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Il coaching e la soggettività dell’esperienza

Le recenti scoperte fatte dalle neuroscienze sembrano dare conferma a quanto traspare
dalle tradizioni millenarie, esoteriche e spirituali, di tutto il mondo. Secondo queste tradizioni
antiche l’uomo possiede tre “intelligenze” alle quali è possibile avere accesso, con cui è
possibile comunicare e che se “armonizzate” permettono il raggiungimento di una vita più
saggia.
La corrispondenza scientifica di queste intelligenze sembra essere la presenza nel corpo
umano di tre sistemi nervosi interconnessi i quali possiedono la capacità di operare in modo
indipendente, di imparare, ricordare, sentire e percepire:

Encefalico - ​100 miliardi di neuroni


Cardiaco - 40.000 - 120.000 neuroni
Enterico - 500 milioni di neuroni

Questa struttura ci permette di gestire le informazioni raccolte dai nostri sensi, di filtrare la
realtà e codificare in modo organizzato aspetti quali il tempo, le emozioni e i ricordi.
Grazie all'opera del dott. J. Andrews Armour, nel 1991, venne dimostrato che il cuore
possiede una rete neurale. Successivamente gli scienziati John e Beatrice Lacey
evidenziarono una comunicazione a due vie tra il cuore e il cervello encefalico. Nonostante
la rete neurale cardiaca abbia una logica diversa dalla rete encefalica, il cuore riesce a
comunicare con il cervello in modi che possono influenzare la nostra percezione del mondo
e le nostre reazioni agli eventi.

Nel 1907 il dott. Byron Robinson scrisse il libro “The abdominal and Pelvic Brain” e circa un
secolo dopo gli studi sul cervello viscerale vennero ripresi dal dott. Michael D. Gershon che,
con il suo “Il secondo cervello. Gli straordinari poteri dell’intestino”, espose i risultati di oltre
dieci anni di ricerche e scoperte.
Questo “secondo cervello” possiede una rete neurale che raggiunge l’esofago, lo stomaco,
l’intestino crasso, l’intestino tenue, il colon e il retto ed è in grado di utilizzare tutti i
neurotrasmettitori presenti nel cervello encefalico. Secondo il dott. Gershon, più del 95%
della serotonina impiegata nel corpo è prodotta dall’intestino, e grazie alla sua capacità di
produrre una vasta gamma di neurotrasmettitori la rete neurale enterica sarebbe in grado di
sedare il cervello encefalico nei momenti di forte stress e di modificare attivamente il suo
funzionamento. Questo costituisce uno dei motivi per cui le emozioni possono darci difficoltà
a deglutire o indurci a tossire.
L’individuazione di queste “intelligenze“ sembrerebbe dare conferma scientifica alla
“struttura dell’esperienza”, modello cognitivo-comportamentale secondo il quale la nostra
esperienza può essere schematizzata e spiegata in relazione a tre livelli diversi di uno
stesso fenomeno unitario i quali si influenzano a vicenda.
Questi livelli pur sempre presenti agiscono in misura variabile, a seconda dell’evento che li
stimola:

- Computazioni interne (Pensieri, strategie)


- Stato interno (Emozioni, sensazioni)
- Comportamenti Esterni (Tono di voce, Linguaggio del corpo)
Figura 1

Sebbene questa schematizzazione (Figura 1) sia estremamente riduttiva rispetto alla


complessità dell’esperienza soggettiva ci fornisce uno strumento utile per indagare sulla
realtà e quindi sulla “mappa del mondo” dell’altro.
I tre elementi sono interconnessi e ciascuno ha un diretto effetto sull’altro: se lo stato interno
cambia questo si ripercuote sul comportamento esterno (le persone si muovono in modo
diverso, arrossiscono, subiscono un’alterazione del tono muscolare della frequenza
respiratoria e di quella cardiaca). Se si modifica la computazione interna a questa
corrispondono movimenti oculari e gesti sincroni alla comunicazione.

All’esterno di questo sistema il modello considera la presenza di Valori, Credenze e Criteri.


