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Snodi e riflessioni di pedagogia

1. Attualità del discorso pedagogico

Mai come in questo periodo la pedagogia ha attraversato una diffusa crisi di identità
dovuta principalmente ad una sua peculiarità: essa si caratterizza per la sua competenza
sugli ideali, che però non possono prescindere dal dover fare i conti con l’empirica realtà
dei soggetti e delle situazioni coinvolti nel processo educativo.

Se dessimo uno sguardo al passato potremmo vedere come molti pedagogisti, pur
riconoscendo l’importanza della pedagogia sociale, si sono mostrati incapaci di
prospettare una visione educativa atta a cogliere gli aspetti del vivere sociale e le esigenze
che da esso scaturiscono.

L’ottimismo pedagogico ha fatto si che la ricerca educativa risultasse capace di


elaborare teorizzazioni dall’alto e che le cosiddette pedagogie sociali e/o speciali
risultassero capaci di applicare operativamente un processo deduttivo quando veniva
richiesto in sede di teoria pedagogica. Tutto ciò ha determinato una continua sollecitazione
a tradurre i principi generali in metodologie appropriate in riferimento a specifici e mirati
interventi educativi, che secondo Suchodolski ha indotto a compiere degli errori. Secondo
l’autore la sintesi tra pedagogia dell’essenza e pedagogica dell’esistenza esige che
siano aperte determinate prospettive di miglioramento nella vita quotidiana e per far si che
ciò accada bisogna assolvere pienamente la missione educativo-trasformativa della
pedagogia:

1. La pedagogia non deve mai rinunciare a quell’atteggiamento critico che


rappresenta una sua prerogativa;
2. Deve tutelarsi da un’eccessiva esaltazione della ragione che ritiene fondamentale il
solo individuare i dati dei problemi stessi.

Un altro aspetto problematico deriva dal considerare la pedagogia incapace di una reale
autonomia rispetto alle scelte politiche, uniche in grado di determinare un reale sviluppo
sociale. Si tratta di avere un approccio diretto ai problemi dell’educazione capace di
garantire una profonda ristrutturazione della personalità che determina un saldo
fondamento del progresso sociale e dello sforzo umano verso la libertà e la civiltà.

Da qui l’esigenza di poter disporre di operatori che in qualsiasi situazione operino, siano in
grado di favorire il progresso culturale, capace di prospettare situazioni esistenziali nuove
nelle quali sia possibile sperimentare in prima persona valori decisivi come quello
dell’impegno, della responsabilità ecc…

A questo punto è opportuno spostare il discorso sul territorio, da considerare come un


vero e proprio setting educativo da valorizzare e orientare attraverso l’intenzionalità
pedagogica: i soggetti, le età, i contesti della formazione richiedono interventi che si
avvalgono di strumenti e strategie diversificate che sono in grado di realizzare occasioni di
accoglienza e disponibilità alla relazione.
Risulta evidente, la necessità di disporre di professionalità pedagogiche che consentono ai
vari operatori di confrontarsi ad armi pari con problemi reali e pressanti che richiedono
soluzioni sempre nuove. In questo senso la professionalità non si configura con
l’applicabilità, ma deve essere specialista in grado di conoscere dinamiche e
problematiche.

L’educatore è un professionista che per la sua passione pragmatica spesso viene


erroneamente assimilato ad un semplice operatore assistenziale; rientra nelle sue funzioni
ridare senso all’identikit personale degli individui e quindi, qualora occorra, anche
strutturare percorsi e strategie formative con le quali operare in situazioni di difficoltà
esistenziale. Oggi più che mai la società ha bisogno di educatori che siano all’altezza delle
situazioni, che non si scoraggino di fronte ai fallimenti e che siano in grado di mettersi in
gioco, di sperimentare nuove strategie operative.

Senza dubbio l’allarme sull’educazione è andato negli ultimi anni crescendo, fino a
generare l’espressione emergenza educativa. Essa va intesa in senso etimologico,
facendo riferimento all’affiorare di aspetti della vita umana che, magari a partire da
situazioni di crisi, vengono posti sotto i riflettori e richiedono nuove e più approfondite
attenzioni sia da un punto di vista teorico che pratico.

Oggi tutti noi paghiamo, per così dire, lo scotto di vivere quello che Lyotard ha definito la
condizione post-moderna caratterizzata dal venir meno di sicuri punti fermi cui far
riferimento. A causa di ciò, Galimberti sostiene che l’uomo contemporaneo privato di valori
certi, deve fare necessariamente appello alle proprie risorse interne, abilità e competenze,
per raggiungere quei risultati in virtù dei quali, in genere viene valutato.

In questo senso occorre fronteggiare a livello complessivo le nuove sfide determinate dai
processi di mutamento che investono l’uomo del nuovo millennio e che determinano nei
giovani un indebolimento della dimensione normativa, una propensione a condurre
esperienze estreme e conseguentemente il camaleontismo identitario.

2. Uno sguardo al passato

Pedagogia è il termine con cui oggi si indicano sia le conoscenze intorno all’educazione,
sia l’organizzazione/progettazione/realizzazione/gestione degli interventi attraverso cui si
svolge il processo educativo.

Da sempre l’uomo ha educato (trasmesso) ai giovani a quelle competenze ritenute


indispensabili per vivere in un determinato contesto di esistenza e per garantire la
continuità.

Quando si è passati dalla preistoria alla storia, e quindi alle testimonianze dirette, non è
stato difficile trovare nei poemi classici espressioni di saggezza educativa.
Al tempo dei greci, nelle famiglie agiate, vi era uno schiavo colto detti pedagogo proprio
perché aveva il compito di accompagnare il fanciullo da casa, in palestra e a scuola,
facendogli ripetere le lezioni e seguendolo nell’esecuzione dei compiti assegnati.

