, il
più importante dei quali sicuramente è il contenimento del deficit annuale entro il 3% del PIL.

45
Anche in Grecia, infatti, la crisi ha comportato una discesa del PIL
causando una recessione, accentuata dall'utilizzo di una moneta forte come
l'euro.
Per molti anni, fino allo scoppio della crisi, lo Stato greco ha
accumulato un costante deficit delle partite correnti che si è tramutato in un
trasferimento di ricchezze verso i paesi del nord, più ricchi e dotati di
maggiore competitività a livello mondiale. Il risultato di questa situazione
ha originato un accumulo di debito pubblico in quanto era necessario il
reperimento di risorse atte a coprire i deficit generati, di fatto ingrossando il
volume dello stock debitorio nel corso del tempo.
Le elezioni greche del 2009 videro vincitore il partito socialista dopo
cinque anni di governo conservatore. Il presidente Papandreou, avviandosi
per realizzare le riforme promesse scoprì un buco nel bilancio che lo
costrinse a rivedere le sue stime. Tale buco di bilancio, viene poi
specificato, è da ricondursi al governo precedente, reo di aver modificato i
conti pubblici al fine di rientrare nei limiti imposti dal Trattato di
Maastricht ed essere così ammessi nell'Unione Europea.
La logica conseguenza, acuita dal momento di crisi, è stata un taglio
del rating sul debito sovrano da parte delle maggiori agenzie mondiali, le
quali, valutato il pesante disavanzo che andava a realizzarsi e preso atto dei
disavanzi precedenti e viziati, non credevano più nella possibilità di una
soddisfazione dei creditori. I tassi d'interesse salirono, peggiorando la già
problematica situazione del deficit.
Nel Maggio 2010 viene trovato un accordo tra governo greco, Fondo
Monetario ed Unione Europea, tale da garantire un maxi finanziamento di
110 miliardi di euro da ripartirsi in tre anni.
Ovviamente tale credito, con la cui prima rata la Grecia ha potuto
saldare i suoi debiti in scadenza immediata, è stato concesso in cambio della
garanzia dell'attuazione di riforme necessarie alla riduzione del deficit,
prima fra tutte la riforma delle pensioni attuata nel luglio 2010 con
drastiche misure di taglio dei benefits, il contenimento del
prepensionamento e l'innalzamento dell'età pensionabile.

46
Ciononostante, il debito continuò ad accrescersi determinando serie
preoccupazioni per la sua solvibilità, ancora più soggetta a shock avversi,
anche a causa del deficit di nuovo atteso, nel 2011, intorno al 13% del PIL.
Le privatizzazioni messe in atto in quel periodo, per un totale di 50
miliardi di euro, non bastarono a risolvere tale preoccupante situazione alla
quale seguì un rinnovato taglio del rating.
La necessità di altri fondi per salvare la Grecia dal default comportò
l'applicazione di ulteriori riforme miranti all'austerità, con forti tagli alla
spesa ed aumenti delle tasse.
A fine Luglio 2011 i leader europei raggiunsero un accordo per un
nuovo pacchetto di salvataggio di 160 miliardi di euro da corrispondere alla
Grecia. Nel frattempo, ben otto gruppi bancari greci avevano visto un
declassamento del loro rating da parte delle agenzie, a causa dell'aumentato
timore di un'impossibilità di rientro dal debito.
Al fine di proseguire sulla strada di risalita dalla crisi debitoria, si
rivelò di fondamentale importanza la corresponsione di un nuovo prestito
alla Grecia da parte di FMI e UE, del valore di 130 miliardi di euro.
Il prestito, elargito a febbraio 2012, venne concesso a seguito del
taglio del valore dei bond per gli investitori privati e a pesanti riforme del
settore pubblico greco, che costarono il posto di lavoro a migliaia di
dipendenti pubblici ed un abbondante taglio degli stipendi per coloro che
conservarono il posto. Ciò comportò un aumento della disoccupazione.
Quando nell'ottobre 2012 il governo illustrò i dati di bilancio per il
2013, emerse una situazione debitoria in crescita, a causa della contrazione
economica, tale da ipotizzare il fallimento entro novembre a causa della
mancanza di denaro nonostante l'emanazione di una manovra da 13,5
miliardi con un aumento della tassazione ed ulteriori tagli alle pensioni.
Per evitare il rischio di un uscita del paese dall'euro furono concessi
nuovi prestiti dalla comunità internazionale Nel 2013 il governo si adoperò
ancora per ridurre la spesa, colpendo in particolare i dipendenti pubblici e
stabilendo la chiusura della rete televisiva di Stato.
La forte campagna di austerità imposta nel corso dell'anno però finì
col dare i frutti desiderati, in quanto, alla presentazione del nuovo progetto

47
di bilancio per il 2014 , le stime indicavano una crescita, seppur debole,
dopo ben sei anni di recessione, determinando la speranza di poter porre
fine ai continui interventi di salvataggio.
Il 26 Gennaio 2015, Tsipras, presidente del partito Syriza, venne
eletto primo ministro greco. Il suo programma politico mirava alla fine
dell'austerità e a ridare pieno potere e sovranità al popolo greco a discapito
degli istituti internazionali colpevoli di aver condotto la Grecia alla rovina.
Una delle prime decisioni fu la riassunzione immediata dei
dipendenti pubblici licenziati nel corso delle ultime misure di austerità, con
un conseguente aggravio del bilancio pubblico.
Il 30 Giugno, non avendo accettato gli accordi in precedenza
proposti ed avendo saltato il pagamento in scadenza di una rata de prestito
al FMI, la Grecia diventa insolvente. Gli aiuti al paese vengono bloccati.
Ma l'intento della comunità europea era comunque orientato sul
raggiungimento di un accordo che il premier greco voleva incentrato su un
programma sostenibile in termini economici ed occupazionali e che
prevedesse una ristrutturazione del debito proprio per permettere allo Stato
ellenico di onorare i propri impegni assunti, senza dover costantemente
indebitarsi nei confronti delle istituzioni per saldare i debiti arretrati.
Dai durissimi negoziati, tenutisi nei giorni successivi, arrivò il primo
abbozzo di accordo, il quale prevedeva un piano di salvataggio della Grecia
con un'iniezione di liquidità nel sistema superiore agli 80 miliardi di euro
operata dall'European Stability Mechanism22 in cambio di condizioni
durissime paragonabili quasi ad un commissariamento della nazione
necessario per vegliare sulla realizzazione delle riforme richieste dagli
accordi.

22
Fondo di salvataggio degli Stati Europei, che ha sostituito, a partire dal 2012, il
precedente sistema EFSF, che era stato creato in regime di provvisorietà. Esso ha però carattere di
organizzazione intergovernativa, simile al Fondo Monetario Internazionale, con la possibilità di
imporre alle nazioni scelte di natura macroeconomica. Tale fondo è posseduto dagli stessi Stati
membri in proporzione pari alla partecipazione al capitale della BCE. Il capitale iniziale è di 700
miliardi di euro, di cui però solo 80 versati dagli Stati in quanto il restante denaro viene raccolto
attraverso l'emissione di obbligazioni sui mercati.

48
Il 20 Luglio, dopo ben tre settimane di chiusura, riaprirono le banche
elleniche ed entrarono in vigore le prime riforme come l'aumento dell'Iva
dal 13 al 23%.
Il 14 Agosto venne definitivamente approvato il piano di salvataggio
da 86 miliardi di euro, erogati dall'ESM in tranche collegate al piano di
riforme via via approvate e ripagabili nell'arco di tre anni con un tasso di
interesse dell'1%.
E così oggi, dopo otto anni e tre “bailout” la Grecia torna a
camminare con le sue gambe. Di prestiti dalla cosiddetta troika
(Soprannome, a tratti dispregiativo con cui vengono identificati nel loro
insieme Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea ed
Unione Europea) ne ha ottenuti ben 273 miliardi di euro.
Quest'anno Bruxelles ha previsto due misure estremamente
importanti per garantire la sostenibilità del debito ellenico nel medio
termine: tutte le scadenze relative al secondo salvataggio saranno allungate
di dieci anni e il pagamento degli interessi sarà anch'esso rinviato di dieci
anni.
La Grecia godeva già al 2022 di un periodo di grazia decennale,
durante il quale non pagherà gli interessi e non sarà obbligata a restituire i
prestiti ottenuti. A questo punto, gli interessi verranno pagati a partire dal
2032, un lasso di tempo più che sufficiente per consentire ad Atene di
rimettersi in sesto, crescere e ridurre il peso dei pagamenti rispetto alle sue
dimensioni economiche. Non è tutto. L'Eurogruppo ha stabilito che la
Grecia resterà sotto il monitoraggio dei creditori, al fine di verificare
l'osservanza delle riforme richieste. Se così sarà, otterrà nuove misure di
alleggerimento del debito, come la possibilità nel 2032 di godere di un
allungamento delle scadenze anche con riferimento ai prestiti dell'ultimo
salvataggio. L'FMI, in particolare, continua a chiedere il taglio del debito,
sostenendo che solo così la Grecia sarà in grado di tornare a camminare da
sola. La Germania non è daccordo, anche se ormai ha avallato forme di
ristrutturazione del debito, che nei fatti si stanno traducendo in un taglio
mascherato.

49
Pur non essendo stati inseriti nel programma di acquisti della BCE, i
bond sovrani hanno recuperato parecchio negli ultimi anni, beneficiando
dell'allentamento delle tensioni sui mercati finanziari, essendo venuto meno
il rischio di uscita dall'euro.
Il problema più grave sul fronte socio-economico in Grecia resta la
disoccupazione, ancora superiore al 20%, la percentuale più alta di tutta
Europa.
Il risanamento dei conti pubblici è avvenuto, perlopiù, con
l'innalzamento dell'imposizione fiscale; basti pensare all'IVA al 24% e all'
Enfia , l'odiata tassa sugli immobili, anche se i tagli non hanno risparmiato
la sanità ed il sistema pensionistico nazionale.
Il rapporto deficit/PIL è crollato da oltre il 15% del 2009 allo 0,8%
dello scorso anno, e anche se l'FMI teme che il target voluto dai creditori di
un avanzo primario al 3,5% del PIL non sia sostenibile negli anni e che,
comunque, non sia sufficiente a stabilizzare il debito con il pagamento degli
interessi, possiamo dire che la fase più acuta della crisi è superata ed adesso
la Grecia può puntare verso la tanto auspicata ripresa con più ottimismo.

