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Costituzione
M. Fioravanti
Prefazione
Tratteremo di dottrine che in diverse epoche hanno posto a proprio oggetto la costituzione, intesa come
ordinamento generale dei rapporti sociali e politici.
A partire dal IV secolo A.C., con le costituzioni degli antichi, fino all’esperienza medievale, in cui emerge la
distinzione tra il re ed il tiranno, si enunciano le dottrine del diritto di resistenza, del fondamento della comunità
politica, della legge fondamentale, del ruolo del parlamento, per giungere fino all’età moderna, in cui si riflette sul
potere e sulla sovranità, in cui la dottrina costituzionale diviene disciplina giuridica. Pur rilevando molte
connessioni tra le diverse epoche e sottolineando elementi di continuità, si vuole evidenziare però la pluralità delle
dottrine, tutte originali e specifiche, negando che vi sia un unico filone di un medesimo pensiero, basato sugli stessi
elementi costitutivi. Se mai unico è il bisogno di una costituzione, sentito in modo differente in ciascuna epoca.
sia mista e moderata, che assicuri stabilità ed equilibrio, aequabilitas (proiezione sul piano politico delle virtù di
equità e moderazione). Questo progetto di conciliazione sociale e politica richiama la parte migliore di tutte le
classi sociali, gli uomini più illuminati.
Concludendo, abbiamo rilevato molte similitudini nelle varie dottrine esaminate, con tratti molto comuni nei greci
ed in Cicerone: la costituzione si manifesta come criterio di ordine, progetto di conciliazione sociale e politica,
prodotto di una esperienza storica (la costituzione dei padri), mai imposizione dei vincitori, disciplina quotidiana di
moderazione e virtù, una forma ordinata e durevole.
2. Re e tiranno.
La dottrina inizia una vera riflessione solo a partire dalla fine dell’XI sec., con l’età dei Comuni, rifiorisce lo studio
e la ricerca, si diffonde il sapere, lo studio del diritto giustinianeo, i classici greci e romani. Un primo teorico è
Giovanni da Salisbury (1160) che riflette sulla differenza tra re (principe) e tiranno. Il principe è legibus solutus,
ciò che a lui piace ha valore di legge, ma solo perché, come guida della comunità ha la responsabilità di
promuovere la giustizia e l’equità (per cui se sottoposto a sanzione, se costretto ad obbedire, non sarebbe degno e
rispettato nella sua carica). il suo potere è formalmente illimitato, ma finalizzato obbligatoriamente a quel fine di
guida equa, l’equità è l’unica legge cui non può mai sottrarsi, altrimenti si trasformerebbe in tiranno, che non tiene
uniti i sudditi, ma privilegia fazioni. Il principe è giudice secondo il diritto preesistente, che egli è chiamato a
preservare, in caso di violazione, è possibile, se non doveroso, invocare il diritto di resistenza.
Più ricco e articolato è il pensiero di San Tommaso (1260), che riprende quanto già sostenuto da Giovanni, in un
discorso più ampio, che interessa le differenti forme di governo, secondo lo schema aristotelico. Non si limita al
distinguo re-tiranno, ma esalta la monarchia, come forma ideale di governo, più adatta a mantenere unità e pace nel
popolo, secondo lo schema organicistico del corpo umano, che sopravvive grazie all’apporto di tutti gli organi, in
cui il principe rappresenta il cuore, l’unico centro motore dell’organismo. con la presenza di più poteri, si perde il
senso del bene comune e si persegue la faziosità, che farà scaturire la guerra interna in cui vincerà un tiranno. nella
monarchia, uno solo regge le sorti comuni, limitato dal diritto di resistenza, che non è rivoluzione o disobbedienza,
ma ordinata opposizione comune dell’intero popolo per il tramite dei suoi magistrati e ministri, attraverso richiami
e petizioni, ma mai singolarmente o per fazioni, onde evitare la divisione sociale. Si evita così la tirannia,
preservando la costituzione, che Tommaso chiama polita, che diviene optima quando al monarca si affiancano i
migliori, espressione della componente aristocratica, e i magistrati e ministri eletti dal popolo. si tratta quindi una
costituzione mista, non solo equilibrio sociale, ma sistema di equilibri e temperamento della monarchia, ma anche
dell’aristocrazia e dei ceti sociali, in un perfetto connubio tra principe illuminato e rappresentatività dei vari ordini
sociali (magistrati, ufficiali, nobili, vescovi, signori feudali, ordini commerciali).