È stata comunque la diffusione della mentalità positivistica che ha determinato un salto


qualitativo di indubbia portata nell’emancipare la pedagogia della tradizionale
impostazione filosofico/religiosa di pratiche estemporanee che avevano il merito di
rappresentare le concezioni relative all’educazione.

In tale prospettiva fece capolino negli studi del tempo l’espressione scienza
dell’educazione al posto di pedagogia.

Agli inizi del ‘900, si verificò poi il passaggio dall’uso singolare all’uso plurale di scienze
dell’educazione, grazie ad importanti contributi forniti da Dewey che considerava
necessario per la scienza dell’educazione disporre di una pluralità di scienze.

In sintesi è possibile definire oggi la pedagogia come scienza generale della formazione e
dell’educazione dell’uomo che si avvale di un organico sistema di saperi che le
consentono una maggiore padronanza dei processi educativi e delle qualità delle
relazioni interpersonali che rendono possibili tali processi.

3. Questioni relative alla struttura epistemologica

In base a quello fin ora detto, la pedagogia si configura oggi come un sapere trasformativo,
contestativo e permanentemente in crisi che pur tenendo conto i contesti all’interno dei
quali opera, risulta costantemente aperto al futuro.

In questo senso l’utopia, viene intesa come direzione e non come meta, che consente alla
pedagogia di generare una diffusa emancipazione e liberazione umana.

L’utopia agisce nella prospettiva del cambiamento che comporta l’impegno di agire in
direzione di ragione ovvero che riconosce la parità dei valori, idee, culture e linguaggi i
quali devono essere curati, difesi e protetti. Si tratta di un’interpretazione del concetto di
cambiamento che richiede e comporta un rinnovato modo di ‘vivere’ a favore di una
cooperazione tra tutti gli uomini nella prospettiva di un’etica planetaria sostenuta da Morin.

Dopo aver delineato i caratteri generali di tale disciplina occorre procedere definirne i tratti
contraddistintivi della sua struttura epistemologica, ovvero la natura e le funzioni delle
diverse componenti che costituiscono il sapere pedagogico.

Innanzitutto occorre specificare che gli oggetti/soggetti di studio si differenziano per il


genere (uomo e donna); per differenze individuali, biologiche, psicologiche (per virtù
dei quali ciascun soggetto è unico ed irripetibile); sociali (precarietà, sottosviluppo);
etniche, linguistiche e culturali (spesso fonte di discriminazione).

Si tratta di un complesso di diversità da ripetere, difendere e valorizzare.


Un'altra variabile importante da considerare è quella dell’età che determina cambiamenti
significativi nei processi di apprendimento e formazione alle molteplici condizioni
dell’esistenza. Infine occorre analizzare i luoghi della formazione; si tratta di contesti
differenziati, ciascun dei quali riveste un ruolo specifico e un’originale funzione quali la
famiglia, la scuola e tutte le istituzioni e le associazioni culturali e del tempo libero. In
genere quando si parla di luoghi in cui avviene il processo educativo si fa riferimento a 3
differenti macrocategorie: contesti formali  istituzioni dedicate all’istruzione e alla
formazione (scuola); non formali  caratterizzati dalla libertà di adesione (famiglia,
gruppo dei pari, associazioni); informali  in cui si originano nell’individuo sviluppi
educativi seppur non svolgendo deliberatamente azione educativa (siti internet,
televisione).

Il duplice piano di riflessione della pedagogia rivolto da un lato dalla dimensione tecnica
e dall’altro alla dimensione pratica non può non avvalersi di una molteplicità di linguaggi
che svolgono una pluralità di funzioni: linguaggio esplicativo  volto a fornire
chiarificazioni sulla specificità del soggetto della formazione; linguaggio autobiografico
 volto ad interpretare il modo in cui i processi di apprendimento sono vissuti dai soggetti
in formazione; linguaggio seduttivo  mira ad individuare la direzione del processo
educativo; linguaggio del senso comune  comprende frasi, concetti e approcci tipici
del senso comune in riferimento alle tematiche educative; linguaggio simbolico-
metaforico  si caratterizza per l’utilizzo di frasi o concetti simili o ambigui che intendono
specifici significati.

La prassi nella dimensione teorica e critico-prospettica diviene controllo analitico e


metodologico e intervento trasformativo. In tal senso conoscenza e azione, teoria e
prassi si integrano e completano.

La teoria dopo aver affrontato il banco di prova della prassi torna su se stessa per
elaborare modelli più maturi e comprensivi per costruire nuove ipotesi a un livello di
ulteriore teoreticità (paradigma ricerca-azione).

Tutto ciò spinge la pedagogia ad interessarsi a diversi settori di ricerca:

ricerca teorica  si propone di teorizzare l’esperienza educativa;

ricerca comparata  mette a confronto modelli diversi che permette di individuare punti
di forza e criticità;

ricerca storica  si occupa delle trasformazioni e delle evoluzioni della ricerca


pedagogica, delle istituzioni della formazione elaborata nel corso dei secoli;

ricerca clinica  allarga l’analisi al vasto panorama dei bisogni educativi della persona e
delle problematiche che possono condizionare le dinamiche educative rinnovando metodi
finalizzati al raggiungimento di nuovi equilibri;

ricerca sperimentale  attraverso la valutazione degli apprendimenti e la


sperimentazione di particolari metodologie è possibile contrastare quel senso comune che
spesso banalizza sia la teoria che la pratica educativa.
4. Pedagogia: Scienza dell’educazione o della formazione?

La Pedagogia è Scienza dell’educazione (padeia) o della formazione (bildung)?

In prima istanza bisogna evidenziare gli elementi distintivi tra i termini educazione e
formazione.