Germania: un passato di ristrutturazioni

Lo Stato tedesco, benché sia assurto oggigiorno come esempio di


efficienza estrema in campo politico ed economico, locomotiva dell'Unione
Europea e fulcro dell'economia mondiale nel passato ha affrontato una crisi
del suo debito pubblico, in larga parte conseguente alla seconda guerra
mondiale.
Il debito pubblico tedesco, nella sua prima genesi, ha avuto origine
dalle riparazioni di guerra imposte al governo ed al popolo tedesco al
termine del primo conflitto mondiale, che vide come prima potenza a
richiedere l'indennità la Francia vincitrice e distrutta da 5 anni di conflitto
causato dalla Germania.
Le condizioni di pace trattate dalla coalizione vincitrice, nel 1921,
videro l'inserimento di una clausola con la quale si richiedeva al governo

50
tedesco il pagamento di riparazioni di guerra per una cifra di 132 miliardi di
marchi tedeschi importo che corrispondeva all'incirca a 2,8 volte il PIL che
la stessa Germania aveva prima della guerra23.
Ovviamente, ben presto ci si rese conto che tale debito non si sarebbe
potuto onorare. Successivamente, con una prima ristrutturazione, dettata
dalla necessità di non distruggere l'economia tedesca, il governo si vide
ridurre l'esposizione debitoria di circa il 60% dell'importo iniziale passando
così da 132 a poco più di 50 miliardi di marchi, cifra comunque consistente,
con la previsione di pagamenti rateali annuali di circa due miliardi di
marche l'uno.
Pagamenti che ebbero luogo per un anno soltanto poiché nel 1923
venne dichiarata una moratoria.
Poiché tale debito era difficilmente solvibile dal governo, visti i
risvolti negativi per l'economia tedesca, causati dall'iperinflazione che
aveva praticamente azzerato il valore del marco, si fece ricorso al piano
Dawes che nel 1924 introdusse una nuova moneta rivalutata, esso
prevedeva inoltre una riformulazione della gestione del debito residuo, di
circa 50 miliardi, con la riduzione dell'importo delle rate annuali ed un tasso
di interesse del 7% per la durata di 25 anni.
Di nuovo questa somma si rivelò troppo onerosa per la Germania
quando la crisi del 1929 con il crollo di Wall Street si diffuse in tutta
Europa.
Fu necessaria un’altra ristrutturazione con il piano di Owen Young24.
L'ammontare dovuto fu ridotto di nuovo di un terzo e il pagamento diluito
in 59 anni.
La Germania comunque non riuscì a pagare e nel 1932, con l'ascesa
al potere di Hitler, la Francia non ricevette più alcun pagamento. Entro
quella data aveva riscosso il 17% dell’ammontare pattuito.

23
G. IMPERATRICE, Nel 1953 e nel 1990 la Germania venna “graziata” con enormi
cancellazioni di debiti dal resto d’Europa, in Scenari Economici, (2013),
(www.scenarieconomici.it) [12.12.2018].
24
CEO di General Electric

51
Nel 1953, dopo la fine della seconda guerra mondiale e la
conseguente ricostruzione dell'Europa, alla Germania venne concessa una
nuova ristrutturazione del debito sovrano.
Il Trattato di Londra, firmato dalle principali potenze creditrici del
governo tedesco, a partire da Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Italia e Grecia
e molti altri, stabiliva la cancellazione di oltre la metà del debito della
Germania (dell'ovest), il quale passava da 38 a 15 miliardi di marchi circa.
La ristrutturazione dapprima interessò le obbligazioni emesse in
ossequio ai piani di Dawes e Young con, oltre al taglio del capitale, un
ulteriore allungamento del periodo di scadenza, tanto che le prime vennero
liquidate nel 1969 e le seconde addirittura nel 1980 e con un tasso di
interesse ridotto e fissato al 5%.
Il trattato di Londra stabiliva pure che la seconda parte degli oneri di
ricostruzione derivanti dalla seconda guerra mondiale dovessero essere
pagati “a partire dal momento in cui sarebbe stata riunificata la Germania
Commented [FB5]: Fonte in nota
stessa”.
Tale avvenimento si verificò nel 1990, ma il cancelliere Kohl si
oppose alla richiesta, poiché il suo adempimento avrebbe determinato il
terzo default dello Stato. Le nazioni coinvolte acconsentirono a non esigere
quanto ancora dovuto, visti anche gli ingenti costi che la Germania
riunificata avrebbe dovuto sostenere per la riorganizzazione dello Stato
nazionale. Anche la Grecia rientrava fra le nazioni che accettarono la
richiesta tedesca.
Nel 2010, la Germania effettuò l'ultimo pagamento, con la
liquidazione dell'ultima tranche dovuta ai propri creditori.

Riflessioni sulla ristrutturazione tedesca

La ristrutturazione del debito tedesco derivante dal trattato del 1953,


offre spunti di riflessione particolari relativamente alle condizioni imposte
al debitore, così differenti rispetto a quanto avvenuto e sta tutt’ora
avvenendo nella gestione della crisi greca.

52
Innanzitutto, si stabilì che il debito tedesco sarebbe stato rimborsato
solamente in presenza di un credito commerciale, ossia in occasione di un
surplus della bilancia commerciale. In questo modo, poiché il rimborso
sarebbe stato correlato ad una effettiva disponibilità di risorse, non ci
sarebbe stato il bisogno di ricorrere a nuovi prestiti per saldare i debiti
preesistenti, evitando in tal modo un periodo di stagnazione economica e la
generazione di una spirale debitoria.
Inoltre, per favorire appunto la soddisfazione del debito, la Germania
era autorizzata a limitare le importazioni in caso di bilancia commerciale in
passivo, al fine di riequilibrare la situazione e generare un attivo tramite le
esportazioni che ne sarebbero seguite, soprattutto da parte dei paesi
creditori che sulla scorta di tale clausola avrebbero aumentato la quota di
importazioni. A corredo, la svalutazione del marco rispetto alle altre monete
rendeva allettanti le merci tedesche sui mercati mondiali.
Le nazioni creditrici, al fine di assecondare tale politica di
pagamento del debito, orientarono le loro decisioni verso il consumo
interno, di fatto accentuando le importazioni. La bilancia commerciale
tedesca non fu mai in deficit nel periodo interessato, ma la sola presenza
delle clausole fungeva da incentivo all’implementazione delle politiche
appena descritte.
Il programma di ristrutturazione, inoltre, è stato applicato nei
confronti di tutti i creditori, sia privati che stati nazionali, ai quali sono stati
applicati gli stessi criteri, per evitare l’apertura di contenziosi derivanti da
disparità di trattamento.
Tutti i debiti contratti in Germania sono stati sottoposti a
ristrutturazione, sia contratti con privati, con governi o con società estere,
da privati, società e governo tedesco.
Ciò significa che non solo il debito pubblico è stato interessato dal
taglio, ma anche tutti i rimanenti debiti che affliggevano il popolo tedesco.
Da ultimo, il rifiuto o l’impossibilità da parte del governo tedesco di
far fronte ai propri impegni avrebbe dato origine ad un tavolo di
negoziazione tra creditori e debitore, con la supervisione di un soggetto

53
internazionale terzo, piuttosto che dar origine a sanzioni in mancanza del
rispetto degli accordi.
Appare evidente come le condizioni concesse ai tedeschi nel
momento di necessità, per garantire la ripresa dopo la successione di guerre
che ha coinvolto l’Europa, hanno avuto l’esito sperato, portando la
Germania ad ottenere una posizione di rilievo tra le superpotenze mondiali
in campo economico.
Ciò che lascia perplessi, è il diverso approccio tenuto nel caso del
default greco dove si è preferito garantire gli interessi dei creditori a partire
dalla Germania stessa, la quale dalla Grecia venne aiutata invece nel 1990,
piuttosto che risollevare una nazione caduta in rovina.

Il debito pubblico americano

Tra i paesi che destano i maggiori timori in materia di debito


pubblico, pochi pensano siano compresi gli Stati Uniti.
Il debito americano, benché costituisca una parte non eccessiva del
totale mondiale25 è pur sempre il primo in assoluto.
Ma anche la classifica in rapporto al PIL vede ormai gli Usa piazzati
all’ottavo posto, dinnanzi a casi comunemente ritenuti assai più gravi, come
quello della Spagna.
Se si considera poi il cruciale “debt-to-revenue ratio”26, si entra in un
vero campo minato, il passivo è quasi dieci volte superiore alle entrate.
La causa principale della crescita smisurata di questo debito va
individuata negli elevati deficit di bilancio statale accumulati negli ultimi
decenni.
Dopo il picco del 120% superato alla fine della Seconda Guerra
mondiale per finanziare la colossale spesa bellica, il debito scese
costantemente per oltre un trentennio, fino alla soglia del 30% del PIL
raggiunta a fine anni 70, grazie soprattutto a una crescita economica media

25
poco più del 9%
26
Ovvero il rapporto con le entrate del governo federale, il denaro con cui il debito
andrebbe onorato.

54
annua superiore al 4% nel periodo 1950-1979, nonostante il peso di due
guerre costose come quelle in Corea e in Vietnam.
Il trend virtuoso si invertì con l'arrivo alla Casa Bianca di Ronald
Reagan, che lanciò un’epocale sfida geopolitica all’Urss basata
sull’incremento vertiginoso della spesa bellica, risultata insostenibile per
Mosca ma molto gravosa anche per le finanze statunitensi, con un salto
dell’indebitamento dal 32% al 50% del PIL.
Dopo le presidenze “virtuose” di Bill Clinton, in cui fu avviata una
certa riduzione, la via del “debito facile” fu ripercorsa da George Bush jr,
con il superamento della soglia del 60% per il riarmo dovuto alla guerra ad
al-Qaida e all’invasione dell’Iraq.
L’ulteriore balzo di 9.300 miliardi – senza precedenti in un periodo
di pace – è legato alla scelta di Barak Obama di contenere la devastante
crisi finanziaria, seguita al fallimento di Lehman Brothers, mediante il
ricorso a un prolungato e massiccio “quantitative easing”. Operazione nel
complesso riuscita, ma al prezzo di un aumento dal 65% a oltre il 100% del
debito totale rispetto al PIL.
Oltre i due terzi del debito pubblico americano è detenuto da
risparmiatori, imprese ed enti pubblici che posseggono banconote,
obbligazioni e altri titoli del debito, mentre il restante terzo è costituito da
debito interstatale, contratto tra oltre 230 agenzie federali.
A destare i maggiori timori è la parte ,pari a 2.800 miliardi, detenuta
dal Social Security Trust Fund, il sistema pensionistico americano – per
anni con gestioni fortemente attive e quasi tutte riversate in titoli del debito
interno, ma da tempo indebolito dalla prolungata crisi economica che ha
ridotto le sottoscrizioni degli aderenti per numero e consistenza, mentre nel
contempo si affacciano alla pensione i numerosi “baby boomer”.
Dal 2010 i versamenti erogati sono superiori agli introiti, cosa che
mette in dubbio la possibilità di continuare ad acquistare in futuro una quota
così elevata (14%) del debito.
Anche la parte detenuta da investitori esteri, 6281 miliardi, il 31,5% ,
quasi tutti sovrani, nasconde insidie rilevanti.

