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Luigi Gioia

PIETÀ URBANA E VOCAZIONE MONASTICA IN


BERNARDO TOLOMEI E I SUOI COMPAGNI,
FONDATORI DI MONTE OLIVETO

La fuga mundi se non addirittura il “disprezzo” del mondo sono dei luoghi comuni della tradizione
agiografica specialmente in riferimento alle vocazioni monastiche. Essi appaiono anche nella cronaca
di Antonio da Barga e in quella detta della “Cancelleria”1 che insieme costituiscono il primo accesso
narrativo alle vicende che condussero un gruppo di nobili senesi guidati da Bernardo (Giovanni)2
Tolomei (1272-1348) a dare vita alla Congregazione benedettina di Monte Oliveto, nata a partire dal
monastero omonimo3. Antonio da Barga spiega laconico che Bernardo Tolomei e i suoi compagni
lasciarono Siena nel 1313 perché «subivano ostacoli», e che «si ritirarono verso dei luoghi solitari»
perché pensavano che non fosse sicuro «abitare insieme al serpente»4. L’autore della cronaca detta
“della Cancelleria” (che chiameremo il “Cancelliere”)5, attribuisce a Bernardo un discorso “sul
disprezzo del mondo”6.
Il tributo che le cronache di Monte Oliveto pagano a questa tradizione agiografica non si traduce
però in un pessimismo antropologico o sociologico e l’analisi contenutistica e semantica di queste
cronache rivela anzi sfumature inaspettate nella loro percezione della relazione tra città e monastero,
tra pietà urbana e vocazione monastica. Ciò vale soprattutto per la cronaca della Cancelleria, sulla
quale concentreremo la nostra ricerca. In essa scopriremo una chiara volontà di sottolineare la
continuità tra città e monastero, pur in una prospettiva che per essere adeguatamente interpretata
necessita il ricorso a fattori non solo di carattere storico o sociologico, ma anche teologico e
spirituale.
Secondo quanto affermano entrambe le cronache olivetane, la fuga mundi di Bernardo e dei suoi
compagni non è, almeno all’inizio, caratterizzata dalla radicalità abitualmente attribuita a figure
tipiche del monachesimo come, per esempio, san Benedetto. Essi lasciano la città per recarsi nelle

1
La cronaca di Antonio da Barga (d’ora in poi ChBa) è del 1451 e la cronaca della Cancelleria (d’ora in poi
ChCa), o piuttosto la sezione che riporta le vicende degli inizi della Congregazione di Monte Oliveto, fu
redatta tra il 1462 ed il 1485. Il testo originale latino si trova in M. P. Dickson, P. Franceschini, R. Grégoire,
Regardez le rocher d’où l’on vous a taillés. Documents primitifs de la Congrégation Bénédictine de Sainte
Marie de Mont-Olivet, Texte latin et traduction française, Maylis, Ed. Moines de l’Abbaye Notre Dame de
Maylis, 1996 (d’ora in poi Rocher). La traduzione italiana si trova in I Padri Olivetani, Per una rinnovata
fedeltà. Fonti olivetane: i più importanti documenti, le più antiche cronache e le più rilevanti testimonianze
letterarie, Introduzione, traduzione e note a cura di C. Falchini, monaca di Bose, Magnano (Bi), Edizioni
Qiqajon, Comunità di Bose, 2003 (d’ora in poi Falchini).
2
Secondo ChCa il fondatore di Monte Oliveto si chiamava originariamente Giovanni e cambiò il suo nome
in Bernardo nel 1319, con la professione religiosa, cfr. ChCa 19 (Falchini, p. 270s.). Per comodità, in questo
contributo useremo sempre il nome Bernardo.
3
Per indicazioni bibliografiche complete riguardo alla storia dei primi due secoli della Congregazione
benedettina di Monte Oliveto cfr. Rocher, pp. 457-68 e L. Gioia, E. Mariani, A dieci anni dal Rocher: Un
aggiornamento della bibliografia olivetana, in «L’Ulivo» 36 (2006), pp. 535-53.
4
ChBa 2, 8-10 (Falchini, p. 183s.): «Set quoniam multa, a concivibus suis, hec fideliter operantes,
patiebantur impedimenta, secesserunt ad loca solitaria cogitantes, non esse tutum cohabitare serpenti».
5
Si chiama cronaca “della Cancelleria” proprio perché redatta dal Cancelliere della Congregazione per
conservare la memoria dei fatti più importanti relativi ad ogni abbaziato. Quando ne fu iniziata la redazione,
nella seconda metà del XV secolo, si pensò di inaugurarla con una presentazione della storia delle origini, che
costituisce appunto quella alla quale ci riferiamo in questo contributo.
6
ChCa 8 (Falchini, p. 246s.).
1
proprietà delle loro famiglie, site nel contado senese, e quindi non troppo lontani dalla loro patria, e
non rinunciano del tutto ad un certo comfort, poiché portano con sé «arnesi e libri»7. Le cronache
olivetane danno grande rilievo alla transizione di circa sei anni tra la partenza del Tolomei e dei suoi
compagni dalla città di Siena nel 1313 e la fondazione del monastero benedettino di Monte Oliveto
nel 1319, mettendo in risalto la gradualità con la quale adottano una ascesi ed una osservanza
tipicamente monastiche8.
Pur cercando, infatti, di dedicarsi al lavoro manuale con un intento chiaramente ascetico,
continuano a vivere delle rendite delle loro possessioni, in sorprendente indipendenza rispetto ai
modelli di povertà allora dominanti con lo sviluppo degli ordini mendicanti9. Il passaggio a una vita
chiaramente monastica interviene solo dopo diverso tempo ed è simboleggiato nelle cronache dal
cambiamento dell’abito: i vestiti e le calzature “secolari” ad un certo punto sono abbandonati per
abiti più consoni ad una consacrazione che assume il carattere “regolare” solo con la fondazione del
monastero di Monte Oliveto e l’adozione della regola di S. Benedetto nel 131910.
Un tale quadro sottintende un solido modello di pietas secolare - diremmo oggi di spiritualità
laicale - in grado di ispirare e sostenere un itinerario di conversione ben oltre il contesto urbano, fin
nella delicata fase di discernimento di una vocazione monastica. Infatti, anche quando l’adozione di
una regola sancisce il passaggio ad una forma di pietas “regolare”, la fedeltà a quanto maturato
durante la fase cittadina e laicale si traduce in un chiaro intento riformatore nell’adozione della
disciplina ecclesiastica. Del resto, già la sola scelta della Regola di Benedetto11, in un’epoca nella
quale essa non è più di moda, testimonia in questo gruppo di laici una autonomia di giudizio e una
capacità di autodeterminazione non comuni.
Queste osservazioni iniziali mirano a introdurre una ipotesi che verificheremo nel presente
contributo: i fondatori di Monte Oliveto sono laici in possesso di una robusta esperienza religiosa e di
una sana “pietà urbana”, di una spiritualità, cioè, inscindibilmente ecclesiale e civica, individuale e
collettiva, fedele al Signore e leale nei confronti della città. Contrariamente a quanto affermato dalla
tradizione agiografica olivetana seicentesca e dei secoli successivi, con la sua rappresentazione
dualista della relazione tra città ed eremo (il cui influsso sulla tradizione iconografica è stato
enorme), la partenza dei fondatori di Monte Oliveto da Siena non va letta in contrasto con la loro
pietà urbana e con il loro senso civico, ma come espressione di una volontà matura e consapevole di