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Sulla falsariga di Tommaso, i giuristi del XIII sec. arrivarono a teorizzare la distinzione tra Corona e persona
fisica del re: la prima immutabile e stabile (i cui beni non sono soggetti ad alienazione e la cui cura deve essere
responsabilità di ogni ceto sociale e non solo del re), la seconda mutevole col trascorrere del tempo. Da qui si arrivò
ad ampliare il concetto quod omnes tangit ab omnibus approbetur (ciò che riguarda tutti deve essere approvato da
tutti), per cui nelle materie di rilevanza generale occorreva il placet di tutti gli ordini, espressione di quella serie
articolata e complessa di rapporti sottesi alla costituzione medievale, tanto che il pubblico potere del re diveniva
potestas temperata, espressione di un diritto pubblico nascente, a base tendenzialmente contrattuale, plurale,
articolato, in cui il diritto iniziava ad essere il fondamento teorico di analisi.
4. La costituzione mista.
La costituzione mista degli antichi era caratterizzata da medietà (tra i vari ceti), stabilità, durevolezza, non era
imposta da un vincitore, ma rappresentava il risultato di un evoluzione storica, un lascito degli antichi, un ideale
fondante che mirava alla coesione sociale. Il medioevo non dimentica questa tradizione, Tommaso, ma anche la
scuola inglese, evidenziano il bisogno di un temperamento del potere regio, ma anche di tutti i poteri in campo,
esaltando il ruolo della costituzione mista come baluardo a difesa del carattere plurale e composito della comunità.
Tale scenario andrà sempre più decadendo fino ai secoli XVI e XVII, sotto i colpi dell’assolutismo monarchico.
Analizzeremo di seguito come la costituzione medievale riuscirà a sopravvivere all’accentramento progressivo dei
poteri pubblici da parte dei monarchi. Il primo scenario è quello francese della seconda metà del XVI sec., in cui
spicca il sanguinoso massacro degli ugonotti nella notte di S. Bartolomeo (1572). Tra i pensatori sostenitori di una
pacificazione sociale fondata sull’antica costituzione mista spicca François Hotman, sostenitore di una Corona
limitata sul piano dinastico e in materia di alienazione dei beni, in cui il re sia legato, nel suo operato, al
perseguimento del bene pubblico, sempre dinanzi agli stati generali del regno (composti dai magistrati di nomina
regia, ma anche da magistrati, nobili o deputati eletti o espressione di dinastie locali). La novità è che per la prima
volta la costituzione è utilizzata contro il re, contro le sue pretese di dominio, invocando anche il diritto di
resistenza, che si sostanzia anche nella riappropriazione, da parte del popolo, del potere che spettava ad esso
originariamente, e che era stato poi affidato al re nell’ambito del patto costituzionale: il popolo esiste prima del re.
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Si infrange la teoria organicistica in modo netto. Nell’opera Vindictae contra tyrannos, di autore incerto (1579), si
afferma ancor più nettamente il carattere originario del potere del popolo, definito come comunità strutturata in un
complesso modello di ceti, comuni, ordini, province, che attraverso i propri rappresentanti (generali, ufficiali,
magistrati) si costituisce come corpo politico completo, vivo, autosufficiente, che non ha bisogno del principe.
Questi, se mai, è scelto per condurre questo universo, ma deve giurare per primo sulla legge fondamentale, deve
rispettare il patto comune. Solo successivamente il popolo aderisce a quel patto e giura obbedienza al re ed alla
legge, per il tramite dei propri ufficiali e magistrati, a condizione che il re non infranga il suo giuramento.