Il termine educazione celebrerebbe la supremazia dei fini sociali nel determinare


contenuti e direzioni che devono assumere i processi di trasformazione che ciascun
individuo compie. Per fare ciò tale processo avviene in una fitta rete di contesti di
apprendimento.

Il termine formazione invece definisce il percorso che porta il soggetto ad una lenta e
continua acquisizione della specifica dimensione individuale.

In tale prospettiva il termine formazione, rappresenterebbe una categoria critico-


regolativa attenta alla concretezza della persona situata all’interno di contesti determinati.

Cambi e Orefice evidenziano l’opzione processo formativo invece di processo


educativo poiché il termine formativo attiene a quel processo che consente all’uomo di
percorrere stadi di autorealizzazione progressivamente più complessi.

Per Acone, viceversa, la formazione è più stimolo esterno e non valorizza adeguatamente
l’autorealizzazione ed in questo senso essa è condizione necessaria ma non sufficiente
per avviare l’educazione.

Massa, invece, evidenzia come spesso il termine formazione è visto come


complementare negativo di educazione piuttosto che sinonimo di istruzione, e in genere
sta ad indicare qualunque pratica intenzionale finalizzata e controllata rispetto
all’apprendimento permanente di conoscenze e abilità. A prescindere dai dettagli che
protendono per l’uno e o per l’altro termine, all’interno della riflessione pedagogica
emergono alcune esigenze improcrastinabili:

- la necessità di (ri)descrivere il concetto di educazione come concetto che va rivisto


all’interno di un contesto sociale e culturale molto complesso;

- ricercare le strategie appropriate che accompagnano il soggetto nel lungo e faticoso


viaggio di ricerca della propria identità personale;

- assumere il fattore educativo in una prospettiva maggiormente attenta alle dinamiche


relazionali, poiché diventa sempre più centrale il processo di auto formazione che offre la
possibilità all’uomo di gestire in autonomia la problematiche sociali e di dirigere la propria
costruzione personale.
5. Per una rilettura psico-pedagogica di miti e metafore

Spesso nel linguaggio comune per illustrare meglio un’idea si ricorre ad una
rappresentazione allegorica. La Pedagogia nel corso del tempo ha fatto grande uso di
metafore e miti per rendere più evidenti le argomentazioni su cui faceva leva.

L’effetto Pigmalione ne è un esempio. Esso il più noto dal punto di vista pedagogico ed è
anche conosciuto con il nome di profezia che si auto-adempie: si tratta di una forma di
suggestione psicologica per cui le persone tendono a conformarsi all’immagine che gli altri
individui hanno di loro, sia essa positiva o negativa.

Ne consegue che da un punto di vista educativo l’interazione operatore-utente risulta


essere fondamentale nella riuscita del progetto formativo e sulle prospettive trasformative
ed esso sottese, in quanto può aiutare a modificare la concezione di sé, le aspettative
circa i propri comportamenti, le motivazioni e le stesse capacità cognitive.

Da ciò consegue l’esigenza della sospensione del giudizio nell’elaborazione di


valutazioni nel momento in cui non sono disponibili elementi sufficienti per formulare il
giudizio stesso, al fine di escludere forme di valutazioni superficiali.

È chiaro che in un contesto sociale o di relazione diadica con un altro ‘essere’ l’astensione
del giudizio permette in buona misura di evitare conflitti legati all’incomprensione reciproca.

Un esempio è rappresentato dall’effetto framing, un processo inevitabile di influenza


selettiva sulla percezione dei significati che un individuo attribuisce a parole o frasi.

Un altro effetto che va ricordato è l’effetto Lucifero definito così da Zimbardo, dopo aver
condotto un esperimento nella prigione di Stanford. L’esperimento prevedeva
l’assegnazione, ai volontari che accettarono di parteciparvi, dei ruoli di guardie e prigionieri,
al fine di poter studiare le capacità adattive dei detenuti. In realtà l’esperimento divenne
famoso per le osservazioni relative al comportamento assunto dal gruppo delle guardie
che in pochissimo tempo assunsero comportamenti sadici e violenti tali da determinare la
sospensione dell’esperimento.

Questi esempi/effetti studiati nell’ambito delle ricerche di psicologia sociale devono


mettere in guardia circa i comportamenti messi in essere da parte dell’educatore, capaci di
innescare ciò che Spranger definiva la legge degli effetti collaterali.

Bisogna anche sottolineare che ciascuno di noi subisce una forte influenza/fascino da
quanto crede possa valorizzare la propria persona e conseguentemente mette in atto
comportamenti che supportano tali credenze (effetto Barnum).

Un altro effetto di cui bisogna parlare è sicuramente l’effetto Hawthorne, fenomeno


scoperto durante delle ricerche fatte in fabbrica dalle quali emerse che le variazioni di
comportamenti è dovuta dalla maggiore attenzione data o dalla presenza di osservatori, e
che comunque non ha una durata nel tempo. Dunque ciò sta a significare che una
maggiore attenzione nei confronti del soggetto di educazione, fa ben sperare ad una
riuscita complessiva della relazione. Attenzione che va orientata e assistita affinché il
soggetto di educazione non risulti intrappolato nell’effetto Icaro.

Per spiegarlo è necessario fare un passo indietro e soffermarsi su un dilemma nella storia
dell’educazione che ha angosciato la quasi totalità degli autori: occorre guidare o lasciar
crescere?

A fronte di un modo di pensare l’educazione in termini di quasi assoluta eterodirezione


(essere guidati da altri) in cui impervia una sorta di effetto Pinocchio caratterizzato da
una permanente condizione di inferiorità da parte dei destinatari dell’azione educativa nei
confronti di coloro che gestiscono il processo formativo e da una perenne paura di non
poter raggiungere quei traguardi, prefissati da altri e percepiti come troppo grandi per
poter essere raggiunti, si è passati in tempi più recenti, a forme di eccessivo
permissivismo della funzione della cura e di orientamento educativi.