55
In particolare, il fatto che i due principali creditori siano Giappone e
Cina27. Poiché è loro interesse sostenere il valore del dollaro rispetto a
quello delle loro valute nazionali per favorire la competitività del loro
export.
Il controllo di oltre il 10% del debito americano dà loro un’arma
potente di ricatto politico, grazie alla minaccia di tagliare fortemente il
periodico riacquisto dei Treasury Bond Usa.
Benché, tuttavia, sia paradossalmente vero anche il contrario:
entrambi sono indotti a detenere una quota elevata di debito Usa per evitare
tracolli nelle quotazione del “biglietto verde” che si tramutino in un aiuto
insperato alla politica trumpiana, che punta a indebolire il dollaro per
sostenere le vendite di prodotti statunitensi.
Un'ulteriore criticità, infine, è costituita dalla ripartizione del debito,
che su base individuale ammonta a 61.560 dollari per cittadino americano,
mentre per contribuente addirittura a 167mila dollari.
A confronto, la “derelitta” Italia deve poco più della metà su base
procapite, ovvero 35.925 dollari, e meno di un terzo, neppure 53mila
dollari, per contribuente.
La debolezza Usa è accentuata dal fatto che la famiglia americana –
il vero pilastro su cui si fonda la capacità di ripagare quanto dovuto – nella
classifica mondiale della ricchezza figura solo al 19° posto, mentre quella
italiana è addirittura al terzo.
Ciò si spiega anche perché – come ebbe a dire nei primi anni 90
l’allora ministro italiano delle Finanze, Rino Formica – nel nostro Paese «il
convento è povero, ma i frati sono ricchi». La ricchezza netta delle famiglie
italiane è pari a sette volte il reddito disponibile, sei volte il PIL, quattro
volte e mezzo il debito pubblico, cosa che costituisce la più solida delle
garanzie.28

27
Il Giappone per 1.108 miliardi di ? mentre la Cina per 1.049 miliardi.
28
P. MIGLIAVACCA, la montagna del debito americano a quota 20mila miliardi di
dollari, in Econopoly (2017), (http://www.econopoly.ilsole24ore.com) [28.12.2018]

56
CAPITOLO 3

EFFETTI DEL DEBITO PUBBLICO E POLITICHE RISOLUTIVE

Principali tipologie di effetti

L’effetto più grave che può avere la crescita del debito pubblico è
rappresentato dall’insolvenza dello Stato, ovvero l’incapacità di onorare il
debito ai sottoscrittori, che siano privati o banche o imprese o enti, del
proprio Stato o di altri stati. ;
aAl contempo un elevato debito pubblico impoverisce lo Stato in
quanto la spesa per interessi si mantiene piuttosto alta.
Ancora, il debito pubblico sottrae denaro alla produzione in quanto il
risparmio dei cittadini va a congelarsi nei titoli del debito dello Stato, e non
viene messo in circolazione a favore di consumi e investimenti, innescando
una spirale recessiva. Impoverimento e recessione rappresentano fattori
di potenziale pericolo di insolvenza, che può portare al default dello
Stato.
Se si realizzasse una buona spesa la virtuosità di questa renderebbe
meno pericoloso il debito, poiché attiverebbe effetti compensativi.
Il tentativo di contenere il debito pubblico e i relativi interessi passivi
può comportare risvolti negativi per la popolazione.
Commented [FB6]: Quali?
I governi, già da tempo, hanno iniziato ad adottare misure per
diminuire la spesa pubblica ed incrementare le entrate.
Ne è conseguito un aumento delle tasse e la necessità di vendere, o
meglio svendere, il proprio patrimonio di beni immobiliari e di imprese,
senza però riuscire a risollevare le sorti dell’economia.
Gli effetti del debito pubblico sono diversi, essi si muovono
all’interno del nostro sistema economico, con ripercussioni in tutti i suoi
settori, generando le più svariate conseguenze.
Tra i principali effetti distinguiamo: effetti fiscali sulla politica
monetaria, effetti redistributivi ed effetti sugli investimenti o sulla crescita
economica.

57
Effetti fiscali sulla politica monetaria

Un paese con un alto debito pubblico è facile che abbia anchepuò


presentare spesso dei tassi di interesse piuttosto elevati, e la banca centrale
per attenuarli potrebbe realizzare una politica monetaria espansiva.
Questa può portare ad una diminuzione dei tassi di interesse nel
breve periodo, però questi rimarranno più o meno gli stessi nel lungo
periodo e i tassi nominali invece aumenteranno per l’inflazione.
In determinate situazioni quando uno Stato non sia più capace di
emettere nuovi titoli per finanziare il suo debito, potrebbe reperire risorse
mediante il signoraggio.29
Il finanziamento del debito mediante via monetaria viene inteso
come una delle cause che porta all’iperinflazione; una politica di resistenza
all’inflazione piuttosto efficace, invece, è quella di limitare il
finanziamento monetario del debito.
Nelle economie moderne l’inflazione risulta moderata dal momento
che il signoraggio non viene, nella maggior parte dei casi, più adoperato.
Inoltre uno dei metodi per finanziare il debito pubblico da parte dello
Stato è stampare moneta; questa comporta l’incremento dell’inflazione.
Difatti, la particolare causa dei fenomeni dell’iperinflazione è
rappresentata da una politica fiscale che fa affidamento all’imposta
d’inflazione per poter finanziare la spesa pubblica. Infatti i fenomeni di
iperinflazione coincidono a volte con una riforma fiscale che è
caratterizzata da contrazioni importanti della spesa pubblica, e che
diminuisce, pertanto, il ricorso al signoraggio.
Oltre al legame che vi è tra il deficit di bilancio e l’inflazione, alcuni
economisti sostengono che un alto indebitamento dello Stato induca il
governo a generare inflazione. Dato che il debito pubblico, o quanto meno

29
Il signoraggio viene definito come l'insieme dei redditi derivanti dall'emissione di
moneta. Per le banche centrali, il reddito da signoraggio può essere definito come il flusso di
interessi generato dalle attività detenute in contropartita delle banconote in circolazione o, più
generalmente, della base monetaria. Per l'Eurosistema, questo reddito è incluso nella definizione di
"reddito monetario", che, secondo l'articolo 32.1 dello statuto del Sistema europeo di banche
centrali e della Banca Centrale Europea è "il reddito ottenuto dalle banche centrali nazionali
nell'esercizio delle funzioni di politica monetaria del SEBC.

58
la maggior parte di esso è definito in termini nominali, comporta che il
valore reale del debito pubblico si riduca all’aumentare dei prezzi.
Ciò rappresenta la ridistribuzione della ricchezza tra i creditori e i
debitori derivata dall’inflazione inattesa; in questa situazione allora lo Stato
è il debitore e il settore privato è, invece, il creditore. Ma una differenza
sostanziale è che in questo caso il debitore può esercitare un controllo
sulla politica monetaria. Difatti un elevato livello di indebitamento
potrebbe indurre lo Stato a stampare moneta; ciò porterebbe ad un aumento
dei prezzi e ad una diminuzione del valore reale del debito pubblico.
Comunque, nonostante i vari legami che sussistono tra il debito pubblico e
la politica monetaria, alcune prove empiriche fanno comprendere che questi
stessi legami non siano significativi per la maggior parte dei paesi
sviluppati.
Tuttavia, esiste la probabilità ed il rischio che la politica monetaria
venga guidata dalla politica fiscale, come è successo nei casi di
iperinflazione; ma oggi ciò non costituisce una possibile eventualità per
diverse ragioni.
In primo luogo perché i governi, o quanto meno la maggior parte,
non possono finanziare il deficit mediante l’indebitamento, senza dover
ricorrere al signoraggio, e poi anche perché le banche centrali sono, il più
delle volte, indipendenti dall’esecutivo, e possono contrastare pressioni
politiche volte all’espansione dell’offerta di moneta, e infine perché i
responsabili della politica fiscale sanno che l’inflazione è una soluzione
inadeguata per quanto riguarda i problemi di origine fiscale.

Effetti redistributivi

Appare necessario focalizzare l’attenzione sugli effetti che la spesa


pubblica ha sulla dinamica del debito pubblico e anche sulla distribuzione
del reddito, in un assetto istituzionale dove è impedita la monetizzazione30.

30
Lla monetizzazione consiste nell’acquisto da parte della Banca Centrale, di titoli di
Stato, che la stessa pone nel suo attivo. Questo permette allo Stato di finanziarsi senza

59
Intanto bisogna tener conto che il debito pubblico italiano è più alto
della media europea, inferiore, come abbiamo già detto, solo a quello della
Grecia, nonostante negli ultimi anni vi sia stata una notevole diminuzione
della spesa pubblica e un incremento dell’imposizione fiscale.
Bisogna, pertanto, soffermarsi su due considerazioni.
La prima considerazione è relativa al paradosso della diminuzione
della spesa pubblica e del contestuale incremento della imposizione
fiscale, di fronte all’incremento del debito in valore.
Questa situazione in Italia si verifica da diversi anni e può essere
spiegata con
la circostanza che la diminuzione della spesa pubblica porta
parallelamente alla diminuzione della domanda interna, e dato che
l’indebitamento pubblico e privato rappresenta una componente della
domanda aggregata, offre il suo contributo alla deflazione che genera di
conseguenza un incremento dell’onere reale del servizio sul debito, così che
la flessione della spesa conduce ad incrementi del debito mediante
incrementi dell’onere degli interessi.
Questa situazione è accentuata dal fatto che i tagli della spesa si
trasformano in diminuzione e peggioramento dei servizi di Welfare, con
risvolti negativi sul tasso di crescita della produttività del lavoro, così che
minore spesa potrebbe implicare più debito.
Un tasso di crescita negativo o nullo e con inesistenza di aspettative
di ripresa, non può che creare, invece, l’aspettativa di insolvenza e non può
fare altro che obbligare lo Stato a emettere titoli con tassi crescenti.
Il principio che convenzionalmente viene preso in considerazione
per identificare la sostenibilità del debito, per il quale questo è tale se il
tasso di crescita g sia superiore al tasso di interesse reale r, risulta
discutibile, dal momento che non prende in considerazione che le due
variabili non sono indipendenti, difatti un basso tasso di crescita ha la
tendenza ad aggregarsi a tassi di interesse sui titoli elevati.

rivolgersi, inevitabilmente ai mercati finanziari, in una situazione nella quale i tassi di interesse
sono, generalmente, minori.