7
ChBa 3, 1-3 (Falchini, p. 184) «Anno itaque, ab incarnati Verbi nativitate, milesimo trecentesimo tertio
decimo, prefati a Deo dilecti viri ad predictum locum venerunt, cum utensilibus suis et libris, ut Deo sedulum
exhiberent servitium». («E così, nell’anno 1313 dalla Natività del Verbo incarnato, i suddetti uomini, amati da
Dio, si recarono in tale luogo, con i loro arnesi e i loro libri, per offrire a Dio un sollecito servizio»).
8
Cfr. R. Grégoire, Les thèmes hagiographiques et le message du Chronicon, in Rocher pp. 215-22, testo
italiano in L’agiografia del Beato Bernardo Tolomei († 1348), in «L’Ulivo» 25 (1995) n. 1, pp. 1-19; n. 2, pp.
53-60; riedito in Alla riscoperta di un carisma. Saggi di spiritualità e storia olivetana, ed. R. Donghi e G.
Picasso, Monte Oliveto Maggiore 1995 (Studia Olivetana, 4), pp. 83-118.
9
ChBa 3, 3-7 (Falchini, p. 184), «Laborabant quoque, secundum apostoli exemplum, manibus suis, ut, ex
opere manuali, victum sibi necessarium acquirerent. Etenim non sufficiebat eis, utpote viris delicatis,
noviterque ex Egipto egressis; tum ex possessiunculis Bernardi prefati, tum ex exercitio manuali, sufficientem
sibi necessitatem carpebant». («Essi, secondo l’esempio degli apostoli, lavoravano con le loro mani, in modo
da poter acquistare per sé, grazie a tale lavoro manuale, il cibo necessario. Ma poiché ciò non era sufficiente a
questi uomini delicati, che erano appena usciti dall’Egitto, allora essi traevano lo stretto necessario, oltre che
dal lavoro manuale, anche dalle piccole proprietà del suddetto Bernardo»).
10
ChBa 3, 7-10 (Falchini, p. 184): «Non multo vero interiecto tempore, abiecerunt vestimenta secularia,
induentes se honestiorem habitum; deponentes etiam caligas, calciati sunt calepodiis ; sicque paupertatem ultro
amplecti nitebantur». («Dopo non molto tempo rigettarono gli abiti del secolo e si rivestirono di un abito più
onorevole; deposte le scarpe, calzarono degli zoccoli, e così si sforzavano di abbracciare sempre di più la
povertà»).
11
Cfr. L. Gioia, La règle de saint Benoît et l’observance monastique, in Rocher, pp. 34s. e 55-60.
2
continuità rispetto ad entrambi che, proprio per essere radicalmente cristiana ed autenticamente
civica, necessitava di un superamento.

Conversione, fervore e comunione cittadini

Nella tradizione agiografica del Trecento e Quattrocento senese, uno dei titoli di nobiltà spirituale
più ambiti consisteva nell’appartenenza alla compagnia di S. Maria della Scala, vero epicentro della
vita associativa e caritativa della città, oltre che depositaria di un considerevole patrimonio
immobiliare e fondiario. Le cronache olivetane non fanno eccezione a questa tradizione e buona parte
della descrizione del periodo senese della vita dei fondatori di Monte Oliveto verte intorno alle loro
attività presso questa compagnia:
Già da tempo egli [Bernardo] si era unito a una compagnia che era stata fondata nell’ambito dell’Ospedale
maggiore di quella città, e che il popolo chiamava Confraternita della vergine Maria. Essa era frequentata da
un’assemblea di moltissimi uomini illustri, e a buon diritto rivendicava per sé la fama e la verità di una devota
vita religiosa12.

La nobiltà spirituale che tale appartenenza conferiva è corroborata dal numero di santi che ne
uscirono, fra i quali il Cancelliere ricorda Giovanni Colombini († 1367), Stefano Maconi († 1424) e
san Bernardino da Siena († 1444)13, ed è ascritta anche agli altri due fondatori di Monte Oliveto, il
cui legame con Bernardo Tolomei risale appunto agli anni nei quali insieme frequentarono questa
compagnia:
Fra questi cittadini che Giovanni aveva come compagni in tale confraternita ve ne erano soprattutto due che,
perseguendo con devozione il medesimo stile di vita e il medesimo fervore, aderivano a lui più strettamente e
più intimamente: Patrizio Patrizi e Ambrogio Piccolomini, entrambi uomini prudenti nel loro comportamento
nel secolo e nella loro città, entrambi onorati cittadini senesi, nati secondo la carne da nobili e antiche
famiglie, e tuttavia ancora più degni e più nobili secondo la vita di fede della religione cristiana14.

Traspare già in questo passaggio la volontà di stabilire un parallelo tra virtù civiche e impegno
religioso: l’autenticità della loro vita di fede è attestata dalla ponderatezza del loro comportamento
nella città e trova il suo riconoscimento nell’onore dal quale sono circondati. La compagnia di S.
Maria della Scala offre loro tutti i mezzi necessari per poter coltivare una seria vita cristiana nella

12
ChCa 3, 7-12 (Falchini, p. 238): «Societati etenim cuidam sub maiori eiusdem civitatis hospitali
constituta iampridem se dederat, quae Virginis Mariae fraternitas vulgo nuncupata et clarorum virorum
quamplurium coetu frequentata, devotae religionis et nomen et rem sibi merito vendicabat. Ex hac nimirum
societate viri virtutum plurimi, tam novarum Congregationum fundatores, quam etiam antiquorum et iam
collabentium religionum reformatores postmodum prodiere».
13
ChCa 3, 12-7 (Falchini, p. 238): «Vir santus Bernardinus Senensis observantiae fratrum minorum
relevator, sed et Iesuatorum institutor beatus Ioannes de Columbinis civis et ipse Senensis, nec non et donnus
Stephanus ex nobili Maconum civitatis eiusdem familia progenitus et ordinis Carthusiensium in Italiae
partibus dilatator, aliique nonnulli viri sancti in societate hac viam Domini eruditi, perfectionis suae didicere
disciplinam» («Il santo uomo Bernardino da Siena, che risollevò l’osservanza dei frati minori, ma anche il
fondatore dei gesuati, Giovanni Colombini, anch’egli cittadino senese, come anche Stefano, nato dalla nobile
famiglia dei Maconi, della stessa città, dilatatore dell’ordine certosino in Italia; e alcuni altri uomini santi e
istruiti, avendo appreso in questa compagnia la via del Signore, impararono come vivere in vista della loro
perfezione»).
14
ChCa 4, 1-6 (Falchini, p. 240): «Ex his autem civibus, quos in eadem fraternitate Ioannes socios habebat,
duo vel maxime eiusdem propositi, eiusdemque fervoris devoti sectatores sibi strictius familiariusque
adhaerebant : Patritius scilicet de Patritiis et Ambrosius de Picolomineis, ambo in saeculari et civili
conversatione prudentes viri, Senenses cives ambo et honorati, ac secundum carnem ex nobili familia et
antiqua progeniti, digniores tamen et nobiliores secundum Christianae religionis pietatem».
3
città: la confraternita permette loro di seguire «la via del Signore, insegnando loro a vivere in vista
della perfezione»; offre un quadro di vita liturgica regolare, con diversi momenti di preghiera comune
durante la settimana; mette a loro disposizione istanze di verifica dell’autenticità dell’impegno
spirituale e caritativo attraverso forme analoghe a quelle che caratterizzano la vita religiosa15.
Attraverso la compagnia di S. Maria della Scala, il fervore laicale si dota di percorsi alternativi a
quelli della vita religiosa “regolare” per coniugare efficacemente vita cittadina e anelito ascetico e
caritativo, come attesta il Cancelliere quando afferma riguardo a Patrizio Patrizi che, dopo essersi
dedicato al commercio ed aver molto viaggiato, avendo
fatto ritorno al suolo paterno e possedendo ormai in abbondanza le ricchezze terrene, iniziò con sollecitudine a
perseguire, con fervorosa ricerca, le ricchezze celesti, e, dimorando stabilmente in un’abitazione, iniziò a
dedicarsi a Dio e alla salvezza della propria anima16.

