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Bŗhadhraņyaka Upanişad, I.

2*

(= ŚATAPATHA BRAHMANA X, 6, 5)
1

Quaggiù al principio non c'era che il nulla. Tutto era avvolto dalla morte (Mrtyu) o dalla fame, perché la fame
è la morte. [Mrtyu] creò la mente, pensando: « Possa io avere un corpo!». E, cantando inni d'adorazione, si
mosse. Mentre cantava, sorsero le acque. Allora egli disse:
«Mentre cantavo (are), si è prodotta l'acqua (ka)». Ecco come s'originò l'arka e perché ebbe questo nome.
E in verità, la felicità (ka) tocca a colui che conosce come s'originò l'arka e perché ebbe questo nome.
(trad. a cura di Carlo Della Casa)

«Nel principio (agre) niente di tutto questo era qui. Questo-tutto, idam, era velato dalla Morte (mŗtyu), con la
Privazione (aśanāyā): perché la Privazione è la Morte. Questo, tad, assunse (akuruta) l'Intelletto (manas), “Sia io
il Sé”, Ātmanvī syām. Egli (saū), il Sé stesso, la Luce manifestata, arcuano acarat. Da Lui, mentre brillava, nacquero
(jāyanta) le Acque (āpaū).
«Certamente, mentre io brillavo, c'era Amore (kam)», dice Lui (iti). Questa è la Lucentezza (arkatva) della
Lucentezza (arka). Certamente, c'è Amore per chi conosce così il brillare della lucentezza.
(traduzione dal testo inglese della traduzione dal sanscrito di A.K. Coomaraswamy)

Il nostro testo tratta dell'origine della Luce dall'Oscurità, della Vita dalla Morte, dell'Attualità dalla
Possibilità, del Sé dal Non-sé, dal Brahman Saguņa dal Brahman Nirguņa, del «Io sono» dall'Incoscienza,
di Dio dalla Divinità:
“La prima assunzione formale nella Divinità è l'essere… Dio”, Mastro Eckhart I.267.
“Il Niente si introduce in sé stesso dentro una Volontà”, Boehme XL Questions concerning the Soule
I.178;
“una volontà eterna sorge dal niente, per introdurre il niente dentro qualcosa, affinché la volontà si
trovi, sentirsi e si contempli da sé stessa”, Signatura Rerum I.8.
“Il Tao divenne l'Uno”, Tao Tê Ching II.42.1

* La Brihadāranyaka Upanişad è inserita nel Bŗhad Āranyaka a sua volta collocato nel Śatapatha Brāhmaņa di cui rappresenta
l'ultimo libro a cui segue la Īṣa Upanişad, è parte dei testi che compongono la cosiddetta Śŗuti, la dottrina rivelata, di cui fanno
parte i Veda, i Brāhmana, gli Aranyaka e le Upanişad.
1 La distinzione tra l’esistenza e il puro essere è facilmente realizzabile: l’«essere» esiste in se stesso senza una forma o un

modello, l' "esistenza" è l'essere in un modo, con una forma. L'essenza e la natura, di per sé, sono evidentemente inesistenti;
non è necessario aggiungere che questa "non esistenza", vale a dire, l'assenza di proprietà, non ha nulla in comune con una
non esistenza assurda o auto-contraddittoria come un cerchio quadrato; questa "non-esistenza" non è illogica, ma alogica, o
ineffabile, e tutto ciò che può essere detto a riguardo è puramente analogico. Tuttavia, l'uso pratico dei termini Non-Essere,
Essere ed Esistenza presenta reali difficoltà.
Noi comprendiamo il Non-essere e l'Essere come aspetti correlativi, l'Inseparabile Natura ed Essenza, del Brahman, l'Identità
Suprema, non ancora esistente, antecedente alla processione, solus ante principium, apravartin, Kausītaki Up., IV.8: e capiamo che
l'Esistenza include tutte le molteplicità, sia formali che informali, o reali e possibili. Il non-essere è la causa prima, il principio
che permette l'Essere e l’Essere è la causa prima, il principio che permette l'Esistenza. Così:

Non-essere
anātmya
(avyakta)
Asat nirguna, amurta, akāla
Essere
(vyakt-āvyakta) Brahman
param-ātman
satya
pratyag-ātman
Esistenza
Sat (Visve Devah, saguņa, mūrta, kāla, sthita, martya
(vyakta)
viśvā bhuvanāni)
Si confronti la Taittirīya Up.t II. 7 svayam akurut' ātmānam «da se stesso ha assunto il Sé», con svayambhū,
«auto-diventare», Upanişads/passim; Maitrī Up. V.2 e II. 5,
«All'inizio questo mondo era Inerte e Buio (tamas) ... e procedette alla differenziazione (vişvamatva)
… come il risveglio di un dormiente.»
Questo è il «risveglio passivo» di Eckhart:
“l'inizio del Padre è primario, non procede”, “il Padre è la manifestazione della Divinità”,
1.268,267 e 135.
Proprio come relativamente al microcosmo:
“Senza dubbio, la coscienza deriva dall'inconscio” (Wilhelm e Jung).
Per quel che riguarda l’«Uno»: una distinzione intelligibile può essere fatta tra l'Unità incommensurabile
di Dio “senza un secondo” o Ipseità divina e l'Identità Divina di Dio, mūrta e amūrta Brahman:
“tra i pilastri del conscio e dell'inconscio ... tutti gli esseri e tutti i mondi “, Kabir, Bolpur ed. 11.59;
“Uno e uno uniti, c'è l'Essere Supremo”, Eckhart, 1.368.
Che queste siano qui distinzioni “razionali, non reali” (Eckhart, 1.268) appare nel fatto che “Uno” può
essere pronunciato ugualmente per Unità, Ipseità (sameness=omogeneità) e Identità: Deità, Dio,
Divinità, non è una distinzione delle Persone.
D'altra parte, “Uno” non può essere detto della Trinità in quanto tale.
Queste distinzioni, necessariamente e chiaramente fatte nell'esegesi, quando interpretate letteralmente,
diventano definizioni di punti di vista settari, teisti, nichilisti e metafisici:2 nel bhakti-vada l'Unità, nel śūnya-
vada l’Ipseità (sameness=omogeneità), in jnāna-vāda l'Identità sono rispettivamente pāramārthika, la
designazione ultima. Nei culti śākta sopravvive un'ontologia che precede i modi di pensiero patriarcali, e
la relazione dei principi congiunti rovesciata (viparīta) nel genere: qui Siva, inerte, non effettua nulla da sé,
rappresenta la Divinità, mentre Śakti, Madre di tutte le cose, è il potere attivo, che genera, preserva e
risolve, Līlā non è “Lui” ma “Lei”. Nel “misticismo” c'è una realizzazione emotiva di tutti o di tutti questi
punti di vista. In realtà,
“il sentiero che gli uomini prendono da sempre è mio”, Bhagavad Gita, IV. 11,
“In qualunque modo tu trovi Dio è meglio e sei più consapevole di lui, se persegui in quel modo”,
Eckhart, I.482.
Va osservato inoltre che quando in teologia3 parliamo di Prima, Seconda e Terza Persona, queste Persone
sono connesse* per opposizione4 ma il numero, l'ordinamento delle Persone è puramente convenzionale
(samketita), non un ordine cronologico o reale di venuta all'esistenza: poiché le Persone sono con-nascenti,
itaretarajanmāna, la Trinità (tridhā) è un accordo (samhita), non un processo. Per esempio, il Figlio crea il

Ne consegue che asat può essere reso correttamente sia come Non-essere sia come Non-esistenza, sat sia come Essere che Ne
consegue che asat può essere reso correttamente o come Non-essere o come Non-esistenza: seduto come Essere o come
Esistenza, come meglio si adatta al contesto. Il problema sorge solo in connessione con l '"Essere": se rendiamo asat e sat
come Non-essere ed Essere, quindi, Sat deve coprire sia l'Essere in se stesso sia l'Essere in una modalità. I termini sono
ulteriormente discussi di seguito, pp. 85-6.
2 Non che questi siano termini commensurabili: i punti di vista teistici e nichilisti sono parziali, e quindi in apparente

opposizione, come per esempio nel caso di Saivismo e Buddismo; mentre la metafisica, jñana-vāda, è alla base, giustifica e
abbraccia tutti gli altri punti di vista.
3 Dal punto di vista vedico, "angelologia" sarebbe più preciso

* (bandhu, Ŗg veda, X. 129.4, Bŗhadāraņīyaka Up., I.I.2)


4 Da questa "parentela" dipende il carattere "incestuoso" di tanti miti della creazione. Dovrebbe essere osservato che il termine

"mito" implica la rappresentazione simbolica (verbale, iconografica o drammatica) dell'operazione di potere o energia: i protoni
e gli elettroni in questo senso sono esseri "mitici". Un mito, come il mito del Graal o la nascita di Brahmā, non è né una "fiaba"
né un "mistero" nel senso moderno delle parole, ma semplicemente una presentazione. Colui che considera il mito o l'icona
come un'affermazione di fatto, e colui che la considera come una fantasia, è ugualmente fuorviato: il mito è per la storia come
universale alla particolare, ragion d'essere; per l'icona a specie come esemplare ad esempio. Simbolismo e immaginario (pratīka,
pratibimba, ecc.), La forma più pura d'arte, è il linguaggio appropriato della metafisica:
"il simbolo presuppone sempre che l'espressione scelta sia la migliore descrizione, o formula, di un fatto relativamente
sconosciuto .. che non è meno noto o postulato come esistente.'(Jung).
Il simbolismo tradizionale è anche più quasi un linguaggio universale di qualsiasi altro; la maggior parte del suo linguaggio è la
proprietà comune e l'eredità di quasi tutti i popoli e può essere fatta risalire almeno al quinto o sesto millennio AC (cfr
Winckler, Die Babylonische Geisteskultur, 1907, Jeremias Handbuch des altorientalischen Geisteskultur, 1929 e Langdon,
mitologia semitica, 1931) e agli inizi dell'agricoltura o anche prima.
Padre tanto quanto il Padre il Figlio,5 perché non può esserci paternità senza filiazione, e viceversa, e
questo è ciò che si intende per “relazione opposta”. Allo stesso modo, non può esserci una Persona
(Puruşa) senza Natura (Prakŗtī), e viceversa. Ecco perché nella “mitologia” metafisica incontriamo
“inversioni”, come per esempio, quando nel Ŗg Veda, X.72.4, Dakșa** nasce da Aditi come suo figlio, e
anche lei nasce come sua figlia; o X.90.5, dove Virāj nasce da Puruşa, e viceversa. La metafisica è coerente,
ma non sistematica: il sistema si trova solo nelle estensioni religiose,6 dove un dato ordinamento delle
Persone diventa un dogma ed è precisamente da tali “questioni di fede”, e non da una differenza di basi
metafisiche, che una religione si distingue da un'altra.7
Questa è veramente una “distinzione senza differenza”.
Bisogna osservare che Padre-essenza e Madre-natura con-nascono (sahajanma) simultaneamente, sono
«due forme» del Brahman e sebbene metaforicamente si parli di “nascita” (Janma), non è una generazione
sessuale, né una generazione da principi coniugali, maithunya prajanana: in questo senso entrambi sono
ugualmente non-sposati e non-nati, come in Svetāśvatara Up., 1.8. dvāvajau, o come implicito nella
Brihadāranyaka Up., 1.4.3 dove l'origine dei principi congiunti è detta un “cadere a pezzi”, o “divisione”
o “cariocinesi”*, “dvedhā-pāta”.
“Uno divenne Due”, cioè Yin e Yang, Tao Te Ching, 11.42.
D'altra parte, il loro Figlio comune, Agni o Brahmā-Prajāpati, ecc., Essendo consustanziale con lo Spirito
(prāņa) è allo stesso tempo non-nato e nello stesso senso nato da una generazione dei principi congiunti.8
È pensato come un “evento” che si svolge all'alba di un ciclo creativo, all'inizio= agre[=avanti].
Rispetto a kam, 'Delizia', 'Affermazione': Volere (kāma) o Fiat (syād= avverbio, che sia, potrebbe essere)
sono il potere mobile (dakșa, reriva) in tutte le progressioni (krama, prasaraņa), kāma è la volontà-di-vita,
«così grande davvero è kāma», Brihadāranyaka Up., 1.4.17.
La Volontà, kāma, è un nome essenziale di Dio; è per sua volontà che la sua forma-intrinseca (svarūpa)
firma e sigilla la natura-intrinseca (svabhāva= stessa esistenza), la Natura da parte sua desidera la forma.
Quindi la sola Volontà della Divinità può essere considerata da due punti di vista, rispetto all'essenza
come lo spirito della Volontà e rispetto alla natura come Desiderio:9 come Gandharva e Apsara (= Urvaśī,

5 Cfr. 'Egli mi ha portato avanti Suo figlio a immagine della sua eterna paternità, che anch'io dovrei essere padre e generare
Lui', Eckhart, Sermoni di Claud Field, P-26; cf. Jilī. citato da Nicholson, Studies ... p. 112, "Io sono il bambino di cui suo padre
è figlio, e il vino la cui vite è la giara ... Ho incontrato madri che mi annoiano e le ho chieste in matrimonio e mi hanno
permesso di sposarle". Il toro è padre del serpente e il serpente è padre del toro, citato da Harrison in Prolegomena ... p. 495,
da frg. ap. Clem(ent) di Al(exandria), Protr., 1.2.12. O ancora, di Agni, 'essendo il Figlio degli Angeli, sei diventato loro Padre',
Ŗg Veda, 1.69.1: Agni è il 'padre di suo padre', ibid., VI, 16.35, e 'chi lo capisce (yastā vijānat) è il padre di suo padre ", cioè
supera suo padre.
** (un nome personale del Progenitore, vedi Śatapatha Brāhmaņa, II .4.4.2)
6 Inoltre, naturalmente, nella scienza, "filosofia", psicologia e altre discipline "pratiche".
7 Da qui l'uso costante di nomi essenziali comuni a entrambi, una certa indistinzione di Padre e Figlio, la distinzione della

Persona che si perde nella loro unità di divinità, nella natura comune.
* Processo di divisione indiretta della cellula, che avviene dopo complesse modificazioni del nucleo e del citoplasma,
mantenendo costante il numero dei cromosomi.
8 Quindi, antecedente alla processione:

Persona (Padre) Spirito (Volontà) Natura (Madre


e posteriore alla processione:
Person (Father) Nature (Mother)
Spirito (Figlio, Vita)

9 See Bohme, Mysterium Pansophicum, I-III. Solo quando la Volontà è dualmente personificata come Kāmadeva[=desiderio, dio
dell’amore] e Rati[=voluttà] che si può dire che lo spirito Volontà e il Bisogno siano in realtà distinti: altrove, o kāma
rappresenta la Volontà come principio indiviso, o dobbiamo capire dal contesto che cosa è implicito.
Nel nostro testo, specialmente versi. 1 e 4, dove quella volontà (syām, akāmayat) è la Morte, la Privazione, la Divinità, - una
realtà che può essere concepita solo analogicamente nel Non-Sé - dobbiamo capire che non è lo Spirito-Volontà (kāma, libido,
"lubet=piacere essere graditi"), ma il Desiderio (tŗśña, concupiscenza, fatalità, ciò che "attira un uomo" quando è "fantastico");
questo è il desiderio della Natura (prakŗtī) per sua forma intrinseca (svarūpa), una volontà-a-vita oscura, incosciente, funzionale,
l'ardore delle Acque «nella loro stagione», Pañcavimśa Brāhmana, VII.8.1,.
In X.129. 4 (pagina 79) d'altra parte, dove kāma è identificato con il «seme primitivo (retas) dell’Intelletto (manas)» -, cioè non
la germinale sorgente dell’Intelletto, ma il germinale aspetto dell’Intelletto, logos spermatikos, il rasa del Ŗgveda, 1.164 .8 - la luce
Spirito-di-Volontà è chiaramente implicita. Le due volontà sono immediatamente correlate e perfettamente bilanciate
Ŗgveda, VII.33.11 e Āpya , X.13.4, Kāmadeva e Rati, Eros e Psyche, cfr Vişņu Purāņa, 1.8.20 e 33, dove
Nārāyana è «amore» (kāma, lobha, rāga) e Sri-Lakșmī è «desiderio» (icchā, tŗśña, rati).
Questi due aspetti della Volontà sono chiaramente visti nella «leggenda» vedica della nascita di Vaśişţa,10
e nel passaggio di Pañcavimśa Brāhmana citato più avanti, p. 36. Nel primo caso Mitra-Varunau è

nell'essere unitario: rappresentano la sua conoscenza di se stesso (in entrambi i sensi del verbo «sapere»). In altre parole, il
movimento dello Spirito-di-Volontà verso il suo oggetto è la "risposta" al "desiderio" non espresso dell'inconscio, come in
Ŗgveda,1.164.8,
"Lui dall'Intelletto l'ha fatta precedere".
Queste considerazioni sembrano risolvere le difficoltà di Keith, Religione e Filosofia dei Veda, p. 436.
10 Ŗgveda, VII.33.11, Bŗhad Devatā, V.148 e 149, e Sarvānukramanī, 1.166: il bambino generato da Mitra-Varuņau e le Acque

è Vaśişţa, che come Brahmā fa la sua apparizione su di un loto, cioè è stabilito nelle Acque cioè nella possibilità dell'esistenza
ed è in effetti lo stesso di Brahmā-Prajāpati, come giustamente viene identificato nello Śatapatha Brāhmana, II.4.4.2, cfr.
Nirukta. V.14. Da qui il patronimico Maitra-varuni di Vaśişţa. Ancora nell'Aitareya Āranyaka, II.2.1 e 2, Vaśişţa e altri “saggi”
sono identificati in vari modi con la Persona progenitrice e l'esistenza positiva di tutte le cose. In Atharva Veda, X.8.20,
l'espressione “scagliato fuori” (nirmanthate), propria di Agni, è usata per Vasu (= Vaśişţa).
Il nome Vaśişţa (superlativo di vasu) sembra essere giustamente compreso dai Commentatori come "il più importante di coloro
che dimorano, esistono o vivono", sia dalla radice vas "assumere una forma", sia dalla radice "vivere", o “dimorare in una data
condizione”. Vasu è anche derivabile da radice vas a brillare, che da il significato secondario di “ricchezza”. Qualunque sia la
radice, i significati non sono incompatibili, in quanto non essere indegni della vita o dell'esistenza è un 'bene' primario. Cf.
Vasudha, Vasudharā, la Terra come "Padrona della ricchezza", "Habundia" o "Portatore della vita" (Vasudha = Lakşmī); e
Vasudharā, Krishna come "Signore della vita" in relazione a Rādhā, dove entrambi i significati sono impliciti.
Come Vaśişţa, l'Agni (Vaiśvānara) è nato, letteralmente «sputato fuori» da un loto, cioè la Terra, (Ŗgveda, VI.16.13). Questo
quando è inteso come l'elemento del Fuoco e come fuoco Sacrificale nei Tre Mondi: quando Agni è considerato Divinità
Suprema è il «Padre», essendo come Mitra-Varunau sedotto dalle Acque. Taittirīya Brāhmana, 1.1.3.8 e Śatapatha Brāhmana.
II.11. 4 e 5. Inutile sottolineare che Mitra-Varunau, Sole, Fuoco, Spirito, ecc., Sono tutte denotazioni di uno stesso identico
principio di manifestazione, e che le Acque, spesso chiamate mogli di Varuna, o madri in la relazione con il Figlio (Kumāra,
Agni Vaiśvānara), sono le possibilità di manifestazione.
Parallelamente ai passaggi sopra citati c'è il mito di Purūravas e Urvaśī, Ŗgveda, X.95 (anche IV.2.12 e 18) e Śatapatha
Brāhmana, XI.5.1; il loro figlio Āyu, "Vita", è identificato nel Vājasaneyi Samhitā, V.2, con Agni, Fuoco. Purūravas corrisponde
evidentemente a Prajāpati, il "primo sacrificatore". cf. come nello ŚBr. il passaggio porta il fuoco sulla terra ed esegue il (primo)
sacrificio, cioè dopo che è di nuovo con Urvaśī nell'ultima notte «dell'anno» dopo il loro primo rapporto, che significa un anno
di tempo superno, la durata di uno ciclo di manifestazione,« l'Anno» della nostra Upanişad. Con il sacrificio, colui che era stato
'cambiato nella forma' e che aveva 'camminato tra i mortali', ed era quindi diviso da Urvaśī (manifestazione, o esistenza che
implica necessariamente una direzione di essenza e natura) diventa un Gandharva, e si ricongiunge con Urvaśī , cioè diventa
di nuovo il puro spirito di volontà in unione con il suo oggetto. Così procede nel tempo e ora ritorna al non manifesto alla
fine dei tempi. Quindi anche Purūravas corrisponde a Āditya (Vivasvat): Āyu può essere paragonato a Manu Vaivasvata. La
"mortalità" di Purūravas non significa che Purūravas fosse "un uomo" ma appartiene all'esistenza come Uomo Universale,
saguņa, martya Brahman. Il fatto che tutto questo fosse chiaramente compreso è mostrato in connessione con il sacrificio del
Soma, quando nel rituale del fuoco, i pinnacoli superiori e inferiori sono indirizzati come Purūravas e Urvaśī, il pane di ghī (il
cibo del fuoco sacrificale, per cui esiste) come Āyu, "per Urvaśī fu l'Apsaras, Purūravas suo Signore, dal loro rapporto nacque,
e ora nello stesso modo lui (il sacrificante) fa uscire il sacrificio dalla loro unione", Śatapatha Brāhmana, III.4.1 .22. I rapporti
tra Vivasvant (il Sole mortale) e Saranyu (in persona o rappresentati da un savarnā*) sono gli stessi di Purūravas e Urvaśī: Āyu
corrispondente a Yama-Yamī, Manu e gli Așvin. Si può aggiungere che -ravas in Purūravas, e Ravi, 'Sole', sono dello stessa
√ru, «ruggire»; la nozione è quella del ruggito del Fuoco Cosmico (Ŗgveda, V.2.10), che è il ronzio (vibrazione) della Ruota del
Mondo, la Musica delle Sfere. Cf. Maitri Up., II.6 (c). Si noti che la designazione del bastone di fuoco superiore, pramantha,
corrisponde a "Prometeo", la corrispondenza tra i miti di Purūravas e Urvaśī e di Eros e Psiche è evidente. Prometeo è post-
omerico, il mito di Eros e Psiche solo in Apuleio: pra-√math termine che si incontra per la prima volta nella Smrti, corrisponde
a nir-√math nell’uso vedico. L'importanza del fuoco e dell'acqua nella prima filosofia greca può ben riflettere l'influenza
orientale, cioè immediatamente, cfr. Harrison, Themis, 1927, p. 461. Si può notare che la corrispondenza di Prometeo con
pramantha è molto più che meramente etimologica. Prometeo, come Agni, è il figlio della Terra, e gli Oceanidi che simpatizzano
con lui (nel Prometeo di Eschilo) sono i suoi parenti del sangue, poiché la nascita del Fuoco sulla Terra non è che una
rimozione dalla sua fonte nelle Acque. Come Urvaśī, questi Oceanidi gli appaiono sotto forma di uccelli; e "Oceano è molto
più che oceano". Per quanto riguarda la separazione in due dell'essenza e della natura (rappresentata nei nostri miti da
Purūravas e Urvaśī, Eros e Psyche), cfr. Taittiriya Brāhmana, 1.1.3.2. "Il cielo e la terra erano vicini. Dopo essere stati divisi,
hanno detto, ecc. ", Con il famoso frammento di Euripide (Nauck, pag 484): Cfr. RVt 1.164.8-9, X, 124.8 e JUB, III.14.)
Cielo e Terra erano una volta una forma, ma si muovevano
E lottavano e dimoravano lontano lontano:
E poi il matrimonio, ha portato fino al giorno
E luce della vita tutte le cose che sono ...
... ciascuno nel suo genere e nella sua legge,
e la successiva eco in Apollonio Rodio, 1.494, "come si separarono dopo un conflitto mortale, ecc."
letteralmente sedotto dal fascino dell'Apsaras Urvaśī; nel secondo, le Acque sono letteralmente “in
calore”. Dio così si afferma perché è la sua natura che deve venire fuori: l'esistenza è la sua conoscenza
di se stesso, cioè il suo mangiare il frutto dell'albero, perché mangiare è esistere.
In altre parole, la possibilità dell’esistenza implica necessariamente il fatto di esistere: questa è
precisamente la sua onnipotenza che è priva di potenzialità (non realizzate) e non è mai in ozio, anche se
non lavora mai. Né agisce involontariamente: beve il veleno (visa) e l'obiettività (visamata) dell'esistenza e
le sue delizie e ne è bruciato e annerito. Si vedrà che non è possibile tracciare una vera distinzione in linea
di principio tra la Caduta di Dio e quella dell'uomo: entrambe sono le necessarie conseguenze di una
natura divina comune ad entrambi. Il peccato e la vergogna, la virtù e la gloria dell’esistenza sono Sue
tanto quanto nostre.11 La differenza tra noi e lui è che egli rimane consapevolmente coinvolto ma nello
stesso tempo è al di la dell’Essere-Sé-stesso mentre noi siamo consapevoli solo del nostro sé.
È una corrente che nello stesso tempo sorge e fluisce: siamo le sue onde, dimenticandoci che anche
l'onda è acqua. Il nostro unico errore è quello di vedere distinzione: colui che comprende, ya evam vidvān,
conosce se stesso non più come un'onda, ma come mare lui-stesso, ritorna con la marea alla fonte che né
lui né il Sé supremo hanno mai veramente ma solo razionalmente, lasciato.
La Volontà procede come Amore:
«per via della Volontà come Amore», San Tommaso, Sum. Theol, I, Q. 36, A. 2;
«l’effusione reciproca di amore ... è la spirazione comune del Padre e del Figlio», Eckhart, 1.269.
«Desideriamo una cosa quando non la possediamo. Mentre l'abbiamo, ci piace ma il desiderio
svanisce», Eckhart I.82.12
Poiché non c'è nulla che Lui non possegga in se stesso, che non proceda dalla potenzialità dell’agire, è
tutto atto, la sua volontà è il suo amore,
«L'eternità è innamorata delle produzioni del tempo», Blake, cf. Ŗgveda, VII.87.2.
Questa è la Sua affermazione e gioia, kam, ānanda,
«Dio stesso gode in tutte le cose ... trova che il suo riflesso sia molto piacevole», Eckhart, 1.243 e
425, cf. pramudam prayāti, Sankaracarya, Svatmanirupana, 95.
I Veda non parlano di un inizio nel tempo, né di una creazione ex nihilo,13 'In principio non significa «in
un dato momento», né di una vicenda ma di un sempre-presente ora, di cui l'esperienza empirica è
impossibile, essendo la conoscenza umana solo del passato e l'aspettativa umana solo del futuro: agre è
prima nell'ordine, primordiale, in principio, piuttosto che prima del tempo.
«In principio, questo mondo era solo acqua», Brihadāranyaka Up V.5.1;

