Dario Bressanini
ISBN edizione cartacea:
9788858016022
Fotografie di
Barbara Torresan
Illustrazioni: Shutterstock
Images, tranne “I tagli del
bovino adulto”, “I tagli del
maiale”, “I tagli del pollo”
(Stefano Trainito)
Capretto 75 19
Cavallo 74 20
Coniglio 75 20
Fagiano 69 24
Gallina 66 21
Coscia di
maiale 75 20
leggero
Coscia di
maiale 73 20
pesante
Pollo 70 19
Struzzo 76 21
Tacchino 74 18
FONTE: Banca dati INRAN,
Istituto Nazionale di Ricerca
per gli Alimenti e la
Nutrizione.
ACQUA
La succosità di un pezzo di
carne è uno dei parametri
principali, insieme al sapore, al
colore e alla tenerezza, che il
consumatore considera nel
valutare un piatto a base di
carne. Abbiamo appena visto
che l’acqua è il componente
principale di tutta la carne, ma
se circa i tre quarti di un pezzo
di carne cruda sono composti di
acqua, come mai quando la
tagliamo non la vediamo
fuoriuscire? Il motivo è che una
parte dell’acqua, circa il 5%, è
strettamente legata alle
proteine e, quindi,
impossibilitata a muoversi,
mentre il resto è intrappolata
per capillarità nello spazio tra
le proteine delle fibre
muscolari. Quando cuociamo la
carne, le proteine perdono o
riducono la possibilità di
segregare l’acqua che, quindi,
viene liberata. Questo è il
motivo per cui la carne troppo
cotta diventa asciutta: non
riesce più a trattenere parte dei
cosiddetti “succhi”, cioè acqua
con dissolte varie sostanze.
Con così tanta acqua a
disposizione non stupisce che
la carne sia facilmente preda di
microrganismi. Dopo tutto è un
cibo altamente nutriente non
solo per noi esseri umani, ed è
per questo che uno dei più
antichi modi di conservazione
della carne, l’essiccazione,
sfrutta il fatto che batteri e
muffe non possono proliferare
senz’acqua. Con l’avvento dei
frigoriferi e dei congelatori
questo tipo di conservazione è
diventato sempre meno
comune, almeno nei Paesi
occidentali, ma vi sono ancora
ricette tradizionali che usano la
carne essiccata.
Congelare e surgelare
Il congelamento, anche
casalingo, è un metodo ormai
comune di conservazione della
carne cruda. I freezer casalinghi
sono mantenuti solitamente a
−19 °C: a queste temperature le
reazioni chimiche di
decomposizione della carne
sono quasi completamente
ferme e quindi, con qualche
eccezione, la carne può essere
conservata anche per alcuni
mesi.
CONSIGLIO
Sarà capitato anche a
voi di togliere dal
congelatore una
bistecca o un petto di
pollo, congelati crudi,
e di notare macchie di
colore diverso dove la
carne sembra
addirittura cotta.
Questo fenomeno è
dovuto alla
disidratazione
superficiale della
carne: l’aria contenuta
nel freezer è
particolarmente secca
e può disidratarla
causando una
denaturazione delle
proteine simile
visivamente a quanto
avviene con una
cottura. La carne è
ancora perfettamente
commestibile, anche
se le zone
danneggiate saranno
dure e asciutte. Per
evitare questo
fenomeno ricordatevi
di avvolgere molto
bene con pellicola per
alimenti la carne che
congelate, in modo da
ridurre l’esposizione
all’aria.
LO SAPEVATE CHE?
L’azoto liquido
tenuto a −196 °C
viene utilizzato
per surgelare pesci
come il tonno, in
modo tale che il
processo non
danneggi la
struttura della
carne di questo
prelibato, e
costosissimo,
pesce.
Se invece il raffreddamento è
piuttosto lento, come avviene
nel congelatore domestico, si
formano meno cristalli, ma più
grossi. Così facendo
danneggiano le cellule,
bucandone la membrana. Le
conseguenze le vediamo una
volta che scongeliamo la carne:
i danni prodotti dai grandi
cristalli di ghiaccio portano a
una fuoriuscita dei succhi della
carne, che sarà quindi più
asciutta una volta cotta. Se per
alcune ricette in umido questo
effetto può non essere molto
importante, per bistecche e
arrosti è consigliabile usare
carne che non avete congelato
voi, a meno di non possedere un
abbattitore, ma ancora meglio
carne che non è mai stata
surgelata.
Se vi trovate nella condizione
di dover congelare delle
bistecche perché i vostri ospiti
vi hanno dato buca e non
potete certo mangiarne cinque
da soli, potete asciugarle con
della carta assorbente da
cucina, depositarle su una
teglia di metallo ricoperta con
carta da forno e metterle in
freezer. Non coprite le
bistecche altrimenti ne
rallenterete il raffreddamento.
Una volta congelate,
avvolgetele bene,
singolarmente, in un sacchetto
da freezer a chiusura ermetica
avendo cura di far uscire più
aria possibile.
Attenzione però: anche se gli
alimenti sono stati surgelati
correttamente, lasciandoli
troppo a lungo nel freezer si
permette comunque ai cristalli
di ghiaccio di crescere,
danneggiando le cellule.
CONSIGLIO
Durante la fase di
scongelamento la
carne non deve mai
scaldarsi troppo, per
evitare proliferazioni
batteriche. Se avete
tempo potete togliere
molte ore prima la
carne dal freezer e
riporla nel frigorifero,
dentro un contenitore
per evitare che colino
dei liquidi. Se invece
avete fretta, la
strategia più
efficiente è metterla
in un sacchetto di
plastica con chiusura
a zip, cercando di
eliminare il più
possibile l’aria
contenuta, e
scongelarla usando
un filo di acqua
fredda corrente,
tenendola immersa in
una bacinella. Non
usate l’acqua calda e
neppure il microonde:
rischierete di
cuocerne alcune zone
perché l’assorbimento
delle microonde non è
omogeneo e uniforme.
PROTEINE
A Natale, tra cenoni e pranzi, il
cibo la fa da padrone. I grandi si
attardano a tavola, mangiando,
chiacchierando e mangiando
ancora mentre i bimbi hanno
spesso fretta di scappare dal
tavolo per andare a divertirsi
con i giochi ricevuti. Un anno i
miei figli ricevettero in regalo
un giocattolo che degnarono di
poca attenzione. Una sorta di
passatempo con pezzi da
incastrare a piacimento. Sul
divano, aspettando il caffè per
digerire il pranzo, come al solito
ricco di portate di carne,
cominciai a giocherellare con
quei pezzi tondi di plastica
lucida e mi venne in mente di
utilizzarli per uno scopo che
forse gli ideatori non avevano
previsto: illustrare la struttura
delle proteine. Da allora li uso a
lezione con i miei studenti
all’Università e li porto sempre
con me quando vengo invitato
a tenere delle conferenze sulla
scienza in cucina.
Il 20% circa di un pezzo di
carne è costituito da proteine,
un termine che ormai fa parte
del linguaggio comune. Ma cosa
sono esattamente? Sono una
famiglia di molecole
indispensabili per la vita di
qualsiasi essere vivente,
composte a loro volta da
molecole più piccole, chiamate
amminoacidi, legate insieme a
formare lunghe catene. Le
proteine nel nostro corpo
svolgono molte funzioni:
possono fungere da materiale
da costruzione per,
letteralmente, fabbricare dei
tessuti come i muscoli, per
esempio. Oppure possono
svolgere una funzione di tipo
chimico, prendendo parte, per
esempio, alla costruzione di
altre molecole di cui il nostro
corpo ha bisogno e che produce
a partire da ciò che mangiamo.
In questo caso vengono più
spesso chiamate enzimi.
Oppure possono svolgere una
funzione di segnalatori, per
esempio del gusto dolce o
salato sulla nostra lingua, o
della temperatura e tanto altro
ancora. Se ne mangiamo in
eccesso il nostro corpo può
persino usarle come
combustibile per produrre
energia, visto che hanno lo
stesso contenuto energetico, in
peso, dei carboidrati.
L’ANGOLO CHIMICO
LE PROTEINE ANIMALI E
VEGETALI Spesso si sente
parlare di “proteine
animali” e “proteine
vegetali” come se
avessero proprietà
chimiche e nutrizionali
sostanzialmente diverse.
In realtà tutte le
proteine,
indipendentemente
dall’origine, sono
costituite sempre dagli
stessi amminoacidi, in
cui saranno poi
scomposte durante la
digestione.
SOLUBILITÀ Alcune
proteine sono solubili in acqua
in certe condizioni di pH,
temperatura e concentrazione
di sale, il cloruro di sodio o
NaCl. La miosina è solubile sia
in acqua completamente pura,
o distillata, sia in acqua molto
salata, mentre la solubilità è
minima a concentrazioni di sale
intermedie. Quando spargiamo
del sale su una fetta di carne la
miosina inizia a sciogliersi
mentre l’actina è molto meno
solubile. Scopriremo come
questa caratteristica possa
essere sfruttata in cucina a
nostro vantaggio.
Il collagene a temperatura
ambiente non è solubile in
acqua, che sia salata o meno,
ma si può solubilizzare
aumentando la temperatura
oppure modificando il pH, sia in
ambiente acido che alcalino.
GELIFICAZIONE Tutti
sanno che l’albume, scaldato,
diventa opaco e semisolido
intrappolando l’acqua che
contiene, circa il 90% in peso.
Questo fenomeno, chiamato
gelificazione, è dovuto alla
coagulazione delle proteine di
cui è composto, per il restante
10%. Non è solo l’albume ad
avere questa proprietà che è,
anzi, piuttosto diffusa tra le
proteine. La miosina, una volta
sciolta in acqua, se riscaldata a
temperature superiori ai 45 °C
comincia a coagulare e a 50-55
°C forma un gel che intrappola
l’acqua presente, un po’ come fa
l’albume. Avete presente come
è fatto internamente un
würstel? Ecco, la sua
consistenza è dovuta
primariamente al gel di miosina
che conferisce la particolare
struttura gelatinosa di questo
prodotto e di moltissimi altri
prodotti trasformati.
Il collagene invece riesce a
sciogliersi e a liberare le singole
catene proteiche solo se
sottoposto a temperature
superiori ai 65-70 °C per un
tempo piuttosto lungo. Quindi
in tutte le ricette a cotture
veloci non gioca un ruolo
apprezzabile nella formazione
di un gel.
EMULSIFICAZIONE Le
proteine sono anche degli
ottimi emulsionanti. Riescono
cioè a mantenere miscelati
acqua e grassi senza che si
separino, un po’ come succede
nella maionese classica dove
l’emulsionante in quel caso è
principalmente la lecitina.
Potete però fare una maionese
anche solo con l’albume se
volete, sfruttando le proprietà
emulsionanti delle proteine
contenute. A volte l’effetto
emulsionante delle proteine
della carne è una conseguenza
indesiderata, per esempio nella
preparazione di un brodo.
L’emulsione dei grassi porta a
un intorbidimento del liquido
quando di solito si cerca di
ottenere, per un fattore
puramente estetico, un brodo
limpido.
GRASSI
Siamo in un momento storico
in cui i grassi alimentari
vengono demonizzati e
assistiamo a una proliferazione
di alimenti senza grassi. In
realtà così come i carboidrati e
le proteine, i grassi in giusta
quantità sono necessari per il
nostro organismo. A parità di
peso contengono più del doppio
dell’energia dei carboidrati e
delle proteine (9 kcal/g contro 4
kcal/g) e quindi sono usati dagli
animali, compreso l’uomo,
principalmente come serbatoio
energetico.
Un filetto di bovino può
avere il 4-8% di grasso e uno di
agnello dal 4 al 6%. Le
variazioni all’interno di una
specie possono però essere
notevoli: pensate che la carne
della razza bovina giapponese
Wagyu, quella del celeberrimo
manzo di Kobe, può avere un
contenuto di grasso che si
avvicina al 40%. L’animale che
ha subito la riduzione più
drastica del contenuto di grassi
è il maiale. Ora un filetto di
maiale può contenere l’1-2% di
grasso, una quantità in linea, o
addirittura inferiore, a quella di
un petto di pollo o tacchino.
Grassi di animali diversi non
solo sono presenti in
percentuali diverse, ma
possono anche avere una
diversa composizione chimica,
che può variare con
l’alimentazione, la razza e l’età.
Oca e anatra, per esempio,
hanno un contenuto di grassi
insaturi superiore a quelli
saturi. La composizione dei
grassi di maiale e pollame è
abbastanza facilmente
influenzata dall’alimentazione
e negli ultimi tempi, in linea con
le direttive sanitarie
internazionali che suggeriscono
di ridurre il consumo di grassi
saturi, si è operata una
selezione genetica per ridurne il
contenuto, e sono stati
formulati mangimi arricchiti di
grassi insaturi, provenienti da
semi oleosi. Per i ruminanti
invece, come i bovini, è molto
più difficile modificare la
composizione del grasso poiché
la produzione di grassi saturi
dipende anche dai batteri
presenti nel rumine
dell’animale, che idrogenano i
grassi insaturi prima che
arrivino nell’intestino e
vengano assorbiti. Per questo
motivo i grassi di bovini e ovini
sono prevalentemente saturi.
Il grasso è presente negli
animali, e quindi nella carne
che acquistiamo, in almeno
quattro posti diversi. Se, come
faccio io, la prima cosa su cui vi
avventate in un pollo arrosto o
alla diavola non è il petto, che
lascio volentieri a qualcun
altro, ma la pelle, saprete
sicuramente che uno dei motivi
per cui questa parte del pollo è
così succulenta risiede nel fatto
che la parte esterna – che deve
essere ben arrostita e croccante
– è saporita e secca, ma è
controbilanciata dal grasso,
ormai quasi del tutto sciolto,
che risiede sotto. I grassi
sciolgono le molecole gustose
create dalla cottura e le
intrappolano, facendole
percepire alle nostre papille
gustative. Tutti gli animali
accumulano grasso sotto la
pelle, in maniera diversa e in
zone diverse del corpo. E lo
fanno soprattutto per
proteggersi dal freddo, visto
che i grassi sono un ottimo
isolante. Molte ricette
tradizionali italiane di maialini,
come il porceddu, il maialino
sardo, devono la loro popolarità
anche al grasso sottocutaneo
del maiale. Questo tipo di
grasso nel maiale adulto viene
utilizzato per produrre salumi,
tra cui il più noto è sicuramente
il lardo, il grasso della zona
dorsale.
Un’altra zona dove gli
animali immagazzinano il
grasso è la cavità addominale,
per proteggere alcuni organi
come i reni – chiamati anche
rognoni in gergo gastronomico
– o il cuore.
Questo tipo di grasso,
chiamato “sego” nei bovini,
veniva usato per friggere ma è
ormai ben poco utilizzato nella
cucina casalinga, sostituito da
altri grassi alimentari. Solido a
temperatura ambiente in
un’epoca in cui i frigoriferi non
erano ancora entrati nelle
cucine, il sego si conservava
senza problemi in un
contenitore, a differenza dello
strutto. Trovava applicazioni
soprattutto al di fuori della
cucina: come lubrificante e per
fabbricare saponi o candele.
Vi sono poi cuscinetti di
grasso che separano muscoli
diversi. Servono per farli
scorrere più facilmente durante
il loro movimento. Nei tagli di
carne che troviamo in vendita
questo grasso è quasi sempre
eliminato ma può venire
lasciato se la carne è destinata a
essere macinata, per esempio
nella preparazione degli
hamburger, e in questo caso
può arrivare al 20-30% del
totale.
Il grasso più importante dal
punto di vista gastronomico
però è sicuramente quello
disperso tra i fasci muscolari.
Questo tipo di grasso si chiama
marezzatura o
marmorizzazione. Il
consumatore moderno spesso
preferisce, quando deve
acquistare delle bistecche,
carne che non contenga grasso
intramuscolare visibile a occhio
nudo. E sbaglia di grosso,
perché poi quando la cucina a
casa propria si chiede come mai
non sia così saporita e
succulenta come quella che ha
mangiato nella Steak House.
Una bistecca ben marezzata, a sinistra,
e una con poco grasso intramuscolare,
a destra.
Il grasso tra le fibre
muscolari ha due funzioni
importantissime: prima di tutto
rende più facile la masticazione
delle fibre e del tessuto
connettivo. Durante la cottura
si scioglie e si insinua tra le
fibre e i fasci agendo da
lubrificante, permettendo a
questi di scorrere più
facilmente. L’effetto finale è
che la carne, a parità di cottura,
sembra sciogliersi in bocca e
risulta più morbida di un pezzo
contenente meno grasso.
LO SAPEVATE CHE?
La vitamina C
aumenta
l’assorbimento del
ferro non eme da
parte del nostro
corpo.
TESSUTO MUSCOLARE
Un muscolo è fatto un po’ come
un cavo elettrico molto grande
costituito da cavi più piccoli a
loro volta composti da lunghi
filamenti. Esattamente come
per i cavi elettrici, a ogni livello
vi è una sorta di guaina che
protegge e separa i fili tra loro.
Tutte queste guaine sono
formate da un tessuto
connettivo, composto
principalmente da una proteina
fibrosa che abbiamo già
incontrato, il tropocollagene. Il
tessuto connettivo è una sorta
di colla biologica che lega
insieme tessuti diversi, per
esempio il muscolo a un osso,
oppure lega insieme filamenti
più piccoli per formare la
struttura muscolare.
STRUTTURA GERARCHICA DI UN MUSCOLO
FIBRE Le cellule dei muscoli
hanno una forma particolare:
sono allungate e prendono il
nome di “fibre”. Sono molto
sottili, del diametro di un
capello o anche meno, ma
possono essere molto lunghe,
tanto quanto il muscolo intero.
Le fibre sono ricoperte da una
guaina di tessuto connettivo
chiamata “endomisio” che non
si scioglie neppure a 100 °C.
Fortunatamente rappresenta
meno del 10% del tessuto
connettivo totale di un muscolo
e quindi non ha quasi influenza
sulla percezione della tenerezza
o meno di un pezzo di carne.
MIOFIBRILLE E
SARCOMERI All’interno di
una fibra muscolare vi sono
alcune migliaia di miofibrille,
chiamate a volte
semplicemente fibrille. Sono un
po’ come i singoli fili di rame
che si vedono quando togliamo
la guaina di plastica da un
piccolo filo elettrico. Ogni
miofibrilla è a sua volta
composta da unità elementari,
chiamate sarcomeri, in grado di
allungarsi e contrarsi in
sincronia quando arriva
l’impulso nervoso. Il
movimento avviene grazie ai
filamenti di actina e di miosina
– le principali proteine
costituenti – che sono in grado
di scorrere le une
inframmezzate alle altre.
CONTRAZIONE MUSCOLARE
Il meccanismo di contrazione
muscolare funziona grazie al
movimento di actina e miosina.
Quando tutti i sarcomeri sono
contratti lo è anche il muscolo.
In questa posizione l’actina e la
miosina sono legate insieme
formando l’actomiosina.
Osservate il bicibite del
vostro braccio destro a riposo.
Toccatelo, sentite il muscolo
sotto la pelle? Ora contraetelo,
un po’ come se doveste giocare
a braccio di ferro. Sentite come
è molto più duro? Noterete
anche che il muscolo contratto
è più corto ma si è espanso
nella direzione perpendicolare,
lasciando quasi invariato il
volume totale. Questo perché
ogni sarcomero contraendosi
aumenta di spessore affinché
actina e miosina possano
interconnettersi.
MUSCOLO Al livello
gerarchico più alto, infine,
abbiamo il muscolo, composto
da più fasci tenuti insieme dal
perimisio e fasciato
esternamente dall’epimisio: il
tessuto connettivo biancastro
che si vede a occhio nudo. È
generalmente più duro delle
guaine che circondano fibre e
fasci, specialmente
avvicinandosi all’osso, perché
deve tenere insieme tutto il
muscolo e permettergli di
contrarsi e distendersi
scivolando su muscoli vicini.
Muscoli adiacenti nell’animale
sono raccolti in gruppi
muscolari. A volte il macellaio
asporta e separa i singoli
muscoli, come il filetto o il
girello. In altri tagli,
specialmente se provengono da
parti meno nobili dell’animale,
più muscoli sono sezionati
assieme e venduti a fette o a
blocchi, oppure macinati.
TESSUTO CONNETTIVO
Come dice il nome, il tessuto
connettivo serve a tenere
insieme parti diverse. Fasci
muscolari e fibre all’interno di
un muscolo, come abbiamo
visto, o ancora per legare
insieme parti diverse, come
muscoli e ossa, oppure per
canalizzare il sangue. È formato
principalmente da proteine:
tropocollagene soprattutto, ma
anche elastina, laminina e altre.
OSSA
Non le possiamo certo
classificare come carne.
Dopotutto non le
mangiamo. Però hanno un
ruolo importante in alcune
ricette, per le sostanze che
contengono: il midollo,
nell’ossobuco, e in generale
il tessuto connettivo nella
preparazione del brodo.
L’ANGOLO CHIMICO
Sono stati identificati
almeno 28 tipi di
arrangiamenti diversi di
tropocollagene, ma nei
muscoli sono presenti
quasi esclusivamente il
collagene I e il collagene
III.
La reticolina, o tessuto
connettivo reticolare, ha una
struttura a rete molto fine e,
purtroppo, come l’elastina è
insolubile in acqua. Ricopre
alcuni organi come i polmoni e i
reni, ma anche alcuni muscoli:
l’epimisio, per esempio, può
essere ricco di reticolina, oltre
che di elastina, e quindi deve
essere eliminato col coltello,
altrimenti in cottura diventa
duro e immangiabile.
Il collagene, infine, è
anch’esso formato da filamenti
di tropocollagene, ma legati
insieme in modo diverso
rispetto alla reticolina. La
quantità di collagene in un
boccone di carne cruda
influenza direttamente la
sensazione di morbidezza, o di
durezza, quando lo mettiamo
sotto i denti.
Le fibre di collagene si
accorciano se scaldate, come
vedremo meglio in seguito. La
temperatura a cui avviene
questa contrazione è diversa
per specie differenti. Per i pesci
è circa 45 °C mentre per i
mammiferi è circa 60 °C, ed è
questo il motivo principale per
cui, generalmente, i pesci
devono essere cotti a
temperature inferiori rispetto
alla carne dei mammiferi.
Le guaine dei fasci – il
perimisio – sono fatte di
collagene che, a differenza della
reticolina, è solubile in acqua.
Dopo essersi accorciate, se
riscaldate in ambiente acquoso,
le fibre di collagene si possono
sciogliere, anche se lentamente,
liberando il tropocollagene e i
singoli filamenti proteici
ottenendo la gelatina. Il
risultato finale, a ricompensare
la vostra pazienza per la lunga
cottura, è un aumento della
lubrificazione tra fibre e fasci,
che rende la carne più morbida
e succulenta.
LE FRATTAGLIE O IL “QUINTO
QUARTO”
La cucina regionale italiana
è nata povera, figlia della
disponibilità spesso scarsa
di materie prime di qualità
non certo elevata. Dopo la
macellazione un animale
veniva diviso in quarti, per
essere poi ulteriormente
sezionato. Se ricchi e nobili
potevano mangiare i
muscoli dell’animale, la
carne più pregiata e costosa,
rimanevano come scarti
tutti gli organi interni, le
frattaglie. Fegato, reni,
cuore, cervello e così via.
Tutto ciò che rimane dopo
aver sezionato i quattro
quarti dell’animale, viene
chiamato “quinto quarto”.
Come spesso accade, la
necessità di rendere gustoso
e appetibile tutto ciò che si
poteva di un animale ha
portato alla creazione di
ricette popolari da leccarsi i
baffi, come il fegato alla
veneziana, il rognone
trifolato, la cervella fritta, la
trippa, la coda alla
vaccinara, la lingua
salmistrata, i fegatini, la
finanziera e così via. Io
adoro quasi tutte le ricette
di frattaglie (ho ancora
qualche problema con la
trippa). Cucino il fegato
regolarmente, in vari modi, e
uno dei piatti che ancora
chiedo ogni tanto a mia
madre di prepararmi
quando vado a trovarla è il
rognone trifolato.
Gli organi interni di un
animale hanno una
composizione diversa dai
muscoli e deperiscono più
velocemente. Per questo
motivo andrebbero
consumati più rapidamente
di quanto facciamo con i
tagli muscolari. Se una
fiorentina può rimanere nel
nostro frigorifero per due
giorni senza grossi problemi
prima di venire cotta, fegato
e rognoni devono essere
consumati al più presto.
Cosa succede quando
l’animale invecchia
All’aumentare dell’età
dell’animale, o del lavoro a cui è
sottoposto, i muscoli subiscono
delle trasformazioni che hanno
una rilevanza gastronomica.
Più l’animale invecchia e più,
con il lavoro continuo dei
muscoli, il collagene di alcuni
muscoli aumenta. Con il tempo,
e con la maturazione
dell’animale, si formano anche
dei legami più forti
direttamente tra i diversi
filamenti proteici e tra fibre di
collagene vicine, ed è per questo
che tagli di carne ricchi di
tessuto connettivo di animali
anziani hanno bisogno di
cotture molto lunghe per poter
dissolvere i legami formati tra
le catene di collagene. Questi
fattori portano la carne a essere
più dura. Anche le fibre
muscolari subiscono delle
modifiche con l’esercizio
muscolare: aumenta il numero
di fibrille all’interno delle fibre,
che quindi diventano più
voluminose, come
indirettamente potete
osservare guardando i muscoli
di un culturista.
Quindi animali molto vecchi
che si sono mossi tanto
avranno la carne molto più
dura. Provate a sentire la
differenza tra la carne del
vitello e quella del toro. Questo
è il motivo principale per cui in
tutte le culture gastronomiche
mondiali vi sono ricette che
prevedono l’utilizzo di animali
giovani, o addirittura da latte:
la carne è molto più morbida,
anche se molto meno saporita.
Muscoli più teneri e meno
teneri
I muscoli delle zampe devono
sostenere tutto il peso, mentre
quelli attorno e vicino al collo
sostengono la testa e sono in
continuo movimento quando
l’animale cerca da mangiare o si
muove. Saranno quindi le parti
meno tenere e più ricche di
tessuto connettivo, e avranno
bisogno di speciali trattamenti
per essere cucinate. I muscoli
del dorso invece si muovono
poco, sono sottoposti a poche
sollecitazioni e non devono
sostenere il peso dell’animale.
Saranno quindi meno ricchi di
tessuto connettivo e
risulteranno più teneri: un
filetto, muscolo dorsale, sarà
più tenero della punta di petto,
ricavata dalla zona tra il collo e
la pancia.
SANGUE
Il sangue è un tessuto
particolare dell’animale,
poiché è liquido. In alcune
ricette tradizionali è
utilizzato direttamente
come ingrediente, per
esempio nel sanguinaccio,
ma nella cucina
contemporanea, e
sicuramente nelle cucine
casalinghe, ormai non è più
un ingrediente. Il colore del
sangue è dovuto
principalmente
all’emoglobina, la proteina
contenente ferro che
trasporta l’ossigeno in giro
per il corpo. Scorre nei vasi
sanguigni, ma nella carne
che acquistiamo ne è
rimasto pochissimo: il colore
rosa o rosso della carne è
dovuto a una proteina
simile all’emoglobina, la
mioglobina, che
immagazzina l’ossigeno
all’interno del muscolo.
RICAPITOLIAMO…
Le caratteristiche principali di
un taglio di carne sono
determinate, in uno stesso
animale, sia dalla quantità sia
dal tipo di tessuto connettivo
presente, oltre che dalla
quantità di grasso. Le
percentuali relative di fibre,
collagene e grasso determinano
in larga misura in che modo
sarebbe meglio trattare e
cuocere il taglio di carne,
ricordando che, se riscaldato, il
collagene prima si indurisce e
poi si scioglie, e che il grasso,
sciogliendosi, lubrifica le fibre.
Tagli molto poveri di collagene
e magri possono essere
mangiati crudi a fette, come nel
carpaccio o nella carne
all’albese. Oppure, se hanno un
po’ di tessuto connettivo, ma
non troppo, possono essere
macinati per preparare una
tartare. Se li cuociamo è meglio
scegliere delle cotture asciutte
e veloci, in modo da non
asciugare troppo la carne che,
essendo povera di collagene,
non godrà dell’effetto della
lubrificazione della gelatina. Se
la carne ha poco tessuto
connettivo, ma una buona
quantità di grasso, come la
rinomata carne del manzo di
Kobe, il grasso sciogliendosi
compenserà la mancanza di
lubrificazione. Aumentando la
quantità di collagene presente è
inevitabile prolungare la
cottura, che dovrà
necessariamente sciogliere il
collagene. Poiché per sciogliere
il tessuto connettivo serve
tempo, queste cotture saranno
lunghe e in ambiente acquoso.
Il pezzo può essere sommerso
interamente dal liquido, come
in un bollito o uno spezzatino,
oppure parzialmente, come in
un brasato, o ancora essere
mantenuto in un ambiente
ricco di vapore d’acqua, come
un cartoccio o una pentola ben
sigillata, sfruttando l’acqua già
presente nella carne – dopo
tutto è circa il 75% – ed
evitando che possa sfuggire
facilmente.
In pratica in questa sezione è
riassunto tutto il libro, o quasi.
Dedicheremo i prossimi capitoli
a sviscerare ogni singolo
aspetto per mostrare come i
pochi principi scientifici che vi
ho esposto permettano di
scegliere, per ogni taglio di
carne, il metodo di cottura più
adatto.