Ciò ha contribuito a generare l’effetto Icaro caratterizzato dal conferire prematuramente


all’allievo libertà ed assoluta indipendenza, che in talune circostanze può tradursi in cadute
rovinose ed insuccessi. Ciò ha reso spesso gli educatori impauriti di fronte agli inevitabili
fallimenti, che invece dovrebbe spingerli a rimettersi in gioco e a sperimentare nuove
strategie operative.

In fine possiamo richiamare un ultima metafora, l’effetto Butterfly: il battito di ali di una
farfalla in California può determinare un uragano in Cina! Questo paradosso sottolinea che
nelle grandi trasformazioni possono intervenire anche fattori apparentemente trascurabili
che però introducono dei cambiamenti nel contesto imprevedibili. Sono proprio questi
ultimi che caratterizzano quelle strategie lillipuziane che trovano nel fattore educativo e
soprattutto nell’ottimismo dell’educatore un terreno fertile di azione positiva e prospettica.

6. Il paradigma della cura educativa

Negli ultimi tempi si è cominciato a parlare diffusamente di cura in ambito pedagogico.


Quando si parla di cura si fa riferimento ad processo finalizzato a promuovere il pieno
benessere intellettuale, emozionale, spirituale e fisico di chi riceve-cura: essa ha luogo in
un contesto di strutture sociali che incoraggiano lo sviluppo della capacità di dare e
ricevere cura. La buona azione di cura si caratterizza per la presenza di 4 elementi:

1. Attenzione: è il primo passo dell’atteggiamento empatico; è un fattore senza il


quale non è possibile costruire la disposizione mentale alla cura;
2. Responsabilità: è il modo per cui è necessario occuparci dell’altro e allo stesso
tempo permettere che l’altro si senta accettato e accolto;
3. Competenza: è il modo in cui si attua l’intenzione della cura; senza competenza
non c’è cura;
4. Reattività: ogni pratica della cura per essere tale ha bisogno di essere vissuta
dispiegando tutte le risorse disponibili.
Se un insegnante enunciasse solamente e non praticasse la propria disponibilità
all’ascolto e al dialogo non avrebbe alcun diritto di affermare che sta professionalmente
svolgendo il suo lavoro. È il rispetto dell’altro che gioca un ruolo centrale nell’esercizio
della cura. Avere cura non significa occuparsi, avere interesse dell’altro, ma sentire la
necessità di dare una risposta adeguata ai bisogni dell’altro. Essa è una pratica che si
realizza in una relazione diadica, poiché anche quando ci si occupa di più soggetti si ha
cura di ogni persona nella sua peculiarità. La cura diviene pertanto, un vero e proprio
luogo pedagogico, proprio perché luogo esistenziale e formativo al tempo stesso. Parlare
di cura educativa significa assumere la dimensione concreta, pratica e contestuale
dell’educazione.

Relazione e intersoggettività devono essere sempre lette in chiave ermeneutica poiché


si riferiscono a persone reali, solo così si potrà cogliere la singolarità, la differenza,
l’alterità che contraddistingue ciascuno di noi. Ciò apre gli occhi su una differenziazione
sostanziale fornita da Heiddegger: aver cura in senso autentico e inautentico.
Quest’ultimo fa riferimento all’intromissione, alla sostituzione del soggetto di cui si ha cura.
In questo caso l’altro è visto solo come oggetto di cure e di conseguenza viene lasciata ad
esso poca autonomia, progettualità ed intenzionalità, ai suoi desideri e possibilità di
esprimere se stesso.

Il primo invece si configura come una cura che non si limita al bisogno dell’altro, ma è
diretta alla sua esistenza, formazione e ai suoi desideri. È una cura che lascia all’altro
progettualità e libertà, affinché egli diventi capace di aver cura, egli stesso, di sé e del
mondo. In questo senso la cura può essere definita come la pratica che consente all’altro
di scoprire e sperimentare la proprie potenzialità e di iniziare a costruire la propria forma.

7. Il problema dell’ascolto profondo/attivo

Come è stato possibile constatare, l’ascolto attivo si basa sui principi dell’accettazione e
dell’empatia.

L’ascolto non deve essere confuso con il sentire. L’ultimo rappresenta un’azione
fisiologica, mentre il primo va considerato come una vera e propria relazione educativa
dinamica.

Per diventare attivo, l’ascolto deve essere aperto e disponibile non solo verso l’altro e a
quello che dice, ma anche verso se stessi, per ascoltare le proprie reazioni, per essere
consapevoli dei propri limiti. I principali elementi che caratterizzano una buona attività di
ascolto sono: sospendere i giudizi che sono l’effetto di un voler classificare il proprio
interlocutore inserendolo in categorie codificate; osservare ed ascoltare acquisendo più
informazioni possibili; mettersi nei panni dell’altro dimostrando empatia ed assumendo il
punto di vista del proprio interlocutore; certificare la comprensione attraverso domande;
curare la logistica facendo attenzione all’ambiente in cui si può quindi parlare di ascolto
pedagogico, un ascolto profondo che consente di realizzare un’autentica relazione fra
persone in virtù della quale è data la possibilità di sentire l’altro.
8. Luoghi e modi dell’agire educativo

Se è vero che l’educazione avviene per tutto il corso della vita è anche vero che sono
infinite le occasione e le modalità in cui essa si realizza. Vi è un aspetto che accomuna le
pratiche positive di formazione dell’uomo: quello di assicurare alla persona una condizione
di benessere fisico, mentale e sociale. Infatti lo star bene dal punto di vista fisiologico,
può anche significare non soffrire eccessivamente. È quindi necessario specificare le
cornici in cui il benessere viene inserito, poiché altrimenti si rischi di essere vaghi. È
evidente quindi che l’azione educativa può essere effettuata in relazione al livello di
benessere/normalità e di disagio/devianza/marginalità presenti nei soggetti cui sono
rivolte.