Per un trattamento comparativo di tutto il tema vedi Siecke, E., Die Liebesgeschichte des Himmels, Strassburg, 1892. Tra le
derivazioni proposte per apsaras, è da preferire quella che dà il senso di "muoversi sulle acque", è possibile anche apsu-rasa,
"sapore delle acque" ma una terza derivazione da a-psd, che implica "proibire il cibo ", suggerita anche da Yāska, non è priva
di interesse. I vedici Apsaras e Gandharva sono una coppia singola; il primo, di nome Urvaśī ("l’ampia pervasiva") è una
personificazione di Aditi, successivamente rappresentata come Śri-Lakșmī, quest'ultima equivalente a Kandarpa, Kāmadeva.
In ogni caso, l'Apsara rappresenta il fascino delle possibilità dell'esistenza, a cui la Volontà, Gandharva, risponde: la loro
relazione reciproca è la causa causante del movimento del mondo. È ancora come Volontà che il Gandharva tiene le briglie del
destriero cosmico, cioè Varuna, Taittirīya Samhitā, IV.6.7 e Ŗgveda, 1.163.3.
Da notare che il nirukta non è "etimologia", ma "interpretazione", "ermeneutica". Yāska non ha mai avuto in considerazione
la scienza speciale della filologia ed è semplicemente "non scientifico" parlare delle sue "derivazioni" come di "false
etimologie". Né il nirukta è semplicemente 'esegesi' (interpretazione concreta), ma piuttosto 'analogica. Esempi di nairukta,
'ermeneutica', l'interpretazione sarebbe
(1) correlare Grk. pro batikov con Lat probate, nel senso di 'dimostrare', 'fare bene',
(2) confrontare A e OM con Alpha e Omega,
(3) spiegare amoras a-mor = amrta.
Ciò non impedisce che in alcuni casi il nirukta possa concordare con la "vera etimologia"
11 Come afferma Jīlī, mentre la religione (il dualismo) distingue il ghiaccio (l'universo) dall'acqua (Dio), la comprensione

(monismo) realizza La loro identità (Nicholson, studi ... p. 99).


12 Cf. Jīlī di «nove fasi della volontà, iniziando con inclinazione (Mayl) e finendo con l'amore più alto e più pura (Ishq ) qui

non c'è (distinzione di) amante o amato» Studi Nicholson. . . p. 102.


13 CF. Bhagavad Gita, 11.12 e XIII. 19: Sańkarācārya, commento al Vedanta Sūtra, II. 1,35, anaditvatsamsdrasya; e Dante,

«ché né prima né poscia procedette


lo discorrer di Dio sovra quest’ acque.» Paradiso, XXIX. 13.20 e 21.
cioè tutte le possibilità dell'esistenza, non ancora in esistenza ma non impossibili all'esistenza, non
inattuabili come le corna di lepre o il figlio di una donna sterile. Dire che il mondo non era, che non c'era
alcuna cosa, o come nella Genesi che tutto era “senza forma e vuoto”, non vuol dire che non ci fosse
nulla. Ciò che era si chiamava pradhāna, mūla-prakŗti, l'acqua, l'oscuro-inerte (tamas) e con molti altri nomi:
ciò che non era è il mondo, la vita, l'esistenza, la molteplicità, la varietà, l'ens naturata, i Tre Mondi.
Per quanto riguarda la concezione della divinità nel nostro testo: Mŗtyu, la morte, è la mancanza di vita e
la mancanza di vita, nella fraseologia tecnica di San Tommaso, è
«mancanza di una forma intrinseca», Sum. Theol, II, Q. 6, A. 2
«Un prodigio, e non è essere ... (ma) prima del movimento e prima dell'intelligenza», Plotino,
Enneadi, VI.9.6.
Dunque la Divinità, Morte-Assoluta,14 è anche chiamata privazione: poiché “Quello” è « indistinto»
(anirukta), invisibile (adŗśya), non egoista (anātmya), senza luogo (anilayana) terreno (pratisthā)”, Taittiriya
Up ., II.7.
«Niente di vero può essere detto di Dio»,
«'Dio non è né questo né quello»,
«Conosci di lui qualcosa? Egli non è tale», Eckhart, 1.87.211 e 246:
«che non ha basi su cui stare, e dove non c'è posto in cui dimorare ... potrebbe essere paragonato
a nulla», Böhme, Vita Supersensuale.»
Un modo di parlare così negativo è inevitabile: perché qui la negazione, neti, neti,”15 «non così, non così»,
è una negazione delle condizioni limitanti, un doppio negativo; non come noi, che «abbiamo la negazione
innata» che siamo diversi da noi stessi, un'affermazione di condizioni limitanti. Quindi la divinità è
“vuota”, è “luce e oscurità o liberazione da entrambi”, “in bilico su se stessa nella calma di sabbia”,
è “inattivo”, “non fa né questo né quello”, è “povero, nudo e vuoto come se non lo fosse”; “non
ha, non vuole, non vorrà”, “buio immobile”, Eckhart, 1.267-70, 368, 369, 381.16
Aśanāyā, «volere», è privazione del “cibo”, il mezzo dell'esistenza.
Quindi, nella lingua delle Upanişad, “mangiare cibo”, annam, significa “vivere”, “esistere”, “funzionare”,
“energizzare”, “essere modellato” (-maya) o “naturale”.
A differenza di Dio, la morte, Dio vive, perché tutte le cose sono il suo “cibo”. Quindi,
“il cibo è la forma suprema (rūpa) del Sé, il cibo il modo (-maya) dallo Spirito (prāņa, qui “respiro
della vita”). . . dal cibo sono i generati (prajāh) nascono (prajāyante) ... è grazie al cibo che vivono
(jīvanti), e lì a loro tornano finalmente', Maitrī Up., VI. 11; e «anche lui ha manifestato la luce»;
«buio inanimato ... questa oscurità è la natura incomprensibile di Dio ... la prima sorgere in questo
è la Luce ... (e) questo splendore dell'essenza, supremo, puro, rivela e illumina tutte le cose
contemporaneamente ... l’evidenza del suo potere, risplende nei dettagli luminosi», Eckhart,
1.369.373.366.399.
O come esprime il nostro testo, di lui,
«non appena brilla», era “Nato” dalle Acque, per appunto “portato alla luce”;
«Illumina (bhāsayati) questi mondi. . . dipinge di rosso (rañjayati) le esistenze qui», Maitrī Up., VI.7.

14 Mŗtyu come Morte-Assoluta, l'ultima morte dell'anima, mors janua vitae, deve essere distinta dalla morte temporale, mŗtyu, o
punar mŗtyu .. la cui distinzione, per esempio, è fortemente tracciata nella settima strofa del nostro Brāhmana.
È spiegato più avanti p. 56, che il rapporto tra la Divinità e Dio, il nirguna Brahman (Mŗtyu nel nostro testo), è come se fosse
una relazione materna, la relazione di Aditi con Āditya. Si osservi che a corrispondere alla concezione nel nostro testo di
nirguna, anātmya Brahman come Morte-Assoluta è quella di Aditi come Nirŗti [dissoluzione], come in Ŗgveda, VII.58.1, dove
i Marut si sollevano, crescono, nelle regioni dell'angelicità (daivasya dhāmnah) dall'abisso di Nirŗti (nirŗteravamsāt) - la metafora
contrasta dhāman nel senso di «casa», «dimora», con una struttura implicita, con ciò che non è una dimora, non un'abitazione,
ma senza struttura, letteralmente «privo di qualsiasi raggio», avamsa e «non supportato da alcun pilastro», askambha. Daivasya
dhâman qui corrisponde ad aksara. . . dhâma parama, dimora imperitura e trascendente, Bhagavad Gitā, VIII.21.
15 'Il Sé non è né questo né quello (neti, neti): inafferrabile, indistruttibile, non correlato, ecc. Bŗhadāraņīyaka Up., IV.4.22. Cf.

anche Dante, Convivio, III. 15, "... certe cose che il nostro intelletto non può vedere ... non possiamo capire quello che sono,
se non negando loro le cose". Lo stesso argomento è stato sviluppato in Maimonide, Guida per i perplessi, 1.59.
16 Tutto questo corrisponde esattamente alla concezione di Maometto della Divinità come al ‘Ama, "oscurità", "cecità",

"incoscienza", "immanente negatività", "potenzialità", "non-esistenza", ecc., Tutti logicamente in contrasto con Ahaddiya ,
l'Unità trascendentale di Allah (Nicholson, Studies ..., pp. 83-97).
«Per colui che conosce così», ya evam vidvān, Colui che comprende: con questo costante ritornello le
Upanişad introducono invariabilmente una dichiarazione dei valori immediati e trascendenti della
conoscenza precedentemente impartita. Proprio come Eckhart, ad esempio, dopo aver descritto la
processione dello Spirito come Vita:
«fluisce dallo Spirito ed è del tutto spettrale e in questo potere Dio esce nel pieno fiore della gioia
e della gloria, come è in se stesso»,
aggiunge
«se si fosse sempre ricordato in questo potere un uomo non invecchierebbe mai», 1.291;
o nelle parole di Böhme, «Il mago ha potere in questo Mistero», Sex Puncta Mystica, VI.2.
Il professor Edgerton ha ammirevolmente dimostrato come i Veda non sono mai alla ricerca della
conoscenza fine a se stessa, ma in quanto la comprensione è considerata come sinonima di pienezza,
potere e libertà.17

17 Franklin Edgerton, The Upanişads: what do they teach, and why? J.A.O.S.
2.

L'arka in verità è l'acqua. La schiuma delle acque poi si rapprese e fu la terra. Su di essa Mŗtyu s'affaticò.
Mentre s'affaticava e si riscaldava, l'essenza del suo splendore si trasformò in fuoco.
(trad. a cura di Carlo Della Casa)

Le acque, in verità, erano un’arca-splendente (arka). Qual era la schiuma (śara) delle Acque, si solidificò
e divenne Terra (pṛthivî). Di conseguenza Lui, il Sé, si tese (aśrāmyat). L'Energia-Fuoco (tejas) e il Colore
(rasa) del suo sforzo (śrānta) e l'intensione (tapta) irruppero (niravartat) come Fuoco (agni).
(traduzione dal testo inglese della traduzione dal sanscrito di A.K. Coomaraswamy)
Il “primo giorno della creazione” è quindi descritto come il riflesso (ābhasa) di un'immagine di luce
(bhārūpa) nello specchio delle possibilità ancora inesistenti dell'esistenza: questo è la Lucentezza del
Brillare, arkasya arkatva,
Dante: «……………perché suo splendore
potesse, risplendendo, dir “Subsisto”», Paradiso, XXIX.14 e 15.18
Cfr. Ŗgveda, X.82.5 e 6, dove i vari angeli sono visti insieme (samapaśyanta) in Una Proiezione (arpitam)19
dall'ombelico del Non-Nato (cioè Varuna) mentre giace germinale (garbha), sdraiato (uttānapad) sulla
superficie delle Acque; nel Pañcavimśa Brāhmana, VII.8.1:
«Fin quando le Acque arrivano alla loro stagione. Lo Spirito li portò indietro e da quel momento
divennero una cosa giusta, loro stessi Mitra-Varunau massa visibile (paryapaśyata)».
«Egli brilla su questo mondo nella forma di uomo», imam lokamahhyārcat purusarüpena, Aitareya
Āranyaka, II.2.1.
Così in Genesi “lo Spirito di Dio si spostò sulla superficie delle Acque” e “creò l'uomo a sua immagine”;
«da questo riflesso della sua natura divina l'intelletto del Padre modella o pronuncia se stesso ... la
sua luce, il suo intelletto che scorre allo spirito, brillava su questo mondo-cosa in cui il mondo
sussisteva nel Padre nella semplicità ma senza forma creata», Eckhart, 1.397 e 404;
«E questa è l'Immagine e la Somiglianza di Dio, e la nostra Immagine e il nostro Somiglianza;
perché in esso Dio riflette se stesso e tutte le cose», Ruysbroeck, Dell'ornamento delle nozze
spirituali, III.20
Dante, «La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove. » Paradiso, 1.1-2 e
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo. Paradiso XXXIII. 127-31.
«Perché Dio è Dio che ottiene dalle creature», e «Io ti ho amato nel riflesso delle mie tenebre», il «riflesso
dello specchio nel sole è nel sole», Eckhart, 1.274, 377 e 143:
«come quando un uomo contempla il suo volto in uno specchio», Böhme, Clavis, 42 e 43.
O da fonti indiane,

18 «Non avere alcun beneficio per se stesso, che solo il suo splendore, contro-splendente, potrebbe dichiarare, "Io sono".»
Cfr. Plotino, Enneadi, V.3.8, "uno splendore diretto a se stesso, che allo stesso tempo si illumina, ed è esso stesso illuminato".
19 Arpitam, 'infisso', 'proiettato’, geometricamente, pittoricamente e spazialmente nell'albero della vita. Cf. La trina luce di

Dante, che in un'unica Stella scintillando. Paradiso, XXXI.28; Eckhart, 1.282 *, "Tutto è raffigurato nella sua provvidenza. "Il
Figlio” è Viśvarūpa.
20 Corrispondente a tutto ciò è la dottrina islamica della "metafora della creazione di Allah con lo sguardo (nazar)", poiché

"rivolto a tutto ciò che Allah ha creato ha un aspetto speciale (wajh =" volto "), in virtù del quale lo considera e lo conserva
nel suo posto designato nell'ordine dell'esistenza", vedi Macdonald, DB, Sviluppo dell'idea di Spirito nell'Islam. Acta
Orientalia, IX. 1931, p. 347, e Nicholson, R.A., Studies in Islamic mysticism, 1921, pp. 110, 114.
«Senza di te non ho una forma intrinseca, senza di me tu hai un'esistenza», Siddhāntamuktāvalì LII;
«senza Śiva non c’è Devi, senza Devi non c’è Śiva», Kāmakalāvilāsa, Commento, citazione di un
āgama con riferimento al testo,
«Lei è lo specchio puro in cui Siva vede la propria forma intrinseca.»21
Questa concezione della relatività di Dio , “Gegenwurf” di Böhme, che potremmo chiamare prākaśa-
vimarśa-vāda, “dottrina di luce e riflessione”, implica che il Fuoco che risplende come Luce è un calore
oscuro fino a che, e contemporaneamente illuminato dal contro-splendore, conduce a sviluppi di
importanza fondamentale.
Che Dio sia creato dall'uomo, “prende le forme immaginate dai suoi adoratori” (Kailaya-malai, Ceylon
National Review, gennaio 1907, pagina 285), che le sue forme
“sono determinate dalla relazione che sussiste tra gli adorati e l'adoratore”
(Śukranītisāra, IV, 4, 159),
dà all'uomo il diritto di adorarlo in qualsiasi modo per cui è più consapevole di lui e nega il diritto
dell'uomo di parlare di “altri” dei “falsi”.
Le Acque e la Terra devono essere intese non solo in riferimento ai nostri mari e continenti terrestri ma
come, rispettivamente, alle possibilità di esistenza in ciascuno dei Tre Mondi e al sostegno degli esseri
viventi esistenti in ognuno di essi secondo i termini delle sue possibilità: in altre parole, le 'Acque' sono
letteralmente il “peut être”, bhavişya, la Terra qualsiasi piano o sfera corrispondente (loka, dhātu, kşetra, bhūmī)
o supporto (pratişţhā) di esperienza:22 e qualsiasi Terra simile fluttua come un loto, o come schiuma, o
come una nave, sulla superficie delle Acque in cui è stabilita.
Il movimento dello Spirito con cui le Acque sono agitate non è di per sé stesso un movimento locale ma
in effetti è locale, così che la superficie delle Acque viene scossa da onde e quindi il riflesso della Luce si
moltiplica, si contrae e si identifica in varietà. Aitareya Āranyaka, II.1.7:
“Quanto lontano le acque si estendono, tanto lontano Varuna si estende,
così lontano si estende il suo mondo”,
così afferma la dottrina fondamentale dell'identità del “possibile” e del “reale”.
L'impegno e l'intensione* non sono facili da spiegare: entrambi implicano una volizione , il secondo
(tapas) è precisamente l'ebraico Zimzum.**
TAPAS non è una penitenza, perché non è espiatorio, ma piuttosto un'angoscia e una passione: un calore
oscuro della coscienza, un accendersi non una fiamma, o per prendere un'analogia dalla Fisica, un

21 Cf anche Sańkarācārya, Dakśināmūrtistotra, I, darpaņa-dŗśyamāna, "come se riflesso in uno specchio". O ancora, delinea
Jilī, Insānu'l kamil, cap. LX. "Come uno specchio in cui una persona vede la forma di se stesso ma non può vederla senza uno
lo specchio, tale è la relazione di Dio con l'Uomo perfetto, che non può forse vedere la propria forma ma nello specchio del
nome Allah; che è anche uno specchio di Dio, perché Dio ha posto su di sé la necessità che i suoi nomi e attributi non
dovrebbero essere visti se non nell'uomo perfetto”, Nicholson, Studies ... p. 106. O ancora, Eckhart: "È come se ci si trovasse
di fronte a un'alta montagna, «È alto come una montagna, e gridò: "Sei qui?" L'eco ritorna. "Sei qui?” 'Se si implora, “Vieni
fuori” l’eco risponde, "Vieni fuori" (Claud Field “Sermoni di Eckhart” p. 26). Come nella Chāndogya Up 1.3.2, samāna u evāyarh
cāsau. . . svara itīmam—ācaksate svara iti pratyāsvara ityamum, frase che si può tradurre in due modi diversi,
(1) 'Questo si chiama "Suono" e "Suono" significa "Eco"', e
(2) 'Questo è considerato come "Luce" e "luce", significa "riflesso". Si può osservare che lo stesso duplice significato è presente
nel verso dell’Upanişad 1.2.1, tradotto Sopra, dove acaratcan Arcan può significare sia «lodato con onore» che « luce
manifestata». Il principio Coinvolto sottende e spiega l'offerta di luci e musica negli uffici devozionali: è come se fosse una ri-
flessione della Sua luce e suono su di Sé, che regge la Sua somiglianza (mūrtti, pratimā, or other pratīka) è stato rivelato l'officiante
, che allo stesso modo rimane ugualmente invisibile e silenzioso, da solo nel suo tempio oscuro.
22 Cf. Bohme, "anche la tua stessa terra (cioè il tuo corpo)", Supersensual Life; Sayana, su Ŗgveda, VI.16.13, bhūmiśca sarvajagata

