L’Etica
è
l’opera
principale
di
Spinoza,
alla
quale
il
filosofo
inizia
a
lavorare
a
partire
dal
1662
e
alla
quale
lavorerà
per
tutta
la
vita.
Informazioni
relative
all’opera
possiamo
trarle
dall’Epistolario
e,
in
particolare,
nelle
seguenti
lettere:
-‐ Lettera
8
di
Simon
De
Vries
(pp.
1839-‐1843)
-‐ Lettera
28
a
Johannes
Bouwmeester
(pp.
1975-‐1977)
-‐ Lettera
62
di
Henry
Oldenburg
(pp.
2123-‐2125)
-‐ Lettera
68
a
Henry
Oldenburg
(p.
2165)
A.
Lettera
8
di
Simon
De
Vries
del
24
febbraio
1663
(pp.
1839-‐1843)
1)
A
questa
lettera
si
e
già
accennato
in
precedenza
in
riferimento
a
Caesarius.
Essa
offre
un’importante
testimonianza
relativa
alle
modalità
di
elaborazione
della
propria
filosofia
da
parte
di
Spinoza.
Sappiamo,
infatti,
che
mentre
Spinoza
era
in
vita
si
era
formato
ad
Amsterdam
un
vero
e
proprio
circolo
spinozista
nel
quale
venivano
discusse
le
proposizioni
e
le
definizioni
dell’Etica:
«Per
quanto
concerne
il
circolo,
è
organizzato
in
questo
modo
seguente:
uno
(ma
a
turno)
legge,
spiega
secondo
quanto
ha
capito,
e
poi
dimostra
tutto
secondo
la
serie
e
l’ordine
delle
tue
proposizioni.
Quando
accade
che
l’uno
non
possa
soddisfare
l’altro,
abbiamo
ritenuto
importante
annotare
la
questione
e
scriverti,
affinché,
se
possibile,
ci
sia
resa
più
chiara,
e
sotto
la
tua
guida
ci
sia
possibile
difendere
la
verità
contro
chi
è
religioso
o
cristiano
per
superstizione,
di
modo
che
possiamo
resistere
all’assalto
del
mondo
intero».
Veniamo
così
a
sapere
quale
era
lo
scopo
che
si
proponeva
la
cerchia
degli
amici
di
Spinoza:
combattere
la
superstizione.
L’obiettivo,
che
di
certo
ci
può
sembrare
riduttivo
dopo
un
più
accurato
esame
non
solo
della
produzione
filosofica
di
Spinoza,
ma
anche
degli
scritti
dei
suoi
amici,
corrisponde
però
certamente
al
nucleo
centrale
delle
preoccupazioni
di
Spinoza
stesso,
se
solo
teniamo
a
mente
due
elementi.
Da
un
lato,
infatti,
egli
si
è
sempre
difeso
dalle
accuse
di
ateismo;
dall’altro
la
lotta
contro
la
superstizione
racchiude
in
potenza
tutta
la
sua
filosofia,
sia
sotto
l’aspetto
teoretico-‐morale
(la
conoscenza
della
vera
essenza
di
Dio
ci
permette
di
liberarci
dalle
passioni
e
di
condurre
saggiamente
la
nostra
vita),
sia
sotto
quello
politico
(al
potere
statale
sta
il
compito
di
far
sì
che
anche
chi
non
può
avere
una
conoscenza
vera
di
Dio,
viva
tuttavia
in
modo
se
non
conforme,
per
lo
meno
non
contrario
a
ragione).
2)
Il
prosieguo
della
lettera
mostra
come
la
discussione
sulle
prime
proposizioni
dell’Ethica
comunicate
ai
suoi
amici
si
incentra
subito
sul
problema
di
che
cosa
sia
una
definizione.
De
Vries
racconta
a
Spinoza
che,
per
comprenderne
meglio
la
natura,
hanno
consultato
testi
di
Borelli,
Taquet,
e
Clavius.
Proprio
Taquet
affermava
che
era
possibile
dedurre
una
conclusione
vera
da
una
premessa
falsa:
questa
posizione
non
viene
presa
nemmeno
in
considerazione
da
Spinoza
nella
sua
risposta.
Che
una
conoscenza
certa
possa
derivare
solo
da
un’altra
conoscenza
certa
è
dunque
un’affermazione
solo
apparentemente
ovvia.
Spinoza
tratta
della
definizione
in
due
luoghi
del
suo
Epistolario.
B.
Lettera
28
a
Johannes
Bouwmeester
del
1665
(pp.
1975-‐1977)
Per
quanto
riguarda
la
terza
parte
della
mia
Filosofia,
te
ne
manderò
presto
qualcosa,
o
a
te,
se
vorrai
tradurla,
o
all’amico
De
Vries.
E
benché
avessi
stabilito
di
non
mandarla
prima
di
averla
completata,
tuttavia,
visto
che
va
per
le
lunghe,
non
voglio
che
attendiate
oltre:
vi
manderò
fino
all’ottantesima
proposizione
circa.
Da
notare
qui
che
allo
stato
attuale
la
terza
parte
dell’Etica
consta
di
59
proposizioni.
Spinoza
dunque
fa
riferimento
ad
una
prima
redazione
dell’opera,
probabilmente
tripartita.
C.
Lettera
62
di
Henry
Oldenburg
(pp.
2123-‐2125)
Grazie
alla
tua
risposta
del
5
luglio
ho
appreso
che
hai
il
fermo
proposito
di
pubblicare
quel
tuo
trattato
in
cinque
parti.
Permettimi,
ti
prego,
per
l’affetto
sincero
che
mi
porti,
di
darti
un
consiglio:
non
inserirvi
niente
che
sembri
sminuire,
come
che
sia,
l’esercizio
della
virtù
religiosa,
soprattutto
perché
questa
età
di
decadenza
e
di
infamie,
di
nulla
va
a
caccia
più
avidamente
che
di
dogmi,
le
cui
conclusioni
servono
a
difendere
l’imperversare
dei
vizi.
Per
il
resto
non
rinuncerò
a
ricevere
alcuni
esemplari
di
questo
trattato.
Commento
La
lettera
del
5
luglio
non
ci
è
pervenuta.
In
essa
evidentemente
Spinoza
annunciava
la
pubblicazione
dell’Ethica.
Da
notare,
inoltre,
che
rispetto
alla
versione
tripartita
cui
si
allude
nella
lettera
28,
il
testo
dell’Ethica
risulta
essere
ora
diviso
in
5
parti.
Si
noti,
quindi,
che
se
la
lettera
28
risale
al
1665,
l’elaborazione
dell’Ethica
ha
impegnato
Spinoza
almeno
per
un
decennio.
D.
Lettera
68
a
Henry
Oldenburg
del
settembre-‐ottobre
1675
(p.
2165)
[…]
nello
stesso
momento
in
cui
ho
ricevuto
la
tua
lettera
del
22
luglio,
sono
partito
per
Amsterdam,
col
proposito
di
mandare
in
stampa
il
libro
di
cui
ti
avevo
scritto.
Commento
Il
manoscritto
dell’Etica
rimase
nel
cassetto.
Conclusivamente
possiamo
dire
che
la
vicenda
redazionale
dell’Etica
si
è
svolta
in
un
periodo
di
circa
tredici
anni
dal
1662
al
1675,
inframmezzata
dalla
composizione
dei
Principi
della
Filosofia
di
Cartesio,
del
Trattato
teologico-‐politico
e
del
Compendio
di
grammatica
della
lingua
ebraica.
Si
possono
in
particolare
distinguere
due
periodi:
1662-‐1665
e
1670-‐1675.
Il
primo
e
caratterizzato
dalla
redazione
dell’Etica
tripartita
fino
a
circa
la
proposizione
80
dell’originaria
terza
parte;
il
secondo
dal
completamento
delle
ultime
tre
parti
e
dalla
revisione
di
tutta
l’opera.
L’Ethica
è
divisa
in
5
parti
(non
libri).
I. Dio:
non
ha
alcuna
premessa
né
prefazione.
In
essa
l’autore
intende
dimostrare
che
al
tradizionale
termine
Dio
corrisponde
una
sostanza
assolutamente
infinita
e
unica,
costituita
da
una
infinità
di
attributi
o
perfezioni
essenziali,
causa
di
se
e,
con
il
medesimo
atto
e
con
la
medesima
potenza
con
cui
è
causa
di
se,
è
causa
di
tutto
ciò
che
è
implicato
nella
sua
natura,
ossia
di
infinite
modificazioni.
Esistono
dunque
soltanto
due
generi
di
"cose":
1)
La
sostanza
assolutamente
infinita,
natura
naturante
o
Dio.
2)
I
modi
che
ad
essa
necessariamente
e
immanentemente
ineriscono.
La
prima
parte
è
costituita
da
8
definizioni,
7
assiomi,
36
proposizioni
correlate
da
15
corollari
e
14
scoli;
si
conclude
con
una
appendice
riguardante
la
natura
e
l'origine
dei
pregiudizi,
in
particolare
di
quello
finalistico.
II. Natura
e
origine
della
mente:
intende
dimostrare
che
l’uomo
è
un
modo
della
sostanza,
ossia
una
sola
e
medesima
cosa
che
si
esprime
simultaneamente
sotto
gli
attributi
del
pensiero
e
dell'estensione.
La
mente
umana
è
idea
di
un
corpo
umano
determinato,
di
cui
ha
consapevolezza
percependo
le
affezioni
da
cui
il
corpo
è
modificato
da
parte
di
altri
corpi.
Ogni
conoscenza
che
la
mente
ha
del
corpo
e
di
se
stessa
mediante
la
percezione
delle
affezioni
del
corpo
(ossia
mediante
l'immaginazione)
è
inadeguata.
Ma
poiché
tutti
i
corpi
hanno
qualcosa
in
comune,
essendo
modi
del
medesimo
attributo
dell'estensione,
la
rappresentazione
o
idea
di
ciò
che
e
comune
a
tutti
i
corpi
e
alle
loro
affezioni
e
conosciuta
dalla
mente
in
modo
adeguato
e
costituisce
il
fondamento
della
ragione,
secondo
genere
di
conoscenza.
Infine
l'autore
mostra
che
la
mente
ha
anche
la
possibilità
di
rappresentare
le
cose
singole
(in
quanto
singole)
in
modo
adeguato,
conoscendo
la
loro
essenza
mediante
l'essenza
dell’attributo
a
cui
ineriscono:
è
questo
il
terzo
e
supremo
genere
di
conoscenza,
denominato
anche
intelletto
o
scienza
intuitiva.