Altrimenti viene esercitato il diritto di resistenza, ma mai singolarmente (in modo da alimentare divisioni e fazioni),
poiché tale diritto è attribuito originariamente a tutta la collettività nella sua interezza. Per cui si interviene prima
tramite gli stati generali, poi, se la tirannia è al potere, il popolo resiste e si ribella direttamente. Su tale strada,
tracciata dalle Vindictae, prosegue Johannes Althusius (1600), che introduce una novità: la presenza di un patto
originale, precedente a quello stipulato tra il popolo ed il re, un patto “orizzontale”, tra tutte le componenti sociali,
la universalis consociatio, il popolo. Questo patto è la legge fondamentale, inviolabile, da preservare, è l’essenza
stessa della costituzione medievale: mista, poiché ricomprende tutta la pluralità delle componenti sociali di cui è
sintesi, in quanto non discende dall’alto, ma si forma dal basso. La costituzione mista inglese si era tradotta ormai
nel principio King in Parliament, principio sottolineato dal contributo di John Fortescue (1470) e confermato fino
ad un secolo dopo da Thomas Smith (1565), che evidenziano la particolarità del modello inglese, regale sì ma
anche politico, in cui il potere risiede nel parlamento. Smith, alle soglie del conflitto interno, classificò i poteri
specifici del re che può esercitare da solo e quelli che deve esercitare il Parlamento (tra cui dichiarare la legge o
imporre tributi), tanto che fosse sempre possibile individuare i confini tra ciò che il re poteva fare da solo o ciò che
doveva essere discusso e deciso in Parlamento. La stagione dell’assolutismo si avvicinava. In questo difficile
periodo spicca la figura di Edward Coke (1600) che esalta il ruolo della legge fondamentale su un piano più
strettamente giuridico, come la vera common law, capace di circoscrivere, mediante l’operato del giudice, la forza
stessa della legge del parlamento, attraverso gli strumenti della disapplicazione della norma e dell’interpretazione.
Una norma rispondente alla tradizione ed alla storia del regno, di cui i giudici sono custodi. Il resto è storia: dalle
19 proposizioni del 1642, con cui si impone al re il gradimento del parlamento sulla nomina di tutte le cariche
pubbliche, fino alla condanna a morte del re stesso, all’abolizione della Camera dei Lords del 1649, alla dittatura
militare di Cromwell del 1653: si è giunti ormai nell’epoca moderna.
moderni. Gli individui escono dallo stato di natura associandosi, delegando i propri poteri al potere sovrano, che è
un potere artificiale, perché in origine generato dalla volontà degli individui, che però delegando, perdono
definitivamente il proprio originario potere (e non possono opporlo al sovrano…). Ciò era impensabile per Bodin,
sostenitore dell’originarietà del potere sovrano. L’homo lupus, il singolo, “autorizza” e cede il suo potere ad un
ente terzo, purchè lo facciano tutti i consociati simultaneamente. Ma oltre all’autorizzazione, si genera anche la
“rappresentanza”, per cui un solo ente impersona l’unità, opporsi a lui significa indebolire il tutto. Il potere sovrano
protegge e tutela i consociati, permette l’esercizio dei diritti, ma è un mostro, temibile, che esprimerà la sua terribile
forza durante tutto il periodo dell’assolutismo, fino alle soglie della Rivoluzione Francese, quando nel 1762, J.J.
Rousseau, nel Contratto sociale, attribuì il potere sovrano al popolo. Il peccato attribuito a Rousseau fu quello di
aver minacciato la costituzione, sostenendo che il popolo potesse mettere in discussione continuamente la sponsio
medievale, il contratto sociale originario, in virtù di una scelta libera, continuo e costante sostegno ad un patto, che
dà vita ad un corpo politico, il popolo. L’individuo perde la sua libertà naturale ed acquisisce la libertà civile,
garanzia di essere governato da una legge generale che riconosce i propri diritti limitando il potere dei governanti.
Questi agiscono solo per conto del popolo, ma solo in esso permane il potere di ratificare definitivamente le leggi.
Per Rousseau, come per Hobbes, la costituzione è nella sovranità, è legge fondamentale, generale ed astratta, ma
presuppone l’ente sovrano, che esiste prima ed al di fuori di essa.
