La sofferenza è sicuramente un tema centrale nel processo terapeutico in quanto il paziente si rivolge
al terapeuta molto spesso perchè ne è afflitto. Generalmente il paziente vorrebbe non soffrire più ed
essere felice. Nello studio del terapeuta egli sovente porta delle comuni false credenze con le quali è
identificato: la felicità consiste nella cessazione della sofferenza; la sofferenza è una malattia; sono
gli altri a farmi soffrire; bisogna essere sempre felici, ecc.
Ma la cosa che più stupisce è quanto il paziente parli di sofferenza come di un fenomeno unitario e
unidimensionale; raramente egli considera l’ipotesi che esistono diversi tipi di sofferenza e che, di
conseguenza, è necessario adottare atteggiamenti diversi con ognuno di questi tipi. In genere il
paziente ha, nei confronti della propria sofferenza, un atteggiamento di cieco rifiuto commisto al
tentativo, ovviamente inefficace, di scacciarla.
La nostra idea è che dolore e sofferenza non siano fenomeni aventi una sola chiave di lettura, o
meglio non esista un solo tipo di essi ma che al contrario ne esistano di molti tipi. E’ nostra idea che
il paziente non ha chiaro la differenza esistente tra i vari tipi e fa per così dire “di tutte le erbe un
fascio”, perdendo conseguentemente la possibilità di discriminare e riconoscere le varietà possibili
di sofferenza, dissociandosi inoltre dal cogliere il significato portato da esse, molto diverso tra un
tipo ed un altro.
Il primo proposito di questo lavoro è di isolare i diversi tipi di sofferenza per poterli riconoscere
agilmente e valutare di volta in volta quale atteggiamento assumere verso il paziente. Diviene
possibile quindi anche aiutare il paziente a riconoscerli e a trovare egli stesso l’atteggiamento
adeguato. Il secondo obiettivo consiste nel valutare la qualità e il significato della sofferenza che si
incontra nelle diverse fasi di una terapia al fine di gestire le stessi con consapevolezza e efficacia.
Vorremo inizialmente suddividere la sofferenza in due categorie principali: adeguata e nevrotica. Per
sofferenza adeguata intendiamo quella che ogni essere umano sensibile e sano sperimenterebbe
naturalmente, senza cadere in drammatizzazioni o modalità manipolatorie, in risposta ad eventi
dolorosi. Una caratteristica importante della sofferenza adeguata consiste nella sua attualità, in
quanto essa trova motivo di esistenza nei fatti e circostanze recenti e reali. Ad esempio la morte di
un parente o di un coniuge scatenano emozioni adeguate di sofferenza che chiamiamo comunemente
lutto e cordoglio. Tale sofferenza adeguata tende a risolversi naturalmente nel tempo se la persona si
permette di sperimentarla appieno senza resistervi. In questo senso la sofferenza adeguata
rappresenta una parte integrante della vita e, per dirla con M. Erickson: “Nella vita di ognuno deve
cadere un pò di pioggia. Alcuni giorni devono essere scuri e cupi.” Il compito del terapeuta in questo
caso consiste nel aiutare il paziente a riconoscere l’adeguatezza della propria sofferenza, ad
accettarla ed accoglierla senza pudori e paure ed infine offrire sostegno e comprensione.
La sofferenza nevrotica invece, più che essere una risposta adeguata a fatti reali, presenta una sua
vita autonoma, prendendo eventualmente spunto da essi per poi percorrere le strade maestre del tipo
di personalità nevrotica che la ospita. Più che con la realtà essa contrae rapporto con la fantasia e con
l’immaginazione, e con le dimensioni temporali del passato e del futuro che non con il presente. Lo
scorrere del tempo, a differenza della sofferenza adeguata, pare piuttosto complicare e rinforzare
quella nevrotica. La sofferenza nevrotica può divenire anche una grossissima arma di
manipolazione. E’ compito del terapeuta individuare il tipo di sofferenza atta a manipolare e
frustrarla, affinchè il paziente comprenda e sperimenti l’assoluta inefficacia della stessa. Nella
seguente parte del nostro lavoro ci riferiremo sempre alla sofferenza nevrotica in quanto su di essa
risulta di fatto prevalentemente centrato il lavoro psicoterapeutico.