La
seconda
parte
si
apre
con
una
breve
introduzione
ed
è
costituita
da
7
definizioni,
5
assiomi,
49
proposizioni
corredate
da
18
corollari
e
2
2
scoli;
tra
le
P13
e
14
c’è
un
intermezzo
concernente
la
fisica
e
la
natura
del
corpo.
III. Natura
e
origine
degli
affetti:
intende
dimostrare
che
l’essenza
dell'uomo
-‐
ma
anche
di
tutte
le
altre
cose
-‐
è
affectus,
ossia
una
forza
o
tentativo
(conatus)
di
autoconservazione.
Se
il
conatus
esprime
la
natura
propria
dell'uomo,
esso
si
manifesta
in
un
affetto
attivo
o
azione;
se
esprime
invece
di
più
la
forza
e
la
determinazione
delle
cause
esterne,
si
manifesta
in
un
affetto
passivo
o
passione.
Dunque
il
primo
e
fondamentale
affetto
umano
è
la
cupiditas,
ossia
il
conatus
di
autoconservazione
accompagnato
dalla
consapevolezza
di
se.
Se
la
cupiditas
consegue
un
perfezionamento
della
propria
potenza,
si
manifesta
come
gioia.
Se,
invece,
subisce
una
diminuzione
della
propria
potenza,
si
manifesta
come
tristezza.
E
poiché
la
cupiditas
non
è
altro
che
tentativo
di
autoconservazione
mediante
la
relazione
con
oggetti
esterni,
se
l’unione
con
questi
è
accompagnata
da
gioia,
si
prova
amore
per
essi;
se
invece
è
accompagnata
da
tristezza,
si
prova
odio.
Tutti
gli
altri
affetti
non
sono
che
determinazioni
o
composizioni
particolari
dei
primi
cinque
affetti,
riconducibili
al
movimento
fondamentale
della
cupiditas.
La
terza
parte
si
apre
con
una
prefazione
ed
è
costituita
da
3
definizioni,
2
postulati
(non
vi
sono
assiomi),
59
proposizioni
corredate
da
14
corollari
e
37
scoli;
comprende
inoltre
una
sezione
finale
dedicata
a
49
definizioni
degli
affetti,
27
delle
quali
seguite
da
una
spiegazione.
IV. La
schiavitù
umana,
ossia
la
forza
degli
affetti:
intende
presentare
una
fenomenologia
delle
passioni
umane,
ossia
della
forza
con
cui
esse
si
connettono
e
si
organizzano,
sotto
la
spinta
delle
cause
esterne.
Tale
ricognizione
delle
cause
delle
passioni,
necessaria
per
approntare
i
loro
rimedi,
fondata
su
di
un
solo
assioma
ed
è
orientata
dalla
P3,
secondo
la
quale
la
potenza
con
cui
l'uomo
cerca
di
perseverare
nell'essere
a
infinitamente
superata
dalla
forza
delle
cause
esterne.
La
quarta
parte
è
aperta
da
una
prefazione
ed
è
costituita
da
8
definizioni,
da
un
assioma
unico
e
da
73
proposizioni
corredate
da
17
corollari
e
39
scoli;
è
conclusa
da
una
breve
appendice
in
cui
sono
riassunte,
in
22
capitoli,
le
cose
essenziali
sul
retto
modo
di
vivere,
insegnate
nella
stessa
parte.
V. La
potenza
dell’intelletto,
ossia
la
liberta
umana
(intende
dimostrare
quale
sia
la
potenza
che
la
ragione
e
l’intelletto
possono
esplicare
nel
moderare
e
vincere
le
passioni.
In
essa
si
intende
anche
dimostrare
che
quel
potere
è
fondato,
in
ultima
istanza,
sull’eternità
della
mente.
Questa
parte
è
introdotta
da
una
prefazione
ed
è
costituita
da
2
assiomi
e
42
proposizioni,
corredate
da
8
corollari
e
17
scoli.
Sul
metodo
more
geometrico
Una
prima
osservazione:
il
titolo
completo
è
Ethica
more
geometrico
demonstrata
(Etica
dimostrata
con
metodo
geometrico).
Si
tratta
di
un’Ethica,
dunque,
dimostrata
con
metodo
geometrico.
In
cosa
consiste
questo
metodo
geometrico?
Nel
disporre
i
contenuti
trattati
secondo
una
struttura
che
riprende
formalmente
la
struttura
degli
Elementi
di
Euclide:
ogni
libro
(al
quale
Spinoza,
ad
eccezione
del
primo,
premette
una
prefazione),
si
apre
con
una
serie
di
definizioni
e
di
assiomi
(o
postulati)
dei
quali
Spinoza
si
serve
per
derivare
proposizioni,
dimostrazioni,
scolii
e
corollari.
La
caratteristica
più
rilevante
dell'Etica,
sotto
il
profilo
materiale
e
formale,
è
la
sua
redazione
more
geometrico.
Descartes
aveva
composto
una
seconda
redazione
delle
Seconde
Risposte
seguendo
tale
metodo;
lo
stesso
Spinoza
aveva
composto
una
prima
appendice
al
Breve
trattato
in
forma
geometrica
e
aveva
esposto
geometricamente
i
Principi
della
filosofia
di
Cartesio.
Quali
sono
state
le
ragioni
che
hanno
indotto
Spinoza
a
impiegare
tale
metodo
e
quali
ne
sono
gli
elementi
principali?
Quando
il
filosofo
detta
geometricamente
i
Principi
della
filosofia
di
Cartesio,
ha
già
iniziato
la
composizione
dell’Ethica.
Possiamo
dunque
assumere
che
le
ragioni
e
le
spiegazioni
addotte
da
L.
Meyer
nella
prefazione
ai
Principi,
per
incarico
e
a
nome
di
Spinoza,
possano
valere
anche
per
il
metodo
geometrico
dell’Ethica.
Meyer
definisce
matematico
«quel
metodo
con
il
quale
le
conclusioni
sono
dimostrate
a
partite
da
definizioni,
postulati
e
assiomi.
Esso
consiste
nel
dedurre
senza
pericolo
di
errore
nozioni
ancora
ignote
da
nozioni
conosciute
con
certezza
e
predisposte
a
fondamento
dell'edificio
della
conoscenza.
Le
definizioni,
infatti,
non
sono
altro
che
spiegazioni
molto
chiare
dei
termini
e
dei
nomi
con
cui
vengono
designati
gli
oggetti
della
trattazione;
quanto
ai
postulati
e
agli
assiomi,
o
nozioni
comuni
della
mente,
essi
sono
enunciati
cosi
chiari
e
perspicui,
che
nessuno
può
negare
loro
l’assenso,
purché
abbia
compreso
correttamente
il
senso
delle
parole.
Meyer
aggiunge
che
tale
metodo
«è
la
via
migliore
e
più
sicura
nella
ricerca
e
nell'insegnamento
della
verità».
Descartes
aveva
sostenuto
che
il
metodo
sintetico
era
la
via
migliore
soltanto
nell'insegnamento
della
verità,
mentre
nella
ricerca
di
questa
era
preferibile
il
metodo
analitico.
Meyer
auspica
infine
che
tutte
le
scienze
possano
essere
formulate
con
metodo
geometrico.
Ricapitolando:
il
metodo
utilizzato
da
Spinoza
è
il
metodo
della
sintesi
(o
composizione)
che
si
differenzia
dal
metodo
dell’analisi
(o
scomposizione),
prediletto
da
Descartes.
È
lo
stesso
Descartes
a
spiegare
la
differenza
tra
metodo
sintetico
e
metodo
analitico
nell’ultima
parte
delle
risposte
alle
II
Obiezioni
del
Padre
Mersenne.
Scrive
Descartes:
La
maniera
di
dimostrare,
invece,
è
duplice:
una
è
per
analisi,
l’altra
per
sintesi.
L’analisi
mostra
la
vera
via
attraverso
la
quale
la
cosa
è
stata
scoperta
metodicamente
e
per
così
dire
a
priori,
di
modo
che,
se
il
lettore
vuole
seguirla
e
prestare
a
tutto
la
dovuta
attenzione,
la
intenderebbe
e
la
farebbe
propria
non
meno
perfettamente
che
se
l’avesse
scoperta
lui.
Essa,
però,
non
contiene
nulla
che
|
convinca
un
lettore
meno
attento
o
recalcitrante
a
credervi:
infatti,
se
non
si
osserva
anche
la
pur
minima
delle
sue
premesse,
la
necessità
delle
sue
conclusioni
non
emerge;
e
spesso,
poi,
essa
tocca
appena,
in
quanto
sono
perspicue
a
chi
presti
ad
esse
la
dovuta
attenzione,
molte
cose
che
occorrerebbe
tuttavia
rimarcare
in
modo
particolare.
La
sintesi,
al
contrario,
attraverso
una
via
opposta,
e
indagata
per
così
dire
a
posteriori
(sebbene,
spesso,
nella
sintesi,
la
prova
come
tale
sia
più
a
priori
che
nell’analisi),
dimostra
bensì
chiaramente
le
sue
conclusioni
e
si
serve
di
una
lunga
serie
di
definizioni,
petizioni,
assiomi,
teoremi
e
problemi
in
modo
da
mostrare
subito,
nel
caso
in
cui
venisse
negata
una
delle
sue
conseguenze,
che
essa
è
contenuta
negli
antecedenti
e,
così,
estorcere
l’assenso
del
lettore,
per
quanto
recalcitrante
e
pertinace;
ma
non
è
soddisfacente
quanto
l’altra,
né
appaga
l’animo
di
coloro
che
hanno
voglia
di
imparare,
poiché
non
insegna
il
modo
in
cui
la
cosa
è
stata
scoperta.
Di
questa
soltanto
erano
soliti
servirsi,
nei
propri
scritti,
gli
antichi
geometri,
non
perché
ignorassero
del
tutto
l’altra,
ma,
almeno
a
mio
giudizio,
perché
ne
avevano
una
considerazione
tanto
alta
da
riservarla
sol-‐
tanto
per
sé,
come
qualcosa
d’arcano.
Io,
invece,
nelle
mie
Meditazioni,
ho
seguito
la
sola
analisi,
che
per
insegnare
è
la
via
vera
e
la
migliore;
ma,
quanto
alla
sintesi,
che
senza
dubbio
è
quella
che
voi
qui
mi
chiedete,
sebbene
nelle
cose
geometriche
sia
assai
opportuno
porla
dopo
l’analisi,
essa
non
può
tuttavia
venire
applicata
altrettanto
facilmente
alle
cose
metafisiche.