In questo stesso contesto, anche ad Ambrogio Piccolomini è possibile condurre una vita tranquilla,
lontano dalle occupazioni17.
Per laici già così dediti alla vita ecclesiale, caritativa e spirituale, la città non rappresenta dunque
un ostacolo da fuggire, né un antro irto di tentazioni da disdegnare. Al contrario, essa è la fucina nella
quale si forgia la loro vocazione monastica ed il luogo di elaborazione di un carisma al quale
resteranno consapevolmente fedeli nel passaggio progressivo ad una forma di vita cristiana
“regolare”. La cronaca della Cancelleria ricorre ad alcuni espedienti semantici per esprimere questa
continuità.
L’espressione più adatta per caratterizzare la vita monastica nella Regola di S. Benedetto è quella
di conversatio morum, che esprime uno stato di conversione permanente, di ascolto continuo della
Parola di Dio. Nel capitolo della regola che tratta dell’ammissione dei fratelli è prescritto che per
essere accolto in comunità il giovane monaco deve «promettere nell’oratorio davanti a tutti i
confratelli stabilità, conversione di vita e obbedienza»18. Non passa dunque inosservato l’uso di
questo stesso termine nella cronaca della Cancelleria per descrivere la pietà urbana dei fondatori di
Monte Oliveto:
Veniamo a narrare come il beato Bernardo, fondatore del monastero di Monte Oliveto e primo legislatore di
tale congregazione, sia passato da una pia vita di fede (pia conversatio) nel secolo a una perfetta conversione
(perfecta conversio) allontantandosi dal secolo19.

Il passaggio dalla vita in saeculo a quella a saeculo è messo sotto il segno della continuità
attraverso la parentela semantica tra conversatio e conversio. La vita di fede urbana è pia, è cioè una

15
ChCa 3 (Falchini, p. 238ss.).
16
ChCa 4, 11-4 (Falchini, p. 241): «Unde ad solum reversus paternum, divitiis iam terrenis locupletatus,
coelestes divitias coepit sollicite devotus investigator inquirere, et domi stabilis consistens Deo et animae suae
saluti vacare».
17
ChCa 4, 14ss. (Falchini, p. 241): «Ambrosius vero in generosa, ut dictum est, familia nutritus, et nihil
huiusmodi laboris in parandis divitiis sentiens, quietam ab his occupationibus vitam ducebat» («Quando ad
Ambrogio, allevato, come si è detto, in una famiglia di nobili natali e senza avere assolutamente in animo di
procurarsi le ricchezze di un tal genere di lavoro, conduceva una viat tranquilla lontano da quelle
preoccupazioni»).
18
«Promittat de stabilitate sua et conversatione morum suorum et oboedientia», Regola di S. Benedetto 58,
cfr. edizione a cura di A. Lentini, Montecassino 1980, p. 522.
19
ChCa 1, 22-7 (Falchini, p. 237): «Igitur non tam stilo humanam laudem, quam ex narratione virtutum
operumque piorum spiritualem aedificationem legentibus, utilitatemque optantes, ad beati viri Bernardi
monasterii Montis Oliveti fundatoris, Congregationisque ipsius institutoris primi in saeculo piam
conversationem et a saeculo ad Dominum suum perfectam conversionem, compendioso licet sermone ac rudi,
exponendam, Domino adiuvante, veniamus».
4
pietas autentica, già centrata intorno ad un impegno di conversione permanente in risposta all’invito
di Gesù nel Vangelo; rispetto ad essa, la vita monastica è semplicemente una maniera più radicale di
vivere la stessa conversione20.
Un altro accorgimento semantico usato dalla cronaca della Cancelleria per sottolineare questa
continuità è identificabile nell’uso del termine fervor. La cronaca di Antonio da Barga e quella della
Cancelleria sono l’espressione di due diverse sensibilità riguardo al modo di preservare l’integrità
dell’osservanza monastica olivetana un secolo circa dopo la morte del suo fondatore. Alla linea
legalista rappresentata da Antonio da Barga, il Cancelliere oppone un’analisi di più ampio respiro dal
punto di vista spirituale e teologico. Per quest’ultimo il segreto dello straordinario successo della
rinascita del monachesimo benedettino ad opera di Bernardo e dei suoi compagni non è da ricercare
prima di tutto nelle strutture giuridiche che essi adottarono, ma nello spirito che li animò e in modo
particolare nel fervor della loro carità, motore del rinnovamento dell’osservanza monastica del quale
essi furono gli artefici21. Fin dall’inizio, il Cancelliere afferma di voler «descrivere gli inizi della
santa forma di vita dei monaci di Monte Oliveto, attraverso i quali nei tempi recenti l’ordine
monastico è rifiorito, nella Chiesa di Cristo, all’antico fervore»22. Se il sommo pontefice Giovanni
XXII appare così favorevolmente impressionato dai monaci olivetani è perché riconosce in essi il
«saldo proposito di una vita santa e di conversione» e vede rivivere in essi «il fervore dei santi padri»
ormai quasi estinto. Tale fervore può produrre «un non piccolo frutto spirituale per la Chiesa di
Dio»23. All’insegna del fervor è tratteggiata la figura di Bernardo abate, il cui proposito è «dedicarsi
completamente a risuscitare nell’ordine monastico il fervore dell’antica religione»24. Monte Oliveto è
«sotto l’abate Bernardo e il suo insegnamento, una scuola di virtù spirituali» caratterizzata dal
«fervore per la disciplina e per il perfetto compimento della regola, poiché Bernardo agiva secondo
ciò che aveva appreso nello Spirito di Dio»25. Infine questo fervore è la nota dominante dei vari
aspetti dell’ascesi monastica dei primi monaci olivetani. Riguardo all’ufficio divino, in particolare, si

