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TERRA NOSTRA
Contrastare il grande saccheggio
del territorio veneto
“La mia non è una battaglia antimoderna ma un fatto di identità e di civiltà.
La marcia di autodistruzione del nostro favoloso mondo veneto
ricco di arte e di memorie
è arrivata ad alterare la consistenza stessa
della terra che ci sta sotto i piedi.
I boschi, i cieli, la campagna sono stati la mia ispirazione poetica fin dall’infanzia.
Ne ho sempre ricevuto una forza di bellezza e tranquillità.
Ecco perché la distruzione del paesaggio è per me un lutto terribile.
Bisogna indignarsi e fermare lo scempio
che vede ogni area verde rimasta come un’area da edificare.”
Andrea Zanzotto
da un’intervista al quotidiano La Stampa del 10 ottobre 2011
L’iniziativa ha prodotto – tra gli altri – i materiali che presentiamo in questa nostra
pubblicazione; non sono solo idee elaborate nella discussione, ma direttrici di mobi-
litazione e di lotta scaturite da un impegno di lunga lena tra la gente e culminate poi
– una settimana dopo il convegno – in una partecipata manifestazione ad Adria contro
l’installazione della centrale a carbone di Porto Tolle.
Il Veneto è sempre stata una delle regioni più massacrate dal cemento e dalla spe-
culazione edilizia, anche nella fase aurea del modello economico che proponeva e che
sembrava senza fine; oggi la crisi sistemica della crescita del PIL ha colpito anche le
nostre terre, ma i poteri forti che qui governano e la Lega Nord si illudono di rilanciare
lo sviluppo secondo i vecchi meccanismi, perpetuando anche il consumo dissennato di
territorio.
Invece tra le poche certezze che si possono affermare, una è sicuramente quella che
nulla tornerà più come prima, neppure nella nostra regione.
Per uscire dalla crisi e dalla disoccupazione di massa che la caratterizza, sarà necessa-
rio rinnovare radicalmente il modello produttivo e attuare una politica industriale che
salvi il lavoro e la natura, cioè le due fonti di ricchezza e di riproduzione che l’attuale
sistema sta inesorabilmente distruggendo.
Dino Facchini
Coordinatore regionale Sinistra Ecologia e Libertà
TERRA NOSTRA
Valerio Calzolaio *
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quantificare in 40 miliardi di euro il totale necessario e abbiamo ipotizzato le voci di re-
perimento, non servono manovre aggiuntive. Forse una buona parte dei fondi potreb-
bero essere individuati semplicemente rimodulando delibere CIPE e fondi esistenti.
Per le prime tre annualità basterebbe preparare una seria riunione interministeriale del
CIPE che, d’intesa con le regioni, riformuli le priorità della legge obiettivo, mettendo
in testa i piani-stralcio predisposti dalle autorità di bacino per la messa in sicurezza.
I cambiamenti climatici in corso non sono “reversibili” ed emergenze ci sarebbero
state comunque (anche se meno frequenti e intense). La nostra idea di “rinaturalizza-
zione” dà per scontato che ormai gli ecosistemi sono sempre anche umani. Dunque
conviviamo! Gli umani sapienti con le altre specie, gli umani sapienti con i normali
straordinari eventi di un ecosistema e del pianeta. E adattiamoci! …ricordando che
l’Italia ancora non ha nemmeno il piano di adattamento ai cambiamenti climatici pre-
visto dal negoziato climatico internazionale.
4. Si potrebbe fare, avviare coordinare completare, senza nuovi enti, comitati, istitu-
zioni, anzi tagliandone o togliendone qualcuno! Oggi “troppi” enti, comitati, istituzio-
ni, privati hanno poteri sull’assetto dei bacini e sul corso dei fiumi.
Su questo molto ho scritto e proposto in passato. Rinvio, taglio e tolgo anch’io.
Purtroppo l’ultima emergenza toglie dai riflettori e costringe a mettere in secondo piano
quella immediatamente precedente e fa dimenticare quelle ancora “precedenti” (delle
quali tante, purtroppo, in Veneto). Noi diciamo che, sotto ogni punto di vista, investire
sul territorio non significa edificare! La diffusa “cultura” del cemento e il frequente
mancato rispetto delle regole hanno fatto danni. L’industria edilizia si può salvare e
rilanciare convertendo e riconvertendo, curando e ristrutturando, utilizzando “altro”
dal cemento e dal carbone.
La vita sociale e collettiva ha bisogno di “edilizia” come assistenza al bene comune
suolo e manutenzione del territorio. E una moderna “edilizia” ha bisogno di partecipa-
zione dei cittadini, di decentramento energetico, di consumi critici, del servizio civile
regionale, dell’adozione dei fiumi, di “intraprese” agricole (le proposte di SEL su risorse
idriche, energie rinnovabili, rifiuti, difesa del territorio).
5. SEL è un partito giovane, raccoglie esperienze antiche e moderne, eredita elabo-
razioni collettive e individuali, tuttavia è soprattutto un nuovo soggetto che guarda
in avanti. Questo vale in tutti i campi. Come forum nazionale SEL “beni comuni e
territorio” (forumselbeta.it) abbiamo già elaborato vari documenti e svolto due assem-
blee nazionali, abbiamo un sito e una qualificata interlocuzione sul territorio, da oggi
assumiamo come prioritaria la campagna “Terra nostra”, dateci una mano!
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IL TERRITORIO COME BENE COMUNE
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re lo schermo dell’egemonia Berlusconiana. Qui c’è dunque un vasto campo d’azione
per un partito- movimento come il nostro che dell’ecologia e del lavoro ha fatto la sua
bandiera.
4. Su Veneto City me la cavo dunque con qualche immagine: Siete mai stati a Gar-
daland? Se non avete un’idea della dimensione del più grande parco divertimenti del
Nord Italia immaginate un colosso che si estende su 60 ha e avrete la percezione del-
l’estensione di Veneto City, una enorme operazione immobiliare che cancellerà 600
mila mq di campagna veneta con oltre 2 milioni di mc di cemento e vetro per costruire
una città direzionale – commerciale grande quanto 17 volte la fiera di Padova, di cui
però nessuno ha ancora chiaro a cosa serve.
Un mostro capace di attrarre, secondo gli stessi progettisti, 3.500 veicoli l’ora con
punte di 7.000, un traffico veicolare di 70.000 veicoli al giorno. Esso è parte di un più
generale progetto denominato “bilanciere veneto” di cui fa parte tra l’altro la camio-
nabile tra Marghera e Padova, progettata come strada chiusa a pedaggio - sarebbe più
corretto chiamarla autostrada - di fatto alternativa all’idrovia, quest’ultima richiesta
anche dal comune di Padova dopo le recenti alluvioni. La Romea commerciale, un’al-
tra autostrada che, come scrivono i comitati “taglierà su, dritta, attraverso i campi di
Sambruson fino a sbucare, mostro rombante e inquinante a quattro corsie, tra le ville
che si affacciano placide sul Naviglio Brenta fra Mira e Dolo”. Nel frattempo si chiu-
de il casello di Dolo con la conseguenza di congestionare ancor di più la S.R. 11 che
doveva invece diventare il corso principale della futura città del Brenta auspicato dalla
conferenza dei Sindaci negli anni novanta, dopo aver liberalizzato l’autostrada come
conseguenza della realizzazione del passante.