Infatti,
c’è
questa
differenza:
le
nozioni
prime
presupposte
alle
dimostrazioni
delle
cose
geometriche
sono
ammesse
facilmente
da
tutti,
in
quanto
si
accordano
con
l’uso
dei
sensi.
E,
perciò,
lì
non
c’è
alcuna
difficoltà,
se
non
nel
dedurre
per
bene
le
conseguenze;
cosa
che
possono
fare
tutti,
anche
i
meno
attenti,
a
patto
soltanto
che
si
ricordino
di
quel
che
precede;
e
a
tale
scopo
è
approntata
una
minuziosa
distinzione
fra
le
proposizioni,
affinché
queste
possano
essere
facilmente
richiamate
e,
in
tal
modo,
riportate
alla
memoria
anche
in
chi
non
vuole.
Al
contrario,
invece,
qui,
nelle
cose
metafisiche,
nulla
richiede
più
impegno
del
percepire
chiaramente
e
distintamente
le
prime
nozioni»
(R.
Descartes,
Meditazioni
Metafisiche,
II
Risposte,
B
Op
I
885-‐ 887).
L’uomo
come
parte
della
natura
e
la
sostanza
(Ethica,
I)
La
condizione
esistenziale
dell’uomo,
la
sua
specifica
limitatezza,
e
quindi
il
suo
essere
soggetto
alle
passioni,
per
Spinoza
è,
in
primo
luogo
una
condizione
ontologica,
vale
a
dire
una
condizione
che
deriva
dalla
specifica
natura
dell’essere
umano,
il
quale
non
è
l’infinita
sostanza
o
natura,
ma
solo
un
modo
di
questa,
una
parte
finita
tra
un’infinità
di
altre
parti
finite.
Questa
sua
condizione
di
finitudine
è
la
chiave
di
tutta
la
ricerca
etica
spinoziana
ed
il
motivo
stesso
per
il
quale
egli
è
continuamente
in
cerca
di
una
condizione
di
stabilità
esistenziale
ed
il
motivo
per
il
quale
la
desidera.
Le
Proposizioni
II
e
IV
della
IV
parte
dell’Etica
dichiarano
la
finitezza
dell’uomo
ed
il
suo
essere
parte
della
natura
in
maniera
inequivocabile:
è
nel
primo
libro
che
Spinoza
definisce
la
struttura
della
sostanza
e
le
sue
articolazioni
interne,
tra
le
quali,
l’uomo
che
è
un
modo
finito
perché
è
costituito
da
un
corpo
e
da
una
mente
singolari.
Per
comprendere
tutto
questo
dobbiamo
rifarci
alle
definizioni
del
I
libro
dell’Etica,
laddove
Spinoza
definisce
la
sostanza
(definizione
III),
gli
attributi
(definizione
IV),
e
i
modi
(definizione
V).
La
sostanza
è
l’assolutamente
infinito
e
si
esprime
mediante
infiniti
attributi,
ognuno
dei
quali
è
infinito
nel
suo
genere:
dagli
attributi
discendono
i
modi
infiniti,
dai
quali
poi
dipendono
i
modi
finiti.
Questa
articolazione
fa
in
modo
che
Spinoza
divida
la
natura
in
una
natura
naturans
e
in
una
natura
naturata:
alla
prima
appartengono
sostanza
e
attributi,
alla
seconda
modi
infiniti
e
modi
finiti.
(Eth.
I,
pr.
XXIX,
Schol.).
Quindi:
l’essere
è
unico,
infinito
ed
indivisibile
ed
è
chiamato
sostanza.
La
sostanza
è
causa
di
se
stessa,
quindi
causa
prima
e
non
può
essere
generata
da
altro
(Eth.
I,
def.
3).
La
sostanza
si
esprime
in
infiniti
attributi
ognuno
dei
quali
è
infinito:
anche
questi
sono
in
sé,
vale
a
dire
non
dipendono
da
altro
e
non
sono
causati
da
altro
che
da
se
stessi.
Sostanza
e
attributi
fondano
e
sorreggono
i
modi
infiniti
e
finiti
che
sono
in
alio;
infatti
essi
hanno
bisogno
di
sostanza
e
attributi
nei
quali
si
trova
il
loro
fondamento.
Alcune
considerazioni:
il
Dio
di
Spinoza
non
è
il
Dio
delle
religioni
rivelate,
è
piuttosto
il
Dio-‐ Sostanza,
la
necessaria
universalità
costituita
dalle
leggi
immutabili
che
regolano
i
rapporti
eterni
di
causa-‐effetto.
In
questo
si
esprime
la
critica
all’antropomorfismo
e
al
finalismo
che
costituisce
una
delle
maggiori
radicalità
del
pensiero
spinoziano
e
che
ha
anche
una
valenza
fortemente
etica.
Tutto
ciò
è
espresso
nell’Appendice
al
primo
Libro:
«tutti
gli
uomini
nascono
ignari
delle
cause
delle
cose,
mentre
tutti
appetiscono
la
ricerca
del
proprio
utile,
cosa
della
quale
sono
consapevoli.
[...]
gli
uomini
fanno
tutto
in
vista
di
un
fine,
è
cioè
in
vista
dell’utile
che
appetiscono;
per
cui
avviene
che
aspirano
a
conoscere
soltanto
le
cause
finali
delle
cose
e
che
si
acquietano
appena
le
hanno
apprese
[...];
è
accaduto
che
considerano
tutte
le
cose
naturali
come
mezzi
per
raggiungere
il
proprio
utile;
e
poiché
sanno
di
avere
trovato
quei
mezzi,
ma
non
di
averli
essi
stessi
predisposti,
hanno
avuto
motivo
di
credere
che
sia
stato
un
altro
a
predisporre
quei
mezzi
per
il
loro
uso.
Infatti,
poiché
avevano
considerato
le
cose
come
mezzi,
non
hanno
potuto
credere
di
averle
fatte
essi
stessi;
ma
in
analogia
ai
mezzi
che
essi
sono
soliti
procurare
a
se
stessi,
hanno
dovuto
concludere
che
esistono
uno
o
alcuni
rettori
della
natura,
forniti
di
libertà
umana,
che
hanno
curato
ogni
cosa
per
loro
e
che
hanno
fatto
ogni
cosa
per
il
loto
uso;
[...]
Per
cui
avvenne
che
ciascuno,
a
seconda
della
propria
indole,
ha
escogitato
diversi
modi
di
onorare
Dio,
affinché
Dio
lo
prediligesse
al
di
sopra
degli
altri
e
dirigesse
tutta
la
natura
a
vantaggio
della
sua
cieca
cupidità
e
della
sua
insaziabile
avidità.
[...]
Per
mostrare
adesso
d’altra
parte
che
la
natura
non
ha
alcun
fine
prestabilito,
e
che
tutte
le
cause
finali
non
sono
altro
che
umane
finzioni,
non
occorre
molto»
L’uomo:
mente
e
corpo
(Ethica,
II)
L’uomo
è
una
parte
della
natura,
della
Sostanza,
di
Dio,
di
cui
Spinoza
ha
trattato
nel
primo
libro
dell’Etica,
dal
quale
si
apprende
che
la
Sostanza
è
unica,
infinita,
in
essa
essenza
e
esistenza
coincidono,
che
quindi
da
essa
seguono
infinite
cose
in
infinti
modi,
che
agisce
per
le
sole
leggi
della
sua
natura
e
non
costretta
da
alcunché,
che
è
causa
immanente,
che
è
eterna,
che
l’essenza
delle
cose
prodotte
da
essa
non
implica
l’esistenza,
che
le
cose
non
avrebbero
potuto
essere
prodotte
in
altro
modo
dalla
Sostanza,
quindi
in
Dio
non
si
dà
volontà
libera,
o,
meglio,
libero
arbitrio.
Cos’è
l’uomo
all’interno
di
quest’infinità?
Si
tratta
di
scoprire
quale
è
l’origine
della
sua
mente.
Il
problema
dell’origine
della
mente
è
fondamentale
per
poter
comprendere
come
si
determinano
le
affezioni
delle
cose
e
le
idee
di
queste
affezioni
dalle
quali
poi
sorgono
gli
affetti
e
le
passioni.
Il
problema
dell’origine
della
mente
è
discusso
da
Spinoza
nel
II
libro
dell’Etica
si
apre
con
7
definizioni
e
5
assiomi;
nelle
definizioni
vengono
fissati
i
concetti
di
corpo,
essenza,
idea,
l’idea
adeguata,
durata,
realtà
e
cose
singolari,
mentre
gli
assiomi
hanno
ad
oggetto
l’uomo.
Quindi
le
prime
9
proposizioni
di
Eth.
II,
passano
a
dimostrare
come
pensiero
ed
estensione
siano
attributi
di
Dio
e
sono
gli
unici
due
attributi
che
l’uomo
può
conoscere,
ma
perché?
La
risposta
è
semplice:
l’uomo
ha
un
corpo
ed
una
mente
e,
dunque,
ha
il
suo
fondamento
negli
attributi
infiniti
del
pensiero
e
dell’estensione.
Dalla
pr.
11
alla
pr.
13
di
Eth.
II,
Spinoza
definisce
la
mente
come
idea
del
corpo:
in
questo
modo
non
solo
Spinoza
spiega
le
affezioni
degli
oggetti
sul
corpo
(l’azione
che
gli
oggetti
esercitano
sui
nostri
sensi),
ma
anche
le
idee
che
l’uomo
si
fa
di
queste
affezioni.
Ancora
una
volta
è
palese
l’anticartesianesimo
di
Spinoza,
il
quale
critica
aspramente
la
concezione
della
ghiandola
pineale,
con
la
quale
Cartesio
aveva
tentato
di
spiegare
l’unione
dell’anima
con
il
corpo
(si
veda
la
prefazione
alla
parte
V
dell’Etica).
Rapporto
mente-‐corpo
(Ethica,
II,
Proposizione
13,
Corollario)
Spinoza
sostiene
che
la
mente
è
l’idea
del
corpo
e
nel
Corollario
della
pr.
XIII
del
II
libro
dell’Etica
è
scritto:
“Ne
segue
che
l’uomo
consta
di
mente
e
di
corpo
e
che
il
Corpo
umano,
in
quanto
lo
sentiamo,
esiste”.
Per
comprendere
quanto
affermato
da
Spinoza
è
necessario
considerare
la
dottrina
del
parallelismo
degli
attributi
(Etica
II,
pr.
7:
“l’ordine
e
la
connessione
delle
idee
è
lo
stesso
che
l’ordine
e
la
connessione
delle
cose).
Questa
teoria
è
ben
espressa
dallo
scolio
della
stessa
pr.
