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ANCHE IL NOBEL AL CAPOLINEA

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Maurizio Blondet 7 Maggio 2018 0 May 7, 2018

Certo che l’interruzione del Nobel per la letteratura è un potente segno dei tempi.
Indica la crisi della laica consacrazione suprema occidentale, con cui il Luteranesimo si
faceva pietra di paragone assoluta dei “valori” indiscutibili. Ricevere un Nobel, anzi
“essere” un Nobel (il verbo “essere” imprime un carattere ontologico, sacramentale)
voleva dire incarnare l’autorità superiore, anzi massima; inconfutabile perché – nel
mito che l’Accademia svedese ha instaurato – oggettiva, imparziale e pura, scesa
dall’empireo luterano. Ciò ovviamente riusciva meglio per le scienze che per la
letteratura (e non parliamo del “Nobel della Pace”). Ma oggi che il Nobel letterario
non venga attribuito perché il marito di una giurata palpava le impiegate – anch’esso
un segno dei tempi a suo modo – suona una scusa. Probabilmente, volta a
nascondere che la giuria, ormai, praticava la corruzione, bustarelle, mercato delle
vacche di un qualunque premio letterario.

Un altro motivo, più profondo, può


essere la disperata scarsità di autori
premiabili. Già la premiazione a Dario fo
e a Bob Dylan mostrava che si raschia il
fondo del barile, in mancanza di grandi
romanzi, si pesca tra i clown e i divi del
pop.

Se l’ipotesi è vera vedremo negli anni


prossimi, se questa del 2018 è solo una
interruzione oppure una cessazione. Katarine Frostensen, la giurata, con il marito
Sarà la presa d’atto che la sterilità palpeggiatore Arnault

creativa, che cresce così visibilmente


attorno a noi nelle “arti visive”, ha
raggiunto ormai anche scrittura e la parola.

Sarebbe il vero exitus di quella che il grande storico (o piuttosto, psicopatologo)


dell’arte, Hans Sedlmayr, ha chiamato “l’arte nell’epoca dell’ateismo”, e di cui ha
identificato il carattere, essenzialmente, come una dissociazione.

Perdita del centro


“Tutte le arti sono partite da un centro comune, nel quale e mediante il quale erano
un tempo collegate tra loro”: pensava alla cattedrale, che chiamava al suo servizio
architettura e pittura, scultura ed arte delle vetrate, arazzi e musica, unificandole. Con
l’avanzare dell’ateismo, dal ‘700, ogni arte rivendica la propria autonomia, non vuole
più “servire” altro che se stessa e la sua propria essenza. L’architettura diventa “puro
costruttivismo che corrisponda a scopi materiali”, razionalista, per l’uomo “che vive di
solo pane”; allora si sente come “ornamento” (superfluo) tutto ciò supera il
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costruttivismo, fino al proclama “L’ornamento è delitto” di Adolf Loos, che ha portato
a città dense di “delitti senza ornamento”(Arbasino). Nella pittura, questa volontà di
emancipazione da tutto ciò che la rendeva “impura” è stato una rivoluzione totale: i
pittori rifiutano il soggetto, il significato; di dipingere “storie” (cosa c’entra la narrativa
con il colore?), rifiutano la plasticità, il chiaroscuro (roba da scultori), la prospettiva (da
architetti); rigettano ogni elemento sentimentale, sensuale, fantastico, mitico e
tradizionale. La “Madonna col Bambino” diventa “donna che allatta” e poi “dinamismi”
futuristi o macchie di colore. Al fondo, c’è l’astrattismo di Mondrian, il quadrato nero
su fondo bianco di Malevic, l’informale che non significa più nulla – e non interessa
più nessuno se non i mercanti “d’arte contemporanea”, ossia “i mercati”.

La musica ha intrapreso la stessa via della “purezza” ed autonomia con Schoenberg –


obbedire solo alle proprie norme interne, fino a rendersi volontariamente
inascoltabile: via il “popolo” coi suoi sentimentalismi, parliamoci fra noi musicisti…e
fu il jazz, la musica negra, il rock e il pop, con l’impressionante fenomeno di un
Occidente che getta nella discarica il suo proprio, millenario linguaggio musicale
“classico” per adottarne un altro. E’ come se un popolo smettesse di usare la lingua
dei suoi poeti (Dante) per adottare quella di Bob Dylan o dell’arabo immigrato. Cosa
che, dopotutto, sta avvenendo.

Sedlmayr nota che l’età dell’ateismo ha un effetto dissociativo dovunque: “Anche


l’uomo, adesso, viene considerato come un insieme di funzioni di diverse specie, prive
di un senso spirituale”. E’ l’epoca degli specialisti, dei tecnocrati, ma anche degli
smembratori di corpi umani: da Picasso all’artista svizzero che espone cadaveri
plastificati, allo stregone nigeriano che tronca con perizia la ragazza italiana, non c’è
un gran passo, dopotutto. Nell’età dell’ateismo “L’uomo è sempre meno in grado di
mantenere la propria immagine”, Daumier la deforma in caricatura feroce, Picasso la
scompone in elementi astratti da cui lascia emergere solo i peli pubici osceni, taurini e
da vacche-puttane. “L’immagine dell’uomo diventa estranea a se stessa”, già
diagnosticava Sedlmayr negli anni ’40, “si abbassa fino a un livello delle cose più
morte”.