5. Tessera City ha una lunga storia. Risale al famigerato “pugno nello stomaco” del
naufragato progetto EXPO 2000 di De Michelis che prevedeva di costruire proprio
in quell’area, sotto il livello del mare, una nuova laguna, con annesse speculazioni im-
mobiliari. Ecco quello che ho ritrovato tra le mie vecchie carte ingiallite: “Una lieve e
pacata collina vegetale alta 30 metri che nasconde un cratere profondo 130 in mezzo a una
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laguna artificiale nei pressi dell’aeroporto di Tessera: nuvole artificiali prodotte con acqua
fredda nebulizzata sui canali e sulle nuvole raggi laser proiettano figure a colori accom-
pagnate da musica classica, giochi di luce subacquei, boulevard navigabili, palle di fuoco
sospese sull’acqua, isole artificiali con gemme trapunte” e via vaneggiando. Ecco quando
nasce la città del loisir.
Il progetto, questa volta senza annessa laguna, ricompare nel 2008 quando si con-
clude un accordo tra Cacciari, Galan, Marchi e il Casinò, che progetta lo spostamento
e il quadruplicamento dell’area originariamente urbanizzabile per stadio e casinò: si
prevede uno scambio tra le aree per attrezzature del Comune con aree agricole a est
della bretella aeroportuale, nel frattempo acquisite da Marchi (per renderle edificabili
bisogna prima variare il prg). L’ambito lasciato libero tra queste aree e l’aeroporto, vie-
ne così molto ampliato per consentire il raddoppio delle piste aeroportuali. Le nuove
aree attribuite al Comune con lo scambio sono ubicate in una zona ad altissimo rischio
idraulico (nella zona centrale risultano a 1,75 m sotto il livello medio del mare).
Si predispongono le condizioni per arrivare all’approvazione di “Tessera City”, anche
senza la procedura democratica e trasparente del normale strumento urbanistico co-
munale. La convinzione di aver già ottenuto il risultato è netta: solo tre giorni dopo il
voto del consiglio comunale e la delibera regionale, «La Nuova Venezia» titola a tutta
pagina: “Le aree del Casinò valorizzate di 140 milioni di euro”. Il valore dei terreni agri-
coli per 400 mila metri quadrati divenuti edificabili aumenta di 20 volte, «l’operazione
assesta in un ‘battibaleno’i conti della società» ( stiamo parlando solo del Casinò, le
aree della Save sono molte più ampie!). Si evidenzia così la realtà e la dimensione del-
l’operazione: una grandissima speculazione finanziaria e fondiaria.
Con l’aiuto di noti e autorevoli urbanisti osservo che nelle cartografie del Pat pro-
posto dalla giunta Orsoni, vi è anche la drastica riduzione delle grandi aree destinate a
bosco previste dal PRG e dal Palav vigente. È inserito un tracciato della Tav che corre
non lungo la linea ferroviaria per Trieste, bensì lungo la fascia di gronda lagunare, og-
getto di moltissime contestazioni da parte dello stesso Comune. Compare inoltre una
indeterminata «Linea di forza del trasporto lagunare», da Tessera verso Venezia: astu-
tamente si evita di pronunciarsi apertamente sullo sciagurato progetto di sublagunare,
pure già presentato al Cipe.
L’Ambito Dese-Aeroporto (che comprende “Tessera City”) prevede un «carico in-
sediativo aggiuntivo» superiore a due milioni di mc! L’assessore Micelli definisce l’in-
tervento come un «nuovo asse strategico della città», da Dese fino al Lido, alternativo
all’asse Venezia-Mestre-Marghera.
Il progetto non è legato ai fabbisogni di riqualificazione e sviluppo della città ma è
volto a prefigurare un nuovo grande polo, in grado di attirare gli investimenti di gran-
di capitali internazionali. Per questo motivo, tutte le grandi infrastrutture pubbliche,
dalla Tav alla “linea di forza” sublagunare, alla nuova linea di tram(che correrebbe inu-
tilmente per molti km in aperta campagna) vengono realizzate non per soddisfare i
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fabbisogni di mobilità della popolazione ma per rendere appetibile agli investimenti il
nuovo grande polo urbano, valorizzandone le aree. Bene dunque ha fatto SEL Venezia
a sottolineare che non si devono impegnare grandi interventi pubblici per favorire la
valorizzazione finanziaria di un privato che si è accaparrato grandissime aree agricole,
anziché soddisfare la domanda reale di mobilità della popolazione. E’ assurdo dirot-
tare enormi investimenti pubblici e privati verso nuove aree da urbanizzare a Tessera
avendo disponibili le grandi aree già infrastrutturate di Marghera, costate un secolo
di investimenti, da riusare e molte attività da rigenerare e riconvertire (incentivando le
bonifiche).
E’ su Marghera che occorre impegnare ogni risorsa ed energia per promuovere e
incentivare nuove attività ecocompatibili di grande qualità e competitività. In sostanza
una riconversione ecologica di Porto Marghera è la nostra proposta alternativa.
Mestre ha bisogno di interventi, soprattutto di riqualificare i vecchi centri di quar-
tiere, creando, nuovi ‘cuori’ urbani che diano vivibilità a situazioni degradate, senza
costruire cubature eccessive, che risulterebbero senza servizi. Anche Venezia va riqua-
lificata. Innanzi tutto tornando a bloccare integralmente (come era negli anni ’90) i
cambi d’uso degli appartamenti per non aumentare la pressione turistica (che invece va
ridotta e regolamentata).
Dopo vent’anni di attesa, il “Sistema ferroviario metropolitano regionale”, che può
usare i quattro binari del ponte, deve finalmente collegare tutto l’entroterra con la Sta-
zione ferroviaria di Santa Lucia e, in questo caso, anche l’aeroporto. Non è necessaria
una nuova linea per l’Alta Velocità,mentre è possibile velocizzare e raddoppiare l’uso
delle linee esistenti (per Udine e per Trieste) e potenziare da subito la linea esterna dei
Bivi per il trasporto delle merci. Possiamo tornare a fare le scelte strategiche e i piani
urbanistici non per lanciare grandi operazioni speculative, ma per risolvere le criticità,
per soddisfare i bisogni prioritari e servire i cittadini, per valorizzare la città nelle sue
qualità fisiche e sociali, non per favorire la speculazione. Ecco la nostra proposta.
6. Porto Tolle. Dopo la grande vittoria referendaria contro il nucleare stenta ancora
ad affermarsi la consapevolezza che un’alternativa energetica fondata sul sole, le energie
distribuite e l’efficienza energetica passa oggi attraverso la riduzione del consumo delle
fonti fossili e in primo luogo la sconfitta del carbone. Una grande occasione per rilan-
ciare la nostra idea di modello energetico distribuito è costituita dalla giornata di mo-
bilitazione contro il carbone prevista per il 29 ottobre, con manifestazione nazionale a
Adria, nel Delta del Po, e presidi negli altri siti deputati ad ospitare impianti a carbone.