PROCEDIMENTO PER LA
SALSA
1
Per la salsa, mettete la
maionese in una ciotola e
sbattetela con la salsa
Worcestershire e il succo di
limone: la lecitina contenuta
nella maionese aiuterà a
emulsionare i nuovi liquidi
aggiunti.
2
Aggiungete il latte necessario
per ottenere una salsa di una
consistenza sufficiente da
poter essere fatta gocciolare
dall’alto sulla carne, senza però
essere troppo liquida.
3
Assaggiate e correggete il
condimento con un po’ di sale,
di pepe macinato al momento e
altra salsa Worcestershire,
oppure con altro succo di
limone, a piacere.
PROCEDIMENTO PER IL
CARPACCIO
4
Per tagliare la carne molto
sottile è necessario avere un
coltello ben affilato a lama
liscia e che la carne sia ben
fredda, in modo da risultare più
soda. Potete usare il
controfiletto, come faceva
Cipriani, togliendo ogni traccia
di grasso e tessuto connettivo,
ottenendo così un piccolo
cilindro di carne tenera. Oppure
potete usare un filetto, meno
saporito, parimenti pulito dal
tessuto connettivo. Ma anche
scamone o girello.
5
Affettate la carne a
sottilissimamente. Dovreste
riuscire a tagliare una fetta con
un movimento unico,
sfruttando tutta la lama del
coltello, facendolo avanzare
mentre tagliate e abbassandolo
verso il tagliere. In questo
modo eviterete di sfilacciare le
fette. Un trucco che potete
utilizzare è quello di riporre per
30 minuti la carne nel freezer,
chiusa e ben stretta nella
pellicola per alimenti in modo
da formare un cilindro. Più
fredda è la carne e più sarà
facile tagliarla in fette molto
sottili. Potete anche
raffreddarla per un tempo più
lungo, ma la carne non deve
assolutamente congelare, deve
solo raggiungere temperature
vicine allo zero per diventare
molto più soda e più facile da
tagliare.
6
Sistemate le fettine su un
piatto coprendone interamente
la superficie.
7
Salate leggermente la carne e
mettete i piatti in frigorifero
per almeno 5 minuti. Se
l’avevate messa nel freezer per
tagliarla, aspettate 10 minuti.
Successivamente intingete un
cucchiaio nella salsa e,
facendola gocciolare dall’alto,
immaginate di dover dipingere
un quadro astratto.
8
Servite immediatamente.
CONSIGLIO
Per una versione
“veloce” del Carpaccio
potete anche
semplicemente
condire la carne con
un po’ di succo di
limone, olio
extravergine di oliva,
scaglie di grana e un
po’ di insalata. O,
ancora, con olio, sale,
pepe e capperi.
RICETTA
MAIALE SFILACCIATO AL FORNO
PROCEDIMENTO
1
Dovrete immergere la coppa in
una salamoia, quindi
procuratevi un contenitore
adatto. Io avevo un pezzo di
carne da 1,5 kg e ho usato una
scatola di plastica da 3 litri.
Preparate la salamoia
aggiungendo a ogni litro di
acqua 150 g di sale e 50 g di
zucchero. La prima volta
preparate la salamoia standard.
Le volte successive potete
sostituire una parte dell’acqua
con del succo di mela e
sostituire lo zucchero con
melassa, miele o zucchero
grezzo di canna. Se l’assaggiate
vi sembrerà salatissima, ma
non temete: come vedrete più
avanti, il sale nella salamoia
aiuterà gli strati superficiali
della carne a non disidratarsi
troppo e insaporirà solo un po’
la carne, mentre gli zuccheri
rimarranno nella crosticina
contribuendo al sapore.
2
Mettete il pezzo di carne in un
contenitore con coperchio e
copritelo completamente con la
salamoia.
Se la carne galleggia potete
metterle sopra un peso che la
tenga sommersa. Chiudete il
coperchio e mettete il
contenitore in frigorifero.
Potete lasciare la carne in
salamoia anche per un’intera
nottata prima di iniziare a
cuocerla. Se avete fretta, potete
lasciarla solo 4 ore. Se davvero
non avete tempo potete saltare
questo passaggio, ma dovrete
stare più attenti a non far
seccare il pezzo di carne
durante la cottura.
3
Togliete la carne dalla salamoia,
che getterete via. Asciugatela
ben bene con della carta
assorbente da cucina.
4
A questo punto coprite il pezzo
di carne con sale misto a spezie.
Nella produzione di salumi
questo passo si chiama
“conciatura”. In cucina da
qualche tempo è stato
introdotto il termine americano
rub per indicare una miscela di
sale e spezie in polvere da
applicare alla carne. Esistono
ormai più combinazioni di sale
e spezie da usare che sughi per
gli spaghetti, e ognuno ha la sua
preferita. Anche da noi in Italia
si iniziano a vendere le
confezioni con le miscele già
pronte: se ne avete una
preferita usate quella. Se invece
avete un po’ di tempo per
procurarvi gli ingredienti vi
suggerisco di provare a fare la
miscela Rub18 ideata da
Gianfranco Lo Cascio, uno dei
più famosi esperti italiani di
BBQ. Altrimenti potete
inventarne una voi a partire da
una base di pepe macinato,
zucchero, paprica e sale,
aggiungendo a vostro gusto
altri aromi e spezie. Se usate la
paprica affumicata potrete
sopperire un po’ alla mancanza
della fase di affumicatura.
LA MISCELA RUB18 DI GIANFRANCO LO
CASCIO
INGREDIENTI 20 g di
zucchero
grezzo di
canna
5 g di
origano
120 g di
paprica
dolce in
polvere
20 g di
aglio in
polvere
15 g di
cipolla in
polvere
5 g di
pepe
nero
5 g di
pepe
bianco
6 g di
semi di
finocchio
50 g di
sale
PROCEDIMENTO
Pesate gli ingredienti e,
usando un macinaspezie
oppure un vecchio macinino
da caffè, riducete tutti gli
ingredienti, separatamente,
alla stessa grana, che deve
essere finissima. Mescolateli
e rimuovete a mano gli
eventuali grumi. Chiudete in
un contenitore ermetico la
miscela e usatela
generosamente nelle vostre
grigliate. Ogni tanto agitate
il barattolo per evitare che
gli ingredienti formino
grumi, specialmente se
entra umidità.
5
Con le mani passate la miscela
in polvere sulla carne. Siate
generosi e massaggiate bene
per farla aderire, senza però
fare uno strato troppo spesso.
Alcuni, per facilitare questa
fase, spennellano la carne con
un po’ di senape prima di
mettere la miscela. Potete usare
dei guanti usa e getta per non
sporcarvi.
6
Se usassimo il barbecue, ora
sarebbe la volta della fase di
affumicatura, che è quasi
impossibile da ottenere in casa.
Noi invece procediamo
direttamente alla cottura.
Bisogna far formare una
crosticina esterna, quindi, se
potete, usate
contemporaneamente una
teglia e una griglia rovesciata
per sostenere la carne, in modo
che i succhi che usciranno non
vadano a far bollire la carne. Io
ho ricoperto la teglia di
alluminio per alimenti e, sopra,
di carta da forno per
raccogliere meglio i succhi.
7
Coprite la carne e la teglia
completamente con alluminio
per alimenti. L’ambiente di
cottura deve rimanere umido
per poter sciogliere,
lentamente, il collagene. Se lo
avete, inserite un termometro a
sonda per tenere sotto
controllo la temperatura.
8
Infornate a 140 °C e cuocete per
4 ore, monitorando la
temperatura con il termometro
a sonda. Se il pezzo che avete
scelto è piuttosto piccolo –
meno di 1,5 kg – riducete la
temperatura a 130 °C. La
temperatura salirà ma, se avete
sigillato bene l’involucro in
modo che il vapore resti
imprigionato, non dovrebbe
superare i 90-95 °C. Se il pezzo
di carne era di 2 kg o più la
temperatura finale potrebbe
anche essere sotto i 90 °C. Dopo
4 ore togliete l’alluminio e
recuperate il liquido rilasciato.
9
Dovrete separare il grasso, che
potete gettare, e tenere la parte
acquosa e gustosa. È
abbastanza facile farlo: versate
il liquido in un recipiente
stretto e alto, anche un
bicchiere può andare bene,
lasciatelo riposare e poi gettate
il grasso che, essendo meno
denso dell’acqua, formerà uno
strato galleggiante.
10
Rimettete in forno, sempre con
la sonda. Ora, senza più
l’alluminio per alimenti, l’acqua
comincerà a evaporare più
facilmente e la temperatura a
salire: si formerà una gustosa
crosta esterna. Internamente
dovremo raggiungere i 95 °C.
Quando la temperatura al
cuore raggiunge i 95 °C –
potrebbero servire dai 30 ai 90
minuti, a seconda della
grandezza del pezzo di carne –
togliete la carne dal forno e
lasciatela raffreddare, coperta
con alluminio per alimenti, per
20-30 minuti. Se i 95 °C erano
già stati raggiunti in
precedenza, perché il vostro
pezzo di carne era piuttosto
piccolo oppure perché la
temperatura del forno era
troppo alta, tenete comunque il
pezzo nel forno per una ventina
di minuti, in modo che formi la
crosticina. Alla fine la carne si
sfalderà toccandola con una
forchetta.
11
Sfilacciate la carne tenendo due
forchette nelle due mani. I fili
che osservate sono i singoli
fasci muscolari, composti a loro
volta da fibre, che si separano
completamente perché la lunga
cottura ha sciolto il collagene
che li legava. In un contenitore
aggiungete i succhi che avete
recuperato in precedenza in
modo che possano essere
riassorbiti dalle fibre; se amate
la salsa barbecue o qualche
altra salsa, potete miscelarli a
questa e poi usare il composto
per condire il panino.
12
Il pulled pork, infatti, è
tradizionalmente utilizzato
come farcitura di un panino da
hamburger. Io non amo la salsa
barbecue e neppure la coleslaw,
quindi preferisco guarnirlo con
salsa alla senape e cipolle
grigliate.
Se avanzate della carne potete
surgelarla senza problemi.
IL COLORE DELLA CARNE
LO SAPEVATE CHE?
Quando si parla di
carni rosse in
ambito medico o
salutistico, si
intendono tutte le
carni di
mammiferi e
quindi anche
alcune che dal
punto di vista
gastronomico
vengono spesso
classificate come
bianche vitello,
coniglio e a volte
persino maiale.
LO SAPEVATE CHE?
Anche se
normalmente non
possiamo vederlo,
il nostro sangue è
più rosso nelle
arterie, dopo aver
prelevato
l’ossigeno dai
polmoni, e più
scuro nelle vene,
dopo che ha
depositato
l’ossigeno nelle
cellule.
L’emoglobina
infatti cambia
colore come la
mioglobina.
LA MIOGLOBINA
La mioglobina (Mb) è una
proteina composta da un
filamento di 153 amminoacidi e
da una molecola chiamata
“eme” contenente un atomo di
ferro. Quest’ultimo è in grado di
legare a sé l’ossigeno e altre
molecole, cambiando colore.
Il colore della mioglobina è il
porpora, un rosso scuro con
sfumature violacee. A volte
viene chiamata
deossimioglobina. Quando lega
l’ossigeno e si forma
l’ossimioglobina, il colore
cambia e diventa di un rosso
brillante. Vi sarà capitato di
acquistare della carne macinata
confezionata che alla vista è
bella rossa, ma una volta aperta
la confezione e separati i pezzi
risulta all’interno molto più
scura. Se pensate che vi
abbiano truffato vi sbagliate:
semplicemente l’ossigeno non
ha avuto modo di penetrare a
sufficienza all’interno e quindi
la mioglobina non si è
trasformata nella sua versione
più colorata. Se la lasciate
all’aria – a volte i macellai
consigliano di “lasciarla
respirare un po’” – l’ossigeno si
legherà alla mioglobina ed essa
diventerà di un rosso più
acceso, poiché il processo è
reversibile, esattamente come
succede nei muscoli dove la
mioglobina preleva l’ossigeno
dal flusso sanguigno, lo lega a
sé e lo rilascia quando ce n’è
bisogno.
L’occhio, in cucina e al
supermercato, vuole la sua
parte e quindi alcuni produttori
usano della pellicola
trasparente permeabile
all’ossigeno per mantenere la
carne macinata confezionata di
un bel colore invitante. Lo
stesso effetto lo potete
osservare quando tagliate una
fetta da un pezzo di carne più
grande: l’interno sarà sempre
più scuro dell’esterno, esposto
all’ossigeno.
Insomma, il colore della carne
non necessariamente riflette la
sua freschezza. Ricordatevi
infatti che è l’odore, più che il
colore, a poter rivelare se la
carne non è freschissima o se
ha iniziato il processo di
decomposizione.
L’ANGOLO CHIMICO
I COLORI DELLA MIOGLOBINA
La mioglobina può
assumere vari colori, a
seconda della molecola
legata e dello stato di
ossidazione del ferro.
IL COLORE ROSA DEI
SALUMI
La mioglobina può legarsi ad
altre sostanze dando luogo a
colorazioni diverse. È prassi
comune nella lavorazione di
molti salumi aggiungere come
conservante il nitrito di sodio o
di potassio. La sua funzione
principale, specialmente nei
salumi a pasta lavorata come la
mortadella, è quella di
prevenire eventuali
intossicazioni da botulino, che
può essere persino mortale.
L’effetto secondario però,
assolutamente desiderato dai
produttori, è quello di impartire
una colorazione rosa e impedire
che la mioglobina si trasformi
in metamioglobina, che
donerebbe al prodotto una
colorazione scura non
apprezzata dai consumatori.
All’interno dei salumi, i nitriti
producono ossido di azoto (NO)
che si lega alla mioglobina
formando la nitrosilmioglobina
che in cottura si denatura
assumendo una colorazione
rosa. Per questo motivo
“estetico” a volte alcuni
produttori di salumi utilizzano
più nitriti di quanti ne siano
strettamente necessari.
Anche l’affumicatura porta a
una colorazione rosata della
carne, sempre dovuta agli ossidi
di azoto contenuti nel fumo.
Il prosciutto di Parma, prodotto
senza nitriti, deve invece il suo
colore a un complesso dello
Zinco con la protoporfirina IX.
Il monossido di carbonio
Carne verde
L’ANGOLO CHIMICO
LE MUTAZIONI DELLA
MIOGLOBINA Nel corso
dell’evoluzione la
mioglobina ha subito
delle mutazioni via via
che sono comparse
nuove specie di animali.
Dall’analisi della
sequenza di amminoacidi
della mioglobina di
diverse specie ora siamo
in grado di ricostruire le
varie parentele. Per
esempio, la mioglobina
del cavallo è identica a
quella della zebra, così
come è di un unico tipo
quella dei bovini europei,
del bisonte americano e
dello yak asiatico. Tra un
maiale e un manzo,
invece, ci sono 18
amminoacidi diversi.
FIBRE BIANCHE E FIBRE
ROSSE
Nel capitolo precedente
abbiamo visto come è fatto un
muscolo. Ora sapete che l’unità
fondamentale con cui sono
costruiti i muscoli sono le fibre.
Non vi avevo ancora detto,
però, che esistono due tipi di
fibre muscolari: quelle rosse –
dette anche di tipo I o lente – e
quelle bianche – dette anche di
tipo II o veloci. La differenza
risiede nel modo in cui queste
fibre bruciano il loro
carburante per produrre
energia.
Le fibre bianche sono utilizzate
per i movimenti rapidi, ma di
breve durata. Un pollo vola
raramente, e quando lo fa
sfrutta i muscoli del petto a
fibre bianche che sono in grado,
per un periodo molto breve, di
farlo volare. Le fibre bianche
prendono l’energia necessaria
dal glicogeno, la riserva di
glucosio localizzata nel
muscolo. Nel processo
metabolico, chiamato glicolisi,
le fibre bianche sono in grado di
bruciare il carburante più in
fretta di quanto il flusso
sanguigno riesca a trasportare
l’ossigeno. Non avendo bisogno
di molto ossigeno hanno poca
mioglobina e sono quindi
chiare. I muscoli
prevalentemente a fibre
bianche però non possono
sostenere questo tipo di
metabolismo troppo a lungo.
Provate ad alzarvi dal divano
e correre più velocemente che
potete per 100 metri. Dopo un
po’, se non siete degli atleti,
crollerete a terra con le gambe
appesantite e doloranti. Avete
attivato le fibre bianche e
queste nel loro metabolismo
veloce producono acido lattico,
che si accumula nei muscoli,
come sperimentiamo appunto
ogni volta che usiamo dei
muscoli per troppo tempo
senza essere allenati. Ci vuole
del tempo per eliminare l’acido
lattico ed è per questo che le
fibre bianche funzionano
solamente per un breve
periodo.
Se il muscolo deve invece
essere usato in continuazione,
allora c’è bisogno di molto
ossigeno per permettere alle
fibre rosse, più lente, di
bruciare i grassi, il combustibile
in questo tipo di metabolismo.
Queste fibre hanno quindi un
contenuto più elevato di
mioglobina, che fornisce
ossigeno, e il muscolo sarà di
colore più scuro, e con un
contenuto di grasso superiore a
quello delle fibre bianche. Le
cosce del pollo sono sempre in
movimento e quindi
conterranno più fibre rosse del
petto, che è molto più chiaro.
Avendo più grasso sono anche
più saporite.
Le balene sono mammiferi e,
nonostante passino gran parte
del tempo sott’acqua, devono
periodicamente tornare in
superficie per respirare e
immagazzinare ossigeno. Il
record d’apnea spetta al
capodoglio che può resistere
sott’acqua per più di un’ora. Per
sopravvivere immerse per così
lunghi periodi le balene hanno
talmente tanta mioglobina nei
muscoli che la loro carne è di
colore quasi nero.
LO SAPEVATE CHE?
Con un
allenamento
continuo le fibre
bianche si possono
trasformare in
fibre rosse, ma non
viceversa. In altre
parole, tutti
possiamo
diventare
maratoneti, ma
centometristi si
nasce. Per sforzi
brevi e intensi i
muscoli
producono energia
usando
prevalentemente
la glicolisi, il
metabolismo
anaerobico, cioè
senza ossigeno.
Per sforzi costanti
e prolungati
invece i muscoli
utilizzano un
metabolismo
aerobico,
l’ossidazione dei
grassi.
1
Mettete in un pentolino la salsa
di soia e aggiungete lo
zucchero.
Con le quantità indicate la salsa
non viene troppo dolciastra. Se
invece vi piace il sapore dolce
potete arrivare anche a 100 g di
zucchero. La salsa di soia è
ricchissima di glutammato che
deriva dalla degradazione,
durante la fermentazione, delle
proteine della soia. Il
glutammato stimola i recettori
del gusto umami, che
potremmo tradurre con sapido:
è per questo che rende gustosi i
cibi.
Aggiungete il sake e il mirin
(entrambi prodotti fermentati
di riso). Se non trovate il mirin
usate solo il sake, aumentando
a 50 g la dose.
2
Prendete un pezzettino di
zenzero. Fatene un
parallelepipedo tagliando la
buccia con un coltello e
grattugiatelo per bene,
raccogliendolo in un recipiente.
Tritate l’aglio il più finemente
possibile. Se avete uno
spremiaglio, ancora meglio.
L’intensità dell’aroma dell’aglio
dipende anche da quanto
danneggiamo le sue cellule: più
lo tritate o spremete e più
aroma riuscite a estrarre.
Aggiungete aglio e zenzero alla
salsa.
PROCEDIMENTO PER IL
POLLO
3
Per il pollo, disossate le
sovracosce. Io le trovo sempre
con l’osso e la pelle, oppure
senza osso e senza pelle.
Siccome voglio la pelle ma non
l’osso, devo disossarmele da
solo. Se vi piace la pelle
croccante del pollo praticate tre
o quattro lunghi tagli in modo
da far fuoriuscire, in cottura, il
vapore della carne sottostante.
In questo modo la pelle rimarrà
bella croccante e la marinata
potrà penetrare meglio. La pelle
ha anche lo scopo di proteggere
un po’ la carne dalla cottura al
grill. Se invece la pelle non vi
piace usate pure le sovracosce
già disossate.
4
Marinate il pollo. Per le
marinate usate sempre i
comodi sacchetti con chiusura
a zip: in questo modo non si
spreca salsa inutilmente e, a
fine uso, potete gettare il
sacchetto. Vi ricordo che anche
la salsa utilizzata per la
marinata dovrà essere gettata
via, e non potrà essere in alcun
modo riutilizzata, proprio per
evitare problemi di
contaminazione batterica.
Mettete i pezzi di pollo nel
sacchetto, aggiungete 2-3
cucchiai della salsa che avete
preparato e fate marinate per
30-60 minuti. Nella salsa
teriyaki lo zucchero serve per
dare dolcezza: lo stimolo
contemporaneo di più sapori –
dolce, salato e umami in questo
caso – è tipico della cucina
orientale. La componente acida
della marinata è fornita sia
dalla salsa di soia che da sake e
mirin.
5
Togliete il pollo dal sacchetto,
sgocciolatelo ben bene e gettate
il liquido residuo. Disponete la
carne, con la pelle in su, su una
teglia. Mettete nel forno a
grigliare sul ripiano superiore
per 10-15 minuti, a seconda della
potenza del vostro grill. Per
evitare cotture disomogenee è
buona norma, a metà cottura,
ruotare la teglia di 180 °C.
6
Mentre il pollo è in forno,
addensate la salsa che è rimasta
nel pentolino, aggiungendo
l’amido. Per evitare la
formazione di grumi mettete
l’amido in un bicchiere asciutto,
unite un po’ di salsa e
stemperatelo. Quando sarà
fluido potrete aggiungerlo al
resto della salsa. Accendete il
fuoco e cuocete per qualche
minuto, fino a raggiungere la
viscosità che desiderate.
7
Togliete il pollo dal forno. Nel
mio caso ho grigliato per 10
minuti. Controllate la
temperatura interna del pollo:
se è troppo bassa, sotto i 75 °C,
rimettetelo in forno per
qualche minuto. Se è troppo
alta, oltre gli 80 °C, sapete come
regolarvi per la prossima volta.
Tagliate ogni pezzo di pollo a
strisce larghe un centimetro,
disponetelo sul letto di riso e
condite con la salsa.
CONSIGLIO
Per essere più
filologici dovreste
preparare anche del
riso bianco al vapore.
A me piacciono molto
le varietà orientali
aromatiche come il
Basmati o il Thai,
anche se non sono
giapponesi.
CALORE E COTTURE
Ve lo avevo promesso: è
arrivato il momento di
accendere fornelli, forni e
griglie e capire come il
calore può trasformare la
carne in una miriade di
piatti, con aromi e sapori
molto diversi a seconda del
taglio e del metodo di
cottura. Ora possiamo
mettere a frutto quello che
abbiamo imparato nei
capitoli precedenti e vedere
come le varie componenti
che abbiamo incontrato
fino a ora – proteine, grassi
e acqua – si comportano
quando le mettiamo in
padella. La parola chiave di
questo capitolo è
temperatura. Impareremo
che c’è una temperatura
“giusta”, o un intervallo di
temperature, per ogni cosa,
a seconda delle proprietà
della carne che stiamo
considerando. Munitevi
quindi di un termometro da
cucina, di quelli a lettura
rapida, e anche uno da
forno, con la sonda – ormai
costano pochissimo e non
dovrebbero mancare tra gli
aggeggi indispensabili da
tenere nel cassetto – e
partiamo.
PERCHÉ SI CUOCE
CONVEZIONE Una volta
che, per conduzione, il calore si
è trasferito a tutto il materiale
del fondo della pentola – e
sempre per conduzione
comincerà a risalire lungo le
pareti − le molecole d’acqua a
diretto contatto con il fondo
acquisiscono energia nella
stessa maniera: attraverso gli
urti da parte delle molecole del
materiale della pentola. La
temperatura dell’acqua in
fondo alla pentola quindi sarà
più elevata di quella dell’acqua
in superficie. Tuttavia, a
differenza delle molecole di cui
è composta la pentola, che sono
fisse poiché la pentola è solida e
possono solo vibrare più
velocemente rimanendo
sempre localizzate, in un
liquido le molecole possono
muoversi liberamente: quelle
che hanno assorbito energia sul
fondo possono dunque
muoversi verso l’alto e in tutte
le direzioni molto più
velocemente di quanto avvenga
con la conduzione, e trasferire
calore al cibo immerso nel
liquido. Questo fenomeno si
chiama convezione.
La stessa cosa può avvenire
anche con un gas: in un forno,
specialmente se ventilato, le
molecole d’aria calda
trasferiscono il calore al cibo.
La ventola fa sì che l’aria si
muova più velocemente di
quanto farebbe naturalmente,
senza ventilazione, per
distribuire più efficacemente il
calore. È per questo che se la
ventola è accesa i tempi di
cottura in un forno si
accorciano. In una cottura al
vapore sono invece le molecole
d’acqua allo stato gassoso che
trasferiscono energia
all’alimento da cuocere.
CONVEZIONE
Nella convezione il calore viene
trasferito al cibo dall’acqua in
movimento (in una pentola o in
una cottura al vapore) o
dall’aria (in un forno).
IRRAGGIAMENTO Nella
convezione e nella conduzione
il calore si trasmette attraverso
gli urti delle molecole. Esiste
però un terzo modo per
scaldare un corpo: per
irraggiamento, direttamente
tramite le onde
elettromagnetiche. Quando
accendiamo un grill in un forno,
ma anche la resistenza di un
tostapane, il metallo diventa
incandescente ed emette
radiazioni elettromagnetiche
che arrivano direttamente sulla
superficie del corpo da scaldare.
Le molecole del cibo assorbono
direttamente le onde
energetiche e, esattamente
come nei casi precedenti, si
muoveranno più velocemente.
Non è necessario avere corpi
incandescenti perché avvenga
l’irraggiamento: quando scaldo
una padella di ghisa senza
alcun condimento, aspettando
che arrivi a temperature
sufficientemente alte per
poterci cuocere una bistecca, mi
è sufficiente porre il palmo
della mano a un paio di
centimetri dalla superficie per
sentire quando raggiunge la
giusta temperatura. La misuro
tramite l’irraggiamento. Se
appoggiassi il palmo nella
padella la misurerei per
conduzione, e dovrei correre
immediatamente al pronto
soccorso!
Alcuni di voi, sentendo la
parola “radiazione”, avranno
pensato alla radioattività, ma
non abbiate paura: è solo il
nome che gli scienziati usano
per descrivere le onde
elettromagnetiche di cui è
composta la luce. Non c’entra
nulla con l’uranio o i materiali
radioattivi. Quando d’estate
abbiamo la pelle esposta al sole
e sentiamo il nostro corpo
scaldarsi stiamo osservando
proprio il fenomeno
dell’irraggiamento, e in un certo
senso è come se fossimo sotto
un grill. In questo caso la
sorgente, molto lontana ma
molto potente, è il sole che ci
riscalda e ci abbronza tramite le
onde elettromagnetiche che ci
invia. Più la sorgente è lontana
dal cibo da cuocere e più debole
è l’irraggiamento. Ecco perché
quando accendete il grill di un
forno, magari per una doratura
finale alle vostre verdure, la
distanza a cui ponete la
leccarda dal grill è importante:
se è troppo vicina alla sorgente
rischiate di bruciarle, se è
troppo lontana non si
doreranno bene. Questo è un
aspetto che spesso viene
sottovalutato nelle cotture al
forno in cui si sfrutta anche il
grill: se seguite una ricetta che
lo prevede, verificate che sia
indicata anche la distanza a cui
posizionare il cibo da cuocere.
Anche in un forno a
microonde l’energia viene
trasmessa al cibo tramite
irraggiamento, ma le onde
emesse sono di un tipo diverso
rispetto a quelle di una
resistenza riscaldata, e vengono
assorbite solo da alcune
molecole, come l’acqua, e non
da altre.
Se una cottura veloce in una
padella caldissima sfrutta quasi
unicamente il fenomeno della
conduzione, altri metodi di
cottura possono trasmettere
calore al cibo in più modi
contemporaneamente. Su una
griglia si cuoce per
irraggiamento, con la
radiazione che proviene dalla
brace sottostante, per
convezione, dall’aria calda che
si solleva investendo il cibo, e
per conduzione, del metallo
della griglia.
IRRAGGIAMENTO
Nell’irraggiamento il calore
viene trasmesso direttamente
dalla sorgente tramite la
radiazione elettromagnetica.
Per esempio in un grill o in una
cottura allo spiedo.
È importante ricordare che, una
volta riscaldata la superficie di
un cibo, il calore si trasmette
all’interno dell’alimento solido
per conduzione,
indipendentemente da come la
superficie del cibo è stata
scaldata: per conduzione,
convezione o irraggiamento.
Una eccezione è il microonde,
che riesce a scaldare
direttamente anche qualche
centimetro sotto la superficie.
I TEMPI DI COTTURA
la la
PROTEINE miosina miosina
denatura coagula
blu/al al
COTTURA
sangue sangue
65 °C 70
AL TOCCO semidura dura
no, carne no, ca
SUCCHI
umida secca
rosa quasi
COLORE tendente totalm
al grigio grigio
il
la Mb
PROTEINE collagene è
coagul
compresso
media/ben
COTTURA ben co
cotta
Da sinistra a destra: carne cruda, cotta
a 50, 55, 60, 65, 70 e 75 °C.
50 °C La miosina denatura
e comincia ad aggregarsi in
un principio di coagulazione.
La carne comincia ad avere
una consistenza più ferma.