2. Il costituzionalismo.
E’ quell’insieme di dottrine che dal XVII secolo hanno inteso recuperare nella costituzione dei moderni l’aspetto
del limite e della garanzia rispetto al potere. I modelli di Hobbes e Rousseau non erano certo espressione di arbitrio,
ma non erano ancora concepiti due principi che il costituzionalismo sostiene: 1) la divisione del potere sovrano in
un sistema di poteri in posizione di equilibrio e reciproco limite; 2) un limite legale ai poteri sovrani attraverso
una norma fondamentale (magari assimilabile alla tradizione della costituzione mista medievale). Ci si avviava a
sostenere un nuovo ordine costituzionale equilibrato e bilanciato, rappresentativo di tutti gli ordini sociali. Su
questa linea si pone il repubblicano James Harrington (1650), sostenitore dell’equilibrio sociale, basato su un’equa
distribuzione dei beni generata da una legge agraria che moltiplichi i proprietari e quindi elettori ed eletti, in un
governo misto, che concetto che rappresenta l’evoluzione della costituzione mista. Il modello è chiaramente la
Roma repubblicana, che si studiava grazie alle opere del Machiavelli, un sistema in cui popolo ed aristocratici
potevano coesistere, come nel parlamento inglese. Anche a seguito della Restaurazione monarchica in Inghilterra
del 1660 e dopo la Gloriosa Rivoluzione, si ebbe nel 1689 la limitazione dei poteri regi con l’adozione del Bill of
Rights, che ribadiva la centralità del parlamento, l’esclusione per il re dai poteri di normazione ed imposizione di
tributi, di chiamata alle armi: una forma di governo bilanciata e moderata che si pose come modello per l’Europa
intera. Il primo ideatore di questo modello fu certamente John Locke (1690), che, partendo dall’analisi della
condizione umana nello stato di natura, si discostava già in modo netto da Hobbes. Per Locke, l’uomo già allo stato
di natura possedeva il senso della proprietà e dei diritti della persona, ma mancava di una regola fissa e consolidata
valevole per tutti. Tale situazione si perfezionava con l’istituzione di una società politica, di una legge, di giudici, di
un legislatore che non crea i diritti, ma li riconosce come preesistenti e li tutela. Nel governo stesso di una civiltà si
ripropongono i limiti ad ogni potere: non è pensabile una monarchia assoluta, ma nemmeno un potere assoluto di
una sola assemblea: Locke per primo formula la distinzione tra potere assoluto (che concentra in sé i poteri
legislativo ed esecutivo) e moderato (in cui i var poteri sono distinti). Il modello moderato è preferito da Locke, sia
il King in Parliament, ma anche qualsiasi forma di divisione e bilanciamento dei poteri. Dopo Locke non pochi si
dedicarono a perfezionare e sviluppare il discorso costituzionalistico che egli aveva inaugurato, sempre più
definendo la costituzione come lo spazio entro cui si equilibrano i poteri e si garantiscono i diritti, anzi il modello
di costituzione ideale divenne sempre più quello inglese. Anche il conservatore Bolingbroke (1737) esalta la
costituzione inglese, distinguendo il concetto di costituzione da quello di “buon” governo, che da quella discende e
che quella deve seguire per essere tale. sostenere la costituzione non significava però legittimare un’eccessiva
“parlamentarizzazione” del sistema, come unica base di governo, impoverendo gli altri poteri, come per esempio
l’esecutivo, nel quale il primo ministro era schiavo della propria maggioranza parlamentare e pertanto l’esecutivo
ed il legislativo andavano a sovrapporsi. Comunque nel corso di tutto il ‘700 ancora la costituzione inglese
rappresentava il solo modello capace di bilanciare i poteri: il parlamento fa le leggi, sottoposte al veto del re, che
col governo regge l’esecutivo, che gestisce le risorse concesse dal parlamento, il potere dei giudici è svincolato.
Questo modello ebbe un formidabile divulgatore straniero, Montesquieu (1748), il quale seguendo il pensiero
lockiano, fondò la sua analisi sulla distinzione fra potere assoluto e moderato, sui pericoli derivanti
dall’accentramento del potere e sullo studio della costituzione ideale (quella inglese) che mantiene i poteri separati
e bilanciati: “il potere che frena il potere”. I diritti degli individui sono riconosciuti dalla legge, all’interno di un
regime moderato, sotto l’egida di una costituzione. Stessi concetti ripresi dall’ultimo costituzionalista inglese del
tempo, William Blackstone (1765), che pone l’accento sulla centralità e sovranità del parlamento, al fine di negare
l’esistenza di altre sovranità (il popolo, per esempio) che potevano agevolare spaccature sociali. Infatti accanto alla
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costituzione (depositaria dei diritti) ed al parlamento, si sottolineava anche la titolarità regia del governo, altro
pilastro del sistema.