Il governo rinvia la conferenza energetica nazionale e contemporaneamente da il via li-
bera, nei fatti, ad un piano energetico non scritto ma operante, un piano dettato dai co-
lossi dell’energia, a partire da ENEL, fondato sull’uso del peggior combustibile fossile,
il carbone, che alimenta il surriscaldamento globale e inquina pesantemente i territori
dove vengono realizzate le centrali. Eppure, con i recenti referendum oltre 26 milioni
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d’italiani hanno rivendicato il diritto a decidere del proprio futuro, un futuro in cui i
cambiamenti climatici non raggiungano livelli distruttivi per l’ambiente, il benessere e
la stessa specie umana, un futuro di vera sicurezza energetica e di buona e stabile occu-
pazione. Incurante dell’ampio pronunciamento popolare, il governo Berlusconi lancia
invece un “piano carbone” che, oltre a Porto Tolle, riguarda la riconversione di vecchie
centrali come Vado Ligure, La Spezia, Rossano Calabro o addirittura la costruzione
di nuove centrali come Saline Ioniche, con un livello d’investimenti pubblici privati
dell’ordine di 10 MDL di euro.
Il Governo si muove quindi su una linea del tutto opposta a quella degli obblighi vin-
colanti che la UE assegna per il 2020 a ogni Paese membro, primo fra tutti la riduzione
del 20% delle emissioni di CO2. Infatti gli investimenti sul carbone, oltre ad aggravare
il bilancio italiano delle emissioni climalteranti, con pesanti conseguenze sulle bollette
che dovranno pagare i cittadini, sottraggono risorse alle politiche di risparmio energe-
tico e di realizzazione delle fonti rinnovabili. Un vero suicidio: economico, ambientale,
occupazionale.
A Porto Tolle, l’ENEL vuole – anche con modifiche alle leggi e alle normali pro-
cedure, operate da una politica governativa e regionale compiacente – riconvertire a
carbone una centrale della potenza di 2000 MW, nel mezzo del parco del Delta del
Po. La nuova legge regionale “ad aziendam” modifica quella che già regola la presenza
di centrali termoelettriche nel territorio del Parco del Delta del Po, nonostante la pre-
senza del più grande rigassificatore d’Europa, con una saldatura di interessi tra Regione
Veneto e l’azienda energetica per un progetto ambientalmente ed economicamente as-
surdo che vede la netta contrarietà del Consiglio Regionale dell’Emilia Romagna. La
riconversione avverrebbe persino al di fuori di ogni logica energetica, poiché l’Italia ha
una potenza istallata quasi doppia rispetto al picco della domanda, al punto che i pro-
duttori di energia elettrica lamentano che gli impianti vengono oggi usati per un terzo
della loro potenzialità.
Non solo: oggi le maggiori prospettive di nuovi posti di lavoro, nel mondo e in Italia,
sono nei settori delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica, con numeri che in
alcuni Paesi ormai superano l’industria tradizionale; al contrario, la centrale a carbone
porrebbe a rischio l’occupazione già esistente, e quella futura, nell’agricoltura, nel turi-
smo e nella pesca. A causa delle 12 centrali italiane che bruciano carbone il nostro Paese
rischia di pagare multe salate per non aver rispettato gli obbiettivi di Kyoto: il conta-
tore del Kyoto club ci dice che ci stiamo avvicinando al miliardo di Euro. Con i nuovi
impianti del “Piano Carbone” si determinerebbe il quadruplicamento delle emissioni
in atmosfera dei gas serra. Il solo impianto di Porto Tolle emetterebbe in un solo anno
10 milioni di tonnellate di CO2 ( 4 volte le emissioni di Milano), 2.800 tonnellate di
Azoto ( come 3,5 milioni di auto ), 3 milioni e 700 mila tonnellate di ossidi di zolfo (
più di tutti i veicoli d’Italia ) e senza contare il micidiale cocktail di inquinanti come
l’Arsenico, il cromo, il Cadmio e il Mercurio.
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Il tutto in mezzo ad un parco, sito d’importanza comunitaria, considerato dall’UNE-
SCO ( per la parte emiliana ), Patrimonio dell’Umanità quale “eccezionale paesaggio
culturale pianificato che conserva in modo notevole la sua forma originaria”. Un territo-
rio incantevole, uno straordinario esempio di biodiversità, un patrimonio naturalistico
tutelato da due parchi, quello del Veneto (purtroppo a macchia di leopardo) e quello
dell’Emilia Romagna: un insieme di oltre 60 mila ettari di superficie che gli uccelli han-
no eletto ad area di riproduzione. Un patrimonio nazionale ed europeo.
Il tutto rubando acqua al Po il cui bilancio idrico è in crisi e risente della risalita
del cuneo salino che pregiudica la fertilità dei suoli e quindi le eccellenti potenzialità
dell’agricoltura.
Il tutto in un parco dove migliaia di persone vivono di pesca e di miticoltura e dove
grandi potrebbero essere le possibilità di un turismo ecocompatibile solo se si avesse
l’intelligenza di considerare il Delta Po la nostra Camargue.
Il tutto in un territorio soggetto da decenni a rischi idrogeologici a causa della sub-
sidenza e della crisi di apporto sedimentario fluviale nonché dal prevedibile aumento
del livello marino.
Il tutto infine nella Pianura Padana, una delle aree più inquinate del Pianeta: la peg-
giore in Europa, la quarta del Mondo.
Si afferma che il carbone è una fonte di elettricità economica, ma si dimentica di dire
che “ogni dollaro speso in carbone ne causa due di danni, senza contare l’impatto sul clima
e le relative conseguenze”. E’ quanto ci dice l’ultimo autorevole rapporto che ci giunge
dagli Stati Uniti, pubblicato ad agosto sull’American Economic Review che valuta i
danni all’ambiente e alla salute delle centrali USA in circa 53 MLD l’anno.
Il carbone è dunque conveniente per Enel, ma scarica i costi sulla collettività in termi-
ni di malattie respiratorie, incidenti nelle miniere, piogge acide, inquinamento di acque
e di suoli, perdita di produttività dei terreni agricoli e aggravamento dei cambiamenti
climatici: se si calcolassero, anche solo dal punto di vista economico, tutte queste ester-
nalità negative si scoprirebbe che il carbone non è per nulla conveniente. Se si integra il
nostro ragionamento sull’energia con quello sull’acqua, sull’atmosfera, sulla terra, sulla
salute, allora si comprende l’irrazionalità di bruciare il peggior combustibile fossile.
La riconversione a carbone avverrebbe con una tecnologia di combustione che, pur
spinta ai suoi migliori livelli, resta sempre assai più inquinante di quella basata sul gas
naturale, e dannosa per la salute; nel caso di Porto Tolle, i dati di rilevazione e le epide-
miologie mostrano che l’inquinamento e i danni sanitari si estenderebbero per buona
parte della Pianura Padana.
