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Mario Vegetti

Platone e la sfida sofistica 

1.
Barbara Cassin ha scritto, con buone ragioni, che la sofistica è un’inven-
zione di Platone. A parte Gorgia, sul quale disponiamo di testimonianze
indipendenti, ma che è anch’egli protagonista di un importante dialogo
platonico, quasi tutto quello che sappiamo dell’antropologia di Protagora
ci viene dal dialogo a lui intitolato, e la sua epistemologia è interpretata e
discussa nel Teeteto. Altri sofisti importanti, come Callicle (Gorgia) e Trasi-
maco (Repubblica) sono in larga misura creazioni di Platone, che non molto
avranno in comune con il personaggio storico che reca quel nome. E soprat-
tutto, in ogni caso, Platone interpreta le tesi dei sofisti, spesso le rigorizza, le
estende, le unifica concettualmente, fino a dedicare un dialogo tardo, com’è
appunto il Sofista, composto verso il 360, a interrogarsi ancora una volta su
“che cosa sia veramente il sofista”. Un’interrogazione dunque ricorrente e
sempre aperta, se si pensa che a quell’epoca Protagora era ormai morto da
sessant’anni, Gorgia da una ventina; ma con sofisti come Antifonte Platone
avrebbe continuato a discutere fin nel suo ultimo dialogo, le Leggi.
Sembra dunque di poter dire che Platone abbia dedicato alla sofistica una
buona parte del suo cammino filosofico: un rivale da combattere, una sfida
da comprendere, forse un incubo da esorcizzare, in ogni caso una presenza
tanto prossima da risultare inquietante. Rovesciando l’assunto iniziale, po-
tremmo allora persino dire che la filosofia platonica è un effetto della sofistica,
cioè lo straordinario sforzo di rispondere a un pensiero che secondo Platone
minacciava la possibilità stessa della filosofia nel momento della sua forma-
zione, e peggio ancora rischiava di confondersi con essa contraffacendone i
tratti.
La prossimità inquietante del sofista al filosofo si ha prima di tutto sul
terreno del discorso – cioè di quella confutazione dialogico-dialettica, l’elen-
chos, che era l’emblema del socratismo –, e poi anche su quello della conce-

Lezione tenuta il 26 gennaio 2012 presso la Scuola di Roma dell’Istituto italiano per
gli Studi Filosofici.
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zione e dell’esercizio del potere. Una vicinanza che somiglia, in entrambi i


casi, a quella fra il cane e il lupo, che condividono, su versanti diversi, gli
stessi territori agonali.
Parlando nel Sofista della tecnica della confutazione, l’elenchos di inequi-
vocabile matrice socratica, lo Straniero eleate che conduce il discorso affer-
ma:
Che nome daremo a coloro che posseggono questa tecnica? Ho qualche esitazione
a pronunciare la parola “sofisti”. - Eppure (replica Teeteto) è il nostro ragiona-
mento che ci ha portato a qualcosa di simile. - Sì (risponde lo Straniero) ma anche
il lupo è simile al cane, la bestia più selvaggia all’animale più domestico. Chi vuol
essere sicuro deve stare in guardia dalle somiglianze: è un campo su cui è facile
scivolare (231a).
Il Trasimaco ideologo della tirannide nel I libro della Repubblica è a sua
volta presentato come un “lupo”. Ed è anche sul terreno del potere che la
vicinanza fra il cane “filosofico”, protettore del suo gregge, e il temibile
predatore, risulta inquietante, tanto da indurre il Socrate legislatore della
Repubblica a temere una pericolosa metamorfosi dei suoi futuri filosofi-
re:
La cosa più terribile e vergognosa per dei pastori è di allevare cani da guardia dei
greggi in modo tale che, per indole ribelle, per fame o per qualche altra cattiva abi-
tudine, i cani stessi si spingano a far del male alle pecore finendo per comportarsi
da lupi invece che da cani [...] Non dobbiamo dunque sorvegliare in ogni modo
perché le nostre guardie non facciano altrettanto con i cittadini, dal momento
che sono più forti di loro, finendo per trasformarsi da benevoli alleati in selvaggi
padroni? (III 416a-b).
Per evitare la metamorfosi del buon governante in tiranno (che secondo
Trasimaco è inevitabile in ogni forma di potere), Platone si vedrà costretto
a proporre due dei maggiori “scandali” della Repubblica, l’abolizione della
proprietà privata e della famiglia per i membri del gruppo dirigente (i cani
da guardia di cui si paventa la trasformazione in lupi se avessero interessi
privati da perseguire).