Nonostante la mioglobina, la
proteina che dona il colore,
non sia ancora stata
modificata a questa
temperatura, la carne cambia
aspetto e tonalità. Il motivo è
che gli aggregati di miosina
diffondono in maniera
diversa la luce e la carne
sembra rosso chiaro. Poiché
le molecole di miosina si
legano le une alle altre
l’acqua è più libera di scorrere
nello spazio che si è venuto a
creare. La carne è “al sangue”.
Potete notare come la carne
sia succosa.
55 °C A questa
temperatura tutta la miosina
è coagulata e la carne ha un
colore rosso chiaro. Una
bistecca cotta a questa
temperatura è ancora molto
succosa, come potete
osservare dalla foto. Quando
ne masticate un boccone
sentite tutti i succhi che si
liberano. Tra 50 e 55 °C la
carne di manzo viene
percepita come più succosa.
Il collagene non ha ancora
iniziato a contrarsi in modo
apprezzabile.
60 °C La mioglobina
comincia a denaturare
trasformandosi in
metamioglobina. Anche altre
proteine si denaturano e
l’acqua è libera di scorrere
negli spazi lasciati vuoti dalle
proteine coagulate. Questa è
la temperatura alla quale il
collagene comincia a
contrarsi comprimendo le
fibre. L’acqua viene espulsa,
la carne diventa sempre più
ferma e di colore rosato. Le
fibre contengono ancora
acqua, ma i succhi scorrono
molto meno. Questo è il mio
grado preferito di cottura di
una bistecca. Possiamo
chiamarla “cottura media”.
65 °C Le proteine
coagulate non riescono più a
trattenere l’acqua. Il
collagene, comprimendo le
fibre, espelle i succhi, che
fuoriescono liberi e
abbandonano la carne
asciugandola. Il pezzo di
carne risulta ancora umido
internamente, ma al taglio i
succhi non scorrono più. Il
volume si riduce di circa un
sesto. La carne è rosa ma
tende al grigio-marroncino. È
la cottura media-ben cotta.
La carne al tatto non è più
molto molle, e neppure sotto i
denti, ma c’è a chi la bistecca
piace così.
70 °C La mioglobina è
quasi tutta denaturata e
coagulata. L’acqua è
completamente uscita dalle
fibre, ormai asciutte. La
carne, quasi completamente
grigiomarrone con solo delle
sfumature rosa, è “ben cotta”,
anche se, secondo me, è
“troppo cotta”. Al tatto è
dura. A 70 °C il collagene
inizia lentamente a
sciogliersi, prima allentando i
legami tra vari filamenti e poi
districandoli completamente.
Ma occorrono ore a questa
temperatura, e prima che
accada saranno fuoriusciti
tutti i succhi.
75 °C Il disastro culinario.
La carne è dura e asciutta,
praticamente immangiabile.
La proverbiale “suola di
scarpe”. Se era carne da
bistecca o da arrosto avete
buttato via i vostri soldi. La
carne di bovino può
raggiungere queste
temperature, e anche di più, a
patto che contenga molto più
collagene e grasso del taglio
che abbiamo utilizzato. E che
venga cotta in modo
opportuno in ambiente
acquoso.
Ancora non ho trovato un
ristorante in cui invece di
chiedermi “Come la vuole la
carne? Al sangue, media o ben
cotta?” mi chiedano: “Che
temperatura interna desidera
per la sua bistecca?”. Forse
prima o poi ci arriveremo. La
temperatura interna, come vi
ho mostrato, fornisce una
descrizione molto più accurata
dello stato della vostra bistecca
rispetto alla classica triade “al
sangue, media, ben cotta”. Nei
Paesi anglosassoni sono messi
un po’ meglio, visto che di
gradazioni ne hanno cinque:
rare, medium-rare, medium,
medium-done, well done, ma
sempre una grossolana
approssimazione per descrivere
cosa succede in quei 20 gradi,
tra 50 °C e 70 °C.
La cosa veramente
importante da mettere in
risalto è che le proprietà di un
pezzo di carne, almeno nelle
cotture veloci, dipendono quasi
esclusivamente dalla
temperatura che ha raggiunto,
e importa poco se la carne è
rimasta a 55 °C per 5 minuti o
per un’ora. Questo principio è
alla base di un metodo di
cottura che negli ultimi anni è
diventato sempre più popolare
nelle cucine professionali, il
cosiddetto sous vide. Gli
alimenti – non solo la carne –
vengono messi in sacchetti di
plastica per alimenti dove viene
aspirata l’aria – sous vide
significa «sottovuoto» – per
essere poi immersi in un bagno
termico a temperature
controllate accuratamente,
solitamente tra 50 °C e 90 °C a
seconda dell’alimento e di ciò
che si vuole ottenere. Una volta
raggiunta la temperatura
desiderata, l’alimento può
essere lasciato nel bagno
termico anche per molte ore o
in alcuni casi addirittura giorni
prima di venire tolto per finire
la ricetta. Questo metodo di
cottura negli ultimi anni è stato
chiamato, un po’
impropriamente, “cottura a
basse temperature”. In realtà
una bistecca al sangue,
internamente, è sempre stata
cotta in padella a temperature
inferiori a 60 °C. Quello che fa la
differenza è che ora è possibile
avere un controllo della
temperatura dell’acqua di
cottura a una frazione di grado,
quindi andrebbe più
propriamente chiamata
“cottura a temperatura
controllata”.
Se nella carne di manzo il
colore è un indice della
temperatura raggiunta, vitello,
maiale e pollo contengono
molta meno mioglobina, e
quindi il colore non è molto
utile come indicatore di
cottura: se volete cucinare del
maiale o un tacchino a maggior
ragione dovreste usare un
termometro. Non c’è niente di
meglio di un termometro per
controllare la cottura di un
arrosto, di un roastbeef e anche,
perché no, di una costata
particolarmente alta. È
solamente con un controllo
accurato della temperatura che
si può ottenere con sicurezza, a
piacimento, una carne cotta al
sangue, media o ben cotta.
Certo, avendo una certa
esperienza, non è necessario
usare un termometro per una
normale bistecca: un buon
cuoco giudica la cottura dalla
consistenza. Ma è importante
imparare a conoscere le
temperature “giuste”
corrispondenti alla cottura
interna desiderata.
Che sia preferibile
controllare la temperatura
interna di un cibo invece che
fidarsi del tempo di cottura
suggerito non è certo una
scoperta scientifica recente ma
è vecchia di quasi un secolo. Un
articolo scientifico1 del 1932
descrive uno studio effettuato
cuocendo 2.500 cosciotti di
agnello – scommetto che molti
di voi non hanno mai pensato
che uno scienziato possa avere
come argomento di ricerca la
cottura di un cosciotto di
agnello – tenendo costante la
temperatura del forno e quella
finale interna della carne. Il
tempo necessario per
raggiungere lo stesso grado di
cottura variava da 24 a 60
minuti, a dimostrazione che i
tempi di cottura indicati nelle
ricette sono sempre da
prendere con le pinze. L’articolo
concludeva:
«Le informazioni
raccolte attraverso la
cottura di migliaia di
tagli di carne, con varie
caratteristiche e nelle
stesse condizioni
controllate di
temperatura, mostrano
che il tempo di cottura
per chilogrammo è così
variabile che non è
sempre una guida sicura
per cucinare con
successo. Il metodo
veramente affidabile per
aiutarci a cuocere la
carne allo stadio
desiderato è il
termometro per arrosti.
Il termometro mostra
cosa sta accadendo al
cuore della carne nel
forno, e se la cottura sta
procedendo
rapidamente o
lentamente,
suggerendoci quindi se
la temperatura del forno
vada diminuita o
aumentata per avere
l’arrosto cotto al
momento giusto. In
questi giorni di
innumerevoli nuovi
dispositivi di cottura,
accompagnati da
affermazioni
pubblicitarie
stravaganti, c’è un
bisogno reale di
informazioni affidabili e
non condizionate da
dare al consumatore».
L’ANGOLO CHIMICO
LA COTTURA DEL COLLAGENE
Prima della cottura, il
collagene ha una
struttura molto ordinata,
con le fibre proteiche
intrecciate a formare una
sorta di tubo. Riscaldato
a 60-65 °C, la sua
struttura ordinata viene
distrutta e i singoli
filamenti cominciano a
contrarsi. Se il tubo fosse
vuoto, senza contenere
fibre e fibrille muscolari,
il collagene si
accorcerebbe fino all’80%
della propria lunghezza.
Nella realtà si contrae del
20-25%. Immaginate
quindi quanta pressione
possa esercitare in
cottura sulle proteine
muscolari, e come sia
quindi in grado di
strizzare le fibre e i fasci
facendo fuoriuscire i
succhi contenuti.
CONSIGLIO
Per pezzi grandi da
cuocere al forno
impostate la
temperatura a
valori più bassi
possibile,
compatibilmente
con la crosticina
che volete ottenere.
A 120 °C otterrete
poca brunitura e
ancora uno strato
morbido, mentre a
160 °C la crosticina
sarà più gustosa ma
la carne più
asciutta.
PROCEDIMENTO PER LA
SALSA
1
Togliete la carne dal frigorifero
almeno 2 ore prima di iniziare la
preparazione. In questo modo
si ridurrà la differenza di
temperatura tra l’interno della
carne e la temperatura del
forno. Passate le 2 ore, se
preferite rosolare la carne nel
forno, accendetelo e
impostatelo su 230 °C. Se
preferite rosolare in padella
impostate il forno a 130 °C.
2
Salate e aromatizzate la
superficie della carne. Non
abbiate paura: questo non farà
seccare la carne come alcuni
temono.
3
È meglio che il pezzo di carne
non tocchi direttamente la
teglia, per evitare che la parte
inferiore della carne cuocia
diversamente dal resto, sia
perché si troverebbe a diretto
contatto con la teglia sia
perché, durante la cottura,
verrebbe a contatto con il
liquido rilasciato. Quindi, se
l’avete, usate una griglia
adagiata nella teglia per
sollevare la carne.
4
Inserite la sonda in modo che
raggiunga il centro della carne e
impostate una temperatura tra
50 e 55 °C, a seconda che lo
vogliate più o meno al sangue.
Ricordatevi che pezzi così
grandi di carne continuano a
cuocere per un po’ anche una
volta tolti dal forno, quindi non
vi stupite se, terminata la
cottura, la temperatura potrà
salire ancora di qualche grado.
L’ideale è non superare i 55 °C, e
assolutamente non arrivare a
60 °C. La carne risulterebbe
troppo cotta per un roast beef.
Quanto tempo impiegherà a
cuocere? Il tempo che ci vuole!
Dipende dalla temperatura
iniziale del vostro pezzo di
carne, dal peso, dalla forma e da
un sacco di altre cose. Non vi
fidate dei tempi di cottura
riportati sulle ricette, 30 minuti
ogni mezzo chilo o indicazioni
così. Con una sonda non
rischiate di sbagliare.
5
Se il forno è stato riscaldato a
230 °C la procedura classica
richiede di infornare il pezzo di
carne aromatizzato per una
decina di minuti. Questo serve
per produrre una crosticina
esterna gustosa. In alternativa
è possibile rosolare
velocemente in padella la carne
con poco olio fino a quando non
assume una colorazione
marroncina.
In un roast beef vogliamo che
la parte rosa della carne sia più
ampia possibile, per cui
dobbiamo impostare il forno a
temperature piuttosto basse:
120 o 130 °C, per far sì che,
quando la temperatura al cuore
avrà raggiunto i 50 o 55 °C, a
seconda che vi piaccia più o
meno al sangue, quella degli
strati più esterni non sia troppo
elevata. Più è bassa la
temperatura che impostate nel
forno e maggiore sarà il tempo
necessario per raggiungere la
temperatura desiderata al
cuore, con il vantaggio che
avrete solo una piccola corona
bruna nelle vostre fette, con
una bella area rosa al centro.
Temperature del forno ancora
più basse sono certamente
possibili, ma i tempi si
allungano sempre di più e il
forno non è lo strumento
adatto per cotture a
temperature inferiori a 100 °C.
6
Se in precedenza avevate
rosolato in forno a 230 °C, aprite
il forno il tempo necessario per
fargli abbassare velocemente la
temperatura fino a 120-130 °C.
Richiudete e continuate la
cottura fino a quando la sonda
vi segnalerà il raggiungimento
della temperatura impostata.
7
Togliete la carne dal forno,
copritela con alluminio per
alimenti e lasciatela riposare
per almeno 15 minuti. In questo
periodo i succhi si
ridistribuiranno all’interno del
roast beef, reidratando in parte
gli strati più esterni.
Qualcuno a questo punto
preferisce rimettere per 5
minuti la carne nel forno
riportato a 230 °C, per asciugare
la crosticina esterna. Se lo
dovete consumare freddo e a
fette sottili questo passaggio
non è necessario.
8
Deglassate i residui rimasti
sulla teglia con un po’ d’acqua o,
meglio, del vino bianco, e
raccogliete il sugo in un
recipiente.
9
Se servite il roast beef ancora
caldo tagliatelo a fette e
recuperate i liquidi che
fuoriescono durante il taglio,
aggiungendoli al sugo già
raccolto deglassando i fondi.
Altrimenti lasciatelo
raffreddare per poterlo
consumare, affettato, anche il
giorno successivo.
IL SAPORE DELLA CARNE
CRUDA: SOPRATTUTTO I
GRASSI Può sembrare strano
ma il 95% del contenuto di un
pezzo di carne cruda non ha
alcun sapore. Le proteine,
infatti, nel loro stato nativo,
tranne rarissime eccezioni,
sono completamente insapori,
così come lo è l’acqua. Il gusto
della carne cruda è dovuto solo
al rimanente 5% e sappiamo già
che per la maggior parte è
grasso. A essere pignoli
neppure i grassi hanno granché
sapore, ma possono assorbirli
molto facilmente. Uno degli
accorgimenti che è bene
rispettare quando si apre un
panetto di burro è di riporlo in
frigorifero nel suo scomparto
ben avvolto nella carta. Questo
per rallentare l’irrancidimento
dovuto all’ossidazione dei
grassi, ma anche per evitare che
le molte molecole volatili
aromatiche presenti nel
frigorifero – vi ricordate di
quando vi siete dimenticati di
avvolgere nella pellicola per
alimenti quella mezza cipolla,
lasciata a fianco del panetto di
burro aperto? – possano
arrivare sulla superficie grassa
del burro ed essere assorbite. I
grassi sono un ottimo solvente
per moltissime molecole che
non si sciolgono in acqua e un
panetto di burro non coperto
agisce come una spugna per
tutti gli odori presenti nel
frigorifero.
La stessa cosa avviene nel
corpo di un animale: le cellule
adibite a deposito di grasso – gli
adipociti – nel corso della vita
possono assorbire molecole dai
gusti e aromi caratteristici e più
un animale è vecchio e più
tempo hanno avuto i suoi
grassi di assorbire sapori.
L’alimentazione dell’animale,
quindi, insieme agli inevitabili
fattori genetici, è responsabile
di buona parte del gusto della
carne, e gli scienziati
concordano nel ritenere che se
nella dieta è compresa erba o
fieno la carne ha un sapore più
intenso dovuto alle numerose
sostanze aromatiche presenti
che si sciolgono nei grassi,
rispetto ad una alimentazione
fatta prevalentemente di mais
e soia.
Come abbiamo visto, le fibre
bianche usano come
carburante il glucosio
immagazzinato localmente
sotto forma di glicogeno,
mentre le fibre rosse bruciano
anche il grasso. Si capisce
quindi come mai la carne rossa,
con le sue fibre più ricche di
grasso, sia più saporita della
carne bianca. Anche nei succhi
della carne sono disciolte
numerose molecole che hanno
sapori e aromi caratteristici, ma
se masticate della carne cruda
non riuscirete a estrarne molti,
nonostante siano presenti per
circa il 70%. Per riuscire
nell’impresa, la carne la
dobbiamo cuocere.
ARROSTITA: LA REAZIONE
DI MAILLARD Che cos’hanno
in comune il caffè, il cacao, una
torta ben dorata, la birra, il
pane e una bistecca? Se ci
pensate, sono tutti cibi che da
crudi hanno poco sapore,
oppure sono sgradevoli come il
caffè o il cacao, ma una volta
cotti – la tostatura di cacao,
caffè e orzo è a tutti gli effetti
una cottura – assumono aromi
e sapori meravigliosamente
complessi. Succede a tutti quei
cibi che sviluppano una
colorazione più scura se esposti
ad alte temperature, anche alla
carne.
Quando le temperature
superano di un bel po’ la
temperatura di ebollizione
dell’acqua, in un forno o in
padella per esempio, la carne
sviluppa aromi, colori e sapori
che prima non possedeva. I
grassi presenti si sciolgono
velocemente e cominciano a
ossidarsi in presenza di
ossigeno e questi nuovi
composti possono contribuire
al sapore complessivo. Ma i
sapori che si creano a
temperature elevate dipendono
soprattutto dalle proteine e
dagli zuccheri. La responsabile
è una reazione chimica
diventata famosa anche presso
cuochi e gastronomi: la
reazione di Maillard, la più
importante di tutta la cucina.
L’ANGOLO CHIMICO
REAZIONE O REAZIONI? Si
parla di reazione di
Maillard, al singolare, ma
in realtà si dovrebbe
usare il plurale: reazioni
di Maillard, perché
avvengono centinaia di
reazioni diverse a
seconda del tipo di
zucchero e di
amminoacido coinvolto,
del pH e della
temperatura.
Nonostante sia passato
un secolo dalla scoperta
di queste reazioni, molte
delle sostanze prodotte
non sono ancora state
identificate
chimicamente.
LO SAPEVATE CHE?
Prima della
scoperta della
reazione di
Maillard si
pensava che la
carne contenesse
una sostanza,
chiamata
osmazoma, che le
donava il sapore.
Più un brodo
veniva ristretto,
più scuro
diventava, e più
questa misteriosa
sostanza si
concentrava
rivelando il suo
colore bruno e
donando sempre
più sapore. In
realtà ora
sappiamo che non
esiste nessun
osmazoma nella
carne e che il
colore bruno è
dovuto ai prodotti
della reazione di
Maillard e alla
degradazione delle
proteine.
IL “GUSTO DI CARNE
ARROSTITA”
L’ANGOLO CHIMICO
REAZIONE DI MAILLARD O
DECOMPOSIZIONE DELLA
MIOGLOBINA? Gli scienziati
hanno stabilito che nella
carne di bovino la
reazione di Maillard
avviene principalmente
tra il ribosio, uno
zucchero presente negli
acidi nucleici, e la
cisteina, anche se i
dettagli non sono ancora
stati chiariti e qualcuno
ipotizza che una parte
dei composti gustosi
prodotti dalla cottura
della carne rossa di
manzo non derivi affatto
dalla reazione di
Maillard, ma dalla
decomposizione della
mioblogina, la proteina di
cui la carne rossa è ricca.
LA REAZIONE DI
MAILLARD IN AZIONE
La reazione di Maillard non è
specifica della carne. Può
avvenire anche nei vegetali e in
alcuni casi persino in ambiente
acquoso e a temperature
inferiori ai 100 °C: quando si
riduce un brodo facendolo
bollire molto a lungo questo
diventa più scuro anche grazie
a queste reazioni. Anche lo
sciroppo d’acero diventa scuro
durante l’ebollizione e così il
dulce de leche, la tipica crema
sudamericana fatta con il latte.
Nella maggior parte dei casi
però, quando parliamo di
cottura della carne, una
condizione necessaria perché la
reazione avvenga velocemente
è che la temperatura raggiunga
almeno i 140 °C. Un pezzo di
carne messo in acqua a bollire
non diventerà mai bruno.
CONSIGLIO
Se salate la bistecca
molto prima della
cottura, per
insaporirla,
ricordatevi di
asciugare l’acqua sulla
superficie prima di
metterla in padella.
L’umidità ritarda il
brunimento di
Maillard.
L’ANGOLO
CHIMICO
SOSTANZE ACIDE E
ALCALINE IN CUCINA La
maggior parte degli
alimenti e delle
sostanze che si usano
in cucina sono acidi.
Due rare eccezioni
sono il bicarbonato di
sodio e l’albume. In
casa possiamo avere
altre sostanze alcaline,
come l’ammoniaca o la
soda caustica, ma,
salvo rarissimi casi,
non si usano per
preparare cibi.
Tornando alla nostra cipolla,
le trasformazioni che subisce
sono almeno in parte un
effetto della reazione di
Maillard. Spesso i prodotti di
queste due reazioni distinte
vengono confusi e nel mondo
gastronomico si parla
genericamente di
“caramellizzazione” anche se
in realtà in azione c’è quasi
sempre la reazione di
Maillard.
1 Tritate finemente la
cipolla, dividetela in 3
mucchietti e depositateli in
una pentola antiaderente.
Unite un cucchiaino di olio di
semi a ogni mucchietto.
3 Accendete il fuoco a
fiamma media, rigirando i tre
gruppi con 3 spatole diverse
per minimizzare la
contaminazione.
5 Dopo altri 10 minuti la
cipolla al bicarbonato è
ridotta quasi a una pasta,
molto scura. Anche la cipolla
all’aceto ha subito un po’ di
reazione di Maillard, ma in
misura molto minore mentre
la cipolla di controllo è più
bruna.
L’ANGOLO
CHIMICO
EST MODUS IN REBUS Tra i
composti che la
reazione di Maillard
produce, ve ne sono di
potenzialmente tossici.
Quasi in ogni cibo
troviamo sostanze
benefiche e altre
potenzialmente
tossiche o cancerogene
e il nostro organismo
cerca di eliminare
quelle dannose e
assorbire quelle utili. È
impossibile non
assumere molecole
che, in gran quantità,
possono avere effetti
negativi; per questo è
importantissimo
seguire una dieta
bilanciata, ricca di
frutta e verdura cruda
e cotta, con poca carne
rossa e insaccati ed
evitare di mangiare
troppo. Assumere
carne tutti i giorni, non
è sicuramente una
buona idea, reazione di
Maillard o meno.
RICETTA
LA BISTECCA
INGREDIENTI 1 entrecôte
alta 2-3 cm
olio
extravergine
di oliva
sale grosso
PROCEDIMENTO
1
Se la carne è già tenera la
cottura serve più che altro a
distruggere i microrganismi
presenti e a svilupparne il
gusto sulla superficie.
Asciugatela ben bene con della
carta assorbente da cucina. La
superficie della bistecca deve
essere ben asciutta perché,
come abbiamo visto, l’acqua è
nemica delle reazioni di
Maillard. Se volete, salate a
piacere entrambi i lati della
bistecca. Se avete sentito che
questo non si deve fare perché
altrimenti la carne diventa
secca e dura, sappiate che non è
vero. La cottura è troppo veloce
perché i fenomeni di osmosi
possano estrarre i succhi dalla
carne. Se la salate un’ora prima,
come si fa in molte Steak House
americane che di bistecche se
ne intendono, il sale riuscirà a
penetrare un po’ sotto la
superficie migliorando il sapore
della bistecca e mantenendola
anche succosa.
2
Se la vostra bistecca è
sufficientemente grassa non è
necessario aggiungere olio. Se
invece è un taglio un po’ magro,
potete spalmare per bene con le
mani un filo di olio su entrambi
i lati della carne. L’olio serve per
trasferire velocemente e in
modo uniforme il calore, per
conduzione, dalla padella alla
carne, e non contribuisce
direttamente al sapore.
Cuocendo a fuoco diretto sulla
brace non è necessario. E il
burro? No, sarebbe meglio non
usare il burro per queste
bistecche. Non può essere
scaldato alle temperature
necessarie senza che cominci a
bruciare. Per lo stesso motivo
l’olio extravergine di oliva non è
molto adatto. Nonostante
quanto spesso si sente dire,
l’olio extravergine può avere un
basso punto di fumo,
specialmente se non è a bassa
acidità, e si degrada a
temperature più basse di altri
oli. In più, è un peccato
distruggere il suo sapore
scaldandolo ad alte
temperature dopo che è stato
fatto tutto il possibile nel
frantoio per mantenere le
temperature sotto i 27 °C. Molto
meglio l’olio di oliva, che ha un
punto di fumo più alto, o anche
altri oli vegetali ad alto punto
di fumo.
3
Prendete la padella di metallo
che favorisce le reazioni di
Maillard, mentre nelle padelle
antiaderenti l’imbrunimento è
molto più difficile. La ghisa è
perfetta, ma se non ce l’avete
l’acciaio va benissimo.
Cominciate a scaldare la
padella vuota a fuoco medio-
alto. Se la padella è di buona
qualità, spessa e pesante per
distribuire bene il calore e
mantenerlo a lungo, potreste
anche metterci un paio di
minuti per riscaldarla bene.
Potete anche aggiungere un filo
d’olio direttamente in padella,
invece che oliare la carne, ma
fate attenzione: se iniziate a
scaldare così poco olio a freddo,
in alcuni punti potrebbe
bruciare. Molto meglio portare
in temperatura e poi, poco
prima di aggiungere la bistecca,
versare un filo d’olio.
4
Quando la padella è molto calda
potete adagiarvi le bistecche.
Attenzione a non affollarla per
due motivi: rischiate di
abbassare troppo la
temperatura e di non lasciare
spazio a sufficienza per far
evaporare l’acqua, con il
risultato che comincerà a
raccogliersi sul fondo,
abbassando ulteriormente la
temperatura a 100 °C. La
padella deve sempre essere
sufficientemente calda da
vaporizzare quasi
istantaneamente i succhi che
fuoriescono dalla carne,
altrimenti otterrete delle orride
bistecche bollite, grigie perché
le reazioni di Maillard non sono
avvenute, asciutte perché le
proteine della carne sono
coagulate strizzando fuori i
succhi, e dure perché,
stracuocendo, le fibre si sono
contratte e accorciate. La carne
tenera deve essere cotta il più
velocemente possibile ad alta
temperatura in modo che
l’interno non superi i 60 °C,
temperatura alla quale il
collagene inizia a contrarsi
velocemente.
5
Avete adagiato le bistecche, la
carne sfrigola, l’olio schizza e si
sviluppa anche un po’ di fumo.
Ebbene sì, cucinare bene spesso
implica sporcare e affumicare
un po’ la cucina. A questo punto
occorre sangue freddo: i cuochi
alle prime armi – anch’io facevo
così un tempo – temono che la
carne si possa attaccare alla
padella e cercano di muovere
continuamente le bistecche per
evitarlo. È proprio ciò che deve
succedere! Lasciate che si
attacchi e allontanatevi senza
muovere la carne. Questo
favorirà le reazioni di Maillard.
Vedrete che dopo 1-2 minuti la
carne si staccherà da sola dalla
padella, ma non vi azzardate a
girarla fino a quando,
sbirciando sotto un lembo dopo
averlo sollevato leggermente,
non vedrete il caratteristico
colore bruno. Tenete il fuoco
sotto controllo: la temperatura
deve essere sempre abbastanza
alta, ma non eccessiva, perché a
temperature prossime ai 180 °C
cominciano a formarsi anche
composti bruciacchiati, tossici
oltre che poco appetitosi. Se la
bistecca è molto alta, dovrete
aspettare anche alcuni minuti
prima di girarla. Insomma,
lasciate che la reazione di
Maillard faccia il suo corso.
6
Cuocete fino a raggiungere la
cottura interna desiderata: al
sangue o media, tra 50 °C e 60
°C. Come dite? La volete ben
cotta? È un vero peccato
cuocere così tanto una bistecca.
La farete diventare dura e
secca. Soldi buttati, a mio
parere. Pensate che in alcune
Steak House si rifiutano di
cuocere così le bistecche, anche
se il cliente protesta.
Internamente la carne deve
rimanere umida e rosa e non
superare i 60 °C.
7
Finita la cottura, adagiate la
vostra bistecca su un piatto,
copritela con alluminio per
alimenti e aspettate almeno un
paio di minuti prima di
mangiarla: in questo modo
darete modo ai succhi interni di
ridistribuirsi e reidratare le
zone esterne rimaste più
asciutte. Infatti, se tagliate in
due una bistecca appena cotta
uscirà parte del liquido
accumulato all’interno.
8
Pensate a quello che è successo
durante la cottura: la superficie
della carne è a contatto con il
metallo caldissimo, i succhi che
fuoriescono vengono
immediatamente vaporizzati…
no, non vi è nessuna
“sigillatura” che impedisca ai
succhi di uscire. Quindi a fine
cottura la parte esterna della
bistecca, quella più vicina alla
crosta, è più disidratata.
All’interno, dove la
temperatura è più bassa, i
succhi non sono più
intrappolati nelle fibre.
Lasciare riposare la bistecca per
qualche minuto dà il tempo ai
liquidi di redistribuirsi verso le
zone più disidratate e,
tagliando la bistecca, ne
fuoriusciranno di meno.
9
Da qualche tempo è diventato
di moda, nella cottura delle
Fiorentine, lasciare le bistecche
sopra la brace per alcuni minuti
appoggiate sull’osso. È una
procedura puramente
scenografica dal punto di vista
della cottura, perché in quella
posizione, schermata dall’osso,
la temperatura interna della
carne non aumenta più, ma può
servire per dare il tempo ai
succhi di ridistribuirsi.
10
Dopo aver cotto le bistecche
guardate il fondo della vostra
padella di metallo. Vedete quei
grumi di colore marroncino?
Sono i fondi. I prodotti della
reazione di Maillard. Gusto allo
stato puro. Se ne avete usata
una antiaderente non sarete
così fortunati. Non vi azzardate
neppure a buttare
direttamente la padella in
lavastoviglie o nel lavandino.