Una centrale per produrre quell’energia elettrica di cui peraltro non abbiamo bisogno
perché, come ho già detto, la potenza installata è quasi doppia rispetto alla domanda di
punta. Infatti l’offerta di energia elettrica è passata dai 75 GW del 2000 ai 104 GW del
2010 con una forte crescita delle rinnovabili, mentre le richieste di punta attualmente
sono pari a 57 GW. In sostanza abbiamo troppe centrali ed insieme una rete elettrica
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obsoleta ed inefficiente che nel 2008 ha perso per strada 20.000 GW. Dunque sarebbe
necessario investire nelle reti e non sulle centrali. E sulle rinnovabili per sostituire le
fonti fossili.
Questi argomenti non sono stati tuttavia sufficienti a far scendere in campo il movi-
mento Sindacale confederale a fianco del movimento ambientalista perché ENEL agita
il ricatto occupazionale in un’area, tra le più svantaggiate del Veneto, chiamata oggi a
fare i conti con la crisi della Grimeca, dei cantieri Visentini e di tante altre aziende. Noi
siamo consapevoli che la fase di transizione dalle fonti fossili non sarà brevissima e che
il movimento sindacale deve necessariamente tener conto di tutte le peculiarità eredi-
tate dalla seconda rivoluzione industriale.
Non ci sfugge che la gestione della trasformazione energetica e produttiva verso
le energie alternative fa i conti con il non sempre facile superamento dell’esistente. E
tuttavia ciò non esime nessuno dal considerare i fatti. La riconversione a carbone di
Porto Tolle comporta a regime il salvataggio di soli 200 posti di lavoro, poco più, poco
meno. Seppure non va sottovalutato che in una fase di transizione di quattro anni, le
opere necessarie alla riconversione dell’impianto richiederebbero una consistente ma-
nodopera aggiuntiva.
L’argomento viene ampiamente utilizzato da Enel e dalle forze politiche e istituzio-
nali colonizzate da questa società per allettare i lavoratori disoccupati e in Cassa Inte-
grazione e le piccole imprese in crisi desiderose di partecipare agli appalti e subappalti.
Si dimenticano però due questioni centrali. La centrale penalizzerebbe il lavoro esisten-
te, migliaia di posti di lavoro nei settori della pesca, del turismo, dell’agricoltura, anche
a causa dei grandi traffici per il trasporto dei materiali, via mare, canali, lagune, fiume.
In sostanza un colpo gravissimo al Parco del Delta del Po, attivo da anni nel lato emi-
liano, con notevoli benefici economico-occupazionali e invece mai realmente decollato
nel lato Veneto, che rischia ora la sua definitiva cancellazione. Le alternative al carbone
non solo esistono, ma produrrebbero un risultato occupazionale incomparabilmente
superiore.
Che cosa si potrebbe fare con i 2,5 miliardi di euro che l’Enel è disposta a spendere
per la riconversione a carbone di Porto Tolle, utilizzandoli invece secondo gli indici di
resa occupazionale e ambientale di quel piano Confindustria 2010/2020 che la Marce-
galia tiene nel cassetto per non disturbare Enel?
Secondo i calcoli di Massimo Scalia si potrebbe attivare un’occupazione 12 volte
superiore! e ad una riduzione nelle emissioni di CO2 di 30 milioni di tonnellate!! Uno
studio di Greenpeace, dimostra che, oltre ad evitare d’immettere nell’atmosfera circa 12
milioni di tonnellate di CO2 e di altri inquinanti, si potrebbe in alternativa:
A. per la fase di costruzione, in confronto ai circa 3.000 posti per soli 4 anni del
carbone, in alternativa si potrebbero occupare 3.850 persone per 10 anni nell’eolico
onshore; 2.900 nel caso dell’eolico offshore; 3.070 nel FV. Ripeto per 10 anni non per
soli quattro anni.
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B. per il funzionamento e la manutenzione degli impianti (occupazione a lungo
termine) in confronto al carbone che occuperebbe solo circa 200 addetti, si occupereb-
bero 1.000 persone nel caso dell’eolico onshore, 750 con l’eolico offshore, 320 nel caso
di investimento nel solare FV, 3.410 attraverso le biomasse. Dunque i posti di lavoro
sono sempre maggiori per gli investimenti in fonti rinnovabili.
A conferma della convenienza anche solo dal punto di vista occupazionale potrei
continuare citando i rapporti del Politecnico di Milano, dell’IRES CGIL, del Consi-
glio Nazionale degli ingegneri. Perché allora non si va in questa direzione? Una ragione
la ricaviamo dalle dichiarazioni di Assoelettrica. La sfacciataggine di questi oligopolisti
è arrivata al punto di affermare che per “ogni 1000 MW di energia rinnovabile che viene
ottimizzata i produttori da fonti tradizionali perdono nel loro insieme 100 milioni di
margini” (Repubblica 8 ottobre 2011). Ne deriva che le nostre ragionevoli alternative
non potranno affermarsi solo invocandole.
Come scrive il nostro amico e compagno Mario Agostinelli:
«La costruzione di un modello di sviluppo sostenibile supportato dalla fonte solare richiede
che si prenda coscienza del fatto che esso non può essere conseguito per opera del mercato e
tanto meno per via tecnica, bensì per via politica. Certamente un diverso modello di svi-
luppo non può prescindere dalle tecnologie e dalle conoscenze che ne rappresentano la base
materiale; tuttavia esse non s’impongono con la forza della necessità o della loro peculiarità
o desiderabilità. Per abbandonare e sostituire un sistema energetico con le caratteristiche
di quello odierno, occorrerebbe contemporaneamente individuare non solo un’alternativa
all’attuale modello di produzione e di consumo e di controllo autoritario delle società, ma
anche sostenerla con grande convinzione politica, anche ricorrendo a imponenti ed estese
lotte, che non possono prescindere da un impegno diretto del mondo del lavoro».
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PAESAGGIO E CONSUMO DI SUOLO NEL VENETO
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sviluppo sostenibile, della partecipazione, della tutela del paesaggio e delle identità sto-
rico-culturali. Ma cos’è in realtà avvenuto negli anni 2000 nel Veneto e come sono stati
recepiti i principi dello sviluppo sostenibile nei piani territoriali ed urbanistici degli
ultimi anni?
Il primo effetto della legge, grazie alle proroghe concesse, fu la corsa dei Comu-
ni alle Varianti di piano per aumentare le superfici e le volumetrie edificabili: nel solo
2005 vennero adottate e presentate alla Regione 1.276 Varianti generali o settoriali
predisposte secondo la vecchia normativa (con un incremento del 220% rispetto alla
media delle Varianti presentate negli anni precedenti) e di queste ben 241 su iniziativa
dei privati (PIRUEA).
Tra il 2002 ed il 2010 si sono realizzati oltre 164 milioni di mc di edifici commercia-
li, industriali e direzionali pur con una diffusa presenza in tutti i comuni di capannoni
ed edifici abbandonati e da anni inutilmente offerti in vendita o in affitto.