3. Le rivoluzioni.
Nella seconda metà del ‘700 il costituzionalismo era ancora forte ed autorevole, nell’Enciclopedia francese Diderot
trattava del contratto tra popolo e principe, del “limite” del potere per entrambi gli attori del sistema (che
Blacksotne identificava nel parlamento). Concetti successivamente osteggiati da Rousseau, che vedeva in quel
contratto un “limite” al potere del popolo, unico depositario del potere sovrano. In Inghilterra tale impianto
dottrinale iniziava a screpolarsi, grazie al contributo di Burke (1770), che nell’analisi della conduzione politica del
governo, riconduceva tutto alla volontà degli elettori, organizzati e guidati da partiti, ma senza affermare una vera e
propria sovranità popolare. Jeremy Bentham (1775) attaccava addirittura Blackstone e il tanto decantato governo
misto inglese: la differenza tra un governo libero ed uno tirannico non sta nei limiti opponibili a quest’ultimo in
nome della costituzione, bensì nel modo di partecipare, da parte delle diverse classi sociali, al potere, nella
responsabilità dei governanti, nel riconoscimento di diritti e libertà, cioè il potere deve essere legittimato dal
consenso popolare e finalizzato al pubblico interesse, tanto che la costituzione possa divenire superflua.
Alla fine del ‘700 si riscontrano due indirizzi di pensiero: da un parte il concetto di limitazione e separazione dei
poteri, appartenente al costituzionalismo tradizionale, dall’altra la discussione sulla forma politica, sulla sovranità,
che sempre di più veniva ad essere attribuita al popolo. I costituzionalisti discutendo di sovranità popolare
vedevano in essa una causa di rottura dell’ordine sociale, i sostenitori della sovranità popolare vedevano la
costituzione come un impaccio, un limite al potere sovrano e quindi temevano l’instabilità o il dispotismo. Le
rivoluzioni della fine del ‘700 introducono un concetto nuovo: il potere costituente, esercitato dai coloni americani
e dal popolo francese. L’esercizio di tale potere è assoluta espressione di sovranità popolare, un soggetto collettivo
costruisce una nuova forma politica, una volontà sovrana si associa ad una costituzione, nella ricerca di un ordine
stabile e legale. Sovranità e costituzione confluiscono, mediandosi. La rivoluzione è il momento storico portatore di
una nuova forma politica e di una nuova costituzione, nasce sempre da una “rottura” con un ordine costituito non
più basato sul consenso popolare, ma anzi che tradisce il popolo (vedi l’opposizione degli americani alla tassazione
inglese imposta illegittimamente dalla corona). In America i coloni parlano di incostituzionalità delle tasse inglesi,
per la prima volta tale termine è usato con un assunto legale, che pone un forte rilievo sul valore della costituzione,
baluardo a salvaguardia dei diritti naturali degli individui che in essa sono riconosciuti e tutelati (fondamento
giusnaturalistico del potere costituente). La rottura con la costituzione inglese è piena: non vi è più da comporre
forze e realtà contrastanti, bensì unire stati federali, creare poteri, riconoscere e tutelare diritti, legittimare il tutto
mediante il consenso popolare. Nacque una costituzione democratica e repubblicana allo stesso tempo che istituiva
dei poteri limitati reciprocamente, non originari, ma sanciti dalla legge stessa e dal potere costituente del popolo
sovrano. I limiti dei poteri non erano solo rigida e astratta separazione tra gli stessi, ma insieme di bilanciamenti e
contrappesi, per cui ognuno di essi fosse dotato di strumenti di controllo e limitazione rispetto agli altri. Anzi i
costituzionalisti americani, Madison ed Hamilton, ritenevano che il controllo maggiore dovesse essere effettuato
sul potere legislativo, che per la forza e le competenze di cui è dotato può risultare tendenzialmente più
accentratore. In tal senso è fondamentale il potere dei giudici ordinari e dei giudici costituzionali, strumenti della
costituzione posti a vigilare sulla rispondenza delle norme alla costituzione stessa: il controllo di costituzionalità
diviene un momento fondamentale della democrazia. L’esperienza americana insegna che il costituzionalismo
senza democrazia produce l’assolutismo parlamentare, ma la democrazia senza costituzionalismo è parimenti
pericolosa, poiché produce concentrazione dei poteri in mano ad assemblee popolari. Paine nel 1780 diceva che la
costituzione non è l’atto di un governo, ma del popolo: un governo senza costituzione è potere senza diritto. Solo il
popolo può modificare, quando lo ritiene giusto, una costituzione.