Vorremmo ora descrivere otto tipi diversi di sofferenza nevrotica. Tutti questi si originano e
prendono forma già nell’infanzia, ma i primi tre sono quelli che hanno valore causale, in quanto da
essi si originano, con passaggi consequenziali e a scopo difensivo e compensatorio tutti gli altri.
Nella vita adulta il paziente è prevalentemente immerso nella sofferenza che è causata dagli ultimi
cinque. Abbiamo perciò deciso di denominare “dolore originario” i primi tre, per differenziarli dai
restanti cinque, chiamati semplicemente “sofferenza”.
Consideriamo ora il dolore originario. Esso nasce nei primi dodici anni di vita ed è stato da noi
diviso in tre tipi i quali si rifanno a tre principali livelli:
Il dolore originario viene in seguito rimosso e tenuto coperto mediante la costruzione di una
sovrastruttura nevrotica, ma di fondo tende a condizionare la vita adulta delle persone nel rapporto
che esse hanno con i loro bisogni (primo tipo), con gli altri (secondo tipo) e con ciò che credono di
sè.
Il primo tipo è il dolore originario da frustrazione dei bisogni veri. I bisogni naturali o bisogni veri
sono quelli che trovano origine da ciò che la Horney e Winnicot hanno denominato vero sè (per
contraddistinguerlo dal falso sè e dai falsi bisogni di cui parleremo in seguito). Ogni essere umano,
dal concepimento in poi, e fino all’ultimo dei suoi giorni, ha in sè molteplici bisogni da soddisfare.
Tali bisogni sono universali, categorizzabili in più settori, alcuni sono età-specifici, altri no. Ad
esempio abbiamo dei bisogni fisici, quali mangiare, dormire, dissetarci, regolare la temperatura
corporea, dei bisogni intellettuali e linguistici, quali capire e conoscere, parlare, imparare parole
comuni al nostro gruppo, dei bisogni emozionali, quali sentirci al sicuro e protetti, esprimere le
nostre emozioni, essere creativi, dei bisogni sessuali, dei bisogni di riconoscimento e appartenenza
ad un gruppo e infine dei bisogni spirituali. Lo sviluppo armonico e sano dell’essere umano, come
ha magistralmente sottolineato Maslow, passa necessariamente attraverso la soddisfazione graduale
e gerarchica dei bisogni e, affinchè un individuo adulto possa essere in grado di fare ciò, deve
innanzitutto saperli riconoscere ed in secondo luogo deve saper conquistare indipendentemente tutto
ciò che gli serve per gratificarli. Ora, perchè ciò si verifichi, egli deve, da bambino, essere stato
addestrato con amore e cura a farlo. In altre parole il bambino ha bisogno che degli adulti
riconoscano i suoi bisogni e, in un clima di protezione, tolleranza ed amore, dapprima glieli
gratifichino e in un secondo momento gli insegnino gradualmente a farlo in modo indipendente.
Il primo tipo di dolore originario si verifica quando i bisogni del bambino non vengono riconosciuti,
vengono svalutati o trascurati, venendo di conseguenza non gratificati. Un altro modo con il quale i
bisogni finiscono per non essere più gratificati è quando degli abusi o trascuratezze relazionali (di
secondo tipo) fanno sì che il bambino perda la fiducia negli adulti e smetta quindi di chiedere. Gli
eventi traumatici relazionali fanno sì che il bambino associ il bisogno al dolore del trauma e quindi
escluda il bisogno per evitare di essere traumatizzato nuovamente.
