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Gianrico Carofiglio

AD OCCHI CHIUSI
Sellerio, Palermo 2003.

A occhi chiusi è la metafora di chi ha paura di volare nel vuoto totale dell’esistenza. Il protagonista, Guido
Guerrieri chiude il romanzo con un lancio col paracadute. Vinta la paura della caduta libera nell’aria riesce
finalmente a godere del piacere del volo. Ma prima di questa sensazione di libertà, quella che avverte è una paura
dell’inconsapevole e che lo porta a chiudere gli occhi. Aprire gli occhi significa guardare la realtà, che spesso è
migliore di quello che pensiamo o che, se affrontata in maniera conscia, ci permette di essere meglio vissuta. Ad
occhi chiusi, dunque, è la condizione di un personaggio ma è anche un invito a gettarsi nella vita, a compiere un
salto, anche nel buio, per affrontarla nella pienezza delle sue difficoltà e crescere. Aprire gli occhi significherà
essere nati veramente alla vita.
Sgombrato il campo dalla metafora del titolo entriamo nel libro. Dall’angolo privilegiato del magistrato,
Carofiglio, di storie così io penso che ne legga almeno dieci al giorno. Gli basta pescare nella casistica giudiziaria.
Giornalisti e magistrati, da questo punto di vista, siamo accomunati. La mole di storie è così larga che possiamo
pescare nel mondo e dire che la vita è un’enciclopedia infinita di possibilità narrative. E non a caso, questo libro
pare nato ancora una volta, come il precedente, da una storia realmente capitata. Ma va anche detto che l’abilità
narrativa di Carofiglio è tale che al lettore appaia proprio una storia sgusciata dai fascicoli di cancelleria. Il
romanzo si inserisce, quindi, in quel filone neoveristico venato di psicologismo e raccontato attraverso la
coloritura del giallo. Un giallo giudiziario che frettolosamente «La Gazzetta del Mezzogiorno» ha definito «giallo
mediterraneo», credendolo contenutisticamente in linea con il Testimone inconsapevole della prima felicissima prova
narrativa di Carofiglio, ma che questa volta di «mediterraneo» non ha niente, se non una citazione interna al
racconto. Allorché il protagonista ricorda di aver ricevuto una cartolina di saluto dal Senegal nella quale un suo ex
assistito, imputato per omicidio e vicino a una condanna all’ergastolo era stato precedentemente difeso e salvato
dai guai. Il romanzo va piuttosto ascritto a quella giallistica giudiziaria instaurata a fine anni Ottanta da Scott
Turow con Presunto innocente, come d’altro canto si inferisce in alcuni passaggi del libro, dove è fatto esplicito
riferimento proprio all’istituto della presunzione d’innocenza (p. 76). E direi che fino ai tre quarti del romanzo la
storia è condotta in modo ironico soft, con giocosa progressione e con un atteggiamento che, se non fosse
continuamente ricordato dal mestiere del protagonista potrebbe anche non far presagire che il romanzo sia un
poliziesco e che si svolga a Bari. Una Bari presente attraverso la scelta dei cognomi e nel sapore dei cibi
consumati. Ma che si squaglia di fronte alle citazioni di brani musicali e di libri fatte dall’autore, tutte di marca
americana.
La trama parte con un avvocato penalista di Bari che tra le cento incombenze giudiziarie si piglia la rogna di
seguire un caso di pedofilia. Un caso che viene accennato in apertura di romanzo, ma che poi non viene più
seguito e resta accantonato in un angolo. Probabilmente è solo un trailer, una sorta di introduzione a ciò di cui si
tratterà poi nel libro. Infatti ad irrompere nella trama sarà una ragazza, Claudia, suora laica di un’organizzazione
pericolosamente umanitaria, «una comunità con sede segreta dove erano collocate donne vittime di tratta,
sottratte agli aguzzini, donne maltrattate da mariti violenti, costrette ad andare via di casa, ex prostitute,
collaboratrici di giustizia» (p. 29). Non a caso Claudia è costretta a imparare le arti marziali, proprio per difendere
le sue assistite e se stessa da un mondo violento.
Claudia sottopone al nostro avvocato il caso di una ragazza, trentacinquenne barese, Martina Fumai, che ha
avuto il coraggio di denunciare il suo ex compagno per maltrattamenti. Il compagno di Martina è Gianluca
Scianatico, «un famoso balordo». Carofiglio lo presenta così: «Un tipico, noto esponente della cosiddetta Bari
bene. Un po’ più grande di me, ex picchiatore fascista, giocatore di poker. E cocainomane, si diceva.