Quando questi aspetti mutano, cambia anche il modo in cui percepiamo le sensazioni, in cui
pensiamo e agiamo. Sono i confini entro i quali si costruiscono i nostri limiti, la nostra
identità, e di fatto costituiscono i filtri passivi che ci permettono di applicare generalizzazioni,
deformazioni e cancellazioni alla realtà per come la percepiamo. Allo stesso tempo agiscono
come filtri attivi, e ci danno la possibilità di modificare la realtà stessa inconsapevolmente.

In particolare il potere delle convinzioni venne evidenziato in un esperimento condotto


nel 1964 dal prof. Robert Rosenthal, docente ad Harvard, in una scuola elementare.
Sottopose gli alunni a un normale test sul quoziente intellettivo, spacciandolo per un
test in grado di valutare chi tra i bambini avrebbe subito negli anni seguenti una
rilevante crescita nel proprio quoziente intellettivo. Dopo che ebbero effettuato il test,
scelse arbitrariamente degli alunni tra le classi, questi non avevano nulla di speciale
rispetto agli altri ma disse ai docenti che quei bambini avrebbero visto fiorire a breve la
loro capacità intellettuale.
Rosenthal osservò nei due anni seguenti che le convinzioni dei docenti avevano
modificato le prestazioni degli studenti, se l’insegnante si aspettava un incremento del
quoziente intellettivo in un alunno, quell’alunno dimostrava realmente tale incremento.
Ci si potrebbe chiedere in che modo le aspettative possano influenzare il quoziente
intellettivo.
A tale quesito rispose lo stesso Rosenthal, il quale osservò che le interazioni tra il
docente con aspettative alte e l’alunno considerato promettente avevano delle
differenze sottili che miglioravano di molto la qualità della relazione alunno-insegnante.
Gli insegnanti davano agli alunni “promettenti” più tempo per rispondere alle domande,
restituivano feedback più specifici e più approvazione: sorridendo, annuendo e
toccando fisicamente più spesso gli alunni. “Non è magia, non è telepatia”, affermò
Rosenthal. “Piuttosto sono migliaia di modi diversi di trattare le persone con piccoli
gesti ogni giorno”

Senza l’introduzione di questo modello saremmo costretti a considerare l’essere umano


come una “scatola nera” e senza alcuna informazione sul suo contenuto potremmo limitarci
a considerare solo ciò che è evidente, ovvero l’aspetto comportamentale.
Il modello fornisce invece i presupposti per “guardare dentro la scatola” e incontrare
l’essenza del coaching, che consiste nel liberare il potenziale delle persone per
massimizzare le loro prestazioni (*). Uno dei presupposti per il buon Coach è infatti il
seguente: ​le persone sono molto di più del loro comportamento.
Un altro strumento per “guardare dentro la scatola” ci viene dato dalla “linguistica cognitiva”.
Il prof. George Lakoff e il dott. Mark Johnson creatori di questo nuovo campo, nel loro libro
Metafora e vita quotidiana (1980)​, dimostrano che apparentemente una gran parte del
linguaggio e del pensiero si basa sulla metafora ma in realtà, come osserva anche la PNL,
solo una minima parte della comunicazione umana è di carattere metaforico.
Il linguaggio costituirebbe infatti una descrizione letterale di un profondo processo interiore,
una rappresentazione di cosa avviene in noi a livello neurologico.

Secondo Lakoff “siamo tutti esseri neurali, il nostro cervello riceve i propri input dal
resto del corpo. Pertanto le caratteristiche del nostro corpo e il modo in cui funziona nel
mondo strutturano i concetti stessi che abbiamo a disposizione per pensare. Non
possiamo pensare qualsiasi cosa, ma solo quello che i nostri cervelli incarnati
permettono”

Con queste informazioni potremmo cedere alla tentazione di racchiudere una persona in un
modello, e di ricavare da ciò che dice tutto quello che sta accadendo dentro di essa.
Soffermarsi esclusivamente su questi aspetti, i quali costituiscono comunque degli ottimi
strumenti, limiterebbe moltissimo le possibilità di un buon intervento di Coaching.
Un ulteriore presupposto essenziale per un buon Coach è il fatto che nessuno può
conoscere i pensieri, i sentimenti o le convinzioni di un altro essere umano, perché nessuno
è in grado di occupare lo stesso luogo fisico, assumere la stessa prospettiva, lo stesso
momento nel tempo, la stessa storia personale o i criteri di un altro essere umano.
Ogni individuo elabora i dati ricevuti in un modo diverso, attraverso una interpretazione
personale (compreso il Coach).