Potete invece utilizzare un
liquido per deglassare quel ben
di Dio. Vediamo come:
eliminate l’eccesso di grassi e oli
avendo cura di non gettare le
particelle o il liquido bruno. Se
la padella è ancora calda potete
semplicemente aggiungere un
po’ di vino, ma anche acqua o
birra o succhi, a seconda dei
gusti. Sperimentate! Raschiate
il fondo con una spatolina per
aiutare le particelle a
disciogliersi. Se necessario,
riaccendete il fuoco per
concentrare il liquido. Potete
poi versarlo direttamente sulla
carne, oppure utilizzarlo per
farne una salsa.
LO SAPEVATE CHE?
Il nome bistecca
deriva dall’inglese
beef steak:
bistecca di manzo.
TRE PROCEDURE POCO
ORTODOSSE
Nella procedura standard di
cottura di una bistecca di
altezza media, dopo aver
depositato la carne si aspetta
fino a quando la superficie a
diretto contatto con il metallo,
o esposta alla brace, è brunita.
A questo punto si gira per
cuocere l’altra faccia e infine,
per un fattore soprattutto
estetico, tenendola con una
pinza da cucina si mette
velocemente la bistecca in
verticale per scottare e brunire
il bordo. Lo svantaggio di girare
la bistecca una volta sola è che
il calore, oltre a brunire la
superficie innescando la
reazione di Maillard, dopo un
po’ penetra anche negli strati
sottostanti e la temperatura
può superare i 60 °C anche per
alcuni millimetri sotto la
superficie.
Una procedura poco
ortodossa ma efficace per
evitare ciò consiste nel girare la
bistecca ogni trenta secondi,
dopo un iniziale brunimento
superficiale. In questo modo il
calore accumulato su un lato ha
modo di disperdersi un po’
quando la bistecca viene girata.
Le temperature, pur sufficienti
per far avvenire la reazione di
Maillard, sono più controllate
perché le superfici non si
scalderanno né si
raffredderanno troppo, la carne
resterà rosa anche negli strati
vicini alla superficie e cuocerà
anche più velocemente.
Se la bistecca è molto alta,
più di 3 cm, sia con la procedura
tradizionale sia con quella poco
ortodossa c’è sempre il rischio
che possa bruciare
esternamente prima di cuocere
all’interno al grado desiderato.
Una soluzione poco diffusa in
Italia, ma sicuramente con una
base scientifica, è finire la
cottura al forno. L’idea è di dare
alla carne prima una passata in
padella, diciamo 2-3 minuti per
lato, in modo che avvenga la
reazione di Maillard. Formata la
crosticina marrone si
trasferisce la padella in un
forno preriscaldato a 250 °C.
Ovviamente la padella non
deve avere un manico di
plastica o di legno. Dopo 2-3
minuti si gira la bistecca, e dopo
altri 2-3 minuti si toglie dal
forno. In questo modo
permettiamo al calore del
forno, più basso e più uniforme,
di cuocere l’interno della
bistecca, lasciandola succosa,
senza correre il rischio di
bruciare l’esterno. Il tempo da
trascorrere in forno aumenta
con l’aumentare dello spessore
della bistecca. Ce l’avete un
termometro per controllare
ogni tanto la temperatura al
cuore? Ricordate di inserirlo dal
bordo, parallelo alle due facce
della bistecca.
Questi metodi di cottura si
sono diffusi nella convinzione
errata che un riscaldamento
iniziale della carne potesse
sigillare i succhi al suo interno.
Questo non è purtroppo vero,
anzi, gli esperimenti controllati
mostrano come sia meglio, dal
punto di vista gastronomico,
fare l’esatto contrario, sempre
parlando di tagli piuttosto
spessi: prima portare la carne
alla temperatura interna
desiderata e solo alla fine
rosolare brevemente
esternamente la carne con un
calore molto intenso. Si
potrebbe tentare di seguire tale
procedura mettendo la bistecca
in forno a temperature inferiori
ai 120 °C prima di passarla in
padella, ma con l’avvento dei
moderni metodi di cottura a
temperatura controllata, con
un bagno termico, è molto più
facile. Si cuoce la carne a
temperatura controllata, tra i
50 °C e i 55 °C solitamente, in un
sacchetto sottovuoto, e quando
si è pronti la si toglie dal
sacchetto, la si asciuga e si
scottano molto velocemente i
due lati in una padella a
temperatura molto elevata.
Con questo metodo, che 93
alcuni esperti considerano il
miglior modo per cucinare una
bistecca, è praticamente
impossibile stracuocerla e si
può regolare precisamente la
temperatura interna
desiderata. Non solo al cuore
ma in tutti gli strati interni.
CHE FARE SE…
SE LA PERCHÉ È
CO
BISTECCA… SUCCESSO?
L’avete
cotta troppo.
Non è un
taglio adatto
C
per una
S
… è dura bistecca, c’è
div
troppo tessuto
C
connettivo.
La carne è
di cattiva
qualità.
È stata cotta
a temperature
A
troppo basse.
tem
Le reazioni di
pad
Maillard non
più
sono
la c
avvenute.
N
… è grigia Probabilmente
bist
si è
con
accumulata
Asc
dell’acqua
dell
nella padella.
Tog
La carne era
prim
appena stata
tolta dal
frigorifero.
È stata cotta
troppo. La
carne deve C
rimanere tem
… è secca succosa e U
rossa/rosa. con
Era stata
congelata in
precedenza.
CHE FARE SE…
SE LA PERCHÉ È C
BISTECCA… SUCCESSO? PUÒ
È stata
Cu
… è cruda cotta troppo
più
poco.
Non
l’avrete mica
… ha perso punzecchiata N
molti succhi con una prov
forchetta,
vero?
Sc
un t
più
C’è poco N
grasso per il fil
… è poco veicolare i un t
saporita sapori. sapo
È un taglio men
poco saporito cost
anch
po’ m
tene
Temperatura
troppo alta: la
U
parte esterna
tem
è bruciata è bruciata
più
all’esterno e prima che
F
cruda l’interno
seco
all’interno potesse
cuocere. cott
Carne forn
troppo alta.
A
la
Temperatura
tem
troppo alta.
C
è bruciata Cattiva
pade
all’esterno padella.
sia p
Troppo
spes
poco grasso.
M
più
LA CONSISTENZA DELLA CARNE
Le sensazioni tattili e di
resistenza meccanica che
proviamo quando mastichiamo
un pezzo di carne sono il
risultato diretto della sua
struttura gerarchica a fibre:
l’unità fondamentale, abbiamo
visto, è come un filo ricoperto
da una guaina, composto a sua
volta da vari filamenti e da
altre componenti come l’acqua
e i grassi. Quando mastichiamo
un boccone i nostri denti
devono rompere sia la guaina –
il tessuto connettivo – sia i fili
interni – le proteine delle
fibrille. Se entrambi sono molto
sottili, e possibilmente già
indeboliti o spezzati, la carne
risulterà tenera.
Abbiamo visto che l’utilizzo
rende il muscolo più fibroso,
ricco di tessuto connettivo e
sostanze saporite. Quindi, come
regola generale, gli animali più
giovani sono più teneri, ma
meno saporiti degli animali più
vecchi. In più, gli animali di
allevamento quasi sempre non
fanno lo stesso esercizio degli
animali allo stato selvatico,
come i cervi, i caprioli o i
cinghiali. È per questo che
questi ultimi sono spesso più
duri ma saporiti. E non a caso,
in montagna, la polenta si
mangia con il cervo o il capriolo,
mentre la bistecca per i
bambini spesso la si prepara
con carne di vitello. Tenera, ma
in quanto a sapore…
Allo stesso modo, in uno
stesso animale avremo muscoli
più utilizzati e quindi più duri e
saporiti di altri meno utilizzati.
Pensate, per esempio, al petto
di pollo e alle sovracosce: qual è
la parte più saporita? E quella
più tenera?
La tenerezza di un muscolo –
prima e dopo la cottura –
dipende da vari fattori che si
combinano in maniera
complessa e ancora non del
tutto compresa. Ne possiamo
identificare almeno tre: il
tessuto connettivo, le fibre e il
grasso. Abbiamo visto che le
proteine di un muscolo sono
strutturate sia nelle fibre, con
l’actina, la miosina e le altre
proteine strutturali, sia nel
tessuto connettivo, composto
soprattutto da collagene. Il
grasso inframezzato alle fibre
aiuta a separarle durante la
cottura. Quindi la tenerezza
della carne dipende
primariamente da quanto è
facile rompere le fibre e il
tessuto connettivo che le
circonda e dalla quantità di
grasso presente.
IL TESSUTO
CONNETTIVO L’effetto del
tessuto connettivo sulla
tenerezza di un muscolo è
anche chiamato “effetto di
fondo” perché, in una cottura
breve che non superi
internamente i 60 °C, il suo
effetto non è eliminabile non
essendoci il tempo per
scioglierlo e una volta superati i
60 °C la sua contrazione
renderà ancora più dura la
carne. È necessario raggiungere
temperature superiori a 70 °C
per scioglierlo, ma la velocità
con cui avviene questo
processo dipende anche dall’età
dell’animale perché nel corso
della vita fibre di collagene
adiacenti possono legarsi
chimicamente rendendo ancora
più duro il muscolo. La carne
del vitello per esempio è ricca di
collagene ma questo è
facilmente solubile: a 70 °C se
ne scioglie il 42% contro solo il
2% di un bovino di 10 anni di
età.
Studi recenti hanno cercato
di stabilire con precisione una
relazione tra il contenuto di
collagene di un taglio di carne e
la sua durezza, ma non si è
ancora arrivati a determinare
tutti i parametri in gioco. Pare
non essere tanto il collagene in
sé a influenzare la durezza della
carne, ma piuttosto come è
strutturato all’interno del
tessuto connettivo, il grado di
interconnessione tra filamenti
di collagene adiacenti, lo
spessore del perimisio e molti
altri parametri. Comunque, una
buona regola pratica da seguire
è che più collagene è presente e
meno tenera sarà la carne.
La tenerezza di un taglio di
carne è un fattore importante
da considerare nella scelta della
ricetta che prepareremo. Un
bovino ha svariate centinaia di
muscoli, ma solo alcuni di
questi vengono separati e
venduti come tagli di carne ben
identificati. In altri casi i tagli
che acquistiamo contengono
più muscoli assieme o gruppi
muscolari, la cui tenerezza può
anche essere differente.
Poiché il consumatore è alla
continua ricerca di tagli teneri, i
ricercatori si sono messi al
lavoro per valutare la tenerezza
dei singoli muscoli in modo
obiettivo, considerando anche
quelli che normalmente non
vengono separati. Sono stati
sviluppati test con cui valutare
le caratteristiche meccaniche di
un pezzo di carne, da affiancare
al giudizio di un gruppo di
assaggiatori esperti.
Curiosamente non sempre i
risultati dei test meccanici
coincidono con il giudizio degli
assaggiatori, mostrando come
la tenerezza, così come la
succosità, sia una caratteristica
difficilmente riducibile a un
singolo fattore misurabile con
una macchina e che, alla fine, il
test più sensibile è ancora
quello dell’assaggio.
Uno studio dell’Università
del Nebraska ha raccolto e
catalogato decine di ricerche
pubblicate nella letteratura
scientifica riuscendo a
classificare in ordine di
tenerezza una quarantina di
muscoli. Sul podio della
tenerezza, come era prevedibile,
sale il muscolo psoas maggiore,
conosciuto anche come filetto,
ma anche altri muscoli già
molto apprezzati per la
tenerezza e il sapore, come il
lunghissimo del torace e il
lunghissimo del dorso, muscoli
usati per produrre costate,
entrecôte e roast beef. Poche
sorprese anche verso il centro e
la coda della classifica, dove
troviamo sia muscoli del gluteo
e della coscia comunemente
fatti a fettine o bistecche, come
la fesa e lo scamone, saporiti
ma non particolarmente teneri,
sia muscoli del collo o del petto,
come la punta di petto, che
sono infatti più spesso o
macinati oppure utilizzati per
cotture lunghe in modo da
sciogliere il tessuto connettivo.
La classifica, però, riserva
alcune sorprese.
LA SCOPERTA DI UNA
NUOVA BISTECCA
Prenderla a martellate
Macinarla
LO SAPEVATE CHE?
Ricordatevi che
mangiando un
hamburger con
l’interno ancora
rosa avete una
probabilità, piccola
ma non nulla, di
contrarre qualche
malattia.
Salmonella,
Listeria,
Escherichia coli…
la lista di batteri
patogeni, anche
mortali, che
possiamo
assumere col cibo
poco cotto è molto
lunga.
LO SAPEVATE CHE?
Nella grande
distribuzione
possiamo
facilmente trovare
la carne di bovino
già macinata e
confezionata.
Spesso riporta le
denominazioni “da
sugo”, “scelta” e
“sceltissima”.
Questa
classificazione si
basa unicamente
sul contenuto di
grasso: più grassa
quella “da sugo”,
meno grassa
quella “scelta” e
ancora meno la
“sceltissima”.
Tagliarla
IL RIGOR MORTIS
Quando l’animale muore, nei
muscoli si innesca una
complessa serie di
cambiamenti biochimici e
biofisici. I muscoli
continuano per un po’ il loro
metabolismo ma, in assenza
di ossigeno, le proteine delle
fibrille non vengono più
tenute separate e si legano
irreversibilmente in quello
che viene chiamato rigor
mortis. Durante questo
periodo i muscoli si
contraggono e,
accorciandosi, aumentano la
durezza della carne. Questo
fenomeno dipende da molti
fattori, tra cui la
temperatura a cui viene
lasciato l’animale.
L’accorciamento muscolare
è minimo attorno ai 15 °C,
ma per evitare la
proliferazione batterica, le
carni vengono tenute a
temperature molto basse,
causando un considerevole
accorciamento delle fibre
muscolari.
Frollare
L’ANGOLO CHIMICO
LE CALPAINE E LA
CATEPSINA Alla morte
dell’animale si attiva un
gruppo di enzimi
naturalmente presenti, le
calpaine, che iniziano ad
attaccare le fibre
muscolari. Le proteine
delle miofibrille vengono
rotte poco alla volta,
ridando tenerezza al
muscolo irrigidito dal
rigor mortis. Purtroppo
le calpaine non agiscono
sul collagene; possono
però ridurre il numero di
legami tra fibre di
collagene adiacenti,
facilitando un po’ la fase
di cottura. Le calpaine,
una volta attivate, si
autodistruggono e
scompaiono dalla carne
dopo due settimane.
LA FROLLATURA UMIDA
Nella frollatura a secco la
carne perde di peso grazie
all’evaporazione dell’acqua,
con ovvie conseguenze sul
prezzo. In più, alla fine della
frollatura la superficie è
diventata una crosta
marrone che deve essere
eliminata, riducendo
ulteriormente la quantità di
merce vendibile.
Negli anni Sessanta si
cominciarono a studiare dei
metodi alternativi di
frollatura. In particolare gli
studi scientifici si
focalizzarono sulla
maturazione della carne
messa sotto vuoto in
sacchetti di plastica. Con
questo metodo, chiamato
“frollatura umida”, la carne
aveva meno problemi di
proliferazione batterica e,
cosa importante dal punto
di vista commerciale, la
perdita di peso si riduceva,
diminuendo i costi. Negli
anni Ottanta questo modo
di maturare la carne prese il
sopravvento, grazie anche al
fatto che la carne
sottovuoto poteva essere
commercializzata con più
facilità sui mercati
internazionali che non le
carcasse sezionate in quarti
o mezzene.
ESPERIMENTO
FROLLATURA A SECCO FAI DA TE
Vi potrà sembrare bizzarro,
ma in un’epoca in cui si
riscopre il piacere di fare le
cose in casa, a volte anche
solo per divertimento,
accanto a coloro che
fabbricano saponi e
dentifrici, preparano
confetture, distillano
acquavite e producono birra,
ci sono anche persone che
provano a frollare la carne. In
realtà è molto semplice, visto
che non c’è nulla di
particolare da fare, anche se
io sono abbastanza scettico
sul risultato rispetto ai rischi
che si corrono. È
fondamentale, infatti, essere
perfettamente certi di
rispettare le norme igieniche,
visto che stiamo parlando di
carne cruda, terreno di
coltura adatto per batteri e
microrganismi di ogni tipo.
Per evitare una
proliferazione batterica la
carne va tenuta all’aria a 0-3
°C, con un’umidità attorno
all’80%. In teoria, quindi, il
frigorifero di casa ha la
temperatura adatta,
specialmente nella parte più
bassa, la più fredda. È però un
ambiente troppo secco e
quindi, per mantenere la
carne un po’ più umida,
qualcuno suggerisce di
avvolgere bene il pezzo di
carne con della garza spessa,
in modo che l’aria possa
passare ma la carne non sia
esposta direttamente all’aria.
Questo dovrebbe anche
mitigare l’odore di carne
frollata – che, badate bene,
non è carne che sta
marcendo, ma ha comunque
un odore piuttosto intenso –
nel vostro frigorifero.
Un frigorifero che apriamo
continuamente oppure uno
un po’ vecchiotto, però,
potrebbe avere una
temperatura interna
superiore ai 4 °C, e in questo
caso i batteri comincerebbero
a proliferare. Se accade, ve ne
accorgerete subito dall’odore
sgradevole che si diffonderà
nel vostro elettrodomestico
preferito. Quindi, se avete
intenzione di provare,
procuratevi un termometro
da frigorifero e cercate di non
aprire troppo spesso la porta.
Ovviamente sarebbe meglio
evitare totalmente la
presenza di altri cibi anche se,
mi rendo conto, è difficile, a
meno che non si abbiano due
frigoriferi in casa. Anche il
ristagno di liquidi
eventualmente persi dal
pezzo di carne deve essere
evitato a tutti i costi. È
opportuno quindi, nel caso
un giorno vogliate davvero
cimentarvi – io, ripeto, ve lo
sconsiglio – sollevare la carne
con una griglia metallica
dalla teglia su cui l’avete
adagiata.
Inutile dirvi che non stiamo
parlando di una fettina di
carne, ma solitamente di un
pezzo impegnativo, magari
una fiorentina da 1,5 kg o un
controfiletto da 3 kg. Quanto
tempo potete far durare
l’esperimento? Farlo per
meno di 2 giorni non vale la
pena, mentre con 3 o 4 giorni
dovreste già vedere qualche
differenza rispetto alla carne
non frollata. Con più di 4
giorni, a mio parere, i rischi di
proliferazione batterica
aumentano troppo e il gioco
non vale la candela.
Ovviamente, se prima del
termine cominciate a sentire
odori ammoniacali, puzza di
putrefazione o altri odori
sgradevoli interrompete
immediatamente il vostro
esperimento, buttate via
tutto e disinfettate il
frigorifero.
Prima di cucinare il pezzo
dovrete, con un coltello,
togliete tutta la parte
superficiale. Inutile dire che
non potrete certo ottenere gli
stessi risultati di un
ristorante che ha nel menu
bistecche frollate a secco per
più di tre settimane, dato che,
come ormai sapete, una
frollatura inferiore a 7 giorni
modifica poco sapore e
consistenza della carne.
Il mio consiglio? Spenderete
meglio i vostri soldi andando
a mangiare una bistecca
frollata da chi lo fa di
mestiere. Frollare la carne è
un’attività per professionisti,
impossibile da replicare a
casa.
Precuocere
Marinare
Le marinate sono liquidi o salse
contenenti sempre un
ingrediente acido, come yogurt,
aceto, vino, succo di limone o di
altri frutti, in cui la carne è
tenuta immersa, in frigorifero,
per un tempo che va da un’ora a
più giorni.
Lo scopo principale della
marinatura è quello di
aromatizzare la carne ed è per
questo che è efficace
soprattutto quando i pezzi
hanno grandi superfici a cui far
aderire gli aromi. Nelle
marinate, infatti, spesso sono
aggiunte anche erbe
aromatiche e spezie che,
durante il periodo di
marinatura, insaporiranno la
superficie della carne
arricchendone il gusto. Questo
effetto è particolarmente
apprezzato per carni dal sapore
più blando, come il petto di
pollo o alcuni tagli del maiale.
Purtroppo l’effetto
aromatizzante si limita alla
superficie poiché la
penetrazione in profondità di
una marinata è molto lenta, a
causa della grandezza delle
molecole coinvolte. E procede
per diffusione tanto più
lentamente quanto più è bassa
la temperatura. Una
marinatura nel vino di un pezzo
di carne tenuto in frigorifero
per una notte può penetrare
solo di qualche millimetro.
Perché, allora, molte ricette
prescrivono di lasciar marinare
la carne anche per 48 ore? La
giustificazione che viene spesso
addotta è che le marinate
inteneriscono la carne. In
effetti gli acidi sono in grado di
denaturare alcune proteine, e
così possono fare l’alcol e altre
sostanze. L’effetto è visibile
anche a occhio nudo: forse
avrete notato che quando
spruzzate un po’ di succo di
limone sulla carne cruda questa
diventa più chiara. Ma ha un
effetto anche sulla morbidezza
della carne?
CONSIGLIO
Gettate sempre il
liquido di una
marinata, non
riutilizzatelo mai a
crudo. È un
ricettacolo di
microrganismi, visto
che vi è rimasta
immersa della carne
cruda. Se volete
utilizzare la marinata
anche per condire la
carne, preparatene di
più e tenetene un po’
da parte. In questo
modo quella che
porterete in tavola
non sarà
contaminata.
Consultando la letteratura
scientifica si trovano vari studi
sul presunto effetto di
ammorbidimento della carne
da parte delle marinate, ma i
risultati sono contrastanti: in
alcuni casi sembra esserci un
piccolo effetto, in altri l’effetto
è talmente elevato da rendere
la carne una poltiglia
immangiabile, in altri ancora
non si è notato alcun effetto.
Alcuni studi riportano anche
un aumento della succosità,
mentre altri dichiarano di
ottenere carne più asciutta. In
realtà, leggendo bene gli studi si
scopre che spesso non sono
comparabili: c’è chi studia
l’effetto su muscoli già
relativamente teneri, come la
lombata, e chi sui durissimi
muscoli del collo. Chi per
marinare usa il vino e chi il
succo d’ananas. Alcuni di questi
studi, poi, non hanno un reale
impatto in cucina: chi mai
cuocerebbe un muscolo tenero
e da cotture asciutte come la
lombata a 80 °C per 90 minuti o
porterebbe una bistecca
internamente a 75 °C?
LO SAPEVATE CHE?
Gli acidi
denaturano le
proteine e danno
una parvenza di
“cottura”, ma in
realtà manca un
effetto
fondamentale: la
sanificazione che
deriva dalle alte
temperature. Non
basta immergere
la carne, o il pesce,
nel limone per
uccidere tutti i
batteri e i parassiti
eventualmente
presenti. Il
consumo di carne
o pesci crudi,
anche se marinati,
espone sempre a
un rischio
sanitario.
MARINATE CON
LATTICINI Avete mai
mangiato un pollo tandoori in
un ristorante indiano? Io lo
adoro. I pezzi di pollo, prima di
essere arrostiti, sono fatti
marinare nello yogurt
arricchito di spezie che donano
il caratteristico rosso acceso. È
la marinatura a rendere
morbida e mantenere succosa
la carne. Marinature a base di
latte cagliato o fermentato,
come yogurt, kefir, latticello e
panna acida, sono comuni in
molte cucine del mondo, anche
se non in quella italiana.
Eppure tutti gli studi
concordano nel ritenerle
efficaci. L’acidità blanda data
dall’acido lattico è potenziata
dall’effetto dovuto agli ioni
calcio contenuti in questi
prodotti. Ci sono indizi che il
calcio attivi l’enzima catepsina
– ormai una nostra vecchia
conoscenza – che agisce
principalmente sulle proteine
delle miofibrille. In più, l’acido
lattico permette alla carne di
assorbire acqua rendendo la
carne dopo la cottura più
succosa. Ecco perché questo
tipo di marinate sono spesso
usate per pollo e maiale, che
sono sempre a rischio di
asciugarsi troppo.
MARINATE
ENZIMATICHE Così come
alcuni enzimi già presenti nella
carne possono attaccare le
proteine e intenerire la carne, si
è scoperto che esistono enzimi
di origine vegetale con
proprietà analoghe. Avete mai
letto attentamente l’etichetta
della confezione dei fogli di
gelatina, la cosiddetta “colla di
pesce”? Si usa comunemente
per preparare alcuni dessert,
come la panna cotta o gli aspic
dolci o, semplicemente, le
gelatine di frutta. Tuttavia,
come ricorda la confezione, non
è possibile preparare gelatine
con alcuni tipi di frutta fresca,
come l’ananas e il kiwi. Questo
perché la gelatina, ormai lo
sapete, è costituita da
tropocollagene e, una volta
sciolta a caldo in acqua e
lasciata raffreddare, è in grado
di formare un reticolo
tridimensionale che intrappola
l’acqua, donando a un liquido
acquoso una consistenza
semisolida. Alcuni frutti, come
ananas, kiwi, papaia e fichi, e
persino gli asparagi e lo
zenzero, contengono degli
enzimi – chiamati proteasi o
enzimi proteolitici – che sono in
grado di rompere le proteine.
Questi enzimi rompono i
filamenti di gelatina in tanti
frammenti non più capaci di
creare una struttura
tridimensionale stabile.
Lo stesso avviene per il
collagene che avvolge i fasci
muscolari. Ecco quindi che le
marinate a base di ananas, kiwi
o papaia possono ammorbidire
la carne sciogliendo
parzialmente il tessuto
connettivo. L’uso degli enzimi
proteolitici contenuti nella
papaia, nell’ananas o in altri
vegetali ha però uno
svantaggio: questi enzimi sono
poco attivi a temperatura
ambiente e si mettono a
lavorare velocemente solo
quando la temperatura si
innalza. Per esempio, la papaina
contenuta nella papaia è attiva
tra 50 e 80 °C, temperature
raggiunte solo in fase di
cottura, quando è difficile
controllare l’attività
dell’enzima e si corre il rischio
di ottenere una pappetta
informe o delle grandi
disomogeneità di consistenza
nel pezzo di carne che si sta
cucinando. Per questo motivo
gli enzimi proteolitici sono
scarsamente utilizzati nella
cucina tradizionale, se non per
carni eccezionalmente dure.
PAPAINA BR
(PAPAIA) (A
TEMPERATURA
65-75 °C
OTTIMALE
pH OTTIMALE 4–6
ATTIVITÀ
SULLE eccellente
MIOFIBRILLE
ATTIVITÀ SUL
eccellente
COLLAGENE
MARINATE
SALATE L’obiettivo di una
marinatura acida è quello di
denaturare parzialmente le
proteine in superficie
permettendo al liquido
aromatico di penetrare un po’
nella carne. Come vedremo nel
prossimo capitolo, la presenza
del sale permette all’acqua di
penetrare più in profondità
nelle fibre. Quindi, se volete
amplificare l’effetto di una
marinata dei tre tipi già visti,
aggiungete del sale.
ESPERIMENTO
ENZIMI MANGIAPROTEINE
Vi propongo un semplice
esperimento da fare in casa
per vedere con i vostri occhi
l’effetto degli enzimi
proteolitici contenuti in kiwi,
papaia e ananas. Usate i fogli
di gelatina secondo le
istruzioni della confezione
per gelificare un bicchiere
d’acqua. Usate un bicchiere di
plastica per facilitare l’uscita
della gelatina una volta
solidificata. Ponete la
gelatina, a temperatura
ambiente, su un piatto e
depositateci sopra una fetta
di kiwi fresco appena
tagliato. L’enzima
proteolitico del kiwi,
l’actinidina, a contatto con la
gelatina pian piano
comincerà a distruggere il
reticolo tridimensionale del
collagene. Nel giro di mezza
giornata vedrete la gelatina
dissolversi in una pozza
d’acqua sotto i vostri occhi.
Per questo motivo se volete
preparare una gelatina a
partire da ananas o kiwi
freschi dovete prima
disattivare quegli enzimi, per
esempio scaldando il succo
che volete gelificare.
L’enzima portato a
temperature superiori a 80 °C
viene denaturato, perde le
sue proprietà e si può quindi
procedere alla gelificazione.
RICETTA
HAMBURGER
PROCEDIMENTO
1
Se decidete di macinare voi la
carne cercate di non
sminuzzarla né troppo né
troppo poco. Una trita troppo
grossolana può essere adatta
per un ragù ma in bocca, in un
hamburger, non avrà la
consistenza adatta. D’altra
parte, macinare troppo
finemente porta a una
struttura troppo compatta
della polpetta di carne, senza
lasciare spazi vuoti al suo
interno. La granulometria
ideale è quella che permette
alla carne di rimanere coesa
durante la cottura, senza
sbriciolarsi, ma lascia
comunque un po’ di spazio tra i
vari pezzettini. Quando i succhi
della carne cominceranno a
fuoriuscire in cottura,
rimarranno nelle cavità lasciate
dalla giusta macinazione,
mantenendo succoso
l’hamburger.
2
Su un vassoio mettete la carne
macinata. Non aggiungete sale.
La carne trita al tatto risulta
più appiccicosa di un pezzo di
carne intero. Durante la
macinazione, infatti, vengono
liberate alcune proteine che
danno al macinato questa
caratteristica. La loro funzione
è preziosa, perché ci permette
di costruire e tenere insieme
l’hamburger senza usare altri
ingredienti, come le uova, usate
invece in polpette e polpettoni.