Il disagio è da considerare una condizione soggettiva di imbarazzo che è imputabile a vari


motivi esterni. Si è soliti distinguere 2 categorie del disagio: per i bisogno di tipo primario
o materiale.

Come si può ben intuire è difficile individuare indicatori adeguati per determinare in
maniera univoca la presenza di condizioni di disagio. Molto spesso il disagio si presenta in
maniera a-sintomatica rendendo difficile il riconoscimento e stabilirne gli indicatori.

L’emarginazione rappresenta anche un concetto relativo. Non esiste marginalità in sé, ma


rispetto a qualcosa: marginale lo si è rispetto ad un determinato contesto in conseguenza
di variabili economiche, culturali, sociali ecc… L’emarginazione può anche essere effetto
di scelte intenzionali, quando ad esempio le concezioni personali del soggetto confliggono
con le regole sociali di riferimento.

Vi sono poi le marginalità culturali prodotte dal mancato riconoscimento dei diritti e delle
pari opportunità.

Secondo Merton l’emarginazione e il disagio possono essere anche causa determinante


di devianza. Secondo lo studioso l’attuale società occidentale spinge i suoi membri verso
un unico obiettivo: il successo economico e la possibilità di fruire di beni di
consumo senza alcuna limitazione. La società, però, non è in grado di garantire a tutti i
membri il raggiungimento di tali obiettivi, pertanto coloro che appartengono alle classi
meno privilegiate avranno maggiore incentivo a mettere in atto comportamenti devianti.

Il comportamento deviante è messo in essere da parte di un soggetto che si discosta da


norme presenti in un determinato sistema sociale.

Il termine devianza, non deve però essere necessariamente assunto in un’accezione


negativistica. Esiste infatti un’azione positiva nei confronti della devianza, la quale si
concentra come prevenzione repressiva, intesa come difesa dei buoni, giusti e corretti
contro il pericolo rappresentato dai cattivi e dai devianti.
Il termine prevenzione presenta una molteplicità di interpretazioni. Ad esempio in ambito
criminologico si parla di 3 forme di prevenzione:

1. Forma punitiva che dovrebbe svolgere un’azione deterrente nei confronti della
commissione di un reato: quanto più quest’ultimo è grave tanto più si inasprisce la
pena! È possibile constatare che ciò non avviene mai poiché ciò richiederebbe
l’applicazione della pena di morte.
2. Forma correttiva che si regge sulla convinzione che il crimine possa essere
contrastato tramite interventi specifici svolti in contesti istituzionali.
3. Forma di tipo meccanico che consiste nel frapporre ostacoli fisici alla eventuale
commissione di reati.

La seconda classificazione propone programmi di prevenzione primaria, secondario e


terziaria.

La prima consiste nel promuovere interventi mirati a controbilanciare tutti quei fattori che
in genere sono considerati causa di risposte individuali criminogene. Molto spesso tali
iniziative risultano essere inconcludenti in quanto si opera quasi esclusivamente su
condizioni contestuali piuttosto che assumere come obiettivo dell’azione preventiva il
coinvolgimento dei diretti interessati al cambiamento.

La seconda è rivolta in termini di selettività nei confronti di soggetti considerati a rischio


di comportamenti problematici.

La terza riguarda tutti gli interventi che vengono messi in atto nei confronti di soggetti che
presentano molto più che disturbi, sintomi e patologie comportamentali: si tratta di soggetti
che appaiono collocato all’interno del range dell’antisocialità in cui è necessario operare
attraverso un taglio indicato che se non viene svolto adeguatamente rischia di innescare
circoli viziosi. Diversa è la prevenzione che agendo all’interno di situazioni di normalità e di
quotidianità riduce di fatto i rischi di incontro con il malessere e il disagio. Tale prospettiva
mira principalmente allo sviluppo della persona. La prevenzione promozionale equivale
a prevenzione educativa, attenta a tutte le peculiarità personali e alle specificità
contestuali.

Lavorare nell’ottica della promozione, significa rendere forte l’individuo, fare in modo che
possa sentirsi adeguato alle diverse situazioni che si trova ad affrontare, potendo far
ricorso a differenti risorse che gli consentono di costruire un progetto futuro e di affrontare
con efficacia le situazioni contingenti.
9. Analisi pedagogica di una problematica emergente: il bullismo

Quasi ogni giorno appaiono su youtube le ‘imprese’ di adolescenti con i loro filmini che
ritraggono scende di bullismo.

Esso rappresenta un problema complesso caratterizzato da molteplici sfaccettature. È una


problematica che va indagata in una prospettiva gruppale in quanto si afferma
prevalentemente all’interno di gruppi. Il bullismo è un atto vessatorio che presenta alcune
costanti: asimmetria  squilibrio nel rapporto di forza tra 2 o più persone;
intenzionalità  nell’arrecare danno alla persona debole e la conseguente mancanza di
compassione nei confronti della vittima; persistenza  intensità e durata nel tempo di tale
squilibrio relazionale; mancanza di sostegno  la vittima viene isolata e spesso ha
paura di riferire gli episodi perché teme la vendetta: ciò però non fa altro che favorire
l’impunità del bullo, che rafforzano in tal modo la loro condotta.