20
Pur in una prospettiva più incline a contrapporre pietà urbana e vita monastica, la cronaca di Antonio da
Barga presenta anche essa gli amici senesi come dediti alla conversatio e alla ricerca delle realtà celesti, cfr.
ChBa 2, 4-7 (Falchini, p. 183): «Qui, divino afflatus spiritu, vehementique fervore tactus intrinsecus, una cum
nobilibus amicis suis, Patritio videlicet de Patritiis, Francisco Ambrosioque, Senensibus, die ac nocte
conversans, anhelabat ad celestia. Et se simul a nugis secularibus alienantes, Deo tonanti servire satagebant»
(«per ispirazione dello Spirito divinio e internamente toccato da un impetuoso fervore, conversando di giorno
e di notte con i suoi nobili amici, cioè Patrizio Patrizi, Francesco e Ambrogio, di Siena, anelava alle realtà
celesti. Essi, rendendosi estranei alle frivolezze del mondo, si davano gran cura di servire il Dio che tuona»).
21
Cfr. L. Gioia, Il segreto dell’osservanza monastica in due cronache olivetane del XV secolo, di prossima
pubblicazione nel volume Hagiologica. Saggi per Réginald Grégoire, a cura di A. Bartolomei Romagnoli, U.
Paoli, P. Piatti, Fabriano 2012.
22
ChCa 1, 9 (Falchini, p. 235): «Initia sacrae religionis monachorum Montis Oliveti descripturi, per quae
ad antiquum monasticus ordo in Christi Ecclesia novissimis temporibus refloruit fervorem».
23
ChCa 15, 37-44 (Falchini, p. 262): «Mirum siquidem in modum in eorum fide et devotione delectatus
est ; visoque despicabili habitu et vili, quo viri nobiles utebantur et cognito eorum stabili in sancta
conversatione proposito, sed et audito cultus divini et aliorum piorum operum continuo studio et infatigabili
sollicitudine, perpendens sanctorum patrum fervorem et extinctam pene perfectorum monachorum disciplinam
in eorum moribus reviviscere, in maxima servos Dei opinione sanctissimus Christi vicarius habere coepit».
24
ChCa 26, 17-24 (Falchini, p. 281): «Operariumque se in vinea Domini positum sentiens, manus suas
misit ad fortia et ad resuscitandum in monastico ordine antiquae religionis fervorem totum se dedicavit,
exemplo et verbo in conventu fratrum intra septa monasterii ad hoc omni studio vacans».
25
ChCa 33, 1-4 (Falchini, p. 287): «Haec fuit in tempore illo sub abbate Bernardo et magisterio eius in
Monte Oliveti spiritualium scola virtutum. Hic, inquam, fervor regularis disciplinae et perfectionis, omnia eo
faciente et ordinante secundum quod in spiritu Dei didicerat, quum in contemplationis sublimitate facie ad
faciem cum Deo loqueretur».
5
osserva che celebravano «insieme e con piena devozione l’ufficio divino, nel fervore dello spirito
salmeggiavano al Signore nei loro cuori con inni e cantici spirituali»26.
Ora, come nel quadro della pietà urbana era già stata inaugurata e praticata la conversatio
ricordata sopra, così è grazie a questa stessa pietà che si accende e si consolida il fervor che avrebbe
contraddistinto in seguito l’osservanza monastica dei monaci di Monte Oliveto:
Fra questi cittadini che Giovanni aveva come compagni in tale confraternita ve ne erano soprattutto due che,
perseguendo con devozione il medesimo stile di vita e il medesimo fervore, aderivano a lui più strettamente e
più intimamente: Patrizio Patrizi e Ambrogio Piccolomini (…) vi era in essi il vigore di un uguale fervore nel
santo desiderio e di una salda volontà27.

Anche in questo caso, non solo non vi è nessuna antitesi tra vita spirituale cittadina e ascesi
monastica, ma è proprio nel periodo senese che vanno cercate le radici della successiva fecondità
dell’osservanza olivetana.
Questa continuità traspare poi in riferimento ad un altro fattore meno generico della conversatio e
del fervor evocati finora, permettendo di far risalire al periodo senese l’elemento più caratteristico
della nuova realtà monastica inaugurata da Bernardo e dai suoi compagni, vale a dire la volontà di
comunione che la caratterizzerà non solo in ogni singolo monastero, ma nell’insieme della
congregazione.
I monaci benedettini di Monte Oliveto sono fin dalle origini consapevoli di essere depositari di
una grazia, di uno “spirito” ereditati da Bernardo e dai suoi compagni e della loro responsabilità di
preservarli dopo la loro scomparsa e di trasmetterli alle generazioni future di monaci. Proprio dopo la
morte di Bernardo Tolomei (1348) e prima della redazione di quello che è considerato il primo corpo
legislativo olivetano, vale a dire le Costituzioni del 1350/6028, l’abate generale Franceschino
Guiducci dichiara nel capitolo generale del 1349:
Figli amatissimi e dolcissimi fratelli, è nel nostro massimo interesse che ora confermiamo le Costituzioni che
abbiamo elaborato e preparato insieme. Esse, in effetti, mirano alla salvaguardia della santa comunione della
quale, per grazia di Dio, siamo stati fatti partecipi29.

L’abate Franceschino situa nella volontà di comunione il carattere fondamentale della


congregazione nata con la fondazione di Monte Oliveto, una comunione in virtù della quale i monaci,
pur distribuiti nelle varie fondazioni, continuano a formare una sola comunità. A questo fine
stabiliscono una convocazione annuale del capitolo generale, come mezzo di comunione prima
ancora che strumento elettivo e legislativo, e una costante ridistribuzione dei monaci nei diversi

26
ChCa 10, 15-20 (Falchini, p. 250): «Sollicitudinem vero maximam ante omnia et curam gerentes, ne
horae eos canonicae divini officii celebrandi praeterirent, conveniebant ad parvulam quandam ecclesiam,
quam ipsimet ex luto simplici aedificaverant, et opus divinum cum omni devotione in ea in communi
consumantes, in fervore spiritus psallebant Domino in cordibus suis in hymnis et canticis spiritualibus».
27
ChCa 4, 1-6; 18 (Falchini, p. 240): «Ex his autem civibus, quos in eadem fraternitate Ioannes socios
habebat, duo vel maxime eiusdem propositi, eiusdemque fervoris devoti sectatores sibi strictius familiariusque
adhaerebant : Patritius scilicet de Patritiis et Ambrosius de Picolomineis, ambo in saeculari et civili
conversatione prudentes viri, Senenses cives ambo et honorati, ac secundum carnem ex nobili familia et
antiqua progeniti, digniores tamen et nobiliores secundum Christianae religionis pietatem (…) par in eis
vigebat sancti desiderii fervor immobilisque voluntas».
28
Cfr. Rocher, pp. 125-203 (Falchini, pp. 111-71).
29
Cfr. P. Lugano, Delle più antiche costituzioni monastiche di Montoliveto, in «Rivista Storica
Benedettina» 1 (1906), p. 369, nota 2. Cfr. anche Rocher, p. 128: «Prefatus ipse frater Franceschinus,
monasterii antedicti abbas, in dicto capitulo surgens, talem propositam enarravit dicens: Dilectissimi filii mei
atque fratres dolcissimi, utilitas fructuosa suadet ut constitutionem que est tutamentum sancte comunionis
quam, Dei gratia, participamus, ad invicem ordinatam et factam (…) nunc confirmamus».
6
monasteri, in modo da restare una sola famiglia30. Tanti sono gli elementi agiografici, storici e
documentari che attestano la centralità di questa volontà di comunione nell’esperienza spirituale della
prima generazione di monaci olivetani e il loro desiderio di preservarla come la caratteristica
fondamentale del loro progetto di vita31. Qui ci limitiamo a rilevare come le radici di questa volontà
di comunione risalgano anch’esse, secondo la cronaca della Cancelleria, alla pietà urbana di Bernardo
e dei suoi compagni. Diversi sono i luoghi delle cronache olivetane che illustrano questo punto, ma il
più significativo è un passaggio già citato in parte e che ora riprendiamo per esteso:
Fra questi cittadini che Giovanni aveva come compagni in tale confraternita ve ne erano soprattutto due che,
perseguendo con devozione il medesimo stile di vita e il medesimo fervore, aderivano a lui più strettamente e
più intimamente: Patrizio Patrizi e Ambrogio Piccolomini (…). Questi tre uomini erano un cuore solo e
un’anima sola nel Signore; e nel compiere i comandamenti divini vi era in essi il vigore di un uguale fervore
nel santo desiderio e di una salda volontà32.