60
La seconda considerazione è relativa al fatto che un elevato e
crescente debito pubblico, ponendo un freno alla crescita degli
investimenti privati, genera effetti ridistributivi che portano danno ai
lavoratori, e al contrario beneficio ai percettori di rendite finanziarie e delle
grandi imprese.
In riferimento al primo aspetto, bisogna tenere conto che il
rimborso del debito, in un assetto istituzionale in cui per effetto
dell’Unione Monetaria Europea
vi è divieto di monetizzare il debito, può essere possibile soltanto
mediante incrementi dell’imposizione fiscale.
Considerato l’elevato tasso di disoccupazione e di conseguenza
il basso potere contrattuale dei lavoratori, non soltanto nel mercato del
lavoro ma anche nell’ambito politico, è possibile aspettarsi che la tassazione
abbia effetti gravi principalmente sul lavoro, configurando così un
meccanismo di redistribuzione del reddito che sposta risorse dal lavoro ai
detentori di titoli di Stato, e quindi alla rendita finanziaria.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, si può riscontrare che
l’adozione di politiche fiscali restrittive è vantaggiosa per le imprese più
grandi, che sono volte alle esportazioni permettendo loro di finanziarsi
con costi minori sui mercati finanziari.
Ciò perché la riduzione della spesa pubblica porta ad una
diminuzione dell’occupazione e, svigorendo il potere contrattuale dei
lavoratori, diminuisce anche i salari, così da poter consentire loro di
ottenere competitività sui mercati internazionali mediante una restrizione
dei prezzi.
Di contro la diminuzione della domanda interna generata da una
minore spesa pubblica e da una maggiore tassazione contribuisce alla
diminuzione dei profitti delle imprese più piccole, e localizzate in aree
meno sviluppate del Paese, che vendono prevalentemente su mercati interni.
La diminuzione dei profitti delle piccole imprese, cosi’ come
anche il loro fallimento, permette la realizzazione di operazioni di
acquisizione.

61
Da queste considerazioni risulta che la gestione della politica
fiscale rispecchia i conflitti intercapitalistici, dato che le imprese di piccole
dimensioni prediligono l’espansione della domanda interna, che rappresenta
un interesse contrastante con quello delle grandi imprese esportatrici, le
quali trovano conveniente ottenere risorse nei mercati finanziari e realizzare
politiche di moderazione salariale.
Da questo ne consegue che il divieto di monetizzazione del debito
sarebbe utile a far aumentare i guadagni speculativi delle banche e delle
imprese, mediante gli acquisti e le vendite di titoli del debito pubblico nei
mercati finanziari, e poiché implica diminuzioni di spesa ed incremento
delle tasse, contribuisce, anche se non in presenza di un’imposizione
normativa, al pareggio di bilancio.
Ed è il pareggio di bilancio che permette alle grandi imprese di
ottenere risorse sui mercati finanziari mediante emissione di titoli che non
sono in competizione con quelli emessi dallo Stato.
Ci si trova, così, in una situazione di politiche liberiste che
praticamente sono a vantaggiofiniscono per avvantaggiare di processi di
crescente concentrazione industriale.
Inoltre la crescita del debito pubblico porta anche ad effetti
Commented [FB7]: Quali? Inserisci fonte
ridistributivi su scala regionale; i dati della Banca d’Italia evidenziano che i
titoli di Stato sono in
larga misura detenuti da famiglie con reddito elevato, che
principalmente risiedono nelle regioni del Centro-Nord, mentre le famiglie
con reddito inferiore, e anche generalmente le famiglie residenti nel
Mezzogiorno, collocano i risparmi in forme più tradizionali, come ad
esempio in acquisto di buoni postali.
La Corte dei conti fa rilevare che i trasferimenti di risorse pubbliche
sono minori nel Mezzogiorno, e che l’influenza della pressione fiscale è
superiore al Sud; in
sintesi le famiglie meridionali, e in generale le famiglie con minor
reddito, ricevono pochi vantaggi dell’espansione del debito, dal
momento in cui partecipano, mediante la tassazione, al rimborso dello
stesso.

62
Se, quindi, le politiche di austerità aumentano il rapporto debito
pubblico/PIL creando effetti redistributivi a danno dei lavoratori, potrebbe
anche verificarsi un effetto simmetrico per il quale l’incremento della spesa
pubblica comporta gli stessi risultati. Questo può capitare se la spesa viene
finanziata mediante le emissioni di titoli del debito pubblico, in assenza di
monetizzazione, dato che, anche a parità di tassi di interesse, lo Stato dovrà
finanziare la spesa con emissioni aggiuntive di titoli.
Difatti non si negano gli effetti redistributivi di un incremento del
carico fiscale volto a diminuire il debito pubblico, perché è noto che i
soggetti colpiti dal maggior prelievo non coincidono con i soggetti che
ereditano i titoli del debito pubblico.
La questione distributiva influisce sulla generazione interessata
alla misura di rientro e le parti coinvolte saranno sia quelle chiamate a
pagare le maggiori imposte quelle la cui ricchezza contiene i titoli del
debito. Il problema riguarda la decisione di come distribuire il maggior
carico fiscale sulla collettività, un problema intra-generazionale e politico
che si presenta quando lo Stato si trova a stabilire la copertura della sua
spesa. Questo problema è aperto a soluzioni diverse, nelle quali sono
differenti gli interessi che vengono privilegiati o, contrariamente,
mortificati.
Coprire il rientro dal debito della veste di equità intergenerazionale è
quasi una maniera di nascondere, il conflitto di interessi che crea
l’operazione; difatti, l’attenzione per il benessere dei propri figli è una
questione inevitabile e ottiene un certo consenso che porta il dibattito
politico ad essere irrilevante riguardo le scelte da realizzare.
Nella questione distributiva determinata dalla contrazione del
debito pubblico assume rilevante importanza il finanziamento degli
interessi che lo Stato paga sul debito stesso; un trasferimento di reddito dai
gruppi sociali tassati a quelli che riscuotono gli interessi si effettua anche
per interventi che non siano volti alla diminuzione del debito, ma piuttosto
che si limitino a generare, nel bilancio dello Stato, un avanzo primario,
ovvero a diminuire il deficit ad un ammontare che risulti inferiore alla spesa
per interessi, finanziando con imposte una quota degli interessi stessi.

63
Il problema distributivo che questo trasferimento genera è legato alla
natura degli interessi quale puro reddito dei percettori, che non deriva da
alcuna deliberata programmazione di utilità sociale, come invece risulta per
le altre categorie della spesa pubblica, ed ancora al fatto che quel reddito si
riversa in proporzione maggiore sulle categorie nelle quali vi sono quote
piuttosto alte della ricchezza privata nel complesso, e pertanto anche di
titoli pubblici.
Inoltre, in presenza di alti livelli di debito pubblico, e quindi di
significativi flussi di interessi, la copertura mediante imposte può
portare a importanti effetti regressivi nella distribuzione dei redditi, con
risvolti negativi sul piano economico e su quello sociale. Questo caso, al
quale contribuirebbe anche l’elevatezza dei tassi d’interesse sul debito, e
pertanto il regime di politica monetaria attuato, risulta essere il problema
probabilmente più grave che l’accumulazione di debito pubblico può creare,
ove si vada verso una possibile diminuzione o stabilizzazione del suo
ammontare.

Effetti sugli investimenti e sulla crescita economica

Possiamo analizzare gli effetti che il debito pubblico ha sugli


investimenti sviluppando la seguente uguaglianza che rappresenta il vincolo
di bilancio del settore privato:

Y=C+R+T

In cui Y= reddito nazionale, C=consumo, R=risparmio e T=


tassazione
Il reddito nazionale (Y) è uguale al prodotto nazionale che viene
espresso in seguito:

Y=C + I + G + NX

64
Dove I è il livello degli investimenti domestici, G è il livello
di spesa pubblica e NX sono le esportazioni nette di beni e servizi;
combinando le prime due uguaglianze si ottiene:

R + (T- G) = I + NX

In cui la somma degli investimenti e dell’avanzo pubblico è uguale


alla somma degli investimenti e delle esportazioni nette, le quali sono pari
agli investimenti netti all’estero (NFI), ovvero rappresenta la differenza tra
gli investimenti all’estero dei residenti e gli investimenti nel paese dei
cittadini stranieri, ottenendo quindi:

R + (T- G) = I + NFI

Questa esprime l’uguaglianza tra risparmi totali (privati e pubblici) e


gli investimenti totali (domestici e esteri). Inoltre la creazione di deficit
provocato dal taglio
delle tasse può essere bilanciata con l’aumento dei risparmi privati
oppure con la contrazione degli investimenti domestici o anche di quelli
esteri.
La riduzione del risparmio pubblico dovrebbe essere compensata in
buona maniera da un incremento del risparmio privato, così che
l’uguaglianza, ovvero R + (T- G) = I + NFI, rimanga senza che vi sia una
contrazione degli investimenti; in realtà però il risparmio privato, non
facilmente bilancia la diminuzione di quello pubblico e quindi produce così
una riduzione degli investimenti sia domestici che esteri.
La contrazione degli investimenti contribuisce, nel lungo periodo, ad
una diminuzione anche dello stock di capitale nel sistema economico; di
conseguenza un basso capitale porta ad una inferiore produttività del lavoro.
Ciò porta ad una restrizione dei salari reali e della produzione
aggregata. Un altro risvolto della diminuzione dello stock di capitale è
rappresentato

65
dall’incremento della sua produttività marginale e nel lungo periodo
in equilibrio si ha anche un incremento del tasso di interesse.
La contrazione degli investimenti netti all’estero porta alla
diminuzione dei redditi da capitale dei cittadini; inoltre ciò comporta anche
una contrazione delle esportazioni nette.
Anche la crescita dell’emissione di titoli di Stato, e l’incremento dei
loro rendimenti, rappresenta un incentivo importante alla speculazione;
l’attività speculativa
si rende conveniente quando le banche restringono l’offerta di
credito, questo in ragione del fatto che la contrazione del credito riduce
l’eventualità di realizzare investimenti, e induce le imprese a tentare di
realizzare profitti sui mercati finanziari.
Invece per quanto riguarda l’indebitamento delle amministrazioni
pubbliche nelle economie avanzate esso è arrivato a livelli che di rado
sono stati osservati; contemporaneamente nelle stesse sono aumentate
anche le paure per la crescita a lungo termine.
Dopo la crisi finanziaria ed economica il rapporto fra debito pubblico
e PIL ha avuto un aumento significativo, ed è possibile anche che nel medio
termine resti su livelli importanti. Tenendo conto delle considerevoli
passività legate al costo dell’invecchiamento della popolazione, i mercati
sono sempre più sofferenti in merito alla sostenibilità a lungo termine delle
finanze pubbliche nelle economie avanzate.
È inoltre probabile che un governo in situazione solvente avente un
alto debito decida di mettere in atto delle politiche fiscali restrittive con
lo scopo di diminuire la possibilità di un incremento dello spread;
queste politiche potrebbero porre un freno alla crescita, soprattutto se
vengono realizzate in un periodo di recessione. In questo caso sarebbe
giusto affermare che il debito induce ad una contrazione della crescita,
ma solo per il motivo che un alto indebitamento crea confusione e
l’adozione di politiche restrittive.
Se, da una parte, quest’idea pone una giustificazione all’attuazione di
politiche di lungo periodo volte alla contrazione del debito, dall'altra parte
porta al fatto che i Paesi non dovrebbero realizzare delle politiche restrittive

66
in presenza di un periodo di recessione, essendo queste il motivo del legame
negativo tra debito pubblico e crescita economica.
Tuttavia si sottolinea l’importanza di ridurre il debito pubblico per
ripristinare la sostenibilità fiscale e contemporaneamente facilitare le
prospettive di crescita economica a più lungo termine.