ādhara-bhūteti, "La Terra è il supporto di ogni mondo"; e Bŗhadāraņīyaka Up., II.5.1, "Questa terra è il miele per tutte le
creature", cioè il supporto della loro esistenza, ognuna secondo la sua specie. In Ŗgveda, 1.108.9 e X.59.4, rispettivamente, i
Tre Mondi e il Cielo e la Terra sono indicati come "Terre".
* intensione Intensità di azione o partecipazione o anche di effetto. (arcaico)
** Tzimtzum (o tzim tzum) è un'antica parola ebraica (‫ )צמצום‬che significa letteralmente "ritrazione" o "contrazione" ed è
utilizzata originariamente dai cabalisti in riferimento all'idea di una "autolimitazione" di Dio che si "ritrae" nell'atto della
creazione del mondo. Il termine è specialmente usato negli insegnamenti della Cabala lurianica per spiegare la rispettiva
dottrina di Dio che iniziò il processo della Creazione "contraendo" la sua Luce infinita per permettere che si producesse uno
"spazio concettuale" dove reami finiti e apparentemente indipendenti potessero esistere
innalzamento del potenziale al punto d’innesco.23 Percezione di una combustione lenta: la continenza e
la fermentazione intellettuale, così come l'incubazione vegetativa, il paragone è implicito. Tejas e rasa
sono forme di energia, rispettivamente ardente e fluida: tejas il fuoco dell'amore e dell'ira, rasa l'elisir, la
tintura o l'acqua della vita. Tejas come elemento corrisponde in parte a 'flogisto'
'Scoppia come il fuoco'; poiché: 'l'Eterno Padre si manifesta nel fuoco ... questo flagrat (arde) si
realizza nell'accensione del fuoco nell'essenza dell'angoscia', Bohme, Signatura Rerum, XIV. 38 e
31, “con l'accendere il fuoco (salnitral flagrat) si separano due regni, cioè, l'eternità e il tempo”,
ibid., VII.8, cfr. 'Il fuoco stesso, cioè il primo principio nella vita, con cui si separano 'il mondo
della luce e del buio, ibid., IV.8.
Inoltre: “un terzo maestro ha detto che Dio è in fiamme. Anche lui parla veramente, anche se in modo
somigliante. Perché il Fuoco è il più nobile in natura e il più potente in azione tra gli elementi non
riposa mai fino a raggiungere il cielo. È molto più ampio e più alto di Aria, Acqua o Terra,
comprende tutti gli altri elementi in sé “,
Eckhart, da Schittenberg e Predigten di Biittner, 1923, II, p. 144.
Agni, “Fuoco”, appare nelle liturgie vediche come la designazione preferita del Principio Primo-
manifestato, da un lato a causa della natura ignea del Sole-Supremo, e dall'altro a causa della primaria
importanza del fuoco nel rituale sacrificale. Nel nostro testo (2 e 3) il Fuoco divino è accennato da due
diversi punti di vista,
1) prima come principio indiviso, come anche specificamente in Ŗgveda, 1.69.1, dove Agni è il
“Padre degli Angeli” e V.3.1, dove Agni è Varuna ‘quando nasce’, e Mitra ‘quando è acceso’, ‘in
Lui sono i Diversi Angeli’, ed Egli è Indra per l'adoratore mortale;
2) in secondo luogo, come un membro della Trinità di ‘Agni, Āditya, Vāyu’.
Quest'ultimo Agni, come Figlio di Dio, è comunemente chiamato Vaiśvānara, “Universale”, con
riferimento alla sua manifestazione nelle regioni terrestre, intermedia e celeste ed è preminentemente
“Primo nato” e “Più giovane” perché eternamente portato alla luce nel fuoco sacrificale all'alba di ogni
ciclo temporale e all'alba di tutti i giorni.
In ogni caso, è un'Energia di Fuoco elementare (tejas) che sta alla base e caratterizza tutte le altre
manifestazioni: così in sequenza:
“l'energia di fuoco (tejas), forma intrinseca del firmamento, nel vuoto dell'uomo interiore,
determinato dalla Trinità Fuoco-Sole-Supremo-Spirito, che sono i tre fattori della Parola
Imperitura, OM, germoglia, balza in piedi e sospira (o fiorisce) come un roveto ardente,
l'onnipervadente albero della vita, Maitrī Up., Vedi pp. 60-1.
Che andrebbe confrontato con Isaia, XI. 1.2,***
“Egredietur virga de radice Jesse et flos de radice ejus ascendet et requiescet super cum spiritus domini, così
commenta Eckhart,
“Radice di Jesse è un termine per la natura ignea di Dio ... .Jesse significa fuoco e bruciare; significa
il terreno dell'amore divino e anche il fondamento dell'anima. Da questa terra cresce la verga, cioè
nella più pura e alta; spunta da questa terra vergine quando spunta fuori il Figlio.. Dalla verga si
apre un fiore, il fiore dello Spirito Santo”, 1.153.154.302.2924

23 La radice tap può anche essere impiegato in modo transitorio, come in Aitareya Āranyaka, II. 4, dove ātmā. . . purușam. . .
abhyatapat, in cui abhyatapat è stato reso da Max Muller e altri come "covato", senza dubbio in riferimento all'idea di una gallina
che cova. Qualcosa come la trasformazione dell'energia in calore attraverso un'interposizione di resistenza. Con il tapas si può
paragonare non solo con l'ebraico zimzum, ma anche il tedesco sude come usato da Böhme, e spiegato dal Law come “un bollire
o ribollire ... l'agitazione delle sette proprietà della natura”.
*** Isaia 11
1 Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,
un virgulto germoglierà dalle sue radici.
2 Su di lui si poserà lo spirito del Signore,
spirito di sapienza e di intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore.
24 Nell’arte cristiana l'Albero di Jesse corrisponde alle descrizioni vediche dell'Albero della Vita (Ŗgveda, 1.24.7, Atharvaveda,

X.7.38, Katha Up. e Maitrī Up., Come citato qui), e alle successive rappresentazioni di la nascita di Brahmā. Vedi il mio Albero
di Jesse, Art Bulletin, XI.2, 1929, e Yakşas, 11.1931, anche Strzygowski, Asiatische Miniaturmalerei, 1932, p. 167.
Allo stesso modo Böhme,
“L'intero uomo è i tre mondi nel suo essere. Il centro dell'anima, cioè la radice del fuoco
dell'anima, contiene il mondo oscuro; il fuoco dell'anima contiene il primo principio come il vero
mondo del fuoco. È l'immagine nobile, o l'albero della crescita divina, che è generata dal fuoco
dell'anima e germoglia attraverso feroce morte adirata nella libertà o nel mondo della luce,
contiene il mondo della luce o il secondo Principio. Il corpo, che all'inizio fu creato dalla sostanza
mista che alla creazione nacque dal mondo della luce, dal mondo oscuro e dal mondo del fuoco
contiene il mondo esterno o il terzo Principio misto, Sex Puncta Mystica, V. 28.”
Qui il primo, il secondo e il terzo Principio corrispondono alla Trinità di Fuoco, Sole Superiore e Vento,
e alle proprietà, tamas, sattva e rajas.
RASA è la vita vegetativa ricca di linfa degli alberi e delle piante, un colore nella pioggia, l'elisir della vita,
la rugiada del Soma che gocciola dall'albero del mondo, seme in tutto ciò che riproduce la loro specie, è
il sapore in tutte le cose mangiate o bevute e il principio della bellezza nell'arte. Rasa è l'energia
fertilizzante (raitasa), l'intelletto 'fluente', come per esempio nel Ŗgveda, 1.164.8, dove Madre Terra,
partecipando a Padre-Cielo, è “pervasa dalla tintura” (rasā nividdhā), e il Vitello (= Agni) è generato.
'Capisco qui il sale virtuale nella vita vegetale', Böhme, Signatura Rerum, IX.22.
Cf. il Logos spermatikos degli stoici.
“Ha effettuato in se stesso una Trinità (tridhā): un terzo Fuoco (agni), un terzo Sole-Supremo (āditya), un
terzo Vento (vāyu)”.
3.

Egli si divise in tre parti: [il fuoco,] il sole, il vento. Egli è lo spirito vitale, che è triplice. La testa è la
plaga orientale, poi ci son le due braccia (i due punti intermedi, scirocco e greco). La coda è la plaga
occidentale, poi ci sono i due femori (i due altri punti intermedi, libeccio e maestro). l fianchi sono il
Sud e il Nord, il cielo è il dorso, il ventre è l'atmosfera, il petto è la terra. Egli sta saldo sulle acque.
Chi così conosce sta saldo dovunque vada. (trad. a cura di Carlo Della Casa)

Egli è in verità, lo Spirito (prāņa), determinato (vihita) in una Trinità: dei Tre Mondi, nella somiglianza di un
cavallo. La sua testa era nella regione orientale (prāci), le sue zampe anteriori e quelle che si muovevano
su entrambi i lati. Allo stesso modo, la sua coda è quella occidentale (pratida), le sue gambe posteriori
che si muovono su entrambi i lati. I suoi fianchi, il sud e il nord. La sua schiena il cielo (dyu), il suo
ventre firmamento (antariksa), il suo sotto questo terreno. È stabilito (pratişţhā) nelle acque. Colui che
sa ciò è stabilito ovunque egli sia.
(traduzione dal testo inglese della traduzione dal sanscrito di A.K. Coomaraswamy)
'Una Trinità', che è il principio del Fuoco in qualsiasi Terra, della Luce in ogni Paradiso, del Movimento
in qualsiasi Firmamento. Questa basilare Trinità angelica di tre Principi o Persone è costantemente lodata,
continuamente citata nei Veda e nelle Upanişad.25
'Una di questi falcia (cioè Agni) quando il tempo di un anno è compiuto; uno di loro (cioè Āditya) con i
suoi poteri sorveglia i mondi; di uno di loro (cioè Vāyu) si vede il suo spazzare ma non la sua somiglianza',
Ŗgveda, 1.164.44. Maitrī Up., IV.5-6, può essere citato come:
• “Fuoco (Agni), Vento (Vāyu) e Sole-Supremo (Āditya)
• Cibo (anna), Spirito (prāņa), Tempo (kāla)
• Rudra, Brahmā, Vişņu
... queste sono le forme di realizzazione primarie (tanu) del Brahman trascendentale (para) e incorporale
(aśarīra).
Cf. “Ora il fuoco è la prima causa della vita; e la luce è la seconda causa; e lo spirito è la terza
causa, eppure c'è solo un'essenza. . . che si manifestò se stesso ', Bohme, XL Domande riguardanti
l’Anima, 1.276.
Ora rispetto alle tre Persone di questa Trinità:
• Āditya è il Sole-Supremo',26 la 'Persona Dorata 'nel Sole, fonte immediata di luce accecante (sarūpa
jyoti), consustanziale con il Brahman reale e senza forma (amurta, nirabhasa), che è molto luminoso
(jyoti), poiché “quella luce è la stessa del sole superno”, Maitrī Up., VI.3; il nome personale è Vişņu,
ha una natura sattva, perché tiene le cose in essere.
• Vāyu, il Vento, è il Sé ipostatizzato come Respiro della Vita, consustanziale con il Brahman,
Spiritus, prāņa, il cui respiro è in se stesso, non-respirato (avāta, Ŗgveda, X.129.2), despirato (nirvāta

25 Non di rado, ad es., In Bŗhad Devatā, 1.69, 'Indra e Vāyu' sono contati come una sola Persona in questa Trinità. Su Indra,
vedi pp. 96f.Va inteso, ovviamente, che la "teologia" vedica tiene conto di due diversi tipi di Trinità,
(1) ontologica, analoga al concetto cristiano, e
(2) quello di una Trimurti di Persone distinte funzionalmente. Entrambi sono "arrangiamenti" di Un Solo Potere, ma
considerato da diversi punti di vista. L'universo è triplice da molti punti di vista distinti.
26 Si realizzerà, naturalmente, che Āditya, il Sole Supremo, Figlio di Aditi, il “somme sol” di Petrarca, e la “somma luce” di Dante,

non è semplicemente il nostro sole siderale, ma brilla come il primo principio di Luce e Tempo per tutto il tempo. cento anni
della vita di Brahmā-Prajāpati, l'unico "anno" di questa Upanişad. Il Sole Supremo è il "Padre delle Luci" nei Tre Mondi.
"Come la Divinità, cioè la luce divina, è il centro di tutta la vita, così anche nella manifestazione di Dio, cioè nella figura (cioè
pratika), “il sole è il centro di tutta la vita”, Bohme, Signatura Rerum, IV.18, cfr. Maitrī Up., VI.30. Come afferma Swedenborg,
"è evidente che nel mondo spirituale c'è un sole diverso da quello del mondo naturale".
buddista);27 qui il nome personale è Brahmā (Prajāpati,28 ecc.) che è consustanziato con rajas,
essendo la Persona progenitrice, che dà ad ogni esistenza la sua estensione nello spazio.
• Agni è qui specificamente la natura ignea, a volte chiamata l'ira di Dio, divoratrice e trasformatrice
di tutte le esistenze: il cui nome personale è Rudra, Śiva, ha una natura tamas, poiché ogni
cambiamento è un morire, un'uscita di forma individuale nella notte oscura della non esistenza.
Allo stesso tempo questa Trinità è un Essere, a cui in quanto tale, uno di questi nomi personali può essere
applicato direttamente; le funzioni sono descritte, piuttosto che divise nelle Persone.
“Sebbene lodati separatamente, questi tre Signori del Mondo sono di un solo io e di una Natura
comune” (Bŗhad Devatā, 1.70-4):
“quell'unità dei vari angeli è Agni” (Ŗgveda, V.3.1);
o qualsiasi membro della Trinità può stare per tutti, come quando in Ŗgveda, 1.115.1, il Sole-Supremo
(Surya) è chiamato il Sé dell'Universo, o Vāyu allo stesso tempo in X.168.4.29
Prāņa, Spiritus, Pneuma, Vita (il ch’i Taoista, ruh Islamico) è un nome essenziale del Sé, come Padre o
come Figlio: non come nella teologia cristiana, una Persona distinta, sebbene sotto ogni altro aspetto
equivalga allo “Spirito Santo”. In processione, per mezzo della volontà come principio del movimento,
il prāņa viene spesso definito come vāta o vāyu, vento o aria: o come i respiri della vita in tutte le esistenze,
lo Spirito diventa molteplice, in particolare cinque volte (Aitareya Āranyaka, II .3.3, Taittiriya Up., 1.7,
Svetāśvatara Up., 1.5, ecc.).
Prāņa, Vāyu, Vāta, è il Forte Vento dello Spirito che inizia a soffiare all'alba di ogni ciclo di
manifestazione: in tal modo la superficie vetrosa delle Acque viene agitata da onde, ognuna delle quali
riflette il Sole-Supremo, creando un multiforme Splendore o contro-splendore, che è l'immagine del
mondo. Quel vento dell'alba non è specificamente menzionato nel nostro testo, ma è implicito nella
menzione dello Spirito, e quando si dice che la Terra diventa dalla schiuma delle Acque.30 Quindi sorge
uno dei problemi fondamentali della teologia,
“Perché soffia il vento dell'alba della creazione, e come mai soffia? Diciamo “akāmayat,” per
volontà di Dio”
ma questa è più una descrizione che una risposta. Perché la sua Volontà non è una volontà arbitraria, un
incidente dell'essere, come se avesse bisogno di qualcosa, ma inevitabile ed essenziale: come lo esprime
Eckhart,
«non pensare che Dio sia come un falegname umano, che lavora o non lavora come sceglie, che
può fare o lasciare incompiuto per il suo piacere. Non è quindi con Dio .. .. Egli deve fare, volente
o nolente» 1,23 e 263,
cfr. Saddharma Puņdarīka, XV (prosa),
“il Tathagata fa ciò che-deve-essere-fatto”, kartavyam karoti. L'idiosincrasia* di Dio è sia il lavoro
eterno che il riposo eterno. Non può fare diversamente da ciò che lui è: poiché la sua onnipotenza
non può estendersi alla possibilità di essere altro o qualcosa di meno di lui, non può fare ciò che

27 La nostra interpretazione di nirvāna, nirvāta, come "despirazione", ecc., Si basa su motivi etimologici, cfr., Avāta, "senza
spirazione" e su di una connotazione fondamentale ma non si deve trascurare il fatto che in seguito e in particolare nell'uso
buddista è un'estinzione piuttosto che la fiamma che non il respiro della vita come viene immediatamente indicato. La
distinzione è più logica che reale; kāma e prāņa sono "movimenti" inseparabili, simultanei nello stesso tempo nella loro origine
e cessazione. "Deflagrazione" avrebbe potuto essere una migliore resa del nirvāna (buddista), ma l'uso in fisica della
deflagrazione come equivalente in pratica alla conflagrazione rende questo difficile. Il modo preferibile per riportare i termini
buddista nirvāna e il parinirvāna sembrano essere "Estinzione" e "Estinzione totale", con riferimento, cioè, alla fiamma della
vita.
28 “Prajāpati” si trova nel Ŗgveda, cioè, IV.53.2, come epiteto di Sāvitŗ come Motore Universale, e in X.121.10 di nuovo come

epiteto del Sole-Supremo.


29 Ŗgveda, X. 168. 4, ātmā devānām, bhuvanasya garbha. Cfr. Jaiminīya Brāhmana, 11.77, «Chi è l'unico e solo Angelo? Lo Spirito

(prāņa)», e Jaiminīya Upanişad Brāhmana, III. 1.1, "C'è solo un Angelo intero (cioè, Vāyu), gli altri sono solo semi-angeli".
30 Per Vāyu, come “vento dell'alba della creazione” si veda specialmente Ŗgveda, 1.134, dove è chiaro che il vento è considerato

come precedente l'alba, essendo infatti chiamato a risvegliare l'alba. Si può aggiungere che "Aurora" (Usas, ecc.) Negli inni
Vedici si riferisce generalmente all'alba di un ciclo di manifestazione, non semplicemente all'alba (le albe umane esistono e
sono analoghe alle albe cosmiche, proprio come gli anni umani sono analogie di "anni" superiori).
* una caratteristica, abitudine, manierismo, o simile, peculiare ad un individuo.
non è stato, perché tutto ciò che è stato è Lui Stesso ed esiste per Lui Stesso così come tutto il
futuro.31
Non è troppo difficile capire che
“la volontà di Dio per la creatura era solo una, cioè una manifestazione generale dello spirito”,
Böhme, Signatum Rerum, XVI.25,
Swinburne “Tu mi hai comandato di essere”. Ma il dono della vita, “nella sua esplicitazione e
manifestazione procede dall'eternità all'eternità in due essenze, cioè nel male e nel bene”, Böhme,
ibid., 20;
nessuna manifestazione (vyañjana) è concepibile se non in termini di coppie di opposti, dvandvau.
Ma come è determinata la distribuzione del bene e del male nel mondo?
Questo è un problema nodoso, perché non possiamo immaginare l'energia eterna mentre predilige o
favorisce le figure del suo spettacolo di marionette: né d'altra parte qualsiasi cosa esistente è diventata
semplicemente ciò che è per semplice caso, “esistenza” e “causalità” sono concetti connascenti
dell'intelletto. Forse con nostra sorpresa scopriremo che il problema è stato trattato in modo simile dai
teologi indù e cristiani. La tradizione indiana, in tutte le sue forme, sostiene che l'individuo da solo è
responsabile di tutto il bene o il male che gli accade; egli ottiene, come si dice colloquialmente, proprio
quello che sta venendo a lui, che lui “chiede”. Come espresso nell'Aitareya Āranyaka, II.3.2, yathāprajñam
hi sambhavāh,
“sono nati secondo la misura della loro comprensione”,
cfr. anche Kausītaki Up., 1.2, yathävidyam.
“Il tempo, la natura intrinseca, la necessità, l'incidente, gli elementi e l'ascendenza (yoni, purușa)
possono essere posti (come cause delle specie naturali) ma nella misura in cui la natura del Sé non
è una combinazione di questi, il Sé non è il Reggitore (īśa) di ciò che causa piacere e dolore ...”
“il Sé che assume ogni forma non è anche il plasmatore delle forme ', Svetāśvatara Up., 1.2 e 9.
Quindi la Chāndogya Up., VIII. 1.4, sottolinea che le esistenze generate (prajāh) lasciano il loro dovere
anusāsana (letteralmente “ciò che è decretato”, sâsana che ha qui la forza di “legge naturale”, la “legge del
cielo”, dharma, ŗta): nella misura in cui le esistenze individuali dipendono dal vivere (upajìvanti) a modo
loro e nel modo in cui desiderano finire (yam yamantam-abhikāmah).
Allo stesso modo la nostra Upanişad, IV.4.5-7 e 22, riassume:
“in base alle sue opere, determinate da una volontà buona o cattiva a seconda dei casi, e sebbene
possa raggiungere i suoi fini, ogni uomo deve ritornare di nuovo dall'altro mondo a questo: solo
chi è senza desiderio, il cui desiderio si realizza, il cui desiderio è il Sé-Stesso, raggiunge il Brahman,
non c'è né ragione né torto che potrebbe interessarlo, evita sia il merito che il demerito punyapāpa,
dharmādharmau.”
Allo stesso modo Sańkarācārya, Vedānta Sūtra, II. 1.32-5, Nel commento, sostiene che l'ingiustizia non
può essere imputata al Brahman per quanto gli atti non siano indipendenti da lui: per quel che riguarda
(sāpekşa) merito e demerito (dharmādharmau), il Brahman è la normale causa del divenire di tutte le cose
ma non delle distinzioni, queste distinzioni sono determinate dalle “varie opere inerenti alle rispettive
personalità”.32 Abbastanza o quasi d'accordo con questo, San Tommaso, distinguendo il Destino dalla
Provvidenza, afferma che “è manifesto che il destino è nelle stesse cause create”, Sum. Theol, I, Q. 116,
A. 2. Böhme è persino più definito:
“Come è l'armonia, cioè la forma della vita in ogni cosa, così è anche il suono o il tono della voce
eterna in essa; nel santo, è santo, nel perverso, è perverso e ciò è determinato dalla turba che
Adamo prese dalla sua immaginazione e che viene nel mondo con ogni forma individuale dello
spirito, “appeso ad esso”, quindi nessuna creatura può incolpare il suo creatore, come se lo avesse
reso malvagio”, Signatura Rerum, XVI. 6 e 7 e XL Domande riguardanti l’Anima, VIII.14.
31 Come espresso da Sańkarācārya, "La sua natura è imperscrutabile", na ca svabhāvah paryanuyoktum śakyate, commento al
Brahmā Sūtra, 1.2.33.
32 L'uomo di Blake nasce come un giardino, pronto a piantare e seminare: Jung, "L'individuo psicologico ... ha un'esistenza a

priori inconscia", Tipi psicologici, p. 560.