Il secondo tipo è il dolore originario da ferite relazionali. Ci riferiamo a tutti i tipi di ferite che il
bambino può ricevere riguardo ai suoi bisogni relazionali e comunicazionali. Una grande categoria
di bisogni del bambino riguarda il campo delle relazioni e rapporto con altri esseri umani. E’ infatti
all’interno di un rapporto con il padre e la madre che il bambino apprende a soddisfare i propri
bisogni e a relazionarsi con gli altri esseri umani. Se, come ha affermato la Miller, i genitori sono
trascuranti, violenti, iperprotettivi, inautentici, manipolatori, dominatori, indisciplinati, poco fermi e
deboli, ecc. il bambino viene ad essere ferito nei suoi bisogni relazionali (dolore originario di
secondo tipo) e inibisce o non apprende a soddisfare i propri bisogni naturali (dolore originario di
primo tipo). Mediante la comunicazione i genitori possono riversare sui figli le loro aspettative, le
loro emozioni represse, i loro conflitti inconsci e le loro credenze limitanti, ed il rapporto in famiglia
può basarsi su livelli espressi o nascosti di dominanza egoistica e difensiva. Questo tipo di dolore
risulta essere molto importante in quanto il rapporto e la relazione con coloro che Sullivan chiama
“gli adulti significativi” rappresenta per l’essere umano nascente una vera e propria culla, uno spazio
unico e imprescindibile nel quale egli impara a riconoscere se stesso e gli altri, i propri bisogni e i
propri limiti. Ad esempio tutti i bisogni che gli adulti non riconoscono nel bambino finiranno con
somma probabilità per essere negati e trascurati e non riconosciuti dallo stesso quando diventerà
adulto.
Il terzo tipo è il dolore originario da creazione della propria immagine disprezzata. Questo si genera
quando il bambino, avvertendo il dolore originario di primo tipo e quello di secondo tipo elabora
delle conclusioni sintetiche con le quali spiegare perchè egli si trovi in quella situazione che la
Horney chiama “angoscia di base”. Tali spiegazioni vengono formulate ad un livello emozionale e
non logico; in quel periodo il bambino vive in un mondo magico dove le proprie fantasie e la realtà
non hanno confini così netti. Queste convinzioni negative sugli altri, sui bisogni ma soprattutto su di
sè costituiscono quella che globalmente possiamo definire l’ “immagine disprezzata di se”. Queste
convinzioni formano quello che si chiama un “core” cognitivo, cioè un nucleo centrale di pensiero
sulla base del quale molti altri pensieri vengono interpretati, divenendo così delle conferme per il
pensiero centrale. Questo nucleo diviene quindi un filtro mediante il quale la realtà viene
interpretata, o meglio “vista”. La potenza e la pericolosità di tali pensieri consiste infatti nel relegare
la persona ad un punto di vista parziale e rigido, che viene scambiato per reale. Ultima
importantissima considerazione riguardo ai convincimenti della immagine disprezzata consiste nel
fatto che l’individuo, avendo accettato per vera la propria conclusione sin dall’inizio, la accetta poi
incondizionatamente e acriticamente per il resto della vita come una realtà profondamente vera e
incontestabile. Questo momento cioè quello della creazione della propria immagine disprezzata di sè
rappresenta la prima mistificazione del vero sè e coincide con il passo iniziale della creazione del
falso sè. Una volta accettata come reale la propria immagine disprezzata, a causa del dolore che essa
provoca e della presunta impossibilità di trasformazione della stessa, non rimane altra strada se non
quella della rimozione e della reazione ad essa mediante la creazione della immagine idealizzata di
sè.