Il sale scioglie le proteine
nell’acqua liberata dalla
macinazione, quindi
aggiungerlo alla carne
macinata prima della cottura
porta a un aumento di collosità
e, alla fine, a un’eccessiva
compattezza dell’hamburger.
3
Con le mani dividete
delicatamente la carne in
quattro parti, senza schiacciare,
e per ognuna cercate di
ottenere un disco alto 1,5-2 cm,
non di più. Lavorate
delicatamente e velocemente,
senza pressare troppo.
L’interno non deve essere
denso. Non preoccupatevi se le
prime volte non vi vengono dei
dischi perfetti. Cercate di
lavorare poco la carne per
evitare di compattarla troppo.
4
Meglio un hamburger dalla
forma un po’ sgraziata, ma
succoso, che un disco perfetto
ma troppo compatto. Poiché in
cottura l’hamburger può
restringersi e gonfiarsi un po’ al
centro, potete scavare con il
pollice una piccola fossetta al
centro in modo che, dopo la
cottura, l’hamburger risulti
quasi piatto. Mettete le
polpette ottenute in frigorifero
per un’ora: il grasso diventerà
più duro e manterranno più
facilmente la struttura in
cottura.
5
Quando decidete di cuocerle,
togliete le polpette dal
frigorifero. Non è necessario
aspettare che arrivino a
temperatura ambiente. Ora
potete salarle sulla superficie.
Scaldate una padella o una
piastra; la temperatura deve
essere sufficientemente alta da
vaporizzare velocemente, ma
non istantaneamente, una
goccia d’acqua. Una padella di
ghisa è l’ideale, anche se non
può sostituire la griglia.
6
Depositate uno o più polpette
sulla padella. Niente olio. Non
preoccupatevi: il grasso della
carne impedirà che si attacchi.
Avete preso della carne
macinata grassa, vero?
7
Non vi azzardate a schiacciare
con una spatola l’hamburger. Sì,
lo so che avete visto spesso chi
lo fa, ed è anche scenografico
sentire quei sibili e quel vapore
che si solleva, ma facendolo
buttereste solo via tanti
saporiti succhi.
8
Cuocete 4 minuti per lato. Il
tempo dipende ovviamente
dallo spessore della vostra
polpetta e da quanto la volete
cuocere al centro, se la volete
rosata oppure no.
9
Togliete l’hamburger dalla
padella e lasciatelo riposare per
un minuto o 2 prima di
metterlo nel panino preparato
con quello che vi piace. Se siete
a corto di idee e non volete
affogarlo nel ketchup, provate
la ricetta seguente, di Virginia
Gaspardo (La Viz).
Se masticate un pezzo di
carne cruda a temperatura
ambiente non riuscirete a
far uscire molti succhi. E
questo perché l’acqua
contenuta – ricordatevi che
è il primo componente – è
in gran parte intrappolata
nelle fibre oppure
strettamente legata alle
proteine. A mano a mano
che la temperatura
aumenta, superati i 60 °C il
collagene si contrae e i
succhi vengono rilasciati,
fino a essere persi
completamente quando si
superano i 75 °C.
LA PAROLA AI
GIURATI Non vi fidate delle
misurazioni asettiche degli
scienziati? Bene, allora
lasciamo spazio all’accusa,
seguendo le prove che
chiunque può raccogliere
mettendo una bistecca in una
padella rovente.
Se ora, con la superficie
umida, mettete la bistecca in
padella, non riuscirete a
ottenere quella bella
crosticina asciutta e
croccante perché l’acqua,
evaporando, abbasserà la
temperatura riducendo
l’effetto della reazione di
Maillard.
Tuttavia questa è solo la
prima parte della storia.
Lasciamo passare qualche
decina di minuti e il sale,
sciogliendosi, inizierà a
denaturare le proteine delle
fibre, che saranno dunque
meno legate tra loro [ FOTO 3
]. Sapete che le fibre
muscolari sono formate
principalmente da actina e
miosina, e quest’ultima è
solubile in acqua molto
salata. Dopo un po’ di tempo,
negli spazi che si sono creati
tra le fibrille, dentro le fibre,
grazie alla denaturazione
delle proteine e allo
scioglimento della miosina,
l’acqua salata sarà in parte
riassorbita, causando
un’ulteriore denaturazione
delle fibre più in profondità [
FOTO 4 ]. Per una bistecca
alta un centimetro servono
almeno 30-40 minuti perché
si compia questo processo.
Quando cuocerete la carne,
gli ioni sodio e cloro penetrati
tra le fibre proteggeranno un
po’ le proteine dalla
coagulazione e dalla
conseguente perdita di
acqua. In più, le proteine
disciolte riusciranno meglio a
trattenere i succhi. Quindi,
contrariamente a quanto si
pensa, la bistecca salata
prima della cottura non sarà
affatto più secca di una non
salata, a patto di salare con
buon anticipo la carne. Il
sapore della carne, poiché il
sale è penetrato in
profondità e non si trova solo
sulla superficie, verrà
amplificato in cottura.
L’unico accorgimento da
seguire è asciugare bene la
bistecca, eliminando tutta
l’acqua superficiale, prima di
metterla in padella. Non
temete: l’acqua persa con la
salatura è trascurabile
rispetto a quella che esce in
cottura, e non influenza il
sapore. Dopo tutto, l’acqua
non è saporita: il gusto di una
bistecca viene dalle proteine
e dal grasso. Se non avete
tempo di aspettare un’ora per
l’effetto del sale, cuocete
immediatamente dopo aver
salato la carne, senza lasciare
il tempo alla superficie di
inumidirsi.
L’EFFETTO DEL SALE
DRY RUB
Il significato letterale è
«massaggio a secco». I dry
rub sono costituiti da una
miscela di sale, spezie e
aromi da applicare a secco
“massaggiando” la carne
almeno un’ora prima di
cuocerla, solitamente alla
griglia, al BBQ o al forno. Gli
aromi daranno sapore alla
crosticina esterna mentre il
sale penetrerà un po’
all’interno, insaporendo la
carne e contribuendo a
mantenerla succosa.
LE SALAMOIE (BRINE)
Quand’è l’ultima volta che
avete assaggiato un petto di
tacchino arrosto che non fosse
troppo asciutto? E che dire
della carne di maiale? Negli
ultimi decenni il mercato ha
richiesto carne sempre più
magra e il miglioramento
genetico ha risposto
producendo maiali con carne
sempre meno grassa. Il
risultato è che cuocendo un
pezzo di lonza al forno o un
filetto si corre sempre il rischio
di ottenere una pietanza
stopposa, asciutta e non certo
succulenta. Come sapete, il
grasso, sciogliendosi in cottura,
lubrifica i fasci muscolari e
mitiga la sensazione di
asciuttezza tipica di tagli magri
e poveri di tessuto connettivo,
come appunto un filetto di
maiale o un petto di pollo o di
tacchino.
Per ovviare a questo
problema, negli Stati Uniti,
dove la preparazione del
tacchino al forno è di rigore nel
giorno del Ringraziamento –
anche se, diciamolo, la carne di
tacchino non è granché, ma la
tradizione è la tradizione –, da
un po’ di anni si sta
diffondendo una tecnica
chiamata brining,
tradizionalmente usata nei
Paesi scandinavi ma poco
conosciuta altrove,
specialmente in Italia. L’idea di
base è semplice: poiché durante
la cottura la carne perde
inevitabilmente succhi,
possiamo cercare di far
penetrare acqua nelle fibre
muscolari prima della cottura
per controbilanciare l’effetto.
Per far ciò si immerge
completamente la carne in una
salamoia, cioè un bagno di
acqua salata. La percentuale di
cloruro di sodio in acqua è
solitamente tra il 3 e il 10%. È
importante, per evitare
proliferazioni batteriche, che il
bagno di acqua sia molto
freddo e venga tenuto in
frigorifero a temperature non
superiori a 4 °C.
Se immergiamo in acqua
salata dei pezzi di melanzana
l’acqua uscirà, facendoli
raggrinzire. Questo effetto può
essere desiderato prima di una
frittura, per evitare che
successivamente le melanzane,
con la loro struttura spugnosa,
assorbano troppo olio. L’acqua,
insieme a un po’ di sostanze
aromatiche, esce dalle cellule
della melanzana per osmosi.
Come mai, allora, se
immergiamo della carne di
pollo o di un altro animale in
una soluzione di sale l’acqua
entra nell’alimento invece di
uscire?
La concentrazione di cloruro
di sodio all’esterno della carne
immersa in salamoia è
superiore a quella interna e,
attraverso un meccanismo di
diffusione, gli ioni cloro e gli
ioni sodio che compongono il
sale da cucina penetrano
all’interno delle fibre muscolari.
Una salamoia al 3%, con una
salinità simile all’acqua di mare,
è in grado di denaturare
parzialmente le proteine che
supportano le fibre muscolari.
Non ci accade quando facciamo
il bagno d’estate solo perché
siamo protetti dalla pelle e i
nostri muscoli non sono stati
tagliati esponendo le fibre.
La velocità di diffusione del
sale nella carne dipende da
molti fattori: dalla
concentrazione, dal tipo di
animale, dalla temperatura,
dalla presenza di grasso,
eccetera. È comunque un
processo lento, a volte di pochi
millimetri all’ora. Se ricordate,
la maggior parte dell’acqua
contenuta nella carne è
immagazzinata tra le proteine
delle fibrille. Il sale, penetrando
nella carne, allarga lo spazio tra
le molecole di miosina e actina,
e così facendo crea lo spazio per
far entrare altra acqua; il
processo si ripete, lentamente,
sempre più in profondità. A
concentrazioni tra il 5 e il 10%, il
sale denatura e scioglie
parzialmente anche alcune
proteine delle fibre, tra cui la
miosina. Le proteine
denaturate legano l’acqua più
di quanto non facciano nella
loro forma nativa, ma
soprattutto, una volta scaldate,
formano un gel che intrappola
l’acqua e non la fa sfuggire,
esattamente come succede
all’albume man mano che
cuoce. Come risultato finale, la
carne sarà più succosa.
L’ANGOLO CHIMICO
LA CONCENTRAZIONE DEL
SALE Esperimenti sulla
carne di bovino
mostrano come questa
riesca ad assorbire acqua
finché la concentrazione
di sale rimane inferiore al
2%. Tra il 3 e il 5% le fibre
tendono invece a
espellere l’acqua
contenuta, per poi
assorbirla rapidamente
quando la
concentrazione di sale è
compresa tra il 5% e il
10%.
CONSIGLIO
L’acqua della
salamoia non deve
essere calda, per
evitare fenomeni di
proliferazione
batterica. Il sale da
cucina si scioglie bene
anche in acqua
fredda, ma ci mette
un po’ di tempo in più.
RICETTA
IL FILETTO DI MAIALE ARROSTO
PROCEDIMENTO
1
Per prima cosa dovrete togliere
con un coltello affilato e
appuntito tutto il tessuto
connettivo che avvolge il
filetto. È principalmente
reticolina che non si scioglie in
cottura. La procedura è molto
semplice: infilate la punta di un
coltello da disosso
immediatamente sotto la
pellicola bianca e, facendovi
strada con la lama, fate sbucare
il coltello un paio di centimetri
oltre il taglio d’entrata.
2
Inclinando la lama leggermente
verso l’alto tagliate la striscia di
tessuto connettivo fino
all’uscita del coltello. Prendete
poi il capo della striscia e,
tenendolo sempre teso,
asportate anche il resto
nell’altra direzione. Alla fine
avrete un filetto ripulito dal
tessuto connettivo esterno.
3
Il filetto di maiale, insieme al
petto di pollo intero, è uno dei
tagli che più può beneficiare
della tecnica del brining,
l’immersione prolungata in una
salamoia. Preparate una
soluzione con 2 l di acqua
fredda – io utilizzo acqua
raffreddata in frigorifero – e il
sale. Usate quello fino per
velocizzare lo scioglimento.
Immergete il filetto nella
salamoia, chiudete il
contenitore e riponete in
frigorifero. Tenetelo immerso
per 4 ore. Se a fine ricetta lo
troverete troppo salato per i
vostri gusti, la volta successiva
preparate una salamoia al 5%,
con solo 100 g di sale per 2 l
d’acqua.
4
Togliete il maiale dalla
salamoia e asciugatelo ben
bene con carta assorbente da
cucina: l’umidità è nemica della
reazione di Maillard. Ora
dobbiamo occuparci del
classico problema del filetto di
maiale: la forma. Il filetto ha
una delle due estremità più
assottigliata: questo significa
che durante la cottura la
temperatura interna non sarà
omogenea; alla fine, il vostro
filetto potrebbe essere
stracotto da una parte e quasi
crudo dall’altra. Per evitare
questo è preferibile legare il
pezzo di carne ripiegando su se
stessa l’estremità in modo tale
da ottenere un cilindro più o
meno uniforme.
5
Cospargete di pepe e oliate a
piacere il filetto, ma niente sale:
è già dentro la carne grazie alla
salamoia. Ora la carne è pronta
per la rosolatura esterna e,
successivamente, per la ricetta
che più vi piace. Se decidete di
rosolarlo nel forno potete usare
il grill, posizionando il filetto in
alto dentro una teglia di
alluminio usa e getta dai bordi
alti, quelle che si usano per le
lasagne o le melanzane alla
parmigiana. L’alluminio per
alimenti aiuterà a riflettere
parte della radiazione
infrarossa verso la carne,
velocizzando la rosolatura
esterna. Quando è rosolato
toglietelo dal forno. Come al
solito, quando usate il grill, non
allontanatevi per nessun
motivo. Vi confesso che, dopo
aver bruciato una volta del
pollo, con conseguente puzzo di
bruciato sparso per tutta la
cucina, controllo
compulsivamente il forno ogni
volta che uso il grill.
Un’alternativa più semplice e
meno rischiosa, di sicuro più
classica, è la rosolatura in
padella.
6
Che abbiate rosolato il filetto al
grill oppure in padella, se volete
continuare la cottura al forno,
magari mentre in padella
preparate delle patate arrosto,
impostate la temperatura a 150-
160 °C, inserite un termometro a
sonda al centro del filetto e
cuocete fino ad arrivare a 65-68
°C, a seconda che lo preferiate
più o meno rosato. Servitelo
tagliandolo a fette e versandoci
sopra la vostra salsa preferita.
Un grande classico della cucina
tedesca, in cui la carne di maiale
è molto usata, è la salsa di mele.
Se invece preferite continuare
la cottura sul fornello, potete
preparare un arrosto morto. Si
chiamano così quelle ricette in
cui, dopo una rosolatura
iniziale, la cottura avviene in
ambiente umido. Un po’ come
un brasato, ma in questo caso
non vi è collagene da sciogliere
e la cottura avviene in un
recipiente aperto.
7
Dopo aver rosolato il filetto,
tenetelo in caldo mentre fate
soffriggere una cipolla tagliata
fine. Il maiale viene spesso
cucinato con il cumino oppure
con i semi di finocchio. Se vi
piacciono, aggiungetene un po’
alla cipolla che soffrigge.
Ancora una volta, niente sale.
Non sappiamo quanto ne ha
assorbito in precedenza il
maiale e, nel caso manchi,
possiamo sempre aggiungerlo
alla fine. Quando la cipolla è
diventata dorata aggiungete la
birra. È contemporaneamente
acida, amara e dolce e si sposa
benissimo con la carne di
maiale.
8
Depositate il filetto, con il
termometro inserito, e cuocete
a fuoco basso. Ogni tanto
giratelo. Quando avrà
raggiunto i 65-68 °C potete
toglierlo dalla casseruola e
metterlo su un tagliere. La
temperatura interna
continuerà a salire ancora per
un po’, raggiungendo i 70-71 °C.
9
Mentre aspettate che la carne si
raffreddi un po’ per poterla
affettare, passate la cipolla
nella pentola per preparare una
salsa.
A fine cottura le carni arrostite
possono assorbire dei liquidi,
rimpiazzando parzialmente
quelli persi. Affettate, ricoprite
di salsa e servite.
COTTURE ASCIUTTE
CONSIGLIO
In un forno ventilato
la trasmissione del
calore è più veloce,
quindi il cibo cuoce
più rapidamente e
l’acqua evapora più
velocemente dalla
superficie. Se questo è
un effetto
indesiderato nella
vostra preparazione,
riducete di 10-15 °C la
temperatura del
forno per rallentare
l’evaporazione.
1. ROSOLARE PRIMA LA
CARNE, in padella oppure nel
forno ad alta temperatura, e
continuare la cottura in forno a
temperature più basse, fino a
quando il cuore non abbia
raggiunto la temperatura
desiderata. Ovviamente è molto
difficile rosolare bene in
padella un taglio che contenga
delle ossa, come un carré di
vitello o un’arista di maiale.
2. CUOCERE PRIMA
L’INTERNO in forno a
temperature moderate, quindi
130-150 °C. Quando la carne è
quasi cotta, alzare la
temperatura per produrre la
crosticina gustosa. È
consigliabile togliere
temporaneamente l’arrosto dal
forno, lasciandolo riposare
coperto con un foglio di
alluminio per alimenti, mentre
la temperatura aumenta fino a
raggiungere i 190 °C. In questo
modo la carne disperderà un po’
di calore e, una volta rimessa
nel forno per la breve
rosolatura finale, sarà solo la
superficie a raggiungere alte
temperature.
Aumentando ancora la
quantità di grassi, in modo da
immergervi parzialmente il
cibo, arriviamo all’ultimo stadio
prima della frittura vera e
propria, il soffritto. I tempi di
cottura di un soffritto sono
solitamente brevi e le
temperature non arrivano a 150
°C a causa dell’umidità che esce
dall’alimento e le mantiene
basse. Per queste preparazioni,
la carne solitamente viene
battuta per darle una forma
appiattita, in modo che cuocia
più velocemente. Scaloppine,
cotolette, piccate sono tutte
ricette in cui la carne è piatta,
per massimizzare l’effetto
superficiale durante la cottura.
Il trasferimento di calore è
mediato dal grasso, quindi è più
controllato rispetto al contatto
diretto con una padella
rovente. Tuttavia, il rischio di
bruciare tutto perché ci si è
distratti un attimo rimane.
D’altronde, se abbassate troppo
il fuoco, l’acqua che esce non
vaporizzerà velocemente e farà
calare troppo la temperatura
del grasso, con il risultato di
dorare poco, o per nulla, il cibo,
che risulterà molliccio.
La maggior parte dei grassi e
degli oli alimentari possono
agevolmente arrivare fino a 160
°C. Il burro invece, se non è
stato chiarificato eliminando le
proteine contenute, inizia a
bruciare man mano che ci si
avvicina 150 °C. Fate quindi
attenzione quando lo usate per
un soffritto.
Quando si soffriggono fette
di carne o di pesce, molto
spesso le si ricopre con una
panatura: uno strato di amido
che può arrivare dalla farina,
dal pangrattato, da grissini e
cracker sbriciolati o dall’amido
puro vero e proprio,
eventualmente dopo averle
immerse in una battuta d’uovo
che funge da collante, senza
aggiunta di sale. Lo scopo della
panatura è proteggere la
superficie della carne o del
pesce dalle temperature elevate
dell’olio, riducendo quindi la
perdita di umidità, che invece
avviene nella panatura. L’olio o
il burro friggono la panatura
esterna, la quale assorbe
l’umidità che si sviluppa dalla
carne e la dissipa nel grasso
bollente.
Nella cucina italiana
l’emblema di questo tipo di
cottura è la cotoletta alla
milanese – rigorosamente
soffritta nel burro chiarificato
– o le innumerevoli ricette
simili che si trovano in tutta la
penisola. Nella versione
casalinga, invece della
costoletta di vitello, presa dal
carré, si usano più spesso i petti
di pollo o la carne di maiale,
sempre ben appiattiti per
ridurre i tempi di cottura ma
soprattutto per aumentare la
superficie croccante e gustosa,
la vera goduria di una cotoletta.
CONSIGLIO
La temperatura del
grasso utilizzato è
cruciale per la buona
riuscita di una
panatura fritta. Se è
troppo elevata
rischiate di bruciare
la superficie, cosa che
avverrà anche se
usate troppo poco
grasso, una parte del
quale sarà comunque
assorbito dall’amido.
Se ne resta troppo
poco per coprire il
fondo della padella, le
parti scoperte
aumenteranno troppo
di temperatura
bruciando i residui. Se
invece la temperatura
è troppo bassa, l’olio
verrà assorbito dalla
panatura, che
risulterà tutta
fuorché asciutta e
invitante.
FRIGGERE
L’ANGOLO CHIMICO
L’OLIO Da sempre l’uomo
ha sfruttato i semi di
alcune piante, o i frutti,
come le olive, per
estrarre grassi da usare
per gli usi più diversi: per
nutrirsi, da usare come
combustibile, per
dipingere, produrre
creme, saponi, profumi e
molto altro. Il metodo
più antico per estrarre
l’olio, e anche il più
semplice, è quello
meccanico: si schiacciano
i semi o i frutti sin
quando liberano l’olio.
Questo metodo funziona
solo se i grassi sono
presenti in grande
quantità. Le nocciole o il
sesamo, per esempio,
contengono più del 50%
di grassi e sono utilizzati
da millenni per produrre
oli. Un metodo più
recente, usato per semi
poco grassi come il mais,
è l’estrazione per mezzo
di un solvente che viene
poi fatto evaporare e non
rimane nel prodotto
finale.
GRASSI
SEMI O CONTENUTI
FRUTTI (PERCENTUAL
INDICATIVA
Noci
76%
macadamia
Nocciole 61%
Arachidi 48%
Soia 20%
Olive 15%
Mais 1%
L’ANGOLO CHIMICO
LA STABILITÀ DELL’OLIO Le
autorità sanitarie da
qualche anno
suggeriscono di friggere
alcuni alimenti, come le
patatine, a temperature
inferiori a 170 °C, per
ridurre la formazione di
composti tossici come
l’acrilammide.
2
Misurate la
temperatura
dell’olio con
un
termometro.
Non
scendete
sotto i 160
°C, perché il
cibo si
inzupperebbe
di olio o
rimarrebbe
molliccio, e
non
superate i
180 °C,
perché
rischiereste
di bruciare
tutto.
3
Usate una
quantità
adeguata di
olio. Se ne
usate
troppo poco
l’aggiunta
del cibo può
far
scendere la
temperatura
sotto i 150
°C e la
vostra
frittura
risulterà
molto unta
o molliccia.
4
Friggete
pochi pezzi
alla volta,
scolando
mano a
mano quelli
già cotti e
mettendo in
padella
quelli
ancora da
friggere. Se
aggiungete
tutti i pezzi
in una volta
sola
rischiate di
abbassare
troppo la
temperatura
dell’olio.
5
Meglio non
riutilizzare
un olio già
usato in
precedenza
per friggere;
se usate
una
friggitrice,
non
rabboccate
mai il
vecchio olio
con quello
fresco:
sostituitelo
completamente.
6
Non
allontanatevi
mai mentre
friggete.
Superato il
punto di
fumo, l’olio
potrebbe
incendiarsi.
Per
precauzione
tenete
sempre a
portata di
mano un
coperchio
per
chiudere
immediatamente
il recipiente
di frittura e
soffocare le
fiamme nel
malaugurato
caso
dovesse
succedere.
NON TUTTI GLI OLI
SONO UGUALI
Sono pronto a scommettere che
nella vostra cucina, come in
ogni altra cucina italiana, c’è
almeno una bottiglia di olio di
oliva, magari persino
extravergine. Dopo tutto, è
l’olio della cultura
mediterranea. Lo usiamo per
condire insalata e pomodori,
ma anche per preparare il sugo
per la pasta. Probabilmente
avrete anche altri oli. Io, per
esempio, tengo sempre in casa
una bottiglia di olio di arachidi,
ma anche quelli di mais, soia o
girasole sono piuttosto comuni.
A vederli, a parte il colore e
l’aroma, sembrano più o meno
tutti uguali, ma chimicamente
possono essere molto diversi.
Per soffriggere, dato che non
si raggiungono temperature
molto elevate, vanno bene più o
meno tutti gli oli e, facendo
attenzione, persino il burro non
chiarificato. In una frittura,
invece, l’olio viene sottoposto a
un riscaldamento violento,
intenso e prolungato che ne
compromette la stabilità
chimica, quindi per capire quali
sono quelli più adatti dobbiamo
scendere un po’ nel dettaglio.
Dal punto di vista chimico, oli
e grassi sono quasi
esclusivamente composti da
trigliceridi. È un nome che forse
avrete già letto sui referti delle
vostre analisi del sangue. I
trigliceridi contengono tre acidi
grassi che si classificano in
saturi, monoinsaturi e
polinsaturi. Senza entrare nel
dettaglio chimico, vi basti
sapere che tutti i grassi e gli oli
alimentari sono composti
sempre dagli stessi acidi grassi,
sia saturi che insaturi,
combinati in proporzioni
diverse e caratteristiche. Ed è
questo che li differenzia
principalmente l’uno dall’altro
dal punto di vista chimico.
MOLECOLA DI TRIGLICERIDE INSATURO
LO SAPEVATE CHE?
In cucina usiamo
molti tipi di grassi.
Alcuni, come il
burro o lo strutto,
sono solidi o
semisolidi a
temperatura
ambiente, mentre
altri sono liquidi e
vengono
colloquialmente
chiamati oli, con
alcune eccezioni.
Quelli con un
elevato contenuto
di acidi grassi
saturi, come l’olio
di palma o quello
di cocco, sono
solidi a
temperatura
ambiente, mentre
quelli con una
forte prevalenza di
acidi grassi
insaturi, come
l’olio di oliva o di
soia, sono liquidi.
L’ANGOLO CHIMICO
CLASSIFICAZIONE DEGLI
ACIDI GRASSI Gli acidi
grassi si classificano in
base al numero di doppi
legami che contengono.
Gli acidi grassi saturi,
come l’acido palmitico o
l’acido stearico, non
hanno doppi legami e
sono molto stabili. Gli
acidi grassi insaturi,
come l’acido oleico,
contengono uno
(monoinsaturi) o più
(polinsaturi) doppi
legami tra atomi di
carbonio. Si dicono
insaturi perché hanno
ancora la possibilità di
legare altri atomi di
idrogeno e saturare lo
spazio disponibile.
RICETTA
FAJITAS
PROCEDIMENTO
1
Tagliate la carne a strisce di
circa 1-1,5 cm di larghezza. Se
state usando il diaframma
tagliate perpendicolarmente
alle fibre. Spremete i lime o, se
non li avete, i limoni.
Aggiungete un po’ di sale, a
vostro gusto, e pepe macinato.
Questa è la marinata base: se
volete potete aggiungere erbe e
aromi. A me piace molto il
coriandolo, parente del
prezzemolo e molto usato nella
cucina messicana, ma alcune
persone lo detestano, perché
trovano che abbia un sapore a
metà tra il detersivo per i piatti
e le cimici verdi. Se siete tra
costoro, mettetevi il cuore in
pace: è un fattore genetico, non
vi piacerà mai.
2
Mettete il liquido in un
sacchetto di plastica con
chiusura a zip insieme alla
carne. Muovete un po’ con le
mani il contenuto in modo da
distribuire bene la carne nella
marinata. Mettete il sacchetto
in un contenitore di plastica,
per precauzione, nel caso si
aprisse, e riponete in frigorifero
per un’ora.
3
Tagliate le verdure. Io amo il
colore brillante dei peperoni:
usate almeno un peperone
verde e uno rosso, le fajitas
sono un piatto colorato. Io ci
aggiungo anche un peperone
giallo oppure uno di quelli
arancioni che da qualche tempo
si trovano in vendita. Dopo
averli puliti dai semi e aver
eliminato la parte bianca
interna, la placenta, appiattiteli
e tagliateli a striscioline larghe
5-10 mm e lunghe 5-10
centimetri. Mettete i peperoni
in una bacinella e ungeteli con
qualche cucchiaio d’olio, in
modo che la superficie sia ben
unta.
4
Tagliate anche la cipolla. Io
preferisco usare quelle a buccia
rossa: in questa ricetta tutta
colorata ci stanno benissimo e
in più trovo che abbiano un
sapore meno aggressivo di
quelle bianche o gialle.
Tagliatela a spicchi un po’
sottili in modo che, in cottura, si
dividano i vari segmenti,
oppure, se preferite, tagliatela
ad anelli dello spessore di 5 mm
circa. Tenetela separata dai
peperoni: questi cuociono più
lentamente delle cipolle, quindi
finiranno in padella per primi.
5
Passata un’ora, levate la carne
dal frigorifero, toglietela dalla
marinata e mettetela a scolare
per bene. Il liquido, per ragioni
sanitarie, va gettato e non può
essere riutilizzato. Scaldate una
padella sul fuoco, meglio se di
ghisa e pesante. Le temperature
in cottura devono sempre
rimanere molto alte, per
vaporizzare l’acqua che le
verdure cominceranno a
espellere non appena inizierete
a farle saltare. Se la padella è
piccola meglio cuocerle in più
blocchi, per evitare il
sovraffollamento.
6
Quando la padella è molto calda
– ve ne accorgete perché una
goccia d’acqua lasciata cadere si
muoverà velocemente
vaporizzandosi – tenendo
sempre il fuoco abbastanza alto
gettatevi dentro i peperoni. E
ricordatevi di accendere la
cappa aspirante! Se non si alza
del fumo misto a vapore vuol
dire che la padella non era
abbastanza calda. Spargete un
po’ di sale sui peperoni: aiuterà
a estrarre l’acqua più
velocemente, per osmosi. Fateli
saltare per qualche minuto,
stando attenti a non farli
bruciare. Se vi piace il piccante
tagliate a fettine uno o più
peperoncini jalapeño, ripuliti
dai semi, e aggiungeteli in
padella. Io ce li metto, ma
vedete voi.