Alle origini della volontà di comunione, non solo della comunità di Monte Oliveto, ma di tutta la
famiglia monastica che nasce a partire da questo cenobio, vi è l’esperienza di amicizia spirituale, di
sostegno fraterno, di santa emulazione nata e consolidatasi nel crogiuolo della pia conversatio
cittadina33.

Vera cittadinanza
A questo punto sorge però spontanea una domanda: se la pietà urbana forniva un ambito così
congeniale alla vita di fede, se permetteva una conversatio autentica, se ispirava ed alimentava il

30
Si è spesso voluto, in ambito storiografico olivetano, considerare queste modifiche come espressione del
“carisma” dei fondatori, cioè dell’elemento specifico che contraddistingue il monachesimo benedettino
olivetano in rapporto ad altre forme di vita monastica e religiosa. Una tale interpretazione, tuttavia, non opera
la necessaria distinzione tra l’esperienza spirituale che è all’origine della fondazione di un ordine religioso o
di un monastero e le strutture di carattere legislativo e istituzionale adottate per incarnarla e preservarla in un
determinato momento della sua storia, che sono quindi contingenti e mutevoli. L’istituzione è al servizio dello
spirito e proprio per essergli fedele deve costantemente adattarsi, come lo prova per esempio il cambiamento
costante del testo delle costituzioni olivetane, delle quali si contano svariate versioni già nell’arco dei secoli
XIV e XV. Queste considerazioni sono importanti riguardo alla interpretazione della cronaca della Cancelleria
perché, come si è già ricordato sopra, essa utilizza la forma narrativa per correggere la lettura in chiave troppo
unilateralmente legalista o istituzionale della cronaca di Antonio da Barga, mettendo in luce soprattutto
l’esperienza spirituale che è all’origine della fondazione di Monte Oliveto ed il suo radicamento nella
preistoria senese di questa fondazione. Cfr. L. Gioia, Le sens de l’expression charisme des fondateurs, in
Rocher, p. 26 e Il segreto dell’osservanza monastica cit.
31
Cf. Rocher, p. 52ss.
32
ChCa 4, 1-6; 18 (Falchini, p. 240): «Ex his autem civibus, quos in eadem fraternitate Ioannes socios
habebat, duo vel maxime eiusdem propositi, eiusdemque fervoris devoti sectatores sibi strictius familiariusque
adhaerebant : Patritius scilicet de Patritiis et Ambrosius de Picolomineis, ambo in saeculari et civili
conversatione prudentes viri, Senenses cives ambo et honorati, ac secundum carnem ex nobili familia et
antiqua progeniti, digniores tamen et nobiliores secundum Christianae religionis pietatem (…). Horum igitur
trium cor unum erat in Domino et anima una, et in adimplendis divinis iussionibus par in eis vigebat sancti
desiderii fervor immobilisque voluntas».
33
Significativo è, a questo riguardo, il testo del più antico statuto di S. Maria della Scala (1305), nel quale
traspare la grande importanza attribuita all’unità e alla comunione tra i membri della comunità ospedaliera, cfr.
M. Pellegrini, La comunità ospedaliera di Santa Maria della Scala e il suo più antico statuto (Siena, 1305),
Pisa, Pacini Editore, 2005, cfr. cap. 1 (p. 89): «Noi, rettore, frati e familiari e conversi del deto ospedale,
volemo e concordevolmente e d’uno cuore e volontà stançiamo»; cap. 10 (p. 98): «A ciò che sia conosciuta
forma di religione e unità entro li frati e li offerti del detto ospedale»; cap. 38 (p. 120): «Che se amino et
onorino e osservino unità, amore e carità infra sé». Il tema è magistralmente sviluppato nel contributo di P.
Licciardello, La devozione nei testi statutari, civili e religiosi contenuto in questo volume.
7
fervor ed una vera comunione fraterna, insomma se la città era un luogo nel quale poter vivere la vita
cristiana fin nelle sue esigenze più radicali, perché allontanarsene? Che bisogno vi era di passare
dalla conversatio in saeculo alla conversio a saeculo?
I dati che abbiamo raccolto finora ci invitano a cercare una risposta all’insegna della continuità
piuttosto che della rottura veicolata dalla tradizione agiografica della fuga mundi. Ma è necessario
adesso circoscrivere più da vicino questa continuità.
Da una parte, essa è l’espressione di una lealtà nei confronti della città di Siena, percepita non
soltanto come realtà politica, ma soprattutto come comunità nella quale si è sviluppato un tessuto
associativo capace di combinare efficacemente senso civico, attività assistenziale e radicalismo
cristiano. Una espressione eloquente del nesso inseparabile tra lealtà civica e impegno religioso è
offerta dal primo articolo del più antico statuto della comunità ospedaliera di S. Maria della Scala
(1305), che pone tra gli impegni fondamentali dei suoi membri quello «d’amare el Comune de
Siena»34.
Ma d’altra parte, proprio per preservare l’autenticità tanto della pietas che del senso civico, tale
continuità non può evitare di misurarsi con l’ineliminabile esigenza escatologica e cattolica della fede
cristiana35.
L’esacerbazione del particolarismo comunale dei secoli XIII e XIV ed il concomitante fervore
religioso che caratterizza questo stesso periodo possono facilmente condurre ad una pericolosa
identificazione tra pietas e virtù civica, tra fede e patriottismo. Se ne potrebbero citare innumerevoli
esempi. Per celebrare la vittoria di Montaperti contro Firenze (1260), la città di Siena prende la
Madonna come patrona principale. La celebre Madonna di Duccio di Boninsegna fu eseguita in
ricordo di questa vittoria e solennemente trasportata in duomo il 9 giugno 1311. Ecco un caso nel
quale diventa difficile dipanare fervore religioso e legittimazione bellica. Ma ancora più emblematica
è la lezione che possiamo trarre dalla vicenda del vescovo di Arezzo, Guido Tarlati, che fu anche il
signore di questa città negli anni tra il 1312 e il 132736.
La figura di Guido Tarlati è importante per la storia olivetana visto che i possedimenti di Bernardo
presso il borgo di Chiusure, nei quali si ritirò con i suoi compagni dopo aver lasciato Siena, erano
allora siti nella diocesi di Arezzo. Fu dunque di competenza del vescovo Guido accordare il primo
riconoscimento ecclesiale al monastero di Monte Oliveto per mezzo della Charta Fundationis del
131337. Ma le relazioni tra il famoso vescovo ghibellino e la famiglia Tolomei sono attestate da altri
fonti coeve e sembra, per esempio, che nel 1315 egli fosse intervenuto personalmente a capo di una
banda armata per sostenere i Tolomei in una disputa contro i Salimbeni, senza però riuscire a
condurre in porto la sua spedizione38.
Sarebbe facile cedere alla tentazione di considerare questo bellicoso vescovo un politico
spregiudicato, negandogli qualsiasi autentica motivazione consona con la sua funzione pastorale. La
realtà è come sempre più complessa. Se da un lato, infatti, la sua azione è all’insegna del controllo
politico, dell’espansionismo territoriale e del ghibellinismo – al punto che il suo ultimo atto è, poco
prima di morire nel 1327, l’incoronazione a Milano di Ludovico il Bavaro a re d’Italia -, ciò non gli
impedisce di condurre una vasta azione pastorale tesa soprattutto a disciplinare le molteplici forme di