Consideriamo ora i cinque tipi di sofferenza che si originano come logica conseguenza dell’agire dei
meccanismi della sovrastruttura nevrotica nata dal tentativo di compensare e lenire le ferite del
dolore originario appena descritto. I cinque tipi di sofferenza riguardano:
Il primo tipo di sofferenza nasce dal tentativo inefficace di placare l’ansia e la sofferenza profonda
appena considerata rincorrendo dei falsi bisogni generati dalla propria immagine idealizzata di se
stessi. L’immagine idealizzata, così come viene descritta dalla Horney, viene ad originarsi come
tentativo di superamento della propria immagine disprezzata e spesso ne è l’esatto opposto. Ad
esempio se l’immagine disprezzata è di cattiveria allora quella idealizzata con somma probabilità
riguarderà la bontà, l’altruismo e l’abnegazione di se stessi, se invece è di povertà riguarderà la
ricchezza e l’abbondanza e così via. Più precisamente essa si forma dall’incontro tra i valori ritenuti
importanti dalla famiglia e dalla società e ciò che creativamente l’individuo sogna come liberazione
ed emancipazione dalla propria immagine disprezzata, e coincide con il concetto Adleriano di
“volontà di potenza”. Appare degna di nota l’osservazione che l’immagine idealizzata risulta essere
tanto più potente, tirannica ed irraggiungibile quanto più potente e devastante è quella disprezzata,
che di essa è origine. Ci vale a dire che un dolore originario elevato verrà potenziato da una
sofferenza altrettanto elevata creta dalla immagine idealizzata. Per descrivere la situazione che viene
a crearsi potremmo immaginare un individuo costretto in una morsa: la ganascia inferiore che
l’individuo, avendola rimossa, non vede quasi pi, rappresenta l’immagine disprezzata, mentre quella
superiore che lo sovrasta e lo schiaccia simbolizza quella idealizzata. Il modo con cui l’immagine
idealizzata crea sofferenza all’individuo è molteplice: innanzitutto essa crea all’individuo dei falsi
bisogni, che richiedono grande sforzo per essere realizzati e una volta raggiunti non placano l’ansia
ed il dolore in quanto non riempiono il vuoto lasciato da quelli veri, in secondo luogo, mediante ciò
che la Horney chiama la “tirannia del dover essere” consistente nel dover sempre sforzarsi di essere
e comportarsi all’altezza di questa idea perfetta ma non umana, ed infine la sofferenza si crea
quando l’individuo, indossando delle maschere, si aliena da se stesso e perde il contatto con il
proprio vero sè, separandosi quindi da ciò che più di ogni altra cosa potrebbe offrirgli la possibilità
di guarigione e salvezza.
Il quarto modo con cui viene generata la sofferenza è da ascrivere allo stato di giudizio negativo che
l’individuo assume nei confronti di se stesso ogni qual volta si attiva in egli una delle situazioni
precedentemente descritte, ad esempio quando fallisce nel raggiungere un falso bisogno, o quando si
ritrova ad essere insoddisfatto dopo averlo raggiunto, o dopo essere caduto in un gioco psicologico o
ancora dopo essere fuggito nella fantasia o nella dipendenza. A ben pensare i meccanismi che qui
abbiamo descritto, generalmente non sono affatto conosciuti dal paziente che avverte spesso
indistintamente le proprie pressioni e conflitti interiori e più che comprendersi è probabile sprofondi
in uno stato di autogiudizio negativo e tagliente. Tali giudizi inoltre, non solo non sono di sostegno
ma di fatto peggiorano la situazione in quanto divengono conferma e validazione della veridicità e
realtà della propria immagine disprezzata di sè.
Il quinto ed ultimo modo in cui il paziente crea a se stesso sofferenza è mediante l’impatto
ambientale che ottiene comportandosi e comunicando come descritto finora: con buona probabilità
potremmo attenderci che uno stile di vita e un atteggiamento relazionale siffatti generino situazioni
sfavorevoli e frustranti per il paziente. Molto interessante appare la constatazione che questi, così
come è inconsapevole della maggior parte dei meccanismi sopra descritti, spesso rivela lo stesso
grado di non consapevolezza della propria responsabilità nella creazione delle circostanze frustranti
che di cui si ritrova circondato, che spesso interpreta come conseguenza degli errori altrui o
influenza di un fato negativo.
Al di là, quindi, di quanto il paziente sia in grado di discriminare e riconoscere il proprio vissuto, nel
processo terapeutico lo psicoterapeuta si trova ad incontrare e a gestire diversi tipi di sofferenza del
paziente. Ovviamente è importante sapere quale tipo di sofferenza sta vivendo il paziente in un
determinato momento poiché le modalità operative al riguardo saranno necessariamente diverse.
Vediamo allora quali sono comunemente, all?interno del processo terapeutico, i tipi di sofferenza e
quali diversi atteggiamenti dovrebbe avere, a nostro avviso, il terapeuta a riguardo di questi.