Risultano quindi di scarso rilievo le variabili socio ambientali, condizionamento socio


economico e il rendimento scolastico

Tutti posso essere coinvolti in situazioni di bullismo. La condotte inadeguate si verificano


con maggiore probabilità quando i genitori si interessano poco dei figli e non sono stati in
grado di definire dei limiti oltre i quali determinati comportamenti non sono consentiti.

I comportamenti bullistici sono frutto di una serie di correlati legati al clima familiare e
scolastico: stili educativi permissivi e tolleranti; definizione e articolazione delle strutture
gerarchiche; coesione tra i membri che compongono i vari contesti; sistema dei valori
condiviso; strategie utilizzate per fronteggiare le difficoltà.

9a. Gli attori

È opportuno a questo punto analizzare i singoli profili che caratterizzano la problematica


del bullismo. Il bullo, la cui caratteristica è senza dubbio un rilevante potenziale
aggressivo che esercita nei confronti dei soggetti che popolano i suoi ambienti di vita.
Un’altra caratteristica è l’assenza di empatia, il bullo ha una scarsa o addirittura nessuna
considerazione dei sentimenti altrui. Accanto al bullo dominante vi è anche il gruppetto dei
bulli gregari, meno popolari rispetto al primo, sono coloro che cercano la propria identità
e affermazione nel gruppo attraverso il ruolo di aiutanti del bullo. Non prendono in genere
iniziative, in quanto il loro obiettivo non è prevaricare, ma eseguire gli ordini del bullo
dominante. Egli con molta probabilità gode di scarsa popolarità all’interno del gruppo dei
coetanei e crede che la partecipazione alle azioni bullistiche gli diano la possibilità di
affermarsi e di accedere al gruppo dei forti. A questa tipologia appartiene anche il
gregario spettatore il quale rinforza il bullo, ridendo e incitando o semplicemente
guardando: il suo obiettivo è quello di non rimanere tagliato fuori dal gruppo dominante
pur non condividendo, a volte le scelte operative.
Vi è infine una tipologia intermedia tra vittima e bullo: il bullo vittima caratterizzato dalla
combinazione tra azioni provocatorie, ansiose e aggressive che innescano facilmente un
circolo vizioso a elevata conflittualità. Tale soggetto ha la tendenza a prevaricare i
compagni più deboli, tende a non arrendersi ai soprusi e a reagire con aggressività alle
offese, scatenando un circolo vizioso di violenza che fa spesso saltare l’equilibrio della
classe. Poi vi è la vittima che non è per forza colei che presenta caratteristiche esteriori
pronunciate. Più agevole risulta delineare i tratti personologici della vittima come passiva,
sottomessa e remissiva. Essa è per lo più ansiosa ed insicura e soffre anche di scarsa
autostima; occupa all’interno del gruppo posizioni marginali e difficilmente riesce a crearsi
amicizie all’interno della classe. La vittima molto spesso nega l’esistenza del problema e
della propria sofferenza accettando quasi passivamente quanto accade, non parla con
nessuno delle prepotenze subite perché si vergogna e per timore di subire altre
prepotenze.

Una posizione particolare occupa la vittima diversa, diversa per cultura, svantaggio socio
ambientale o per una qualche disabilità: tale vittima è più sensibile degli altri coetanei alle
prese in giro, non sa o non può difendersi adeguatamente a causa della sue
caratteristiche fisiche o psicologiche.

Infine vi è il difensore colui che consola e difende la vittima o cerca in qualche modo di far
smettere le prepotenze purtroppo per la vittima, il difensore non è onnipresente.

9b. Le forme

Quando si parla di bullismo si fa riferimento alla sua forma maggiormente studiata: il


bullismo fisico al cui interno è possibile rilevare sottocategorie: atti aggressivi fisici
diretti che variano per livello di intensità; danneggiamento di oggetti di proprietà altrui;
furto o sottrazione di oggetti che avviene attraverso un vero e proprio confronto fisico
con la vittima di turno.

Questa prima forma di bullismo è prevalente tra i maschi e si manifesta già nella scuola
primaria. I segni lasciati dall’aggressione fisica possono essere facilmente rilevati
dall’adulto che potrà quindi avvalersi di questi segnali per intervenire.

Una seconda forma è il bullismo verbale caratterizzato da prese in giro, derisioni, insulti
frequenti. È una forma che sul piano quantitativo non presenta evidenti differenze tra
maschi e femmine, mentre in relazione all’età compare più tardi rispetto a quello fisico. In
tale forma è possibile rintracciare due differenti modalità di attuazione manifesta, in cui
vengono apertamente presi di mira gli aspetti personali o quelli relativi nella famiglia della
vittima; e quella occulta che si caratterizza per la diffusione di maldicenze in riferimento
ad aspetti personali o familiari, in assenza della vittima.
Vi è poi il bullismo psicologico relazionale che mira ad escludere la vittima dal gruppo
nel quale è inserita.

Qui si iscrivono 2 sottocategorie: quella sociale che si caratterizza per uno stato di
isolamento crescente in cui si tende a configurare la vittima, e quella manipolativa che
consiste nell’intervenire attivamente sui rapporti di amicizia di cui gode la vittima,
manipolandoli e rompendoli. In tal modo la vittima rimane isolata e perde di conseguenza
anche il sostegno emotivo e sociale che gli derivava da quelle che riteneva amicizie salde
e sicure. Infine vi è il bullismo elettronico che consiste nell’infliggere vessazioni via e-
mail o sms o la fotografa/filma in momenti in cui questa non desidera essere ripresa e poi
invia le sue immagini ad altri con lo scopo di diffamarla.