7
in
cui
si
legge
che
pensiero
ed
estensione
sono
la
stessa
sostanza
che
si
esprime
ora
sotto
questo,
ora
sotto
quell’attributo.
Grazie
al
parallelismo
degli
attributi
si
crea
un’intima
connessione
tra
le
cose
estese
e
le
idee
di
queste
cose.
Se
riferiamo
la
teoria
del
parallelismo
degli
attributi
al
rapporto
mente
corpo
avremo
che
nulla
accade
nel
corpo
di
cui
nella
mente
umana
non
si
dia
la
corrispondente
modificazione.
Spinoza
affermando
che
in
quanto
sentiamo
il
corpo
umano,
esso
esiste,
intende
sostenere
che
in
quanto
percepiamo
il
nostro
corpo
mediante
impressioni
e
sensazioni
(caldo,
freddo,
ma
anche
dolore,
piacere,
pressione
che
altri
corpi
esercitano
sul
nostro)
abbiamo
le
idee
di
queste
sensazioni
ed
impressioni.
Solo
la
giusta
conoscenza
può
trasformare
in
conoscenze
adeguate
le
idee
delle
affezioni
e
delle
impressioni
che
sorgono
nella
mente
in
quanto
idea
del
corpo.
Questo
il
motivo
per
il
quale
tra
la
pr.
XIII
e
la
XIV
del
II
libro
dell’Etica,
Spinoza
introduce
un
piccolo
trattatello
di
fisica
dei
corpi
che
si
conclude
con
6
postulati
che
riguardano
in
maniera
specifica
le
peculiarità
del
corpo
umano:
così
come
il
corpo
umano
è
composto
da
molti
elementi
e
sta
in
rapporto,
nella
complessità
che
gli
è
specifica,
con
tutti
gli
altri
corpi
esterni,
così
anche
la
mente
può
avere
idee
di
grande
complessità
che
altro
non
sono
se
non
il
corrispettivo
ideale,
del
pensiero,
delle
modificazioni
del
corpo.
Il
corpo
umano,
per
Spinoza,
esprime
la
sua
complessità
per
la
ricchezza
di
relazioni
che
può
intrattenere
con
l’ambiente
circostante.
Proprio
questa
dinamica
e
complessa
relazione
del
corpo
umano
con
altri
corpi
e
con
l’ambiente,
relazione
di
cui
la
mente
conserva
memoria,
causa
il
problema
del
conoscere:
la
mente,
infatti,
non
solo
“percepisce”
le
affezioni
del
corpo,
ma
si
forma
anche
le
idee
di
queste
affezioni
(Eth.
II,
pr.
XXII):
questo
significa
che
in
relazione
alle
affezioni
del
corpo,
la
mente
umana
si
forma
anche
delle
conoscenze.
Ecco
il
punto
centrale
dell’etica
spinoziana:
le
affezioni
corporee,
e
le
idee
di
queste
affezioni,
se
non
vengono
inserite
in
un
quadro
conoscitivo
che
le
fonda
razionalmente
agiscono
in
maniera
disordinata
e
frammentaria
sulla
mente
dell’uomo,
causando
conoscenze
inadeguate.
Questo
il
motivo
per
il
quale
divengono
fondamentali
i
diversi
modi
di
conoscere
dell’essere
umano:
essi
devono
essere
passati
in
rassegna
da
Spinoza
per
poi
poter
scegliere
quello
capace
di
procurare,
mediante
la
conoscenza
più
certa,
la
beatitudo
che
caratterizza
la
vita
del
saggio.
La
teoria
della
conoscenza
Spinoza
in
Eth.
II,
pr.
40,
scolio
II,
elenca
3
generi
di
conoscenza:
la
conoscenza
di
primo
genere,
o
immaginazione
(opinio
vel
imaginatio),
la
conoscenza
di
secondo
genere
o
ratio
e
la
conoscenza
di
terzo
genere
o
scientia
intuitiva.
Passiamo
ora
in
rassegna
questi
modi
del
conoscere
e
cerchiamo
di
esplicitarne
gli
effetti.
Immaginazione
1)
Immaginazione:
l’immaginazione
è
un
genere
di
conoscenza
che
Spinoza
specifica
in
due
ulteriori
modalità:
la
conoscenza
per
esperienza
vaga,
che
sorge
quando
l’uomo
si
rappresenta
singolarmente
ciò
che
i
sensi
gli
fanno
conoscere
in
maniera
mutila
e
confusa,
e
la
conoscenza
per
segni
o
per
sentito
dire,
la
quale
consiste
nell’assolutizzare
ed
accettare
per
vere
quelle
nozioni
che
provengono
da
segni
(scrittura
o
simboli)
o
da
ciò
che
viene
detto
o
tramandato
da
altri.
Va
detto
che
per
Spinoza
la
conoscenza
immaginativa
è
l’unica
causa
d’errore
(Eth.
II,
pr.
41)
e
che
l’errore
o
la
falsità
consistono
in
una
privazione
di
conoscenza
causata
da
idee
inadeguate,
parziali,
incomplete
(Eth.
II,
pr.
XXXV).
Ma
cosa
accade
all’uomo
che
si
affida
all’immaginazione?
In
primo
luogo
l’uomo
immagina
perché
ha
un
corpo
ed
è
mediante
il
corpo
che
la
mente
percepisce
le
affezioni
delle
cose
(Eth.
II,
pr.
17,
schol):
il
problema
dell’errore
non
sta
nell’affezione
in
quanto
tale,
o
nella
conoscenza
sensibile
e
frammentaria,
ma
nell’assenso
acritico
che
l’uomo
dà
a
questo
genere
di
conoscenza.
Facciamo
un
esempio
per
l’esperienza
vaga
ed
uno
per
la
conoscenza
per
segni
e
sentito
dire:
a)
esperienza
vaga
(quella
che
si
fonda
sulla
conoscenza
che
deriva
dai
sensi
e
dalle
impressioni
corporee):
esempio
del
legnetto
nell’acqua
acqua
che
appare
spezzato.
Non
sono
i
sensi
ad
ingannarci,
piuttosto
l’inganno
deriva
dall’ignoranza
delle
vere
cause
che
provocano
quel
fenomeno
di
ottica
per
cui
il
legnetto
ci
sembra
spezzato.
b)
esperienza
per
segni
e
sentito
dire:
l’uomo
che
si
affida
al
sentito
dire
conosce
in
modo
simile
a
quello
che
si
affida
all’esperienza
vaga,
ma
questa
volta
l’assolutizzazione
concerne
ciò
che
è
tramandato
o
scritto,
oppure
ogni
forma
di
segno.
Esempio
del
modello
astronomico
aristotelico-‐tolemaico
(geocentrico)
tramandato
come
indiscutibile
e
adottato
dalla
Chiesa,
fino
a
quando
Copernico,
Galileo,
Keplero
e
Newton
non
scoprirono
le
leggi,
gli
strumenti
ed
i
rapporti
tra
i
pianeti
e
gli
astri.
Ma
in
che
modo
e
perché
l’immaginazione,
è
fonte
delle
cattive
passioni?
Per
comprendere
il
motivo
del
legame
tra
l’immaginazione
e
le
passioni
è
necessario
far
riferimento
al
III
e
al
IV
libro
dell’Etica,
quello
sulla
natura
e
l’origine
degli
affetti
e
quello
sulla
schiavitù
umana.
La
pr.
7
del
III
libro
afferma:
“Le
azioni
della
Mente
hanno
origine
dalle
sole
idee
adeguate,
le
passioni
dalle
sole
idee
inadeguate”.
Il
III
libro
dell’Etica
fa
derivare
tutte
la
passioni
da
tre
affetti
fondamentali:
la
gioia,
la
tristezza
e
la
cupidità
(Eth.
III,
pr.
11,
scho.):
così,
per
fare
un
esempio,
l’affetto
della
gioia
unito
simultaneamente
all’idea
della
mente
e
del
corpo
origina
l’eccitazione
piacevole,
quello
della
tristezza,
invece,
Dolore
o
Melanconia.
Nello
stesso
modo
sono
definiti
l’amore
e
l’odio
(Eth.III,
pr.
30,
schol.):
’amore
è
Gioia
concomitante
con
l’idea
di
una
causa
esterna,
e
l’odio
è
tristezza
anch’essa
concomitante
con
l’idea
di
una
causa
esterna).
2)
Ratio.
La
ratio,
tenendo
sempre
presente
lo
Scolio
II
di
Eth.
II,
pr.
40,
è
quel
genere
di
conoscenza
che
conosce
mediante
le
notiones
communes,
ossia
ciò
che
è
comune
a
più
cose.
Per
“nozioni
comuni”
Spinoza
intende
l’attributo
dell’estensione
con
i
suoi
modi
infiniti
(la
quiete
ed
il
moto)
e
l’attributo
del
pensiero
con
il
suo
modo
infinito,
l’intelletto.
Per
nozioni
comuni
possono
anche
intendersi
(è
lo
stesso
Spinoza
a
farlo
in
Eth.
I,
pr.
VIII,
Schol.
II)
i
postulati
e
gli
assiomi
della
geometria:
il
comune
sarebbe
la
validità
universale
dei
postulati
euclidei.
I
postulati
e
gli
assiomi,
infatti,
non
enunciano
mai
verità
particolari,
ma
sempre
universali,
ed
inoltre
non
sono
derivati
dall’esperienza,
ma
sono
certi
ed
evidenti
per
sé.
E’
questa
la
conoscenza
che
conduce
alla
beatitudine?
Dalla
pr.
41
alla
pr.
44
di
Eth.
II,
Spinoza
sostiene
che
l’immaginazione
è
l’unica
causa
di
falsità,
mentre
la
ratio
e
la
scienza
intuitiva
sono
sempre
vere.
Inoltre
egli
sostiene
che
la
ratio
conosce
le
cose
sotto
una
certe
specie
di
eternità.
3)
Scienza
intuitiva
La
scienza
intuitiva
è
immediata
conoscenza
delle
cose
in
Dio,
nella
loro
eterna
e
viva
necessità.
Quindi
non
si
tratta
di
conoscere
la
validità
universale
e
necessaria
di
postulati
e
assiomi,
ma
piuttosto
di
un
guardare
intellettuale
dentro
la
sostanza
per
cogliere
i
legami
causa-‐effetto
che
si
fondano
nella
stessa
struttura
sostanziale
(per
la
def.
della
Scienza
Intuitiva,
si
torni
a
Eth.
II,
pr.
40,
Schol.
II
e
si
legga
il
V
libro
dell'Etica,
dalla
pr.