A prescindere da quali siano i suoi bisogni, il paziente, arrivando alla terapia, ammette che questi
bisogni non vengono soddisfatti. Questo succede a prescindere dal fatto che egli sia consapevole o
meno di quali bisogni nella fattispecie non sono soddisfatti, anzi, il più delle volte proprio non ne è
consapevole. Usando la terminologia della Horney potremmo dire che tale tipo sofferenza è, per la
maggior parte delle volte, determinata dalla sovrastruttura nevrotica del falso sè (2).
Solitamente, a questo riguardo, il paziente può presentarsi o nella posizione di colui che ha delle
mete da raggiungere ma che non riesce a raggiungere, è fortemente impegnato al conseguimento di
tali mete (poiche da esse, lui crede, dipendono la propria felicità ed il proprio benessere) ed è in uno
stato di lotta con se stesso o con il mondo esterno; oppure può presentarsi nella posizione di colui
che ha già rinunciato alla possibilità di realizzazione di tali mete (delle quali, peraltro, si è già
dimenticato), in altri termini nella posizione di colui che è già stato sconfitto e soffre per questo.
Nella prima possibilità, ciò che più caratterizza il paziente è lo stato di tensione e di sforzo al quale è
cocciutamente aggrappato, proprio perchè egli crede che dalla vittoria di questa battaglia dipenderà
la sua salvezza; mentre nella seconda possibilità ciò che più caratterizza il paziente è lo stato di
rassegnazione e sfiducia o l’atteggiamento di evitamento e negazione proprio di chi non vuole
ammettere neppure a se stesso la sconfitta. In entrambi i casi la sofferenza che ne deriva è la logica
conseguenza di una battaglia che è già persa in partenza, è il risultato del fallimento di tutti i tentativi
di soluzione messi in atto dal paziente stesso. Citando ancora Perls: il paziente ha compiuto grandi
sforzi per costruirsi un proprio concetto del sè; questo autoconcetto è ben noto nella psichiatria con
il nome di formazione reattiva, sistema del sè, ideale dell’Io, persona, ecc. Si tratta spesso di un
concetto del sè completamente erroneo, in cui ogni caratteristica rappresenta il contrario esatto della
realtà. Tale concetto del sè non può dare al paziente alcun appoggio; al contrario, lo porta a
pungolarsi costantemente, a disapprovarsi, a schiacciare ogni autoespressione genuina”.(1) E
ovviamente il paziente è ignaro di tutto questo: il più delle volte è ignaro di quale o quali bisogni sta
cercando di perseguire, è ignaro che tali bisogni derivano dalle proprie idealizzazioni e soprattutto è
ignaro di come sia lui stesso a creare e a far persistere questo stato di cose. Di fatto, il paziente è
ancora identificato con tutta una serie di falsi scopi e di falsi bisogni che mascherano come
compensazione nevrotica quelle che sono le vere esigenze ed i veri bisogni. Sarebbe troppo doloroso
per il paziente essere consapevole di ciò che veramente gli è mancato e di ciò che gli manca, per
questo resta aggrappato, e al tempo stesso incastrato, in questo affannoso tentativo di sanare i suoi
bisogni. Nel corso del processo terapeutico, è spesso doloroso per il paziente rendersi conto che è
proprio lui stesso con i suoi stessi meccanismi a rendersi la vita difficile e a mantenere quello stato
di cose che lo fa soffrire; la figura del terapeuta, a questo riguardo, è importante proprio per
promuovere nel paziente questa autoscoperta, per favorire questa consapevolezza del come egli
stesso limiti il proprio potenziale e di come sia impegnato in una lotta senza fine e destinata a fallire.
E’ opinione degli autori che la sofferenza che il paziente porta all’inizio della terapia, di solito la più
superficiale, vada considerata per quella che è, e cioè come espressione di ciò che il paziente non è
veramente, come espressione del suo falso sè o, per dirlo in altri termini, come espressione della sua
sovrastruttura nevrotica. Da questo punto di vista, l’atteggiamento del terapeuta sarà, pertanto, di
considerazione ed empatia per tale sofferenza ma con l’intento di evitare al paziente la permanenza
in quei circoli viziosi che, di solito, il paziente conosce da molto tempo. Come afferma Claudio
Naranjo, scopo del terapeuta è di frustrare ciò che il paziente non è e di promuovere ciò che il
paziente è veramente (3)… … …