Era medico e lavorava in una clinica universitaria del policlinico. Nessuno che conoscesse certi ambienti di
Bari pensava che fosse arrivato fin lì – laurea, scuola di specializzazione, concorso, eccetera – per le sue personali
qualità» (p. 36).
Ma il brutto della faccenda è che Gianluca è figlio di un padre potente, e questo impedisce a qualunque
avvocato di accettare l’incarico di difendere la ragazza.
«Suo padre era Ernesto Scianatico, presidente di una delle sezioni penali nella corte d’appello. Uno degli
uomini più potenti della città» (p. 36).
Queste premesse avrebbero potuto scatenare la fantasia di Gianrico Carofiglio e invitarlo a produrre una
ballata sulle discrepanze sociali di una città dove tutto è coperto da un velo pesante di compromessi e da una
ragnatela di amicizie e parentele spaventose. Ma qui Carofiglio devia in altre esigenze, a lui interessa un altro tema
o un’altra denuncia sociale. La paura di volare propria del mondo femminile e dei minori. Di coloro, cioè, che per
una qualche ragione anche nella maturità non sono riusciti ad aprire gli occhi e a farsi liberi. L’avvocato Guerrieri
accetta di difendere la Fumai e si infila in un labirinto. Scarse le prove della violenza subita, un avversario che ha
dalla sua le attenzioni della Bari bene e di un tribunale che non intende guastarsela col presidente Scianatico.
Tutto questo viene caricato da Carofiglio attraverso la costruzione di un avvocato di parte avversa, Dellisanti, che
è già un bisonte nel fisico, ma pare anche uno dei più preparati avvocati del foro. Il romanzo e il conseguente
dibattimento giudiziario sono costruiti su una falsariga priva di grandi colpi di scena, ma tutta giocata su piccole
lotte retoriche e microtrovate tendenti a stanare l’avversario. Una schermaglia psicologica, difficile da
rappresentare a da utilizzare come trama narrativa. Una noia esistenziale che investe persino il Pubblico
Ministero, Alessandra Mantovani, scesa a Bari per amore, frantumando un primo matrimonio e poi in fuga verso
Palermo. Ma in questo il mestiere di magistrato di un Carofiglio che conosce il linguaggio specialistico e quello
del narratore, capace di creare le piccole attese, potrebbero fare di una storia banale un vero racconto. E debbo
dire che se la tecnicità del procedimento avesse lasciato più spazio a una superficialità di rappresentazione delle
fasi dibattimentali la trama avrebbe forse avuto una maggiore accelerata, ma, chissà, non è detto che sarebbe
diventata credibile. Perché è sempre difficile capire qual è il punto di equilibrio tra l’eccesso d’invenzione e la
sobrietà narrativa.
Martina Fumai è una ragazza che ha superato da poco la trentina, ha subito forme di esaurimento nervoso
durante gli anni universitari, tuttavia è riuscita a laurearsi, dopo essere stata in cura presso uno psichiatra. Questo,
sosterrà l’accusa, ha nuociuto al rapporto con lo Scianatico che si è visto costretto in più di un’occasione
all’autodifesa, quando, cioè, Martina, in preda alla gelosia, e a turbe psichiche attaccava, il compagno persino
fisicamente. Scianatico si è trovato una serpe in casa, una pazza scatenata della cui condotta c’era poco da fidarsi.
Una vita d’inferno, insomma, impossibile e insopportabile per il giovane professionista.
Dal canto suo la ragazza ha con coraggio denunciato i maltrattamenti del compagno, le percosse, le violenze
psicologiche, l’immaturità dello stesso.
Chi dei due ha ragione? E dove sono le prove di colpevolezza?
Mentre si viene istruendo il processo, affiora in maniera parallela e sulle prime persino incomprensibile, una
seconda storia. È la storia di una bambina o di una ex bambina che racconta lo stupro subito da un reiterato
rapporto incestuoso col padre. Una bambina, di cui poco sappiamo, descrive le pratiche alle quali un genitore
violento, alcolizzato, con la connivenza silenziosa e atterrita della moglie l’ha costretta fin da tenera età. Ma la
bambina sembra lentamente rendersi conto della violenza che sta subendo e all’improvviso eccola in grado di
sollevare la schiena e rifiutare un ennesimo rapporto. C’è burrasca in casa, ma il padre è costretto a capitolare e a
rivolgere le sue attenzioni verso una seconda figlia, la minore.
Qui si chiarisce anche l’inizio del romanzo, col racconto del pedofilo appena accennato e non più seguito. Il
romanzo ci vuole parlare di violenza sui minori. E dirci che minori non sono soltanto coloro che hanno pochi
anni, minori sono tutti coloro che non sono mai diventati adulti, coloro che restano ad occhi chiusi e non aprono
gli occhi sulla vita. Martina è stata tra questi. Finchè non ha deciso di denunciare la propria condizione.