Tra il 2000 ed il 2010 si sono ultimate 367.354 nuove abitazioni per una volume-
tria complessiva di oltre 148 milioni di mc. Un’offerta di edilizia abitativa teoricamente
sufficiente (utilizzando lo standard ottimale indicato dalla Regione di 150 mc/abitan-
te) per una popolazione di quasi un milione di abitanti: più del doppio dell’incremento
effettivo di popolazione registrato negli anni 2000, pari a 429.274 abitanti (incremen-
to in larga misura dovuto alla nuova immigrazione). La continua crescita della rendita
fondiaria e gli enormi profitti derivanti dal cambiamento di destinazione d’uso dei ter-
reni, trasformando l’edilizia in un bene rifugio alternativo agli investimenti in borsa o
nel settore industriale, hanno fatto sì che si sia costruito troppo rispetto alla domanda,
ma soprattutto che si sia costruito male, disperdendo le iniziative nel territorio e realiz-
zando tipologie edilizie di lusso, certo non rispondenti alla domanda prevalentemente
costituita da giovani, anziani, lavoratori precari e immigrati.
La regione calcola che tra il 1983 ed il 2006 il suolo urbanizzato sia stato pari a
29.059 ettari, ma i dati relativi alla perdita di terreni agricoli sono enormemente supe-
riori. Tra il 1982 ed il 2010 la superficie agraria totale (SAT) nel Veneto è diminuita
di 298.845 ettari, mentre la superficie agraria utilizzata (SAU) è diminuita di 107.698
ettari. Ancor più impressionante è esaminare l’andamento della perdita annua di suolo
agricolo. Se negli anni Ottanta si registrava annualmente una diminuzione di 72 milio-
ni di mq all’anno di SAT, negli anni Novanta la media è salita a 97 milioni di mq/anno,
per poi raddoppiarsi negli anni 2000 raggiungendo la cifra record di 182 milioni di
mq/anno.
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corrisponde alcuna prescrizione e norma cogente. La voluta genericità della normativa
tecnica, la successiva adozione da parte della Regione dell’impropriamente detto “Pia-
no casa”, con cui si legittimano ampliamenti edilizi e ricostruzioni di edifici al di fuori
di ogni regola edilizia, e nel contempo l’assenza di un progetto strategico per l’edilizia
residenziale pubblica, le nuove norme sull’edilizia rurale, l’esclusione nei Piani inter-
comunali (PATI) dei tematismi relativi all’agricoltura ed all’edilizia residenziale, inco-
raggiano di fatto la prosecuzione delle politiche di indiscriminata cementificazione del
territorio. Per le zone produttive e commerciali il PTRC fornisce solo alcune generi-
che indicazioni di principio, che non hanno in alcun modo condizionato i PAT ed i
PATI adottati dai Comuni negli anni successivi, con i quali si è in generale confermata
la volontà di continuare a consentire il proliferare di detti insediamenti al di fuori di
ogni schema razionale. Nei territori extraurbani vengono identificate quattro categorie
di aree rurali, ma anche in questo caso non si individuano gli strumenti operativi per
incentivarne la salvaguardia e la progressiva riconversione verso produzioni di qualità,
ambientalmente sostenibili, e per tutelare e valorizzare il carattere identitario dei luo-
ghi.
L’unico settore in cui il PTRC fornisce precisi indirizzi d’intervento è quello relati-
vo alla grande viabilità. Un diluvio di nuove infrastrutture stradali e autostradali, i cui
svincoli offrono l’occasione per immaginare, con l’adozione di appositi “progetti strate-
gici regionali”, nuovi mega centri commerciali e nuove polarità insediative extraurbane,
in deroga ad ogni norma urbanistica e ad ogni limite sul consumo di suolo per un raggio
di due chilometri attorno ai caselli. Secondo Paolo Feltrin, uno degli ideologi del pia-
no, questi nuovi insediamenti extraurbani dovrebbero divenire i nuovi “iconemi” della
città diffusa, contenitori metropolitani nei quali far convivere “... grandi mall terziari,
strutture sanitarie, auditorium, centri congressi, complessi commerciali e direzionali,
aree produttive, centri logistici e simili”. Una indicazione che sembra voler giustificare e
nobilitare i molti progetti di cementificazione dei suoli agricoli promossi in questi anni
da Regione e Comuni: da Veneto City tra Dolo e Mirano, a Tessera City nei pressi del-
l’aeroporto di Venezia, a Motorcity nel veronese. Sempre secondo Feltrin, il Passante di
Mestre ed il Grande Raccordo Anulare previsto a Padova (GRAP) dovrebbero offrire
l’occasione per nuove densificazioni urbane: il Passante di Mestre, in particolare, “po-
trebbe essere interpretato come una nuova, più ampia cinta muraria, il nuovo confine
di una diversa città con ambizioni di capitale regionale”.
Tra gli aspetti più negativi del PTRC veneto va poi sottolineato il fatto che non
gli è stata attribuita valenza paesaggistica. Al piano è stato allegato un Atlante ricogni-
tivo degli ambiti di paesaggio, contenente valutazioni sulle caratteristiche ambientali,
storico-culturali e paesaggistiche dei luoghi nonché suggerimenti ed orientamenti per
i programmi d’intervento, ma dette linee di indirizzo non si sono tradotte in norme di
salvaguardia e prescrizioni cogenti per gli altri strumenti della pianificazione territoria-
le e urbanistica, così come richiederebbe il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.
20
Nuovi paradigmi di gestione dell’economia e del territorio
E’ difficile immaginare che dalla crisi strutturale attraversata dal nostro paese e dal
Veneto in particolare si possa uscire riproponendo politiche e strategie degli anni pas-
sati, ovvero un modello di crescita economica fondato su di un illimitato consumo di
risorse ambientali ed energetiche, sulla distruzione dei beni comuni, sulla privatizzazio-
ne dei guadagni e sulla socializzazione delle perdite. Occorre progettare e lavorare per
un diverso modello di gestione dell’economia e del territorio, prendendo coscienza del
fatto che il suolo è una risorsa finita, che i nuovi scenari delle relazioni internazionali
- oltre che ragioni di equità sociale - ci impongono una drastica riduzione della nostra
“impronta ecologica”, che le attività manifatturiere per reggere la competitività devono
innescare processi di aggregazione e devono certificare l’ecosostenibilità del loro ciclo
produttivo ed infine che la valorizzazione e la riqualificazione del paesaggio e delle ri-
sorse ambientali possono essere alla base di nuove attività economiche autosostenibili.
Ma concretamente per quali riforme legislative e per quali scenari di trasformazione
territoriale dobbiamo batterci?
Una riforma legislativa fondamentale dovrebbe, a mio avviso, riguardare il sistema
fiscale. Criterio essenziale della riforma dovrebbe non solo essere quello della diminu-
zione delle diseguaglianze e della redistribuzione della ricchezza (condizione necessaria
per ricreare una adeguata domanda interna e per superare l’attuale crisi da sovrappro-
duzione), ma anche quello di far pagare alle imprese ed a chi opera nel territorio i costi
ambientali con una tassazione crescente in relazione al consumo di suolo (ed in parti-
colare dei suoli più fertili), al consumo di energia proveniente da fonti non rinnovabili
(carbon tax), all’inquinamento indotto ed alle emissioni di gas climalteranti.