In Francia la spinta rivoluzionaria portò a conclusioni diverse: il popolo sovrano non può essere solo il
fondamento della costituzione, ma deve essere “il sovrano”, che attraverso la costituzione sostiene il processo
rivoluzionario. Sieyes (1780), il più lucido interprete della rivoluzione, sostiene che la costituzione deve limitare i
poteri costituiti ma non può limitare il potere costituente del popolo (nazione): il popolo sovrano ha il potere di
modificare continuamente la costituzione. Il problema è se mai la rappresentanza, che da una parte è fondamento
del potere dei governanti, dall’altra è la condizione necessaria perché si possa parlare di popolo in senso unitario
(senza potere espresso in modo unitario attraverso i propri rappresentanti politici e le istituzioni non abbiamo
popolo, ma solo moltitudine di individui). Nel periodo rivoluzionario si afferma anche il filone di pensiero legato al
riconoscimento dei diritti, esaltato con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che sancisce:
”ogni società, nella quale la garanzia dei diritti non è assicurate, né la separazione dei poteri determinata, non ha
costituzione”. I diritti naturali lockeani e il giusnaturalismo arricchiscono la discussione. Malgrado queste
premesse, in Francia non si ebbe una separazione dei poteri, ma venne esaltata la centralità del potere legislativo e
si pose grande attenzione sul giudice costituzionale (La Cassazione). Il re fu confermato a seguito della
restaurazione e non si arrivò al suffragio universale, né diretto: in sostanza la Rivoluzione produsse risultati
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imperfetti dal punto di vista democratico. Con la successiva rivoluzione giacobina, sparì il re e si instaurò il
suffragio universale diretto, con una visione monistica del potere, tutta incentrata sull’assemblea. Tutte queste
esperienze durarono pochissimo o videro appena la luce: solo col Direttorio (che vide sparire il suffragio universale
e diretto e l’introduzione del bicameralismo) si introdusse un modello più stabile ma comunque monistico.
5. Stato e Costituzione.
Il costituzionalismo dopo la Rivoluzione ne accetta alcuni principi ma delimitandone i confini: la supremazia della
legge e l’eguaglianza di tutti dinanzi ad essa sono due capisaldi imprescindibili. Però si affaccia una paura nuova,
quella di un potere costituente illimitato nelle mani del popolo: Burke vi contrappone la tradizione equilibrata del
modello costituzionale inglese; Kant e Constant la sovranità limitata e il modello antidispotico; Tocqueville la
forza di una classe dirigente autonoma, contrappeso tra il livellamento popolare e lo strapotere delle istituzioni. La
preoccupazione maggiore era la stabilità del tessuto sociale e la radicalizzazione democratica della rivoluzione,
Tanto che nacque un pensiero controrivoluzionario che vide in De Maistre un fervido portavoce. Egli sostenne che
il torto fu di separare società e sovranità, indebolendole entrambe e riducendole a moltitudine e anarchia, per cui
ogni modello di costituzione scritta ed ogni riconoscimento dei diritti entrano in secondo piano. Con Hegel (1800-
1830) si introdusse un principio cardine, la Costituzione statale, che innovò completamente la materia. Egli partì
dalla critica profonda al sistema tedesco, in cui la costituzione rappresentava il prodotto pattizio, consuetudinario,
di un insieme di diritti acquisiti alla maniera diritto privato, impedendo al paese di esprimersi in modo unitario
come nazione. La costituzione giuridica, instabile e frammentaria cioè, non era ancora costituzione statale,
espressione di uno stato e di un unico principio ispiratore, mancava cioè di quegli elementi che caratterizzano uno
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stato. Invece la Francia, per Hegel, pur soccombendo sotto la disgregazione rivoluzionaria che aveva cancellato la
costituzione, non aveva però perso il senso dello Stato, aveva ricreato esercito, amministrazione, burocrazia. In
sostanza la Francia era uno stato ala ricerca della costituzione, la Germania, attaccata alla propria costituzione
feudale e consuetudinaria, non aveva ancora le fondamenta di uno stato, mancava cioè di un diritto pubblico statale,
di un’amministrazione, di una burocrazia, di un esercito. la costituzione statale è una norma di diritto pubblico che
sovrasta ogni spinta privatistica (dei ceti e dei singoli), non è la norma che difende la proprietà ed i diritti naturali,