La concezione di Boehme dell'unica armonia e delle sue manifestazioni necessariamente diverse ha il suo equivalente nella
teologia di Jilī, dove ogni attributo divino ha il suo effetto (āthār) in cui il suo jamāl o jalāl o kamāl si manifesta 'così che' il
Paradiso è lo specchio di un assoluto jamāl, !Hell of absolute jaläl', Nicholson, Studies ... p. 100.
Paragoniamo anche Dante paradiso, XVII.37-42,
'La contingenza, che non si estende oltre la pagina della materia: è tutta rappresentata nell'aspetto
eterno; anche se non ne prende la necessità, non più di una nave che fluttua lungo il fiume
(dipende da) quell'immagine in cui è specchiata.
«La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno:
necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.
Tutto ciò che segue naturalmente dalla conclusione che né il bene né il male possono avere, in quanto
tali, alcun posto nel puro essere: quel punto di vista, è così costantemente mantenuto nelle Upanişad,
Bhagavad Gitā e nel Buddismo, che la citazione di una coppia dei passaggi sarà ampiamente sufficiente.
Lui, Brahman, è “altro che giusto e sbagliato” (dharmādharmau), e “quando un mortale ha strappato ciò
che è giusto (dharmya) e Lo riceve come non dimensionato (anu), allora si rallegra”, Katha Up., 11.13 e
14:
“Il Signore del mondo non emana né azione né azioni, né la congiunzione di azione e ricompensa,
ma è la natura di ogni cosa che opera.33 Il Signore non accetta né il male né il ben fatto di alcun
uomo”, Bhagavad Gitā , V. 14-15.
Nel cristianesimo, oltre a ciò “fa risplendere il suo sole allo stesso modo sui giusti e sugli ingiusti”,
troviamo Eckhart parole intransigenti: “dovrei lasciar andare la virtù se vedessi Dio faccia a faccia”,
“Dio non è né buono né vero”, “la visione di Dio trascende le virtù”, “gioie e dolori non sono gettati
nella terra della verità eterna”, là, “non c'è traccia di vizio o virtù”; “Non c'è nulla di libero se non la prima
causa”, 1.144.272.273.467.374.146. Se non fosse così, non si potrebbe parlare di “giusto”.
Quindi il vento dell'alba della creazione deve essere pensato come di doppia origine:
1) uno dello Spirito, che si muove senza movimento o qualsiasi perché,
2) l'altro azionato da e per gli eventi passati.
Non ci si propone di discutere qui in dettaglio la dottrina della reincarnazione, punar apādana, punarāvŗtti,
daremo per scontato che nella sua forma originale e pura34 questa dottrina implicasse semplicemente un
ritorno dall'esistenza angelica a quella corporea, in accordo con una legge naturale (sāsita, ŗtvya, dharmya)35
che colpisce tutti coloro che non hanno per gnosi (jnāna, vidyā) già raggiunto un'emancipazione totale (ati-
mukti), né intrapreso il viaggio angelico (devayāna) dell'emancipazione progressiva ( krama muktī), e così
non sono mai fuggiti, né hanno modo di sfuggire alla schiavitù delle opere desiderabili (kāmya karma) che
sono i fattori determinanti del merito e del demerito (dharmādharmau, punyar papa). Diamo per scontato
anche, ciò che è forse meno certo, che il ritorno (punar avartana, avasarpana, ecc.) era originariamente

33 La causalità primordiale della natura intrinseca (svabhāva) è categoricamente negata in Svetāśvatara Up., 1.2 e VI. 1. La
contraddizione in questione è più apparente che reale e dipende dalla distinzione tra "causa" e "mezzo". È infatti "per la Legge
dell'Angelo (cioè il "Padre") che gira questa ruota di Brahmā: ma la posizione di ogni cosa esistente (sthita = avyāpaka), la sua
modalità specifica, è determinata dalle qualità inerenti alla cosa stessa. Questa natura intrinseca, secondo la quale ogni cosa è
ciò che è, costituisce la misura privata del libero arbitrio di ciascuna cosa, sebbene la sua autonomia sia limitata dalla coesistenza
di altre cose. Alla domanda, se Dio, così com’è in se stesso, conosca il bene e il male come li conosciamo, si può rispondere
con certezza in negativo dalla considerazione che Egli non può essere pensato come soggetto a limiti dell'individualità; la
conoscenza del bene e del male appartiene all'avidità, all’ignoranza, alla relatività. Allo stesso modo, per quanto riguarda
l'operazione causale, una separazione temporale di causa ed effetto è inconcepibile dal punto di vista della comprensione
assoluta (vidyā). Cf. Ŗgveda, 1.164.32, "Colui che l'ha fatto (Agni Vaiśvānara) non lo conosce."
Si può notare che Genesi, III.22, normalmente tradotta “Il Signore Dio disse: Ecco l'uomo è diventato come uno di noi per
conoscere il bene e il male”, avrebbe potuto essere reso con “Ecco l'uomo che è stato come uno di noi, è venuto a conoscere
il bene attraverso il male”, cfr. Ogden and Richards, The Meaning of meaning, 3rd edn., 1930, p. 224, nota 1 e cfr. anche la
nostra nota 115 infra.
34 Nel caso in cui la dottrina della reincarnazione fosse originariamente di origine popolare, ciò significherebbe "prima

formulazione intellettuale": qualora che potrebbe esserci stata. La liberazione e la rinascita sono già distinte e contrastate in
Ŗgveda, V.46.1, nella frase “vimucam na āvŗttam punah” né liberazione né un nuovo ritorno.
35 Questa legge, di cui le ordinanze (dharmāni) sono stabilite dal primo sacrificio, Ŗgveda, X.90.16, potrebbe essere espressa

come segue: All'interno del regno della causalità, la causalità opera uniformemente, di volta in volta. Inoltre, poiché la creazione
(sacrificio) è senza inizio o fine, così anche la Legge è senza inizio né fine.
concepito come non avvenendo immediatamente, ma in un altro eone, e sotto una nuova dispensazione:
in un altro manvantara, o yuga, o kalpa , o anche in un altro para con la risurrezione del cavallo cosmico, la
nascita di un altro Brahmā-Prajāpati.36
È a questo ultimo ritorno e risurrezione che siamo principalmente interessati. Accettando le premesse
suddette, è abbondantemente evidente che Brahmā-Prajāpati, purușa, Figlio, Primo Sacrificatore, Cavallo
Cosmico e Albero della Vita, nella misura in cui come essi esistono in e per i Tre Mondi, in nessun modo
si può pensare che siano esentati dalla legge universale della causalità latente, pūrva o adŗşţa karma.
Per le opere di Prajāpati, i suoi sacrifici gemelli (yajña), sono preminentemente kāmya, desiderosi:
“Prajāpati che desidera prole (prajākāmya) si sacrifica”, Śatapatha Brāhmana, II.4.4.4.
Inoltre si comporta come un Patriarca (pitŗ) e come tale non si può immaginare nessun altra via o destino
per lui se non quello dei Patriarchi, la pitriyāna poiché la divinità assume la mortalità con tutte le sue
conseguenze: quindi nella Brihadāranyaka Up., II. 3.1, il Brahman in una somiglianza (mūrta) è
giustamente chiamato mortale, martya, i suoi 'cento anni' sono tutto il tempo, ma non il senza tempo.37
Anche questa concezione della sua mortalità viene echeggiata da Eckhart,
«Dio viene e va. . . Dio passa», «prima che le creature esistessero, Dio non era Dio»,
«tutte le persone che si aggirano nella loro natura svaniscono nell'oscurità del loro essere
interiore», 1.143.218.469;
“Diventano uno”, Aitareya Āranyaka, II.3.8,
“dove tutta l'esistenza diventa un nido”, Mahānārāyana Up., II.3.
Pertanto,38 poiché la divinità nel mondo è vincolata dalle opere, dalla sua volontà o provvidenza tuttavia
essendo comunque giusto (dharmya) ma relativo alla “volontà ordinaria” basata sulla predilezione, non è
libero: pensato come Ŗtaspati o Dharmarāja , ancora non è al di sopra della legge, non ingiusto.39
Il libero arbitrio, nel senso letterale delle parole, rappresenta una contraddizione di termini: come
l'Upanişad, citata sopra, esprime, e come anche i buddisti asseriscono decisamente, le esistenze dipendono
sempre da qualcosa(upajīvanti), gli schiavi dai loro desideri e ciò vale sia per i desideri buoni che cattivi,
per l'uomo e per il Dio incarnato.

36 Eckhart, 1.379, «Qualcosa dovrebbe essere sospeso dall'essenza divina; la sua progressione è materia, in cui l'anima assume
nuove forme e lascia quelle vecchie. Il passaggio dall'una all'altra è la morte: da quella in cui muore a quella in cui vive», presenta
una notevole somiglianza con Bhagavad Gita, 11.22, «Come un uomo che spoglia le vesti logore e ne prende di nuove, così
l'essere incarnato, gettando via i corpi logori, entra in altri nuovi». Non deduco che Eckhart stia parlando della reincarnazione,
nel senso accettato della parola, ma piuttosto che si riferisca a un progresso nella saggezza del Sé individuale, come nella
Brihadāranyaka Up.t IV.4.4, «solo così questo sé, abbattendo questo corpo e scacciandone l'ignoranza, fa per sé un'altra forma
più nuova e più giusta, come quella dei Patriarchi, Coristi, Angeli, Prajāpati, Brahmā o altri esseri viventi». Sia questo passaggio,
sia quello citato dalla Gita potrebbe essere, e forse dovrebbe essere inteso nel senso non una reincarnazione dell'individuo,
ma la reincarnazione continua dello Spirito, in forme causalmente determinate da atti passati, e così ereditate da altri, non lo
stesso, individui. Proprio come invochiamo nomi come il gene o il plasma germinale per spiegare carattere e specie.
37 Quindi c'è un daiva-parimara = Gotterdammerung, Kausitaki Up., 1.12.
38 Quel "pertanto" in quanto dottrinale è un punto importante perché il panteismo e la "religione naturale" sono esclusi allo

stesso modo dai Veda e dal cristianesimo. In primo luogo, quell'infinito è incommensurabile con la totalità delle cose finite.
Anche esplicitamente, «Solo un quarto di lui è nato qui», Ŗgveda, X.90.4: «Cielo e Terra non hanno misura, né misurano la sua
onnipotenza» ibid., III.82.37; «Tu perseveri al di là di ogni cosa, nei vari mondi', ibid., 1.81.5 e 1.102.8; «Il potere luminoso
che pervade il cielo è solo una parte», Maitrī Up, VI.35; “Non io in loro, ma loro in Me, na tvaham teşu te mayi”, Bhagavad Gita,
VII. 12. "Io sono esistente solo in una frazione", aham. . . ekātmśena sthitah, ibid., X.42. “Dio si diverte in tutte le cose. . . eppure
non perde nulla del suo splendore”, Eckhart, 1.143; “Di questo è anche la creazione ma non nell'onnipotenza e nel potere,
come una mela che cresce sull'albero, che non è l'albero stesso ma cresce dal potere dell'albero”, Bohme, Signatura Rerum,
XVI. 1; “Guarda ora l'altezza e la larghezza del valore eterno, che ha fatto per sé tanti specchi in cui è rifratta e tuttavia rimane
dentro di sé Uno, come prima”, Dante, Paradiso, XXIX. 142-145.
Vedi l’eccelso omai e la larghezza
de l’etterno valor, poscia che tanti
speculi fatti s’ha in che si spezza,
uno manendo in sé come davanti».
In generale, la nozione di "panteismo", letta in qualsiasi dottrina, nasce da una confusione dell'unità che è una cosa sola, con
la totalità semplicemente collettiva di tutte le cose.
39 "Tutti i mali e le afflizioni e tutti i tipi di felicità dell'uomo ... sono distribuiti secondo giustizia", Maimonide, Guida per i

Perplessi, III.17. Essere misericordiosi significa essere ingiusti: 'hanno le stagioni, la gravitazione, i giorni stabiliti, la
misericordia? non di più ho io', Whitman, Chanting The Square Deific.
La libera volontà dell'uomo consiste solo nella libertà di non volere, nella libertà di ritornare al centro del
suo essere, per identificare la sua stessa volontà con la Sua volontà che
“lavora volentieri ma non per volontà, naturalmente ma non per natura”, Eckhart, 1.225.
La volontà ordinaria si estende solo a determinati beni; ma
“la potenzialità della volontà si estende al bene universale… proprio come l'oggetto dell'intelletto
si estende all'essere universale “, San Tommaso, Sum. Theol, I, Q. 105, A. 4;
quindi, come Rumi lo esprime,
“Chi non si è arreso alla volontà, non avrà volontà”.
Il libero arbitrio non è nell'ordine della natura: è autonomo (svarāj) e conosce il Sé (atman), ma
“coloro la cui conoscenza è diversa da questa sono eteronomi* (anyarājāh), i loro sono mondi
perenti, in nessuno di tutti i mondi sono mossi a volontà (kāmacārah; Chāndogya Up.,VII.25.2).
Anche se ci sembra che questo comprometta la libertà (adititva), la signoria (aiśvarya) o la Persona-che
riveste-il-Sé come appare nel mondo (mahātmya), tanto più maestoso, più desiderabile, diventa quel Volere
che è davvero libero, la sua volontà “di cui la Volontà è lui-Stesso”, come egli è “solo con sé-Stesso”, ēk
jō āpai āp, Kabir: “l’intento del sé”, e “ama solo se stesso”, Eckhart.40
“Perché con l'Occhio che accompagna quella Volontà, Lui come sovrintendente del karma e noi
che abbiamo rinnegato le nostre virtù, indistinti e unanimi con Lui, siamo in grado di osservare
l'immagine del mondo e di trarne un piacere infinito:41 quell'immagine è la sua e la nostra eterna
commedia e passione, la sua līlā che ha ereditato in Lui-Sé, il nostro-sé. C'è sempre stata questa
commedia nella natura del Padre ... giocata eternamente prima di tutte le creature. . .gioco e
giocatori sono la stessa cosa”, Eckhart, 1.148
“non che questa gioia sia iniziata con la creazione, no, perché era dall'eternità nel grande mistero,
ma solo come una melodia spirituale e gioco in sé. La creazione è lo stesso gioco fuori di sé, cioè
un piano o strumento dello Spirito Eterno”, Böhme, Signatura Rerum, XVI.2-3.4742
Due trinità (tridha) sono menzionate: bisogna comprendere che entrambe sono manifestate (vyakta) e
intelligibili (jneya) ma la prima (Fuoco, Sole-Supremo e Spirito) è informale (arūpa), la seconda (i Tre
Mondi: Terra, Cielo, Firmamento) formale (rūpa) e percepibile (dŗśya). Questa Trinità è chiamata
“disposizione”, dhā. Nella Taittirīya Up., 1.3.1-4, dove vengono spiegati cinque aspetti della Trinità
fondamentale, viene usato il termine Samhitā, “raggruppamento”. Eckhart parla allo stesso modo della
Trinità come di un “arrangiamento” e di un “discorso articolato”, essendo le Persone “illuminazioni della
comprensione”.43
Nel nostro testo il corpo della Trinità è concepito a somiglianza di un cavallo.
“Supponi che tu sia Varuna o un destriero ... che sfreccia con le ali su sentieri giusti e senza
polvere”, Ŗgveda, 1.163.4 e 5, e Taittiriya Samhitā, IV.6.7.
Varuna era l'antico nome dell'Essere Supremo, Āditya, Sole-Supremo, Figlio-della-Libertà. Il cavallo
cosmico è descritto più completamente nel primo adhyaya della nostra Upanişad e corrisponde ad
Atharvaveda, X.7.32-4.
Il Sole è il suo occhio,
il Vento il soffio delle sue narici,
il Fuoco Universale la sua bocca aperta,
l'Anno il suo corpo,
stelle le sue ossa,
nuvole la sua carne

* Eteronomia nell’etica, la condizione in cui un soggetto agente riceve da fuori di sé la norma della propria azione. Il termine
è usato in contrapposizione ad autonomia, da Kant in poi.
40 L'auto-intenzione è la sua conoscenza di sé-Stesso, come se fosse un maithuna (conoscenza carnale) con la Saggezza, vac: la

“causa” del divenire del mondo perché ciò che è "ideato" nel mondo è una cosa generata che procede dalla via delle “idee”.
41 Sańkarācārya, Svātmanirūpana, 95. Il concetto di una visione del mondo è implicito in Ŗgveda, 1.164.44, viśvam abhicaste.
42 Cf. anche Jīlī, come citato da Nicholson, Studies ... p. 113: "Allah ha creato Adamo a sua immagine ... e Adamo è stato uno

dei teatri in cui mi sono esibito, e ibid., 108", "Io sono tutto, e il tutto è il mio teatro". Su Indian Rid vedi Sańkarācārya sul
Vedanta Sutra, II. 1. 33.
43 L'articolazione (a + u + m) della Parola Imperitura, OM, dovrebbe essere osservata. Vedi nota 115: cfr. anche Bhagavan

Das, La scienza della pace, 1904.


e porta angeli, cori, titani e uomini attraverso la parte inferiore (apara)44
mare delle possibilità dell'esistenza,
il mare è il suo parente (bandhu),
il suo grembo (yoni).
In una simile somiglianza Eckhart parla delle delizie di Dio:
“La gioia e la soddisfazione di essa sono ineffabili. È come un cavallo libero in un prato
lussureggiante che dà sfogo alla sua natura di cavallo galoppando gioioso su di un prato: gli piace,
ed è la sua natura. Proprio nello stesso modo la gioia e la soddisfazione di Dio nei suoi simili
trovano sfogo nel riversare tutta la sua natura e il suo essere in questa somiglianza, poiché egli
stesso è simile a lui “, 1.240;
da confrontare con Ŗgveda, VII.87.2,
Varuna, “La Tempesta del Tuo Sé tuona attraverso il firmamento come un cervo indomito che
prende il suo piacere nei campi”.
Questa è una somiglianza (mūrti) e una figura (pratīka) connaturale a quella dell'Albero della Vita o a quella
della Ruota del Mondo: una figura o immagine dell'Essere Divino in estensione, che pervade lo spazio,
non dimenticando che il luogo di questo spazio (ākāśa) è nel loto del cuore.
Con il divenire del corpo del cavallo cosmico, anche quello dei Tre Mondi è stabilito (pratişţhā) nelle
Acque. Il resto dell'āditya spiega l'ulteriore divenire del mondo in termini di generazione ed enunciazione,
e rispetto alla mortalità, al sacrificio e alla rigenerazione.
Il sacrificio del cavallo è una imitazione45 della passione divina e della rigenerazione e colui che
comprende, chi capisce questo dramma, ya evam vidyāh, ha compiuto il sacrificio e quindi partecipa ad una
vita più abbondante, sia qui ora nella carne, che là, oltre l'eternità.

44 Apara viene spesso inteso come "occidentale", ma qui viene sicuramente usato nel suo senso primario, così come quando
parliamo di para e apara Brahman. Per le acque superiori e inferiori si veda la tradizione indiana. per esempio, Ŗgveda, III.22.3,
e Taittiriya Samhitā IV.2.4, dove le Acque del Sole sono descritte come parastāt, e quelle sotto sono avastāt (= aparastāt o apara):
e Ŗgveda, XI 36.5, dove i due mari sono pūrva e apara, comunemente inteso come orientale e occidentale. Senza dimenticare
che questi sono mari cosmici, di cui il golfo del Bengala e il mare Arabico sono solo simboli, è abbastanza comprensibile che
il superiore e l’inferiore dovrebbero essere presi alternativamente per significare orientale e occidentale: proprio come il sole
siderale sorge in un l'Oriente reale e tramonta in un vero Occidente, così il Sole Supremo deve sorgere analogicamente
"orientale" e ambientarsi in acque analogicamente "occidentali".
Entrambi i mari erano originariamente di Varuna (vedi p. 59). Perché allora in seguito Varuna è particolarmente connesso con
l'Occidente, la notte, la Luna, e non sempre con l'Est e l'Ovest, il Sole e la Luna, il giorno e la notte? Perché il doppio Mitra-
Varuņau era stato originariamente il nome personale della divinità manifestata concepita sotto due aspetti, cioè come Varuna
'alla nascita' (jāyase) e come Mitra 'quando è acceso' (samiddhah), Ŗgveda, V.3.1, e III.5.4: "alla nascita", sarebbe come Fuoco-
Energia (tejas, mahi) dell'intenzione (tapas), cfr. Ŗgveda, X. 129.2, tapasah mahīnā ajāyata: "quando acceso", sarebbe in
progressione come Luce (prākaśa) manifestata dal calore oscuro (uşņa), Maitrī Up., VII. 11, samirane prakāsa-prakse
pausnyasthāniya.
Nel doppio Mitra-Varuņau, Mitra, "l'Amico", designa l'Agni terrestre, così spesso descritto come “l’Amico” dell'uomo, questo
Agni terrestre essendo il Figlio o la forma manifestata di Varuna stesso; come nell'unico inno dedicato unicamente a Mitra,
egli è il Portavoce (bruvānah), l'Occhio onniveggente del mondo (animişā abhicaşţe, cfr. il Buddha come cakkhum loke, Dīgha
Nikāya, 11.158), il comune denominatore di tutti uomini in quanto egli "unisce" (yātayati) loro e che sostiene (dadhāra,
askambhayat) il cielo e la terra. Che Mitra è comunemente pensato come un aspetto celeste, vale a dire, solare, come anche nell’
Avesta, anche se descritto come terrestre in Ŗgveda, III.59, non presenta alcuna difficoltà; poiché la doppia nascita di Agni
(dvijanma) è nei cieli e sulla terra (dyāvā-pŗthivīya), sia in alto che in basso, i due fuochi sono "un angelo" come nel nostro testo
(vedi 63); proprio come nella fraseologia cristiana, "Io e mio Padre siamo Uno", anche il Figlio è Sole (vedi a pagina 68 e cfr.
Nota 10).
45 In questo senso l'intero rituale può essere considerato come "Mysterium und Mimus", e la questione se un particolare inno

vedico debba essere considerato "drammatico" perde il suo significato.