2.
La minaccia sofistica investiva dunque, secondo Platone, l’ambito del lin-
guaggio, della verità e dei valori, e di qui si riverberava fino al campo della
politica e dell’esercizio legittimo del potere.
Vediamone i tratti (così come Platone probabilmente li comprendeva), a
partire da Gorgia.
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Il grande sofista siciliano sembra essere stato il primo a fondare teorica-


mente l’autonomia della dimensione retorica, persuasiva, dunque performa-
tiva del linguaggio, rispetto al suo tradizionale (e parmenideo) riferimento
alla verità dell’essere. Gorgia avrebbe sostenuto, secondo il resoconto della
scettico Sesto Empirico, queste tre tesi: 1) “nulla esiste” in senso oggettivo e
assoluto; 2) “se anche qualcosa esistesse, non sarebbe afferrabile dalla cono-
scenza umana”, cioè resterebbe totalmente estraneo all’esperienza sogget-
tiva; non c’è rapporto fra essere e pensare, altrimenti esisterebbe qualsiasi
cosa pensata, come un uomo che vola; 3) “se infine qualcosa esistesse e fosse
comprensibile, essa non sarebbe comunicabile ad altri”, perché la “cosa” esi-
stente è radicalmente altra rispetto alla “parola” comunicativa (Diels-Kranz
B 3).
Dunque il linguaggio della comunicazione umana non fa presa sul mon-
do oggettivo; esso non possiede verità se per questa si intende una fedele
descrizione dell’essere in sé, né i discorsi possono venire valutati in termini
di vero/falso. Restano allora al discorso l’efficacia, la capacità persuasiva, la
potenza produttiva di credenze e condotte, insomma, appunto, la dimensio-
ne pragmatica.
Sulle rovine delle pretese veritative del discorso, Gorgia poteva celebrare
il trionfo dei suoi effetti retorici. In un esercizio di scuola mirante a ottenere
l’assoluzione postuma di Elena dall’accusa di tradimento per aver seguito
Paride a Troia, diceva Gorgia che se Elena fu convinta a parole non la si deve
ritenere colpevole, perché
la parola è un grande padrone [...] Può infatti far cessare la paura, sopprimere il
dolore, infondere gioia, suscitare compassione [...] Che poi la persuasione, quan-
do si aggiunge al discorso, lasci nell’anima l’impronta che vuole, bisogna capir-
lo considerando in primo luogo i discorsi dei naturalisti dediti alle cose celesti,
che sostituiscono un’opinione all’altra eliminando questa e sostenendo quella,
in modo che agli occhi dell’opinione vengano a manifestarsi cose incredibili e
oscure; in secondo luogo le cogenti argomentazioni giudiziarie, nelle quali un
solo discorso, scritto secondo i dettami della tecnica retorica, non detto secondo
verità, diverte e convince una grande folla; infine, le dispute dei discorsi filosofici,
in cui si mostra anche la rapidità della mente, capace com’è di rendere instabile e
mutevole la credenza in ogni opinione (Diels-Kranz B 11).
Ciò che discrimina fra loro i discorsi della scienza, della morale, della giu-
stizia, della politica e della stessa filosofia non è dunque la rispettiva verità
ma la loro efficacia retorica che si esercita in contesti agonali, come quelli
della politica, dei tribunali, delle dispute scientifiche e filosofiche. La parola
persuasiva può indurci a credere, e a fare, qualsiasi cosa essa desideri. Quan-
to alle finalità etiche della persuasione, esse sono affidate, secondo il Gorgia
dell’omonimo dialogo platonico, al senso di responsabilità del retore.
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Il secondo grande sofista, Protagora di Abdera, non sembra essere stato