7
Quando i peperoni si sono un
po’ ammorbiditi aggiungete la
cipolla e continuate a far
saltare per evitare che le
verdure si attacchino e brucino.
Se la temperatura della padella
si abbassa si formerà una pozza
d’acqua e otterrete delle
verdure bollite. Se vi rendete
conto di aver messo troppo
poco olio, potete aggiungerne
direttamente in padella. L’olio,
a differenza dell’acqua, può
essere scaldato a temperature
superiori a 140 °C, necessarie
perché avvenga la reazione di
Maillard.
8
Togliete dalla padella le
verdure quando saranno
ammorbidite, ma non mollicce.
Assaggiate! Riponetele in una
bacinella coperte.
9
Ora tocca alla carne. La padella,
da cui avrete tolto eventuali
residui di verdure, dovrebbe
essere già unta a sufficienza,
altrimenti aggiungete un filo
d’olio. Riportatela in
temperatura e aggiungete i
pezzi di carne, cercando di
tenerli ben separati e di non
affollare troppo la padella.
Fateli saltare per qualche
minuto a fuoco vivo. La cottura
deve essere al sangue o al
massimo media.
10
Quando la carne avrà
sviluppato un bel colore,
aggiungete le verdure e fate
saltare il tutto per qualche
decina di secondi: giusto il
tempo di amalgamare e far
evaporare l’acqua dalla
superficie di peperoni e cipolle.
Spegnete il fuoco. Se preferite
fare come al ristorante potete
servire in tavola separatamente
la carne e le verdure.
11
Regolate di sale. Se volete
essere filologici, vi servono
delle tortillas. Le potete
comprare confezionate in
qualsiasi supermercato o
negozio di alimenti etnici.
Dovete solo scaldarle
velocemente usando una
padella antiaderente calda.
Comprate le più sottili che
trovate.
12
Servite la carne in tavola con le
tortillas, la salsa guacamole e
della salsa piccante messicana.
Mettete nel centro di una
tortilla un po’ di carne e
verdure, un po’ di guacamole e
un po’ di salsa. Arrotolate e
buon appetito.
BONUS
TRACK
IL GUACAMOLE
Ormai sia nei supermercati sia
dai fruttivendoli è possibile
acquistare frutta che una volta
si poteva incontrare solo
durante qualche viaggio in
paesi lontani. Sicuramente un
frutto tra i più curiosi è
l’avocado, usato
prevalentemente come un
ortaggio: in insalata, come
condimento o per preparare
salse. Un po’ come il pomodoro,
che botanicamente è un frutto
ma non lo trattiamo come una
fragola o una mela.
L’avocado è originario del
Messico del Sud e del Centro
America. Gli Aztechi lo
consideravano un afrodisiaco e
gli diedero il nome ahuacatl,
che significa «testicoli», sia per
la forma del frutto sia per come
pende dall’albero. Gli spagnoli,
non riuscendo a pronunciare
correttamente la parola azteca,
lo chiamarono aguacate,
modificatosi poi in abogado in
spagnolo moderno e avocado in
inglese e in italiano.
Ha la particolarità, per un
frutto fresco, di essere
piuttosto povero di carboidrati
e molto ricco di grassi, anche
fino al 30%, a seconda della
varietà. Per questo motivo
veniva utilizzato su molte navi
nel Settecento come sostituto
del burro, spalmato sulle
gallette; per questo fu
soprannominato “il burro del
marinaio”.
È nella preparazione delle
salse che questo frutto dà il
meglio di sé. E, tra le varie
ricette, la mia preferita è il
guacamole, una salsa
messicana usata per
accompagnare piatti di carne e
pesce, ma che può essere
consumata anche da sola con
delle tortilla chips, i triangolini
di farina di mais.
Ci sono mille modi diversi per
preparare il guacamole, una
salsa semplice con infinite
varianti, a seconda del gusto
personale. Le due principali
varietà di avocado in
commercio sono la Fuerte e la
Hass. La differenza
fondamentale sta nella buccia
del frutto maturo: la varietà
Fuerte, dalla forma allungata
simile ad una pera, mantiene la
buccia verde mentre la varietà
Hass, più pregiata e dalla buccia
corrugata, diventa viola scuro o
addirittura nera a maturazione
avvenuta. Tra le due, scegliete
sicuramente la Hass.
Il punto cruciale, dal punto di
vista chimico, nella
preparazione di un buon
guacamole è impedire che la
polpa passi rapidamente da un
bel verde brillante a un colore
bruno-verdastro poco
invitante. Il colpevole del
cambiamento di colore è un
enzima, la polifenolossidasi,
responsabile anche
dell’annerimento del basilico
nel pesto. L’enzima utilizza
l’ossigeno dell’aria per ossidare i
polifenoli, formando tutta una
serie di composti bruno-
nerastri simili a quelli della
nostra pelle quando ci
abbronziamo.
Possiamo combattere il
cambiamento di colore in due
modi: sottraendo ossigeno
all’enzima oppure rallentando
la sua attività. L’esposizione
all’ossigeno che viene a
contatto con la salsa, già
preparata, si può ridurre
utilizzando la pellicola per
alimenti, utile soprattutto se si
vuole preparare il guacamole in
anticipo e conservarlo qualche
ora in frigorifero.
L’enzima, poi, rallenta la sua
azione se è in presenza di
sostanze acide e, guarda caso,
questo accorgimento è
addirittura presente nella
ricetta originale, che prevede di
aggiungere del succo di lime, un
agrume cugino del limone. In
mancanza del lime potete
utilizzare il succo di limone, che
però ha un gusto più forte e
rischia di sovrastare il sapore
delicato dell’avocado.
INGREDIENTI 1-2 avocado
1/2 cipolla
rossa
2 lime
1 spicchio
di aglio
coriandolo
fresco
1 pomodoro
maturo ma
sodo
(facoltativi)
sale
PROCEDIMENTO
1
Cominciamo con la parte che,
per chi non ha mai svuotato un
avocado, può risultare più
problematica: aprire un
avocado e togliere la polpa.
Prendete l’avocado maturo –
dovete sentirlo un po’ cedevole
al tatto – e con un coltello
affilato praticate un solco
lungo tutto il perimetro più
lungo, dalla punta al fondo.
Dovete affondare la lama del
coltello sino a sentire il seme. Il
frutto si dividerà in due.
2
C on un colpo netto – facendo
attenzione a non farvi male –
affondate un po’ un grosso
coltello nel seme.
3
Ora, ruotando il coltello,
dovreste riuscire ad estrarre il
seme senza problemi.
4
Ora potete svuotarlo. Tenete
nel palmo di una mano una
metà di avocado, e scavatela
con un cucchiaio versando il
contenuto in una ciotola.
Se il frutto è duro e non riuscite
a scavarlo significa che non è
ancora maturo: buttatelo e
preparate qualcos’altro. Se
invece la polpa è annerita,
significa che ha passato la fase
ottimale di maturazione. Se ha
un odore sgradevole buttatelo
e, come sopra, preparate
qualcos’altro
5
Con una forchetta schiacciate
grossolanamente la polpa
estratta dall’avocado e
aggiungete immediatamente il
succo di lime, mescolando bene.
Che non vi venga in mente di
usare un frullatore, un robot o
uno schiacciapatate: il
guacamole non deve essere una
pappetta e devono rimanere
anche dei pezzettini non
completamente ridotti in
poltiglia. La forchetta è più che
sufficiente.
Il lime manterrà la polpa verde
brillante più a lungo.
6
A questo punto potete
aggiungere gli altri ingredienti,
variando le quantità a seconda
del vostro gusto: uno spicchio
di aglio spremuto con lo
spremiaglio, un po’ di sale,
mezza cipolla tagliata molto
fine. Io nel guacamole
preferisco la cipolla rossa.
Qualcuno aggiunge anche del
coriandolo fresco, ma non a
tutti piace, e un piccolo
pomodoro maturo tagliato a
dadini.
Ecco il guacamole, pronto per
essere gustato.
7
Se volete conservarlo in
frigorifero per qualche ora
copritelo con pellicola per
alimenti, schiacciandola bene
sulla salsa per eliminare il più
possibile le sacche d’aria.
LA MATURAZIONE DELL’AVOCADO
Una peculiarità dell’avocado
è che, a differenza di altri
frutti, dopo aver raggiunto
la maturità fisiologica può
rimanere sulla pianta anche
vari mesi. Solamente una
volta staccato dall’albero si
innescano dei meccanismi
enzimatici che portano alla
maturazione completa del
frutto, con un
ammorbidimento della
polpa e, nel caso dell’Hass,
con un annerimento della
buccia. Una volta staccato
dall’albero, l’avocado
aumenta la propria
respirazione e inizia a
produrre etilene in quantità.
Finché non è reciso le foglie
della pianta producono delle
sostanze che inibiscono la
produzione di etilene.
Questo ormone segnala al
frutto di entrare nella fase
finale della maturazione. I
frutti che si comportano in
questo modo sono chiamati
climaterici e possono
maturare anche una volta
recisi dalla pianta. Molti
frutti sono climaterici e
producono etilene: ad
esempio mele, banane, pere,
kiwi, pesche, meloni e
pomodori (botanicamente
dei frutti). Questo è il
motivo per cui se nel cesto
della frutta è presente una
mela matura, viene
accelerata la maturazione
dei frutti climaterici vicini. I
frutti non climaterici invece
devono essere colti dalla
pianta a maturazione
completa: una volta recisi la
qualità può solo diminuire.
Alla lista appartengono
fragole, mirtilli, ciliege, uva,
arance e limoni.
RICETTA
FILETTO AL PEPE
PROCEDIMENTO
1
Preparate il pepe: schiacciate i
grani con un pestacarne, dopo
averli coperti con un telo. Se lo
avete, usate pure un mortaio
col suo pestello. Non usate il
pepe già macinato perché ha
perso la sua fragranza.
Schiacciatene abbastanza da
poter ricoprire le due facce di
ogni filetto.
2
Io adoro il pepe, ma se è troppo
pungente potrebbe infuocare il
palato di qualche vostro ospite.
Per ridurre l’effetto potete
cuocere il pepe con un po’ d’olio
in un pentolino a fuoco
bassissimo – stando attenti a
non farlo bruciare – per 5
minuti. Lasciate raffreddare e,
nel frattempo, tritate lo
scalogno.
L’ANGOLO CHIMICO
LA PIPERINA La principale
sostanza responsabile
del sapore pungente del
pepe è la piperina, che
stimola il nervo
trigemino. Tecnicamente,
quindi, non è un vero e
proprio sapore, perché
non stimola le papille
gustative. Se viene
riscaldata, la piperina si
trasforma in parte in una
sostanza meno
pungente.
3
Salate le bistecche su entrambi
i lati e premetevi sopra il pepe
con le mani. Usando della
pellicola per alimenti
schiacciatelo ben bene dentro
la carne. Questa operazione è
importante: se il pepe non è
stato ben schiacciato ci sarà
poco contatto tra la padella e la
superficie della carne, e questa
non brunirà bene.
4
Poiché dovremo costruire una
salsa con i fondi che la carne
lascerà nella padella, risultato
della reazione di Maillard,
usatene una di metallo, non
antiaderente. L’acciaio va
benissimo, ma anche la ghisa.
Mettete la padella sul fuoco e,
quando è molto calda,
aggiungete un cucchiaio d’olio e
un poco di burro. Non
raggiungeremo temperature
molto alte, quindi possiamo
usare un po’ di burro per dare
sapore al filetto. Non usate olio
extravergine: meglio un
semplice olio di oliva oppure un
olio di semi neutro.
5
Lasciate sciogliere il burro
nell’olio e fatelo schiumare in
modo da eliminare tutta
l’acqua. Quando il burro cambia
colore e il suo aroma comincia a
diffondersi è il momento di
aggiungere i filetti. È
importante che siano a
temperatura ambiente,
altrimenti la temperatura
diminuirà troppo. Cuocete 3-4
minuti per parte. Ormai sapete
che non dovete muoverli. Non
usate una padella troppo
grande, altrimenti l’olio
schizzerà un po’ ovunque. Un
po’ di fumo, comunque,
mettetelo in conto.
6
Togliete la carne dalla padella;
per non farla raffreddare
troppo potete ricoprirla con un
foglio di alluminio per alimenti
o, ancora meglio, sistemarla su
una teglia in forno a 60 °C. Ora
è il momento di trasformare i
fondi attaccati alla padella in
una salsa. Aggiungete lo
scalogno tritato e, con una
spatola o un cucchiaio,
muovetelo per iniziare a
staccare i fondi.
7
Portate la padella ad alta
temperatura, senza far bruciare
i residui e lo scalogno. Spegnete
il fuoco e versate il brandy.
L’alcol evaporerà liberando i
suoi fumi infiammabili: ecco
perché vi ho fatto spegnere il
fuoco. Se non avete il liquore
potete usare del vino bianco.
8
Se ve la sentite, potete
incendiare i vapori per ottenere
il flambé, usando un
fiammifero lungo o un
accendigas in modo da restare a
debita distanza. Oltre a essere
molto scenografica, la
combustione dell’alcol crea una
serie di molecole aromatiche.
Non è però strettamente
necessario e vi sconsiglio di
farlo se sopra la padella non
avete abbastanza spazio libero:
finireste per incendiare la
cappa o l’armadietto. Nei
ristoranti c’è sempre a portata
di mano un estintore, a casa no.
È una misura di sicurezza
necessaria perché, per quanto
possiamo essere cauti,
lavorando con fiamme libere
qualcosa può sempre andare
storto.
9
Ora potete riaccendere il
fornello a fuoco medio e, con
una spatola, continuare a
staccare i fondi della padella.
Quando il liquido sarà quasi
evaporato, aggiungete la panna
fresca: attenuerà il sapore
pungente del pepe. Portate di
nuovo a bollore a fuoco medio
sino a quando, riducendosi, il
liquido non diventerà più
viscoso. Serviranno alcuni
minuti. La salsa sarà un po’
dolce per gli zuccheri contenuti
nel liquore e nella panna.
Regolate di sale.
10
È il momento di servire i filetti
che avevate tenuto in caldo.
Potete rimetterli nella padella e
ricoprirli interamente con la
salsa, oppure metterli nel piatto
e versare la salsa sopra.
RICETTA
PICCATA DI POLLO AL LIMONE
PROCEDIMENTO
1
Se vi sentite a vostro agio con il
coltello – che sia sempre ben
affilato, mi raccomando –
potete tagliare da voi delle fette
da un petto di pollo intero
disossato. In questo modo
riuscirete a ottenere lo spessore
che desiderate. Altrimenti
usate pure le confezioni già
pronte, purché le fette non
siano troppo sottili.
2
Tagliate in due i limoni, fate a
fette abbastanza sottili mezzo
limone e spremete il resto. La
scorza del limone è ricca di
aromi: ci servirà per
intensificare il sapore in
padella. Intanto prendete i
capperi – io ne metto circa 5-8
per ogni fetta – schiacciateli
uno a uno leggermente con le
dita e metteteli in un bicchiere
di acqua calda. Sono sotto sale,
quindi vanno dissalati. Io li
tengo per 10 minuti in acqua
calda, poi la butto, la
sostituisco, e attendo per altri
10 minuti. Se non avete quelli
sotto sale, che a mio parere
sono migliori, usate pure quelli
sottaceto o in salamoia, ma
lavateli comunque. Tritate
finemente lo scalogno. Ha un
sapore più delicato delle cipolle
e non sovrasterà gli altri sapori.
3
Asciugate le fette con la carta
assorbente da cucina e spargete
un po’ di sale e pepe su
entrambi i lati. Infarinatele
depositandole una alla volta in
un contenitore in cui avrete
messo un po’ di farina,
scuotendole poi per eliminare
l’eccesso. La leggera copertura
di farina ha più funzioni: serve
a proteggere la carne del pollo
da un’eccesiva disidratazione in
cottura, partecipa alla reazione
di Maillard e contribuirà, con
l’amido contenuto, ad
addensare un po’ il sughetto
finale.
4
Prendete una padella d’acciaio
e scaldatela a fuoco medio. Il
metallo, a differenza dei
materiali antiaderenti,
favorisce la reazione di
Maillard. Quando è in
temperatura mettete un filo
d’olio e quando è caldo –
noterete muovendo la padella
che diminuisce notevolmente la
viscosità – depositate le fette.
Queste non devono
sovrapporsi, per lasciare lo
spazio al vapore di fuoriuscire.
Non muovetele per un paio di
minuti almeno. Quando
saranno ben dorate giratele.
Quando saranno dorate anche
dall’altra parte toglietele e
tenetele in caldo.
5
Sul fondo della padella
dovrebbero essere rimasti dei
fondi. Abbassate il fuoco e
aggiungete lo scalogno tritato,
o la cipolla se non lo avete.
Muovetelo con un cucchiaio o
una spatola per non farlo
attaccare. Dopo circa un
minuto dovrebbe essersi
ammorbidito.
6
Se volete una versione meno
dietetica aggiungete due pezzi
di burro, che farete sciogliere
muovendoli per la padella con
una forchetta. È il momento di
deglassare il fondo: aggiungete
il brodo di pollo. Se non lo avete
potete usare del vino bianco
leggero o, se non avete neanche
quello, dell’acqua.
7
Con un cucchiaio o una spatola
cercate di grattare e sciogliere i
fondi, sempre con il fuoco
acceso. Aggiungete il succo e le
fette di limone che avete
tagliato prima e cuocete per 5 o
più minuti sino a quando il
liquido si sarà ridotto
abbastanza da poter bagnare le
fette di pollo che avete già
cotto senza farle affogare nel
liquido. Unite i capperi e un po’
di prezzemolo tritato, a piacere.
8
Spegnete il fuoco e aggiungete
le fette di pollo. Giratele per far
aderire il liquido a entrambe le
facce. Grazie ai capperi non
dovreste aver bisogno di salare.
COTTURE UMIDE (E LENTE)
Se il taglio da cucinare ha un
contenuto ridotto di collagene
abbiamo già visto gli
innumerevoli modi in cui si può
preparare, evitando che si
indurisca e mantenendo la
carne succosa. Se invece il
taglio prescelto ha troppo
tessuto connettivo, duro da
masticare e ben poco
appetibile, va ammorbidito o
sciolto, e al cuoco viene
richiesto di trovare un
compromesso tra due opposte
esigenze: evitare che la carne si
indurisca troppo, senza farle
perdere troppi succhi e al
tempo stesso sciogliere
abbastanza velocemente il
collagene che tiene insieme le
fibre, usando temperature
superiori ai 75 °C, dato che a
temperature inferiori il
processo è molto lento.
Se una bistecca di filetto deve
essere cotta velocemente ad
alta temperatura, il reale, un
taglio ricco di tessuto
connettivo, è più adatto a una
cottura umida e lenta per
sciogliere il collagene e formare
la gelatina che lubrifica le fibre
muscolari rendendo la carne
morbida al palato.
La carne meno tenera, che
però spesso è anche la più
saporita, si cuoce in presenza di
acqua o sotto forma di latte,
vino, birra, brodo e persino dai
succhi della frutta. Nel corso
dei millenni anonimi cuochi
hanno inventato
un’impressionante varietà di
piatti succulenti basati su
questo principio: spezzatini,
stufati, brasati e così via.
CUOCIAMO IL
TESSUTO
CONNETTIVO
La citazione pseudobiblica è
ovviamente inventata, ma
avrebbe potuto benissimo
essere presente nell’Antico
Testamento, dato che non
sappiamo esattamente chi e
quando nell’antichità scoprì
che dalla cottura prolungata in
acqua di carne o ossa si poteva
ottenere un liquido
concentrato che, una volta
raffreddato, si inspessiva a tal
punto da mantenere
imprigionata l’acqua e gli aromi
formando la gelatina, il
risultato dello scioglimento del
collagene in acqua. Egizi e
Romani già la conoscevano e la
utilizzavano anche come
collante, mentre nel Medioevo
gelatine di carne e pesce,
variamente colorate e
aromatizzate, erano spesso
parte dei banchetti dei nobili.
Quando è acquistata in fogli
da ammorbidire e sciogliere in
acqua è nota in Italia come
“colla di pesce”. “Colla” per il suo
uso come collante, “di pesce”
perché quando iniziò la sua
produzione semiindustriale, più
di un secolo fa, la materia prima
di base erano le vesciche
natatorie dei pesci, in
particolare di storione. Ora
l’80% della gelatina alimentare
prodotta in Europa deriva dalla
cotenna del maiale. Il 15% è
ricavato da uno strato di
collagene presente sotto la
pelle dai bovini e il rimanente
5% deriva da ossa bovine e
suine. Nonostante non si usi
più il pesce, la denominazione
“colla di pesce” è ancora di uso
comune in gastronomia, a
riprova del fatto che nel mondo
della cucina spesso i nomi
rimangono invariati anche se
cambia la preparazione o la
ricetta a cui ci si riferisce,
creando a volte un po’ di
confusione.
L’ANGOLO CHIMICO
IL TRIPTOFANO Tra gli
amminoacidi che
formano la tripla elica
del tropocollagene è
completamente assente
il triptofano,
amminoacido essenziale
al nostro organismo. Per
questo motivo la
gelatina non può essere
utilizzata come sostituto
proteico completo.
Il collagene dei mammiferi
terrestri inizia ad ammorbidirsi
a partire da 55 °C e comincia
denaturare attorno ai 60 °C: i
filamenti della tripla elica
cominciano a separarsi
allentando i legami e per fare
questo sono costretti a
comprimersi
longitudinalmente accorciando
e inspessendo la struttura
muscolare, rendendo più dura
la carne e strizzando
letteralmente fuori l’acqua
racchiusa nelle fibre. [FIGURA 1]
Continuando a scaldare, in
presenza d’acqua, le tre eliche
del collagene si separano, e i
filamenti singoli sciolti sono
liberi di fluttuare in acqua: ecco
la gelatina. [FIGURA 2]
L’ANGOLO CHIMICO
I TEMPI DI RAFFREDDAMENTO
DELLA GELATINA Anche
quando riscaldiamo
l’albume dell’uovo si
forma un gel che
intrappola l’acqua
contenuta all’interno.
Tuttavia la
trasformazione
dell’albume non è
reversibile perché i
legami chimici formati
dalle molecole sono
troppo forti. La gelatina
invece forma dei legami
deboli che, aumentando
la temperatura, possono
essere distrutti facendo
tornare il sistema nella
fase liquida.
Se volete preparare un
aspic o una bavarese con
la colla di pesce sappiate
che la velocità di
raffreddamento della
gelatina è importante: un
raffreddamento lento
permette al collagene di
costruire un reticolo più
resistente, formando più
legami e più stabili.
Viceversa, raffreddando
rapidamente in
frigorifero si ottiene una
gelatina meno resistente.
COTTURE UMIDE
LO SAPEVATE CHE?
Alcuni famosi
bolliti della
tradizione italiana,
come quello
piemontese,
lombardo ed
emiliano, sono
serviti solitamente
in un carrello
apposito in quei
pochi ristoranti
che ancora li
preparano.
BRODI
Se lo scopo della cottura è
ottenere un buon brodo, la
carne a fine cottura non avrà
più tanto sapore e prenderà il
nome di “lesso” che può essere
comunque servito, inumidito
del proprio brodo.
Concentriamoci allora su ciò
che rimane nel liquido.
Il brodo, sia esso vegetale, di
pollo, di vitello o altro, è uno dei
compagni inseparabili di ogni
cuoco che si rispetti. Il
fondamento liquido di zuppe e
salse e il sostegno a moltissimi
piatti come risotti e minestre.
Nelle cucine grandi
professionali c’è sempre una
grande pentola che borbotta
con del brodo in preparazione.
Imparare a fare i brodi è
anche un atto di
ecosostenibilità, per sfruttare
anche quei tagli o quei
rimasugli che altrimenti
verrebbero gettati. Un pollo
non è fatto solo di due cosce e
un petto, così come un bovino
non ha solo filetti e altri tagli di
prima scelta. Attenzione: ho
detto “rimasugli” e non “scarti”.
Un brodo non è un ricettacolo
per buttarvi dentro qualsiasi
cosa stia andando a male nel
vostro frigorifero. Usando
ingredienti di scarto otterrete
un prodotto di scarto. Con
rimasugli intendo, per esempio,
il collo e le ali del pollo che vi
sono avanzati da qualche
ricetta. E che dire delle ossa?
Non sono buone solo per i cani.
CONSIGLIO
Quando fate il brodo
o vi avanza il liquido
di cottura di un
bollito, riducetelo di
volume e congelatelo
nei contenitori di
plastica per fare i
cubetti di ghiaccio, in
modo da riutilizzarlo
quando serve.
Un brodo è un liquido
aromatico e gustoso composto
solitamente da quattro
ingredienti. Il primo è l’acqua. È
il solvente, il liquido che
scioglierà le molecole
contenute negli altri
ingredienti. Se l’acqua del
vostro rubinetto è buona da
bere usate quella senza
problemi. Gusto e aroma
provengono prima di tutto
dall’ingrediente che
caratterizza il brodo: carne,
pesce o verdure. L’acqua
solitamente è tra il doppio e il
triplo, in peso, degli altri
ingredienti. Nei brodi di carne
si aggiungono sempre anche
degli ortaggi tagliati
grossolanamente. La
combinazione più diffusa è il
classico trio cipolle-sedano-
carote in proporzione 2:1:1, ma i
gusti e le tradizioni sono
infiniti, sia per le proporzioni
sia per la composizione – per
esempio a me non piace troppo
il gusto dolciastro impartito
della carota e a volte la
sostituisco con il porro.
L’ultimo ingrediente sono le
erbe aromatiche e le spezie:
timo, i gambi del prezzemolo
(non le foglie), alloro, pepe in
grani, aglio, il limite è solo dato
dalla fantasia e dal gusto
personale.
Lunghe cotture
CONSIGLIO
Che ne facciamo della
carne dopo la
preparazione di un
brodo? Sono pur
sempre proteine con il
loro valore nutritivo,
anche se ormai quasi
senza sapore, e
possiamo usarla per
farne polpettoni o
preparazioni simili.
Tutto in una volta?
LO SAPEVATE CHE?
Negli ultimi anni
sono comparse sul
mercato
professionale delle
pentole simili a
quelle a pressione
ma che
funzionano al
contrario:
abbassano la
pressione grazie a
una pompa a
vuoto. Alcuni
ricercatori del
Centro Ricerche
della Nestlé di
Losanna hanno
confrontato un
brodo vegetale
preparato a 0.48
bar, come se fosse
stato preparato a
6.000 metri di
altitudine, con uno
convenzionale e
uno preparato
nella pentola a
pressione. Anche
in questo caso il
brodo è risultato
diverso: quello a
bassa pressione è
più ricco di alcune
molecole solforate
tipiche delle
cipolle e dei porri.
Molecole che
evidentemente a
temperature più
elevate vengono
distrutte.
STUFATI, STRACOTTI E
SPEZZATINI
Se aumentiamo la complessità
della nostra cottura e proviamo
ad aromatizzare la carne con
altri ingredienti, solitamente
vegetali, le possibilità
diventano infinite. Nella cucina
italiana vi sono probabilmente
migliaia di ricette dove la carne,
che può aver subito o meno un
periodo di marinatura, viene
cotta per periodi piuttosto
lunghi sommersa in acqua
insieme ad altri ingredienti in
modo da ottenere un piatto
saporito, da gustare da solo o
accompagnato da purè, riso,
polenta, pane o altro.
Stufati, spezzatini, umidi,
stracotti sono solo alcuni dei
nomi ricorrenti, ma non sempre
un piatto è classificabile con
precisione poiché non esiste
una nomenclatura precisa nella
cucina italiana e quindi
troviamo ricette simili con
nomi diversi e ricette diverse
con nomi simili.
Dal punto di vista scientifico
sono tutti raggruppabili,
differenziandosi più per i
sapori e i tagli scelti che non
per le modalità di cottura, che
in tutti i casi impiegano un
liquido acquoso che sommerge
completamente la carne. La
temperatura di cottura deve
essere superiore a 75 °C, per
sciogliere il collagene
velocemente, ma inferiore a 85
°C, per evitare un
accorciamento troppo
pronunciato della carne.
Stracotti
Stufati
LO SAPEVATE CHE?
Prima di
Thompson i
camini erano a
pianta
rettangolare e con
una canna fumaria
sopra la zona del
fuoco: scaldavano
poco gli ambienti e
riempivano di
fumo i locali.
Thompson, invece,
realizzò le pareti
interne del camino
oblique, in modo
da riflettere parte
del calore nel
locale. In più inserì
una strozzatura
nella canna
fumaria per
convogliare il
fumo in alto, verso
l’esterno. Il suo
camino ebbe un
successo notevole
e Thompson
divenne noto come
“l’uomo che tolse il
fumo dalle cucine
di Londra”.
PREDICARE INVANO
Convinto della validità delle
sue osservazioni, Rumford
cercò di convincere i cuochi
dell’epoca che fosse meglio
cuocere la carne mantenendo
un leggerissimo bollore
piuttosto che una vigorosa
ebollizione, che l’avrebbe
indurita.
Si lamenta così nel suo saggio:
«So bene, per esperienza
personale, come sia difficile
persuadere i cuochi di questa
verità; ma è così importante che
nessuna fatica dovrebbe essere
risparmiata nell’impresa di
rimuovere i loro pregiudizi e
illuminare le loro conoscenze».