34
Pellegrini, La comunità ospedaliera cit., p. 89.
35
Per esigenza “escatologica e cattolica” intendiamo qui la dimensione temporale, spaziale e sociale
propria al cristianesimo che (a) situa il vero compimento di tutte le cose nella vita e nel mondo che verrà con il
ritorno di Cristo in gloria (escatologia), (b) non può limitare la sua appartenenza ad un luogo o ad un gruppo
ma abbraccia con una medesima carità tutti i luoghi e tutta l’umanità (cattolicità).
36
Cfr. G. Ciccaglioni, Tra unificazione e pluralismo. Alcune osservazioni sull’esperienza pastorale e di
dominio politico di Guido Tarlati, vescovo e signore di Arezzo (1312-1327), in «Cristianesimo nella Storia» 29
(2008), pp. 345-375.
37
Rocher pp. 66-73 (Falchini, pp. 69-74).
38
R. Mucciarelli, I Tolomei banchieri di Siena. La parabola di un casato nel XIII e XIV secolo, Siena,
Protagora Editori Toscani, 1995, p. 261.
8
associazionismo laico che fioriscono in quei decenni, non per soffocarle, ma per assicurarne la piena
integrazione ecclesiale39.
Piuttosto che vedere in lui un vescovo che strumentalizza a fini politici il suo potere ecclesiale, è
forse più esatto considerare la sua vicenda come un tragico e in fin dei conti fatale esempio degli
effetti deleteri del particolarismo comunale su una pietas che cerca di coniugare fede cristiana e
impegno civico. Si possono idealmente paragonare le figure contemporanee di Guido Tarlati e di
Bernardo Tolomei come esempi degli esiti opposti della dialettica tra fede e virtù civica,
presupponendo per entrambi una buona fede iniziale. Nel caso di Guido, pietas cristiana e
patriottismo finiscono con il confondersi in una disperata impresa politica che gli costerà anche una
scomunica da parte di Giovanni XXII nel 132440; in quello di Bernardo assistiamo ad un momento
critico nella relazione tra queste due istanze che, proprio preservando l’integrità e la libertà della fede
cristiana, purifica e rafforza un amore e una lealtà autentici nei confronti della propria patria.
Per corroborare tale interpretazione sarà ancora una volta utile ricorrere ad alcune indagini
semantiche nella cronaca della Cancelleria, particolarmente riguardo all’uso dei termini mundus e
civitas.
In conformità con gli stereotipi della tradizione agiografica, il cancelliere usa mundus con una
accezione negativa: il mundus è da lasciare41, da disprezzare42, su di esso bisogna trionfare43, al suo
onore bisogna rinunciare44. Quando passiamo invece all’uso del termine civitas, assistiamo ad una
dialettica rivelatrice.
Abbiamo già visto sopra quanto la città sia considerata dal Cancelliere prima di tutto come un
luogo propizio allo sbocciare della vita di fede, nel quale vivere la conversatio con autentico fervor e
dove nasce e si consolida la comunione che strutturerà l’esperienza monastica successiva.
L’appartenenza alla città terrena però comporta anche delle ambiguità, espresse in passaggi che
riassumono dolorosamente il tragico esito del geloso particolarismo comunale:
Tutta la bellissima provincia d’Italia era travagliata da varie disgrazie e tribolazioni: dappertutto si udiva di
focolai di guerra, dappertutto di imboscate, di discordie fra cittadini e di rivolte. Insorgeva popolo contro
popolo, città contro città, e combatteva regno contro regno. Si potevano vedere in ogni luogo stragi di uomini
e saccheggi di beni, mentre ciascuno, sebbene fosse un piccolo signore, spinto dalla bramosia del regno,
cercava di rapire ciò che apparteneva ad altri45.