secondo la concezione per la quale lo Stato è al servizio dei cittadini, ma il fondamento giuridico dello Stato, inteso
come insieme universale di interessi permanenti e generali. Racchiude in sé i vari poteri: il monarca, le assemblee,
la burocrazia. L’affermarsi della costituzione statale è dato dalla sovranità dello Stato, che esclude qualsivoglia
sovranità di soggetti estranei ad esso. La costituzione non viene “fatta” o imposta da alcuno: ma è norma (ordine)
fondamentale opposta a tutti i soggetti. La teoria hegeliana servì per molti anni a bilanciare le spinte accentratrici
del monarca e l’evoluzione in senso democratico-popolare, fu soprattutto il fondamento per la nascita del diritto
pubblico e per la teoria dell’”organo” o della personalità giuridica dello stato e dei suoi enti. Un’altra teoria,
sostenuta dal Bismarck, si affiancava a questa: essa affermava la primazia dello stato dinanzi alla costituzione, lo
stato è sovrano in quanto ordinamento originario che sussiste prima e malgrado la costituzione: è la casa di cui la
costituzione rappresenta l’arredamento. Malgrado questa parentesi, era ormai predominante nella cultura
costituzionale dell’800, che la sovranità dello Stato dovesse coincidere con quella dell’ordinamento giuridico,
trasformando ogni potere (popolare, monarchico, ecc.) in un elemento giuridico incardinato nell’ordinamento,
nasceva in pratica lo “Stato di diritto”, che assunse la sua forma teorica definitiva grazie a Georg Jellinek (1850-
1910). Egli afferma l’equivalenza tra Hobbes e Rousseau in quanto teorici di una legittimazione assolutistica del
potere, privo di un limite formale e sostanziale. Solo la sovranità di un ente terzo, lo Stato, e del suo diritto,
garantiscono i cittadini e le istituzioni da ogni possibile rischio di strapotere dispotico e di instabilità politico-
sociale, garantiscono la tutela giuridica dei diritti ed il corretto funzionamento delle istituzioni stesse. Non si può
avere stato senza costituzione e viceversa.
6. Democrazia e costituzione.
La teoria dello Stato di diritto ebbe benefici influssi sia nell’Italia sabauda (il governo parlamentare idealizzato da
Vittorio Emanuele Orlando) che in Francia (Carrè del Malberg). In Inghilterra, con Venn Dicey (1880) si ridisegna
il concetto del King in Parliament, si configura cioè una nuova concezione di Parlamento come luogo ove
confluiscono le istituzioni, ma che non rappresenta la sovranità popolare e non ne riceve il mandato, esso è di per sé
sovrano ed originario, per cui è intangibile la sovranità della sua legge. Tutto il diritto pubblico europeo si afferma
in opposizione al principio democratico della sovranità popolare, che si sostanzia in sovranità dello Stato o del
Parlamento (inglese): manca ovunque, fino al primo decennio del ‘900, il concetto di costituzione democratica.
Solo successivamente, a seguito dei conflitti, la costituzione avrà bisogno di contenere nuovamente le scelte del
potere costituente, scelte politiche, principi, diritti. Come nel periodo rivoluzionario, la costituzione torna ad avere
un valore politico, direttamente collegato alla volontà costituente del popolo sovrano, e quindi avrà anche un
contenuto democratico. La costituzione tedesca di Weimar del 1919 è l’antesignana di questa nuova concezione,
contenendo in sé gli elementi della “nuova” costituzione: in primis un esplicito potere costituente, come
fondamento della nascita di un nuovo stato, il popolo sovrano fonda lo stato e ne definisce i principi e la forma
nella costituzione stessa. Non ci si limita più a definire limiti e funzioni dei poteri, e rimandare alla legge la tutela
dei diritti: la costituzione stessa fonda lo stato, i suoi poteri e il suo funzionamento, legittimandolo, stabilisce e
istituisce diritti e doveri, riconoscendo i diritti fondamentali e la loro tutela giuridica (inviolabilità), l’uguaglianza
di tutti dinanzi alla legge. L’esperienza di Weimar rappresentò un inizio timido e contraddittorio, ma fu il
presupposto per l’affermazione di nuove teorie, la prima fu espressa da Carl Schmitt (1930), il quale afferma che
una costituzione è democratica quando rappresenta politicamente ed istituzionalmente il soggetto che le ha dato
vita, ovvero il popolo. Schmitt riscopre così l’esperienza rivoluzionaria, esalta l’aspetto politico della costituzione,
recupera i concetti di separazione ed equilibrio tra i poteri, il parlamentarismo, la tutela giurisdizionale dei diritti. Il