4

Egli desiderò che da lui nascesse un secondo sé. Quindi Mrtyu, che è la fame, s'unì per mezzo della
mente con la parola [del Veda]. Lo sperma divenne l'anno: prima infatti l'anno non esisteva. Egli lo
tenne entro di sé per lo spazio di un anno e dopo questo tempo lo mise alla luce. Appena quello fu
nato, Egli aprì la bocca per inghiottirlo. Quegli fece bhān e così sorse il linguaggio.
(trad. a cura di Carlo Della Casa)

Lui, Morte, Privazione, il Risoluto* (akāmayat): “Lascia che nasca (jāyet) da Me un secondo Sé” (dvitīya
... ātman). Mediante l'Intelletto (manas) sopraggiunse una conoscenza carnale (mithuna) della Parola non
detta (vāc).51 Quello era il seme (retas), che divenne l'Anno (samvatsara). Prima di questo non c’era Anno.
Lo ha lasciato fruttificare per tutto il tempo di un anno, dopo di che lo ha versato in avanti
(asŗjata).Quando nacque (jata), la Morte (Mŗtyu) sbadigliò su di lui. Così emise un grido (bhan): che è
diventato la parola parlata (vāc).52
(traduzione dal testo inglese della traduzione dal sanscrito di A.K. Coomaraswamy)
46 47

Così, la Divinità già autoproclamata come Intelletto, volle andar oltre nell'esistenza. Perché da solo e in
se stesso, il Padre è un Intelletto privo di intelletto, un'energia che non eccita: la sua paternità è attualizzata
solo dalla filiazione di un Figlio. L'Anno, Prajāpati, il Cavallo è il Figlio di Dio generato. Questa è la
comprensione che Dio ha di se stesso, io sono quello che sono, la concezione dell'intelletto paterno e
della Parola materna;
“La comprensione appartiene al suo potere paterno”, Eckhart, 1.364.
“Il generato (prajā) è la combinazione (sandhi) di questi principi congiunti, generando (prajanana =
maithuna) i mezzi (sandhāna)”, Taittirīya Up.t 1.3.3.
Che l'Anno,48 Brahmā-Prajāpati, lo Yakşa nell'albero della vita e il Cavallo Cosmico, mortali per natura e
immortali nella loro essenza, siano la stessa cosa dell'incarnazione del Figlio unigenito di Dio, che è morto
come Gesù ma che è relativo al Logos e al Cristo Eterno nel seno del Padre è a priori evidente da molti
punti di vista, per esempio nella processione della generazione e negli atti del sacrificio volontario di “se
stesso a se stesso”.
“Chi vede Me, vede il Padre”
può essere paragonato a Maitrī Up. VI.4 e VII11, dove l'Unico Illuminatore (eka sambodhayitr), l'Albero
Singolo (eka asvatthā), è chiamato “una base eterna per la visione del Brahman”.
Dal punto di vista della religione comparata, dal Suo punto di vista
chi “non si è lasciato senza un testimone', Atti XIV. 17,*
e per quanto spiacevole possa essere la persuasione individuale, il Messia è una Persona.
Che l'equivalenza tra i Figli vedici e cristiani di Dio, di cavallo e agnello, per esempio, non sia ancora più
evidente dipende principalmente dalla diversità di scala nell'immaginario. L'incarnazione indiana
dell'unigenito Figlio è cosmica: è umano (pauruşya) solo idealmente come Uomo Eterno, l'unico specchio
di tutte le esistenze ed è non umano (mānisa) come uomo tra gli uomini. Mentre il Figlio cristiano di Dio
è presentato storicamente con le sembianze di un uomo tra gli uomini, nato da una donna tra le donne,
alla maniera degli avatāra terrestri, a cui han dato nomi come Rama o Gautama. Lo stesso vale in ogni
caso in cui una religione sembra essere stata stabilita da un singolo Fondatore; per esempio nel buddismo,
dove ci viene dato di capire che l'uomo Gautama, Siddhartha, divenne Illuminato (Buddha) in un dato
tempo e luogo. Questi punti di vista storici e locali sono in seguito trascesi: e quando si è capito che la
nascita di Cristo è eterna, che l'illuminazione del Tathagata “risale dall'inizio dei tempi”, allora diventa
46 Questo eterno Brahman è al tempo stesso la Parola Imperitura (akśara) e la Parola che può essere detta (vacya), Bŗhad
Devatā, 1.62. L'espressione (vyāhrti) è ulteriormente discussa di seguito, nota 64. Bhan = Fiat Lux.
47 I.e. quello che si potrebbe chiamare in greco 'Eniautos-Daimon
48 Per il buddismo e la dottrina dell'identità di ogni insegnamento, si veda in particolare il Saddharma Pundanka. In tutto tranne

il nome, il Tathagata è identificato con Brahmā-Prajāpati.


* Vulgata: ma non ha cessato di dar prova di sé beneficando.
Ed. in inglese
non solo evidente, ma può essere accettato senza angoscia, che tutte le formulazioni alternative (paryāya)
siano espressioni di una stessa Parola o Saggezza.
Queste considerazioni sono di fondamentale importanza per una corretta teologia comparata. Poiché da
un lato l'Anno, Brahmā-Prajāpati, non è né più né meno un “demiurgo” di quanto non sia il Cristo-Logos
“che causa l'intera emanazione” e “effettua tutte le cose”, Eckhart, 1.130 e 38249
e dall’altro, viene affermato che la concezione di questo Cristo, questo Brahmā come l'unico generato
«non avrebbe mai potuto avere un solo Figlio perché egli non è altro che la sua comprensione. Se
avesse avuto un migliaio di figli sarebbero stati lo stesso Figlio», Eckhart, 1.131,
che vale per i Prajāpati e i Buddha di eoni coestesi, per Prajāpati, Tammuz, Herakles, Horus, Cristo, o
“l’Idea di Muhammad” in qualsiasi eone. Troppa attenzione è stato posta sull'umanità di Gesù: era meglio
ricordare la sua perfezione.50 Quel che è diventato non era “un uomo” ma ha assunto una natura umana:
la natura non di vir ma di homo, non più maschio che femmina.
«Tu sei donna, tu sei l'uomo ... le stagioni e i mari», Svetāśvatara Up., IV.3A (cfr Aitareya
Āranyaka, II.3.5):
«Questo campione o leone non è uomo o donna, ma è entrambi», Böhme, Signatum Rerum,
XI.43.
Troppa attenzione è stata posta sulla sua nascita in Galilea: in realtà
“non c'è un tempo in cui questa nascita non sia stata”
“questa nascita è trattenuto nel Padre eternamente ... e pronuncia in una sola Parola tutto ciò che
sa, l'intero di ciò che può permettersi in un solo istante e quell'istante è eterno”. Eckhart,1.81,132:
«Conosceva, in effetti, se stesso, cioè: “Io sono Brahman” e in tal modo divenne il Tutto»,
Bŗhadāraņīyaka Up., 1.4.10.
Concepirlo quindi non come uomo ma come Uomo Universale, Persona, Fuoco o Luce: o per un
confronto più facile, come l'Agnello di Dio, perché potrebbe essere più facile comprendere che l'agnello
sacrificale e il cavallo o toro sacrificale sono equivalenti illuminazioni della comprensione:
Agnus Dei, Agni Deva.
Per quanto riguarda mithuna, “coppia progenitrice” e maithuna, “generazione”: la generazione può essere
definita solo in riferimento alla reciprocità dei principi congiunti; questi, qui come anche nella teologia
cristiana, sono il Conoscente e il Conosciuto, l'Atto e la Potenzialità della Comprensione:
“lo Spirito Santo è stato ottenuto nella Parola con questo stesso Intelletto”, Eckhart, 1.381 e 407,
“quello con cui il Padre genera è la natura divina ... come quella con cui genera il generatore”, San
Tommaso, Sum. Theol, I, Q. 41, A. 5.
Il nostro testo dà per scontato il secondo dei principi congiunti, la Parola o Conoscenza non detta (senza
suono), vāc: ma sappiamo da altre fonti abbondanti che Lei è la Natura divina, Prakŗtī, Aditi, Virāj, le
acque. Lei è il silenzio in divinità, ogni possibilità e promessa di esistenza, il mezzo con cui Lui può, il
pozzo inesauribile della sua abbondanza ma in quanto Dio e divinità, il cielo e la terra, l'essenza e la natura
sono una cosa sola in lui: è un'emissione di seme non solo da parte dell'intelletto, una gravidanza non
solo nella parola che deve essere capita.
È la divinità, non una delle Persone separatamente che è incinta, “Egli” produce.
Retas, “seme”, non è solo versato, ma diventa la progenie generata, così per esempio parliamo del “seme
di Abramo”; lo si confronti con il racconto della generazione nell'Aitareya Āranyaka, II.5, l’identità del
Sé (con-sustanzialità) di padre e figlio asserita qui e altrove.
Il figlio “non è una cosa nuova ma il seme stesso dell'uomo e della donna ed è solo allevato
nell’unione, è così come un ramoscello cresce dall'albero” ', Böhme, XL Domande riguardanti
l’anima, VIII. 18.

49 È altrettanto e non più né meno 'demiurgo' di quanto lo sia l''Uomo perfetto' (al-insanu’l kāmil) della teologia islamica, cioè
la Parola di Allah o Fiat (amr) e lo Spirito (ruh) manifestati nell'essere trascendentale del Profeta (Muhammad) come principio
e archetipo di tutte le esistenze.
50 "Le anime buone e pie sono anch'esse ostacolate dal loro oggetto appropriato indugiando con santa gioia sulla forma umana

del nostro Signore Gesù Cristo. ... Per loro la sua virilità è un ostacolo fintanto che si aggrappano ad essa con piacere mortale;
dovrebbero seguire Dio in tutti i suoi modi e non limitarsi unicamente al suo modo di essere uomo che ci rivela la via della
divinità”, Eckhart, 1.187.
Nell’Aitareya Up., IV. 1, retas, seme è identificato con tejas, l’Energia-Ardente: altrove, ad es. Mānava
Dharmaśāstra 1.8, vīrya, “virilità”, “virtù”, è un altro sinonimo. Il seme era probabilmente considerato il
veicolo dello Spirito, prāņa, poiché
“è prāņa, in verità il Sé come pura Intelligenza, che afferra e anima la carne”, Kauşītaki Up., III.3:
che si avvicina molto al punto di vista cristiano:
“la formazione del corpo preso dal Figlio è attribuita allo Spirito Santo … proprio come il potere
dell'anima che è nel seme, attraverso lo spirito racchiuso in esso, modella il corpo nella
generazione di altri uomini”, San Tommaso, Somma. Theol., III, Q. 32, A.1.51
Le Persone della Trinità sono giustamente nominate: sebbene non ci sia una “reale” ma solo una possibile
relazione di Persone nella Divinità antecedente alla processione, solus ante principium, tutta la tradizione è
d'accordo che la nozione di generazione, presa dalla nostra conoscenza delle cose viventi, è rispetto al
Figlio analogicamente appropriata.52 La coerenza richiede quindi la diversità del sesso nei principi
congiunti invocati: come esplicitamente nella nostra Upanişad, 1.5.7:
«Il Padre è l'Intelletto (manas), la Madre la Saggezza (vāc), lo Spirito il figlio (prāņa).53
La saggezza, vāc, è giustamente femminile nel pensiero vedico, poiché è la natura divina, le acque
antecedenti alla loro controparte luccicante: mula-Prakŗtī. È l’oscurità indifferenziata, passiva: non distinta
dal il Padre nell'unità, ma distinta da lui nell'atto eterno della generazione, come il mare è dal sole. Quindi
la Madre è la seconda Persona della Trinità Vedica, come il Figlio, l'Anno, Prajāpati, è logicamente la
terza. Lo Spirito, prāņa, non è qui una Persona distinta, ma principalmente un nome essenziale del Padre
e in ipostasi, un nome essenziale del Figlio. La processione dello Spirito è naturalmente una spirale
(samīraņa): ma quando lo Spirito, la Vita, diventa un nome essenziale del Figlio, allora la processione, ipso
facto, deve essere chiamata filiazione. In questo senso, la nascita del Figlio è un atto diviso:
“Sono uscito dalla bocca dell'Altissimo, per uscire dalla concezione naturale della parola essenziale
del Padre divino”, Eckhart, 1.269;
e nella teologia islamica , la “nicchia di Maometto” è allo stesso tempo lo Spirito di Allah e suo figlio.54
La dottrina vedica del Logos si riflette meglio in greco che nella dottrina cristiana ortodossa. 55

51 Sul significato della generazione di un figlio, vedi Aitareya Brāhmana, VII. 13 (HOS, vol. 25, pp. 299, 300).
52 Ad esempio, "Il modo in cui Dio parla è il figlio", Sant'Agostino; 'Il processo verbale è propriamente chiamato generato e
Figlio ... concezione e nascita', San Tommaso, Somma. Theol., I, Q. 27, A. 2. Solus ante principium = pūrņa apravartin, Kauşītaki
Up., IV.5.
53 Anche Brihadāranyaka Up., 1.4.17, prāņa prajā; e Taittirīya Up., 1.3.3. Rendere vāc coerentemente con una sola e unica parola

inglese sarebbe impossibile. Una distinzione tra vāc, sinonimo di Sarasvatī nel Ŗgveda, 1.3.12, che rappresenta un aspetto di
Maya, Prakŗtī, Śakti, Omnipotentia, da vāc, 'parola' o 'lingua' deve essere chiaramente riconosciuta. All'inizio, come principio
congiunto con l'Intelletto, vāc è Sophia, la "saggezza" di Dante: "nella più alta lode della Sapienza, dico che lei è la madre di
tutti i primi principi, affermando che era con Dio quando all'inizio fece il mondo, e specialmente il movimento del cielo che
genera tutte le cose, per cui ogni altro movimento è originato e avviato; aggiungendo, "lei era il pensiero di Colui che ha messo
in moto l'universo"; Intendo dire che lei era nel pensiero divino, che è molto intelletto, quando ha creato il mondo. Da ciò
segue che lei ce l'ha fatta; e quindi Salomone nel libro dei Proverbi dice di parlare nella persona della Sapienza: "Quando Dio
preparò i cieli, io ero lì, quando recintò le profondità con una legge fissa e un cerchio fisso, quando pose rapidamente i
firmamenti sopra, quando ha appeso in alto le fontane delle acque, quando ha circondato il mare con il suo confine e ha
stabilito un decreto per le acque che non dovrebbero oltrepassare i loro confini, quando ha posto le fondamenta della terra,
ero con lui disponendo tutte le cose e ogni giorno mi piaceva ", Convivio, III.15, cfr. Ŗgveda, X.71 e X.95.
54 Jīlī, sul Corano, II. 14. 23f., Citato da Nicholson, Studi ... p. 113.
55 Per Eraclito (che fu considerato da San Giustino "cristiano prima di Cristo") il Logos, manifestandosi come Fuoco, è quel

principio universale che anima e governa il mondo. Questo punto di vista non dualistico è più pienamente sviluppato dagli
Stoici, in un modo che suggerisce di nuovo i contatti indiani: secondo loro: “Dio non ha fatto il mondo come un artigiano fa
il suo lavoro, ma è penetrando completamente tutta la materia che Egli è il demiurgo dell'universo”(Galen, Dequal, incorp. in P.
Stoic, a cura di Arnim, II.6); Egli penetra nel mondo "come il miele fa il nido d'ape" (Tertulliano, Adv. Hermogenem, 44);
“questo Dio così intimamente mescolato con il mondo è fuoco o aria infiammata, in quanto è il principio che controlla
l'universo, è chiamato Logos: e in quanto è il germe da cui tutto il resto si sviluppa, è chiamato il Logos seminale (Logos
spermatikos). Questo Logos è allo stesso tempo una forza e una legge, una forza irresistibile che porta il mondo intero e tutte
le creature verso un fine comune, una legge inevitabile e santa da cui nulla può ritirarsi e che ogni uomo ragionevole dovrebbe
seguire volontariamente” (Cleanthus, Inno a Zeus in P. Stoic., 1.527-37). Conformemente alle loro abitudini esegetiche, gli
Stoici fecero delle diversi Dei, personificazioni del Logos, per es. Zeus e soprattutto Hermes, Enciclopedia Cattolica, S.V.
Logos. La corrispondenza e la probabile connessione di questa ideologia con quella delle Upanişad è evidente. L'applicazione
più speciale di Cleanthus potrebbe essere paragonata al concetto buddista del dharma-cakra pravartana.
Il problema è troppo complesso per una discussione completa qui ma si può notare che i termini Vedici
ŗtam e dharman sono “neutri” (aliņga, “senza genere specifico” ma senza escludere la possibilità di genere),
devono essere pensati come nomi essenziali equivalenti al Brahman più tardo e alla Parola Imperitura
(akşaram) OM, anche epicene;* in altre parole, la dottrina del Logos indiano non esclude l'unità
dell'Essenza e della Natura, né la loro distinzione come principi congiunti collegati in processione
congiunta per generazione o espressione.
Si capirà che la “teologia” vedica tiene conto di due Trinità distinte.
Nell'unico accordo (Agni, Āditya, Vāyu - Rudra, Vişņu, Brahmā) le Persone si distinguono per la loro
natura (i guna caratteristici sono tamas, sattva e rajas); i nomi sono essenziali e le relazioni reciproche e
reversibili, in modo che si possano pensare a due a due come aspetti o emanazioni del primo, senza alcun
ordine logico di manifestazione. Nell'altro accordo (Sole Supremo e Acque - o Cielo e Terra - e Agni
Vaiśvānara o Ayus - Śiva, Śakti, Kumāra - manas, vāc, prāņa, ecc.), Le persone si distinguono per le
relazioni naturalmente progenitrici, in quanto Padre, Madre e Figlio e i nomi assumono un carattere più
personale: c'è un ordine logico di processione.
Le trinità cristiane e indiane possono essere giustamente paragonate quando si comprende che mentre il
Padre, il Figlio e lo Spirito cristiani corrispondono direttamente a Āditya, Agni Vaiśvānara e Vāyu (la
processione è in via di enunciazione o di spirazione, non di una generazione). Padre e Figlio, quando si
parla di quest'ultimo come generato dalla generazione da “principi congiunti” (San Tommaso, Sum.
TheoL, I, Q. 27, A. 2), o come “la sua comprensione di se stesso”, corrispondono anche a manas e prāņa,
o ad Agni e Agni Vaiśvānara (“nato dalle acque” o “nato dalla terra” e la cui natura è esemplare). Manca,
quindi, nella formulazione cristiana, quando il Figlio è pensato come naturale e generato, quella Persona
che dovrebbe essere il secondo dei “principi congiunti”, i cui principi non possono essere altro che la sua
Essenza e la sua Natura; nessuna “saggezza” o “Natura”, corrispondente a vāc o Prakŗtī, è riconosciuta
come Persona nella disposizione cristiana di Dio.
È vero che Cristo assume la natura carnale - “è naturato”- dalla Vergine Maria, che è quindi chiamata la
“Madre di Dio”, ma ciò non è rispetto alla sua eterna processione ma semplicemente rispetto alla sua
nascita occasionale in Galilea. Astrattamente dalla sua casuale generazione, Cristo è senza madre. È solo
in effetti e tacitamente, se non sotto protesta, che con l'assunzione e l'incoronazione della vergine e la
mariolatria in generale, che Madre Natura, Saggezza, natura naturans, Prakŗtī, vāc, Maya, viene restituita al
suo trono nuziale.
Ciò è reso esplicito quando Eckhart dice che:
“è Dio che ha il tesoro e la sposa in lui”, 1.381,
“i desideri della divinità con la Parola”, 1.388,
“dall'abbraccio del Padre, dalla sua stessa natura viene l'eterno gioco del Figlio”, 1.148,
dove la comprensione personale mantiene la sua unità della natura e ha rapporti con essa,
“là la natura del Padre ha nomi materni e fa il lavoro della madre, perché è esclusivamente compito
della madre ricevere il seme della Parola eterna”
e nella luce divina
“stava sempre Maria, portando il suo divino figlio”, 1.404,
ciò è quel che ne consegue naturalmente se prendiamo che la nascita di Cristo sia eterna.56
Nulla qui contraddice che lo Spirito sia la comune spirazione, l'amore comune e il reciproco rispetto delle
Tre persone.
Nella nostra Upanişad, 1.1.2, tasya samudre yonih,
“nel mare è il suo grembo”,
può essere paragonato a sant'Agostino, Sermonae, 124,
“processito. . . de utero virginali;
Eckhart è

* che hanno le caratteristiche di entrambi i sessi.


56 Eckhart parla dei "nomi materni" di Dio in due sensi diversi: quando lui lo chiama "Madre di tutte le cose", non è nel senso

attuale di "genitore naturale", ma in questo “rimane con tutte le creature per tenerle in essere”, 1.427. Ciò sarebbe in termini
indiani, nella sua Persona come Vişņu, o come nel nostro testo,7, dove egli "ricorda" (manvata) tutte le esistenze fino a quando
il tempo durerà: che nella fraseologia scientifica è la "conservazione dell'energia", cf. Nota 78.
“nella camera spoglia del cuore vergine della loro nave prescelta Maria… dal caos emerse
un'anima spirituale splendente “, 1.463.464;
e Petrarca,
“Vergine bella, che di sol vestita,
coronata di stelle, al sommo Sole
piacesti sì, che ’n te Sua luce ascose,...
“al Sole Supremo tu sembrasti così bella, che in te nascose la sua Luce”,
un notevole parallelismo con i molti passaggi vedici in cui gli angeli sono rappresentati come in cerca del
Sole o Fuoco nascosto, e trovandolo riflesso o nato nelle Acque.
Dante, «Vergine Madre, figlia del tuo figlio,…
termine fisso d'etterno consiglio,…
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.», Paradiso XXXIII.
Un'ideologia “tantrica” di questo tipo è tipicamente sviluppata nella concezione gnostica di Sophia come
Eone primordiale, e specialmente nello gnosticismo valentiniano, dove il Propatrio di Bythos ha per sua
“śakti” Ennoia, “Pensiero”, o Sige, “Silenzio” da cui sono stati generati Nous e Aletheia come primi
principi di manifestazione. Infine, si può osservare che nel linguaggio sistematico della Bŗhad Devatā e
del Nirukta, il Padre sarebbe chiamato celeste, la Madre ctonia e il Figlio una divinità aerea.
“Per tutto il tempo dell'anno”:
quel lungo tempo sarebbe uguale alla “notte” del sonno profondo del Brahman, distinto dal “giorno” o
“anno” successivo del risveglio del Brahman, durante il quale il cavallo corre libero, come spiegato nella
settima stanza. Cf. Mānava Dharmaśāstra, 1.12, tasminnaņde sa bhagavanuşitvà parivatsaram.
“L'Anno è Prajāpati”, Maitrī Su., 1.5.14:
«l'Anno, in verità, è Prajāpati, è il Tempo (kāla),57 il luogo di nidificazione (nīda) del Brahman
Stesso ... questo Tempo formale è il grande oceano delle esistenze generate (praja) ... questo intero
universo qui, e qualunque cosa di buono o di guai possa essere vista in esso ... colui che offre e
allo stesso modo colui che riceve le offerte ... Vişņu, Prajāpati», Maitrī Up., VI. 1516,
«il Brahman ha due forme, il tempo (kāla) e il senza tempo (akāla)», ibid.
Cioè, mentre il Figlio“rimane dentro come essenza e procede come Persona ... le cose fluiscono nel tempo
finite mentre dimorano all'infinito nell'eternità ... in questa immagine, tutto è Dio; aspro e dolce, buono
e cattivo, tutti sono uno in questa immagine”, Eckhart, 1.271.285.286.
«La morte si è sparsa su di lui»,58 cioè sull'Anno appena nato, ora Dio ha assunto la mortalità,
Nirŗtim ā viveśa, Ŗgveda, 1.164.32:
esistenza, vita, è una modalità dell'essere naturalmente soggetto alla mortalità,
«sicura è la morte per i nati, certa è la nascita per i morti “, Bhagavad Gìtà, 11.27,
cfr. la visione della Divinità è come il Tempo che divora tutto, cap. XI.
«Ha emesso un grido»:
vale a dire, «il nome nascosto con cui hai generato tutto ciò che è e sarà», Ŗgveda, X.55.2,
parlando (vāc) pronuncia davvero la Parola (vāc), Brihadāranyaka Up., 1.1 .1, Cfr. Ŗgveda, 1.163.1,
«La tua grande nascita dal Pleroma (purīśa) e dal mare (samudra), O Destriero, deve essere
magnificata, in quanto hai nitrito (akranda) quando sei nato, di chi sono le ali del falco e delle
membra del cervo?»
e Taittiriya Samhitā, IV.2.8,
«Quando hai pianto per la prima volta, la schiuma è sorta dal mare, che è la tua famosa nascita,
O Destriero».
«All'inizio questo (universo) era indefinito (avyahrta)», Maitrī Up., VI.6;

57kāla, il nostro 'Padre Tempo', ma qui essenzialmente, non come semplice allegoria.
58Rappresentato nella iconografia più tarda tra i demoni Madhu e Kaitabha, un Brahmā minaccioso, seduto su di un loto e
nato dall’ombelico di Narayana.
ma con quella espressione (vyāhŗti) di Prajāpati, in cui tutte le cose sono chiamate con i loro nomi
essenziali,59 la loro esistenza fu riversata (asŗgram),60
“poiché tutte queste esistenze sono Principi (manas, “Intelletto”),61 Pañcavimśa Brāhmana,
VI.9.14.20.
“Uno dovrebbe sapere che tutti questi versetti (ŗc), tutti questi Veda, tutti i suoni, sono
semplicemente una sola espressione (vyāhŗti), in verità Spirazione (prāņa), Spirazione in verità dei
versi, Aitareya Āranyaka, II.2.2.
Proprio come nel cristianesimo,
“Dio non disse altro che una sola parola”, Eckhart, 1.148,
“questa sola Parola comprendeva tutte le cose”, 1.377,
poiché “la Parola del Padre è la sua comprensione di sé 1.146”, “Lo stesso Padre parlò e tutte le creature
erano nella Parola ... tutte le creature in suo Figlio”, 1.377,
o ancora:
“Primo fuori dal Padre, uscì fuori il Figlio, piccolo ma così potente nella sua forza divina che fu
lui a causare l'intera emanazione. La seconda sortita è il primo angelo, che seguì energicamente il
primo evento. Accelera rapidamente ... così carica di potere che data un migliaio di mondi in più
di cui sarebbero stati portati a desiderare prima che il primo problema fosse stato speso ... Un
unico lancio con il mondo un lenzuolo d'acqua e l'acqua non sarebbe riuscita prima i circoli si
spensero, “Eckhart, 1.130.