Sempre a livello nazionale va rivendicata l’istituzione di un Osservatorio sul consumo
di suolo e l’approvazione di una legge che ponga precisi limiti alle espansioni urbane,
reintroducendo altresì l’obbligo di utilizzare gli oneri di urbanizzazione versati ai Co-
muni esclusivamente per servizi ed opere di riqualificazione ambientale, anziché per la
spesa corrente degli enti locali.
Normative tecniche regionali e comunali, che già oggi nel Veneto prevedono un
limite quantitativo alla trasformazione d’uso dei suoli agrari utilizzati (SAU), do-
vrebbero estendere tale limite a tutte le superfici agrarie (SAT) e dovrebbero imporre
che per il rispetto di tale limite si proceda alla revisione ed al ridimensionamento delle
previsioni espansive già inserite nei PRG vigenti (mentre nell’interpretazione corrente
il limite SAU viene utilizzato solo per le nuove espansioni previste dai PAT e dai PATI
aggiuntive rispetto a quelle dei PRG). Va inoltre cancellata la norma che consente di
derogare in toto dall’applicazione di detti limiti nel caso di progetti speciali di interesse
regionale, quali quelli relativi alle aree limitrofe ai caselli autostradali per un raggio di
due chilometri.
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La pianificazione territoriale ed urbanistica incide profondamente sul livello dei
consumi energetici e sul livello delle emissioni climalteranti e deve quindi confrontarsi
con gli impegni assunti dal nostro paese a livello di comunità europea su questo fronte
(il famoso 20-20-20 programmato per il 2020). La Valutazione Ambientale Strategica
(VAS) che accompagna i diversi piani dovrebbe quindi obbligatoriamente contenere
un bilancio delle emissioni conseguenti all’attuazione del piano (nuove strade, incre-
mento del traffico veicolare, nuovi insediamenti, ...) e precise prescrizioni per l’attuazio-
ne delle misure tendenti a contrastare dette emissioni (rete dei trasporti collettivi, fo-
restazione, agricoltura biologica, norme per l’edilizia ecosostenibile, ...). E’ significativo
che nei casi in cui - su sollecitazione delle organizzazioni ambientaliste - detto calcolo
è stato effettuato i numeri hanno clamorosamente smentito le dichiarazioni di soste-
nibilità di norma contenute in tutte le relazioni di piano: nel caso del PATI dell’area
metropolitana Padova è ad esempio risultato che nel prossimo decennio l’incremento
del traffico favorito dalle nuove strutture viabilistiche produrrà un aumento del 40%
delle emissioni di gas climalteranti ed un aumento del 19% delle polveri sottili, mentre
un ulteriore aumento del 23% delle emissioni sarà causato dai nuovi insediamenti com-
merciali e produttivi previsti diffusamente in tutti i comuni.
Va infine richiesto che le norme tecniche dei PAT e dei PATI impongano per tut-
ti i Piani urbanistici attuativi relativi ad insediamenti produttivi e commerciali, così
come per le nuove infrastrutture viarie, il calcolo delle emissioni climalteranti prodotte
e l’obbligo di misure mitigative e compensative (riduzione dei consumi energetici ed
utilizzo di fonti energetiche rinnovabili, sistemazione a verde degli spazi aperti e delle
coperture, versamento alle casse comunali di contributi economici vincolati all’imple-
mentazione delle reti ecologiche, ...) da porre a carico dei soggetti attuatori.
24
e Ministero per i Beni e le Attività Culturali (15 luglio 2009) finalizzato alla redazione
del Piano paesaggistico, ma gli studi relativi sono ancora in alto mare. L’apposito Co-
mitato Tecnico, a cui partecipano funzionari della Regione e del Ministero, si è riunito
saltuariamente con cadenza trimestrale, mentre i gruppi di lavoro attivati dalla Direzio-
ne regionale del MiBAC e dalle Soprintendenze, a quanto si è potuto sapere nei pochi
incontri pubblici organizzati o dalla lettura delle scarne notizie riportate nel sito web
della Regione, si sono quasi esclusivamente occupati del censimento e della mappatura
dei vincoli paesaggistici esistenti e della delimitazione e rappresentazione dei beni in-
dicati dall’articolo 142 del Codice (parchi e riserve naturali, montagne, litorali, corsi
d’acqua, boschi, zone d’interesse archeologico, ...). Quasi nulla si è d’altra parte fatto
per una reale costruzione sociale del piano, in evidente contrasto con quanto indicato
dalla Convenzione Europea che, estendendo il concetto di paesaggio a tutte le parti del
territorio così come percepite dalle popolazioni, esplicitamente richiede l’attivazione di
procedure di partecipazione degli abitanti nelle definizione e nella realizzazione delle
politiche paesaggistiche. Un obbligo ribadito anche dal Codice dei Beni Culturali.
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trasporti collettivi terrestri e marittimi e la realizzazione di una fitta rete di percorsi
ciclo-pedonali.
Uno degli aspetti più interessanti riguarda riguarda poi le modalità seguite per la
costruzione del piano ed il ruolo fondamentale attribuito alla partecipazione dei cit-
tadini e dei “portatori di interesse”. I principali strumenti di partecipazione sono state
le Conferenze d’area, l’elaborazione delle “Mappe di comunità” e l’attivazione di un sito
web interattivo, nonché la previsione di processi innovativi di governance quali i “Con-
tratti di fiume”, i Progetti integrati di paesaggio e gli accordi di programma.
Già in fase di costruzione del quadro conoscitivo si è promossa la formazione via
internet di un ”Atlante delle segnalazioni”, raccogliendo le segnalazioni di abitanti ed
associazioni (con relative dettagliate schede descrittive) in relazione a quattro temati-
che: beni paesaggistici ritenuti meritevoli di tutela; offese al paesaggio; buone pratiche
paesaggistiche (in relazione in particolare alla gestione delle attività agricole e delle
risorse naturalistiche ed ambientali, all’offerta agrituristica, alla riqualificazione urbana
ed all’inserimento ambientale di nuove infrastrutture); cattive pratiche paesaggistiche.
In diversi contesti territoriali, con l’istituzione di appositi laboratori di progetta-
zione partecipata, sono state costruite le cosiddette “Mappe di comunità” finalizzate a
promuovere il ruolo degli abitanti nella rappresentazione del proprio territorio, degli
spazi maggiormente vissuti, delle tradizioni e dei valori paesaggistici e culturali social-
mente riconosciuti. Mappe realizzate dagli abitanti con l’aiuto di facilitatori, artisti e
storici locali e che sono alla base dell’individuazione degli obiettivi di qualità paesag-
gistica, di valorizzazione dei beni culturali e naturali e di costruzione degli scenari di
trasformazione.