Questa forma ha stravolto il ‘vecchio’ volto del bullismo lasciando invariate le conseguenze
per la vittima. Esso opera all’interno di uno scenario che può raggiungere un vasto
gruppo rispetto al bullismo tradizionale; la vittima non ha la possibilità di sottrarsi a tali
vessazioni; risulta essere maggiormente nascosto agli adulti; consente di mettere in
essere azioni prevaricanti anche da parte di soggetti che nella conflittualità sociale diretta
non potrebbero mai ricoprire il ruolo di bullo; il senso di responsabilità da parte di chi
agisce diminuisce notevolmente.

Il cyberbullismo è un fenomeno che coinvolge in maniera esponenziale sempre più


preadolescenti e adolescenti.

9c. Le variabili connesse

Se fino a qualche anno fa erano solo i ragazzi a fare i bulli oggi si può affermare
l’esistenza di un bullismo femminile, meno basato sullo scontro fisico e maggiormente
caratterizzato dall’aspetto verbale/indiretto e si concretizza nella manipolazione dei
rapporti di amicizia. Oltre la variabile di genere è significativa quella relativa all’età. A
giudizio unanime degli studiosi la fascia di età compresa tra i 7 e i 16 anni è considerata
quella con maggiore frequenza di episodi di bullismo. I soggetti coinvolti sono gli alunni
delle scuole elementari e medie; con il passaggio alla scuola secondaria di 2° il bullismo
evolve nelle forme di bullismo specializzato. In questa fase sebbene il bullismo
diminuisca in quanto numero di frequenza, si modifica ed assume sfumature diverse più
pericolose.

I luoghi in cui avvengono gli episodi di violenza sono soprattutto riguardanti la scuola.

Nella scuola elementare gli spazi prediletti sono i bagni, cortili e ambienti poco controllati.

Nelle scuole secondarie le prepotenze si registrano durante l’intervallo e durante le ore di


lezione o nei corridoi. In questo caso entra in gioco la disattenzione dei docenti e del
personale scolastico. Indipendentemente dal livello scolastico un luogo pericoloso è il
pullman, autobus, treno ecc… ; anche in questi luoghi esterni alle scuole possono essere
considerati come luoghi di prepotenze. Il silenzio dei presenti è di grande impatto per le
reiterazioni e dell’atto bullistico.
9d. Perché e come intervenire

Come bisogna intervenire di fronte a situazioni di bullismo?

Sicuramente intraprendendo una strategia di intervento volte ad analizzare il disagio


connesso ai modelli reattivi che il bullo e la vittima assumono nella loro relazione
conflittuale al fine di progettare strategie operative sistemiche idonee a fronteggiare le
inadeguate modalità di approccio con gli altri.

Secondo la prospettiva sistemica, è efficace puntare sulle dinamiche dell’intera classe


per far prendere a tutti coscienza dei rischi sistemici di certe prevaricazioni. È quindi poco
efficace qualsiasi intervento improntato esclusivamente su una logica punitiva o
meccanica per cercare di contrastare il fenomeno del bullismo. È più efficace mettere in
atto nella scuola forme di prevenzione a-specifica indirizzate a tutti i soggetti del gruppo
classe al fine di incrementare le risorse operative, sociali e umane. In tale direzione si è
mosso il programma che Dan Olweus ha ideato per arginare il fenomeno bullistico in
Svezia attraverso la costruzione di ambienti scolastici privi di tutto ciò che può costituire un
rinforzo del comportamento aggressivo. In questo senso la scuola dovrebbe acquistare la
dimensione di una vera e propria ‘palestra’ all’interno della quale si sollecitano e si
sviluppano competenze prosociali, empatia, comunicazione che permettono allo studente-
persona di crescere come singolo e come individuo appartenente ad una società.

Un esempio che rappresenta il modo in cui è possibile comprendere gli stati d’animo altrui
è la tecnica del role playing un gioco che dà l’occasione di liberare le emozioni e i
sentimenti che non si possono esprimere per via di regole o condizionamenti sociali. I
vantaggi di questa tecnica consistono nel fatto che: il processo si sviluppa come gioco di
ruolo e pertanto non avrà conseguenze nella vita reale; a conclusione del role playing è
previsto un momento di debriefing in cui si riflette sui significati che i diversi
comportamenti veicolano, al fine di esplorare le relazioni tra la situazione rappresentata e
l’esperienza reale dei soggetti.

Recentemente a livello europeo è stato proposto un progetto aVataR@School, che


utilizza l’ambiente virtuale per la rappresentazione di scenari di conflitto: nel corso del
virtual game gli studenti imparano oltre a ‘mediare tra pari’ scenari di conflitto reali. Così
facendo essi prendono dimestichezza con strategie creative e non violente per la gestione
dei conflitti interpersonali scaturiti tra coetanei e con strategie di problem solving per
assistere i compagni nella ricerca di soluzioni condivisibili da tutti i protagonisti del conflitto.

Altra tecnica che permette di sviluppare una maggiore empatia e consapevolezza degli
altri è il Teatro dell’Oppresso che è stato ideato negli anni ’60 in Brasile da Augusto Boal,
che usa il teatro come linguaggio e mezzo di conoscenza e di trasformazione della realtà
interiore relazionale e sociale che gli spettatori vivono nel corso della ‘performance’ messa
in scena.

A livello di più specifica prassi scolastica, possiamo fare riferimento alla pratica del
Cooperative learning, che favoriscono la costruzione di un senso di appartenenza
responsabile che porta al rinforzo dell’autostima e a comunicare ed aiutare gli altri.
Come agire quando l’atteggiamento bullistico assume i connotati delle costanze
comportamentali?

- assumere un giusto equilibro tra fermezza, comprensione e sostegno;

- fermare gli episodi nel preciso momento in cui vengono osservati e solo
successivamente cercare di capire le cause;

- sostenere innanzitutto le vittime, anche quando non sembrano simpatiche o si ritiene che
colludano con l’aggressione;

- stimolare e favorire la cultura del ‘raccontare’ ciò che accade;

- considerare i bulli come persone da aiutare e fermare;

- sviluppare e favorire il lavoro attraverso la sinergia tra i diversi soggetti che si occupano
di educazione e formazione.