Ipotetiche politiche risolutive

Le dimensioni del nostro debito pubblico impediscono una politica


monetaria espansiva e una politica economica di sviluppo. Sullo sfondo ci
sono la salvaguardia dell'Euro e della nostra partecipazione all'Unione
Europea.
L'Italia sta già violando in modo molto pesante una delle due regole
fondamentali dell'Euro: il non superamento del 60% del rapporto tra debito
e PIL. In questo senso in Europa con il nostro 130%, inferiore solo a quello
greco, siamo visti come un caso patologico e malato. Siamo considerati un
Paese a rischio perché i nostri titoli sul debito pubblico, dai Bot ai Cct, sono
visti come viziosi. Ecco il motivo per cui è sempre sotto controllo il
famigerato spread.
L'altra regola fondamentale è il rispetto del 3% del deficit sul PIL.
Questa regola siamo in grado di rispettarla. Ma immaginare che il
nostro debito possa un giorno rientrare sotto il tetto del 60% è una vera e
propria utopia. Un'utopia disegnata dal fiscal compact. Noi lo abbiamo
sottoscritto e accolto nella nostra Costituzione. Ma significherebbe per
l'Italia abbattere di una cinquantina di miliardi l'anno il debito. Impossibile.
Tutti gli economisti e i politici riconoscono che il più grave e urgente
problema che soffoca l’economia italiana è l’eccesso di debito pubblico.
Tutti sono concordi: se il debito pubblico continua a crescere con questa
dinamica diventerà insostenibile. La crescita reale del PIL italiano è
attualmente di 1,5%, l’aumento dell’inflazione è pari a 0,8%, quindi la
crescita nominale è del 2,3%, mentre gli interessi che paghiamo ai mercati
finanziari sono pari a oltre il 3% del PIL.

67
L’Italia produce ogni anno più debito che reddito. Come risolvere il
problema ed evitare una crisi verticale dell’economia italiana?
In valore assoluto il nostro debito segue solo quello degli Stati Uniti
d’America, pari a 18.237 miliardi di dollari, Giappone, 10.557 miliardi e
Cina, 5000 miliardi circa. Ma è il valore relativo rispetto al PIL che
preoccupa: qui siamo dietro solo a Giappone, 200% sul PIL e Grecia, circa
175% .
Soprattutto, il nostro debito pubblico cresce a spirale: lo stato italiano
aumenta il suo debito per pagare gli interessi sul debito.
A chi dovremmo restituire il debito di stato? Gli investitori stranieri
contano per circa il 30%, le banche il 29%, le assicurazioni il 21% e Banca
d’Italia circa il 15%. Le famiglie italiane detengono ormai soltanto il 5%
del debito pubblico. Non investono più nei titoli pubblici del loro Paese.
La spirale del debito affonda la nostra economia.
Il pericolo di fallimento dello stato italiano non è affatto cessato. I
rischi davanti a noi sono molteplici:
a) La fine del Quantitative Easing da parte della Banca Centrale
Europea. Con la fine del QE è certo che i tassi di interesse aumenteranno e
che quindi l’Italia dovrà pagare di più per servire il debito pubblico;
b) L’introduzione del Fiscal Compact, cioè l’inasprimento previsto
delle politiche europee di austerità e di rientro accelerato dal debito.
La proposta forse più pericolosa per l’Italia, proveniente dagli
economisti e dai politici europei più “falchi”, come l’ex ministro delle
Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, è però quella che alle banche
nazionali sia imposto un tetto limitato per il possesso dei titoli pubblici del
loro paese, e/o che questi non siano più considerati privi di rischio, e che
quindi richiedano una copertura di capitale. In tal caso le banche nazionali
sarebbero costrette a vendere-svendere molte decine di miliardi di debito
pubblico italiano. Se passasse questa proposta – con il falso pretesto di
disaccoppiare la possibile crisi degli stati da quella delle banche e viceversa
– le banche dovrebbero affrontare grandi difficoltà, ma soprattutto il debito
pubblico sarebbe in gran parte denazionalizzato e lo stato italiano sarebbe

68
completamente dipendente dagli umori e dai capricci dei mercati finanziari.
L’Italia cadrebbe in completa balia della speculazione internazionale.

Politiche di rientro del debito pubblico

Il debito pubblico non può crescere infinitamente; ciò può diventare


pericoloso e a lungo termine non tollerabile. Gli interventi per contenere o
risolvere il problema del debito pubblico vengono appunto indicate come
politiche di rientro.
L’accumulazione del debito al di fuori dei conti della pubblica
amministrazione, rappresenta una pratica da sempre evitata e peraltro
vietata dal Patto Fiscal Compact del marzo 2012.
Le politiche di rientro del debito pubblico si basano sostanzialmente
su tre diverse misure che sono:
•riduzione del disavanzo corrente ;
•abbassamento del saggio di interesse;
•sviluppo del reddito.
Il deficit corrente è determinato da uno squilibrio tra le uscite e le
entrate correnti, la riduzione del debito può essere perseguita quindi
mediante il contenimento della spesa pubblica ovvero mediante
l’aumento delle entrate, ovvero l’incremento della tassazione.
In un paese come l’Italia, dove i servizi pubblici non brillano
per efficienza, il contenimento dell’offerta non rappresenta la strada
migliore; la strada percorribile è quella di limitare gli sprechi e
razionalizzare le risorse disponibili, ovvero procedere ad una radicale
riorganizzazione e razionalizzazione delle entrate.
Un’altra misura perseguibile che può generare l’aumento delle
entrate, pur essendo una misura una tantum, è quella di avviare un processo
di privatizzazione che incide direttamente sul bilancio corrente riducendone
il fabbisogno.
Nel nostro paese le politiche di rientro del debito sono state
realizzate soprattutto in vista dell’ingresso nella moneta unica e si sono

69
concretizzate nel tentativo di contenere il disavanzo corrente di bilancio,
determinato dall’esubero delle spese rispetto alle entrate.
Ad un primo periodo di contenimento del deficit, come abbiamo
visto, è seguito un periodo di incremento del deficit dovuto al
mancato proseguimento delle virtuose politiche applicate per l’ingresso
nella moneta unica, e alla crisi economica scoppiata nel 2008.
Per fare fronte alla crisi economica, in un quadro economico
recessivo, le politiche di riduzione del debito si sono basate generalmente
sull’aumento della pressione fiscale a carico della collettività dei
contribuenti e sui tagli della spesa31 però senza produrre effetti incisivi.
Questo periodo è stato caratterizzato dall’aumento di emissione di
buoni del Tesoro poliennali, di difficile collocamento nel mercato, con
rendimento vieppiù crescente in ragione del rischio percepito dagli
operatori del mercato, di fatto non consentendo il perseguimento di
una delle politiche praticabili per l’abbassamento del debito pubblico che
consiste proprio nella limitazione del saggio di interesse sul debito.
Sempre in tema di politica del saggio di interesse, lo Stato potrebbe
introdurre un’imposta sugli impieghi di capitali all’estero32, che diminuendo
il profitto netto dell’investimento elimina di conseguenza il vantaggio di un
tasso di interesse maggiore al di fuori dei confini nazionali;
questa politica però non è in sintonia con l’attuale mercato globale.
Infine vi sono le politiche di sviluppo del reddito, che sono
particolarmente difficili poiché, come detto, non è possibile ampliare la
spesa pubblica a fronte dell’aumento della tassazione in quanto ciò potrebbe
portare ad effetti depressivi sui consumi.
Piuttosto appare necessario ed indifferibile il riordino complessivo
della spesa pubblica e delle entrate tributarie da correlare ad una completa
riorganizzazione della
pubblica amministrazione al fine di fornire un migliore servizio al
privato, sia cittadino che impresa, diminuendo i diversi passaggi
burocratici.

31
Sspesa sanitaria, pensionistica e del comparto pubblico.
32
Ttassa di Tobin. (inserisci una breve definizione della tassa Tobin)

70
Da una riorganizzazione della spesa e della pubblica
amministrazione possono essere
generate quelle risorse necessarie sia per la riduzione del debito
pubblico che anche della tassazione che grava sia sul cittadino che sulle
imprese, con ciò favorendo la capacità di spesa dei cittadini.
In tema di entrate tributarie è da sottolineare la grande evasione od
elusione fiscale che sottrae cospicue risorse al bilancio dello stato; una
accurata lotta all’evasione consentirebbe sicuramente una riduzione del
debito ed una maggiore disponibilità per l’attuazione di politiche espansive.

Ipotesi di possibili manovre di aggiustamento

Secondo l’autorevole economista tedesco Richard Werner33 la


soluzione più efficace e immediata per diminuire il debito pubblico è
quella che lo Stato si faccia prestare i soldi direttamente dalle banche
commerciali invece di indebitarsi – come fa attualmente – con i
mercati finanziari emettendo titoli negoziabili.34
Secondo Werner, i governi per finanziare i deficit pubblici
dovrebbero preferibilmente indebitarsi direttamente con le banche
private – o possibilmente con una banca pubblica, accendendo dei
prestiti di lunga durata a bassi tassi di interesse. Infatti nella quasi
totalità dei casi, i prestiti concessi dalle banche ai grandi e meno
rischiosi enti economici hanno tassi di interesse notevolmente più
bassi di quelli applicati sul mercato finanziario. Inoltre i prestiti
bancari non sono soggetti alle incertezze e alla dinamica altalenante e
speculativa del mercato dei titoli di Stato, e non sono soggetti alle
valutazioni spesso erronee e tendenziose delle Agenzie di Rating:
queste hanno spesso emesso giudizi di downgrade che hanno

33
Richard Andreas Werner è un economista tedesco professore di economia monetaria e
dello sviluppo presso University of Southampton.
34
R.WERNER, Enhanced Debt Management: Solving the eurozone crisis by linking debt
management with fiscal and monetary policy, in Journal of International Money and Finance,
Volume 49 (2014)