39
Ciccaglioni, Tra unificazione e pluralismo cit., p. 374 s.
40
Scomunica però che non sembra aver avuto nessun effetto concreto, visto non abbandonò né la cattedra
vescovile né la funzione di signore di Arezzo fino alla sua morte, nel 1327, cfr. Ciccaglioni, Tra unificazione e
pluralismo cit., p. 346.
41
Cfr. per esempio ChCa 6, 16ss. (Falchini, p. 245): «Sicque in hominen alterum mutatus, statuit in corde
suo, mundum perfecte derelinquere, saeculo valefacere, novum hominem induere, qui secundum Deum creatus
est, ac demum in virum se transformare perfectum», ChCa 8, 11ss. (Falchini, p. 247): «Denuntians scolaribus
ut eum de caetero non habituri (quippe qui mundum relinquere disposuisset et Deo Salvatori suo famulari) de
alio sibi doctore providerent».
42
Cf. ChCa 11, 6-9 (Falchini, p. 250) «Nonnulli considerantes et venerantes vitae austeritatem, divina iam
visitatione mutati et vocati, mundum relinquentes et quae mundi sunt spernentes, ne et ipsi de mundo essent,
patrum illorum adhaerebant vestigiis et eorum se magisterio erudiendos tradebant».
43
Cf. ChCa 25, 10-13 (Falchini, p. 279): «Postmodum vero adveniente die resolutionis suae, post multos
labores in sancta conversatione habitos et devictum triumphatumque mundum, aeterna praemia suscepturus
migravit ad Dominum, sepultus nihilominus et ipse cum patribus suis in ecclesia Montis Oliveti».
44
ChCa 31, 8-12 (Falchini, p. 285s.): «Maximaque inter illos erant certamina grata virtutum, cuius
videlicet mens ad pietatem mollior ; cuius sermo blandior ; quis loqui rarius ; quis orare crebrius posset ; quem
minus moveret iniuria ; quem magis misericordia ; quis dare promptius quod alius postulasset ; cui honore
rarior mundus ; cui frequentior Christus».
45
13, 10-5 (Falchini, p. 256): «Omnisque Italiae pulcherrima provincia diversis laborabat tribulationum
incommodis : undique bellorum incendia, insidiae undique et discordiae inter cives ac seditiones audiebantur.
Surrexerat gens contra gentem, civitas adversus civitatem et regnum adversus regnum pugnabat. Strages
9
Il riferimento alle discordiae inter cives trova fin troppi riscontri storici nella Siena della fine del
Duecento e dei primi decenni del Trecento: per limitarsi alla famiglia Tolomei, è ben nota per
esempio la violenta rivalità che in quel periodo la oppone ai Malavolti e poi ai Salimbeni46. Ma è
soprattutto nella dilagante ed endemica discordia di civitas adversus civitatem del periodo comunale
che si manifesta più palesemente il limite di un patriottismo la cui sorgente di ispirazione ha una
radice prevalentemente politica ed economica.
Così, la stessa città che aveva fornito il tessuto sociale e religioso più idoneo allo sbocciare della
pietas, finiva con l’ostacolarla, e si spiega così l’apparente pessimismo delle espressioni citate in
apertura: Bernardo ed i suoi compagni lasciano Siena nel 1313 perché «subivano ostacoli» e «si
ritirarono verso dei luoghi solitari» perché pensavano che non fosse sicuro «abitare insieme al
serpente»47.
Lungi tuttavia dal condurre ad un rinnegamento dell’ideale della città come luogo di convivenza
pacifica, come alveo di solidarietà civile e di comunione spirituale, questa esperienza rivela la
necessità di purificare senso civile e pietas urbana riannodando il riferimento della città terrena al
modello della città celeste. Detto altrimenti, si diventa cittadini più autentici sulla terra solo
rafforzando il senso di appartenenza alla città celeste. È in questa chiave che il Cancelliere interpreta
la partenza di Bernardo e dei suoi compagni da Siena. Non una fuga mundi, non un disprezzo della
città, ma un gesto profetico per rivendicare una concezione autenticamente cristiana, cioè
escatologica e cattolica della città. Vi è un modello ideale per la città terrena che è appunto la città
celeste alla quale tutti sono chiamati ad appartenere. Tale relazione fin da adesso rivela il legame
inscindibile tra la lealtà nei confronti della propria comunità e la responsabilità nei confronti di ogni
altra comunità, sia essa comunale come al tempo di Bernardo o nazionale come ai giorni nostri.
Bernardo ed i suoi compagni lasciano dunque la città della terra per testimoniare del fatto che
siamo tutti cittadini della città dei santi. Lasciano una comunità che rischiava di obliterare la sua
dimensione trascendente per fondarne un’altra che diventasse segno e anticipazione della città che
dimora:
Nell’anno 1313 dalla salvifica Incarnazione del Signore, quando giunse il giorno di adempiere il voto fatto e di
realizzare il proprio desiderio, uscito dalla casa paterna e dalla sua città, il nobile Giovanni, insieme con i due
suoi compagni Patrizio e Ambrogio, giunse al monte di cui si è detto48.

La modesta altura delle colline senesi dove essi si recano diventa simbolicamente questo «monte»
che sia nell’antico che nel nuovo Testamento è la sede della Gerusalemme ideale49. Il Cancelliere
aggiunge:
Essi non avevano quaggiù una città permanente, ma, sapendo di essere stranieri e pellegrini, e desiderando di
essere concittadini dei santi e familiari di Dio, cercavano la (città) futura ed eterna, che è nei cieli50.

ubique hominum videres et bonorum direptiones, dum regnandi cupidine ductus unusquisque, quamvis parvus
dominus, ex alieno rapere conaretur».
46
Mucciarelli, I Tolomei banchieri di Siena cit., p. 261.
47
ChBa 2, 8-10 (Falchini, p. 183 s.): «Set quoniam multa, a concivibus suis, hec fideliter operantes,
patiebantur impedimenta, secesserunt ad loca solitaria cogitantes, non esse tutum cohabitare serpenti».
48
ChCa 10, 1-3 (Falchini, p. 249): «Anno igitur a salutifera Domini Incarnatione millesimo trecentesimo
tertio decimo, adveniente die reddendi voti et complendi desiderii, egressus de domo paterna et civitate sua
nobilis Ioannis una cum duobus illis sociis Patritio et Ambrosio, ad montem iam dictum devenit».
49
Cf. Ez 40, 2, Zac 14 et…. Cfr. anche Mt 5, 14.
50
ChCa 22, 17-20 (Falchini, p. 275): «Non enim habebant hic civitatem manentem, sed advenas hic se
scientes et peregrinos, sanctorum vero cives et domesticos Dei esse optantes, futuram et quae sursum est
aeternam inquirebant».
10
Ricorre poi ad altri simboli per illustrare quanto la città nuova edificata su questo monte assolva il
suo ruolo di anticipazione della città celeste e di luogo di transizione per accedervi come, per
esempio, la visione di una scala d’argento che partendo dal luogo dove la nuova comunità si è
insediata giunge fino al cielo e sulla quale dei monaci salgono aiutati dagli angeli51.
La rivendicazione di questa cittadinanza celeste però non solo non è un ripudio della dedizione
alla città terrena, ma svolge riguardo a quest’ultima una funzione catartica. Il legame con la città non
è reciso da questo allontanamento ma ne viene rafforzato e approfondito, come lo mostrano diverse
circostanze.
In primo luogo, il legame permane visto che la città comincia a venire da loro:
Non appena la fama della loro santità e del loro straordinario stile di vita si diffuse nei luoghi vicini, a un tale
profumo di virtù molti uomini letterati ed eruditi e molti uomini della città di Siena e di altri luoghi che erano
nobili e onorati affluirono ad essi52.

Essi poi ricorrono volentieri all’aiuto della città per consolidare la fondazione nascente. Bernardo
non esita a fare ampio ricorso al prestigio del casato al quale appartiene, per esempio presso il
vescovo di Arezzo, la cui deferenza nei confronti della propria famiglia non può certo ignorare53. Ciò
gli permette di ottenere privilegi per la nuova fondazione che certamente ricompensano l’autenticità
del proposito riformatore di questo gruppo di nobili senesi, ma la cui ampiezza nondimeno sorprende
in un periodo e in un contesto nel quale la tendenza dell’autorità comunale (e il vescovo Guido
rappresenta anche questa!) è piuttosto quella di rafforzare il suo controllo su tutte le forme associative
presenti nel proprio territorio54. Ma Bernardo è pronto ad invocare i suoi legami familiari a volte
anche per mettere in guardia potenziali avversari della nuova fondazione:
Voglio che sappiate bene che non sono così abbandonato dagli amici e dai parenti da non sperare di essere
protetto fino a quando lo spirito dell’Ordine non riporti la vittoria, qualora altri vi attentasse55.

I rapporti di Bernardo con la sua famiglia restano fitti e sono ben documentati quelli intrattenuti in
particolar modo con il fratello Nello Tolomei, podestà di S. Gimignano nel secondo decennio del
Trecento ed il cui nome figura in diversi atti notarili olivetani56. Infine, anche dopo che Bernardo è
diventato abate e che la sua reputazione di santità è ben affermata, non mancano occasioni nelle quali
egli deve riconoscere la prepotenza del suo amore per «el Comune de Siena»57, come quando
confessa:
Recandomi a Siena, mi ero messo di nuovo in cerca delle mie cose [di un tempo], allora incongruentemente
bramate, con un sentimento ardente di abbracciarle, ascoltarle e assaporarle non meno che se fossero state un
gustoso miele il cui [solo] ricordo scaccia la noia, ingenera la pace e solleva lo spirito58.