59 L'espressione, vyāhŗti, è quella dei Tre Mondi, come spiegato nella Maitrī Up., VI.6; questi mondi, questo universo, essendo
il corpo (tanu, śarīra) di Prajāpati, il Cavallo, l'Albero, la Ruota, la Danza di Śiva.
L'analisi del singolo nome come espressione dei suoi molteplici aspetti è la funzione con-creativa del genio poetico,
dell'immaginazione o della profezia, espressa principalmente nei canti sacrificali.
Cf. “Quando, o Bhŗaspati, chiamando le cose con il loro nome (Profeti), mise avanti la testa e in fronte la Saggezza (vāc), allora
ciò che era meglio e ineccepibile in loro, si nascose nel profondo (guha) e con il loro amore (preman) l’hanno portato alla luce
... dall'Intelletto (manas) hanno tratto la Sapienza (vāc), quindi si dice che "nel Sacrificio hanno trovato le tracce della saggezza,
accolta all'interno dei Profeti (ŗsi)", Ŗgveda, X. 71.3: «a colui che amo (il soggetto è la Sapienza, vāc), io do la forza, il Brahman,
è Profeta e molto saggio», ibid., X. 125.5. L'accesso a questa Saggezza inespressa nell'intimo, è descritta come visione e
audizione (-dŗś -śŗu), ibid., X.71.4, da cui la designazione successiva dei Veda come śŗuti, "ciò che è stato ascoltato".
60 Sŗşţi, asŗjata, asŗgram, ecc., Non devono essere tradotti come "creazione" e "creato". Perché sebbene √sŗj denoti lo stesso di

√kŗ, la connotazione è abbastanza diversa, nel primo caso è 'riversare', 'emanare', nel secondo per 'fare', 'creare', 'forma'. Quindi
sŗj e kŗ sono i termini propri rispettivamente della metafisica e della parlata dualistica e non dovrebbero essere confusi nella
traduzione. Per sŗşţi, ecc., L'inglese 'emanato', 'effuso', 'fuoriuscito', ecc., Sono immediatamente disponibili.
La radice √kşar nel senso transitivo di “emettere, versare, spingere” è similmente impiegata in connessione con la nozione di
Pronuncia (vyāhrtī), Aitareya Āranyaka, II.2.2: in quanto egli riversa (kşarati) doni e nessuno può superare questa sua generosità,
una sillaba è “akşara”. O kşar essendo intransitivamente nel senso di 'fluire', o 'perire', akşara significa 'imperituro' e
specialmente 'la Parola Imperitura', OM.
La “creazione”, in altre parole, è di carattere, il suo flusso non è mai diminuito: la pienezza (pūrna, bhūman) dell'unità-di-
potenzialità-e-atto è infinita, “Il laggiù è tutto e questo è tutto, prendi tutto da tutti, ritirando tutto da tutti, ancora sopra e
sopra rimane il tutto”, Śatapatha Brāhmana, XTV.8.1 = Brihadāranyaka Up., Vl; cf. Atharvaveda, X.8.29. Né bisognerebbe
letteralmente intendere bhūta con “ciò che è venuto all'esistenza”, sebbene equivalente alla “creatura” cristiana, sia tradotto in
tal modo, né come “essere”; poiché, in primo luogo, le espressioni sono generalmente dette nei testi vedici come “emanate”,
piuttosto che come “create” e nella seconda, mentre è vero che tutte le esistenze esistono, non tutto l'essere ha esistenza. Un
equivalente comune di bhūta come “esistenza” è sattva, cfr. in basso, p. 80. Bhū = werden, sthā = exstare.
61 Qui 'Principi' sembra trasmettere il senso piuttosto meglio di 'Intelletto', sebbene entrambi equivalgano alla stessa cosa.

Diamo per scontata la definizione, «l'intelletto è l'abitudine dei Principi Primi», Eckhart, 1.74, «l'intelletto è una questione di
puro essere». Volontà e intelletto la porta (mukha, dvâra) della processione (prasarana).
5.

Egli pensò: «Se lo ucciderò, farò un ben misero pasto». Allora dalla parola e da se stesso egli produsse
tutto questo [universo] che esiste, il Ŗgveda, il Yajur Veda, il Sama Veda, i metri degli inni, i sacrifici,
gli uomini, gli animali
E tutto ciò che generava incominciò a divorarlo. Poiché tutto divora (ad), per questo Aditi (l'infinità)
ha il suo nome. Di ogni cosa si ciba, tutto è cibo per colui che sa per quale ragione Aditi così è
chiamata. (trad. a cura di Carlo Della Casa)

Lui, la Morte considerò: “In verità, se tendo contro lui, avrò poco cibo per me stesso”. Con la Parola
quel Sé, ha riversato (asrjyata) tutto questo, qualunque cosa: il Ŗg, lo Yajur e il Sama Veda, i metri, i
sacrifici, gli uomini e le bestie.
Tutto ciò che ha emesso, ha iniziato a mangiarlo (ad). In verità divora (ad) tutto: questa è la Libertà
(aditiiva) di Aditi. Colui che conosce così la Libertà di Aditi diventa un mangiatore di tutte le cose qui,
tutto diventa il suo cibo (anna).
(traduzione dal testo inglese della traduzione dal sanscrito di A.K. Coomaraswamy)
La prima parte continua il pensiero della stanza precedente e ha bisogno di poche spiegazioni.
“Meno cibo”, cioè meno vita.
“Con quella Parola, da quel Sé”, cioè dalla bocca dell'Anno, Prajāpati, e qui dobbiamo intendere un nitrito
del Cavallo.
“Cominciò a mangiare: questa è la Morte, la Divinità, cominciò a vivere, ad esistere come Dio. Come
abbiamo già visto, l'essere esistente di Dio dipende dal suo mondo esistente, non meno di quanto
l’esistenza del mondo dipende da lui, ognuno suppone l'altro. Non nella relazione causale, ma nella
reciprocità e nella simultaneità, qui non c'è distinzione se non spandimento e effusione. . . sono un
solo stesso Dio ... generatore e improvvisamente generato”, Eckhart, 1.72.
È quella stessa bocca infuocata che pronuncia tutte le esistenze e dove si affrettano a tornare indietro;
nella nostra Upanişad, 1.1.1, “La bocca aperta del fuoco Universale”,62 cf.

62 Ecco che un'altra luce può essere lanciata sui termini corrispondenti a Est e Ovest, Superiore e Inferiore, discussi sopra,
nota 49. Nel racconto epico della zangolatura dell'oceano, lo stallone Uccaihśravas, lo stesso del nostro cavallo cosmico, si
chiama Vadaba-bhartŗ, "il marito della Giumenta": cfr. il mito vedico di Saraņyū = Apyā, con cui il Sole (Vivasvant) nella forma
di uno stallone genera gli Așvin (Ŗgveda, X.13.4, ecc., vedere Bloomfield in J.A.O.S., vol. 15, pp. 172 sgg.).
Ne consegue che la bocca della Giumenta (vadabāmukha) e il Fuoco sotto le Acque al polo sud (Nadir) devono corrispondere
alla bocca infuocata dello Stallone nel nostro Upanişad, 1.1.1 e 1.2.3. Nel primo di questi passaggi la sua parte anteriore (pūrva)
è udyan, la sua parte posteriore (apara) è nimlocan, nel secondo la testa è prācī, la coda pratīcī La corrispondenza di pūrva e prācī e
l'equivalenza dei loro vari significati in altri contesti, non saranno trascurati. In Ŗgveda, X.72.9, pūrva significa oltre ogni dubbio
"sopra", così come "primordiale" e "antico", o anche "eterno". Qualsiasi termine che rappresenta l'antitesi all'apara dovrebbe,
inoltre, essere equivalente a 'para'. Udyan e nimlocan implicano effettivamente i luoghi del sorgere e tramontare del Sole, e quindi
rispetto alle condizioni terrestri può essere giustamente trasformato come ‘Est’ e ‘Ovest’. Ma è chiaro dalle corrispondenze
tabulate sopra e nella nota precedente che il Sole Supremo Āditya, è pensato come ‘sorgere’ dallo Zenith, e ‘tramontare’ nel
Nadir, come d'altronde sarebbe richiesto nella dottrina di ‘luce e riflesso’, prakāśa-vimarśa, come in Kausītaki Up., IV.2, āditye
mahat... ādarśe pratirūpah, e come discusso a p. 35. Ne consegue che tutti i nostri termini che indicano Est e Ovest qui significano
Superiore e Inferiore. Uttara è il superlativo di ud, ‘su’.
Ne consegue anche che uttara e dakşinā, rispettivamente "settentrionale" e "meridionale" qui stanno per "Superiore", e
"Inferiore" perché la "bocca del mare" è dakşinā, la bocca dello stallone deve essere uttara. Ciò non solo getta luce sull'uso di
questi termini in relazione al dēvayāna e al pitriyāna, ma mostra che uttara yuga in Ŗgveda, X.72.1 = pūrva yuga, ibid., 9, e che
entrambi implicano il parama vyoman, l’Empireo super-celeste. Allo stesso modo nel Ŗgveda, X.90.5, paścad purah è sia "da est
a ovest", e "da Zenith a Nadir": il suo corpo si estende necessariamente dalle acque superiori a quelle inferiori, poiché tutta
l'esistenza è contenuta nello spazio intermedio (antarikşa) e abbiamo già dedotto che la sua testa è sopra, e che appare anche
in quanto il suo occhio è il Sole-Supremo.
Pūrva, al contrario di apūrva, "latente", ha anche il senso di "immediato", cioè "dentro di te", cf. brahmam nihitam guhāyam parame
vyoman, Taittirīya Up., II. 1, cf. ‘Quando dico il più alto intendo il più profondo,’ Eckhart, 1.164. Quindi Dakşināmūrti, "Colui
il cui aspetto è rivolto a sud", viene quindi considerato come se guardasse da nord, presume per i liturgisti vedici un interesse
per fatti naturali dello stesso tipo dei nostri. Si potrebbe anche tentare di spiegare le sequenze stilistiche dell'arte asiatica in
termini di una "osservazione della natura" più o meno precisa. Un problema precisamente analogo è presentato nella
"cosmologia" cinese, cfr. Saussure, L. de, La série septénaire, cosmologique et planétaire, Journ. Asiatique, XXIV, 1924, pp. 333f.,
Per quanto riguarda la "Libertà", adititva, di Aditi: questo è il significato fondamentale del nome Aditi,
l'antica dea-madre, il supremo potere femminile nei Veda (e.g. Ŗgveda, 1.89.10), seconda Persona della
Trinità, Mahādevī e Śakti di testi successivi. Aditi è la madre-compagna di Varuna, che è nato da Lei,
sebbene non per generazione, è pre-eminentemente Āditya, Figlia dell'Infinito e del Sole-Supremo: Madre
Natura, la stessa di Virāj, "Luce Sovrana" da cui tutte le cose ‘mungono’ le loro virtù specifiche e il loro
funzionamento corretto (Atharvaveda, VII. 1, Vm.9-10 e IX. 1). È vāc, il mezzo di espressione, Āpah, le Acque,
tutte le possibilità dell'esistenza, non-limitata (a-diti) da condizionamenti particolari; Mahamāya.
La Magia di Böhme,
‘una madre in tutti e tre i mondi e rende ogni cosa dopo il modello della volontà di quella cosa ...
una creatrice secondo la comprensione e si presta al bene o al male ... fondamento e supporto di
tutte le cose ", Sex Puncta Mystica, Vl 1 e 20:
“Tao”, come “Madre di tutte le cose”, Tao Te Ching, 1.1.
“Contenuta nel Padre come natura. . . pertanto egli è onnipotente ... poiché la Divinità ha tutte le
cose in potere. . . (e) scorre nelle creature. Dà a ciascuno quanto può reggere: alle pietre la loro
esistenza, agli alberi la loro crescita, agli uccelli la loro fuga, alle bestie i loro piaceri, agli angeli la
ragione (sc. intelletto), all'uomo la natura libera (sc. libero arbitrio)”, Eckhart, 1.371-2:
cioè, ad ogni esistenza, la sua stessa virtù e idiosincrasia.
Quindi, nirguna Brahman, amūrta Brahman, sono la stessa cosa di Aditi, Virāj, le Acque; e la Bhagavad Gita
è in completo accordo con la tradizione vedica quando dichiara
"Il mio grembo (yonī) è il Grande (mahat = para = nirguna) Brahman; in esso concedo il germe
(garbha), da cui deriva il divenire (sambhava) di tutte le esistenze", XIV.3;
e inoltre, quando Kŗşņa, dopo aver elencato gli elementi materiali dell'esistenza, aggiunge:
“Questo è la mia Natura (Prakŗtī) empirica (apara). Conosci la mia natura (para) trascendentale
(Prakŗtī) come “altro” (anya), come gli elementi della vita (jiva-) per cui l'universo è tenuto in essere
(dhāra-yate), sappi che questo è l'utero (yoni) di tutte le esistenze”, VII.5 e 6.
Proprio come in Brihadāranyaka Up., 1.1.2, troviamo samudro yoni, corrispondente a Mundaka Up.t III.1.3,
Brahmā-yoni, rispettivamente "il cui grembo è il mare", e "il cui grembo è (para) Brahman". L'esposizione
di Kŗşņa alle sue due "nature" è perfettamente "corretta" (pramitī).63
Para e apara Prakŗtī equivalgono ad Acque superiori (parastāt) o Inferiori (avastāt) del Ŗgveda, III.22.3,
ecc.; come i "due mari" di Varuna,64 che sono le sue "pance" o "grembi", udara, kukşi65 Atharvaveda, IV.

Esp. p. 335, "Le levant et l'occident représentent à rilaissance et la mort, le yang et le yin, comme le font également le sud et
le nord" [Il sorgere e l'ovest rappresentano la nascita e la morte, lo yang e lo yin, così come il sud e il nord]. Con la "cosmologia"
di Chāndogya Up., III. 1-11, cfr. La "Circolazione della luce" di Lü Tzü secondo la sua propria legge (Wilhelm and Jung, Secret
of the Golden Flower, pag 57). Qui, proprio come in India, il simbolismo metafisico si basa sia sui movimenti diurni che su
quelli annuali del sole, ma con questa differenza che in Cina il nord corrisponde alla natura, il sud all'essenza. Vedi anche
l'Appendice.
63 Perciò nessuno "strano destino" ha qui "superato il Brahman Upanishadico", come credeva il professor Edgerton, The

Bhagavad Gita, 1925, p. 53.


64 Per quanto riguarda para e apara e i loro equivalenti, vedi sopra. In questa Upanişad, 1.1.2, ognuna delle due acque gemelle,

pūrva e apara samudrau, è detta "onnipotenza", mahimā (f.), Un parallelo molto stretto a quello di Eckhart "per cui è onnipotente",
1.371, citato sopra. Ciò non esclude affatto l'interpretazione di mahimā anche come "nave sacrificale", cfr. il doppio significato
di dhişaņā spesso nel duale dhişaņe: per il quale si veda l'ammirevole opuscolo di Johansson, Die altindische Göttin Dhisanä
und Verwandtes, Uppsala, 1910. Cfr. Ŗgveda, III.45.3, ‘Cos’, come acque profonde, come kine (vacche, bestiame), fai crescere
(puşyasi) la tua volontà (kratum)’, e X.75.1, dove ‘l'artigiano sul sedile di Vivasvan, o voi Acque, dite della vostra incomparabile
onnipotenza (mahimānam uttamam)’. Da qui anche la designazione dei "fiumi" come revati "fiumi di abbondanza", X.19.1, ecc.
Con ogni probabilità la conca e il loto erano in origine simboli delle due acque: ciò spiegherebbe la loro associazione, come
fonte di ricchezza inesauribile, con l'asvattha, nel caso della nota capitale di Besnagar (Yaksas, II. Pl. 1,): e la loro sopravvivenza
come i principali "tesori" (nidhi) di Kubera, Dhanapati, in cui gli elementi procreativi e plutocratici del personaggio di Varuna
sono così chiaramente preservati.
dhiṣaṇā = intelligente, istruito; saggio, maestro, guida spirituale. Mito. np. di Dhiṣaṇa, epith. di Bṛhaspati-Guru =
comprensione; intelligenza. Nei veda contenitore del soma.
65 Così nelle divinità progenitrici, specialmente Varuna, Brahmā, Kubera e Gaņapati, anche nel caso del Patriarca e Profeta

Agastya (gemello di Vaśişţa, e come lui probabilmente = Prajapati), il grande ventre è un simbolo della gravidanza: tali tipi che
incarnano simultaneamente poteri ctonici (f.) e celesti (m.). Quando Prakŗtī è rappresentato non così come Lei è in lui
nityayutau, ma come è in se stessa, ayuta, in una forma interamente femminile, allora la promessa delle sue infinite maternità è
rivelata in modo più esplicito nei suoi pesanti seni e fianchi rigonfiati, descritti nelle sue litanie e visti nelle sue immagini dalla
16,3; come i "seni gemelli" di Aditi: Madre e Frulla-Miele, da cui si "munge il ristoro" della vita, ibid.,
IX.I.7.
6.
Egli concepì il desiderio di compiere di nuovo un sacrificio più solenne. S'affaticò, praticò la
penitenza. Quando si fu affaticato e riscaldato, gloria ed energia uscirono fuori.
Gloria ed energia sono gli spiriti vitali. Fuggiti da lui gli spiriti vitali, il corpo cominciò a gonfiarsi: ma
nel corpo era rimasta la mente. (trad. a cura di Carlo Della Casa)
66

Ha voluto, "Lascia che io offra di nuovo con un ulteriore sacrificio" (yajña). Ha lottato, ha intrapreso
l'intensione (tapas). Quando si era sforzato e si era intensificato, la sua gloriosa virilità (yaśovīrya) andava
avanti (udakrāmat). Così, quando i respiri vitali erano usciti (prāņeşu utkrānteşu), il corpo (śarīra)
cominciò a gonfiarsi (sva). Eppure l'Intelletto (manas) è rimasto nel corpo.71
(traduzione dal testo inglese della traduzione dal sanscrito di A.K. Coomaraswamy)
Lui, cioè l'Anno, Prajāpati, il Figlio.
Un "altro sacrificio" implica un precedente sacrificio: quella era la prima avanzata o emanazione
nell'esistenza, l'assunzione di una natura personale (paurusya) e della mortalità. In tutte le descrizioni è
un'incontinenza: "spendere" significa "morire" e nel prendere l'esistenza, Dio assume la mortalità: questa
è la "debolezza" del Re Pescatore, il significato del mito del Graal.
Utkram è usato per "andare avanti", proprio come nel nostro colloquiale "passare oltre". O rispetto alla
morte naturale, sia volontaria che sacrificale come qui nel nostro testo, o involontario come nel nostro
Upanişad, III. 2.11-12, e Kausītaki Up., 1.2.12-15:67 o in connessione con avataraņa, “l’apparizione sul
palcoscenico della vita” di un avatāra, che è al tempo stesso una discendenza68 dal cielo in terra e una
morte in cielo,
"La sua uscita di là è il suo ingresso qui" , Eckhart, 1.132,
"Cadendo nel tempo, cadono e svaniscono", ibid., 244.
L'equivalente tecnico di (ut-) krama (= kramodaya, prasarana) è 'procedere, avanzare', rispetto ad avataraņa:
come quando tejas, l'energia ardente, procede (utkramya) nell'albero della vita, mentre si dirama nello
spazio, Maitrī Up., VII.11, o quando il Grande Yakşa che riposa sul dorso delle Acque è descritto come
"per intensione" (tapasi krānta) nell'albero del mondo, Atharvaveda, X.7.38. Quello che uscì, quella
incarnazione dell'Anno, Prajāpati, fu il "primo sacrificio".
Ora, avendo assunto la carne nella forma corporea del cavallo cosmico o dell'albero del mondo, la divinità
incarnata salverebbe dalla sua mortalità incalzata quel corpo che è la somma di tutte le esistenze. Egli
soffre quindi una Passione, cioè, intensione e morte, cioè "l'ulteriore sacrificio"; come sottolineato nel
verso conclusivo,
"si è sacrificato a se stesso",
e Ŗgveda, X.90.15, in cui gli "Angeli" (Persone della Trinità), agendo come sacerdoti sacrificali,
"sacrificati con il sacrificio al Sacrificio".
Quel concetto di sacrificio di sé e passione volontaria, intrapreso o sofferto fino alla fine perché la vita
possa essere resa più abbondante, ricorre nei Veda e nelle tradizioni di molti popoli. Qui abbiamo bisogno

preistoria ai giorni nostri. Chiari indizi di gravidanza sono riconoscibili allo stesso modo nell'iconografia della mariolatria
medievale.
66 Sulla connessione tra l'Intelletto (manas) e la vita del corpo, vedi Ŗgveda, X.58, un incantesimo usato per richiamare

l'Intelletto di un uomo sul punto di morte “affinché tu possa vivere e soggiornare qui”.
67 Come i poteri dell'anima sono chiamati "angeli", e tutti questi lasciando (utkram) il corpo alla morte, insieme ai cinque respiri