Ma oltre ad una più approfondita conoscenza del problema è necessario che si inneschi
una convergenza di intenti con l’obiettivo di individuare criteri di azione e strategie
educative, come si diceva, che possano rappresentare una solida piattaforma preventiva
sollecitando i genitori e insegnanti relazionali positivi, rispettosi, incoraggianti sia a casa
che a scuola; realizzando una vera e propria ‘rete’ tra le agenzie e istituzioni
extrascolastiche che possono rappresentare un punto di riferimento per l’adolescenza.

In quest’ottica va fatto riferimento ai circoli di qualità (CQ), una metodologia che fa


ricorso alle risorse interne alla scuola con l’obiettivo di convertire i saperi della scuola in
saperi di cittadinanza. Completa la fase di rodaggio di tale iniziativa il consolidamento di
esperienze di network interscolastico.

Dare spazio e attenzione a queste pratiche a scuola significa lavorare per favorire
condizioni adeguate alla costruzione di abilità socio-relazionali stabili e efficaci per la
promozione dell’autostima, l’assunzione di responsabilità, di partecipazione attiva, di
rispetto per gli altri in un clima di benessere.

10. Il problema delle competenze interculturali: emergenza o paradigma


pedagogico?

Il termine competenza è complesso e polisenso.

Per questo alcuni autori sottolineano il carattere di provvisorietà proprio perché il suo
significato è sfuggente in quanto fa riferimento a elementi teorici e prassici. Pertanto
quando si parla di competenze è più corretto fare riferimento alla convergenza di capacità,
conoscenze, aspetti immateriali e concreti. Una nozione corretta di competenza dovrebbe
contemplare al suo interno sia ciò che è comportamentalmente osservabile sia aspetti
performativi di una persona, il suo empowerment.
Proprio per questo è un processo che presenta alcuni caratteri essenziali quali dinamicità
e processualità, contestualità e complessità.

Le cose si complicano quando il concetto di competenza si declina con il termine


Intercultura. Il Libro Bianco sul dialogo interculturale considera l’Intercultura come
scambio di veduta aperto, rispettoso e fondato sulla reciproca comprensione fra individui e
gruppi che hanno origini e un patrimonio etnico, culturale, religioso e linguistico differente.
Spesso però, la storia e le vicende della scuole dell’ultimo cinquantennio hanno dimostrato
quanto difficile sia la traduzione prassica della teoria e della normativa vigente: sono
trascorsi decenni perché il termine inserimento fosse letto e interpretato in termini di
integrazione e si comprendesse che inclusione non significa solo ‘far posto’ ad un
individuo bensì, trasformazione dei contesti stessi.

Quanti degli operatori impiegati nei più svariati settori che si confrontano con la diversità
possiedono le competenze necessarie per poter meglio rispondere alle ‘domande’ che
provengono dell’altro diverso da me?

10 a. Il problema delle competenze interculturali

Chi è competente in dimensione interculturale possiede competenze comunicativo-


relazionale, ma anche competenze simboliche e culturali e soprattutto, competenze
etniche e valoriali in virtù delle quali riesce a ‘fondare’ il dialogo con li altri: possiede,
insomma, la sensibilità, le conoscenze e le capacità necessarie per poter interagire
efficacemente e in modo appropriato con le persone di culture differenti. Tali competenze
non posso essere insegnate secondo Elio Damiano, ed è possibile apprenderli solo se il
soggetto possiede la capacità di riflettere su abilità che si sono manifestate dopo un
apprendimento di natura pratica e la sua conseguenziale applicazione.

A livello indicativo è possibile distinguere 4 livelli di competenza interculturale:

- sensibilità alla cultura, la percezione delle somiglianze e delle differenze, il


riconoscimento degli altri;

- tolleranza, l’accettazione e il rispetto;

- flessibilità, la mediazione e l’empatia;

- apprezzamento e l’integrazione.

Il concetto di competenza interculturale va visto in definitiva come interazione costante


tra una dimensione del sapere (conoscenze attraverso cui si possono portare a termine i
compiti); saper fare (abilità di utilizzare le conoscenze in modo originale al fine di creare
strategie efficaci); saper essere (saper gestire le dimensioni personali cognitive e socio-
affettive della comunicazione interculturale).

Fondamentale diviene per alimentare la competenza interculturale il ciclo esperenziale-


riflessivo in cui l’esperienza costituisce il punto di partenza per ulteriori momenti di
riflessione e di presa di coscienza, che permettono di sperimentare abilità e strategie in
contesti diversi riattivando nuove esperienze di riflessione.

In questo quadro di riferimento trovano un loro naturale spazio gli aspetti metacognitivi
delle competenze, che si concretizzano in strumenti di riflessione al servizio del processo
di presa di coscienza delle aree fondamentali della propria competenza.

10b. Per una μετάνοια interculturale

Educare in prospettiva interculturale, significa fare in modo che la persona sia


effettivamente aperta all’incontro, all’accoglienza, alla collaborazione e allo sviluppo in
contesti di autenticità reciproca.

La comprensione dell’altro consiste dunque nell’ascoltare e nel rispondere l’interlocutore


gestendo il surriscaldamento cognitivo e le discrasie cognitive. Intercultura diviene
pertanto sinonimo di rapporto tra persone portatrici di storie di vita e di culture diverse; è
condivisione del patrimonio di conoscenze e di saperi enti e associazioni che si
impegnano in progetti sociali e politici che realizzano quella idea di cittadinanza
planetaria.

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