Un ultimo accenno merita il tema dei “Contratti di fiume”, non vi è dubbio infatti
che gli interventi finalizzati alla sicurezza idraulica ed alla riqualificazione funzionale
ed ambientale dei bacini idrografici possono svolgere un ruolo essenziale per la realiz-
zazione di più generali progetti di riequilibrio degli assetti territoriali e di salvaguardia
e/o formazione di nuovi paesaggi. I “Contratti di fiume”, proposti già nel 2000 dal
World Water Forum, prevedono forme di accordo tra pubbliche amministrazioni, as-
sociazioni ambientaliste e di categoria, nonché soggetti privati direttamente interessati,
che permettano di «adottare un sistema di regole in cui i criteri di pubblica utilità,
rendimento economico, valore sociale, sostenibilità ambientale intervengono in modo
paritario nella ricerca di soluzioni efficaci per la riqualificazione di un bacino fluviale».
Forme di accordo in grado di stimolare la progettualità territoriale dal basso, coinvol-
gendo le comunità nella valorizzazione del proprio territorio.
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TASCHE PIENE E TERRITORIO BUCATO
Nei buchi delle cave prolifera la rendita fondiaria e precipita la pianificazione pubblica
Quando si parla di consumo del territorio siamo soliti riferirci alla continua ed ec-
cessiva espansione cementizia sugli spazi ancora liberi. Ma c’è un modo di consumare
il territorio ancora più sciocco e altrettanto definitivo, che è quello di farlo sparire,
vendendolo dopo aver scavato. È il tema delle cave. Il Veneto è la Regione che il mag-
gior numero di cave attive in Italia. La provincia di Treviso in primis, è quella che ha
fornito negli ultimi anni quasi il 60% della ghiaia estratta in regione. Ma tocca anche il
veronese, il vicentino e le altre province.
In Italia la regolamentazione delle attività di cava è particolarmente carente. Bisogna
risalire al Regno d’Italia per trovare una normativa nazionale in materia (Regio Decreto
1443 del 1927). La legge sulla materia e stata poi dalla Repubblica affidata alle Regioni
(DPR 616/78). E in questo quadro il Veneto ha un primato negativo. È infatti l’unica
tra le regioni del centro nord che non è dotata di un piano regionale di escavazione. Tra
le regioni del sud (isole escluse) c’è invece il primato positivo della Puglia che è l’unica
ad averlo. Il piano per le attività di cava (PRAC) doveva esser fatto secondo quanto
previsto dalla legge regionale sulle attività di escavazione, che risale al 1982 (L.R. 44).
Sono passati ben tre decenni e ancora il PRAC non ha visto la luce. Secondo la legge
dell’82 le autorizzazioni a scavare le concede la provincia, però solo dopo l’approvazio-
ne del PRAC. Dunque vige da trent’anni in Veneto un regime transitorio nel quale le
autorizzazioni vengono date dalla Regione senza alcuna pianificazione, attenendosi al
solo criterio fissato dalla legge: non è scavabile più del 3% in caso di sabbie e ghiaie, e
del 5% in caso di argille, rispetto alla superficie agricola dei comuni identificati come
scavabili. Nelle altre regioni l’autorizzazione a cavare viene data perlopiù dal comune,
oppure dalla provincia.
È noto come la lobbie dei cavatori sia particolarmente attiva e influente, e come
il meccanismo autorizzativo in mano alla Regione si sia prestato a pesanti ombre di
illegalità. Il capo dell’ufficio geologia della Regione, Michele Ginevra, venne arrestato
nel 2002 con 17.000 euro in tasca in un ristorante di Pieve di Soligo, ospite di un ca-
vatore. Disse che si trattava di una delle tante, cospicue gratifiche che da un decennio
riceveva da alcuni cavatori per agevolare le autorizzazioni. Il processo iniziò solo anni
dopo, quando il funzionario era già deceduto, ma restavano i verbali della confessione.
In primo grado gli imputati furono condannati a parecchi anni di reclusione e a pene
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pecuniarie, nel 2010 furono invece assolti in appello. In ogni caso, la vicenda dimostra
come la centralizzazione regionale ben si presti a creare zone di opacità nell’attività
amministrativa. È dunque urgente che si approvi il PRAC, e di conseguenza il potere
di autorizzazione passi alle province, più vicine ai comuni e con apparati amministrativi
molto più ridotti e più facilmente controllabili.
In Consiglio Regionale ci fu un tentativo di coinvolgere le province nelle autoriz-
zazioni. Nella finanziaria del 2004 si stabilì che il parere della Provincia diventasse da
consultivo a vincolante. Il meccanismo è stato però aggirato attraverso la valutazione di
impatto ambientale, di competenza regionale, e dunque di fatto resta tutto in capo alla
Regione tranne qualche ampliamento.
Sanzioni e controlli
L’azione di controllo e di sanzione, per quello strano combinato legislativo che si
ricordava sopra, è in capo alle province, che versano poi alla Regione l’incasso delle
sanzioni.
La Provincia di Treviso ha avviato una campagna di controllo delle escavazioni sotto
falda, attraverso un innovativo sistema di ecoscandaglio delle cave in falda. Si è così
accertato un volume di 358.000 mc di materiale scavato in più rispetto a quanto auto-
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rizzato. Solo una parte è stato sanzionato, perché in caso di infrazioni avvenute più di
5 anni prima non si può procedere, e il più delle volte non vi è la possibilità di datare
esattamente l’abuso. L’importo delle sanzioni sarà comunque inferiore, per il cavatore,
di quanto ricavato dalla vendita del materiale estratto in più. La legge regionale stabili-
sce infatti che ai fini del calcolo della sanzione sia la Camera di Commercio provinciale
a fissare un valore di mercato per la ghiaia estratta. Questo valore non viene aggiornato
da anni, e dunque si ha un valore sanzionatorio di 6,36 a mc, che viene ridotto ad un
terzo per la ditta che provvede al pagamento entro i termini senza far ricorso. Quindi
le sanzioni della Provincia non hanno alcun potere deterrente: il cavatore ci guadagna
comunque anche se viene beccato e sanzionato.
Appare dunque urgente portare le sanzioni a un multiplo del prezzo commerciale
stabilito dal listino camerale. Nel disegno di legge della Giunta Galan si prevedeva di
aumentare la sanzione di tre volte. Ma poiché esiste la riduzione di un terzo ai sensi
della normativa nazionale, anche questo aumento sarebbe insufficiente a dare un valore
deterrente. Bisognerebbe prevedere un aumento di almeno 6 volte il valore della Came-
ra di Commercio.
Indennizzi
Ai sensi della legge regionale, i cavatori versano ai comuni dove scavano un contri-
buto di indennizzo. Attualmente il contributo è di 0,62 euro (1.200 Lire) a metro cubo
in Veneto. In alcune regioni d’Italia è stato elevato a 2,00 euro. In Lombardia questo
contributo spetta anche alle province per il 15%. In Emilia Romagna sono ripartiti tra
Comune, Provincia e Regione. A noi pare corretto che, viste le ripercussioni che le atti-
vità estrattive hanno sul territorio, vi sia un indennizzo anche alla Provincia, competen-
te sia sulle infrastrutture di carattere provinciale, sia sull’attività di controllo dell’attività
di cava. Un contributo aggiuntivo e non sostitutivo di quello comunale.