71
danneggiato gli Stati e i settori pubblici e che hanno contribuito non
poco alla crisi dei debiti sovrani.
Una soluzione del tipo di quella attualmente proposta da Werner
venne adottata in Gran Bretagna durante la Seconda Guerra Mondiale
quando, anche su consiglio di John Maynard Keynes, il Tesoro
britannico si fece prestare dalle banche dei fondi all’1,125% di
interesse.
Anche le banche potrebbero guadagnare dei notevoli vantaggi
prestando soldi allo Stato. Innanzitutto questi prestiti non sono valutati
Formatted: Font: Italic
con il metodo mark to market e quindi rappresentano una voce
contabile stabile e non soggetta a variazioni negative nelle fasi di crisi;
inoltre, secondo le regole di Basilea i prestiti allo Stato sono
classificati come sicuri, non richiedono di essere coperti da un
incremento di capitale della banca prestatrice, e possono anche essere
utilizzati come collaterali presso la BCE. Così le banche avrebbero il
miglior rapporto capitale/rischio e potrebbero anche offrire più credito
all’economia reale.
Questa soluzione ha un merito che mi sembra di fondamentale
importanza: essa permette di nazionalizzare il debito e di non esporlo
alla speculazione di soggetti stranieri che, ovviamente, mirano al loro
profitto e non all’interesse nazionale. E che sono più rapidi a fuggire
nelle situazioni di crisi, cioè proprio nei momenti in cui c’è più
bisogno di capitali.
In base alla proposta di Werner si potrebbe ipotizzare che in
Italia una banca pubblica, per esempio MPS, conceda prestiti di lungo
periodo allo Stato funzionando anche come calmiere nei confronti del
mercato finanziario. Quota parte degli interessi maturati sui crediti
concessi allo Stato ritornerebbe allo Stato azionista sotto forma di
dividendi sugli utili con vantaggio per le casse pubbliche.
Un progetto per alcuni aspetti analogo a quello di Werner ma
ancora più radicale – quindi più efficace ma non facile da realizzare in
tempi brevi , è quello prospettato dall’economista Michele Fratianni in

72
collaborazione con Paolo Savona. I due firmatari propongono una
profonda e ambiziosa riforma del sistema monetario e bancario35.
Si propongono di risolvere non solo la complessa questione
della riduzione del rapporto debito/PIL ma anche due altri gravi
problemi: quello della difesa del risparmio privato, che, come
prescritto dalla Costituzione, deve essere tutelato dallo Stato; e quello
delle banche che custodiscono il risparmio ma che non possono
completamente garantirlo a causa della crisi finanziaria e della crisi
del debito sovrano.
Essa consiste nel dividere le banche che raccolgono moneta
(money bank) da quelle che concedono credito (credit bank) al fine di
annullare i rischi e gli oneri di gestione delle insolvenze che gravano
sui depositi, e di concentrare l’attività delle banche nella valutazione
del merito per concedere credito in modo da ridurre le sofferenze”.
In effetti il progetto di Fratianni e Savona si ricollega
esplicitamente e dichiaratamente al cosiddetto Chicago Plan, elaborato
in Nord America all’inizio della grande crisi da economisti come
Henry Simons e da Irving Fisher .36
Secondo il Chicago Plan, il denaro raccolto con i conti correnti
a vista non dovrebbe essere usato per offrire credito e quindi come
leva per “creare dal nulla” nuova moneta; andrebbe invece depositato
presso la banca centrale e investito in moneta legale e in sicuri titoli di
Stato.
La riserva bancaria frazionaria andrebbe abolita, mentre i
depositi a vista dei correntisti dovrebbero essere garantiti al 100%.
Tutti i tipi di prestiti (che per loro natura presentano dei rischi e non
possono essere completamente garantiti)

35
M.FRATIANNI, It is time to separate money banks from credit banks in Italy , in
Money Finance Research Group, Working paper no. 138, (2017)
36
. Questoa progetto è stato poi ripreso con lo studio “The Chicago Plan Revisited”, un
report dell’International Monetary Fund report scritto nel 2012 da Jaromir Benes and Michael
Kumhof.

73
dovrebbero essere invece offerti dalle banche commerciali che
sarebbero obbligate a provvedere alla loro copertura con capitale
proprio, obbligazioni o altri strumenti.
In pratica le banche commerciali dovrebbero diventare quello
che molti, sbagliando, credono che siano già: puri intermediari la cui
attività dipende dalla capacità di trovare finanziamenti esterni prima di
essere capaci di far credito.
Questo sistema ridurrebbe il principale fattore critico del settore
creditizio attuale, cioè il disallineamento tra la durata dei debiti e dei
prestiti: attualmente infatti i conti correnti possono essere estinti “a
richiesta” ma finanziano mutui e prestiti alle aziende che sono
immobilizzati per tempi lunghi.
Applicando i criteri dettati dal Chicago Plan i depositi dei
risparmiatori sarebbero completamente garantiti dalla banca centrale e
non si potrebbero più verificare corse allo sportello.
I soggetti che invece volessero rischiare per ottenere un
maggiore rendimento, investirebbero i loro soldi in maniera
consapevole nelle banche commerciali.
Le banche ridurrebbero i rischi di insolvenza e i governi non
dovrebbero predisporre garanzie sostenute dai contribuenti.
Prendendo spunto da questa proposta – che peraltro non venne
accettata, almeno nella sua completezza, dal presidente americano del
tempo, F.D. Roosevelt – i due economisti italiani suggeriscono la
separazione tra la Money Bank pubblica – che gestisce il risparmio dei
depositanti e il sistema dei pagamenti – e le banche commerciali.37
Secondo il progetto di Fratianni e Savona, i risparmiatori, in
cerca della massima garanzia e tutela dei loro soldi, sposterebbero su
basi volontarie i loro depositi, in particolare quelli utilizzati come
mezzo di pagamento formalmente garantiti dal Fondo Interbancario di
Tutela dei Depositi, cioè quelli fino ad un massimo di 100mila euro38
presso una nuova istituzione statale, la Banca-Moneta.
37
Credit Bank?
38
In effetti il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, al quale devono aderire tutte le
banche italiane aventi come forma societaria la società per azioni, non può garantire

74
Quest’ultima custodirebbe i depositi in maniera completamente
sicura grazie alla loro copertura integrale e al loro inserimento nella
catena telematica blockchain attivabile da parte dei titolari per
effettuare pagamenti con un click del telefonino o con il mouse del
computer.39
In base alle stime, i depositi attualmente garantibili assommano
Commented [FB8]: Fonte?
a circa 800 miliardi di euro. Grazie a questa rilevante massa di denaro,
la Banca-Moneta assorbirebbe buona parte del debito pubblico,
evitando così che questa quota subisca le oscillazioni e le speculazioni
tipiche del mercato finanziario.
Fratianni illustra così il meccanismo di funzionamento: “La
banca-moneta finanzia con i depositi “garantibili”, lato passivo della
banca, acquisti di titoli di stato, lato attivo della banca. La banca-
moneta diventa un acquirente “fisso” di debito pubblico.
Nel tempo lo stock di debito detenuto dalla banca-moneta
cresce in virtù del fatto che la domanda di moneta è sensibile al
reddito.
Il debito pubblico diventa meno pesante per l’economia perché
lo stock di debito detenuto dalla banca-moneta non è sensibile al tasso
di interesse, in virtù della caratteristica di cliente “fisso”.
In sintesi: contabilmente, il debito non diminuisce ma la
proposta ha come beneficio collaterale una importante riduzione della
Commented [FB9]: Controlla l’apertura e chiusura di tutte le
componente “interest-rate sensitive” del debito pubblico”. virgolette in questo passaggio e se c’è una citazione metti la fonte.

La Banca-Moneta guadagnerebbe il suo reddito dagli interessi


sui titoli di stato di sua proprietà. Questo reddito, dopo i costi operativi

completamente tutti i depositi dal momento che le banche consorziate sono tenute a versare solo
una quota minima di copertura. L’impegno oscilla tra lo 0,4% e lo 0,8% dei fondi rimborsabili di
tutte le consorziate. Al 31 dicembre 2016, i mezzi finanziari disponibili, e cioè la dotazione del
FITD per rimborsare i correntisti, era di 543milioni di euro, cioè solo lo 0,09% delle masse
rimborsabili. Il FITD è quindi per sua natura impotente di fronte a una crisi sistemica
39
Una blockchain è come un registro digitale aperto e distribuito che può registrare le
transazioni tra due parti in modo efficiente, verificabile e permanente. Il database sfrutta una rete
peer-to-peer che si collega ad un protocollo per la convalida dei nuovi blocks. Una volta registrati,
i dati in un blocco non possono essere retroattivamente alterati senza che vengano modificati tutti i
blocchi successivi ad esso, il che necessiterebbe il consenso della maggioranza della rete.
L’applicazione del blockchain al bitcoin ha reso quest’ultima la prima valuta digitale funzionante
senza l’utilizzo di un server centrale o di un’autorità centralizzata.

75
e i rendimenti sul capitale, potrebbe essere trasferito ai depositanti. I
rapidi progressi tecnologici nei meccanismi di pagamento – per
esempio l’uso estensivo della blockchain – sono destinati a ridurre
drasticamente i costi operativi di una banca monetaria rispetto a quelli
di una banca tradizionale.
Le Credit Bank invece opererebbero sul mercato dei prestiti
grazie a risorse che non possano generare corse agli sportelli, ovvero
capitale azionario e obbligazioni di medio-lungo termine, sottoscritte
ovviamente da chi intende remunerare il suo risparmio investendo sul
business della banca.
Quale sarebbe in conclusione il risultato di questa operazione?
Secondo le stime di Fratianni e Savona, qualora l’intera massa di
depositi “garantibili” si spostasse sulla banca-moneta, processo
questo molto probabile perché i risparmi sarebbero così perfettamente
tutelati e i depositi meno costosi, la quota di debito pubblico
negoziata sul mercato finanziario, e quindi soggetto alle incertezze e
alle speculazioni caratteristiche di questo mercato, si ridurrebbe di
circa 800 miliardi, convergendo verso circa l’85% del PIL dall’attuale
133%.
Questo progetto sfrutta il fatto che la ricchezza del paese è circa
sei volte il PIL e che i mezzi di pagamento ne sono parte integrante;
quindi è possibile, secondo i due economisti promotori, garantire e
nazionalizzare il debito grazie alla notevole somma costituita dai
depositi bancari. Ma non solo: secondo i proponenti, i risparmiatori
sarebbero i maggiori beneficiari, e anche le banche e l’economia reale
godrebbero di alcuni importanti benefici.
Infatti,: I i depositanti sarebbero completamente tutelati perché i
loro mezzi di pagamento non verranno verrebbero più messi a rischio
concedendo credito a lunga scadenza;
grazie alle tecnologie blockchain, il costo del sistema dei
pagamenti si ridurrebbe rispetto a quello oggi praticato dalle banche e
l’uso sarebbe più semplice, con effetti sociali rilevanti;

76
le banche non avrebbero più gli oneri di finanziamento dei fondi
di tutela depositi che non sarebbero più necessari;
le banche tornerebbero a fare il loro mestiere, ovvero concedere
credito alle imprese e alle famiglie, comportandosi da imprenditrici
invece che da rentier;
il miglioramento che ne conseguirebbe per le valutazioni del
merito di credito innalzerebbe la performance del sistema economico
italiano senza incorrere nel rischio derivante da comportamenti di
azzardo morale.40
Come è facile intuire, il progetto di Fratianni e Savona
rivoluzionerebbe in maniera radicale sia il sistema monetario che
quello bancario. Le banche non potrebbero più creare moneta dal nulla
e di fatto l’emissione monetaria diventerebbe di competenza esclusiva
della Banca Centrale.
Il progetto appare quindi potenzialmente tanto efficace per
garantire, e tendenzialmente anche ridurre il debito pubblico, quanto
di difficile attuazione: nell’immediato troverebbe fortissime resistenze
in molti ambiti, sia in campo politico che presso gli istituti bancari e
monetari.
Un altro interessante progetto mira ad aumentare il PIL e a
diminuire il debito pubblico attraverso i Buoni Fiscali.
Il progetto relativo all’emissione di Buoni Fiscali convertibili
in euro41 si distingue dai primi due perché è mirato non a riformare il
sistema monetario e bancario ma a rivitalizzare direttamente
l’economia reale. E ha il merito di essere attuabile autonomamente da
parte delle autorità nazionali nel quadro delle regole e delle norme
dell’eurozona.
Esistono infatti, infatti, due maniere di ridurre il rapporto tra
debito pubblico e PIL: la prima è di ridurre il debito; la seconda è di
far crescere il PIL.
La prima maniera è dolorosa e complessa.