teoricamente altrettanto radicale di Gorgia, ma certo capace di un’influenza
intellettuale secondo Platone ancora più pericolosa. A parte le interpreta-
zioni platoniche, di lui ci restano soltanto poche righe, fra le quali compare
quella che sembra essere stata la sua tesi principale: “L’uomo è la misura
di tutte le cose, di quelle che sono per il modo in cui sono, di quelle che
non sono per il modo in cui non sono” (Diels-Kranz B 1). Il senso di questa
enigmatica affermazione può forse venire così interpretato (anche sulla base
dell’analisi che Platone ne proponeva nel Teeteto): c’è un mondo esterno, ma
ogni soggetto è giudice inappellabile delle qualità delle cose che ne fanno
parte, secondo come a lui appaiono (dolci o amare, belle o brutte, giuste o
ingiuste); da lui dipende il giudizio se una cosa è p o q, oppure non è p o q. Si
tratta, in altre parole, del principio dell’ermeneutica contemporanea secon-
do il quale non esistono fatti ma solo interpretazioni.
Da questo principio seguono alcune importanti conseguenze di ordine
epistemologico, e soprattutto etico-politico. Per quanto riguarda le prime,
ogni affermazione, in quanto descrive una percezione o valutazione sogget-
tiva, è “vera”, poiché non si può porre la questione della verità del discor-
so come sua corrispondenza allo stato delle cose. Sul piano etico-politico,
l’“uomo-misura” si trasforma in un’identità collettiva: abbiamo allora un
soggetto plurale, il “noi” della città o della sua maggioranza assembleare,
come criterio definitivo dei valori pubblici. Perciò, “quello che ogni città de-
cide sia giusto e bello, tale in effetti è anche per essa, finché lo consideri così”
(Teeteto 167c); e commentava Platone che le dottrine di Protagora “per le
cose giuste e ingiuste, morali e immorali, vogliono sostenere che nessuna di
esse possiede in realtà una propria essenza oggettiva, ma che diventa vero
ciò che è sancito dall’opinione collettiva allorché viene opinato e per tutto il
tempo in cui è opinato” (172b). Protagora non si fermava però a questo esito
di relativismo estremo della verità e dei valori; anche in lui, la dimensione
pragmatica del linguaggio giocava un ruolo centrale. Non è possibile discri-
minare le opinioni in “vere” o “false”, bensì in “utili” e “dannose” per l’in-
dividuo e per la comunità, in ordine ai loro interessi individuali e collettivi,
ed è a questo miglioramento pragmatico, non veritativo, delle opinioni, che
può mirare la convinzione del retore sofista (Teeteto 167a-c).
Nichilismo gorgiano e relativismo protagoreo delineavano così, per Plato-
ne, una formidabile sfida intellettuale. Sul piano della conoscenza, essi con-
vergevano nel sostenere l’impossibilità di un sapere universalmente e og-
gettivamente valido, capace di descrivere secondo verità lo stato del mondo
al di là delle credenze soggettive. Sul piano etico-politico, essi abbandonava-
no le norme di giustizia all’arbitrio delle decisioni conflittuali di individui e
gruppi, negando l’esistenza di criteri autonomi di riferimento che consentis-
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sero di valutare la giustezza di queste decisioni. Nel libro I della Repubblica,


Platone fa sostenere al sofista Trasimaco una tesi radicalmente relativistica:
il “giusto” consiste nella conformità alla legge; ma la legge è imposta da chi
ha il potere per farlo, ed essa è perciò sempre strumentale alla conservazio-
ne del potere; la giustizia, dunque, consiste nell’utile di chi detiene la forza,
e, viceversa, nell’oppressione dei sudditi (I 338c-339a).
Il lavoro filosofico di Platone consistette in buona parte nel tentativo di ri-
spondere a questa sfida, per ricostituire le condizioni della verità del sapere
e dell’oggettività dei criteri di giudizio etico-politico.