Verso l’inorganico
La dissociazione dal centro comune unificante, ha infatti il decorso del cadavere che si
scompone dall’organico all’inorganico, dal biologico agli elementi chimici e minerali
che componevano la vita. Parallelamente, viviamo in un “Mondo che si raffredda” ed è
percorso da sinistri, “demoniaci” lampi anarchici, caotici, nichilisti.

Gli architetti non riescono nemmeno più capire il tema architettonico che è stato il
“loro” tema primario per tremila anni, il tempio; Renzo Piano ha dovuto chiedere ai
francescani di padre Pio a cosa serva, esattamente, una chiesa. Del resto la Chiesa, da
almeno due secolo “ha perduto il fuoco e sale spirituale”, accettando le forme d’arte
dell’età atea, e infine il vuoto spoglio e mortale dell’informale nei suoi interni, con la
scomparsa di ogni ornamento e persino del Tabernacolo. Non c’è da stupire che via
sia apparso Bergoglio e che una junta ultramodernista la stia trasformando in una
organizzazione sociale, in una ONG per l’uomo che vive di solo pane.

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Prevedeva Sedlmayr: “L’Uomo-Dio [Cristo] diviene necessariamente uno scandalo per
lo spirito che separa una sfera dall’altra”, o spirito che “non sopporta lo stato di
creatura in un mondo caduto e perciò necessariamente composito e misto”. Infatti:
nella cosiddetta comunità (cattolica?) di Bose e di Enzo Bianchi, si predica di “lasciar
perdere la Resurrezione”, e ciò “perché divide”: i cristiani dagli atei. La Verità non
deve disturbare “l’incontro” nel sociale e nell’ideologico. Solo Uomo, niente Dio,
insomma. Dissociazione.

I Nobel italiani per la letteratura.

Ma – torniamo al Nobel della letteratura – la parola non ha potuto mai arrivare al


grado di decomposizione dell’arte figurativa e dell’architettura. E’ difficile proporre
romanzi privi di forma (anche se si è seriamente tentato: l’Ulisse di Joyce) e poesie
prive completamente di significato e musicalità, per sete di “purezza”. Perché anche
lo sprovveduto intimidito che non osa – davanti al mostro dell’Archistar o dell’artista
informe Rothko – dichiarare il sospetto di fraudolenza che aleggia, non detto, su tutta
l’arte contemporanea, non essendo lui architetto né pittore e dunque “non ha i mezzi
per capire”, è difficile che compri un libro “informale” e insensato, se non altro
perché, come essere parlante, ha i mezzi per capire.

Fine del romanzo, fine della borghesia


Ma è proprio così? L’oggetto candidabile per eccellenza al Nobel letterario, il
romanzo, è stata la forma d’arte propria della borghesia, con cui la borghesia colta
dipingeva se stessa con impietosa veridicità, criticava se stessa e la società che aveva
creato. Era un “pensare” la cronaca oltre la cronaca – il romanzo partecipa anche del
giornalismo, altra grande creazione borghese: Dostojevski pubblicò i suoi capolavori
a puntate, partecipa alla storiografia e la supera in affreschi inarrivabilmente

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grandiosi, paragonabili (Tolstoi, Thomas Mann) alla Sistina di Michelangelo, ed anche
oltre quando uniscono all’epica delle masse le più fini rappresentazioni di psicologie
individuali.

Il romanzo ha avuto una evoluzione: prima interessava il lettore alla trama, a “come
va a finire Sindbad”, ma nella sua forma maggiore, adesso lo trascina dentro un
mondo intero, rigorosamente e minutamente rappresentato. L’autore, se è bravo, non
ci riferisce ciò che è un personaggio; ce lo fa vedere davanti ai nostri occhi, all’interno
del suo mondo e della sua società con le sue tragedie epiche, parimenti “reali” per noi
finché leggiamo – immersi nell’albergo di Davos della Montagna Incantata o nella
Parigi di Proust.

Proprio per questo, il romanzo ha da tempo raggiunti i suoi limiti oggettivi, la sua
perfezione tende a coincidere con la sua illeggibilità per eccesso di voluminosità,
pensate ai Demoni di Dostojevski o ai dieci tomi di La Recherche. Dall’altra parte,
può sedurre una borghesia dotata di cultura sufficiente. Ora, dov’è questa borghesia?
Nell’epoca dell’ateismo, è sparita anche quella: dissociata in “tecnocrati” e
“speculatori”, in “consumatori di entertainment” per i quali i problemi brucianti che
Dostojevski poneva ai suoi lettori (e che essi capivano) sono diventati scatola chiusa; e
il Dottor Faust di Thomas Mann un grumo ermetico di cui l’uomo medio e ricco non ha
più la chiave – perché essere ricco non si deve scambiare con l’essere borghese – non
si può immaginare Berlusconi, o Zuckerberg se è per quello, che si appassiona alla
tragedia di Adrian Leverkuhn e del suo patto con satana, parabola parallela del patto
che strinse la Germania con la volontà di potenza. I migliori lettori, oggi, leggono
“fantasy”, ed è già qualcosa, gli altri Saviano ed Erri De Luca, o altri semplicisti. Il
secolo dell’ateismo ha intaccato l’ultima forma d’arte, insieme con la classe che l’ha
creata e goduta? Vedremo se il Nobel letterario non sarà più assegnato.

“La storia ci insegna che i popoli non sopravvivono a lungo al tramonto della loro
religione”, ha scritto Gustave Le Bon. Che fra parentesi, era ateo.

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