40
oggi connessi grazie alla garanzia sui depositi.
41
La cosidetta moneta fiscale.

77
La seconda maniera – ovvero la crescita del PIL – è certamente
più felice perché comporta lo sviluppo dell’economia e la fuoriuscita
dall’austerità e dalla crisi.
Fare crescere il PIL in una situazione di deflazione è
Commented [FB10]: !!!
teoricamente molto semplice: occorre innanzitutto far circolare più
liquidità nell’economia reale in modo che aumenti la domanda e che
quindi ripartano i consumi e gli investimenti pubblici e privati.
La crisi italiana non deriva infatti dall’offerta: le capacità
produttive ci sono ancora in Italia, e sono forti e vitali, come dimostra
Commented [FB11]: Fonte?
l’avanzo della bilancia commerciale con l’estero di circa 60 miliardi.
La crisi ha colpito duro, ma le risorse umane e il capitale
produttivo sono tuttora presenti, anche se largamente sottoutilizzate
proprio a causa della carenza di domanda.
Il problema attuale dell’economia italiana si pone quindi in
questi termini: come e dove trovare la moneta e la liquidità necessaria
per incrementare la domanda?
Se la BCE con il Quantitative Easing non è riuscita a fare
circolare nuova moneta nell’economia reale, tocca al governo
immettere nuova liquidità grazie alla quasi-moneta fiscale.
L’emissione di buoni fiscali potrebbe finalmente ridare ossigeno
all’economia e farci uscire dalla drammatica trappola della liquidità
che soffoca l’economia italiana.
Che cosa sono i Buoni Fiscali ? Che cos’è la moneta fiscale?
Innanzitutto non è una moneta parallela alternativa alla moneta legale
(l’euro) ma è uno strumento finanziario, un titolo di stato negoziabile
e quindi subito convertibile in euro. La proposta è che il governo
italiano emetta in maniera massiccia, ovvero per qualche decina di
miliardi di euro, Titoli di Sconto Fiscale (TSF)42 che diano diritto ai
loro possessori di ridurre i pagamenti dovuti alla pubblica
amministrazione a partire da tre anni dall’emissione.
I TSF emessi oggi potranno essere utilizzati fra tre anni, dando
titolo al portatore di beneficiare di un taglio delle tasse e di altre

42
Cosidetti TSF.

78
obbligazioni nei confronti dello stato per un ammontare equivalente
al loro valore nominale.
I TSF tuttavia, esattamente come tutti gli altri titoli di stato,
come i Bot e i CCT, potranno anche essere ceduti immediatamente sul
mercato finanziario in cambio di euro. Così incrementano la capacità
di spesa dell’economia sin dal momento in cui essi vengono emessi.
Il loro valore di mercato sarà analogo a quello di un titolo di
stato zero-coupon a tre anni.
Sul piano istituzionale la manovra, essendo basata su titoli
fiscali, è perfettamente in linea con i trattati europei poiché in campo
fiscale ogni stato è formalmente sovrano.43
In base alla proposta, il governo attribuirà i TSF senza
corrispettivo (gratuitamente) a cittadini e aziende, e utilizzerà i TSF
anche per i pagamenti della Pubblica Amministrazione.
Ai cittadini i TSF saranno attribuiti in proporzione inversa al
reddito, privilegiando ceti sociali disagiati e lavoratori a basso reddito:
questo sia per incentivare i consumi che per ovvie ragioni di equità
sociale.
Una quota significativa dei TSF sarà utilizzata a sostegno di
iniziative di pubblica utilità: innanzitutto un Piano del Lavoro
finalizzato a realizzare infrastrutture immateriali e materiali.
Inoltre i TSF potrebbero essere utilizzati dallo Stato per
programmi di rafforzamento e riqualificazione del welfare e per il
Reddito Minimo.
Alle aziende, le assegnazioni saranno attribuite principalmente
in funzione dei costi di lavoro da esse sostenute.
L’attribuzione di TSF alle aziende ridurrà i costi di lavoro, ne
migliorerà immediatamente la loro competitività ed eviterà che

43
I TSF non generano debito né al momento dell’emissione né in quello dell’utilizzo,
ovvero dopo tre anni dall’emissione. Infatti nel momento della creazione di TSF lo stato non
sborsa soldi, e quindi non registra alcun deficit fiscale; inoltre i TSF non possono essere
contabilizzati come deficit pubblico perché il governo emittente non s’impegna a rimborsarli in
euro ma soltanto a concedere futuri sconti sulle tasse. E lo sconto non è mai debito. Inoltre dopo
tre anni dall’emissione dei TSF, il PIL e i ricavi fiscali, per effetto del moltiplicatore keynesiano,
permetteranno di ripagare il buco fiscale che altrimenti, a parità di condizioni, si sarebbe creato.

79
l’effetto espansivo sulla domanda interna crei un peggioramento dei
saldi commerciali esteri.
Quindi la manovra non genererà scompensi sulla bilancia dei
pagamenti.
Lo shock monetario-fiscale renderà nuovamente vitale
l’economia nazionale.
Le emissioni di TSF potrebbero partire da un livello pari al 3%
circa del PIL annuo – circa 40 miliardi di euro – e essere modulate e
calibrate nel tempo in modo da assicurare alti livelli di occupazione
senza però produrre una inflazione superiore al 3-4%, né scompensi
Commented [FB12]: Fonte?
nei saldi commerciali esteri.
L’incremento della domanda legata al maggior potere
d’acquisto farà crescere il PIL in misura più che proporzionale rispetto
Commented [FB13]: Fonte?
all’emissione di TSF, intorno al 3-4%, fino al recupero completo
dell’output gap prodotto dalla crisi. Nel periodo che va dall’emissione
dei TSF alla loro maturazione entrerà infatti in funzione il
moltiplicatore del reddito.
Come insegna l’esperienza storica, e come hanno verificato
Olivier Blanchard e Daniel Leigh in un noto studio effettuato per
conto del FMI, il valore del moltiplicatore risulta particolarmente
elevato in caso di forte sottoutilizzo delle risorse e di tassi di interesse
Commented [FB14]: Devi mettere in nota il riferimento
tendenti allo zero, come è nella situazione attuale. bibliografico che citi di Blanchard e Leigh

Nelle condizioni di crisi e di trappola della liquidità il


moltiplicatore è storicamente anche molto superiore a uno: così ogni
euro immesso in circolazione genererà un più che proporzionale
aumento del PIL.
Dopo tre anni dall’emissione dei TSF la crescita del PIL indotta
dal moltiplicatore darà luogo a nuovo gettito fiscale che compenserà il
costo dei TSF senza incremento di deficit e di debito pubblico.
In conclusione: questo progetto è innovativo e radicale ma è
l’unico fattibile in tempi brevi per risolvere la crisi sociale ed
economica.

80
Un governo ambizioso, intelligente e coraggioso potrebbe, sul
piano tecnico, emettere TSF nel giro di poche settimane. Il progetto di
Moneta Fiscale non richiede infatti riforme (impossibili) dei trattati
dell’Unione Europea e non implica l’uscita dell’Italia dall’eurozona.
Emettere moneta fiscale è una decisione che un governo
potrebbe prendere autonomamente senza rompere con l’euro e con
grande consenso sociale.
Il progetto di Moneta Fiscale offre il grande vantaggio di potere
essere essere attuato in Italia e negli altri paesi europei mantenendo la
moneta unica europea di fronte alle altre valute internazionali.44

Valutazioni su una ristrutturazione del debito pubblico italiano

In un recentissimo working paper, pubblicato dal prestigioso istituto


di ricerca americano National Bureau of Economic Research (NBER) gli
economisti Carmen Reinhart e Christoph Trebesch mostrano come la
ristrutturazione del debito sovrano effettuata da Paesi in crisi costituisca
un’efficace, ancorché estrema, soluzione per tornare sul sentiero della
crescita e dell’occupazione.45.
I due economisti quantificano il sollievo determinato dal default e
dalla ristrutturazione del debito in due periodi: 1979-2010 e 1920-1939,
quest’ultimo per documentare il pesante carico di debito creato dalla
riparazione delle spese di guerra della prima Guerra Mondiale.
Reinhart e Trebesch esaminano la performance economica dei Paesi
debitori durante e dopo la ristrutturazione, considerando il PIL reale, il
debito pubblico, il merito di credito dello Stato, il peso del debito sul PIL, le
entrate fiscali e le esportazioni.
Nelle 45 crisi che documentano, il 21% ha colpito i Paesi avanzati
nel periodo 1920-1939 e il 16% i Paesi emergenti nel periodo 1979-2010.
44
E. GRAZZINI, Tre proposte per ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, in Eonomia e
Politica, www.economiaepolitica.it (2018) [07.01.2019]
45
Reinhart, Carmen e Trebesch, Christoph, Sovereign Debt Relief and its Aftermath, 30 giugno Formatted: Justified
2015. CESifo Working Paper Series No. 5422. Disponibile in SSRN:
https://ssrn.com/abstract=2630531.