51
ChCa 12 (Falchini, pp. 252-55).
52
ChCa 11, 1-4 (Falchini, p. 20): «Ex quo factum est, ut sanctitatis eorum et eximiae conversationis
opinione tunc primum per vicina loca innotescente, ad tam suavem virtutis odorem multi litterati et eruditi viri,
plurimi in saeculo nobiles et honorati de Senensi civitate, et locis aliis ad eos confluerent».
53
Mucciarelli, I Tolomei banchieri di Siena cit., p. 261.
54
Ciccaglioni, Tra unificazione e pluralismo cit., p. 355.
55
Falchini, p. 351. Testo latino (inedito): «Bene volo vos nosse quod non sum ita derelictus amicis et linea
carnis coniunctis quod non me tueri sperarem, dum ordo spiritus non resisteret, si hec alius actentaret. Facitis
autem vos contra quem rationis amore non loquerer, nedum ordinarem alio modo resistere.».
56
Cfr. C. Bidin, “Nello di Mino Tolomei. Eminenza sociale e politica familiare”, in «L’Ulivo» 35 (2005),
p. 105-109.
57
Pellegrini, La comunità ospedaliera cit., p. 89.
58
Falchini, p. 325. Testo latino (inedito): «Nam Senas appellens, igneo affectu amplectendi, audiendi et
gustandi, non minus meum sapidum mel, cuius memoria fugat tedia, illicit pacem, relevat spiritum, repetii
propria, tunc non consequens adoptata».
11
Ma il legame con la città non resta solo a distanza o solo occasionale. La dialettica tra la città
terrena e la città celeste comporta infatti il recupero di una sintesi nella quale appare con chiarezza
quanto il radicalismo cristiano non sia una negazione dei valori umani, ma una terapia per ritrovarne
e approfondirne l’autenticità. Questo è il significato del seguito degli eventi nella storia della
fondazione di Monte Oliveto: il segno della città celeste edificato nella comunità monastica diventa a
tal punto percepibile ed eloquente che la città terrena fa appello ad essa e chiede di poterne
beneficiare direttamente:
Venivano richiesti loro dei fratelli per formare nuovi cenobi, in modo che tutti coloro che avessero peccato
mortalmente e fossero stati giudicati passibili di morte eterna rifugiandosi in essi come presso case o città di
rifugio si ravvedessero e si convertissero al Signore e in esse fossero salvati. E beate si sarebbero ritenute tutte
quelle città e quelle regioni, e i loro vescovi e signori, che da questa casa e secondo l’insegnamento dell’uomo
di Dio avessero meritato di ottenere una comunità59.

Tre anni appena dopo la fondazione dell’abbazia di Monte Oliveto (1319) prende il via una serie
di fondazioni che raggiungerà la decina di monasteri nel giro di meno di un ventennio. E la prima di
queste fondazioni è proprio a Siena, assumendo simbolicamente il senso di un ritorno alla città dalla
quale erano partiti appena 8 anni prima:
Per tale motivo, tra i monasteri che gli venivano offerti, egli accettò anzitutto un monastero situato presso le
mura della città di Siena e dedicato al nostro S. Padre Benedetto che era stato costruito da cima a fondo grazie
all’impegno e ai finanziamenti del nobile signor Bonaventura Valcherini, allora rettore della casa o ospedale di
Siena60.

Quale funzione può però esercitare in favore della città un monastero che resta fuori dalle mura ed
i cui membri non assumeno incarichi di tipo pastorale ed hanno la proibizione assoluta di svolgere
qualsiasi ruolo civile61? La risposta è semplice. Il suo valore è esemplare. Si tratta del segno
rappresentato da una comunità i cui membri sono di ogni provenienza geografica e sociale, uniti da
un legame che trascende ogni forma di particolarismo comunale. Nel caso particolare dei monasteri
olivetani poi, la rotazione annuale dei monaci da un monastero all’altro rinnova regolarmente la
composizione di queste comunità, facendo passare i monaci costantemente da una città all’altra,
mettendoli così al servizio di tutte le città, indistintamente. La famiglia monastica facente capo a
Monte Oliveto tesse così una rete fittissima di monasteri e costituisce così una istanza fortemente
unitaria che esprime la “cattolicità” della Chiesa, cioè la sua vocazione ad abbracciare tutte le città,
tutte le razze e le nazioni per farne un popolo solo attraverso il legame della carità. In questo modo,
l’insediamento monastico benedettino olivetano presso la città esercita una funzione critica nei
confronti di un particolarismo comunale diventato egoismo collettivo e sempre più incline a
sacrificare gli aspetti ideali del vivere comune a forme di supremazia sociale, politica ed economica.

59
ChCa 34, 1-10 (Falchini, p. 290): «ad constituenda coenobia fratres petebantur : ad quae tanquam ad
domos sive civitates refugii, quicumque peccaverint ad mortem et aeternae mortis rei iudicati fuerint,
confugientes resipiscant et convertantur ad Dominum, et salventur in eis ; et beatae se aestimabunt civitates et
regiones earumque praesules ac domini, quicunque de domo ista et disciplina viri Dei meruissent
contubernium adipisci».
60
ChCa 35, 1-5 (Falchini, p. 291): «Quapropter ex sibi oblatis monasterium primo suscepit, quod prope
civitatis Senensis muros sub titulo sancti patris nostri Benedicti, opera et impensis nobilis viri domini
Bonaventurae de Valcherinis, domus sive hospitalis Senensis tunc rectoris, a solo constructum est».
61
Cfr. Costituzioni del 1350/60 55, 29-34 in Rocher, p. 194s. (Falchini, p. 164) e lettera 31 di Bernardo
Tolomei (Falchini, p. 345s.).
12
Conclusione
L’esperienza di Bernardo Tolomei e dei suoi compagni si è dunque radicata nella pietas urbana ed
è stata caratterizzata da un altissimo senso civico. Consapevoli del valore fondamentale di questa
pietas, essi hanno voluto restarle fedele in continuità con quanto di positivo avevano maturato
nell’alveo cittadino. Ma proprio per questo occorreva superarne le ambiguità attraverso una
rivendicazione del primato escatologico e cattolico della fede cristiana, della pietas autentica.
Così facendo, essi non perseguono soltanto né prima di tutto la loro personale salvezza o
santificazione, ma contribuiscono ancora più efficacemente alla costruzione della città terrena.
Attraverso la parabola di partenza dalla città e di ritorno ad essa con insediamenti monastici urbani,
essi preservano la pietas dall’identificazione pura e semplice con il patriottismo e contribuiscono alla
maturazione di un senso civico che per essere autentico deve darsi i mezzi di non scadere in
particolarismo esacerbato o in forme di totalitarismo che strumentalizzano la fede per l’interesse
politico e capovolgono l’ordine dei valori: non la città al servizio dell’uomo, ma l’uomo asservito alla
gloria della città.

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