Cosa può fare allora il coach per distaccarsi dai giudizi e dalle convinzioni, rispettare la
complessa realtà del cliente, ed esaltarne il potenziale ?

Il compito del coach è quello di generare consapevolezza e responsabilità, per farlo ha a


disposizione diversi strumenti. Al coach è richiesta la capacità di formulare domande che
suscitino nel cliente risposte accurate e che descrivano i fatti, emendati da giudizi e
giustificazioni.
Figura 2

La terminologia descrittiva più utile di quella valutativa aiuta a mantenere l’obiettività e riduce
le distorsioni percettive indotte dall’ autocritica. E’ necessario evitare le generalizzazioni
(tutto, sempre) e le qualità che esprimano un giudizio (buono, giusto, sbagliato, cattivo,
fallimento). Di conseguenza è indispensabile focalizzare l’attenzione sui dettagli specifici,
mantenendosi il più possibile sull’asse descrittivo (Figura 2).
Le risposte alle buone domande di un coach devono quindi essere descrittive e accurate.
Se si costruisce la domanda in modo che per rispondere alla stessa il cliente sia costretto a
svolgere un’azione descrittiva, si riesce ad evitare l’autocritica e a generare un ciclo di
feedback che fornisce al coach informazioni sulla qualità della concentrazione del cliente
stesso. La medesima costruzione può essere attuata in un ciclo di feedforward, in cui il
coach prepara il cliente alla domanda successiva.
Un altro strumento utile è costituito dalla metafora. I più famosi formatori e professionisti
della comunicazione utilizzano storie e metafore per parlare al pubblico, i racconti riescono a
scavalcare la mente conscia veicolando un messaggio che viene compreso più
efficacemente e ricordato piacevolmente per un tempo più lungo.
Chi ascolta il racconto o la metafora riesce ad adattarli alla propria mappa del mondo
traendone il massimo significato. Nel colmare i vuoti di informazioni l’ascoltatore utilizza
risorse autogene compatibili con il suo modo di pensare (per tale motivo la metafora
spiegata perde di valore).
Per questo motivo nell’ indagare la realtà al coach è richiesto un alto grado di distacco, dalle
proprie convinzioni e dalle proprie competenze nell’area in cui sta facendo coaching.
Il coach “esperto” tende a vedere il cliente in termini del suo errore, a differenza di un coach
distaccato il quale, non riconoscendo gli errori, focalizza la sua attenzione sull’ efficienza
avendo più possibilità così di giungere alla radice del problema. L’unica competenza della
quale il coach deve essere esperto è quella del coaching.
lo scopo del coach è infatti quello di spingere l’individuo oltre i limiti di ciò che egli stesso
conosce.

“Il nostro potenziale si realizza ottimizzando la nostra individualità e unicità, mai


modellandole sulle opinioni di qualcun altro o su ciò che costituisce la pratica migliore”

Riccardo Bellistri’
Bibliografia

- Credenze e terapia - Christian Flèche, Franck Olivier


- Lacey, B. C., & Lacey, J. I. (1978). Two-way communication between the heart and
the brain: Significance of time within the cardiac cycle. American Psychologist, 33(2),
99-113
- Coaching - John Whitmore
- Armonizzare i tre cervelli - Grant Soosalu, Marvin Oka
- Il manuale del Coach - Robert Dilts
- PNL per comunicare in pubblico - Tad James, David Shephard
- What’s Important about values, criteria and belief - Brian Van der Horst

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