Per convincere i cuochi
tradizionalisti Rumford
suggerisce di far fare loro un
esperimento di controllo:
prendere due recipienti e
cuocere la carne nel primo a
vigorosa ebollizione, nel
secondo tenendo l’acqua a
sobbollire.
«La carne nel bollitore in cui
l’acqua è stata tenuta solo
bollente ma senza bollire sarà
tanto cotta quanto quella
nell’altro. Sarà anche migliore,
cioè più tenera, succulenta e
con più sapore. Sono cosciente
del pericolo a cui mi espongo
raccontando in pubblico questi
fatti e le deduzioni da questi,
che sono certamente troppo
nuovi e straordinari per essere
creduti se non con le
dimostrazioni più
inattaccabili.»
UN’ODE ALLA CUCINA
SCIENTIFICA
Pian piano nelle cucine si
cominciò a ridurre la
temperatura dell’acqua,
risparmiando anche
combustibile, ma Thompson
non riuscì mai a convincere i
cuochi dell’epoca a utilizzare il
suo apparecchio per cuocere la
carne a basse temperature. Il
Conte Rumford sarebbe
contento oggi di vedere che
finalmente i suoi insegnamenti
sono stati accettati, anche se
molti chef ignorano il suo nome
e pensano che la cottura a
basse temperature sia
un’invenzione recente.
Per finire, ecco dei brani di
Rumford validi ancora oggi e
che potrebbero essere presi
come il “Manifesto della cucina
scientifica”: «Desidero ispirare i
cuochi […] illustrando l’intima
connessione esistente tra i vari
processi che usano tutti i giorni
e molte delle più belle scoperte
che sono state fatte dagli
scienziati nel nostro tempo. […] I
vantaggi che si avrebbero
dall’applicazione delle recenti
brillanti scoperte nella chimica,
e altre branche della scienza e
della meccanica, al
miglioramento dell’arte del
cucinare sono così evidenti e
così importanti che non potrei
fare a meno di compiacermi nel
vedere presto qualche
professionista, illuminato e
aperto, prendere in mano la
materia e sottoporla a
un’approfondita indagine
scientifica. […] Quando la
scienza del cucinare sarà ben
compresa e sarà acquisita
un’intima conoscenza della
precisa natura dei cambiamenti
chimici e meccanici prodotti dai
vari processi culinari, potremo
allora, e non prima di allora,
migliorare con sicurezza l’arte
della preparazione del cibo.
L’esperienza, non assistita dalla
scienza, può condurre, e lo fa
frequentemente, a utili
miglioramenti; ma il progresso
di tali miglioramenti è non solo
lento ma vacillante, incerto e
molto insoddisfacente».
ESPERIMENTO
LO STINCO ALLA RUMFORD
I cuochi moderni hanno a
disposizione il sous vide: un
apparecchio che permette di
cuocere qualsiasi cosa in un
sacchetto di plastica
sottovuoto immerso in un
bagno termico a temperatura
rigorosamente controllata al
decimo di grado. Il Conte
Rumford però non aveva
niente del genere, quindi
anche senza avere apparecchi
moderni possiamo provare a
metterci nei suoi panni e
provare a cucinare qualcosa.
Non avete paura di lasciare
acceso il forno per 8 o più ore,
vero?
Lasciate gli stinchi di maiale
a temperatura ambiente per
un’ora. Salateli e
aromatizzateli con un po’ di
erbe. Infilate la sonda del
termometro da forno,
regolate il forno a 75 °C,
controllando sempre che la
temperatura interna non
superi i 71 °C. I forni
casalinghi non sono molto
accurati, quindi dovrete
regolare il termostato prima
di trovare la regolazione
adatta. [FOTO 1]
Mettete in forno anche una
tazzina d’acqua per
mantenere umido l’ambiente
e aspettate.
Se volete, prima di infornare
potete rosolare velocemente
gli stinchi in padella, anche se
non è necessario ai fini
dell’esperimento. Dopo 6 ore
togliete uno stinco. Nel mio
forno e con quegli stinchi 6
ore sono sicuramente
sufficienti per portare
l’interno del maiale a 71 °C,
ma non sono sufficienti per
sciogliere il collagene. Con il
forno così basso la
temperatura interna sale
molto lentamente, quindi
l’interno è rimasto a 71 °C per
un tempo insufficiente a
sciogliere completamente il
collagene. La carne era
morbida e succosa, ma ancora
un po’ elastica, e non si
staccava perfettamente
dall’osso. [FOTO 2]
Proseguite la cottura. Dopo 8
ore, sempre cercando di
mantenere la temperatura
interna intorno a 71 °C, ecco il
risultato: la carne si stacca
benissimo dall’osso. [FOTO 3]
Non vi voglio suggerire di
usare questo metodo di
cottura, ovviamente. Al
giorno d’oggi esistono modi
più efficienti di cuocere
stinchi e cosciotti. È però
interessante vedere con i
propri occhi che non è
obbligatorio cuocere in forno
a temperature superiori a 100
°C.
RICETTA
BRASATO
PROCEDIMENTO
Prendete una guancia di
almeno 1 kg. Se il macellaio non
l’ha pulita dovrete liberarla
dalla pellicina argentata, che
ormai sapete essere reticolina,
perché non si scioglie in cottura
e diventa dura come la gomma.
1
È probabile che il vostro pezzo
di carne abbia una forma
irregolare. Io vi consiglio
fortemente di legare la carne
con il filo speciale per alimenti
– lo trovate in vendita in ogni
supermercato – per fargli
assumere una forma il più
possibile cilindrica. Lo so, è
un’operazione noiosa, ma in
questo modo la cottura sarà più
regolare.
2
Rosolate la carne per 5-10
minuti in olio e burro. Perché
anche il burro? Perché contiene
lattosio, uno zucchero
riducente che, combinandosi
con le proteine presenti,
aumenterà i prodotti della
reazione di Maillard. Sciogliete
il burro nell’olio a fuoco medio
e aggiungete la carne solo
quando il burro avrà finito di
schiumare, per far evaporare
tutta l’acqua. Se non aspettate
la reazione di Maillard si
innescherà solo
successivamente.
3
Mantenete il fuoco piuttosto
vivace: la carne deve sfrigolare,
non bollire. Attenzione, però, a
non alzare troppo il fuoco: il
burro arrivato a 150 °C brucia.
Se la pentola o casseruola che
usate è molto più grande della
carne rischiate di bruciarlo,
specialmente vicino alle pareti.
Fate quindi attenzione e non
rispondete al telefono.
4
Rosolate da tutti i lati. Mi
raccomando, non esagerate:
dovete solo rosolare la
superficie, non cuocere
l’interno. Quando la carne è
brunita quasi ovunque
toglietela dalla casseruola. Ora
potete salarla leggermente su
tutta la superficie.
5
Ora è il turno dei vegetali.
Potete tagliarli anche
grossolanamente, tanto poi
dovranno essere frullati. I
vegetali classici sono la cipolla,
la carota e il sedano, ma potete
andare a vostro gusto,
mantenendo comunque una
base di cipolla. Potete usare i
porri, io li adoro, e anche l’aglio.
Io ne metto 2-3 spicchi
schiacciati.
6
Lasciate appassire la cipolla e
gli altri ortaggi, come per fare
un soffritto. Quando la maggior
parte dell’acqua sarà evaporata,
aggiungete il concentrato di
pomodoro, anche triplo se lo
avete. Mescolate con un
cucchiaio di legno o una spatola
per evitare che il pomodoro
attacchi e bruci. Basta qualche
minuto perché assuma una
colorazione scura intensa.
7
Ora tocca al vino: aggiungetene
300 ml, servirà a deglassare il
fondo. Le ricette classiche di
brasati spesso chiedono vini
costosi, come il Barolo. A me
francamente sembra uno
spreco usare un vino pregiato
per cucinare. Io spesso uso il
Nebbiolo: stesse uve ma minore
invecchiamento. Oppure un
qualsiasi altro buon rosso
corposo. Lasciatelo bollire per
qualche minuto per far
svaporare la maggior parte
dell’alcol, poi aggiungete la
carne, che dovrà risultare
immersa tra un terzo e metà
dell’altezza. Se il vino non è
sufficiente aggiungetene
ancora, oppure unite brodo, se
preferite un sughetto meno
intenso. Unite gli odori, se
volete, con la tecnica del
mazzetto guarnito nella ricetta
del brodo di pollo (pag. 204). Io
aggiungo due foglie di alloro e
del timo fresco. Stropicciate e
accartocciate le foglie di alloro
tra le mani prima di metterle
nella casseruola, in modo da
liberare gli oli essenziali. I
chiodi di garofano sono
un’aggiunta comune ai brasati
ma io trovo il loro sapore
troppo invasivo. Se mi
costringono a metterli, perché
ai commensali piace il loro
aroma, io ne aggiungo uno solo,
letteralmente.
8
Chiudete con un coperchio
pesante ed ermetico: l’acqua
non deve evaporare. L’ideale, a
questo punto, sarebbe mettere
la casseruola chiusa, magari di
ghisa, nel forno e continuare la
cottura per un paio d’ore a 130-
150 °C. Più lentamente sale la
temperatura della carne e
meglio è: così si dà modo agli
enzimi ancora presenti di
intenerire ulteriormente la
carne. Se preferite cuocere
tutto sul fornello, mettete a
fuoco bassissimo. Il liquido non
deve mai bollire e deve restare
tra gli 80 e i 90 °C. È difficile, ma
ce la potete fare. Se anche con il
gas al minimo sul fuoco più
piccolo il liquido bolle potete
mettere una retina
spargifiamme sotto la pentola.
Se per caso possedete uno di
quegli apparecchi chiamati
slow cooker, usatelo: se volete,
potete anche impostare una
temperatura più bassa, per
esempio 75 °C, che sarebbe
praticamente impossibile da
mantenere su un fornello.
Ovviamente in questo caso
dovrete allungare i tempi di
cottura.
9
Dopo un’ora di cottura girate il
pezzo di carne in modo che
anche la parte prima emersa
venga sommersa dal liquido.
Già che ci siete, annusate: che
bontà! Sono di parte, è vero: il
brasato è uno dei miei piatti
preferiti. L’ho già detto, ma lo
ripeto, perché è importante: il
liquido non deve bollire, al
massimo può sobbollire.
Potreste trovare difficoltà a
non farlo bollire, specialmente
se state cucinando poca carne e
quindi state usando poco
liquido. È difficile prevedere
l’esatto momento in cui la
cottura sarà ultimata. Diciamo
che una forchetta dovrebbe
poter entrare senza difficoltà
nella carne. Dovrebbero servire
2 ore o più, a seconda delle
condizioni. Quando è la carne è
cotta, spegnete.
10
Resistete alla tentazione di
togliere subito il brasato dal
liquido e servirlo. La carne a
questo punto è delicatissima,
essendosi sciolto il collagene
che la teneva insieme. Se la
tagliate ora la ridurrete a
brandelli: meglio aspettare che
si raffreddi un po’, fino a 60 °C
circa. Nel frattempo assorbirà
una parte del liquido di cottura.
Al momento giusto togliete la
carne, eliminate il mazzetto
guarnito e assaggiate il sugo di
cottura. Regolate di sale, poi
passate il tutto con un
frullatore a immersione, in
modo da ottenere una salsa
densa. Diversamente dallo
spezzatino, il brasato richiede
poco liquido di cottura: è per
questo che, alla fine, il sughetto
sarà abbastanza denso; il sugo
degli spezzatini, invece, deve
essere abbondante e rimarrà
dunque molto più liquido.
11
Quando la carne è ancora calda
ma non bollente, a circa 50 °C,
tagliatela a fette. Non cercate di
farle troppo sottili, altrimenti si
sbricioleranno. E, per l’amor del
cielo, non usate un coltello
seghettato, che strapperebbe la
carne invece di fare un taglio
netto. Ovviamente i coltelli li
affilate regolarmente, per non
fargli perdere il filo, vero? Se
dovete servire a tavola mettete
le fette su un vassoio da
portata e copritele con la
salsina. La polenta è la morte
sua, ma potete anche
semplicemente accompagnarlo
con del riso bollito. Altrimenti
rimettete le fette nella pentola,
con il sughetto, e riponete il
brasato in frigorifero per
consumarlo il giorno dopo.
12
E, mi raccomando, il sughetto
che avanza conservatelo,
magari in freezer se non lo
consumate subito. È un ottimo
condimento per ravioli, tortelli
o altra pasta ripiena.
RICETTA
IL BRODO DI POLLO
In Italia, ingiustamente,
nell’immaginario gastronomico
collettivo il brodo richiama più
spesso il cibo dell’ospedale,
quello che ci danno quando
stiamo male, che non raffinate
zuppe o salse, di cui è il
fondamento. E ormai anche al
ristorante le zuppe vengono
snobbate. Eppure io le trovo
ideali per iniziare una cena.
Quando vado al ristorante
giapponese con mio figlio
Simone prendo sempre una
zuppa di miso per iniziare la
cena. Devo poi fare una
confessione: anch’io ho in casa
una scatoletta di dadi e una
confezione di estratto di carne
che utilizzo quando sono di
fretta. Ma la comodità e la
velocità spesso si pagano con la
qualità quindi, per alcune
preparazioni, come il risotto
alla milanese, cerco sempre di
usare del brodo che ho
preparato e congelato tempo
addietro.
Il brodo di carne più facile da
preparare è sicuramente quello
di pollo, dal gusto non così
intenso come quello di manzo e
quindi più versatile quando si
tratta di aggiungerlo in altre
ricette. Basta seguire pochi
accorgimenti e vedrete che il
vostro brodo di pollo diventerà
un valido aiuto in cucina. E con
lo stesso procedimento,
variando solo i tempi, potete
preparare brodi di altri volatili,
come la faraona o il cappone.
INGREDIENTI 1 kg di
PER CIRCA 2-3 gallina o di
L pollo
2 carote
1 cipolla
grande
2 coste di
sedano
5 gambi di
prezzemolo
1 foglia di
alloro
5 rametti di
timo
PROCEDIMENTO
1
Tagliate la gallina in pezzi,
eliminate il grasso
sottocutaneo giallo e togliete,
se volete, l’eccesso di pelle. Se
non avete trovato la gallina
potete usare del pollo.
Otterrete un brodo meno
saporito. Mettete la carne in
una pentola stretta e alta.
Se volete ottenere un brodo più
limpido potete sbianchire la
carne, altrimenti andate subito
al passo successivo. Sbianchire
significa immergere per pochi
minuti un alimento in acqua
all’ebollizione. Io per
velocizzare i tempi uso un
bollitore elettrico di quelli per
scaldare l’acqua per la colazione
o il tè pomeridiano. Lo riempio
di acqua – ne contiene un litro e
mezzo – e, quando è a vigorosa
ebollizione, la verso sui pezzi di
pollo o gallina che ho
depositato sul fondo della
pentola. Una volta sommersi
accendo il fuoco grande e
aspetto che il liquido ritorni
all’ebollizione. Dopo qualche
minuto spengo e getto via
l’acqua, sulla cui superficie
galleggiano un sacco di
schifezze: sono proteine
coagulate, grumi di pelle, gocce
di grasso e altro. Riempio la
pentola di acqua fredda e la
getto per un paio di volte, sino a
quando l’acqua non rimane
abbastanza limpida.
LO SAPEVATE CHE?
Per motivi igienici
è assolutamente
sconsigliato lavare
il pollo prima di
cucinarlo. Questo
per evitare la
diffusione di una
eventuale
contaminazione
batterica sia nel
lavello che su tutte
le superfici con cui
può venire in
contatto.
2
A questo punto coprite tutto
con acqua fredda, in modo che
la carne sia sommersa per
almeno 5 centimetri.
Normalmente si aggiunge dal
doppio al triplo di acqua
rispetto al peso degli
ingredienti, sommando la carne
e gli ortaggi. Se vi state
chiedendo come mai nella lista
degli ingredienti non c’è il sale,
la risposta è che non si mette.
C’è sempre tempo per salare ciò
che preparerete con il brodo:
una zuppa, un risotto, una
salsa. Salando ora, dato che il
brodo verrà poi concentrato,
rischiate solo di ottenere un
liquido troppo salato. Il sale si
può sempre aggiungere ma non
si può togliere. La partenza in
acqua fredda serve per aiutare
a ottenere un brodo il più
limpido possibile. Gettando i
pezzi direttamente in acqua
bollente sicuramente
velocizzeremmo l’estrazione dei
sapori, ma a spese della
limpidezza del brodo. In cucina
l’occhio vuole la sua parte.
3
Scaldate a fuoco medio-alto.
Una volta arrivati vicini
all’ebollizione, 90-95 °C,
abbassate il fuoco. Di quanto
abbassare dipenderà dalla
quantità di brodo che state
preparando, dalla grandezza
della pentola e dalla superficie
di evaporazione disponibile.
L’acqua dovrebbe sobbollire, il
che significa che dovreste
vedere poche bolle che
raggiungono la superficie.
Cercate di tenere la
temperatura tra gli 85 °C e i 95
°C: al di sotto l’estrazione dei
sapori è troppo lenta, al di
sopra rischiate di ottenere un
brodo torbido.
4
Periodicamente dovrete
eliminare dalla superficie del
vostro brodo la schiuma che si
forma. È composta, senza
sorpresa, di proteine.
Esattamente come in una birra,
le proteine funzionano da
sostanze schiumogene ed
emulsionanti, inglobando aria e
altre sostanze. Io utilizzo un
colino che passo sulla
superficie del brodo e che
pulisco in un contenitore pieno
d’acqua. La carne produrrà
schiuma da eliminare
prevalentemente nella prima
ora di cottura, specialmente se
avete saltato la fase di
sbianchitura iniziale.
5
Ricordatevi di assaggiare il
brodo ogni tanto. Certo, è senza
sale. Non l’abbiamo messo,
ricordate? Dopo circa 2-3 ore di
cottura, a seconda della
temperatura che riuscite a
mantenere, è arrivato il
momento di aggiungere gli
ortaggi, che cuoceranno per
un’ora rilasciando i loro sapori.
Lo standard è il classico
mirepoix con carote, cipolle e
sedano. A me piace aggiungere
anche un pezzo di zenzero
pelato. Le verdure si possono
tagliare grossolanamente, dato
che rimarranno immerse in
acqua bollente a lungo: dei
pezzi di verdura di 5 cm di
grandezza possono essere cotti
per un’ora. Se i tempi sono più
lunghi o più corti regolatevi. Io
taglio le cipolle in due, se non
sono grandi, altrimenti in
quattro.
6
Se alcuni pezzi vengono a galla,
perché contengono delle cavità,
usate un peso per tenerli
sommersi. Va bene anche uno
scolapasta o un passaverdura
invertito. L’importante è che
tutto rimanga sempre ben
sommerso. Se durante la
cottura l’acqua evapora troppo
rapidamente lasciando scoperti
gli ingredienti, aggiungete
acqua calda.
7
Dopo un’ora di cottura degli
ortaggi è il turno degli aromi,
che aggiungiamo a 30-45 minuti
dalla fine della cottura, per
evitare che i sapori si
volatilizzino o si rovinino.
Usate solo i gambi del
prezzemolo, e conservate in
freezer le foglie per qualche
altra ricetta. Ogni tanto
ricordatevi di assaggiare il
brodo, specialmente dopo che
avete aggiunto gli odori più
delicati, come il timo o i gambi
del prezzemolo.
CONSIGLIO
I cuochi spesso
mettono le eventuali
spezie in un
sacchettino di garza
(sachet d’épices) e
legano gli odori come
prezzemolo, timo e
alloro con un filo
(bouquet garni).
Poiché il brodo verrà
filtrato questo non è
strettamente
necessario, tuttavia
può essere utile se vi
accorgete che gli
aromi stanno
diventando troppo
intensi e volete
togliere tutti i rametti
e le spezie senza
dover pescare per
tutta la pentola.
8
Il brodo è pronto, la carne e le
ossa hanno dato tutto quello
che potevano. Le ossa
dovrebbero essere diventate
talmente fragili da rompersi
facilmente con le mani. Versate
tutto in una seconda pentola
attraverso un colino per
filtrare, cercando di trattenere i
residui solidi. In una cucina
professionale il brodo viene
spesso filtrato con dei teli, per
trattenere il più possibile i
residui e aumentare la
limpidezza.
9
Il brodo è pronto per essere
utilizzato per comporre
vellutate, salse o zuppe, per
aiutare nei risotti o per cuocere
agnolotti e tortellini. Se
decidete di conservarlo c’è
bisogno di raffreddarlo e no,
non potete mettere la pentola
bollente in frigorifero! Se lo
faceste, con tutto il calore che
emana aumenterebbe la
temperatura dell’aria e di tutto
quello che il frigorifero
contiene, senza raffreddare di
molto il liquido. Un frigorifero
non è fatto per raffreddare
alimenti caldi.
Nelle cucine professionali
utilizzano degli apparecchi
chiamati abbattitori per
raffreddare velocemente
alimenti molto caldi. Se non
siete tra quei pochi fortunati
che possiedono un abbattitore
casalingo, dovete raffreddare il
brodo prima di metterlo in
frigorifero. La cosa più
efficiente da fare è immergere
la pentola in un lavandino o in
un contenitore riempito di
acqua fredda o, ancora meglio,
di acqua e ghiaccio, e aspettare,
mescolando per aiutare la
dissipazione del calore. Per
velocizzare il raffreddamento è
possibile gettare nel brodo dei
contenitori di plastica riempiti
di acqua e tenuti in frigorifero
per farla congelare, a patto che
siano resistenti al calore. Una
volta raffreddato potete
mettere il brodo in frigorifero,
ma è meglio usarlo entro un
paio di giorni: è, letteralmente,
un brodo di coltura perfetto per
batteri e altri microrganismi,
quindi se non lo usate
velocemente vi conviene
porzionarlo e congelarlo.
CONSIGLIO
Quando riutilizzerete
il brodo, per una
zuppa o altro,
riportatelo
all’ebollizione, per
scongiurare ogni
possibile rischio di
contaminazione
batterica nel caso il
vostro
raffreddamento
prima del
congelamento non sia
stato perfettamente
eseguito.
10
Dopo una notte in frigorifero il
grasso, se c’era, si è solidificato.
Dobbiamo toglierlo prima di
porzionare il liquido e metterlo
in contenitori di capacità
opportuna in freezer, per poter
utilizzare il brodo quando serve
nella quantità desiderata. Se
volete potete ridurlo, cioè
continuare a far evaporare
l’acqua sino a portarlo a un
terzo o un quarto del volume
iniziale.
Se avete estratto una buona
quantità di collagene, quando lo
tirate fuori dal frigorifero il
brodo dovrebbe essere
gelificato.
L’ANGOLO
CHIMICO
COME FUNZIONA LA
CHIARIFICAZIONE CON
L’ALBUME PER IL
CONSOMMÉ Calcolate un
albume per ogni litro
di liquido. Montatelo
leggermente, in modo
da inglobare un po’
d’aria, e aggiungetelo al
brodo caldo. Portate
piano all’ebollizione e
fate sobbollire per 10-15
minuti. Le proteine
dell’albume
coaguleranno,
intrappolando le
impurità. Poiché
questo processo toglie
anche parte del sapore,
a volte si aggiungono
carne macinata, dello
stesso tipo di quella
usata per preparare il
brodo, e vegetali
tagliati fini per ridare
gusto. Mescolate
lentamente per
mettere in movimento
il liquido, in modo che
le impurità vengano
catturate. Filtrate con
un telo e servite il
consommé limpido.
RICETTA
LE COSTINE DI MAIALE IN PADELLA
PROCEDIMENTO
1
Prendete le costine e se sul lato
vicino alle ossa è ancora
presente una membrana di
tessuto connettivo, toglietela
strappandola con le mani,
facendo attenzione a non
eliminare però il grasso
sottostante. Cospargetele di
sale, aromi e spezie a piacere.
C’è chi usa la paprica, il pepe, il
rosmarino, la salvia, l’aglio in
polvere e così via. Io vi
consiglio, come base di
partenza, di provare una
miscela di sale, aglio in polvere
e pepe in parti uguali. Le volte
successive che le preparerete
provate a modificare le dosi
secondo il vostro gusto,
aggiungendo anche altri
ingredienti aromatici.
2
Mettete le costine in una
padella antiaderente profonda
con un coperchio a tenuta.
Potete separarle, se non ci
stanno. Non serve olio: si
lubrificheranno con il proprio
grasso.
3
Chiudete con un coperchio,
possibilmente pesante ed
ermetico. Il vapore che si
svilupperà non deve sfuggire.
Accendete il fuoco del fornello
piccolo al minimo. Nel mio
fornello il minimo lo ottengo
andando verso la posizione di
spegnimento (ma fate
attenzione a non spegnerlo).
Praticamente la fiamma quasi
non si vede.
4
Ora dovete solo aspettare un
po’ di ore. Almeno 3. Se il fuoco
è troppo alto dopo un po’
vedrete del liquido, rilasciato
dalle costine, ribollire nella
padella. Niente paura: togliete
temporaneamente le costine,
alzate il fuoco e fate evaporare
l’acqua. Quando sarà rimasto
solo del grasso sciolto rimettete
le costine e riabbassate il fuoco.
Potete usare una retina
spargifiamma per distribuire
meglio il calore. Capirete
quando sono pronte perché la
carne si staccherà facilmente
dall’osso: l’acqua avrà sciolto
tutto il collagene che la teneva
attaccata.
5
Lasciate raffreddare un po’ le
ossa, per poterle prendere con
le mani, e le costine sono pronte
per essere gustate. A me piace –
scelta poco ortodossa, lo so –
mangiarle con del riso bianco
bollito, condito con un po’ del
grasso rilasciato dalle costine
(non vi ho mai promesso di
scrivere ricette salutiste in
questo libro). Oppure da sole,
senza alcuna salsa o contorno
di accompagnamento.
Io le trovo fantastiche nella
loro semplicità. E, se le avete
cotte bene, rimarranno solo le
ossa spolpate. Ed è proprio
questo il loro difetto principale:
grazie al loro bassissimo
contenuto di acqua si
congelerebbero benissimo, ma
non me ne rimangono mai da
mettere in freezer, anche
perché in padella non riesco a
prepararne tante.
VERSIONE AL FORNO
INGREDIENTI
Carne Molte varianti della
ricetta odierna utilizzano una
miscela di vari tagli e vari
animali. In realtà una volta le
ricette venivano adattate a
quello che si aveva in dispensa,
per cui non esistono le dosi
“giuste” per il ragù. A differenza
della cucina francese, che è
stata codificata in modo molto
preciso, in Italia sono sempre
stati la disponibilità e il costo
delle materie prime a dettare le
infinite varianti delle ricette,
per cui fate pure il ragù con la
carne e le dosi che usate di
solito. Suggerisco però di usare
almeno una parte di salsiccia di
maiale, o equivalente, sia per
fornire gusto e morbidezza al
ragù, sia per apportare i grassi
che serviranno per veicolare le
molecole gustose verso le
vostre papille. Di solito uso
circa il 30-40% di salsiccia e il
70-60% di carne di manzo
tritata. Per il ragù qui
fotografato ho usato 750 g di
carne macinata di manzo –
quella sceltissima è troppo
magra – e 500 g di salsiccia di
maiale. In totale sono 1,250 kg di
carne.
PROCEDIMENTO
Dal punto di vista scientifico, i
punti cruciali per la riuscita di
un buon ragù sono due: una
buona rosolatura della carne e
una lunga cottura per sciogliere
il collagene. Nella ricetta
tradizionale prima si fa un
soffritto e poi si aggiunge la
carne. Io inverto le due fasi.
Abbiamo già parlato della
reazione di Maillard più volte in
questo libro, per la sua capacità
di creare gusto nei piatti a base
di proteine. Perché avvenga
velocemente, però, è necessario
raggiungere temperature
sufficientemente alte.
Quando aggiungiamo la
carne cruda al soffritto, se
questo non è stato privato
dell’acqua, abbiamo difficoltà a
mantenere le alte temperature
necessarie per sprigionare i
sapori della carne. Sino a
quando l’acqua delle verdure
non è evaporata, infatti, la
temperatura rimarrà sotto i 100
°C. E se decidete di alzare
troppo il fuoco per far
evaporare l’acqua fuoriuscita
dalla carne, se non siete molto
accorti, rischiate di bruciare le
cipolle del soffritto non appena
l’acqua è evaporata.
Ecco dunque la procedura
suggerita dall’analisi
scientifica: si rosolano carne e
soffritto separatamente. Molte
ricette tradizionali hanno
adottato una certa sequenza di
preparazione solo in base a
considerazioni pratiche e di
comodità, non gastronomiche.
In questo caso preparare prima
il soffritto e poi aggiungere la
carne permette di usare una
sola pentola. In questa ricetta
ne servono due, oppure si deve
usare un recipiente intermedio
dove parcheggiare la carne. Ma
tanto lava la lavastoviglie.
Lo scopo di tutto il
procedimento di preparazione è
costruire il sapore. Nel ragù
questo viene costruito dalle
varie, e lente, reazioni chimiche
che avvengono: non è già
presente nelle materie prime.
Quindi ogni passaggio è
finalizzato a far avvenire al
meglio queste benedette
reazioni.
1 INIZIATE CON LA
CARNE
11:00
Ore 11. Versatevi un bicchiere di
vino e sorseggiatelo. Sarà una
preparazione lunga, non
dovrete avere fretta, e avere a
portata di mano un buon
bicchiere vi donerà la giusta
predisposizione. Si inizia.