(prāņa), ritornano alla loro fonte. La radice kram può essere usata in connessione con qualsiasi cambiamento di stato (“ogni
cambiamento è un morire”): non solo di progressione ma anche di recessione, come in Maitrī Up., VI.30, dove atikramya è
usato con rispetto per ascendere dal Brahmaloka allo "stadio finale", para gati.
68 Per esempio, quando il Bodhisattva discende dal cielo della Tuşita per rinascere sulla terra, iscrizione di Barhut, bhagavato

ùkramti, vedi Barua e Sinha, Barhut Inscriptions, 1926, pp. 52-3. Cf. Ŗgveda, 1.164.19, “quelli che erano venuti qui (arvañc)
loro li chiamano partenti (parācah).”
di alludere solo al parallelo cristiano, la Crocifissione sull'Albero della Vita: la Croce, la santa Croce, è un
“albero”, l'Albero della Vita, il suo tronco l'asse-albero dell'essere, le sue braccia o rami tutte le estensioni
su ogni piano dell'essere,
“il dono di Dio è l'esistenza positiva di tutte le creature nella Persona di suo Figlio”, Eckhart,
1.427.
L'identità di Croce e Albero è troppo familiare per aver bisogno di una dimostrazione particolare qui,69
tuttavia la fraseologia di Böhme, Segnatura Rerum, XIV.32, può essere osservata:
"Ora il lampo, quando è accolto dalla libertà e dal fuoco freddo, fa sorgere una croce con la
comprensione di tutte le proprietà; poiché qui sorge lo spirito nell'essenza e sta così: Se tu hai qui
comprensione, non hai bisogno di chiedere altro; è l'eternità e il tempo, Dio innamorato e irato,
inoltre il paradiso e l'inferno."
Altrettanto consonanti con il pensiero dei Veda e delle Upanişad sono i commoventi versi di Swinburne:
L'albero dalle molte radici
Che svetta verso il cielo
Con fronde rosso frutta
L'albero della vita sono io ...
In me solo la radice è
Che fiorisce nei tuoi rami. . .
Il mio stesso sangue è ciò che tampona
Le ferite nella mia corteccia ...
L'efficacia del sacrificio rituale (karma, yajna), che il rituale intrapreso con un determinato fine in vista
procura in modo sicuro tale fine, non è affatto negato nelle Upanişad. Il fine in vista, tuttavia, è un
rinnovamento e un ingrandimento della vita, non un'assoluta emancipazione dalla mortalità. La sola
conoscenza, che sei tu, è la realizzazione dell'immortalità, in o indipendentemente da qualsiasi qui o ora.
Quindi c'è un sacrificio più alto, il suo, ya evarh veda, che intende il rito non solo come operazione imitativa,
come una cosa per-formata70 ma nella sua forma intrinseca come una cosa non-formata, ri-trasformata,
lì nell'estremo Empireo, il loto del cuore. E questo vale non solo per i rituali specifici, come il sacrificio
di cavalli o l'offerta di soma ma per tutte le funzioni della vita, che se vengono intraprese ciecamente e
intenzionalmente aumentano la somma della nostra mortalità ma se intraprese involontariamente e
altruisticamente ma in modo egoistico e con una comprensione dei loro equivalenti spirituali e
transustanziali, non sono affatto ostacoli ma piuttosto modi di illuminazione. Ciò che è qui coinvolto è

69 Per il simbolismo universale della croce, vedi René Guénon, La symbolisme de la Croix, Parigi, 1931. Si osservi anche che
la Croce è sia un 'albero' che un “palo” sacrificale. Allo stesso modo nei testi vedici il palo sacrificale (yūpa) viene spesso
definito come un albero (vanaspati, "signore della foresta", Ŗgveda, 1.13.11; 1.65.2; III.8; X.70.10). Come sottolineato da
Oldenberg, SEE, XLVI, p. 254, gli atti rituali associati all'allestimento del palo sacrificale "sembrano essere connessi con il
culto degli alberi antichi", cfr. i racconti di Śatapatha Brāhmana, III.6.4 e 7.1. Le tre parti del palo, della base, del centro e della
cima, corrispondono ai Tre Mondi (ŚBr, 111.7.1.14 e 25), cfr. Bŗhadāraņīyaka Up., II.2.1, dove “l’infante appena nato” (śiśu=
l’Anno del nostro testo) è paragonato al palo sacrificale, la sua base (ādhāna, cioè la parte posta nella terra) è questo (la Terra),
la sua cima (pratyādhāna) è (Cielo), il suo tronco (sthūņa) al centro (madhyamah) è lo Spirito (prāņa), il legatore (dāma) cibo (anna).
La stessa similitudine è implicita in Aitareya Āranyaka, II. 1.6, dove il linguaggio (vāc) è la corda (tanti), nomina il nodo
scorrevole (dāma) ... per cui tutte le cose sono vincolate. La corda e il suo nodo con il quale la vittima è tenuta sono descritti
più dettagliatamente in ŚBr., III.7.1.19 e 20 come "triplo" e come "cibo": è legato all'ombelico del palo (nābhidaghne, Taittirīya
Samhitā, VI.3.4.5) e pensato come l'abbigliamento del palo. In ŚBr., Loc. cit e Kausītaki Br., X.l, il palo è chiamato vajra. Questi
passaggi presi insieme bastano a dimostrare che il palo sacrificale era concepito come l'Albero della Vita, il corpo di Prajāpati,
il suo tronco l'asse dell'universo, il supporto di tutte le esistenze, per "sostenere l'esistenza" essendo davvero l'oggetto stesso
del sacrificio; ciò che è il sostegno di tutte le esistenze è anche il luogo della loro estinzione, in cui i respiri della vita sono
restituiti alla loro fonte, 'prāņāh a prāņa' così i Veda e le Upanişad esprimono ciò che è coinvolto nella nostra 'polvere in
polvere' . Alle braccia della Croce corrisponde la fune del Palo sacrificale; entrambi corrispondono al "cerchione" nel
simbolismo della ruota del mondo. I dettagli di questi simbolismi sono più ampiamente discussi in “Elementi di iconografia
buddista” [A. K. C.]. Per le rappresentazioni della croce cristiana come l'albero della vita, vedi W.L. Hildburgh, Una croce
pettorale medievale in ottone, Art Bulletin, XIV, 1932, pp. 79-102
70 Se Colui che comprende attui il rituale formalmente o no, è un problema indifferente. Il concetto stesso di vita (il "giro

quotidiano") come rito è esposto in Chāndogya Up., III.17.5, conclude dicendo che “La morte è un'abluzione dopo la
cerimonia (avabhŗta)”.
la trasformazione (paravŗtti, abhisambhava),71 o in termini di psicologia, sublimazione: in estensione
religiosa,
"Tranne che un uomo rinasce".
Tutto ciò che è ulteriormente sviluppato nella Bhagavad Gita, ad es. IV.27.32 e 33,
“Altri pensano che il loro sacrificio sia il funzionamento dei sensi (indriya-karmāņi) e tutti quelli
della vita (prāņa-karmāņi) e confidano nel fuoco della disciplina e dell’autocontrollo
(ātmasamyogāgnau) e che venga acceso per saggezza (jñāna-dīpite) ... molti e vari sono i sacrifici così
sparsi davanti al volto di Dio (Brahman), ma tutti questi sono per mezzo di opere, se lo capisci
questo è la tua liberazione; meglio del sacrificio di qualsiasi azione è quello della saggezza, qui
sono le opere annullate nella gnosi (jñāneparisamāpyate), mentre nulla rimane”.
Ritornando più direttamente al nostro testo, ciò che era il corpo del cavallo subisce la corruzione e “si
gonfia”,72 non è più un cavallo vivente, ma de-naturato [privato delle sue caratteristiche], il suo essere
cavallo (asvatva) è uscito da lui. La carne è diventata "cibo" e vita per altre esistenze, come prima spiegato.
L'intelletto, il principio dell'esistenza, il sé stesso nel Padre e nel Figlio, rimane incarnato, sebbene in
un'altra natura e in altre singole esistenze o permutazioni (parināma): poiché Quello:
“è indistruttibile, perpetuo, non nato, non eliminato, non ucciso quando il corpo viene ucciso”,
Bhagavad Gita, 11.20 e 21.
Quindi, proprio come abbiamo visto in precedenza, l'universo vivente non ha avuto un ‘primo’ inizio,
così ora si afferma in un altro modo che l'universo non ha fine, sicut erat in principio, et nunc et semper, in
saecula saeculorum.

71 Per quanto riguarda abhisambhava [abhi=verso, in direzione, superiore – sambhava= origine, nascita, fonte; causa], si veda ad
es. Chāndogya Up .., VIII.13, "con il sé perfezionato, mi conformo (abhisambhavāmi) al mondo increato di Brahman". Per
parāvŗtti [=girare, ritorno; scambio, baratto; inversione di un giudizio] ad es. maithuna, cf. Bŗhadāraņīyaka Up., VI, 4, e Maitreya-
Asariga, Mahāyāna Sūtrālamkāra, IX.46, anche il mio parāvŗtti = trasformazione, rigenerazione, anagogia, in Festschrift Ernst
Wintemitz, 1933. Parāvŗtti, 'trasformazione', ‘rovesciamento’, non dovrebbe essere confuso con parināma, 'permutazione', che
si svolge nell'ordine naturale.
Per illustrare esattamente cosa si intende per sublimazione, transustanziazione o trasformazione: «vedo i gigli nel campo, la
loro allegria, il loro colore, tutte le foglie ... il mio uomo esteriore assapora le creature, come vino, pane e carne ma il mio
uomo interiore assapora cose non come creature ma come dono di Dio. E ancora al mio uomo più intimo assapora non solo
il dono di Dio ma sempre e continuamente», Eckhart, 1.143. Il passaggio da uno all'altro di questi modi di percezione
costituisce una morte dell'anima.
72 Non è necessario attribuire qui importanza “all’etimologia” con cui la parola asva, "cavallo", è connessa con la radice sva,

"gonfiare". Derivazioni più plausibili derivano da "pervadere", "vagare in largo", "intervallo"; o meno probabilmente, come,
"mangiare", quindi, in modo preminente, "vivere".
7.

Egli concepì questo desiderio: « Diventi il mio corpo adatto al sacrificio. Possa io per mezzo suo avere
un altro me stesso». Allora diventò cavallo. Ciò che s'era gonfiato (aśvat), divenne adatto al sacrificio
(medhya). Questa è la ragione per la quale il sacrificio del cavallo si chiama aśvamedha. In verità conosce
davvero l’aśvamedha colui che lo conosce in tal modo.
Mentre lasciava libero il cavallo, si sprofondò nella meditazione.
Dopo un anno sacrificò il cavallo a se medesimo e offerse agli dei gli [altri] animali. Per questo la
vittima si offre a Prajāpati, [anche se] appartiene a tutti gli dei. Quel [sole] che lassù arde è l'aśvamedha;
l'anno è il suo corpo. Il fuoco terrestre è l'arka e i mondi sono i suoi corpi. Esistono l'arka e l'aśvamedha,
ma poi c'è una sola divinità ed è la Morte. [Chi così conosce,] trionfa della seconda morte, la
morte non può coglierlo, la morte diventa parte di lui, ed egli diventa una di queste divinità.
(trad. a cura di Carlo Della Casa)

Egli ha voluto, "Possa questo mio corpo essere rinnovato (medhya), possa io essere di nuovo il Sé
(ātmanvī). Con ciò è diventato-di nuovo (samabhavat) un cavallo (aśva). “Quel cavallo (aśva) è stato fatto
completo (medhyam-abhūd)”, pensò (iti). Questo è in verità l’intera-natura-del-cavallo (aśvamedhatva) del
sacrificio equestre (aśvamedha). Conosce davvero l'Aśvamedha, chi sa questo.
L’osservò intellettualmente (tam ... manyata), non trattenendolo.
Dopo che è trascorso un anno, lo ha sacrificato, cioè Puruşa come distinto da paśavah. Le altre bestie
sacrificali (paşu) consegnò agli Angeli. Perciò sacrificano la vittima dedicata a Prajāpati come se fosse
per i Diversi Angeli (saruadevatyam).
Il Sacrificio-che-è-il-cavallo (aśvamedha) è in verità colui che si intensifica (tapati); Egli-il-Sé è l'Anno,
Prajāpati. Questo fuoco sacrificale è la Lucentezza (arka): i Tre Mondi (lokah) sono le sue Ipostasi
(atmānah).
Grazie a questi due, la Lucentezza e il Sacrificio-che-è-il-Cavallo (aśvamedha), Egli è. Ancora una volta
diventano un solo angelo, addirittura la morte (Mŗtyu). Colui che lo sa, evita la mortalità (punar Mŗtyu),
la morte (Mŗtyu) non lo prende, la Morte (Mŗtyu) diventa Lui-Sé, di questi Angeli diventa l'Unità.
(traduzione dal testo inglese della traduzione dal sanscrito di A.K. Coomaraswamy)

Quest'ultima sezione dell'adhyaya descrive la risurrezione del cavallo, la perpetuazione della vita. Qui il
significato di medhya è di primaria importanza. La parola medhya è comunemente resa "sacrificale", "adatta
al sacrificio", ma questi significati sono secondari al senso primario di "abbigliamento", "forte",
"vigoroso", "intero", "virile", “privo di imperfezioni” Questi significati primari sono quelli validi nel
nostro contesto, perché il sacrificio è già stato fatto, e ora la vita è rinnovata: c'è una risurrezione e il
ritorno del cavallo, una nuova, rinnovata natura-cavallo, la “cavallitudine” è stata resa di nuovo intera .
“L’osservò intellettualmente”, “lo ricorda per tutto il tempo di un anno”: significa che ha mantenuto Lui,
questi Tre Mondi, nell'essere vivente attraverso il ciclo del tempo angelico, la vita di un Brahmā-Prajāpati,
che è un "giorno" del tempo supremo, durante il quale il Brahman "si sveglia". Il suo ricordo è la nostra
esistenza.73
Ma poiché l'anima "onora maggiormente Dio per essere stato abbandonata da Dio", "resta per lei essere
in qualche modo che Egli non è", "la piena intenzione di Dio" è che lei "ceda la sua esistenza", che
“significa la morte dello spirito”,74 così con strane parole prega “Signore, il mio benessere risiede nel tuo
e non mi è mai richiamato alla mente”, Eckhart, 1.274 e 376. Quel punto di vista è implicito nella
conclusione dell'adhyaya, dove Colui che Comprende evita la mortalità, diventa immortale in piena
identità (sayujya) con la Morte. L'immortalità non è la vita eterna ma non nascere mai, perché solo ciò che
non nasce non può mai morire:

73 Così con le opere in Dio: “pensa a loro e loro sono ... rimane con le creature per tenerle in essere", Eckhart, 1.238 e 427.
Cfr. Agni lokasmŗta, “che ricorda i mondi”, Maitrī Up., VI.35. Vedi anche nota 61.
74 Sarebbe in sanscrito letteralmente prāņasya nirvāņa, “de-spirazione del respiro della vita”: un ri-torno (nivŗtti) al suo modo

non modale che “respira senza respirare”, ānīt avāta, Ŗgveda, X. 129.2. Cf. aprāņa, "senza spirito" o "despirato", Mundaka Up.,
II. 1.2.
Assolutamente la morte trascende l'esistenza e la non esistenza, sat e asat in una sola volta, tutto il bene e
il male. Nel frattempo, l'esistenza è il bene primario, la ragion d'essere del sacrificio,
"nessuna cosa può desiderare di non esistere",
Egli non può, in Persona, volere la non esistenza dei suoi mondi prima della fine del tempo
“questi mondi sarebbero distrutti se Io non lavorassi alle opere”, Bhagavad Gita, III.24,
ed ha voluto poter avere dominio fino alla fine per poter “lavorare alle opere”, Brihadāranyaka Up.,
1.4.17. Si noti che "lavori", karmāņi √kŗ, è anche un'espressione tecnica equivalente a "compiere sacrifici",
"celebrare uffici".
«Non trattenendolo»: cioè, permettendo al ciclo dell'esistenza, al nostro “processo di evoluzione”, di fare
il suo corso senza interferenze, soggetto solo alla naturale consequenzialità degli incidenti, al lavoro
latente (apūrva) e imprevisto (adŗşţa) di eventi passati. Come abbiamo già visto, ciò che Egli concede è la
vita (prāņa), non la modalità o la specie:
"Non emana né azione né azioni", na kartŗtvanna karmāņi sŗjati, è la natura propria di ogni cosa che
opera ", svabhāvastu pravartate, Bhagavad Gitd, V.14,
"quale dovrebbe essere il punto d’equilibrio?" nigrahah kim karişyati, ibid., III.33,
La saggezza sta nella consapevolezza che non è "Io", non "Sé" che agisce,
“Io non faccio nulla” dovrebbe essere inteso come colui che regge le briglie75 e conosce la realtà
implicita, naiva kimcitkaromīti yukto manyet tattvavid, ibid., V.8,
agendo così senza legami, “volontariamente ma non con volontà” di Eckhart, è liberato dalle coppie
(nirdvandvah ) sciolto dalla schiavitù (bandhāt pramucyate), V.30, raggiungendo, nei termini del nostro testo,
la Libertà (adititvā) di Aditi.
Quindi, alla fine “dell’anno”, cosmico o terrestre, a seconda dei casi, il cavallo viene sacrificato, i suoi
respiri vitali tornano a lui di cui è l'immagine, non come è nell'ipostasi (dvitīya ātmah), ma nell’Unità, là “il
Figlio è perso nell'unità dell'essenza”, Eckhart, 1.275. Proprio come tutte le "anime" (bhūtānī) sono
ritornate nella Sua natura universale alla fine dei tempi, Bhagavad Gitā, IX.8, così “l’anima” del cavallo è
riportata alla sua origine quando viene ritualmente uccisa: ciò è fatto con un fine in vista, quella vita può
essere rinnovata, proprio come all'inizio del tempo, in qualsiasi momento, nella primavera “dell’anno”,
tutte le "anime" sono di nuovo riversate dalla loro latenza in lui, ibid.
L'Aśvamedha cosmico è la Passione voluta dalla divinità incarnata, la Seconda Persona generata (dvitīya
ātman), questo suo ulteriore sacrificio è una negazione della volontà di vivere, come la prima era la sua
affermazione. Ma questa Passione e la morte formalmente intraprese non sono senza fine in vista, anche
questa è un'opera desiderosa, kāmya karma, e come tale avrà le sue conseguenze in una rinnovata
manifestazione della vita, in un altro Tempo, quando un altro Sole, un altro Cavallo, sarà versato (visŗşţi).
L'Aśvamedha terrestre è l'enunciazione solenne di quella Passione, al fine analogo che la vita può essere
rinnovata, resa vitale, rafforzata e continuata qui e ora, "chiedo il seme del cavallo maschio".
Colui che intraprende il rito di conseguenza, con un occhio ai suoi frutti, vince la pienezza della vita sulla
terra (cento anni, nell'analogia dei suoi 'cento anni'), ricchezza, prole, bestiame, qualunque cosa egli
desideri qui, e quindi anche il mondo dei Patriarchi, dopo la sua morte: non è un'emancipazione finale,
perché la ricompensa naturale delle opere interessate è inevitabile, deve tornare di nuovo alla rinascita,
punar apādana e altre morti, il punitore Mŗtyu. Solo chi conosce, chi comprende, chi realizza e così esegue
il rito intellettualmente, chi conosce il Sé-evidentemente che il cavallo è transustanzialmente Prajāpati,
l'Anno, il Figlio, vince ora o nel tempo opportuno, secondo la perfezione della sua realizzazione, tornando
all'Intelletto, al Brahman, ed è così liberato, egli non accetta la mortalità, essendo uno con la Morte, nella
e della Suprema Identità, Un Angelo.
“Difende l'immortalità”, allora cosa? Cioè, in ultima analisi al di là della nostra comprensione, che può
estendersi solo all'operato delle Persone, che è al di là della comprensione di Dio stesso come Persona,
"egli sa o non sa", come il Ŗgveda, X.129, 7, lo esprime. Poiché la cosa conosciuta è nel conoscitore

75Yukta lo “yogi, uno che ha uniformemente sospeso calore e freddo, piacere e dolore, reputazione e discredito, ecc.”,
Bhagavad Gita, VI.7 e 8, lo stesso di “uomo ragionevole” in Eckhart –“Uno che è controllato nella gioia e nel dolore, io
chiamo un uomo ragionevole”, 1.460,”impassibile nel benessere o nel dolore o nella ricchezza o nel desiderio ', 1.56.
Per l'uso di yuj in questo senso, cf. Ŗgveda, V.46.1, "Come un cavallo che conosce, mi aggiogo (svayam ayuji) al polo del carro,
non desiderando né liberazione né ritorno": una sorprendente "anticipazione" dei modi di pensare "successivi".
sempre e solo secondo il modo del conoscitore, l'esistenza può conoscere solo dell'esistenza. È solo,
senza un secondo che potrebbe conoscere, o da chi potrebbe essere conosciuto. Quindi, solo lui "sa" io
sono Brahman "diventa questo Tutto. . . chiunque adori un Angelo diverso da lui - il Sé, pensando "Lui
è uno e io un altro", non lo sa, può essere paragonato solo a un animale sacrificale adatto ad essere offerto
agli Angeli, Bŗhadāraņīyaka Up., 1.4.10.76
Ciò che si trova al di là dell'ordine della natura, sulla sponda più lontana del tempo, viene paragonato dai
Veda al sonno senza sogni o al quarto stato di sonno e veglia simultanei; ciò corrisponde nella fraseologia
cristiana “all’ozio” o al "silenzio" e alla simultaneità del riposo eterno e del lavoro eterno. Nulla di ciò è
comprensibile alla ragione, essendo inesprimibile in termini di tesi e antitesi. Vediamo nondimeno ciò
che i veggenti vedici e cristiani hanno detto di questo stato di essere primordiale e senza forma.
È implicito nella dottrina della riflessione, che il Sé è presente nel mondo nel corso del tempo, e che
l'immagine del mondo e tutto ciò che è in esso è allo stesso modo presente al Sé nel tempo,
“Lui, Varuna, conta il battito delle ciglia negli occhi di uomini”, Atharvaveda, IV 16.4,
“non un passero cade a terra senza la conoscenza del Padre”,
ciò che questo comporta per l'individuo è spiegato molto chiaramente nella nostra Upanişad, III.2.12,
dove si dice che quando un uomo muore:
“ciò che non esce da lui è il nome (nāma, 'noumeno'), che è senza-fine (ananta) e, poiché chi-è-
senza-fine sono i vari angeli, quindi ottiene di conseguenza il mondo senza fine”.
I Diversi Angeli sono la Trinità delle Persone, come spiegato di seguito. La nozione del "nome" deve
essere inteso in connessione con quella dottrina della Parola, vāc, e quella dell'enunciazione, vyāhŗti, dei
mondi: "'Nome' è 'idea', e ciò che si intende con l'infinità dei nomi nella loro persistenza come prototipi
degli atti77 nella coscienza che è il Sé, il cui ricordo (manana) è la nostra esistenza (sthiti).
Questa è una persistenza, come per "l'arte nell'artista" (Eckhart, 1.285), nell'Intelletto Triuno, o Ālaya-
vijnāna buddhista, che Eckhart chiama il nostro
"deposito di idee e forme incorporee", 1.402,
“L'arte di Dio”, 1.461,
“tutte le creature nel loro modo naturale sono esemplificate nell'essenza divina”, 1.253.
Quell'eternità di prototipi individuali di tutti gli incidenti dell'essere non è affatto la stessa cosa di
un'immortalità individuale dell'anima, come ora concepita, in nessun modo una ricompensa, ma
puramente astratta e "nominale". Ciò è evidenziato molto chiaramente nella Kausītaki Up., 11.12-15,
dove l'immortalità dei poteri angelici dell'anima non è rispetto alla loro specifica integrazione come un
dato individuo, ma rispetto al ritorno dei vari poteri o elementi di coscienza alla loro unica fonte nel Sé
conoscente, quasi letteralmente nelle parole di Eckhart
"che combina con ogni potere divino lei è quel potere in Dio", 1.380.
Quella perdita di creatura, e quindi la perdita di Dio come oggetto esterno della devozione Eckhart la
chiama