filone statale tedesco ed il parlamentarismo inglese hanno per lui derubato la costituzione del vero contenuto
politico, il potere democratico e costituente del popolo. Però, malgrado tali presupposti innovativi, il suo pensiero
arrivò a teorizzare il principio della continuità dello Stato e della sua primazia rispetto alla costituzione, cioè
l’esatto opposto dei presupposti da cui partiva, quando tratta dell’elezione diretta del Presidente da parte del
popolo. Il presidente rappresenta il popolo, la continuità, per cui un’altra costituzione, che può soppiantare quella
ormai entrata in crisi, abbracciando quindi le tematiche più radicali già analizzate da Rousseau e che hanno prestato
il fianco alla critica che nel principio democratico vi fosse qualcosa di instabile, inconciliabile la costituzione intesa
come momento di stabilità e limitazione. Ed è proprio con questo problema che si infervora la dialettica nel
Novecento: l’incontro tra democrazia e costituzionalismo, la ricerca di una forma costituzionale adeguata al
principio democratico. In questo scenario occorre citare Hans Kelsen (1880-1970), sostenitore del concetto che la
costituzione democratica si è assunto il compito, dalla rivoluzione in poi, di demolire progressivamente ogni potere
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privo di esplicito fondamento normativo o costituzionale (necessario fondamento normativo di ogni potere). La
costituzione è democratica perché tende ad escludere poteri autocratici, che cercano cioè di autolegittimarsi, non
dipendendo dalla norma costituzionale. La costituzione democratica quindi deve essere antimonarchica
innanzitutto, ma anche pluralistica, cioè non deve promanare da un solo soggetto (fosse anche il popolo, inteso
come soggetto, astrazione, persona), bensì deve essere il prodotto di un processo evolutivo, di una mediazione,
sintesi e composizione di molteplici spinte ed interessi affermatisi storicamente. Anzi, quanto più una costituzione
è capace di esprimere una mediazione, un equilibrio, la partecipazione sociale di tutti, tanto più essa è solida e
duratura. La costituzione infine deve essere parlamentare, poiché solo con questo organo si esprime il suo valore
mediatore degli interessi pluralistici, mediante la politica, il dialogo e la mediazione dei partiti, scelti secondo il
metodo proporzionale (rappresentatività). La centralità del parlamento non è mai sovranità dello stesso, poiché la
legge che da esso promana è in posizione di supremazia sull’organo stesso e su tutte le fonti del diritto, tranne che
sulla costituzione. Infatti quella legge, per quanto sacra e rispettabile, è il prodotto della volontà di una
maggioranza, per cui va posto un limite ad essa: questo limite è la norma costituzionale, e lo strumento di controllo
è il sindacato di costituzionalità ad opera di una corte a ciò destinata. Ciò significa che la maggioranza
parlamentare è subordinata alla rappresentatività totale, generale della costituzione, ciò in aperta antitesi con l’idea
di Schmitt, che vedeva nel presidente eletto dal popolo il vero custode della costituzione.
Le due concezioni sono opposte: per Schmitt tutto deriva dal potere costituente, la costituzione è
democratica perché voluta dal popolo e permane come atto unitario che evolve , vive e che va difesa dai processi
involutivi e corrosivi. Per Kelsen la costituzione è democratica perché rifiuta ogni concezione unitaria
precostituita,è la sintesi dei pluralismi e vive proprio del compromesso tra le varie forze, rifiuta quindi il potere
costituente del popolo. Storicamente, delle due concezioni, la prevalenza di una o dell’altra è dipesa dalla storia di
ogni singolo paese. Da un certo punto di vista quasi tutti i paesi europei hanno perseguito un tipo di democrazia
basato sui concetti esposti da Schmitt, esaltando il potere costituente del popolo. Da un altro verso, però, viene
sposato insieme anche l’assioma di Kelsen, per cui si tende a preservare anche il pluralismo politico e sociale,
nell’ottica di una costituzione democratica che non consente assolutismi, ma pacifico riconoscimento. Sono nate
così ed inedite, che hanno recuperato anche la cultura giusnaturalistica votata alla difesa dei diritti. Insomma, quale
che sia la forma costituzionale adottata, sono nate a partire dalla seconda metà del ‘900 molteplici forme di
democrazie costituzionali, giusto equilibrio tra questi due concetti, democrazia e costituzione, entrambi forti ed in
continua dialettica.