I margini di guadagno dell’attività estrattiva, pur nella congiuntura economica sfavo-
revole, sono comunque tali da consentire aumenti significativi del contributo. Secondo
i dati di Legambiente, in Veneto i canoni pagati dai cavatori corrispondono al 4,9%
del prezzo di vendita: 4.362.591 Euro di canoni a fronte di un prezzo di vendita di
87.955.462 Euro. Tutt’altro che una tariffa insostenibile, dunque.
Nella nuova legislazione si dovrebbe prevedere un contributo, indicizzato e non fis-
so, che ci avvicini ai 2 Euro. Il Consiglio Regionale dell’Emilia Romagna ha approvato
a marzo di quest’anno una risoluzione a del Gruppo SEL-Verdi che impegna la Giunta
a portare il costo da 0,57 Euro al metro cubo a 2,00 Euro.
Conclusioni
L’attività di escavazione è uno degli elementi del consumo del territorio, tra i più
impattanti per la rilevanza del danno e la sua connessione con l’aspetto urbanistico e
infrastrutturale e con l’aspetto strettamente ambientale della salvaguardia del territo-
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rio. L’escavazione costituisce inoltre il meccanismo principale di approvvigionamento
della materia prima per la cementificazione del territorio, e sta dunque a monte del
diluvio cementizio che deve essere oggi uno degli obbiettivi di un attacco critico verso
un modello di sviluppo vorace da superare e riconvertire. Per citare Edgar Morin: “Oc-
corre reinventare questo concetto di sviluppo, la cui applicazione ovunque nel mondo
distrugge le solidarietà tradizionali, fa dilagare la corruzione e l’egocentrismo. Bisogna
che il concetto di sviluppo subisca una metamorfosi in quello di fioritura”.
L’intero settore abbisogna dunque di un quadro normativo adeguato alla contem-
poraneità, e che crei un minimo di omogeneità sul territorio nazionale. Le Regioni
lasciate a se stesse si sono dimostrate infatti largamente supine ai desiderata dei cavatori,
non solo al Sud ma anche in una Regione come il Veneto, dove i cavatori costituisco-
no comunque una delle più potenti lobbies, i cui interessi sono stati messi alla pari, e
spesso privilegiati, rispetto agli interessi delle comunità e del territorio. Per invertire
la tendenza la Regione dovrebbe emanare regole certe e pianificare l’attività di cava in
base ai fabbisogni realistici, tenendo conto dei volumi da scavare già autorizzati e della
quota di recupero e riciclo degli inerti, che dovrà essere via via crescente e incentivata,
anche attraverso la prescrizione nei capitolati di opere pubbliche di utilizzare quote di
materiale riciclato. Tenendo nel computo anche le escavazioni in alveo, che passano per
regimazione idraulica ma che comportano la vendita di inerti e dunque vanno a ridurre
il fabbisogno. Dovrebbe poi aumentare il costo del materiale per chi lo scava e lo vende,
elevando gli indennizzi e ripartednoli tra i diversi enti. E rendere efficaci e deterrenti
le sanzioni per chi scava oltre l’autorizzato, superando un meccanismo che allo stato
attuale è premiante per chi sgarra e non per chi rispetta le regole.
La questione dell’escavazione si intreccia con gli altri “malanni” del territorio veneto:
la mancanza di una seria programmazione degli interventi per la difesa idrogeologica
del territorio, che lascia spazio all’attivismo interessato dei cavatori, la mancanza di una
pianificazione seria e vincolante sull’urbanizzazione del territorio, che lascia spazio a
meccanismi derogatori volti a produrre enormi colate di calcestruzzo, la programma-
zione confusa delle opere viarie e infrastrutturali. Si propone dunque di considerare la
questione all’interno del più generale quadro del conflitto in atto contro il territorio e
contro l’ambiente. La crisi la si vuol far pagare nei suoi costi sociali ai ceti popolari, e
ci si vuole pure aggiungere il costo ambientale di un assalto al territorio e all’ambiente
giustificato sotto la falsa insegna delle esigenze occupazionali e lavoristiche. La rendita
fondiaria va a braccetto con la speculazione finanziaria, per depauperare il paese e i suoi
abitanti e arricchire i sodali della cricca globale.
Sinistra Ecologia Libertà è nata anche per superare, già dalla traccia programmatica
della sua denominazione, le contrapposizioni esclusive tra le ragioni dell’ambiente, del
lavoro e dei diritti, e per includerle in una proposta di modernità nuova, all’altezza del
nuovo secolo.
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Sinistra Ecologia Libertà
TERRA NOSTRA
Riassetto idrogeologico, adattamento, messa in sicurezza e cura del territorio
sono la prima urgente grande opera pubblica di cui ha bisogno l’Italia
L’assenza di qualsiasi riferimento ai temi della qualità dello sviluppo e alla sostenibilità
ambientale nel recente discorso di insediamento del Presidente del Consiglio ci ha delusi
e ci preoccupa perché sono migliaia i cittadini italiani in lotta da mesi con il fango. Tra
economia ed ecologia vi sono molti più legami di quelli che tanti economisti assai poco in-
novatori e riformatori riescono a vedere: un territorio sicuro per i cittadini e per le attività
produttive è la condizione prima di qualsiasi sviluppo possibile, un paesaggio di qualità è
la ricchezza fondamentale dell’Italia. Non possiamo più sprecare soldi e natura, non vo-
gliamo perdere altre vite umane.
33
suolo di circa 36.500 ettari l’anno, ossia 100 ha ogni giorno, un ritmo doppio rispetto al de-
cennio precedente. Il processo è evidente nelle grandi città: ad esempio, a Roma l’espansione
dell’area urbana ha portato a una crescita del suolo impermeabilizzato dal 4% nel periodo
1994-2000 al 7% nel periodo 2000-2006. Il consumo e l’impermeabilizzazione del suolo
sono tra le principali cause delle morti e delle devastazioni che gli eventi meteorologici estre-
mi causano sul territorio italiano (anche quando non sono estremi). Con circa 45 milioni
di tonnellate di cemento prodotto nel 2008, il nostro Paese è al quarto posto nel mondo
per rapporto tra cemento prodotto e superficie territoriale e al quinto posto per rapporto tra
cemento prodotto e numero di abitanti.
La protezione e la cura del territorio sono una vera riforma e una “grande opera”. La
proponiamo alle forze sociali, politiche, economiche e al Governo e ne facciamo da oggi un
impegno costante del lavoro politico di SEL, innanzitutto attraverso una campagna di di-
scussione e consultazione che svilupperemo nazionalmente e in tutte le regioni e negli Enti
Locali dove siamo presenti, anche attraverso proposte precise ed iniziative istituzionali.
(novembre 2011)
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Sinistra Ecologia e Libertà
Coordinamento regionale Veneto