76 Ya evam vedāham brahmāsmīti sa idam sarvarh bhavati.. .yo' nyāih devatāmupāāste' nyo 'sāvanyo'hamasmīti na sa veda, yathā paśurevam sa
devānām, Bŗhadhraņyaka Up., 1.4.10.
77 Le idee vediche sono tipi non di "cose", ma di azioni; quindi non esattamente uguali alle idee platoniche, ma corrispondente

ai tipi di Aristotele come capiti dagli studenti. 'I nomi sono tutti derivati dall'azione', Bŗhad Devatā, I. 31 e Nirukta, 1.12.
'Poiché crea l'attività di tutto (visva), è chiamato Visvakarma', Bŗhad Devatā, 11.50. L'identità di nāma e karma come fattore
trasmigrante è rimarcata da Keith, Rel. e Phil of the Veda, p. 507: cfr. anche l'opposizione di nāma e guna nel sistema Mīmāmsā.
Per la visione che una cosa è ciò che fa, vedi anche Vasubandhu, Abhidharmakosa, 11.56 d, Poussin, p. 289 e cf. dharmā (pi.)
come "principi" e dharma-cakra-pravartana come equivalenti “all’enunciazione della Parola”, Saddharma Pundanka, passim.
Nāma-rūpa, costituendo, l'unità dell'individuo, sono spesso resi "nome e forma", ma qui nāmais è la vera "forma": la
combinazione Nāma-rūpa corrisponde realmente a "anima e corpo", come quando, distinguendo la forma dalla sostanza,
diciamo "l'anima è la forma del corpo". Nāma = Lat. forma, greco eidos; rūpa = Lat. figura. Cf. Mainonides, guida. . . III.8, "La
forma può essere distrutta solo accidentalmente, cioè a causa della sua connessione con la sostanza, la cui vera natura consiste
nella proprietà di non essere mai senza una disposizione a ricevere la forma". Keith, Aitareya Āranyaka, p. 239, nota 2, osserva:
"Persino il rūpam buddista non è una concezione significativa". Certo che no: la concezione significativa è nāma, rūpa è
semplicemente l'aspetto sensibile. È vero che rūpa, come il termine 'forma', può essere usato sia in riferimento a oggetti
intelligibili che sensibili ma quando si vuole dare un “significato specifico alla forma”, rūpa è generalmente distinto da un
determinante adatto, come in svarūpa, 'forma intrinseca ', o antarjneya rûpa,' immagine mentale '. Nāmais noumenon, fenomeno
rūpa.
"la morte più bassa dell'anima sulla via della sua divinità", 1.274.
Non intendiamo dire che una perpetuità (sthāyitā) della coscienza individuale senza un ulteriore
cambiamento di stato durante una parte o tutto il tempo, e corrispondente più vicino all'idea popolare di
immortalità, è esclusa dalle possibilità dell'esistenza. Al contrario, tali perpetuità sono previste come
raggiungibili da coloro che non sono ancora Comprensori, ma che sono in grado di capire o di aver
acquisito il merito con le buone opere. Tale perpetuità è su uno o l'altro dei piani inferiori dell'esistenza
angelica, dove gli angeli-per-le opere godono dei frutti delle opere.
Qui nel migliore dei modi si raggiunge il paradiso dell'Empireo per ritrovarsi nel suo eterno prototipo, il
"nome" scritto nel Libro della Vita, l’anima stessa com'è nel Figlio manifestato.
“Lì, quando spegne la sua natura creata, lampeggia il suo prototipo non creato (= nāma) in cui
l'anima si scopre nell'increatezza… secondo la proprietà dell'immagine”, Eckhart, 1.275.
Cioè, si trova nell'esempio, Cristo, Agnello, Cavallo, Prajāpati, l'Anno, nel suo
“potenziale, la sua natura essenziale, intellettuale … rivelata nella sua la perfezione, nel suo fiore,
dove germoglia dapprima nel terreno della sua esistenza e tutti concepiti dove Dio concepisce se
stesso: questa è la felicità”, Eckhart, 1.290 e 82.
L’essere è "uno con Dio che opera" (pravartana),
"Le creature sono i suoi sudditi, tutti sottoposti a lei come se fossero opera sua", Eckhart, 1.290.
“Lì perfetta, matura e intera è ogni desiderio; solo in essa c'è ogni parte, là dove è sempre stata,
perché non è nello spazio né ha i poli », Dante, Paradiso, XXII. 64-67.
Ivi è perfetta, matura e intera
ciascuna disïanza; in quella sola
è ogne parte là ove sempr’ era,
perché non è in loco e non s’impola;
Lì la volontà, essendo quasi nauseata, è quasi libera; perché, come Boezio lo esprime,
" più la cosa è vicina alla Prima Mente, meno è coinvolta nella catena del destino";
cioè, più vicina qualsiasi coscienza può essere al centro del giroscopio del divenire causale, samsāra, bhava-
cakra,78 tanto meno la coscienza è determinata o vincolata da necessità esterne, più è autonoma. Ma per
quanto gloriosa, per quanto desiderabile possa essere una tale proprietà, qualunque felicità oltre
l'immaginazione (Bŗhadāraņīyaka Up., IV.3.33, Taittiriya Up., II.8), come
“questo non è il culmine dell'unione divina, quindi non è il luogo abituale dell'anima”, Eckhart,
1.276, cfr. 410,
“che è un luogo di riposo (viśrāma), non un ri-torno (nivŗti)”,
in realtà “non c'è estinzione (nirvāņa) senza onniscienza (sarvajña)”, Saddharma Puņdarīka, V.74.75,
"non fino a quando non sa tutto ciò che deve essere conosciuto, passa al bene sconosciuto",
Eckhart, 1.385.
Quindi questo non è né dal punto di vista indiano né da quello cristiano una fine. Perché quella
“natura eterna in cui l'anima trova il suo modello è caratterizzata dalla molteplicità – le
persone sono in separazione ... Ora Cristo dice: Nessun uomo viene al Padre se non per mezzo
mio”... Anche se il luogo che dimora nell'anima non è in lui, deve, come dice lui, attraversarlo.

78 Le similitudini indiane della ‘ruota delle parole’ (word-wheel) e della ‘ruota del mondo’ (world-wheel), un'immagine meccanica
ma vivente che equivale a quella del cavallo cosmico e dell'albero del mondo e più specificamente alla rivoluzione “dell’anno”,
richiedono un trattamento più dettagliato di quello che può essere dato qui in breve, " lo comprendiamo come una ruota con
un solo mozzo e con una triplice ruota", Svetāśvatara Up., 1.4: una ruota, cioè, di cui il mozzo è essenza e la natura volubile,
"tripla" rispetto ai tre guņas. Cf. Eckhart, 1.357, "Questo cerchio ... è tutto ciò che la Trinità ha mai commesso. Perché il
lavoro della Trinità chiama un cerchio? Perché la Trinità ... è l'origine di tutte le cose e tutte le cose ritornano nella loro origine.
Questo è il cerchio in cui scorre l'anima ... Quindi lei gira in una catena infinita ... Finita la sua ricerca, ritorna al centro. Questo
punto è il potere della Trinità che, immutata, sta facendo tutto il suo lavoro. In ciò l'anima diventa onnipotente… Questo è il
punto immobile e l'unità della Trinità. La circonferenza è il lavoro incomprensibile delle Tre Persone… L'unione delle persone
è l'essenza del punto. In questo punto Dio corre attraverso il cambiamento senza alterità, coinvolgendo l'unità dell'essenza, e
l'anima come un tutt'uno con questo punto fisso è capace di tutte le cose". O ancora, Eckhart, 1.56. "Il cielo vicino all'eterno
ora, in cui sono gli angeli, è immobile, immobile… Il paradiso in cui si trova il sole, mosso dalla forza angelica, gira intorno
una volta all'anno. Il paradiso in cui si trova la luna, di nuovo, è guidato dalla forza angelica e gira una volta al mese. Più è
vicino all'eterno ora, più sono immobili, più lontani e più dissimili dall'eterno ora più facili da muovere in modo che ruotino
in questo tempo ora ... tutte le cose ottengono la loro vita e il loro essere dal movimento lì impartito dall'eterno ora”.
Questa rottura è la seconda morte dell'anima ed è molto più importante della prima”, Eckhart,
1.275;
“ci invita ad entrare dalla porta della sua emanazione e ritornare nella fonte da cui siamo venuti
fuori ... il cancello attraverso il quale tutte le cose ritornano perfettamente libere alla loro felicità
suprema”, Eckhart, 1.400.
Questo risponde all'immagine Vedica del Sole Superno, Āditya, come il cancello tra i mondi (loka-dvāra),
per cui vi è un'entrata (prapadana) e per chi Comprende porta in Paradiso (prānārāma, campo di giochi
dello Spirito) ma è una barriera (nirodha) per lo sciocco (avid), Chāndogya Up., VIII.6.6;79
“non vi è alcun accesso da nessuna parte per quel sentiero qui nel mondo”, Maitrī Up., VI. 30;
“Puruşa, della forma del Sole ... solo conoscendolo, si passa sopra la morte”, Svetāśvatara Up.,
III.8.
È anche come Sole-Supremo che Vişņu è chiamato il "guardiano delle porte" degli Angeli e apre, per chi
comprende, questa porta sacrificale, Aitareya Brāhmana, 1.36.
“Agni si alzò in alto, toccando il cielo: aprì la porta del mondo dei cieli, in verità Agni è il signore
del mondo dei cieli”, ibid., III.42,
corrisponde al "mito" dell'ascensione e dell'essere Cristo seduto alla destra del Padre. Kristos e Agni,
Figlio di Dio e Sacrificio riflessi sul Sole-Supremo, sono quell'Angelo con la Spada Fiammeggiante che
custodisce le porte del Paradiso e un Capo-guida sullo stretto sentiero che conduce attraverso le acque
superiori e inferiori al Regno del Sacro Graal. Dopo essere passato per gradi, l'uomo perfezionato (sukŗta),
emancipato dalla modalità individuale, si mette finalmente al suo posto con Brahman sul
«“sedile Lontano splendente” ... che è “Saggezza” (prajna) ... e il “trono della vita senza limite”...
e per lui Brahman dice: Le Acque sono in verità il mio mondo e sono tue ", Kausitaki Up., 1.3-7.
Quindi entra nella Signoria (aiśvarya) su tutte le possibilità dell'esistenza.
Ma quel Plenum (pūrņa), quella Saggezza (prajñā), quel Sé (ātman) e lo Spirito (prāņa) non sono la fine.80
Rimane per l'anima così persa e tutt'uno con (sāyujya) il Padre un'ultima morte parimara, parinirvāņa, fanā
al-fanā, "Annegamento" e "Despirazione": lì dove
"Dio stesso abbandona il fantasma ... dimorando a se stesso sconosciuto, in agnosia e a-
percezione"
l’anima deve rinunciare a sé stessa e a Dio in Sé in un nulla del loro "nome" comune e "aspetto" intrinseco
coincidente, là deve abbandonare "nome e aspetto", comunque idealmente concepito ...

79 Cfr. Bŗhadāraņīyaka Up.,V.15, dove si dice che l'ingresso (mukha) alla verità (satya) è chiuso dal globo dorato (pātra) e si fa
preghiera a Puşan per scoprire quell'ingresso, lui il cui principio (dharma) è la Verità (satya).
Chāndogya Up., V.10.2, dove una Persona Superumana (amānava purușa), che è Agni-vaidyuta, “del Fulmine”, “li conduce al
Brahman e questo è il viaggio angelico.”
Allo stesso modo nella Jaiminīya Upanişad Brāhmana, 1.5, il passaggio è rappresentato prima come interdetto all'anima su basi
etiche, ma quando risponde all'Angelo (Agni, o Agni-Rudra), “Tu eri, non “io” a fare queste azioni”, si dimostra uno che
Comprende il Sé, dimostra che è emancipata dall'individualità e dimostra che, come la sua guida, è amānava, non pensa più nei
modi umani e la via si apre. La dottrina relativa alle "Opere" della Bhagavad Gita è identica, sebbene sia presentata con una
certa coloritura devozionale: quindi, III.30, "Gettando tutte le tue opere su di Me", IV. 13: "Io (Dio) sono colui che fa le opere
ma non mi contaminano perché non ho fini da raggiungere", IV.36, "Anche se sei il più malvagio di tutti i peccatori, puoi dalla
nave della Comprensione essere portato attraverso tutto il male", V. 10,"Colui che nel fare le opere pone le sue opere sul
Brahman e mette via l'attaccamento è senza macchia", VI.29," Chi mi vede in tutte le cose e tutte le cose in Me, io non sono
perso per lui né lui per me. "Questi sono equivalenti metafisici delle dottrine religiose di perdono e remissione dei peccati o
di salvezza per fede, ecc…”Venite a Me, voi tutti che siete stanchi e carichi di peso (sc. fardello del peccato) e vi darò riposo”.
Se dal punto di vista religioso o etico si obietta che nella formulazione metafisica non si dice nulla sul pentimento, la risposta
è che, proprio la Comprensione con cui la nozione di individualità (abhimana, ecc.) è trasformato, è in se stesso e letteralmente
un pentimento, un allontanamento (nivŗtti) da questi mondi in cui solo i valori morali sono validi.
80 L'unione con Brahmā, o con il Buddha in gloria (Sambhogakaya), sebbene implichi una condivisione del trono e della sovranità

di Dio, è sempre chiaramente distinta dalla liberazione (muktī, nirvana), cfr. Sāyana su Aitareya Āranyaka, II.3.7 (citando anche
Brihadāranyaka Up., IV. 1.2) e Sańkarācārya sul Brahmā Sūtra, IV.4.22. Ciò è reso molto chiaro anche in Maitrī Up., VI. 30,
dove colui che Comprende passa attraverso la regione solare fino al mondo Brahmā e là oltre alla "stazione definitiva", para
gati. Nel Buddhismo, si sottolinea che anche il più alto dei paradisi di Buddha (piano Sambhogakaya), è solo un luogo di riposo
(visrama), non un Ritorno (nivŗtti) Saddharmar Pundarika, V.74.75. Similmente per Eckhart, 1.274.276, l'anima nei cieli non è
ancora morta ed è uscita in ciò che segue l'esistenza creata ... poiché questo non è il vertice dell'unione divina, quindi non è il
luogo abituale dell'anima.
“Tutto deve andare. L'anima deve sussistere nel nulla assoluto ... La terza natura da cui l'anima va
è la natura divina esuberante che energizza nel Padre ... l'anima deve morire per tutta l'attività
denotata dalla natura divina se è sta per entrare nella divina essenza dove dio è del tutto ozioso..81
Questa immagine suprema è il paradigma in cui l'anima è portata dal suo (ultimo) morire. . . morto
e sepolto nella Divinità e la divinità vive per nient'altro che se stesso”,82 Eckhart, 1.2748.
Così anche Blake,
“Andrò all'auto-annientamento e alla morte eterna, perché il Giudizio Universale non venga a
trovarmi non annichilito e io essere catturato e consegnato nelle mani del mio stesso io.”
Questi detti non sono più strani né più particolari di quelli che si trovano nelle scritture indiane e
corrispondono a ciò che viene detto quando questa Upanişad parla della Morte come ultimo fine e
significato della nostra vita, o quando il Sunyavadin esaurisce le categorie di negazione nel definire il vero
obiettivo dell'uomo. Questa è la Libertà dell'Infinito, aditer-adititva, Brihadāranyaka Up., 1.2.5,
“libero come la divinità nella sua non esistenza”, Eckhart, 1.382:
“Quando torno nel terreno, nelle profondità , nella sorgente della divinità, nessuno mi chiederà
da dove sono venuto o dove sono andato”, 1.143.
“Questo fine è nascosto nell'oscurità della Divinità eterna ed è sconosciuto e non è mai stato
conosciuto, e non sarà mai conosciuto", Eckhart,
essendo83 nella sua natura e per definizione inconoscibile. Là, il Sé, il nostro Sé e il Sé in Sé, entrambi
dormono e si svegliano, vedono e non vedono, al contempo fonti e flusso, modesti e modificati, perché
è tutto uguale per l'Indiscriminazione Suprema. Anche se parliamo di quello che dorme e di quella veglia
come le notti e i giorni del tempo supremo, quella notte e quel giorno, l'oscurità e il sole, non sono come
i nostri in successione, ma simultanei. Perché là, non c'è distinzione tra la potenzialità sconosciuta e l'atto
cosciente: questo è precisamente ciò che significa il vedico ka, non possiamo capirlo, procede dalla
potenzialità all'azione poiché pensiamo all'essere solo in termini di coscienza.
Ciò che non possiamo comprendere non è quindi lontano da noi,
“Il cielo è in tutti i punti equidistante dalla terra", Eckhart, 1.172;
più vicino e più caro, annidato nel loto del cuore, inaccessibile alla conoscenza che sei tu. Sia che pensiamo
al "Ciò" che è il Se come formato nella Persona, sia alla Persona come al Sé-indipendente, senza nome,
senza forma, è tutto Un Angelo, Uno che trascende conoscente e ignaro, gnosi e agnosia.
“È proprio come questi fiumi che scorrono verso il mare, il loro nome e aspetto sono annullati,
si parla solo di «Mare»” Praśna Up., VI.5:
“come la goccia diventa l'oceano ... quindi l'anima che assimila Dio si trasforma in Dio ", Eckhart,
1.242.
Nelle parole di Ruysbroeck,84
“attraversa tutti i mondi dell'essere. . . i fiumi si riversano incessantemente in questo oceano… da
dove non c'è ritorno… un abisso di oscurità, insondabile, senza limiti e senza qualità, al di sopra
dei nomi delle cose create, al di sopra dei nomi di Dio… senza nome, eppure il punto centrale in
cui tutti i nomi sono uno. È la cresta della montagna dello sforzo umano e l'abisso dell'essenza
trascendente”
cioè
“E 'n la sua volontade è nostra pace:
ell'è quel mare al qual tutto si move
ciò ch'ella crïa o che natura face». Dante, Paradiso, III.85-6.
"Il suo, in verità, è quel suo aspetto (vero) che è al di là dei desideri, libero dal male, senza paura.
Come un uomo rinchiuso nell'abbraccio di una cara sposa, non sa nulla di un dentro né di un
altro, così la Persona, abbracciata dalla Saggezza, dal Sé, non sa nulla di un dentro né di altro ... il
81 “Guarda! Dio de-spirato” (aprāņa, nir-vāta), Eckhart, 1.469. Tirumūlar, "si perdono e diventano inutili".
82 Cfr. Brihadāranyaka Up., II.4.1, "è solo per amore del Sé che tutte le cose sono care": cioè "nell'amore in cui Dio ama se
stesso in ciò che ama tutte le cose ... nella gioia in cui Dio si diverte, qui gode di tutte le creature", Dio è in tutte le cose intento,
"l'uomo buono ... formato a immagine di Dio ... ama per il suo bene" , Eckhart, 1.142.380 e 66, "l'amore è per l'amante e torna
più a lui ... solo alla fine riesce a soddisfare l'anima" , Walt Whitman.
83 Dalla versione di Claude Field dei Sermoni selezionati, p. 28.
84 Ornamento del matrimonio spirituale, passim.
suo desiderio è soddisfatto, il Sé è la sua volontà (kama), senza volontà (akāma), senza cura. . . . Lì
il padre non diventa un padre; una madre non una madre; gli angeli non angeli; i Veda i non Veda;
un ladro un non ladro ... non è seguito dopo dal merito né dal demerito, perché ha oltrepassato
ogni angoscia del cuore ... vede anche se non vede ... sa anche se non ha gusto, parla anche se
non parla, tocca anche se non tocca", Brihadāranyaka Up., IV.3.21-9.85
"Là", come cita Eckhart, 1.360, nel "Libro dell'amore",
"là io ho sentito senza suono, là ho visto senza luce, lì ho respirato senza movimento, ho
assaggiato cose che non avevo mai gustato, lì ho toccato ciò che non avevo mai toccato. Allora il
mio cuore era senza fondo, la mia anima senza amore, la mia mente senza forma, e la mia natura
senza natura."
Là dove il Vuoto brilla nel Vuoto, Profondo risponde al Profondo, irraggiungibile dal pensiero ma tutto
incluso nel loto del cuore, c'è la Suprema Identità, fonte e fine della vita, un solo angelo, addirittura la
morte, il padre della vita.
Sussurri di morte celeste mormoravano. Li ho sentiti ...
Avresti ora il coraggio, o anima,
Di uscire con me verso la regione sconosciuta,
Dove non c’è terreno per i piedi, né alcun sentiero da seguire?
Tutto attende il non sogno di quella regione, quella terra inaccessibile.

85Quello che respira senza agitazione, ānīt avāta, Ŗgveda, X. 129.2: 'vede senza occhi', paśyatyacakşuh, Svetāśvatara Up., III. 19;
'Vede senza vedere', pasyaty apaśyanayà, Saddharma Puņdarīka, prosa, p. 317. Si potrebbero citare altri paralleli.

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