24
in
poi).
Nella
scienza
intuitiva
permane
l’idea
del
corpo.
La
pr.
XXX
di
Eth.
V
lega
scienza
intuitiva
e
idea
del
corpo
che
è
colto
nel
suo
rapporto
eterno
con
l’attributo
dell’estensione.
Il
fatto
che
la
scienza
intuitiva
si
relazioni
all’idea
del
corpo
indica
che
Spinoza
non
rinuncia
all’aspetto
affettivo
umano,
ma
anzi
lo
recupera
nel
genere
sommo
di
conoscenza:
per
provare
l’amore
che
unisce
l’uomo
a
Dio,
l’uomo
ha
bisogno
della
corporeità.
Solo
recuperando
il
corpo,
quella
corporeità
che
manca
alla
conoscenza
di
secondo
genere
(la
ratio),
“sentiamo
e
sperimentiamo
di
essere
eterni”.
Scrive
Spinoza
in
Eth.
V,
pr.
22,
schol:
“Tuttavia,
però,
sentiamo
e
sperimentiamo
di
essere
eterni.
Sebbene,
dunque,
non
ci
ricordiamo
di
essere
esistiti
prima
del
corpo,
sentiamo,
tuttavia,
che
la
nostra
mente,
in
quanto
implica
l’essenza
del
corpo
sotto
una
certa
specie
di
eternità,
è
eterna[...]”.
Allora
la
scienza
intuitiva
libera
dalle
passioni
perché
genera
l’amore
intellettuale
di
Dio,
del
quale
Spinoza
comincia
a
parlare
da
Eth.
V,
pr.
XXXII,
schol.
in
poi,
e
che
consiste
in
un
affetto
che
Spinoza
definisce
come
Gioia
accompagnata
dall’idea
di
Dio
come
causa.
Proprio
quando
l’uomo
con
la
scienza
intuitiva
si
riconosce
come
parte
della
totalità,
ritrova
il
fondamento,
la
causa
che
lo
ha
generato.
Le
passioni
allora
per
Spinoza
non
possono
essere
represse,
ma
solo
superate
o
canalizzate
da
affetti
più
potenti:
l’affetto
più
grande,
la
somma
virtù
della
mente,
consiste
nell’amare
Dio
ed
è
nel
conoscerlo
e
nell’amarlo
mediante
la
scienza
intuitiva
che
l’uomo
può
arginare
e
comprendere
le
passioni.
La
conoscenza
è
allora
veicolo
della
beatitudine:
“La
beatitudine
non
è
premio
alla
virtù,
ma
la
virtù
stessa;
e
noi
non
ne
godiamo
perché
reprimiamo
le
nostre
voglie;
ma,
viceversa,
perché
ne
godiamo,
possiamo
reprimere
le
nostre
voglie”
(Eth.
V,
pr.42).
Ethica,
III
Dopo
aver
analizzato
come
la
mente
conosce,
Spinoza
analizza
la
sfera
dell’emotività
umana.
Nella
Prefazione
Spinoza
afferma
che
tutte
le
passioni
possono
essere
ricondotte
alla
spinta,
propria
di
ogni
uomo,
all’autoconservazione,
dunque
all’egoismo.
La
Prefazione
serve
dunque
a
prendere
le
distanze
da
tutti
coloro
che
“piangono,
deridono,
disprezzano
o
detestano
le
passioni,
che
ritengono
essere
un
vizio
della
natura
umana”.
Spinoza,
invece,
intende
mostrare
che
l’affettività
umana
segue
dalle
leggi
della
natura
come
qualunque
altro
evento.
Dunque
il
carattere
irrazionale
delle
passioni
non
impedisce
che
possano
essere
fatte
oggetto
di
studio
scientifico.
In
questo
senso,
come
vedremo,
Spinoza
si
distaccherà
notevolmente
dalla
lunga
tradizione
che
lo
ha
preceduto
che
ha
visto
nelle
passioni
(o,
almeno,
in
alcune
di
esse)
il
segno
di
una
natura
decaduta
e
corrotta
dalla
quale
l’uomo
deve
rigenerarsi.
Per
Spinoza
tutto
segue
necessariamente
in
natura,
in
natura
non
si
dà
male
o
bene
(come
del
resto
era
già
apparso
chiaro
dall’Appendice
alla
I
parte).
Da
questo
punto
di
vista
Spinoza
sembrerebbe
allinearsi
alla
posizione
di
Descartes
che
nelle
Passioni
dell’Anima
aveva
inteso
trattare
le
passioni
non
da
oratore
o
da
filosofo
morale
ma
semplicemente
da
fisico
e
aveva
liquidato
come
insufficienti
le
posizioni
degli
antichi
relativamente
alle
passioni
(I,
art.
I).
Spinoza,
tuttavia,
riprendendo
la
critica
cartesiana
agli
antichi,
finisce
per
includere
lo
stesso
Descartes
nel
suo
giudizio
negativo.
Infatti,
dopo
un
generico
riconoscimento
ad
autori
che
hanno
scritto
cose
molto
giuste
sul
corretto
modo
di
vivere
pur
non
essendo
riusciti
a
descrivere
la
natura
e
la
forza
degli
affetti,
Spinoza
prosegue
con
un
attacco
a
Descartes,
colpevole
di
aver
rovinato
la
propria
analisi
degli
affetti
con
una
ingegnosa
ma
implausibile
ipotesi
su
come
la
mente
possa
ottenere
un
dominio
pieno
sull’emotività:
“So
bensì
che
il
celeberrimo
Cartesio,
benché
abbia
egli
pure
creduto
che
la
mente
ha
un
potere
assoluto
sulle
azioni,
ha
cercato,
tuttavia,
di
spiegare
gli
affetti
umani
mediante
le
loro
cause
prime,
e,
insieme,
di
mostrare
la
via
per
la
quale
la
mente
può
avere
un
dominio
assoluto
sugli
affetti;
ma,
almeno
secondo
la
mia
opinione,
non
ha
mostrato
altro
se
non
l’acume
del
suo
grande
ingegno,
come
dimostrerò
a
suo
luogo”
(Ethica,
III,
Prefazione).
In
effetti
la
critica
a
Descartes
non
appare
pertinente
a
questo
livello
dell’Ethica
dal
momento
che
scopo
di
questa
III
parte
è
solo
analizzare
gli
affetti
senza
occuparsi
ancora
del
dominio
che
su
di
essi
è
possibile
raggiungere.
La
III
parte
dell’Ethica
presenta
anch’essa
un’esposizione
more
geometrico
e
si
conclude
con
un’Appendice
in
cui
tutto
quanto
è
stato
dedotto
nel
corso
delle
dimostrazioni
precedenti
viene
sistemato
“con
ordine”.
L’Appendice
ha
per
titolo
Definizione
degli
affetti”
e
qui,
infatti,
gli
affetti
vengono
definiti
uno
per
uno
(sono
in
tutto
48)
e
non
dedotti
dai
loro
fondamenti
e
Spinoza
coglie
l’occasione
per
aggiungere
alcune
osservazioni
sulle
caratteristiche
di
alcuni
di
essi.
Ma
prima
di
vedere
questi
affetti
(di
cui,
per
ovvie
ragioni,
ci
limiteremo
ad
esaminarne
solo
i
principali)
è
necessario
procedere
con
ordine.
L’analisi
degli
affetti
si
apre
con
2
definizioni:
-‐ Nella
prima
Spinoza
definisce
la
causa
adeguata.
Causa
adeguata
è
quella
causa
per
mezzo
della
quale
l’effetto
può
essere
concepito
chiaramente
e
distintamente;
causa
inadeguata
è
il
suo
opposto:
“Chiamo
causa
adeguata
quella
il
cui
effetto
può
essere
percepito
chiaramente
e
distintamente
per
mezzo
di
essa.
Chiamo,
invece,
causa
inadeguata,
o
parziale,
quella
il
cui
effetto
non
può
essere
inteso
per
mezzo
di
essa
soltanto”
.
-‐ Nella
seconda
Spinoza
aggiunge
che
“agiamo
quando
accade
in
noi
o
fuori
di
noi
qualche
cosa
della
quale
noi
siamo
la
causa
adeguata,
cioè
(per
D1)
quando
dalla
nostra
natura
segue
in
noi
o
fuori
di
noi
qualche
cosa
che
può
essere
intesa
chiaramente
e
distintamente
solo
per
mezzo
di
essa.
Dico,
invece,
che
siamo
passivi
quando
in
noi
accade
qualche
cosa,
o
quando
dalla
nostra
natura
segue
in
noi
o
fuori
di
noi
qualche
cosa
della
quale
noi
non
siamo
se
non
una
causa
parziale”
.
Come
è
possibile
tutto
questo?
L’uomo
può
essere
causa
adeguata
di
qualche
cosa?
Se
cosi
fosse,
l’uomo
nelle
sue
azioni
potrebbe
essere
libero
come
lo
è
Dio,
che
non
è
determinato
da
altro
ad
agire.
Ma
nella
I
parte
abbiamo
visto
che
l’uomo,
modo
finito
dell’estensione
e
del
pensiero,
è
sempre
determinato
da
altri
modi
finiti
ad
agire
e
che
solo
Dio
è
causa
libera
(Ethica,
I,
prop.
17,
coroll.
2).
Segue
poi
la
definizione
di
affetto:
“Intendo
per
affetto
le
affezioni
del
corpo,
dalle
quali
la
potenza
d’agire
del
corpo
stesso
è
accresciuta
o
diminuita,
assecondata
o
impedita,
e
insieme
le
idee
di
queste
affezioni”.
Aggiunge
poi
Spinoza:
“Se
noi
dunque
possiamo
essere
causa
adeguata
di
queste
affezioni,
allora
per
affetto
intendo
un’azione;
altrimenti
intendo
una
passione”
.
Spinoza
si
chiede
appunto
“se
possiamo
essere”,
ma
possiamo
esserlo?
Per
dare
una
risposta
esaustiva
a
questa
domanda,
Spinoza
avrà
bisogno
di
tutta
la
parte
IV
e
V
dell’Ethica.
Per
il
momento
rivolgiamo
la
nostra
attenzione
alla
scelta
terminologica
fatta
da
Spinoza:
di
passioni
si
parlerà
solo
nel
caso
in
cui
la
nostra
mente
non
sia
causa
adeguata
e
si
parlerà
genericamente
di
affetti,
comprendendo
in
questa
categoria
più
ampia
sia
le
emozioni
di
cui
siamo
causa
adeguata
sia
quelle
di
cui
siamo
causa
inadeguata.