3.
Per rispondere alla sfida sofistica occorreva, secondo Platone, in primo
luogo consolidare il linguaggio, ripristinando il suo riferimento alla realtà, e
con questo garantire le condizioni di possibilità del discorso vero, al di là del
fluttuare delle opinioni abbandonate agli effetti retorici della persuasione.
Ma per questo era necessario niente meno che costruire una nuova conce-
zione della realtà, cioè una nuova ontologia, anti-eraclitea (quindi fondata
sulla stabilità dell’essere anziché sui flussi del mutamento), e perciò – se-
condo la decisiva connessione stabilita nel Teeteto fra mobilismo eracliteo ed
epistemologia di Protagora – anti-protagorea e antirelativistica.
L’esigenza di consolidare il riferimento del linguaggio alla realtà, e quin-
di di ripristinare una dimensione veritativa del linguaggio stesso, è parti-
colarmente acuta nel campo dei valori pubblici e privati, come il bello, il
buono, il giusto (dunque dell’etica e della politica) che era stato il terreno di
elezione del relativismo protagoreo. È il caso di leggere per esteso a questo
proposito un memorabile passo del Cratilo:
Socrate. Possiamo dire che sia qualcosa il bello considerato in se stesso; e così il
buono, e ogni singola cosa? O non possiamo? Cratilo. A me pare di sì, Socrate.
- A questo dunque teniamo ben ferma la nostra attenzione; intendo dire, non a
un volto o a qualcosa del genere, se ci appaiono belli, e se abbiamo l’impressione
che tutte queste cose trascorrano in un perenne fluire. Perché il bello, diciamo, in
sé, non è sempre tale quale è? - Necessariamente. - Ma sarà mai possibile asse-
gnargli un nome veramente giusto, se continuamente ci si sottrae nel suo essere e
nelle sue qualità? O non è invece necessario che, mentre ne stiamo parlando, esso
divenga subito qualche altra cosa, e ci sfugga, e non sia più quale era prima? [...]
Ma neppure potrebbe essere conosciuto da nessuno. Non appena infatti ci avvici-
nassimo per conoscerlo, diventerebbe subito altro e diverso, né più lo potremmo
conoscere, né per ciò che è, né quanto alle modalità del suo essere. Nessuna co-
noscenza infatti conosce ciò che conosce, se questo non è in alcun modo stabile
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nel suo essere. [...] Ma neppure è possibile che vi sia conoscenza, Cratilo, se tutto
trapassa da uno stato all’altro e nulla permane stabilmente [...] Se invece esiste
ciò che conosce, esiste ciò che è conosciuto, esiste il bello, esiste il buono, esiste
ogni singolo ente in sé, allora mi pare che queste cose di cui stiamo parlando non
abbiano niente a che fare con il flusso o con il movimento (439c-440c).
Se linguaggio e conoscenza devono essere stabili e veritieri (dunque sal-
vati dalle sabbie mobili di nichilismo e relativismo), occorre che esista un
riferimento reale altrettanto stabile e immutabile (cioè posto al riparo dal
mobilismo eracliteo). Scriveva infatti Platone nel Timeo:
I discorsi sono congeneri a ciò di cui parlano: da un lato, dunque, i discorsi su ciò
che è stabile, saldo ed evidente al pensiero, bisogna che siano anch’essi stabili e
solidi, e, nella misura in cui, per i discorsi, è possibile e conveniente essere incon-
futabili e invincibili, di nulla devono mancare [...] L’essere è rispetto al divenire
nello stesso rapporto in cui è la verità rispetto alla credenza (29b-c).
È precisamente su questo terreno problematico che nasce l’ontologia del-
le idee, destinata ad assumere diverse configurazioni nei contesti dialogici
ma costante nell’intenzione di garantire al linguaggio e alla conoscenza un
riferimento oggettivo stabile e invariante. Noi formuliamo, intorno a cose e
condotte, enunciati descrittivi o valutativi del tipo: “Socrate” è giusto; “resti-
tuire i prestiti” è giusto; “obbedire alla legge” è giusto. In generale, in questi
enunciati noi applichiamo a una pluralità di soggetti una stessa proprietà:
(x) è F, (y) è F, (n) è F. In tutti questi enunciati, il predicato che viene attribui-
to a (x), (y), (n) risulta costante e invariabile nel suo significato, cioè funge
da standard universale di descrizione o valutazione dei singoli soggetti cui
viene riferito. Si può dire allora che i predicati universali del tipo “giusto”,
“bello”, “grande”, o anche (sebbene questo sia un caso particolarmente pro-
blematico), “uomo”, “cavallo” e così via, costituiscono nuclei di significato
unitari e invarianti che possono venire riferiti a una pluralità mutevole e
instabile di soggetti e di circostanze.
Se tuttavia il loro contenuto potesse variare a seconda delle opinioni
soggettive, non si sarebbe ancora superata, secondo Platone, la minaccia
del relativismo sofistico. Questi predicati devono dunque venire pensati
come descrizioni di un referente primario, che possiede in modo oggetti-
vo, assoluto e invariante la proprietà che essi enunciano. Ogni F è dunque
primariamente vero di un oggetto Φ: la referenza di “giusto” è un oggetto
che Platone chiamava “il giusto in sé”, “la giustizia stessa”, insomma l’idea
(o forma) di giustizia che ha con le singole cose di cui si può predicare la
giustizia lo stesso rapporto che il triangolo ideale dei matematici presenta
con i singoli triangoli di volta in volta disegnati sulla carta o realizzati con
il legno.
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Platone riteneva che solo riferendo i predicati di tipo F in primo luogo a


oggetti ideali di tipo Φ fosse possibile uscire dal relativismo sofistico – che
assegnava a quei predicati un significato variabile secondo l’arbitrio dei cri-
teri soggettivi –, a sua volta fondato sull’instabilità “eraclitea” delle cose e
di conseguenza delle conoscenze che abbiamo su di esse, dei discorsi con i
quali descriviamo e valutiamo il mondo.