La storia parallela si dipanerà lentamente.
Con un colpo di teatro, l’avvocato Guerrieri tira in gioco una prova che è soltanto un bluff, una
videocassetta nella quale sarebbero contenute scene di rapporti sessuali sadomasochistici. Lo Scianatico avrebbe,
insomma, costretta la povera Martina a soggiacere ai suoi gusti che vanno oltre la soglia della normalità. In più
avrebbe filmato ad insaputa della ragazza le scene. C’è quanto basta per un sovvertimento della storia. Pazza e
malata di mente non è Martina, bensì lo Scianatico e la storia si conclude con una condanna del giovane medico.
E qui la storia potrebbe fermarsi, visto che il piccolo giallo psicologico si è concluso. Ma un romanzo che non
abbia almeno un morto non è un romanzo. Scianatico aggredirà, a questo punto, Martina e la sequestrerà in casa
della stessa. Intervento della polizia, dell’avvocato Guerrieri e della suora Claudia. Claudia riesce a farsi accettare
in casa da uno Scianatico che si è asserragliato in casa e non intende arrendersi. La donna è esperta di lotte
giapponesi e con la sua muscolatura riesce a bloccare l’uomo. Ai poliziotti che irrompono in casa appare la scena
tragica di Martina uccisa forse involontariamente.
Claudia e Guerrieri non ce la fanno a restare in casa, debbono scaricare la nevrosi accumulata e fuggono in
autostrada. In un motel si raccontano ciò che non si sono mai detti. Lei non è una suora. Lei è quella ragazzina
che ha subito da piccola lo stupro da parte del padre. È lei la protagonista della storia parallela. Ma lei è anche
l’autrice di un parricidio, avvenuto nel momento in cui l’uomo voleva approfittare della figlia minore. Claudia ha
solo spinto un coltello che l’uomo stringeva tra le mani. Finita in casa di rieducazione, Claudia ha imparato dalle
suore come aiutare chi è in difficoltà e appena possibile ha accettato di lavorare per la comunità di accoglienza.
Resta da capire chi è il protagonista e per converso chi è l’autore. Guido Guerrieri è un giovane avvocato,
divorziato e figlio di una media borghesia barese. Ha per compagna Margherita, una ragazza inquieta con la quale
dorme non si capisce bene se saltuariamente o in via stabile. Insomma ha con lei un rapporto che vorrebbe
essere stabile ma che è fatto di molti dubbi e di incertezze. E con lei pratica sport inusuali, com’è proprio di una
società che non sa più accontentarsi di cose semplici. Sport giapponesi, la mania dei lanci col paracadute e la boxe.
Lui è da anni attratto dalla boxe. «Ho fatto pugilato per tanti anni. Ho visto, dato, parato, schivato e soprattutto
preso un sacco di pugni» (p. 137).
È un uomo che ama tutto ciò che è americano, dalla letteratura alla musica, il rock ‘jezzato’, e, se esce per
svago, ama andare in libreria, a cinema o negli ipermercati, a perdere tempo. È dotato di sufficiente
autocontrollo, ma durante i processi non sa frenarsi, ama la verità. Per questa ragione è soggetto a un richiamo
disciplinare «proprio come quando da ragazzino, durante le pratiche di calcio dei campionati scolastici, accettavo
le più stupide provocazioni, mi lanciavo nelle risse e regolarmente venivo espulso» (p. 127). Gli accade di gettarsi
ancora adesso con impulso e con impulso, ad occhi chiusi, appunto, di affidarsi alla caduta libera del lancio col
paracadute. Guerriero legge Kavafis, Yeats, Lawrence e Gerald Durrell, quasi sempre giocoso e ironico, su tutto,
basti vedere con quanta rapidità si riprende dall’assassinio finale di Martina, persino finto, e appare più vero e
umano nel momento in cui descrive Bari vecchia, le uscite con la mamma quand’era ragazzo, verso la Standa, i
suoi affondi nei quartieri poveri della città. Ecco, penso che un po’ più di attenzione al mondo che circonda gli
avvenimenti e i protagonisti del romanzo avrebbe fatto bene alla storia, perché Carofiglio ha un retroterra di
sentimenti e di memorie che ancora non ci ha raccontato. Ma la sensazione è della frettolosità, la fretta di uscire
con un secondo titolo, perchè la debolezza del racconto è tale che una maggiore incubazione non avrebbe potuto
che fare bene al tutto.

Raffaele Nigro

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