In
ogni
caso
il
motivo
per
cui
Spinoza
decide
di
parlare
di
affetti
e
non
di
passioni
è
dato
dalla
possibilità
di
essere
attivi
nella
vita
emotiva.
Quindi,
poiché
la
passione
indica
passività,
questo
nome
sarà
riservato
agli
affetti
la
cui
causa
è
esterna
alla
nostra
mente
e
che
la
mente
subisce.
Del
resto
lo
stesso
Descartes
aveva
commentato
nello
stesso
modo
il
termine
passione
all’inizio
del
trattato
(Passioni,
I,
art.
I:
“E,
per
cominciare,
considero
che
tutto
quello
che
di
nuovo
si
produce
o
accade
è
in
genere
chiamato
dai
filosofi
una
passione
rispetto
al
soggetto
al
quale
accade,
e
un’azione
rispetto
a
colui
che
fa
in
modo
che
accada.
In
tal
modo,
benché
l’agente
e
il
paziente
siano
spesso
molto
differenti,
l’azione
e
la
passione
non
cessano
di
essere
sempre
una
medesima
cosa,
che
ha
questi
due
nomi,
in
ragione
dei
due
diversi
soggetti
ai
quali
è
possibile
riferirla).
Se
Spinoza
è
riuscito
a
dimostrare
che
la
mente
può
raggiungere
idee
adeguate,
la
possibilità
di
produrre
azioni
di
cui
la
mente
stessa
è
causa
adeguata,
ne
deriva
necessariamente.
Il
collegamento
fra
causalità
adeguata
e
possesso
di
idee
adeguate
è
esplicito
sin
dalla
prima
proposizione
secondo
la
quale
la
mente
è
attiva
quando
ha
idee
adeguate
e
passiva
quando
ha
idee
inadeguate:
“La
nostra
mente
è
attiva
in
certe
cose,
e
passiva
in
altre;
cioè
in
quanto
ha
idee
adeguate
è
necessariamente
attiva
in
certe
cose,
e
in
quanto
ha
idee
inadeguate
è
necessariamente
passiva
in
certe
cose”
.
La
dimostrazione
si
fonda
su
quel
che
già
sapevamo
a
proposito
delle
idee
adeguate:
quando
la
mente
ha
un’idea
adeguata,
ha
la
stessa
idea
che
è
adeguata
in
Dio
e
che
dunque
non
dipende
da
altre
idee
per
essere
adeguata;
la
causa
della
sua
adeguatezza
è
nell’idea
stessa
e
non
in
altro.
Da
ogni
idea
adeguata,
poi,
seguono
delle
conseguenze
(come,
per
esempio,
dalla
definizione
adeguata
di
cerchio
seguono
le
sue
proprietà).
La
mente,
dunque,
può
essere
causa
adeguata
in
quanto
ha
idee
adeguate
(e,
di
fatto,
come
visto,
può
averne).
La
mente
sarà
passiva
in
quanto
avrà
idee
inadeguate,
ossia
in
quanto
le
sue
idee
sono
adeguate
in
Dio
solo
perché
nella
mente
infinita
si
trovano
idee
che
la
mente
finita
non
possiede.
Come
viene
ribadito
nello
scolio
alla
proposizione
3
(che
afferma:
“Le
azioni
della
mente
nascono
solo
da
idee
adeguate;
le
passioni
invece
dipendono
soltanto
da
idee
inadeguate”)
la
mente
prova
passioni
solo
in
quanto
si
considera
come
parte
della
natura
che
per
se,
senza
le
altre
parti,
non
può
essere
percepita
chiaramente
e
distintamente.
Quindi
quel
che
si
era
visto
nella
II
parte
a
proposito
del
rapporto
tra
la
mente
umana
e
la
mente
divina
per
individuare
la
presenza
o
meno
di
idee
adeguate
nella
mente
finita,
è
interamente
trasposto
sul
piano
dell’azione:
la
mente
agisce
quando
essa
è
sufficiente
a
spiegare
ciò
che
segue
dalle
sue
idee,
mentre
subisce
l’azione
della
cause
esterne
quando,
per
avere
conoscenza
adeguata
dei
suoi
pensieri,
e
necessario
conoscere
le
altre
parti
della
natura.
I
postulati
e
l’ampio
scolio
della
II
proposizione
di
cui
abbiamo
già
parlato
quando
abbiamo
fatto
riferimento
al
parallelismo
hanno
una
estrema
importanza
per
ricordare
che
gli
affetti
sono
nella
mente
quel
che
nel
corpo
sono
le
modificazioni
fisiche
e
cerebrali.
Anzi,
come
detto,
la
trattazione
più
ampia
del
parallelismo
avviene
proprio
in
questo
scolio.
È
la
conoscenza,
la
sua
frammentarietà
o
la
sua
completezza,
a
determinare
il
potere
delle
passioni
sulla
vita
dell’uomo
e
l’immaginazione,
in
quando
produce
conoscenza
parcellare,
non
è
mai
foriera
di
stabilità
esistenziale
perché
le
conoscenze
che
da
essa
derivano,
mutano
di
continuo
e
senza
regola,
in
maniera
del
tutto
occasionale,
a
seconda
delle
affezioni
del
corpo,
delle
immagini
e
delle
idee
di
queste
affezioni.
La
III
parte
dell’Etica
fa
derivare
tutte
la
passioni
da
tre
affetti
fondamentali:
la
gioia,
la
tristezza
e
la
cupidità.
Ma
procediamo
con
ordine
e
vediamo
adesso
le
proposizioni
dalla
4
alla
13
(che
trattano
del
conatus
e
degli
affetti
primitivi
che,
come
accennato,
Spinoza
riduce
a
3:
gioia,
tristezza,
cupidità).
Spinoza
afferma
che
ciascun
ente
tende
alla
propria
autoconservazione
dunque
la
sua
distruzione
può
provenire
soltanto
da
una
causa
esterna.
Si
tratta,
come
è
evidente,
del
principio
di
inerzia,
secondo
il
quale
ogni
ente
permane
nel
proprio
stato
finche
questa
condizione
non
viene
modificata
da
un
agente
esterno.
Negli
individui,
dunque,
questa
tendenza
all’autoconservazione
(dunque
alla
conservazione
del
proprio
stato)
si
esprime
attraverso
la
resistenza
che
essi
oppongono
alle
modificazioni
che
vengono
imposte
dall’esterno.
Questa
tendenza
all’autoconservazione
viene
chiamata
da
Spinoza
conatus
ed
è
qualcosa
di
intrinseco
alle
cose
stesse
o,
meglio,
coincide
con
la
loro
stessa
natura:
infatti
non
esiste
alcuna
cosa
che,
per
sua
natura,
non
opponga
resistenza
alla
propria
dissoluzione,
cosi
come
leggiamo
nella
proposizione
4
e
nella
proposizione
8:
Proposizione
4:
“Nessuna
cosa
può
essere
distrutta
se
non
da
una
causa
esterna”.
Proposizione
8:
“Lo
sforzo,
col
quale
ciascuna
cosa
si
sforza
di
perseverare
nel
suo
essere,
non
implica
alcun
tempo
finito,
ma
un
tempo
indefinito”.
Il
conatus
dunque
è
l’impulso
che
spinge
alle
azioni
nelle
quali
si
esprime
la
natura
di
ogni
individuo.
Esso
è
presente
anche
nella
mente
e
questo
perché
anche
la
mente
è
una
cosa
singolare
e
quindi
tende
a
conservarsi
sia
che
abbia
idee
adeguate,
sia
che
abbia
idee
inadeguate.
Lo
sforzo
di
autoconservarsi,
nella
mente
considerata
in
se
sola,
è
ciò
che
si
chiama
volontà;
se
riferito
alla
mente
e
al
corpo
è
ciò
che
si
chiama
appetito
e
poiché
l’uomo
è
sia
mente
che
corpo,
l’appetito
“non
è
altro
che
la
stessa
essenza
dell’uomo,
dalla
cui
natura
seguono
necessariamente
le
cose
che
servono
alla
sua
conservazione;
e
perciò
l’uomo
è
determinato
a
fare
tali
cose”;
infine
la
consapevolezza
di
questo
appetito
è
ciò
che
si
chiama
cupidità,
come
Spinoza
afferma
nello
scolio
alla
Proposizione
9
[“
La
mente,
sia
in
quanto
ha
idee
chiare
e
distinte,
sia
in
quanto
ha
idee
confuse,
si
sforza
di
perseverare
nel
suo
essere
per
una
durata
indefinita,
ed
è
consapevole
di
questo
suo
sforzo”]:
“Questo
sforzo,
quando
è
riferito
soltanto
alla
mente,
si
chiama
volontà;
ma
quando
è
riferito
insieme
alla
mente
e
al
corpo,
si
chiama
appetito,
il
quale,
quindi,
non
è
altro
se
non
la
stessa
essenza
dell’uomo,
dalla
cui
natura
segue
necessariamente
ciò
che
serve
alla
sua
conservazione;
e
quindi
l’uomo
è
determinato
a
farlo;
non
c’
è
poi
nessuna
differenza
tra
l’appetito
e
la
cupidità,
tranne
che
la
cupidità
si
riferisce
per
lo
più
agli
uomini
in
quanto
sono
consapevoli
del
loro
appetito,
e
perciò
si
può
definire
cosi:
la
cupidità
è
l’appetito
con
coscienza
di
se
stesso
[…]”.
Ora
poiché
l’appetito,
secondo
quanto
appena
detto,
è
tutt’uno
con
l’individuo,
non
dipende
né
può
dipendere
da
altro
che
non
sia
l’individuo
stesso.
Per
questo
motivo
il
giudizio
sulla
bontà
delle
cose
che
appetiamo
non
può
precederlo
ma
necessariamente
lo
segue.
Leggiamo
infatti
ancora
nello
scolio
alla
Proposizione
9:
“Risulta
dunque
da
tutto
ciò
che
verso
nessuna
cosa
noi
ci
sforziamo,
nessuna
cosa
vogliamo,
appetiamo
o
desideriamo
perché
la
giudichiamo
buona;
ma,
al
contrario,
che
noi
giudichiamo
buona
qualche
cosa
perché
ci
sforziamo
verso
di
essa,
la
vogliamo,
l’appetiamo
e
la
desideriamo”.
L’impulso
ad
autoconservarsi
è
dunque
intrinseco
all’individuo
che
può
avere
successo
nel
suo
sforzo
di
autoconservarsi
(e
in
questo
caso
la
sua
potenza
di
agire
aumenterà)
oppure
può
subire
l’azione
di
cause
esterne
(e
in
questo
caso
la
sua
potenza
diminuirà).