Mettete la carne in una pentola
o in una padella ampia: io uso
l’antiaderente, eventualmente
con un filo d’olio, giusto per
non far attaccare. Non
aggiungete sale, per ora. Se la
carne è sufficientemente grassa
l’olio non dovrebbe neanche
servire. Accendete il fuoco e
mantenetelo abbastanza alto.
La carne inizialmente espellerà
molta acqua. Questa andrà
fatta evaporare tutta. Se
l’avete, è meglio utilizzare una
pentola o una padella ampia, in
modo tale che lo strato di carne
non sia troppo alto. In questo
modo l’acqua rilasciata evapora
in fretta, altrimenti rischiate di
lessare la carne invece di
rosolarla. Fate un buchetto in
mezzo alla carne per verificare
se c’è troppa acqua.
Se il liquido è troppo, perché c’è
troppa carne e la pentola che
utilizzate è piccola, vi conviene
versare il brodo che si è
formato in un recipiente. Lo
reintrodurrete in una fase
successiva.
2 ROSOLATE LA CARNE
Mescolate e schiacciate la carne
con un mestolo o una spatola di
silicone. Se ci sono dei pezzi
troppo grandi, spezzateli. La
carne non deve bollire ma
soffriggere, quindi non appena i
liquidi si saranno asciugati
continuate a fiamma viva,
mescolando continuamente,
rosolando per bene la carne. La
carne inizia a “soffrire”.
A poco a poco vedrete apparire
dei grani di carne dal tipico
colore arrostito. Bene. La
reazione di Maillard sta
facendo il suo lavoro. Se vi si
secca tutto è perché avete
usato della carne troppo magra.
La carne del ragù deve essere
grassa e l’aggiunta della
salsiccia di maiale serve anche a
introdurre del grasso.
Continuate a fuoco medio sino
a quando una buona parte della
carne ha preso un bel colore
marroncino, segno che la
reazione di Maillard ha fatto il
suo corso.
12:10
Togliete ora dal fuoco e
trasferite la carne rosolata in
una bacinella, se volete
utilizzare una pentola sola. La
durata di questa fase dipende
ovviamente dalla quantità di
carne e può durare 30-40
minuti. Sono le ore 12.10.
3 TRITATE LE
VERDURE E
SCIOGLIETE IL BURRO
15:05
Ore 15.05 (ho pranzato nel
frattempo).
È ora di preparare il soffritto.
Usate le proporzioni di cipolle,
carote, sedano che più vi
piacciono. Io metto molte meno
carote rispetto alla ricetta
standard perché rendono
troppo dolce il ragù. Anche di
sedano ne metto meno.
L’importante, comunque, è che
sia tutto tagliato a pezzettini
molto piccoli.
Con il tempo la pancetta,
originariamente il solo grasso
utilizzato per preparare il
soffritto, è stata sostituita dal
burro e più recentemente
dall’olio. Io uso il burro.
Prendetelo, mettetelo nella
pentola, scaldatelo e fatelo
schiumare. Fin tanto che il
burro fuso contiene acqua la
temperatura non supererà i 100
°C. Quando le bollicine di
vapore se ne saranno tutte
andate la temperatura
comincerà a salire e il burro
prenderà colore.
Continuate sino a quando
sentirete aromi di nocciola e il
burro fuso sarà, appunto, di
colore nocciola. Attenzione a
non esagerare, perché superati i
140 °C circa otterrete burro
bruciato invece che beurre
noisette. Anche questo
passaggio serve a produrre
molecole aromatiche, derivanti
dalle reazioni delle proteine del
burro. Molecole che non si
formano se invece, presi da
raptus salutista, usate l’olio
extravergine di oliva. Inutile
dire che per i puristi l’olio per il
soffritto del ragù neanche si
deve nominare, un sacrilegio.
Un po’ come usarlo per il
soffritto del risotto alla
milanese! Eresia! Per secoli,
sempre al di sopra della linea
gotica, si è quasi ovunque
ignorata l’esistenza dell’olio di
oliva. Però, come ho detto, io
aderisco alla scuola del “fate
come più vi piace”. Basta che
sappiate che perdete sapore.
4 AGGIUNGETE LE
VERDURE AL BURRO
FUSO
Ora, e solo ora, aggiungete le
verdure del soffritto. Mettete il
fuoco al minimo e, armati di
santa pazienza, aspettate che la
verdura “sudi”, cominci cioè a
espellere tutta l’acqua
rammollendosi. Il sale? No, non
è ancora giunto il momento. Se
lo aggiungete ora, per il
fenomeno dell’osmosi estrarrà
troppo velocemente l’acqua
dalla cipolla e questa rischierà
di bruciare prima che le carote,
più dure, si siano ammorbidite.
Se siete abituati ad aggiungere
il sale in questa fase, cercate di
tenere d’occhio il soffritto: se la
cipolla brucia il sapore poco
gradevole rimarrà fino alla fine.
5 ECCO IL SOFFRITTO
Io faccio sudare inizialmente le
verdure con il coperchio, per
aiutare a rammollirle. La cipolla
deve diventare traslucida e
quasi sciogliersi. Se vi rendete
conto che la cipolla inizia a
bruciare senza essersi sciolta
potete aggiungere poca acqua,
un cucchiaio alla volta. È però il
segno che avete usato un fuoco
troppo alto, Oppure avete
avuto il braccino corto con il
burro. O entrambe le cose. Se
volete una ricetta dietetica,
questa non fa per voi.
15:15
L’acqua è evaporata quasi tutta
(sono le 15:15). Ora possiamo
salare il soffritto e continuare a
fuoco basso. Le cipolle
prendono un colore dorato: un
po’ deriva dai pigmenti della
carota ma un po’ è il risultato
della onnipresente reazione di
Maillard. Più la cottura è
prolungata e più si formano
molecole gustose. Idealmente,
si deve far soffriggere sino a un
attimo prima che inizi a
bruciare.
6 UNITE LA CARNE AL
SOFFRITTO
15:50
Ore 15.50. È tempo di
aggiungere la carne che avete
lasciato da parte. Tenete il
fuoco vivo e, se c’è dell’umidità
residua, aspettate che vada via.
Quando la carne ricomincia a
sfrigolare e a brunirsi, se volete
potete aggiungere un bicchiere
di vino. L’altro. L’alcol
contribuisce a sciogliere alcune
molecole che erano rimaste
imprigionate nelle verdure e
nella carne. In più le
componenti aromatiche del
vino aggiungeranno gusto al
ragù.
Una prova che l’acqua è quasi
tutta evaporata si può avere
misurando la temperatura con
un termometro. Trovetere
temperature di qualche grado
superiori a 100 °C, segno della
completa evaporazione
dell’acqua esterna.
7 AGGIUNGETE IL
CONCENTRATO DI
POMODORO
Ora aggiungiamo il triplo
concentrato: è quello che darà
colore al ragù. C’è chi ne
aggiunge poco, chi tanto.
Iniziate con 150 g: quando
preparerete il ragù la prossima
volta aumenterete o
diminuirete a vostro gusto. E
no, non si usano i pelati o la
passata di pomodoro. Suvvia,
abbiamo fatto tutta questa
fatica per togliere l’acqua e ora
ce la rimettiamo?
Mescoliamo.
8 AGGIUNGETE IL
LATTE
16:10
Ore 16.10. Ora è il turno dei
grassi del latte. Vi ho già detto
che non è una ricetta dietetica?
Prendete la bottiglia di latte
fresco intero e aggiungetene un
po’ alla volta, mescolando
finché il latte non viene
assorbito. Non abbiate fretta,
potete metterci anche dieci
minuti. È abbastanza normale
che venga assorbito più di
mezzo litro di latte. Se invece
del concentrato di pomodoro
aveste aggiunto dei pomodori
pelati o la passata avreste già
dell’acqua presente e non
riuscireste a far assorbire tutto
il latte necessario.
So per esperienza che molte
persone obiettano ferocemente
contro l’aggiunta del latte. In
realtà non è per nulla strana:
anche la ricetta tradizionale
dell’Accademia della Cucina
Italiana la prevede. Non
pensate che il ragù “autentico”
sia esclusivamente il vostro
solo perché l’avete sempre fatto
nella stessa maniera. Come ho
detto, in realtà il ragù autentico
non esiste. Esistono infiniti
ragù. E se non vi piace non
aggiungete il latte. Ma
provateci almeno una volta.
In molti circoli gastronomici si
sviluppano delle diatribe
infinite sull’uso della panna: sì,
no, sei scomunicato, tu non
capisci niente, nella ricetta
originale c’è, non c’è, ma alla
Camera di Commercio dicono,
mia nonna ecc. In realtà è una
disputa piuttosto sciocca: la
panna fresca potete vederla
come del latte “concentrato”,
visto che ha il 35% di grassi, cioè
di burro, invece che il 4,5%.
Quando aggiungete il latte e
lasciate evaporare l’acqua
quello che conta, alla fine, sono
solo i grammi di grassi – burro,
in ultima analisi – che avete
aggiunto. Quindi, se volete
aggiungere la panna fatelo
senza problemi: non state
barando. Il sapore sarà
leggermente diverso. Io
solitamente non tengo panna
fresca in casa e quindi aggiungo
il latte. Ci vorrà più tempo per
far evaporare l’acqua.
9 TOCCA AGLI AROMI
E AL SALE
Ora potete salare e aggiungere
gli aromi. Solo l’alloro, nel mio
caso, ma un’aggiunta più
popolare è il rosmarino al posto
dell’alloro. Stropicciate le foglie
con le mani prima di
aggiungerle: sprigioneranno
più facilmente il loro aroma.
10 CUOCETE A LUNGO
A questo punto è arrivato il
momento di sciogliere il
collagene, e per far ciò ormai
sapete che servono tempi
lunghi e temperature non
troppo elevate. Lasciate quindi
cuocere a fuoco molto basso
per più tempo possibile. Se si
secca potete aggiungere altro
latte oppure del brodo, se non
volete esagerare con il latte.
11 SPEGNETE IL FUOCO
18:30
Ore 18.30. Per preparare il ragù
fotografato ho impiegato 4 ore
e 40 minuti. L’ho mangiato il
giorno successivo con le
tagliatelle, la morte sua, e la
sera con i maccheroni.
L’EVOLUZIONE DEL RAGÙ
Sicuramente alcuni di voi non
avranno mai fatto il ragù con il
latte, l’ingrediente più
“controverso” nelle varie ricette
esistenti. Nella cucina italiana
esistono poche ricette
codificate esattamente con gli
ingredienti precisi, mentre la
maggior parte delle
preparazioni tradizionali si
sono evolute nel tempo, non
sono cristallizzate e immutabili.
Il latte in realtà è presente in
quasi tutte le ricette
“tradizionali” moderne – mi
rendo conto che suoni strano –
di ragù, così come il burro e, a
volte, anche la panna, mentre
andando indietro nel tempo
sparisce il pomodoro.
Eccovi una piccola carrellata
di ragù a ritroso nel tempo.
A questa classificazione
sfuggono le salse ottenute
direttamente da un prodotto,
per esempio un coulis di
qualche frutto o ortaggio.
L’agente addensante più
comune è l’amido. Può essere
utilizzato puro, proveniente da
vari vegetali come mais,
frumento, riso, manioca, patata,
oppure si può sfruttare quello
naturalmente presente nella
farina di frumento.
La versione classica della
bechamel prevedeva anche
l’uso di brodo di vitello e aromi
come cipolla, alloro e chiodi di
garofano, ma ormai la si
prepara solo con latte, burro e
farina.
Il responsabile dell’alta
viscosità della besciamella è
l’amido idratato contenuto
nella farina. Presente in forma
di microscopici granuli, l’amido
è formato da molecole di
amilosio e amilopectina, a loro
volta formate da moltissime
molecole di glucosio legate tra
loro. L’amido non si scioglie in
acqua, ma i suoi granuli
possono formare una
sospensione. Quando l’acqua
raggiunge una temperatura
critica, dipendente dal tipo di
amido ma solitamente tra i 50 e
i 70 °C, i granuli si gonfiano e
cominciano ad assorbire acqua.
Riducendo l’acqua disponibile e
aumentando di volume i
granuli riducono molto la loro
possibilità di muoversi e questo
causa un aumento della
viscosità del liquido. Ad alte
temperature l’amilosio viene
espulso dai granuli e si scioglie
in acqua. Le lunghe catene
lineari di questa molecola
cominciano a legarsi tra loro
formando un reticolo
tridimensionale che,
raffreddandosi, intrappola
ulteriore acqua al proprio
interno: inizia il fenomeno della
gelificazione.
È possibile addensare un
liquido acquoso semplicemente
disperdendo dell’amido in poco
liquido freddo fino a ottenere
una pastella, aggiungendo il
composto al resto del liquido e
scaldando il tutto. Tuttavia il
metodo preferito per
disperdere al meglio i granuli è
ricoprirli di un grasso e poi
disperderli in un liquido.
L’ANGOLO CHIMICO
LA VISCOSITÀ La viscosità è
una grandezza fisica di
un fluido che misura la
sua resistenza allo
scorrimento. La
maionese è molto viscosa
e scorre molto poco tanto
è vero che dobbiamo
schiacciare il tubetto o
prenderla con il
cucchiaio. L’acqua invece
è poco viscosa e scorre
molto più velocemente.
Spesso in cucina il
concetto di viscosità è
confuso con quello di
densità perché spesso si
parla di agenti
“addensanti” quando in
realtà aumentano la
viscosità di un liquido. A
volte le due cose vanno
di pari passo ma non
sempre. L’olio di oliva per
esempio è più viscoso
dell’acqua, ma è meno
denso.
ESPERIMENTO
LATTE CALDO O LATTE FREDDO?
Il suggerimento di non
aggiungere latte bollente al
roux, al fine di evitare la
formazione di grumi, è
scientificamente fondato,
anche se può sorprendere
molte persone che hanno
sempre aggiunto il latte caldo
o addirittura bollente. La
maggior parte delle persone
tiene il latte in frigorifero, e
aggiungerlo freddo va
benissimo. In ogni caso
dovrebbe essere al di sotto
della temperatura di
gelificazione dell’amido:
diciamo, per sicurezza, sotto i
50 °C.
Vediamo un piccolo
esperimento per illustrare
l’origine del problema.
Prendete dell’acqua e
scaldatela fino a 85 °C: siamo
oltre la temperatura di
gelificazione dell’amido. Se
non avete il termometro
portatela a ebollizione e poi
spegnete il fuoco. Ora
prendete un cucchiaino di
farina e gettatelo in acqua.
La farina non si scioglie, e
neppure si disperde in modo
omogeneo, ma forma degli
agglomerati.
Dopo un minuto
prendiamone un paio e
tagliamoli in due con un
coltello affilato.
L’esterno di questi “gnocchi
primordiali” è gelificato, ma
l’interno è ben diverso.
Potete vedere che all’interno
della sottile cuticola
gelificata c’è ancora della
farina asciutta. Una volta
avvenuta la gelificazione
esterna la penetrazione
dell’acqua rallenta
moltissimo, anche
continuando a far bollire
l’acqua. Ora immaginate di
ridurre di cento, o anche mille
volte la grandezza di questi
agglomerati: abbiamo dei
grumi microscopici. Ecco la
causa della formazione dei
grumi nella besciamella: se
prima di innescare la
gelificazione non abbiamo
separato bene tutti i
minuscoli granuli di amido
rischiamo di avere la
formazione di grumi perché il
gel esterno impedisce la
diffusione dell’acqua
necessaria per l’idratazione di
tutti i granuli.
Questo è il motivo per cui, se
dovete aggiungere dell’amido
a un liquido per addensarlo –
una salsa, una cioccolata o
altro – è preferibile formare
una pastella con un po’ di
liquido freddo aggiunto
all’amido, in modo da
disperdere il più possibile
tutti i granuli senza
innescare la gelificazione, e
solo successivamente versare
il tutto nel liquido da
gelificare, portandolo ad alte
temperature.
Nella preparazione della
polenta, altra ricetta a
rischio, si segue esattamente
lo stesso consiglio: la farina di
mais non andrebbe aggiunta
all’acqua bollente, perché si
potrebbero formare grumi
esattamente come visto
prima.
Certo è possibile ottenere
una buona besciamella anche
aggiungendo latte molto
caldo, a patto di aver
separato bene i granuli di
amido e averli ricoperti di
grasso nella preparazione del
roux. Tuttavia suggerirei a
tutti coloro che abitualmente
usano il latte bollente di
provare almeno una volta
con quello freddo o tiepido e
di verificare le eventuali
differenze. A volte i grumi
presenti sono talmente
piccoli da non essere
riconosciuti come tali, ma
influenzano ugualmente la
consistenza finale e la
sensazione tattile della salsa,
che in bocca può risultare
meno “liscia”.
Il mondo della gastronomia è
uno degli ambienti più
resistenti ai cambiamenti e
più conservatori che mi sia
mai capitato di incontrare.
“Io ho sempre fatto così” è un
atteggiamento comune tra
cuochi professionisti ma
forse ancor più nelle cucine
di casa. Non abbiate paura di
provare un procedimento
nuovo: gli esperimenti, oltre
che necessari per
l’avanzamento della “scienza
culinaria”, sono spesso anche
divertenti e permettono di
imparare sempre qualcosa di
nuovo.
INGREDIENTI 500 ml di
latte
40 g di
burro
40 g di
farina
noce
moscata
sale
PROCEDIMENTO
La ricetta classica della
besciamella impone parti
uguali, in peso, di farina e
grasso, solitamente burro.
Questo deve essere in quantità
sufficiente da ricoprire tutti i
granuli di amido presenti, ma
non deve essere eccessivo,
altrimenti il grasso salirebbe in
superficie e la salsa
risulterebbe poco appetitosa.
1
Fate sciogliere il burro in una
padella dai bordi alti.
Quando il burro è
completamente sciolto, se non è
stato chiarificato comincerà a
schiumare: è l’acqua che
evapora.
2
È preferibile eliminare gran
parte dell’acqua per evitare che
contribuisca a formare il
glutine e quindi dei grumi una
volta aggiunta la farina.
Dopo circa un minuto a fuoco
medio le bolle cominceranno a
diminuire. Aggiungete la farina,
tutta insieme, e mescolate
vigorosamente con una frusta
da cucina, in modo da
incorporare completamente la
farina nel burro.
3
Continuate a mescolare e a
cuocere sino a quando, dopo un
paio di minuti, il composto
cambierà consistenza e diverrà
più fluido.
4
A questo punto potete
abbassare il fuoco e continuare
a cuocere per qualche altro
minuto, in modo che la farina
perda completamente il suo
sapore “crudo”. Continuate a
mescolare per suddividere i
granuli di amido e ricoprirli
completamente di grasso.
5
Dopo qualche minuto potete
togliere dal fuoco e lasciar
raffreddare un poco il
composto. Quello che avete
appena ottenuto si chiama
roux bianco, anche se in realtà è
giallino a causa del burro
utilizzato.
Se volete potete metterlo da
parte e usarlo nei giorni
successivi, aggiungendolo ai
liquidi che volete addensare.
6
Se invece volete preparare la
besciamella subito si pone il
quesito su cui si sono spesi
fiumi d’inchiostro nella
letteratura gastronomica: è
meglio aggiungere latte freddo
o latte caldo? Una besciamella
perfetta non deve avere grumi:
questi si possono formare se
non abbiamo mescolato bene
nella fase iniziale e se
aggiungiamo il latte caldo,
perché gelificherebbe
immediatamente la parte
esterna di eventuali grumi di
farina non separati, impedendo
all’acqua di penetrare
all’interno. Aggiungiamo quindi
latte freddo, o a temperatura
ambiente, e tutto in una volta,
mescolando rapidamente.
La farina, essendo costituita
anche da proteine e altre
sostanze e non solo di amido, ha
una minore capacità di
addensare rispetto all’amido
puro, e raggiunge pienamente
le sue capacità di addensare e
gelificare solo a temperature
prossime a quelle di ebollizione.
Portate quindi all’ebollizione,
continuando a mescolare.
7
A poco a poco la besciamella
comincerà ad addensarsi. Se
immergete un cucchiaio
noterete la velatura sulla
superficie.
Una volta addensata la
besciamella potete mettere il
fuoco al minimo, coprire con un
coperchio e lasciar cuocere la
salsa per qualche decina di
minuti, in modo da idratare
completamente l’amido.
Il coperchio è importante per
evitare che si formi una
pellicola in superficie.
8
Salate a piacere e aromatizzate
con una grattata di noce
moscata. La consistenza di
questa salsa è adatta, per
esempio, per una gratinatura al
forno di cavolfiori, finocchi o
fagiolini. Se volete una salsa più
liquida usate 30 g di farina e 30
g di burro. Per una salsa più
addensata – si dovrebbe dire
più viscosa ma ormai lo sapete
–, più adatta alle lasagne,
meglio aumentare le dosi dei
due ingredienti a 50 grammi.
LE LASAGNE
Per una teglia rettangolare
di 25x35 cm, alta almeno 6-8
cm, avrete bisogno di 1 kg di
sfoglia all’uovo tagliata a
rettangoli, 1,5 kg di ragù, 500
g di grana grattugiato, 1 l di
besciamella. Sbollentate la
pasta in acqua salata; non
appena sale a galla toglietela
e gettatela in acqua fredda
per fermare la cottura.
Asciugatela delicatamente
su un telo. Dovete preparare
almeno sei strati, alternando
sfoglia, ragù, grana e sfoglia,
besciamella, grana. Per il
primo strato ungete la teglia
con un po’ di burro e
stendete un po’ di ragù
misto a besciamella.
Come ultimo strato
stendete una miscela di
ragù, grana e besciamella.
Infornate a 200 °C per
mezz’ora. Ragù e
besciamella sono già cotti,
quindi bisogna solo far
assorbire del liquido dalla
pasta e amalgamare gli
ingredienti. Negli ultimi 5-10
minuti accendete il grill, ma
non allontanatevi dal forno
per non rischiare di bruciare
lo strato superiore.
RICETTA
LO SPEZZATINO BASE
PROCEDIMENTO
1
Per preparare uno spezzatino,
lo dice il nome stesso, si deve
partire dalla carne fatta a
pezzetti. Tagliatela a cubi di
circa 2-3 cm di lato.
2
Quasi tutte le ricette
prevedono come primo passo la
preparazione di un soffritto a
cui, successivamente, si
aggiunge la carne. In questo
modo, tuttavia, la carne non ha
modo di sviluppare a
sufficienza i composti
aromatici della reazione di
Maillard, poiché la temperatura
non supera i 100 °C mentre,
perché la reazione di Maillard
avvenga velocemente, servono
almeno 140 °C. Per questo
motivo io faccio rosolare
velocemente i cubi di carne, con
un poco di olio, separatamente
in una padella, avendo cura di
non affollarla troppo,
altrimenti l’umidità
condenserebbe, si formerebbe
l’acqua e addio reazione di
Maillard!
La carne si scotta solo per
qualche minuto: lo scopo non è
cuocerla ma solo generare i
gustosi composti bruni sulla
sua superficie. Esattamente
come per una bistecca, non
girate la carne sino a quando
non si è staccata
spontaneamente dalla pentola
formando una crosticina bruna:
sono i composti gustosi che
volevamo creare.
3
Quando è brunita, ma ancora
quasi cruda internamente,
toglietela dalla padella e
mettetela in una ciotola, nel
caso non abbiate ancora
preparato il soffritto di cipolla
e altre verdure.
Dopo esserci presi la briga di
creare i composti di Maillard,
non sia mai che ne lasciamo un
po’ nella padella. Finché questa
è ancora calda deglassate con
un liquido (nello spezzatino
base usiamo semplicemente
acqua, ma potete usare del vino
o altro se volete) e versatelo
sulla carne che avete messo a
riposo nella ciotola.
4
Ora veniamo alle verdure. A
mio parere l’unica
imprescindibile, per un buono
spezzatino, è la cipolla, per il
resto potete variare. Io ho
usato lo “standard”: un terzo
cipolla, un terzo carota e un
terzo sedano, il tutto tritato
molto fine. A volte ometto il
sedano, a volte la carota, o ne
riduco la dose per diminuire la
dolcezza della ricetta. Come
odori aggiungo spesso qualche
foglia di alloro e del timo
(quello però verso la fine della
cottura). Se vi piace, unite
anche uno spicchio d’aglio
tritato. La verdura deve
soffriggere in un grasso: c’è chi
usa olio e chi burro. In ogni
caso non esagerate con i grassi,
ma non fate neppure l’errore
opposto di metterne troppo
pochi, altrimenti la verdura non
soffriggerà.
Salate la miscela, così per
osmosi perderà acqua più
facilmente, e tenete il fuoco a
media potenza: la verdura deve
dorarsi e appassire, la cipolla
caramellare, e anche qui si
lascia agire l’onnipresente
reazione di Maillard, anche se
in modo meno spettacolare che
con la carne. Io di solito mi
fermo quando le cipolle sono
traslucide e appassite e
cominciano a brunirsi
parzialmente.
5
A questo punto, finalmente,
potete unire la carne, già
rosolata.
6
Aggiungete poi il liquido di
cottura. Qui la scelta è
vastissima. Visto che questo è
lo “spezzatino base” ho
aggiunto solo acqua, ma le
possibilità sono infinite. Ovvia
e comune quella del vino,
bianco o rosso, ma si può
aggiungere brodo, birra, succhi
vari, vini liquorosi e così via. C’è
chi ama, come i miei figli,
aggiungere il pomodoro. Se vi
piacciono i piselli aggiungeteli
verso la fine della cottura,
altrimenti si spappolano tutti.
7
La cottura deve essere fatta a
temperature non troppo
elevate: vogliamo sciogliere il
collagene, e quindi le
temperature devono essere
superiori a 75 °C, ma dobbiamo
evitare che le fibre si “strizzino”
troppo. Mettete il fuoco al
minimo, evitando sempre di far
bollire il liquido. L’ideale, in
mancanza di un bagno
termostatato professionale, è
una sobbollitura, con qualche
bolla di vapore che pigramente
raggiunge la superficie. Se la
pentola che state utilizzando è
troppo piccola sarà difficile
mantenere la temperatura
superficiale al di sotto dei 90 °C.
Ecco perché spesso si dice che
queste ricette vengono meglio
quando si preparano in grandi
quantità: con una pentola
molto grande sarà più facile
tenere sotto controllo la
temperatura e impedire che
provochi l’ebollizione,
indurendo e asciugando la
carne.
È inutile che vi dia dei tempi di
cottura, perché questi
dipendono moltissimo dal
taglio di carne e dalla
temperatura. A meno che
abbiate usato della carne di
vitello – più tenera ma meno
saporita – dovrebbe servirvi
come minimo un’ora di cottura.
Più tenete bassa la
temperatura e più lunga è la
cottura, ma anche meno
asciutta la carne. Il mio
spezzatino ha avuto bisogno di
un paio di ore abbondanti per
cuocere. L’unico suggerimento
sensato vi posso dare è:
assaggiate!
8
Per lo spezzatino è adattissima
una polenta fatta come si deve,
annaffiata con il sugo rimasto
in pentola, eventualmente
passato se avete tagliato troppo
grossolanamente le verdure e
volete un sughetto più denso e
omogeneo. Un trucco per
addensare un liquido è
aggiungere un po’ di amido o, se
ne siete sprovvisti, della farina.
Attenzione alla formazione di
grumi, specialmente se il
liquido è troppo caldo.
Vorrei ringraziare:
Marina Bressanini, che ha
ideato, plasmato, cotto e fornito
molti dei piatti, vassoi e ciotole
che avete visto nelle foto delle
ricette e degli esperimenti.
Simone e Gabriele, i miei figli,
che hanno sperimentato molte
delle ricette di questo libro,
aiutandomi a migliorarle.
Barbara Torresan, costretta a
cucinare e fotografare brasati,
brodi e spezzatini nel caldo
d’agosto. Lei che quasi non
mangia carne. Le ho promesso
che il prossimo libro sarà
vegetariano.
Marco Cattaneo, il mio
direttore di “Le Scienze”. Se
anni fa non mi avesse chiesto di
scrivere la rubrica di scienza in
cucina ora non avreste questo
libro tra le mani.
Beatrice Mautino, che ha
pazientemente letto e
commentato una prima stesura
del libro, suggerendo alcuni
cambiamenti.
La LatteriAgricola di Lainate
per aver fornito la carne da
fotografare e in particolare
Nerio, Giancarlo ed Eros per la
loro disponibilità.
INDICE
Introduzione
La composizione chimica
Acqua
Proteine
Grassi
Carboidrati
Vitamine e minerali
La struttura fisica
Tessuto muscolare
Tessuto connettivo
Ricapitoliamo…
Rosso carne
La mioglobina
Calore e cotture
Perché si cuoce
Calore e temperatura
Conduzione, convezione e
irraggiamento
I tempi di cottura
Inerzia termica
Ricetta. La bistecca
Intenerire la carne
Esperimento. Enzimi
mangiaproteine
Ricetta. Hamburger
La succosità
Miti culinari
Le salamoie (brine)
Cotture asciutte
Alla griglia
Allo spiedo
Arrosto
Arrostire al forno
Arrostire in padella
Saltare
Soffriggere
Friggere
Ricetta. Fajitas
Cotture umide
Bolliti
Brodi
Stufati, stracotti e spezzatini
Brasati
La cottura al vapore
Il gusto
Predicare invano
Un’ode alla cucina scientifica
Ricetta. Brasato