81
Dopo che la polvere si è posata e l’ordine è stato ristabilito in questi
paesi, si osservano vigore nella crescita, ripresa dell’occupazione, minore
spesa pubblica e una dinamica più contenuta per il debito pubblico nei
decenni successivi, anche per via del limitato accesso al mercato dei
capitali.46
L’eccessivo indebitamento di Italia, Francia, Giappone, Grecia,
Portogallo, Irlanda, Islanda, e la stagnazione economica che colpisce alcune
di queste economie, rendono l’analisi di Reinhart e Trebesch di grande
interesse e attualità
Infatti, nonostante il crollo dei rendimenti sovrani negli ultimi 4 anni,
in conseguenza del “quantitative easing” della BCE, il rapporto deficit/PIL
in Italia è rimasto praticamente inalterato e sempre al di sopra del 2%.
Questo, mentre abbiamo risparmiato mediamente l’1% del PIL in interessi
all’anno.
Dunque, il risanamento dei conti pubblici non è proseguito con gli
ultimi governi, i quali hanno optato per investire gli spazi di manovra
consentitici da Mario Draghi per cercare di rinvigorire la crescita
economica, con risultati fallimentari.
Il debito pubblico italiano ha continuato ad aumentare. Lo scorso
anno si era attestato al 131,8% del PIL, pari a oltre 37.000 euro a carico di
ciascun residente sul territorio nazionale, neonati e immigrati compresi.
Dal 2007, ultimo anno prima della crisi, risulta esploso di oltre 700
miliardi in valore assoluto e del 30% in relazione al PIL.
Per contro, il PIL pro-capite si è ridotto dell’8% e quello reale del
5,7%.Tutto questo, nonostante avanzi primari, decisamente inusitati persino
in stati solidi come la Germania, che sono arrivati al 4-5% del PIL prima
Commented [FB15]: Fonti?
della crisi.

46
Carmen Reinhart, economista cubana di formazione statunistense, insegna a Harvard e
ha scritto, insieme a Kenneth Rogoff, un libro di grande spessore sulla storia delle crisi finanziarie,
per ricordare che niente cambia e tutto si ripete; la crisi subprime non è stata un esempio unico, ma
la ripetizione di un copione noto. Christoph Trebesch è un professore tedesco dell’istituto tedesco
CESifo che si occupa di crisi sovrane, in particolare quella greca e di politica delle crisi.

82
Nasce quasi automatica la domanda negli organismi internazionali,
se l’Italia si stia avviando verso una ristrutturazione del debito pubblico ed
eventualmente in quali forme.
Premesso che ristrutturare il debito significa essenzialmente due
cose: tagliarlo, similmente a come ha fatto la Grecia nel 2012 con i creditori
privati, decurtandolo del 53,5%, allungarne le scadenze e/o abbassarne i
rendimenti.
Il primo caso appare decisamente più traumatico, in quanto infligge
perdite certe agli investitori, tranne che questi non si siano coperti
acquistando titoli che assicurano contro il rischio default.
Rinegoziare il debito in mano agli investitori implica forti scossoni
finanziari, ovvero l’esplosione dei rendimenti e, dunque, dei costi sui titoli
di nuova emissione.
Chi ci prestasse denaro dopo l’avvio delle trattative o del semplice
annuncio, lo farebbe pretendendo un premio per il rischio nettamente
superiore a quello odierno, tale da costringerci a negoziare con un qualche
organismo internazionale, come il Fondo Monetario o l’ESM, un maxi-
prestito per coprire le scadenze nei successivi tot mesi o anni, evitandoci il
salasso fiscale, che finirebbe per fare evaporare i benefici della
ristrutturazione stessa.
Sappiamo che la BCE possedeva alla fine di aprile 345 miliardi di
Commented [FB16]: Fonte?
BTp, quota destinata a salire a circa 370 miliardi entro la fine dell’anno. Di
fatto, entro dicembre Francoforte arriverà a detenere quasi un sesto del
debito italiano, diventando primo creditore, superando persino l’insieme
delle banche italiane. Si è discusso a maggio, in sede di trattative per la
formazione del governo giallo-verde tra Lega e Movimento 5 Stelle, sulla
cancellazione di 250 miliardi di euro di tale debito, ipotesi che ha
terremotato i mercati finanziari, scatenando lo spread. Più realistica, per
quanto non meno forte, sarebbe l’idea di un accordo più o meno implicito
con la BCE per allungare automaticamente la durata dei titoli in scadenza,
attraverso la tecnica del “roll over”, in base alla quale, ad esempio, tutti i
BTP in possesso dell’istituto verrebbero rinnovati di tot anni, in modo da
sgravare l’Italia dalle incombenze più immediate.

83
Non solo: Francoforte pattuirebbe con Roma rendimenti inferiori a
quelli di mercato, così da abbassare il monte-interessi annuale e contribuire
al risanamento dei conti pubblici e all’abbassamento del rapporto
debito/PIL.
Ma in questa operazione c’è comunque un limite: anche superando le
forti resistenze politiche in seno all’Eurozona, tra cui quelle certe della
Bundesbank, nonché il divieto dello statuto di monetizzare i debiti sovrani,
resterebbe il problema di una ristrutturazione alquanto limitata. L’Italia
mediamente si trova ogni anno a rinnovare titoli a medio-lungo termine per
250 miliardi di euro, a cui si sommano BOT47 per altri 150 miliardi.
A fronte di tali numeri, i 20-30 miliardi all’anno di rinnovo e
allungamento automatici dei BTP in mano alla BCE farebbero poco per
abbattere la nostra montagna del debito. E allora, forzando il ragionamento,
potremmo immaginare che il combinato BCE-ESM, dietro precise
condizioni imposte all’Italia su riforme economiche e risanamento fiscale,
si accolli l’intero debito italiano a medio-lungo termine in scadenza per i
successivi tot anni, rifinanziandocelo a tassi d’interesse nettamente più
bassi di quelli vigenti sui mercati, magari pari a quelli medi dei Bund più
uno spread minimo.
Considerando che paghiamo l’Italia paga oggi quasi 65 miliardi
all’anno per interessi, pari a un rendimento medio di poco inferiore al 3%,
ipotizzando che ci venisse consentito di rinnovare tutti i BTP nei prossimi
anni alla metà degli interessi e per scadenze lunghe come 10, 15 o 20 anni,
risparmieremmo una trentina di miliardi all’anno, pari a quasi il 2% del
PIL, denaro che servirebbe a non far più crescere il debito in valore
assoluto, azzerando il deficit, nonché per abbatterne le dimensioni in
rapporto al PIL.
In una decina di anni, esso scenderebbe sotto il 100%, immaginando
una crescita nominale (PIL reale e+ inflazione) realisticamente del 3%.
Sarebbe una rottura delle regole che presidiano la BCE, ma i
creditori privati (banche italiane, in testa) si libererebbero man mano dei
BTP in loro possesso, creando un cordone di sicurezza attorno all’Italia,

47
I quali hanno scadenze fino a 12 mesi.

84
circoscrivendone la crisi e forse anche rappresentando l’unica via per tenere
il nostro Paese nell’Eurozona, ovvero per rendere davvero irreversibile la
moneta unica.
Resta da vedere se l’Italia accetterebbe mai di sottoporsi al
“commissariamento” di Bruxelles, un fatto politicamente molto poco
sostenibile e scomodo per qualsiasi governo che dovesse accettarlo.48

48
G.TIMPONE, La ristrutturazione del debito pubblico italiano è diventata un’ opzione
reale, in Investire oggi (2018) (www.investiroggi.it) [11.01.2019]

85
CONCLUSIONI

L’obiettivo di questo lavoro è stato quello di ripercorrere


l’evoluzione del debito pubblico dall’Unità d’Italia ai giorni nostri per
cercare di dare delle risposte ai molti interrogativi che i fatti economici,
politici e sociali del nostro tempo suscitano, sempre con più frequenza, tra
la gente comune.
Il debito pubblico è esistito da sempre, da quando cioè si è venuto a
formare il Regno d’Italia, ed ha sempre caratterizzato la storia del nostro
paese che comunque, è sempre riuscito a contenerlo e a ridurlo quando per
motivi contingenti ha superato la soglia tollerabile.
Ma il debito pubblico che si è venuto a formare nel ventennio 1974-
1994, non è stato conseguenza di eventi bellici, come avveniva in passato,
bensì provocato da una politica economica poco accorta, in quanto i governi
avevano deciso di abbandonare la politica del bilancio neutrale che favoriva
la redistribuzione delle ricchezze fra generazioni, a favore di una politica
basata sui disavanzi di bilancio e perseguita attraverso investimenti pubblici
e infrastrutture sociali al fine di contrastare la decrescita economica, nel
perseguimento delle teorie keynesiane molto diffuse al tempo, ma senza
realizzare nel contempo una crescita delle entrate.
Infatti, il totale delle entrate, squilibrato oltretutto da elevate sacche
di evasione fiscale, non era assolutamente sufficiente a coprire le spese
correnti generando un deficit annuale compreso tra il 2 e il 4% che ben
presto diventò strutturale.
Con la crescita del debito, aumentarono anche gli interessi su di esso
e i governi finirono col finanziare i deficit con la formazione di nuovo
deficit. Un circolo vizioso aggravato successivamente dalle crisi
economiche che non ha lasciato spazio alla ripresa e che tiene ancora tutti
con il fiato sospeso.
Ecco nascere allora gli interrogativi sul futuro della nostra economia
e dell’Italia in toto, sulla nostra moneta unica e sulla nostra presenza in
Europa, sulle possibilità di ripresa e sulle probabilità di un eventuale
collasso nazionale.

86
In presenza di un debito così elevato, anche operare una
ristrutturazione dà origine ad una serie di conseguenze indesiderate.
Operare un taglio forzoso di quanto investito può diventare assai pericoloso
in quanto possibile fonte destabilizzante dell’intero sistema economico.
Ecco perciò che bisogna ponderare con estrema cautela le conseguenze che
si andranno a generare.
Allo stato attuale , la gestione del debito pubblico della Repubblica
Italiana è nella situazione di auto-alimentazione del debito stesso: lo Stato si
indebita per rimborsare i debiti in scadenza e gli interessi.
Per controllare l’indebitamento, lo Stato ha oggi due alternative:
diminuire la spesa pubblica o aumentare le imposte. Così facendo, antepone
il fine privato del creditore a quello pubblico dei suoi cittadini. Entrambe le
scelte sono impopolari, motivo per cui sono state sempre accantonate, con
conseguenze devastanti per le generazioni future.
Nel nostro paese le politiche di rientro del debito sono state
realizzate soprattutto in vista dell’ingresso nella moneta unica e si sono
concretizzate nel tentativo di contenere il disavanzo corrente di bilancio,
determinato dall’esubero delle spese rispetto alle entrate. Ma adesso non
sono più rinviabili.
La gestione del debito sarà significativa per l’economia e il futuro
dell’Italia, scelte importanti, in materia di bilancio, riguarderanno i governi
italiani nell’immediato futuro, un cambiamento di rotta non è più
procastinabile.
Il debito italiano è decisamente pesante e peserà in modo
significativo sui cittadini italiani nei prossimi anni, anche se in definitiva, e
volendo essere un pochino ottimisti, possiamo dire che risulta ancora
sostenibile da parte di un economia vivace come la nostra.
L’impegno dei futuri governi dovrà essere rivolto all’attuazione di
politiche miranti a realizzare reali riforme strutturali ed a portare avanti una
vera e propria lotta all’evasione fiscale, nella consapevolezza che solo
operando con audacia e determinazione per la crescita economica si potrà
arrivare ad una reale contrazione del debito pubblico.

87
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