Il
primo
postulato
avverte
che
alcune
affezioni
del
corpo
aumentano
o
diminuiscono
la
potenza
di
agire
del
corpo,
mentre
altre
non
hanno
alcuna
influenza
in
questo
senso.
Solo
le
prime
modificazioni
hanno
nella
mente
un
corrispettivo
emotivo,
essendo
le
altre
del
tutto
indifferenti.
Il
mondo
delle
emozioni
è
dunque
più
ristretto
rispetto
al
mondo
delle
percezioni.
Un
aumento
della
potenza
del
corpo
si
riflette
sulla
mente
nell’affetto
della
gioia,
mentre
il
riflesso
psichico
della
diminuzione
di
potenza
nel
corpo
è
l’affetto
della
tristezza.
Assieme
alla
cupidità,
gioia
e
tristezza
costituiscono
i
tre
affetti
primitivi,
dai
quali
tutti
gli
altri
derivano,
come
afferma
Spinoza
nello
scolio
alla
proposizione
11.
Quindi,
a
differenza
di
Descartes
che
aveva
elencato
6
passioni
primitive,
Spinoza
riduce
gli
affetti
primitivi
a
3
e,
soprattutto,
a
differenza
di
Descartes
che
aveva
considerato
la
meraviglia
come
la
prima
tra
le
passioni
primitive,
Spinoza
non
la
considera
neppure
un
affetto
perché
essa
indica
solo
la
concentrazione
della
mente
su
una
sola
idea,
in
mancanza
di
altre
idee
ad
essa
associate,
ed
è
quindi
solo
un
fenomeno
cognitivo,
privo
di
per
se
di
ricadute
emotive,
che
si
verifica
quando
un’immagine
si
presenta
isolatamente
e
per
la
prima
volta.
È
quello
che
Spinoza
afferma
nell’Appendice
ricordata
in
precedenza
(Definizione
degli
affetti,
IV
spiegazione):
“Considerata
dunque
in
se
stessa
l’immaginazione
di
una
cosa
nuova
è
della
medesima
natura
che
le
altre
immaginazioni;
e
per
questa
ragione
io
non
annovero
l’ammirazione
tra
gli
affetti,
ne
vedo
alcun
motivo
per
farlo,
giacche
questa
distrazione
della
mente
non
nasce
da
alcuna
causa
positiva
che
distragga
la
mente
dalle
altre
immaginazioni,
ma
solo
dal
fatto
che
manca
la
causa
dalla
quale
la
mente
è
determinata,
attraverso
la
considerazione
di
una
cosa,
a
pensare
ad
altre
cose”.
Nelle
proposizioni
12
e
13
Spinoza
spiega
come
tristezza
e
gioia
generino
amore
e
odio:
lo
sforzo
di
autoconservarsi
fa
si
che
la
mente
si
sforzi
di
pensare
alle
cose
che
aumentano
la
sua
potenza
di
agire
e
di
scacciare
il
pensiero
di
ciò
che
la
diminuisce.
Quando
la
mente
immagina
qualcosa
il
corpo
viene
modificato
come
se
quel
qualcosa
fosse
presente
(Ethica,
II,
proposizione
17)
e
questo
spiega
perché
la
mente
cerchi
di
perpetuare
gli
effetti
benefici
dell’incontro
con
ciò
che
ha
provocato
un
aumento
di
potenza
sforzandosi
di
pensarlo
e
perché
al
contrario
cerchi
di
allontanare
il
pensiero
di
ciò
che
ha
diminuito
la
sua
potenza
di
agire,
ovvero
che
ha
provocato
tristezza.
A
questo
duplice
sforzo
della
mente
(positivo
e
negativo)
corrispondono
gli
affetti
dell’amore,
con
il
quale
la
mente
si
sforza
di
prolungare
la
gioia
che
una
causa
esterna
ha
provocato
e
dell’odio,
con
il
quale
la
mente
si
sforza
di
allontanare
il
pensiero
della
causa
esterna
che
ha
provocato
tristezza.
L’amore
e
l’odio
si
ottengono
dunque
aggiungendo
alla
gioia
e
alla
tristezza
il
pensiero
di
una
causa
esterna
che
ha
provocato
quegli
affetti
e
prolungando
nel
tempo
lo
sforzo
di
pensare
a
ciò
che
ha
provocato
gioia
e
di
allontanare
il
pensiero
di
ciò
che
ha
provocato
tristezza.
Deduciamo
dunque
che
si
può
anche
dare
una
gioia
senza
amore
quando
l’aumento
del
benessere
del
nostro
corpo
non
è
determinato
da
una
causa
esterna
individuabile,
quando
ci
sentiamo
bene
e
di
buonumore
senza
che
siamo
consapevoli
che
qualcosa
abbia
determinato
questo
buonumore
o
tristi
senza
che
qualcosa
di
esterno
a
noi
noto
giustifichi
la
nostra
malinconia.
Amore
e
odio,
invece,
hanno
sempre
un
oggetto.
L’associazione
degli
affetti
(proposizioni
14-‐17)
Il
fenomeno
dell’associazione
degli
affetti
è
all’origine
della
simpatia
e
dell’antipatia
che
si
producono
quando
un’affezione
della
mente
che
di
per
se
non
causerebbe
né
gioia
né
tristezza
è
associata
a
un’affezione
che
invece
ha
prodotto
in
passato
gioia
o
tristezza,
anche
quando
di
quest’ultima
affezione
non
serbiamo
un
ricordo
consapevole,
come
leggiamo
nella
proposizione
15:
“Una
cosa
qualunque
può
essere
per
accidente
causa
di
letizia,
di
tristezza,
o
di
cupidità”.
Lo
scolio
alla
proposizione
15
sembrerebbe
chiamare
in
causa
Descartes
che
già
a
suo
tempo
si
era
accorto
del
fenomeno
dell’associazione
degli
affetti:
egli
aveva
infatti
avuto
un
amore
infantile
per
una
bambina
strabica
e
in
seguito
aveva
sempre
provato
simpatia
per
le
persone
strabiche
(A
Chanut,
6
giugno
1647,
B
624,
p.
2473:
“Per
esempio,
quando
ero
bambino,
amavo
una
ragazza
della
mia
età
che
era
un
po’
strabica;
così,
l’impressione
che
si
riceveva
attraverso
la
vista
nel
mio
cervello
quando
guardavo
i
suoi
occhi
storti
si
congiungeva
a
quella
che
vi
si
produceva
per
muovere
in
me
la
passione
dell’amore
al
punto
che,
molto
tempo
dopo,
guardando
le
persone
strabiche,
mi
sentivo
incline
ad
amarle
più
di
altre,
per
il
solo
fatto
che
avevano
questo
difetto;
e
non
sapevo
tuttavia
che
ciò
avvenisse
per
questo.
Al
contrario,
da
quando
vi
ho
riflettuto
e
ho
riconosciuto
che
ciò
era
un
difetto,
non
ne
sono
più
stato
emozionato.
Così,
quando
siamo
portati
ad
amare
qualcuno
senza
conoscerne
la
causa,
possiamo
credere
che
questo
derivi
dal
fatto
che
in
lui
ci
sia
qualche
cosa
di
simile
a
ciò
che
era
in
un
altro
oggetto
che
abbiamo
amato
in
precedenza,
ancorché
non
sappiamo
cosa
sia.
E
benché
di
solito
sia
più
una
perfezione
che
un
difetto
ad
attirarci
così
verso
l’amore;
tuttavia,
poiché
talvolta
può
essere
un
difetto,
come
nell’esempio
che
ho
riportato,
un
uomo
saggio
non
deve
lasciarsi
andare
interamente
a
questa
passione,
prima
di
aver
considerato
il
merito
della
persona
per
la
quale
ci
emozioniamo).
Stessa
origine
ha
l’incertezza
emotiva
(l’oscillazione
tra
simpatia
e
antipatia)
che
proviamo
quando
un
evento
che
solitamente
ci
provoca
tristezza
ha
qualche
somiglianza
con
un
evento
che
normalmente
ci
procura
gioia.
Spinoza
chiama
questo
fenomeno
fluttuazione
dell’animo,
fenomeno
che
avviene
tanto
a
livello
cognitivo
(dubbio,
scolio
alla
proposizione
17)
quanto
a
livello
emotivo.
Sempre
dall’associazione
degli
affetti
nascono
i
pregiudizi
che
ci
fanno
amare
o
provare
avversione
per
una
categoria
di
persone
solo
perché
hanno
qualcosa
in
comune
con
qualcuno
che
in
passato
ci
ha
fatto
del
male
o
del
bene,
anche
se
quel
che
queste
persone
hanno
in
comune
con
la
persona
amata
o
odiata
non
è
ciò
che
in
passato
ci
ha
provocato
gioia
o
tristezza
(proposizione
16).
Anche
la
superstizione
e
la
credenza
nei
buoni
e
nei
cattivi
presagi
hanno
la
stessa
origine,
ossia
l’associazione
di
eventi
privi
di
per
se
di
efficacia
emotiva
con
eventi
che
in
passato
hanno
provocato
gioia
o
dolore
(proposizione
50).
Gli
affetti
riflessi
(proposizioni
19-‐26)
Ci
sono
poi
dice
Spinoza
una
serie
di
affetti
che
hanno
origine
in
conseguenza
di
eventi
che
non
ci
toccano
direttamente
ma
coinvolgono
persone
verso
le
quali
siamo
legati
da
vincoli
affettivi
provocando
in
queste
sentimenti
di
odio
o
di
amore.
Anche
in
questo
caso,
sebbene
gli
affetti
siano
mediati
da
affetti
altrui,
la
dinamica
è
la
stessa:
si
tratta
di
un
aumento
o
di
una
diminuzione
della
nostra
potenza
causati,
nel
caso
specifico,
da
un
aumento
o
da
una
diminuzione
della
potenza
di
persone
che
aumentano
o
diminuiscono
direttamente
la
nostra
potenza
e
alle
quali
siamo
legati
quindi
da
amore
o
da
odio.
Quindi:
-‐ la
diminuzione
della
potenza
di
colui
che
amiamo
e
la
cui
esistenza
provoca
un
aumento
della
nostra
potenza,
provocherà
una
diminuzione
della
nostra
potenza
e
quindi
ci
farà
provare
tristezza;
la
diminuzione
o
distruzione
della
potenza
di
colui
che
odiamo
e
la
cui
esistenza
provoca
una
diminuzione
della
nostra
potenza,
provocherà
in
noi
un
aumento
di
potenza
e
quindi
gioia
(proposizioni
19
e
20).