4.
Tutto questo aveva conseguenze decisive anche nell’ambito del governo
della vita pubblica e privata. Dall’ontologia delle idee conseguiva che i “va-
lori” (il bene, il giusto, il bello) esistono in modo invariante e indipendente
dalla mutevolezza delle opinioni, dall’arbitrio delle maggioranze, dal potere
della persuasione retorica. Essi sono l’oggetto di una conoscenza vera – ed
è proprio questa conoscenza a fondare la differenza tra i filosofi e i sofisti
“filo-dossi”, cioè legati al mondo dell’opinare (doxa).
Questa conoscenza valoriale garantisce la possibilità di pensare, parlare
e agire in vista di scopi universalmente validi, di ciò che è davvero bene per
l’insieme della comunità politica e della personalità individuale. L’esisten-
za di un ordine di valori ideali e la possibilità di una loro conoscenza sono
dunque per Platone la fonte di legittimazione dell’aspirazione dei filosofi
al regno, che viene formulata nella celebre “terza ondata” del quinto libro
della Repubblica. Scriveva infatti Platone in questo grande dialogo:
Dal momento che filosofi sono coloro i quali sono in grado di afferrare ciò che
resta sempre invariato nella sua identità, mentre coloro che ne sono incapaci e si
limitano a errare nel molteplice e nel mutevole filosofi non sono, chi dei due dovrà
essere guida della città? [...] Questo poi è chiaro, se si debba scegliere un cieco o
un uomo dalla vista acuta per farlo guida di qualunque cosa [...] Ti sembra allora
che ci sia una qualche differenza fra i ciechi e quanti in realtà sono privi della
conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello
e non possono, alla maniera dei pittori, rivolgere lo sguardo verso ciò che è più
vero, sempre riferendosi ad esso e osservandolo nel modo più rigoroso possibile, in
modo da istituire anche quaggiù le norme relative alle cose belle e giuste e buone?
(VI 484c-d).

5.
Con questa ultima mossa, Platone poteva celebrare la sua vittoria teo-
rica sui rivali sofisti – che, come si diceva all’inizio, egli aveva in qualche
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modo interiorizzato, assorbito nel suo stesso pensiero, fino a farne una sor-
ta di ossessione filosofica e politica. Questa vittoria aveva comportato un
complesso sistema fondazionale che andava dal linguaggio all’ontologia e
all’epistemologia, e da esse tornava all’uso pragmatico, etico e politico, del
linguaggio stesso.
Come ha scritto Alain Badiou, questo sistema teorico di protezione dalla
sfida sofistica aveva talvolta effetti “iperbolici”, che andavano persino oltre
lo spirito autentico del platonismo: in se stesso una filosofia aperta, critica,
dialogica, insomma una filosofia socratica. Il timore per il mobilismo eracli-
teo e il relativismo protagoreo dava invece luogo a risultati che potremmo
definire di tipo “egizio” nella cultura e nella politica, cioè a un desiderio
di immobilità nelle forme della musica, del teatro, della costituzione della
città. Parallelamente, contro l’individualismo dell’“uomo misura” si produ-
cevano in Platone forme eccessive di organicismo sociale, di annullamento
dell’individuo nella totalità comunitaria, come avrebbe denunciato Aristo-
tele nel secondo libro della Politica. Se vi sono ombre di totalitarismo nella
filosofia di Platone (e per scorgerle non è necessario cadere nelle esagerazio-
ni proprie di Karl Popper), risultano anch’esse un effetto della sofistica, alla
maniera delle reazioni immunitarie il cui eccesso può risultare patologico.
Insomma, sconfiggere la sofistica presentava per la stessa filosofia di Pla-
tone un prezzo molto elevato. Ma il senso, e la grandezza intellettuale, di
questa filosofia, stanno nella sua eccezionale capacità di configurare un av-
versario di straordinaria levatura teorica, e di confrontarsi con esso in una
discussione tenace e coraggiosa, nella quale noi possiamo riconoscere l’atto
di nascita della tradizione filosofica occidentale.

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