-‐ L’aumento
di
potenza,
cioè
la
gioia,
della
persona
amata
provocherà
gioia
nell’amante
poiché
anche
la
potenza
dell’amante
sarà
aumentata
(proposizione
21).
L’imitazione
degli
affetti
(proposizioni
27-‐36)
Gli
affetti
attivi
(proposizioni
58
e
59)
Finora
la
III
parte
si
è
occupata
degli
affetti
passivi.
Queste
due
ultime
proposizioni
sono
invece
dedicate
agli
affetti
attivi,
cioè
quegli
affetti
che
sono
manifestazioni
delle
attività
della
mente.
Gli
affetti
attivi
possono
essere
solo
la
cupidità
e
la
gioia
e
i
loro
derivati,
come
si
legge
nella
proposizione
59
(p.
1403):
“Tra
tutti
gli
affetti
che
si
riferiscono
alla
mente
in
quanto
è
attiva,
non
c’
è
alcuno
che
non
si
riduca
alla
letizia
o
alla
cupidità”.
Ma
se
solo
la
cupidità
e
la
gioia
sono
affetti
attivi,
non
ogni
cupidità
ed
ogni
gioia
sono
tali:
gli
affetti
attivi,
infatti,
derivano
dalle
idee
adeguate
della
ragione
e
portano
a
desiderare
quel
che
veramente
incrementa
la
potenza
del
corpo.
Particolarmente
importante
è
la
proposizione
58
che
collega
esplicitamente
l’attivita
della
mente
al
possesso
di
idee
adeguate.
Abbiamo
visto
che
la
mente,
quando
ha
un’idea
adeguata,
sa
di
averla,
dal
momento
che
l’idea
adeguata
non
richiede
alto,
per
essere
percepita,
se
non
la
mente
che
la
possiede
(Ethica
II,
proposizione
43).
Quindi
la
mente
che
ha
idee
adeguate
è
consapevole
di
se,
ovvero
“contempla
se
stessa”.
La
contemplazione
di
se
è
sempre
un
indizio
di
aumento
di
potenza,
in
quanto
è
resa
possibile
da
un
dominio
sugli
agenti
esterni.
(proposizione
53),
quindi
il
possesso
delle
idee
adeguate
che
come
abbiamo
visto
sulla
base
della
proposizione
I
equivale
ad
un’azione,
produce
sempre
gioia.
Importante
quindi
non
è
solo
che
la
mente
è
detta
agire
quando
è
in
possesso
di
idee
adeguate,
ma
che
il
possesso
di
idee
adeguate
è
sempre
accompagnato
da
un
affetto,
la
gioia
e
i
suoi
derivati.
La
ragione,
quindi,
non
è
mai
solo
speculativa
ma
è
sempre
fonte
anche
di
emozioni,
cosa
questa
che,
come
vedremo
nella
parte
IV,
ha
delle
profonde
ricadute
nell’azione
morale.
Nello
scolio
alla
proposizione
59
Spinoza
fornisce
poi
il
ritratto
dell’uomo
che
ha
idee
adeguate:
egli
non
prova
tristezza
e
sperimenta
quindi
solo
gli
affetti
attivi
che
seguono
dalle
idee
adeguate.
Essi
si
dividono
in
2
categorie:
la
cura
del
proprio
interesse
sotto
la
guida
della
ragione,
cioe
la
cupidita
ragionevole
(che
Spinoza
chiama
coraggio)
e
la
cupoidita
di
aiutare
gli
altri
uomini
e
di
unirsi
a
loro
sotto
la
guida
della
ragione,
ed
è
questo
il
sentimento
che
Spinoza
chiama
generosita.
Concludendo:
lo
studio
scientifico
sulle
passioni
cosi
come
annunciato
nella
Prefazione
è
stato
portato
a
termine
e
Spinoza
ha
infatti
mostrato
come
tutti
gli
affetti
(sia
quelli
che
ci
sono
favorevoli,
sia
quelli
che
ci
sono
sfavorevoli)
derivano
dallo
sforzo
di
autoconservarsi
e
sono
quindi
tutti
ugualmente
necessari.
La
vera
differenza
tra
gli
affetti
sta
tra
quelli
innescati
da
idee
inadeguate
e
quelli
prodotti
da
idee
adeguate.
La
schiavitu
umana,
ossia
le
forze
degli
affetti
(Ethica,
IV)
Nella
parte
IV
Spinoza
espone
gli
elementi
fondamentali
della
sua
morale.
E’
una
parte
molto
densa,
dall’andamento
complicato
di
cui
lo
stesso
Spinoza
si
rese
conto
se
decise
di
aggiungere
un’Appendice
nella
quale
cercò
di
esporre
sinteticamente,
per
brevissimi
capitoli,
i
punti
principali
della
sua
teoria.
La
morale
spinoziana,
come
visto,
si
fonda
sul
principio
di
autoconservazione
ed
è
quindi
una
morale
egoistica.
Al
contrario
dell’immaginazione,
la
ragione
è
in
grado
di
individuare
ciò
che
è
veramente
utile
alla
conservazione
dell’individuo,
tuttavia
solo
gli
affetti
e
i
desideri
riescono
a
trasformare
le
informazioni
della
ragione
in
valori
morali,
in
beni
da
perseguire.
Perché
si
parla
di
schiavitù
umana?
Perché
i
desideri
che
trasformano
le
indicazioni
della
ragione
in
valori
che
l’individuo
si
prefigge
nel
suo
operare
sono
deboli
al
confronto
dei
desideri
eccitati
dalla
conoscenza
immaginativa
e
da
questi
sono
facilmente
vinti.
Il
titolo
preannuncia
l’analisi
delle
ragioni
per
le
quali
gli
uomini,
pur
conoscendo
cosa
sia
il
vero
bene,
cedono
alle
passioni
e
ne
diventano,
appunto,
schiavi.
Nella
Prefazione
Spinoza
annuncia
di
voler
mostrare
cosa
hanno
di
buono
e
di
cattivo
gli
affetti.
Se
nella
parte
III
gli
affetti
erano
stati
studiati
come
eventi
naturali,
come
figure
e
linee
geometriche
e,
in
quanto
tali,
sfuggivano
ad
ogni
valutazione
morale,
ora
Spinoza
intende
stabilire
una
differenza
di
valori
tra
gli
affetti,
dividendoli
in
buoni
e
cattivi,
vale
a
dire
in
affetti
che
aumentano
e
in
affetti
che
diminuiscono
la
potenza
di
agire
dell’individuo.
Le
definizioni
che
aprono
la
parte
IV
ci
portano
nel
cuore
della
morale
e
ne
definiscono
i
concetti
fondamentali:
bene,
male,
virtu.
La
proposizioni
dalla
1
alla
18
sono
dedicata
ad
indagare
le
cause
dell’impotenza
della
ragione
nei
confronti
della
potenza
degli
affetti.
Spinoza
ritiene
che
la
ragione
in
quanto
produce
conoscenze
puramente
speculative
non
abbia
alcun
potere
sulle
azioni
e
sugli
affetti.
Se
la
ragione,
cioe,
si
limitasse
a
conoscere
che
una
certa
azione
o
un
certo
comportamento
sono
veramente
utili,
questa
sua
conoscenza
non
inciderebbe
in
alcun
modo
sugli
affetti
ne
potrebbe
combatterli
(proposizione
14).
L’Etica
di
Spinoza,
benché
si
fondi
sulla
conoscenza
e
sull’ontologia,
è
un’etica
che
intende
incentrarsi
sulla
possibilità
di
determinarsi
ad
agire,
vale
dire,
sulla
possibilità
di
essere
“causa
adeguata”
delle
proprie
azioni,
quindi,
sulla
possibilità
di
avere
idee
adeguate
di
cui
l’uomo
è
causa
e
sulle
quali
fondare
la
sicurezza
esistenziale
della
vita
stessa.
(Eth.
III,
Def.
I,
II,
III
e
pr.
1).
Appare
subito
chiaro
che
l’uomo
che
conosce
con
l’immaginazione
non
è
causa
adeguata
di
quelle
conoscenze:
esse
derivano,
come
detto,
dalle
affezioni
occasionali
corporee
ed
il
subirle
equivale
ad
essere
passivi
nei
loro
confronti,
quindi,
equivale
a
non
relazionarle
e
a
non
completarle
nell’eterna
e
stabile
trama
delle
relazioni
che
costituiscono
il
perfetto
ed
unitario
tessuto
delle
leggi
della
sostanza,
ove
non
si
dà
né
frammentarietà
(il
frammento
isolato
contraddice
l'unità),
né
la
contingenza
(la
contingenza
prevede
la
possibilità
di
essere
diversamente,
e
questa
possibilità
non
si
dà
nella
eterna
necessità
dei
rapporti
sostanziali).
Prendiamo
come
esempio
Eth.
IV,
pr.
47:
“Gli
affetti
della
Speranza
e
della
Paura
non
possono
essere
di
per
sé
buoni”:
speranza
e
paura
sono
passioni
nocive
perché,
sostiene
lo
scolio
di
questa
stessa
proposizione,
esse
“indicano
un
difetto
di
conoscenza
e
un’impotenza
della
Mente,
e
per
questa
ragione
anche
la
Sicurezza,
la
Disperazione,
il
Gaudio,
e
il
Rimorso
sono
segni
di
animo
impotente.
Infatti
sebbene
la
Sicurezza
ed
il
Gaudio,
siano
sentimenti
di
Gioia,
suppongono
tuttavia
che
li
abbia
preceduti
la
Tristezza,
e
cioè,
la
Speranza
e
la
Paura.[...]”.
Le
affezioni
corporee,
da
cui
si
formano
idee
e
immagini
delle
cose,
proprio
per
la
loro
frammentarietà
sono
incomplete
e
l’incompletezza,
la
non
adeguatezza
conoscitiva,
mette
in
tensione
esistenziale
l’uomo
verso
ciò
che
potrebbe
verificarsi
con
esisto
positivo
(speranza)
oppure
con
l’idea
di
ciò
che
potrebbe
verificarsi
con
esisto
negativo
(timore):
in
entrambi
i
casi,
tutto
deriva
da
un
difetto
di
conoscenza,
da
una
mancanza
che
genera
nell’animo
attesa
e
preoccupazione.
Quante
volte
ci
accade
di
essere
in
balia
di
eventi
o
di
notizie
esterne
che
ci
lasciano
indecisi
perché
ne
attendiamo
l’esito.
E
quante
volte
in
queste
situazioni
l’immaginazione
costruisce
gli
scenari
più
impensati
che
creano
insicurezza
e
indecisione?